La politica negata
 9788842096627

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Sagittari Laterza 180

Geminello Preterossi

La politica negata

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel maggio 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9662-7

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a mio padre, che mi ha insegnato le cose importanti, e a Milla, amore assoluto

Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, dove sono vissuti i fratelli. Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria, cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, dall’orlo estremo di qualche età sepolta. Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno a cercare fratelli che non sono più. Pier Paolo Pasolini Poesie mondane, 10 giugno 1962

Per troppi anni il potere sono stato io. La mostruosa, inconfessabile contraddizione: perpetuare il male per garantire il bene. [...] Roberto, Michele, Giorgio, Carlo Alberto, Giovanni, Mino, il caro Aldo, per vocazione o per necessità ma tutti irriducibili amanti della verità. Tutte bombe pronte ad esplodere che sono state disinnescate col silenzio finale. Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa, e lo so anch’io. Monologo di Giulio Andreotti da Il Divo di Paolo Sorrentino

Introduzione

1. Per una critica dell’ideologia post-politica Il tratto più caratteristico del dibattito pubblico dell’ultimo trentennio è stata la tendenza a una progressiva spoliticizzazione. Un processo che ha investito tanto il piano delle teorie e delle narrazioni, quanto quello dei fatti, delle strutture sociali e istituzionali. Cause e sintomi non mancano: la progressiva demolizione di tutto ciò che è pubblico; lo sdoganamento del qualunquismo più becero; l’inaridimento delle radici della vita democratica, delle sue precondizioni, che ha trasformato la sfera pubblica in fiction, il popolo in ‘pubblico’; l’esaltazione a prescindere della cosiddetta ‘società civile’ (anche nelle sue manifestazioni più sregolate, particolaristiche e corporative) contro lo Stato; la sempre più frequente abdicazione delle istituzioni agli interessi e alla legge del più forte; la paura del conflitto e la criminalizzazione del dissenso (anche il più democratico e legalitario); la colpevole chiusura della politica tradizionale in una logica separata e auto-referenziale, che l’ha resa una sommatoria confusa e cacofonica di debolezze, priva di autorevolezza; la fuga degli intellettuali nel formalismo o nel cinismo (che contribuisce ad alimentare, con un perverso cortocircuito, antipolitica e illegalismo diffuso). Un processo che si è potuto affermare proprio perché preparato e accompagnato culturalmente. La crisi delle ideologie novecentesche, la dichiarata – e presunta – fine della funzione simbolica del linguaggio politico, hanno infatti alimentato una serie di luoghi comuni (ideo­logici): che la politica non dovesse più proporre grandi idee né occuparsi della costruzione delle identità; che l’azione politica si riducesse essenzialmente a tecnica, nella migliore delle ipotesi a buona am-

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Introduzione

ministrazione; che la stessa dimensione politica in quanto tale fosse in qualche modo esaurita, e con essa le speranze e le ambizioni connesse al progetto moderno. Negli ultimi anni questi luoghi comuni hanno subito dure repliche storiche. Una serie di eventi, perlopiù inattesi e drammatici – dall’11 settembre alla guerra in Iraq, fino all’attuale crisi finanziaria globale – hanno reso evidenti le aporie e i limiti innanzitutto culturali di quella ideo­logia postpolitica. Di essa, tuttavia, non sono stati responsabili solo gli attori politici o i media, ma anche, seppur indirettamente, la teoria politica e giuridica contemporanea. Penso innanzitutto a quelle interpretazioni che, per quanto di matrice disciplinare e culturale diversa, hanno offerto a lungo e in modo convergente una narrazione incondizionatamente ottimistica, quasi ingenua del mondo globale e delle sue intrinseche capacità auto-regolative1, contribuendo ad alimentare una sorta di conformismo acritico. C’è da dire però che anche le teorie di impronta neocontrattualista e proceduralista, seppur dotate di maggior spessore, hanno dato una mano, magari senza volerlo, ad abbassare le difese. Certo, i loro obiettivi di politica del diritto sono per tanti aspetti augurabili, il loro contributo teorico-formale è stato prezioso. Ma oggi la ‘visione’ complessiva che quelle teorie esprimono appare sempre più dimezzata e impotente nella lettura delle contraddizioni del mondo contemporaneo, essendosi separata dalla parte spuria – cioè realistica e simbolica – della politica. Una ‘parte’ che certamente rende meno nitida e rassicurante la teoria, ma anche meno auto-referenziale e più capace di parlare della realtà. Questi limiti non sono occasionali o secondari, ma hanno radici teoriche profonde. Per fare un esempio, Habermas in Fatti e norme (uno dei maggiori contributi della filosofia politica e giuridica contemporanea) ha indubbiamente il grande merito di tenere insieme il problema della validità delle norme e quello 1 Per fortuna negli ultimi anni sono emerse autorevoli voci critiche rispetto a questa ‘vulgata’ della globalizzazione: cfr. P. Krugman, La coscienza di un liberal, trad. it. a cura di F. Galimberti e P. Marangoni, Laterza, Roma-Bari 2008; J.E. Stiglitz, Bancarotta. L’economia globale in caduta libera, trad. it. a cura di D. Cavallini, Einaudi, Torino 2010; D. Rodrik, La globalizzazione intelligente, trad. it. a cura di N. Cafiero, Laterza, Roma-Bari 2011. Per un lucido inquadramento delle principali chiavi di lettura della globalizzazione, cfr. D. Zolo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Roma-Bari 2006.

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della loro produzione sociale, giustificazione ed effettività dello Stato democratico di diritto. Ma interpreta come un progresso che non comporta problemi né contraddizioni la tendenza del diritto e della morale nella modernità matura ad autonomizzarsi compiutamente dal nesso politico diritto-potere, regola-decisione, che pure è stato necessario per fondare l’ordine moderno e ha continuato a condizionarne l’evoluzione: «Hobbes punta per un verso sulla struttura-di-regola caratterizzante leggi e relazioni contrattuali, per l’altro verso sull’effettivo potere di comando del sovrano, il cui volere è in grado di piegare con la forza ogni altro potere terreno. Lo Stato si costituisce allora in base a un contratto sul potere: il sovrano da un lato si accolla funzioni legislative e dall’altro lato riveste i suoi comandi della forma giuridica (configurandoli come leggi generali). Seppur canalizzato dalle leggi, il potere del sovrano resta però tutto sommato la violenza d’una volontà fondata sulla decisione. Questa volontà si adegua alla ragione astratta solo per potersene servire... Nemmeno Kant e Rousseau riescono più a cancellare del tutto le tracce di questo antagonismo... Le idee riformistico-paternalistiche di Kant tradiscono ancora la paura hobbesiana di fronte al crudo naturalismo della violenza politica, cioè di fronte a quell’opaco nucleo decisionistico della politica contro cui diritto e morale si scontrano»2. Il problema è che di quell’opaco nucleo non è così facile liberarsi, anche dal punto di vista concettuale, come tutto quello che è accaduto dopo l’Ottantanove – nuove guerre, netto ripiegamento del costituzionalismo, perdita di legittimazione delle democrazie occidentali, crisi dell’età dei diritti, crescita di poteri sregolati – ha reso evidente. Ci si riferisce qui criticamente alle teorie ‘normativiste’3 perché, nonostante limiti, aporie e una intrinseca tendenza ad accantonare il problema del potere, se ne riconosce il rigore e il 2 J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, ed. it. a cura di L. Ceppa, Guerini, Milano 1996, p. 165. 3 A quella di Habermas, come ho detto, ma ancor di più a quella di Rawls, che riduce la filosofia politica a ‘filosofia della giustizia’, schermandola dalle sue implicazioni politiche (conflitti, rapporti di potere, opacità dell’obbedienza, costruzione sociale degli individui), considerate esterne ad essa, e astraendola dai suoi presupposti giuridico-istituzionali (ordine, autorità e norme positive), come se si trattasse di mere questioni pratiche e fattuali, senza incidenza teorica.

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carattere ‘progressivo’. Mentre non sorprende che un certo pensiero presuntamente ‘radicale’, oggi di moda, non abbia alcun interesse a una riflessione politico-giuridica orientata secondo categorie razionalistiche, inseguendo narcisisticamente vie di fuga pseudo-rivoluzionarie e ‘soggetti’ inesistenti, sulla base di assunti fideistici4. Un movimentismo teorico carico di ambiguità, perché dietro la condivisibile critica degli effetti sociali della globalizzazione e l’appello antagonista, racchiude una sostanziale collusione con l’auto-narrazione globalista e la sua ostilità alle conquiste della cultura politico-giuridica moderna così come al compromesso sociale rappresentato dallo Stato costituzionale di diritto. Inoltre, non è chiaro che cosa sia, e dove sia collocata concretamente, la ‘moltitudine’ globale5 sui cui tanto ci si agita e che, però, fa un po’

4 A mo’ di esempio, cito dalla conclusione dell’ultimo libro di Negri e Hardt: «Il nostro è il riso della distruzione, il riso che accompagna gli angeli in battaglia contro il male. C’è un lato oscuro della felicità. Spinoza descrive la gioia che accompagna la distruzione di chi fa del male a un nemico... La distruzione della causa del male è secondaria rispetto all’incremento della potenza e della gioia determinata dalla sua rimozione. La soppressione in noi stessi del pervicace attaccamento all’identità e, in generale, alle condizioni del nostro asservimento sarà forse terrificante, eppure continueremo a ridere. Nella lotta continua contro le istituzioni che corrompono il comune, come la famiglia, l’impresa e la nazione, spargeremo molte lacrime, eppure continueremo a ridere. Nell’antagonismo contro lo sfruttamento capitalistico, contro il potere della proprietà e contro i distruttori del comune mediante il controllo pubblico e privato soffriremo tremendamente, eppure continueremo a ridere. Tutti saranno sepolti da una risata» (M. Hardt, A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, ed. it. a cura di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2010). 5 Non aiutano a fare chiarezza, francamente, gli scenari immaginifici ed evocativi, nutriti di riferimenti ad Agostino, Plotino e san Francesco, delineati da Negri e Hardt: «Col proprio lavoro, la moltitudine produce e riproduce autonomamente l’intero mondo della vita. Produrre e riprodurre autonomamente significa costruire una nuova realtà ontologica. Lavorando, la moltitudine produce se stessa come singolarità: una singolarità che stabilisce un nuovo luogo nel nonluogo dell’Impero, una singolarità prodotta dalla cooperazione, rappresentata dalla comunità linguistica e cresciuta con tutti i processi dell’ibridazione. [...] La teleologia della moltitudine è teurgica: consiste nella possibilità di usare la tecnologia e la produzione per sua gioia e per incrementare il suo potere. Per reperire i mezzi necessari alla sua costituzione come soggetto politico, la moltitudine non ha nessun motivo di guardare al di fuori della sua storia e della sua attuale potenza produttiva. Inizia così a formarsi una mitologia materiale della ragione forgiata dai linguaggi, dalle tecnologie e da tutti i mezzi che compongono il mondo della vita. Si tratta di una religione materiale del senso, che separa la moltitudine da qualsiasi

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fatica a palesarsi politicamente. Non è che nel mondo, e anche nelle nostre ex ‘società del benessere’, non ci siano ingiustizie radicali contro cui valga la pena combattere, e soggetti in carne e ossa – lavoratori precari o no, disoccupati, emarginati, poveri – sfruttati più di prima o abbandonati come relitti6. È che non si capisce in che senso costituiscano genericamente una ‘moltitudine’ (e non classi sfruttate, in modo tanto ‘tradizionale’ quanto ‘innovativo’, ceti popolari subalterni, lavoratori senza tutela, immigrati privi di diritti ecc. che, se si ha veramente a cuore la loro condizione, dovrebbero essere innanzitutto riconosciuti per quello che sono e presi sul serio politicamente, ponendosi con responsabilità il problema della loro organizzazione e rappresentanza al fine di migliorare concretamente la loro condizione, non di coltivare il proprio immaginario). Così come non è chiaro in che senso un ‘impero’ – di fatto assimilato alla globalizzazione tout court – che non ha nessuna delle caratteristiche degli ‘imperi’ storicamente conosciuti, ed è fondamentalmente non identificabile da un punto di vista politico, possa essere definito come tale. Certo non aiuta la spiegazione, assai fumosa, proposta da Negri e Hardt: «Nello spazio liscio dell’Impero non c’è un luogo del potere – il potere è, a un tempo, ovunque e in nessun luogo. L’Impero è un’utopia, un non-luogo»7. E, ancora, non si comprende perché si dovrebbe lottare politicamente, se quest’impero senza ‘centro’

residuo della sovranità e dalla longa manus dell’Impero. La mitologia della ragione è l’articolazione simbolica e immaginativa che permette all’ontologia della moltitudine di esprimersi come attività e coscienza» (M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, ed. it. a cura di A. Pandolfi e D. Didero, Rizzoli, Milano 2003, pp. 365-366; ma cfr. in generale il cap. III della IV parte, pp. 364 ss.). Cfr. anche M. Hardt, A. Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, ed. it. a cura di A. Pandolfi, Rizzoli, Milano 2004. 6 Negli ultimi decenni da un lato la forbice delle disuguaglianze si è allargata in modo considerevole, all’interno delle società progredite economicamente come tra gli estremi del mondo, dall’altro le fasce di popolazione che vivono sotto la soglia della povertà, tranne che in alcune economie emergenti e in crescita, è cresciuto considerevolmente, e questo è un problema che riguarda tanto l’Africa quanto l’Italia (cfr. L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, RomaBari 2009; Th. Pogge, Povertà mondiale e diritti umani. Responsabilità e riforme cosmopolite, ed. it. a cura di L. Caranti, trad. it. a cura di D. Botti, Laterza, Roma-Bari 2010; M. Revelli, Noi, poveri, Einaudi, Torino 2010). 7 M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, cit., p. 181.

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non è affatto imperialista ed esprime anzi una forma oggettiva, diffusa e avanzata di ‘potenza’, determinatasi grazie alle accelerazioni del nuovo capitalismo, che quasi per miracolo dovrebbe produrre le condizioni del proprio rovesciamento in democrazia radicale globale. ‘Impero’ e ‘moltitudine’ sono insomma metafore fuorvianti, suggestioni, più che strumenti analitici. Ma torniamo al nostro discorso. Che cosa intendo quando parlo di ‘dimensione politica in quanto tale’? Una serie di ipoteche concettuali, le quali sono alle origini di temi risorgenti che spesso colgono di sorpresa la cultura politico-giuridica, soprattutto di Sinistra. La persistenza del problema del potere come asimmetria e rapporto di forza (e del suo legame necessario ma non ovvio né automatico con le regole): un potere di cui lo stesso diritto ha necessità se vuole essere efficace, produrre effetti nella realtà orientandola, e non perdere così la fiducia dei cittadini. La questione della garanzia della sicurezza in rapporto al bisogno di legalità e al fenomeno dell’ostilità, sia interna sia esterna, che non può essere semplicemente negata perché sgradevole, ma deve essere assunta al fine di minimizzare concretamente la violenza, senza illusioni ireniche di pacificazione integrale dell’umanità. La funzione ambivalente e tuttavia ineludibile tanto del conflitto quanto del consenso quali fattori di trasformazione e rilegittimazione costante delle democrazie, e il correlato, persistente bisogno di identificazione e sintesi simboliche, che implica la costruzione consapevole di (nuove) egemonie: questioni i cui contorni sono modificati radicalmente dalla trasformazione dei soggetti che la società dei consumi e dei media di massa comporta, ma che certamente non sono state azzerate. Anzi, da un lato omologazione e passivizzazione sembrano preparare un terreno favorevole a nuove, più potenti identificazioni politiche (regressive e populiste); ma, dall’altro, è tutto da verificare che si tratti di un destino dagli inevitabili esiti post-democratici, e non si possa aprire invece proprio su questo terreno del conflitto e dell’egemonia culturale – anche nella sua dimensione mediatica e comunicativa – un nuovo fronte di immaginazione politica. Per non coltivare illusioni, di queste ipoteche concettuali oc­ corre recuperare, senza timori e pregiudizi ‘buonisti’, la dura ­matrice teorica nei classici del ‘politico’ – da Hobbes a Hegel, da Schmitt a Canetti, dagli elitisti a Gramsci – facendoli interagire con quegli autori contemporanei che, magari contraddittoria-

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mente, ne mantengono viva la lezione. Scavando nella tradizione del ‘politico’ riemergeranno costanti funzionali e aporie, sfide persistenti, immagini e presupposti antropologico-politici ancora operanti nella nostra costruzione tardo-moderna del potere e dell’ordine; fattori che spesso rimangono sottesi o rimossi – e quindi incompresi – nella scienza del diritto pubblico (ma anche in tanta filosofia giuridico-politica) contemporanea. Un ‘rimosso’ che opera anche nella pratica politica, riemergendo nell’immaginario sociale come sintomo cui la politica ufficiale, senza bussola, offre di solito pseudo-risposte compensative, confezionate inseguendo la narrazione televisiva (costruzione di nemici di comodo: gli islamici ‘terroristi’, i cinesi ‘che rubano il lavoro’; lo sdoganamento soft dei tabù razzisti; il ‘familismo’ come sostituto della sicurezza sociale; il populismo come ‘finzione’ di decisionismo democratico; la drammatizzazione periodica di guasti ed emergenze, da dimenticare ben presto, ma non senza aver lasciato sul campo macerie istituzionali e un generico, demagogico senso di nausea per tutto ciò che è pubblico, che alimenta solo il qualunquismo). Il ‘politico’ come sfida dell’immediatezza – violenza, inimicizia, pretese di dominio, prevaricazione, asservimento (anche volontario) – non è affatto tramontato. Né può svanire l’esigenza vitale di rispondere efficacemente a questa sfida. La negazione del ‘politico’ conduce soltanto al ritorno del suo ‘fantasma’. Rispetto all’assolutizzazione irrazionale e senza controllo che ne deriva – tanto dell’ostilità immediata quanto della nuda forza, tanto della paura identitaria quanto del potere rassicuratore –, la cultura democratica rischia di scoprirsi non attrezzata. Soprattutto se continua a ripararsi in via esclusiva in una sorta di neutralizzazione e giuridificazione integrali, che non potranno mai essere autosufficienti. Il costituzionalismo democratico ha bisogno invece, per essere difeso, di un’egemonia culturale, cioè di una lotta sul terreno dell’immaginario, che non può certo essere rimessa ai giudici e alle procedure. E, soprattutto, di essere rilanciato politicamente, prendendo sul serio, però, i vincoli realistici e i limiti interni che la crisi dei presupposti del progetto moderno ha reso evidenti. La celebre massima hegeliana che individua nella filosofia l’apprensione del proprio tempo nel pensiero, non deve essere intesa in senso bonificato, rassicurante. Ci dice che il lavoro filosofico

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appartiene al ‘tempo storico’ e, contemporaneamente, lo ‘apre’ dall’interno, serbando una sorta di attrito teorico rispetto ad esso, in grado di rivelarlo. Proprio perché è in un certo senso sempre ‘inattuale’ – ovvero refrattaria al senso comune e all’autocoscienza dei saperi che si limitano ad accompagnare la superficie dell’esistente –, la filosofia può scandagliare criticamente l’origine e il ‘non detto’ del ‘presente’. In filigrana, in un gioco di specchi tra crisi attuale della politica e origine del ‘politico’, si cercherà in questo libro di far emergere il rapporto costitutivo e in qualche modo insuperabile, pur nelle trasformazioni delle sue forme storico-concettuali, che il potere intrattiene con la paura, con l’ansia di sicurezza, ma anche con il desiderio di riconoscimento e il bisogno di identità, e il condizionamento forte che sull’arco delle possibili legittimazioni politiche tutt’oggi – anche in un contesto in apparenza più ‘mite’ – tali ipoteche continuano sottotraccia ad esercitare, decidendo il consenso e i nuovi assetti del rapporto comando-obbedienza. 2. Equivoci globalisti Ora alcune osservazioni propedeutiche, che possono costituire utili avvertenze e soprattutto esercizi di diffidenza filosofica rispetto a formule assai in voga a partire dal 1989 quali governance8, multilevel system of government, diritto globale e neo-contrattuale, postsovranità ecc. Ormai quello di ‘globalizzazione’ – soprattutto se applicato al discorso sul ‘politico’ – è diventato un termine retorico e generico, un sintomo più che una categoria esplicativa. Questo non perché non esistano ‘fatti’ globali, ma perché il globalismo – ovvero i discorsi ‘globali’ e sul ‘globale’ – è diventato una sorta di ideologia apparentemente non ideologica del ‘senso comune’. Non solo: di crisi dello Stato moderno si parla da almeno un secolo9. Anche qui, è persino superfluo fare l’elenco dei fattori di logoramento.

8 Per un tentativo di definizione di questa nozione sfuggente e nondimeno di moda, cfr. le utili analisi di M.R. Ferrarese, La governance tra politica e diritto, Il Mulino, Bologna 2010. 9 Il riferimento obbligato è alla famosa prolusione di Santi Romano all’Università di Pisa nel 1909, ora in S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, Giuffrè, Milano 1969.

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Ma il fatto che la tesi del ‘tramonto’ o addirittura della ‘fine dello Stato’ sia quotidianamente smentita da fatti macroscopici, che non si siano date – o abbiano fallito – ‘sostituzioni’ (semmai, siamo in presenza di istituzioni sovranazionali – spesso ancora molto fragili – che si affiancano agli Stati), ci dirà qualcosa di teoricamente rilevante su quella tesi? E ancora di più sul modo in cui i raggruppamenti umani si organizzano politicamente, rispondendo a quali vincoli, bisogni e passioni? Ancora: per certi aspetti potremmo dire che, paradossalmente, siamo in presenza di una vera e propria età dell’Iper-Stato. Abbiamo assistito in questi anni al tentativo di ricostituzione di uno statuto privilegiato della statualità, attraverso una logica discriminatoria e asimmetrica, spesso declinata utilizzando una confusa semantica ‘morale-giuridico-umanitaria’, che delegittima certi Stati, pretendendo di riservarsi monopolisticamente le immunità garantite da una sorta di sovranità potenziata e non reciproca. Una logica ‘speciale’ ed ‘emergenziale’ che ha finito per infettare anche il diritto interno. Tutta la scena politica internazionale dell’ultimo decennio è stata segnata da questa tendenza, nella ricerca disperata di tamponare il disordine. La stessa cosiddetta ‘guerra globale’, nei teatri concreti in cui si è combattuta (Iraq e Afghanistan), è stata un tentativo di rispazializzazione del conflitto (certo insostenibile in termini normativi, soprattutto nel caso dell’Iraq, e fallimentare dal punto di vista realistico, ma tuttavia come tale progettato e condotto). Inoltre, grandi potenze regionali ‘neo-imperiali’ sono riemerse sulla scena geopolitica, mentre la questione nucleare come fonte di sovranità effettiva (ciò che salva dall’essere trattati effettivamente da Stati-canaglia) mostra tutta la sua centralità politica. Molte potenze medio-grandi puntano sull’uso delle risorse economico-naturali non solo come fonte di ricchezza, ma direttamente come mezzo di rilegittimazione e potenziamento geopolitico ‘nazionalistico’ (basti pensare al caso del gas russo e al ruolo certo non ‘puramente’ economico, ma politico-strategico di Gazprom). I corifei (fino a poco tempo fa) del neoliberismo e della deregulation riscoprono il ruolo del potere pubblico10, magari in chiave protezionistica. Di fronte

10 Cfr. ad esempio la significativa ‘conversione’ recente di R.A. Posner (uno dei padri dell’analisi economica del diritto) in La crisi della democrazia capitali-

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alla grave crisi economico-finanziaria iniziata nel 2008, abbiamo assistito al ritorno in grande stile della domanda di ‘pubblico’ (e delle sue risorse) cui, nell’emergenza, i mercati deregolati che avrebbero dovuto funzionare ‘spontaneamente’ si sono aggrappati disperati, per il semplice motivo che non c’era alternativa (pronti naturalmente a rilanciarsi nella prossima bolla speculativa, se nessuno avrà la forza di fermarli). Che tutto questo conduca a cambiamenti sostanziali nell’equilibrio tra i poteri pubblici e quelli finanziari, a nuove regolazioni efficaci, è da vedere. In ogni caso, è chiaro che non è scoppiata solo la bolla finanziaria, ma anche quella ideologica. L’ostilità verso la politica in quanto tale, la sottovalutazione del diritto e delle opportune tecniche di garanzie ‘sovraordinate’, il minimalismo istituzionale, la metafisica dell’autosufficienza del mercato e delle regole fatte dai regolati, tutto ciò si è rivelato quanto anche solo una normale, seria consapevolezza storica e teorico-politica consentiva di evidenziare da tempo: un’illusione pericolosa, propagandata con superficialità o cinismo. Ovviamente, il quadro attuale non rappresenta affatto il ritorno del sistema degli Stati in ‘stile westfaliano’, anzi per tanti aspetti è una distorsione dello jus publicum europaeum, e ancora di più della proiezione cosmopolitica dell’esperienza giuridica dello Stato costituzionale di diritto. Ma è un dato evidente, da non sottovalutare, che il ‘fantasma della sovranità’ continui ad aggirarsi nell’attuale disordine mondiale. Addirittura, in un mondo che viene descritto come sconfinato, aperto ai commerci e alla circolazione dell’informazione, giuridicamente poroso, paradossalmente si ricostruiscano e proliferano ‘muri’11, nuove barriere fisiche con le quali ci si illude di arginare materialmente e compensare simbolicamente i fallimenti nel governo dei conflitti culturali e degli squilibri economici (in Palestina come in Texas, nello Zimbabwe come a Padova). Certo quel ‘fantasma’, che si è presentato quasi sempre con la faccia truce delle armi e della repressione, finora non ha assicurato soluzioni, e difficilmente potrà farlo. Ma è il sintomo di un grande e ad oggi largamente disatteso bisogno di sta, trad. it. a cura di M. Cupellaro, con una Prefazione di G. Rossi, Università Bocconi, Milano 2010. 11 Cfr. W. Brown, Walled States, Waning Sovereignty, Zone Books, New York 2010.

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autorità pubblica, di identificazioni e rassicurazioni politiche, di protezione sociale, di fiducia collettiva (di cui la stessa vittoria inattesa di Obama è stata lo specchio e il catalizzatore). Si tratta di un bisogno motivato, ma anche ambiguo, perché aperto a esiti diversi: un nuovo patto democratico, così come la delega in bianco a un potere insofferente dei controlli; la regolazione efficace dei poteri economici, così come un nuovo equilibrio tra poteri forti; la ricerca di soluzioni parziali e faticose, ma concertate, sulla scena internazionale, così come la tentazione delle scorciatoie militari di fronte alle difficoltà nell’ottenere risultati tempestivi sui fronti più caldi dello scacchiere geopolitico; l’apertura e l’interazione tra culture, così come la gerarchizzazione etnica dell’umano. In sintesi, gli Stati ci sono eccome, e sono ancora i principali attori politici della scena internazionale. Nell’ultimo ventennio, alcuni si sono indeboliti (quelli di dimensioni medio-piccole, privi di armi atomiche e risorse strategiche), altri sono diventati più forti di prima. Le trasformazioni indotte dai processi di globalizzazione non hanno affatto azzerato gli apparati statuali, ma anzi ne hanno potenziato alcuni (soprattutto quelli repressivi e militari), estremizzando e per certi aspetti distorcendo il profilo (giuridicocostituzionale) della statualità, ma certo non superandola. Piuttosto, ciò che è insidiata e conosce un’obiettiva crisi è, soprattutto in Europa, la capacità di presa delle istituzioni politiche sugli interessi economico-finanziari, l’integrazione assicurata dallo Stato sociale di diritto, la funzione di sintesi della politica democratica rispetto al pluralismo di interessi, appartenenze culturali e identità che caratterizza la società contemporanea. Ciò determina un pesante paradosso. Perché tale pulviscolo che sfugge per tanti rivoli alla sintesi statuale, allo stesso tempo – soprattutto in situazioni di emergenza, di bisogno, di diritti negati –, è sempre alle istituzioni pubbliche che torna a chiedere con forza protezione e soluzioni. Finendo per scaricare conflitti e aspettative proprio su quelle stesse istituzioni politiche e giuridiche di solito guardate con sospetto in nome della propria irriducibile libertà ‘privata’. Insomma, la crisi dello Stato è un luogo comune generico. Quella che abbiamo di fronte è innanzitutto la crisi del modello dello Stato nazionale europeo (e delle democrazie europee, che nella forma Stato-nazione sono nate e si sono sviluppate). Per dimensioni, perdita di efficacia regolativa, incompiutezza della co-

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struzione comunitaria, gli Stati europei sono in mezzo al guado, sfidati dal basso e dall’alto, ripiegati sulla difesa dei modelli sociali nazionali. Troppo piccoli per il mondo globale, ma allo stesso tempo incapaci di trascendere se stessi in una visione comune europea che ne riattivi l’energia politica, superando particolarismi e rigurgiti micro-identitari, essi faticano sia a svolgere un ruolo propositivo sulla scena internazionale e a incidere attivamente nelle scelte economiche globali, sia di conseguenza a riprodurre le risorse di legittimità e di consenso di cui hanno bisogno. Ciò accade mentre altrove nel mondo si affermano, protagonisti di poderosi processi di modernizzazione (e in parte anche di emancipazione, seppur tra molte contraddizioni e differenze), veri e propri macro-Stati, quasi degli Stati/continente (di solito di matrice federale), come il Brasile, l’India, la Cina stessa. Anche gli Stati Uniti di Obama non scommettono certo sulla fine della politica e della forma statuale: cercano di gestire un’egemonia consolidata, frenando i fattori di declino e provando semmai a rilanciarla ridefinendone il modello. Un’articolazione in ‘grandi spazi’, policentrica e multipolare, sembra emergere parallelamente e per certi aspetti ‘dentro’ e ‘attraverso’ l’economia globale. Naturalmente questo ‘multiverso politico internazionale’ potrà anche non trovare un equilibrio, portare nuovi conflitti, non riuscire a definire una forma di ‘ordine minimo’12. E tuttavia, si tratta ancora di una partita politica, dagli esiti non predefiniti. L’immagine di un mondo unificato dall’economia e dalla tecnica, e perciò liberato dalla politica, non più bisognoso di forme di ordinamento istituzionale della vita sociale, oltre a essere smentita dai fatti, ha rivelato ormai appieno tutta la sua carica mistificante e niente affatto innocente. Del resto, come ha messo acutamente in evidenza Saskia Sassen13, anche con la globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta finora non siamo tanto in presenza di fenomeni di ‘destatalizzazione’, quanto piut-

12 Sulla nozione di ‘ordine internazionale minimo’, cfr. H. Bull, The Anarchical Society. A Study in Order in World Politics, Columbia University Press, New York 1995; cfr. anche D. Zolo, I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico, Carocci, Roma 1998. 13 Cfr. S. Sassen, Territorio, autorità, diritti. Assemblaggi dal Medioevo all’età globale, trad. it. a cura di N. Malinverni e G. Barile, Bruno Mondadori, Milano 2008.

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tosto di ‘denazionalizzazione’, nei quali apparati amministrativi e istituzioni giuridiche statali, svolgendo nuovi ruoli, lavorano per la globalizzazione (fino ad oggi essenzialmente secondo il modello neo-liberista), la quale non potrebbe funzionare senza questo essenziale contributo degli Stati. Ciò comporta dei problemi, perché lo Stato liberale, integrandosi nell’economia globale e fornendo il suo contributo al funzionamento dei suoi meccanismi, finisce per produrre da sé il proprio deficit democratico, scardinando il proprio legame con la comunità politica (nazionale) e sbilanciandosi troppo sulla dimensione ‘sradicante’ della finanza e del mercato, senza prevedere nuove forme di appartenenza politica e controllo democratico sull’economia. Ma è anche il segno che non siamo in presenza della sparizione pura e semplice della dimensione giuridico-statuale, bensì di una sua trasformazione. Ciò lascia forse spazi di manovra per un nuovo orientamento dell’azione degli Stati – necessariamente proiettata su scala più ampia di quella domestica e a partire dalla riattivazione dal basso di conflitti che ‘forzino’ le istituzioni della globalizzazione – che miri a riequilibrare il rapporto tra interessi collettivi e mercato globale, istanze di regolazione e dinamiche finanziarie, lotte per i diritti e presunti automatismi dell’economia. Purché si ricostruisca la consapevolezza e la volontà di accettare, in tutta la sua portata, la sfida del ‘politico’. Il libro è articolato in quattro movimenti, scanditi da altrettante questioni sgradevoli, che mettono in discussione le nostre certezze e non si lasciano esorcizzare facilmente: sicurezza, identità, ostilità, populismo. Tali questioni rinviano a concetti politici e testi classici fondamentali: il primo capitolo tratta, soprattutto attraverso Hobbes, del concetto di ordine nella sua natura elementare e scarnificata, come garanzia della ‘sopravvivenza’. Il secondo tematizza, grazie alla nozione hegeliana di ‘riconoscimento’, la genesi conflittuale del soggetto e il suo impatto sull’interpretazione delle identità collettive e dell’ordine politico. Il terzo riguarda il rapporto costitutivo, di contrasto ma anche di determinazione reciproca, tra diritto e ostilità, convocando Carl Schmitt. Il quarto, che coinvolge molte fonti, ma tiene sullo sfondo soprattutto Gramsci, oppone l’idea di egemonia politica al populismo, prendendo sul serio la funzione politica del concetto di popolo, anche nelle democrazie costituzionali. La cellula originaria dei primi due capitoli di questo volume si tro-

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Introduzione

va nell’articolo Il potere tra sopravvivenza e riconoscimento (pubblicato nel volume Navigatio vitae. Saggi in onore dei settant’anni di Remo Bodei, a cura di L. Ballerini, A. Borsari e M. Ciavolella, Agincourt Press, Los Angeles 2010, pp. 194-210), frutto di una relazione tenuta al seminario annuale di filosofia politica dedicato a «Potere e violenza» (Pisa, 2-3 luglio 2008), organizzato da Remo Bodei, Michelangelo Bovero e Paolo Comanducci. Nel terzo capitolo ho ripreso, trasformandolo, il saggio L’ovvia verità del «politico». Diritto e ostilità in Carl Schmitt, pubblicato sui «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 38, 2009, pp. 43-74. Desidero ringraziare gli amici e colleghi con i quali ho avuto il piacere di discutere in varie circostanze – seminari, convegni, discussioni private e scambi epistolari – dei temi trattati in questo lavoro: Remo Bodei, Alfonso Catania, Laura Bazzicalupo e tutti i componenti del «Laboratorio Kelsen» dell’Università di Salerno, Carlo Galli, il gruppo di studiosi raccolti intorno alla rivista «Filosofia politica», Davide Tarizzo, Laura Lanzillo, Francescomaria Tedesco, Marco Revelli, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky, Danilo Zolo, Pier Paolo Portinaro, Luca Baccelli, Michelangelo Bovero e i giovani studiosi che animano la Scuola torinese di buona politica, Virginio Marzocchi e i suoi allievi del dottorato in Filosofia dell’Università La Sapienza di Roma, Paolo Grossi, Maurizio Fioravanti, Pietro Costa, Paolo Cappellini, Alessandro Pizzorno, Claudio Cesa, Luigi Ferrajoli, Eligio Resta, Guido Alpa, Umberto Vincenti, Giuseppe Zaccaria, Maria Rosaria Ferrarese, Ida Dominijanni, i miei sodali dell’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli. Ringrazio inoltre le persone che mi circondano di affetto e di stimoli: Roberto con le sue note eleganti e intime che parlano di un mondo emotivo comune, Stefania che sentirò per sempre compagna di viaggio, Lyda con la quale ci intendiamo con uno sguardo, Domenico con la sua ricerca che ci accomuna di immagini originarie e di luoghi perduti, Alessandro, Sandro e Marco amici di allegrie, dialoghi e confidenze, Graziella con la quale si attraversano continuamente frontiere, mio fratello Alessio, Gaetano, Raffaella, Paolo, Simona, Tiziana, Germano, Adele, Giuliano, Anna e tutti gli amici della Laterza.

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1. L’ambivalenza del potere e il mistero dell’obbedienza Il potere, così come la guerra, è uno dei dati più caratteristici dell’esperienza umana. C’è politica laddove c’è potere1. Ma il potere non potrebbe durare, essere ‘legittimo’, se non trovasse obbedienza. Per quanto possano essere fenomeni inquietanti e persino pericolosi, potere e obbedienza non sono semplicemente il prodotto di violenza, astuzia, inganno e irrazionalità – smascherati i quali ci si potrebbe liberare di entrambi –, ma corrispondono 1 In merito al concetto di potere politico in Occidente, su cui la bibliografia è sterminata, mi limito a citare, per un orientamento generale: N. Bobbio, Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Einaudi, Torino 1999; O. Brunner, Terra e potere, ed. it. a cura di P. Schiera, Giuffrè, Milano 1983; Lo Stato di diritto, a cura di P. Costa e D. Zolo, Feltrinelli, Milano 2002; Il potere, a cura di G. Duso, Carocci, Roma 1999; G. Ferrero, Potere, SugarCo, Milano 1981; Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a cura di M. Fioravanti, Laterza, Roma-Bari 2002; N. Matteucci, Lo Stato moderno, Il Mulino, Bologna 1997; Lo Stato moderno, a cura di P. Schiera e E. Rotelli, 3 voll., Il Mulino, Bologna 19711974; A. Catania, Lo Stato moderno. Sovranità e giuridicità, Giappichelli, Torino 1996; L. Bazzicalupo, Politica, potere, identità, Giappichelli, Torino 2004; B. de Jouvenel, La sovranità, ed. it. a cura di E. Sciacca, Giuffrè, Milano 1971; B. Lincoln, L’autorità. Costruzione e corrosione, trad. it. a cura di S. Romani, Einaudi, Torino 2001; Potere, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2007; H. Popitz, Fenomenologia del potere. Autorità, dominio, violenza, tecnica, trad. it. a cura di P. Volontè e L. Burgazzoli, Il Mulino, Bologna 1990; P.P. Portinaro, Il labirinto delle istituzioni nella storia europea, Il Mulino, Bologna 2007; W. Reinhard, Storia del potere politico in Europa, ed. it. a cura di E. Tortarolo, trad. it. a cura di C. Caiani, Il Mulino, Bologna 2001; M. Stoppino, Potere e teoria politica, Giuffrè, Milano 1955; G. Miglio, Le regolarità della politica, 2 voll., Giuffrè, Milano 1988; G.A. Ritter, Il volto demoniaco del potere, trad. it. a cura di E. Melandri, Il Mulino, Bologna 2007.

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a dei bisogni radicati. Infatti, il desiderio di potere, di ‘dominio’ non è solo ‘dall’alto’, ma anche ‘dal basso’, come ‘consegna’ ad esso e ‘formazione’ dei soggetti in rapporto alle sue dinamiche. Il potere è l’oggetto di un desiderio di fusione e di una paura di annientamento originari e intrecciati. La radice del potere è dunque nella dialettica simbolica e passionale che conduce all’assoggettamento, nelle ragioni opache dell’obbedienza, probabilmente mai del tutto razionalizzabili. Il suo racconto di legittimazione per funzionare deve sempre in qualche modo entrare in rapporto con le logiche della paura e del desiderio, così come si strutturano nei diversi contesti semantici in cui si riproduce l’ordine sociale. Non a caso il potere ‘legittimo’ non sopporta l’azzeramento dello spazio simbolico. Se tale azzeramento si produce, non si dà il superamento della dimensione sociale del potere e del ‘politico’, ma solo l’irruzione inarginabile di una ‘pura’ violenza, auto-referenziale e immediata. Il ‘segreto’ del potere sta nel suo essere il prodotto inevitabile della proiezione di bisogni profondi di riconoscimento e protezione. Tale nesso tra ‘basso’ e ‘alto’, obbedienza e comando, e i rischi di ‘totalizzazione’, di salto della mediazione che serba, emergono in particolar modo in epoche ‘estreme’, le quali consumano le risorse sociali della rassicurazione (non a caso oggi la Chiesa si propone come agenzia di supplenza) e conoscono una vera e propria desertificazione degli spazi pubblici, che alimentano un senso di insicurezza come paura dell’informe. Si tratta di un ‘segreto’ velenoso, perché il potere – anche quello moderno – è malattia e medicina, male e cura allo stesso tempo2. Ed è una medicina pericolosa: perché punta sulla ‘problematicità’ della condizione umana e assicura di farsi carico dei suoi limiti strutturali, concentrandone e monopolizzandone il carico di violenza e paura, al fine di neutralizzarla per quanto possibile, di contenerne almeno parzialmente l’irrazionalità, l’imprevedibilità. In questa promessa c’è un rischio: per cercare di adempierla, il potere deve essere in grado di commisurarsi al male ma anche di sottrarvisi. Distinguersi in qualche modo, costruendo un piano di 2 Sul paradigma della ‘politica dei moderni’ come ‘uso monopolistico del male’, cfr. M. Revelli, La politica perduta, Einaudi, Torino 2003.

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terzietà efficace, per andare oltre la logica simmetrica e allucinatoria, da ‘doppio legame’, che contrappone particolare a particolare, vendetta a violenza. In questa sospensione del risentimento, si creano le condizioni pre-giuridiche del diritto. Il potere è violenza tenuta a freno. Ovvero forza che, con uno scarto, si fa ‘legittima’: qui si radica il suo rapporto indissolubile e biunivoco con il diritto (il principale ‘freno’), che espone sempre il discorso giuridico a un possibile uso ideologico e ne fa un mezzo di civilizzazione fondamentale ma straordinariamente delicato. Nel successo e nella credibilità della ‘mediazione’ della forza, sta la possibilità (non ovvia) di riconoscere la differenza tra la pretesa politica generale dell’idea di ordine – per quanto originariamente ogni ordine in nuce sia ‘parziale’, impastato di contingenza e violenza – e l’ostinazione particolaristica, la distruttività permanente della guerra civile. Il potere, in questo senso, parla di ciascuno di noi: è allo stesso tempo distante e interiorizzato, straniante e intimo, tanto alienazione quanto proiezione/rappresentazione collettiva. Un potere che rende tutti i consociati dei sopravvissuti: un ‘abbraccio’ che incute timore e sollievo, che cura e minaccia. Proteggere la vita significa essere nella condizione di risparmiarla. Alle origini delle funzioni ‘positive’ del potere, del suo addomesticamento, vi è la dilazione della sua violenza, che crea lo spazio e il tempo della sopravvivenza, ma mantiene al potere medesimo la possibilità di tornare a manifestarsi quale pura forza, come ha mostrato Canetti: «La differenza tra forza e potere può essere esemplificata in modo evidente se ci si riferisce al rapporto fra il gatto e il topo. Il topo, una volta prigioniero, è in balia della forza del gatto. Il gatto lo ha afferrato, lo tiene e lo ucciderà. Ma non appena il gatto comincia a giocare col topo, sopravviene qualcosa di nuovo. Il gatto infatti lascia libero il topo e gli permette di correre qua e là per un poco. Appena il topo comincia a correre, non è più in balia della forza del gatto; ma il gatto ha pienamente il potere di riprendere il topo»3. Anche quando è ‘legittimo’, il potere serba sempre un potenziale di sfrenamento. Ciò al cui sguardo non possiamo sottrarci, per sopravvivere, è anche ciò da cui dobbiamo guardarci. 3 E. Canetti, Massa e potere, trad. it. a cura di F. Jesi, Adelphi, Milano 1981, pp. 339-340. Di Canetti, si veda anche Potere e sopravvivenza, ed. it. a cura di F. Jesi, Adelphi, Milano 1974.

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È questa un’ambivalenza costitutiva, che ci appartiene, da cui è illusorio pensare di schermarsi definitivamente, magari in virtù di un ‘progresso’ antropologico e morale. La specifica presa del ‘politico’, e del potere qualificabile come tale, sui raggruppamenti collettivi e sulla vita dei singoli emerge tragicamente nella sua evidenza quando ci si trova di fronte al compito – non sviabile e tuttavia aporetico – di decidere quello che non può essere deciso (perché implica un taglio e una perdita insanabili). Tutta la politica moderna, anzi più propriamente la politica intrecciata al diritto che caratterizza la modernità, è un grande tentativo di ordinare tale aporia, di costruire a partire da questa consapevolezza. Ovvero di neutralizzarla utilizzandola, facendola propria, di prendere distanza da questo elemento tragico subendone l’impronta; insomma di provare a delimitare senza presupposti (se non quello dell’assunzione realistica della problematicità delle interazioni umane) una ‘sfera dell’indecidibile’4, cioè una sfera che non sia a disposizione dei tagli, delle idiosincrasie, dei carichi di violenza propri dei raggruppamenti collettivi, privi di mediazione. Ma la definizione di una ‘sfera dell’indecidibile’ è una ‘decisione fondamentale’. In sostanza, la costituzione è proprio questo: una sfera integrativa di mediazione a partire da un ‘indecidibile’ che è tale perché è già stato deciso nella fondazione dell’ordine. Perciò essa non può essere compresa prescindendo dalla nozione di unità politica: certo, il costituzionalismo la istituzionalizza e giuridifica, ne limita la polemicità decisionistica originaria; e tuttavia anche l’ordine costituzionale non può non presupporla, riconoscerla come matrice5. Se non lo fa, proprio ciò che sembrava essere stato già deciso ed escluso per sempre – la violenza estrema e inarginabile che distrugge per paura la terzietà e neutralità delle istituzioni, liberando la logica simmetrica ed esponenziale della mera forza – può tornare in gioco, nell’inconsapevolezza, proprio come elemento tragico ‘immediato’, essenzialistico, totalizzante. Cioè sottratto alla mediazione della ragione giuridica o, peggio, pronto a fagocitarla deturpandone il profilo ‘costituzionale’. Esempi drammaticamen4 Utilizzo l’efficace espressione coniata da L. Ferrajoli in Diritti fondamentali, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 19. 5 Per una lucida e acuta analisi di questo ‘doppio lato’ del costituzionalismo moderno, cfr. M. Fioravanti, Costituzionalismo, Laterza, Roma-Bari 2009.

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te recenti non mancano, anche nel nostro mondo: le varie forme di normalizzazione dello ‘stato di eccezione’, lo sdoganamento della tortura, le profezie che si auto-avverano sui presunti ‘scontri di civiltà’, i fondamentalismi ‘occidentalisti’, l’attacco alle garanzie dei diritti fondamentali e all’Habeas corpus, la negazione di fatto dei diritti umani ai migranti. 2. La politica come artificio Per contrastare questa deriva, non basta denunciarla e contrapporle il profilo tradizionale del costituzionalismo. Occorre compiere uno sforzo di comprensione critica della ‘deformazione’ in atto (che non significa giustificarla né esserne culturalmente subalterni), scavando le ragioni sia oggettive sia ideali dello smottamento che ci ha condotto a questo punto di crisi, recuperando l’origine e il rimosso della politica moderna. Cominciamo con il ricordare che, a partire dalla frattura delle guerre di religione e dal conseguente processo di secolarizzazione, il fine minimo possibile (e presupposto di altri, diversi fini) dell’ordine è la ‘sopravvivenza’, la conservazione della vita delle persone. Il riferimento è qui, inevitabilmente, a Hobbes. Anche se si può dire che questo assunto condizioni, esplicitamente o implicitamente, l’intera filosofia politica e giuridica successiva, e qualsiasi tentativo teorico di dar conto delle implicazioni minime del concetto stesso di diritto (positivo), come ha efficacemente mostrato Herbert Hart6. Verità di fatto ‘ovvie’ come la vulnerabilità reciproca degli esseri umani e la loro uguaglianza di massima (classici temi hobbesiani), la limitatezza dell’altruismo, delle risorse, della comprensione dell’interesse di lungo periodo rispetto a quello immediato, della forza di volontà nel perseguirlo, dimostrano in generale la necessità funzionale di un ordinamento coattivo in grado di (e quindi strutturato in modo tale da) rispondere alla sfida concreta della sopravvivenza, sfida che esse rendono evidente: «Nel considerare le semplici ovvie verità che presentiamo qui, e la loro connessione con il diritto e la mo6 Su Hart, si veda N. MacCormick, H.L.A. Hart, Stanford University Press, Stanford 1981; A. Catania, L’accettazione nel pensiero di H. Hart (1971), in Id., Riconoscimento e potere. Studi di filosofia del diritto, ESI, Napoli 1996, pp. 141 ss.; M. Ricciardi, Diritto e natura. H.L.A. Hart e la filosofia di Oxford, ETS, Pisa 2008.

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rale, è importante osservare che in ogni caso i fatti menzionati offrono un motivo (reason) per cui, ammessa la sopravvivenza come fine, il diritto e la morale devono avere un contenuto specifico. La forma generale di questa argomentazione consiste semplicemente nel dire che senza un simile contenuto il diritto e la morale non potrebbero favorire quello scopo minimo di sopravvivenza che gli uomini hanno in vista quando si associano fra loro. In mancanza di questo contenuto gli uomini, così come sono, non avrebbero motivo per obbedire volontariamente a nessuna norma: e senza un minimo di cooperazione dato volontariamente da parte di coloro che ritengono nel loro interesse sottomettersi e conservare le norme, sarebbe impossibile la coercizione nei confronti di coloro che non si conformassero volontariamente»7. Si obbedisce per essere garantiti, per avere la ragionevole certezza di sopravvivere. Uno Stato non è – non può essere – un club di suicidi. Al di là della battuta ‘hartiana’, politicamente si può scegliere di suicidarsi anche solo rendendo talmente labile il sistema di astensioni e garanzie dalla violenza – di qualsiasi matrice e forma – da minare alla radice la fiducia nella legittimità stessa delle istituzioni. Lo spazio politico moderno è artificiale. In quanto tale, si costituisce come paradossale antinomia della sua matrice, lo ‘stato di natura’. Il quale è costruito utilizzando una nozione di ‘vita’ non sostanziale, non garantita dalla trascendenza, impasto individuale di bisogni, passioni e calcolo razionale. Per evitare il conflitto distruttivo sulla verità, l’unica possibilità di ‘fondare’, ovvero legittimare l’ordine, è assumere l’impossibilità di un fondamento ultimo e farne una risorsa. Ma retrocedendo sul piano delle cose ‘penultime’, cosa si trova quale sostituto funzionale del fondamento ‘ultimo’ (inattingibile)? Appunto ciò che è originariamente immediato: la vita. O meglio, il potere che trascende ‘laicamente’ il piano dell’immanenza delle passioni e dei conflitti, in funzione della vita. La quale è il grande rimosso del Moderno ma è anche il suo vero, mero telos in quanto vita ‘nuda’8 da assicurare. Il ‘fi7 H. Hart, Il concetto di diritto, ed. it. a cura di M.A. Cattaneo, Einaudi, Torino 2002, p. 225. 8 Com’è noto, Giorgio Agamben in Homo sacer (Einaudi, Torino 1995) rovescia la legittimazione razionalistica dell’ordine moderno, individuando nel campo di concentramento, in quanto luogo di indistinzione tra umano e inu-

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ne’ della convivenza regolata è perciò la conservazione concreta proprio di quell’elemento ‘naturale’ che dal punto di vista concettuale deve essere espunto dall’ordine perché esso possa funzionare. Così, la ‘vita’ che nell’attuale temperie intellettuale pare una ‘scoperta’, anche in termini ‘biopolitici’, in fondo c’è sempre stata, sottesa. Diciamo che oggi, semplicemente, assistiamo a un ‘rigurgito’ della vita, dovuto alla crisi dell’istituzionalizzazione9. Il paradigma hobbesiano è basato su una compresenza strutturale di natura e artificio. L’ordine legittimato esclusivamente in funzione della vita ‘in quanto tale’ può essere solo un ordine artificiale. L’ordine pensato a partire dalle passioni ‘naturali’ implica la fuoriuscita dalla condizione ‘naturale’. Questo paradosso non rappresenta un limite, ma precisamente ‘la’ risorsa, perché a dover generare l’ordine è una ‘natura’ non sostanziale, non teologica, non intrisa di verità sedimentata e tradizionale, che può farlo solo scommettendo sulla capacità ‘frenante’, rispetto alle dinamiche disgregative proprie delle passioni umane, di una ragione ‘naturale’ (cioè spogliata da fedi e orpelli) che chiama all’artificio, e perciò non ha nulla di naturalmente ‘spontaneo’. Del resto, la stessa condizione umana realisticamente considerata è ‘problematica’ non solo per ragioni ‘naturali’ – i ‘bisogni’ immediati che, se non governati, causano conflitti e violenza distruttiva –, ma soprattutto in virtù della natura identitaria, auto-rappresentativa delle passioni, e della loro interazione con i bisogni elementari, cui forniscono una cornice espressiva di significati. L’onore, la glory sono tipiche passioni di ‘riconoscimento’, che mirano a sancire una ‘misurazione’ simbolica reciproca e perciò serbano un mano, naturale e politico, il paradigma compiuto della presa del potere sovrano sulla ‘nuda vita’, e inscrivendo integralmente la politica moderna entro questa logica. L’analogia strutturale tra la sacralizzazione della vita e l’eccezione sovrana costituirebbe la verità nascosta – l’unica effettivamente ‘universale’ – degli ‘universali’ politico-giuridici prodotti dall’Occidente (diritti umani, democrazia, cittadinanza). Una chiave di lettura che mette in luce acutamente, sulla scia di Benjamin, il nesso violenza-diritto, ma che riduce in modo drastico l’intera, complessa esperienza politico-giuridica occidentale – dal diritto romano al giusnaturalismo moderno, fino al costituzionalismo – a un segreto biopolitico originario che in essa sempre più si manifesterebbe, delegittimandola radicalmente. Auschwitz diviene così una sorta di ‘destino metafisico’. 9 Per un efficace inquadramento critico dell’implicazione diritto-vita, cfr. S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, Milano 2006.

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nucleo fortemente conflittuale; i bisogni, anche quelli materiali, nell’umano sono temporalizzati, quindi possono essere sconnessi dalla loro immediata soddisfazione: l’uomo è fame futura famelicus, così come l’anticipazione dei ‘fantasmi’ della paura futura – le cui cause sono largamente imprevedibili e incontrollabili – ha un effetto potenziante della paura attuale, che richiede dosi sempre più massicce e continue di rassicurazione. Lo ‘stato di natura’ ha già in sé le stimmate dell’artificio. Così come la politica pensata a partire dalla modernità non può che andare ‘contro natura’. Mentre nel pensiero politico antico e medievale, nel diritto naturale pre-moderno, la natura esponeva un ordine oggettivo, intrinseco, che poteva estendersi senza salti fino al mondo umano, con il Moderno si fa strada l’idea che limitandosi a seguire la natura non si produca affatto ordine. Solo fuoriuscendone, valorizzando una nozione di natura diversa, de-sostanzializzata, e sopportando il rischio ‘relativista’ insito in essa, può generarsi una nuova forma di legittimità, inevitabilmente post-tradizionale. Tutto il questionare attuale sul ‘relativismo’, il presunto ‘nichilismo’ della politica moderna, ha in questa svolta concettuale necessaria e largamente positiva la sua radice teorica mai digerita dalla Chiesa e in generale dai poteri tradizionali. Insomma, la politica (moderna) si legittima, solo se rinuncia a una bella dose di senso. Impedendo così alle istituzioni della verità assoluta di imporre la propria, fomentando l’odio. Però un ‘senso minimo’, che è innanzitutto la pacificazione e la garanzia delle condizioni di una convivenza civile, deve averlo. Da questo punto di vista, ogni politica post-tradizionale ha un debito verso Hobbes. All’inizio della seconda parte del Leviatano, dedicata allo Stato (cap. XVII), leggiamo: «la causa finale, il fine o il disegno degli uomini (che per natura amano la libertà e il dominio sugli altri), nell’introdurre quella restrizione su se stessi sotto la quale vediamo vivere negli Stati, è la previdente preoccupazione della propria conservazione e di una vita perciò più soddisfatta»10. Già questo attacco azzera del tutto l’idea della possibilità di auto-vincolarsi in un ordine sulla base di quelli che oggi usa chiamare con termi-

10 Th. Hobbes, Leviatano, ed. it. a a cura di A. Pacchi e A. Lupoli, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 139.

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ne perlomeno equivoco ‘valori’. E tuttavia, pur senza ricorrere a ‘valori’, la vita vincolata da un potere artificiale può essere «più soddisfatta». Nel senso che in una condizione pacificata e neutralizzata, nella quale la vita è ‘assicurata’, si svilupperanno anche le libertà (private), entro i limiti della pacificazione stessa, cioè a patto che non ne sovvertano le premesse. Il nesso tra liberalismo e (politiche della) sicurezza, legittimazione formale e istanze d’ordine rivela qui, all’origine del positivismo giuridico e della secolarizzazione del diritto moderno, la sua radice concettuale, che è stata ed è certamente suscettibile di pesanti strumentalizzazioni antigarantiste, e tuttavia non sembra agevolmente liquidabile in quanto esigenza fondante. Hobbes sa che le leggi di natura – come la giustizia, l’equità, la moderazione, la misericordia, il fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi – sono contro le passioni. Il paradosso della ‘natura’ è che produce sia leggi (conoscibili dalla ragione senza ricorrere ad altre ‘fonti’ superiori) sia passioni c­ ontrapposte e contraddittorie (che non possono condurre a una legalità razional-naturale, ma solo alla parzialità, all’orgoglio e allo spirito di vendetta; e tuttavia non sono meramente ferine, perché alimentate dal gioco reciproco delle auto-rappresentazioni umane). Proprio partendo dall’analisi realistica e senza presupposti ‘etici’ della complessione psicofisica dell’uomo, al contempo polemogena e bisognosa di ‘protesi’ protettive, emerge la sua destinazione politica, opposta a quella aristotelica, perché generata da un deficit, non da un pienezza di senso che si dispiega nella comunità. La natura che chiama all’artificio è artificiale essa stessa, cioè contiene in sé la ‘differenza’ che la rende problematica. L’inserzione di fattualità (di forza o violenza ‘naturale’) rappresentata dalla comparsa (necessaria) del potere terzo efficace – che potrebbe sembrare un mero fatto pratico – è per Hobbes, non casualmente, un vincolo concettuale. Infatti i patti in assenza di un potere terzo che li garantisca sono invalidi: «patti senza la spada non sono che parole, essendo assolutamente privi della forza di dar sicurezza agli uomini»11. E ancora: «la natura della giustizia consiste nel rispettare i patti validi, ma la validità dei patti non ha principio se 11

Ibidem.

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non con la costituzione di un potere civile sufficiente a costringere gli uomini a mantenerli»12. Credo che possano esserci pochi dubbi sull’aggancio, nel modello hobbesiano, tra normatività ed effettività e sulla natura teorica, non sociologica, di questa tesi. L’invalidità del patto è di diritto, non di fatto, perché se non c’è un potere coercitivo in grado ‘strutturalmente’ di garantire l’effettività del patto, ognuno ha diritto a proteggersi da solo, e quindi il patto è distrutto. Il potere ‘sovrano’ è condizione di validità del patto (necessaria anche se non sufficiente): in questo senso la sovranità ha una valenza ‘normativa’, e la coppia natura-artificio un significato intrinsecamente politico (più in generale, guardando alla teoria del diritto oltre Hobbes, ciò si traduce nel carattere ‘strutturale’ del nesso forza-effettività e della distinzione non azzerabile tra essere e dover-essere, come ben sapeva Kelsen). La ‘giustizia’ (anche in senso liberale e individualistico, alla Rawls) non assorbe il potere, ma dipende dai suoi assetti e d ­ alla previa risoluzione della questione dell’ordine come sopravvivenza. La normatività morale-razionale (ammesso che si dia, e in modo univoco, cioè non ambiguo e frammentato, cosa di cui si può ragionevolmente dubitare alla luce del ‘fatto del pluralismo’, che peraltro per la cultura liberaldemocratica è giustamente un dato di partenza inconfutabile e un ‘valore’ da proteggere13) opera entro quadri socio-istituzionali e strutture di mentalità. Ciò certamente non azzera il significato e la cogenza argomentativa dei discorsi di legittimazione, ma il punto è che questi non sono in grado di auto-sostenersi senza ricorrere a una cospicua dose di fattualità, all’asimmetria concreta governanti-governati e all’efficacia del potere coattivo: una fattualità che inevitabilmente finisce per Ivi, p. 117 (cap. XV). Non a caso Kelsen sosteneva, com’è noto, che ‘la’ giustizia è un ideale irrazionale (cfr. H. Kelsen, Il problema della giustizia, ed. it. a cura di M.G. Losano, Einaudi, Torino 2000): certo non perché amasse l’ingiustizia o non l’avesse sperimentata sulla sua pelle, ma perché riteneva che alla luce di una concezione laica e pluralistica della società, fosse da giudicare come irragionevole la pretesa ‘giusnaturalista’ di definire una volta per sempre un contenuto immutabile di giustizia, da cui dedurre tutte le norme ‘positive’. La ricerca del ‘giusto’, in quanto rimanga aperta, è una nobile aspirazione e una fonte di orientamenti morali e politici, ma pretendere di codificarla e imporla una volta per sempre – fondandovi l’ordine – è una prevaricazione che prepara conflitti estremi. 12 13

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essere normativizzata e coinvolta nel processo di giustificazio­ne razionale dell’ordine politico, svolgendo un decisivo ruolo concettuale in esso. La ‘giustizia’, dice Hobbes (sempre prendendo gli uomini per come appaiono realisticamente e senza ricorrere ad auctoritates ‘trascendenti’, politicamente inattingibili e fonti di divisione), presuppone che si sia (già) fatto un patto. Prima di esso, ognuno ha il diritto a difendersi da solo, dispiegando tutta la sua originaria libertà ‘naturale’, il proprio diritto-potere su tutto (che essendo ‘assoluto’, non è coordinabile con i diritti altrettanto assoluti degli altri, e perciò produce guerra). Una giustizia ‘prepolitica’ non è possibile: la giustizia, infatti, consiste nel criterio di reciprocità pacta sunt servanda, che implica una clausola decisiva: tale reciprocità deve essere garantita, in modo da eliminare il timore del non adempimento da parte degli altri14. Quindi, il criterio razionale della reciprocità contrattuale (ammetto che quello che riconosco valere per gli altri vale anche per me), funziona solo circolarmente, cioè se immette nella propria costruzione il potere medesimo (e presuppone quindi quanto deve essere giustificato). Un potere che non sia occasionale, ma si ponga come terzo, ‘esclusivo’ sulle questioni di vita e di morte (cioè non ammetta una distruttiva concorrenza nello scambio protezione-obbedienza) e sia in grado di farsi valere con costanza, istituzionalizzandosi. Il prezzo da pagare nel rompere il patto deve essere molto alto (Hobbes arriva a parlare addirittura di ‘terrore’): «Prima che i nomi di giusto e ingiusto possano trovar posto, deve esservi un qualche potere ­coercitivo, per costringere ugualmente gli uomi­ ni all’adempimento dei loro patti col terrore di punizioni più grandi del beneficio che si ripromettono dalla rottura dei patti medesimi...»15. È l’istituzione dello Stato – di un ordine in grado di avanzare la pretesa di essere ‘legittimo’ e prevalente sugli altri poteri ‘indiretti’ (religiosi, economici ecc.) perché fa sopravvivere i consociati – a rendere realisticamente possibile, ed effettivamente obbligatorio, il rispetto dei patti. Non è un caso se, nel nostro tempo, l’eccesso di potere dell’economia e la rinascita politica delle religioni vadano di pari passo con la crisi del diritto e della po14 15

Cfr. Th. Hobbes, Leviatano, cit., p. 116. Ibidem.

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litica come ‘istituzione’, strumento di pacificazione e integrazione sociale. Ma economia e religione sono in grado di ‘fare ordine’, o perlomeno di governare il disordine (oltretutto su vasta scala), cioè di sostituirsi allo Stato (o a più ampi ‘spazi’ di ordinamento politico-giuridico) nella garanzia della sicurezza dalla violenza e delle condizioni minime di sussistenza e convivenza, assumendosene tutti gli oneri? C’è di che dubitarne fortemente. I rischi insiti nella tentazione costante di delegittimare e strumentalizzare l’ordine politico, presupponendolo, erano già presenti a Hobbes. Essendo l’ordine moderno un prodotto umano, costruito su fondamenta inevitabilmente più fragili rispetto a quelle degli ordinamenti tradizionali, è proprio la sua legittimità ‘nuova’ ad essere al contempo un plusvalore e una fonte di sfide, di insidie. Lo mostra uno dei passaggi più ardui del Leviatano (capitolo XV), nel quale Hobbes cerca di venire a capo attraverso la (sola) ragione del possibile ripiegamento particolarista dell’individuo auto-interessato. Si tratta della cosiddetta ‘confutazione dello stolto’. Il foolish – lo ‘stolto’, appunto – è colui che nega la necessità di rispettare i patti, di cui pretende di giovarsi. Ma il punto è: chi non rispetta le regole facendo finta di osservarle è uno stupido o un furbo? Qui si gioca la partita tra Hobbes – che non può certo contentarsi di argomenti morali, dati i suoi presupposti – e il particolarismo di chi nega i doveri di reciprocità, persino in presenza del loro mantenimento da parte degli altri e di istituzioni preposte a farli osservare. Lo sforzo di Hobbes è quello di dimostrare razionalmente che è insensato assumere tale posizione parassitaria, che immagina di inserirsi negli interstizi dell’ordine, sfruttandolo e sottraendovisi allo stesso tempo. In definitiva, l’argomento di Hobbes è quello della ‘coerenza’: il comportamento del foolish sarebbe contraddittorio rispetto alle sue premesse (presuppone un ordine che non contribuisce a riprodurre) e non reciproco; se tutti facessero come lui, verrebbero meno i vantaggi assicurati dall’esistenza dell’ordine, vantaggi di cui anch’egli gode. Ma una volta compiuta tale dimostrazione – e ammesso che essa tenga16 – resta che, essendo l’opzione del foolish iper-privati16 Questi passi hobbesiani fanno da sfondo al cosiddetto ‘dilemma del prigioniero’, elaborato nell’ambito della teoria dei giochi, che smentirebbe la razionalità della cooperazione alla luce di una concezione individualistico-strategica

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stica, strumentale e pragmatica (se non mi ‘scoprono’, se la faccio franca, ho ottenuto il mio scopo e in qualche modo, almeno dal mio punto di vista particolare, ho avuto ragione), quell’argomento razionale della coerenza, pur valido in generale, non basta. Occorre che effettivamente il foolish finisca nelle mani del potere legittimo, che sia particolarmente difficile farla franca, perché risulti troppo rischioso e quindi non conveniente adottare una posizione da free rider: «Chi dichiari di ritenere ragionevole ingannare coloro che l’aiutano, non può ragionevolmente aspettarsi altri mezzi di salvezza che quelli che possono provenire dal suo potere individuale. Pertanto chi infrange il proprio patto, dichiarando quindi di poterlo fare con ragione non può essere ammesso in nessuna società che si unisca per la pace e la difesa, se non per errore di coloro che lo ammettono»17. Quindi, pure nel caso della confutazione di chi nega la giustizia – cioè il rispetto dei patti validi –, emerge la necessità di un atto di esclusione, che isoli e neutralizzi i ‘furbi’, e la funzione decisiva del potere legittimo: se questo non è concretamente efficace e stabile nella garanzia della legalità, lo spazio di chi strumentalizza le regole può dilatarsi a dismisura e il suo comportamento essere sottovalutato, divenire accettabile, comune, così che rischia di aprirsi una falla nell’ordinamento che può condurre alla riappropriazione generale della libertà naturale, cioè allo riproduzione dello ‘stato di natura’. È significativo che, seppur in un contesto intellettuale e politico ben diverso, anche Hart, considerando una situazione assimilabile dal punto di vista teorico a quella rappresentata dalla sfida del foolish in Hobbes, punti sulla ‘efficacia’ dell’ordinamento coattivo quale criterio imprescindibile per la sua neutralizzazione: «La vita sociale con le sue norme che impongono queste astensioni è a volte irritante: ma in ogni modo meno squallida, meno brutale e meno breve di una situazione di aggressioni illimitate per esseri così approssimativamente uguali. È naturalmente del tutto compatibile con questo il fatto ugualmente ovvio che quando viene stabilito un sistema di astensioni vi è sempre qualcuno che lo vuole sfruttare, vivendo sotto la sua protezione e contemporaneamente della razionalità. Sul tema, cfr. T. Magri, Contratto e convenzione. Razionalità, obbligo e imparzialità in Hobbes e Hume, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 117 ss. 17 Th. Hobbes, Leviatano, cit., p. 119.

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non rispettandone le restrizioni. Questo è davvero... uno dei fatti naturali che rendono necessario il passaggio da forme di controllo meramente morali a forme di controllo giuridiche organizzate»18. Le sanzioni (assicurate dall’ordinamento coattivo) rappresentano una ‘garanzia’ non solo dal punto di vista pratico, ma anche da quello teorico, perché fanno sì che l’obbedienza non sia un azzardo auto-distruttivo, ma l’opzione più coerente: «Tranne che in società molto piccole e strettamente unite, la sottomissione a un sistema di restrizioni sarebbe follia se non ci fosse un’organizzazione per esercitare la coazione nei confronti di coloro che tentassero di ottenere i vantaggi del sistema senza sottomettersi agli obblighi che ne derivano. Le ‘sanzioni’ non sono perciò necessarie come motivo normale dell’obbedienza, ma come una garanzia che coloro i quali sono disposti a obbedire volontariamente non vengano sacrificati a coloro che non sono disposti a farlo. Obbedire, senza questa garanzia, significherebbe rischiare di essere nella situazione peggiore. Dato questo permanente pericolo, ciò che la ragione richiede è una cooperazione volontaria in un ordinamento coattivo»19. In questo passo Hart riprende pienamente il senso dell’argomentazione hobbesiana sulla terza legge di natura (che stabilisce, come sappiamo, che i patti validi, cui è razionale obbedire, sono quelli garantiti dal potere coercitivo). Naturalmente, la posizione complessiva di Hobbes è più radicale di quella di Hart: al centro della costruzione del Leviatano c’è la sovranità, da cui il diritto deriva, mentre Hart mette in primo piano l’indagine sulla giuridicità in rapporto al comportamento dei consociati; la ‘grande afflizione’ nel contatto con gli altri su cui insiste Hobbes, diventa in Hart altruismo ‘limitato’ («se gli uomini non sono dei, non sono nemmeno angeli»20). E tuttavia, se è vero che per Hart un po’ di altruismo c’è, quel poco che c’è non basta a fare a meno del diritto coattivo, a garantire un ordine spontaneo, e questo è quello che conta. Inoltre, seguendo il filo del discorso hartiano, si vede come non basti la protezione delle persone (tutte ugualmente vulnerabili) dalla violenza, occorre anche «qualche forma minima di istituzione della proprietà (benché non necessariamenH. Hart, Il concetto di diritto, cit., p. 227. Ivi, p. 230. 20 Ivi, p. 228. 18 19

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te della proprietà individuale)»21, in modo da garantire le risorse (scarse) necessarie alla sussistenza, quali ‘cibo, vestiti e un tetto’, e la protezione delle ‘promesse’ (che assicuri l’affidabilità degli impegni negoziali): tutti punti ben presenti anche in Hobbes, corollari della pace sociale assicurata dal potere sovrano. Procedendo ben oltre Hobbes, volendo, si potrebbe arricchire la lista di ciò che serve alla ‘sopravvivenza’: la cura delle malattie, una formazione di base ecc. Insomma, quei beni e diritti ‘fondamentali’ che consentono a tutti i consociati di vivere in modo più tranquillo e di poter essere perciò dei cittadini in grado di cooperare adeguatamente all’ordine sociale. Ma questo finisce per complicare assai l’individuazione di un contenuto ‘minimo’ del diritto, ciò che Hart sapeva benissimo. La lista delle condizioni necessarie alla sua legittimazione può essere strettissima o più ampia (ciò che non è affatto scontato che sia, anche in Occidente). Il suo ampliamento ha permesso certamente il cammino di progresso del costituzionalismo dei diritti, ma è indubbio che più quella lista si allunga più produce conflitto, non riuscendo ad assicurare un accordo complessivo sulle condizioni minime dell’ordine. 3. L’insufficienza della società Hobbes dedica un ampio spazio argomentativo alla dimostrazione della specificità ‘politica’ degli esseri umani rispetto agli altri animali sociali (come ad esempio le api nell’alveare). Gli individui da un lato non riescono a vivere del tutto isolati, ma dall’altro la loro interazione non indica affatto una spontanea e pacifica socialità ‘naturale’. Generano ordine politico e ne hanno necessità, ma nella misura in cui la loro socialità è di per sé insufficiente e problematica. Ci sono molte ragioni all’origine di tale aporia costitutiva22: a) come si è già avuto modo di accennare, gli uomini sono continuamente in competizione tra loro per onore e dignità, mentre le creature come le api o le formiche non lo sono. È su questo terreno che nascono tra gli uomini l’invidia, l’odio e infine la guerra. La socialità umana è strutturalmente aperta al conflitto. 21 22

Ibidem. Cfr. Th. Hobbes, Leviatano, cit., pp. 141-142 (cap. XVII).

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b) Fra le creature ‘socio-naturali’ il bene comune non differisce da quello privato. Comune e privato sono la stessa cosa: tendendo per natura al loro bene privato, procurano per ciò stesso il bene pubblico. Per l’uomo invece, la cui gioia consiste nel ‘confrontarsi’ con gli altri – ecco anche qui emergere l’elemento ‘rappresentativo-agonistico’ –, non può avere sapore nulla che non sia eminente. ‘Eminente’ vuol dire che ci si differenzia, che c’è un elemento di autorità, di innalzamento, di onore. Cioè l’uomo ha a che fare con una dimensione simbolica, apparentemente impalpabile, che assegna rango, identità, immagine sociale. E qui già emerge, in nuce, l’altro concetto decisivo della politica moderna, di cui tratteremo poi, che è quello di ‘riconoscimento’. Cioè all’uomo non basta stare in un contesto in cui spontaneamente le cose ‘funzionano’, senza neanche accorgersene, ma cerca una qualche forma di riconoscimento del proprio ruolo, oltre la mera riproduzione meccanica della vita sociale. Non solo: lo stesso complessivo bellum omnium contra omnes è largamente un conflitto per il riconoscimento, seppur mascherato, perché molte delle ragioni fondamentali per le quali si rischia di non sopravvivere, ovvero allo stato di natura si dà il caos e non l’ordine, sono relative a passioni identitarie23. Poiché le ragioni dell’insicurezza e del pericolo sono generate spesso da conflitti per l’immagine di sé, il bisogno d’ordine – che è allo stesso tempo ‘razionale’ ed ‘emotivo’ – si radica quindi non solo in un calcolo strategico per la sopravvivenza, ma anche nelle interazioni di riconoscimento. L’ordine ‘ricercato’ offre una forma di risposta compensativa, il controllo dei rischi per la pace sociale ma anche – non è azzardato affermarlo – un’implicita offerta di stabilizzazione identitaria. c) Le creature come le api, non avendo come l’uomo l’uso della ragione, non vedono e non pensano di vedere alcuna pecca nell’amministrazione degli affari comuni. Ciò significa che è la ragione umana ad essere polemogena, perché consente la comparazione, introduce elementi di dissidio, problematizza e in definitiva ‘politicizza’. 23 Cfr. A. Pizzorno, On the Individualistic Theory of Social Order, in Social Theory for a Changing Society, a cura di P. Bourdieu e J. Coleman, Westview Press, Boulder 1991; si veda anche B. Carnevali, Potere e riconoscimento: il modello hobbesiano, «Iride», 3, 2005, pp. 515-540.

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d) Le creature puramente ‘naturali’, benché siano provviste di un qualche uso della voce nel comunicarsi vicendevolmente i rispettivi desideri ed affezioni (c’è un sistema di segni), «mancano, tuttavia, di quell’arte delle parole grazie alla quale certi uomini possono rappresentare agli altri ciò che è bene nelle sembianze di male e il male nella sembianza di bene, nonché aumentare o diminuire l’apparente grandezza del bene e del male rendendo inquieti gli uomini e turbando la pace a loro piacimento». È chiaro che qui Hobbes ha in mente il proprio mondo, la propria epoca – quella delle guerre di religione –, e però ha colto la radice di quello che verrà chiamato, molto tempo dopo, il ‘potere ideologico’, cioè la capacità di rendere inquieti gli uomini, di mobilitarli, di costruirne il consenso (o l’antagonismo). e) L’ultimo punto della confutazione hobbesiana della naturalità dell’ordine politico attraverso l’analisi realistica delle caratteristiche specifiche e non idealizzate della ‘natura umana’ è quello che riguarda la necessità del potere, anche in un’ottica razionalistica. Infatti, l’accordo tra le creature puramente ‘naturali’ è spontaneo, mentre «quello fra gli uomini deriva solo dal patto ed è artificiale. Dunque non desta meraviglia che (oltre al patto), sia necessario qualcos’altro per rendere il loro accordo costante e durevole; e questo qualcosa è un potere comune che li tenga in soggezione e che ne diriga le azioni verso il bene comune». Artificialità del patto e del potere stanno insieme. Il patto spiega a quali condizioni si può costruire un ordine razionale, ma ciò è possibile solo incorporando in questo dispositivo giustificativo uno scarto, un’eccedenza contingente24, in sé non razionale e tuttavia in quanto efficace razionalizzante: una volontà in grado di imporsi. 4. Il contenuto minimo del ‘diritto politico’ Per quanto in Hobbes abbia origine la distinzione diritto-morale (le norme non sono valide per il loro contenuto oggettivo di verità etica, ma perché poste da un potere legittimato sul piano monda24 Cfr. C. Galli, Ordine e contingenza. Linee di lettura del Leviatano, in Id., Contingenza e necessità nella ragione politica moderna, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 38 ss.

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no a produrre diritto), non si può dire che l’ordine moderno di matrice hobbesiana sia del tutto privo di presupposti. Una prestazione minima deve infatti assicurarla comunque (un’accettabile ‘pace sociale’) e tale ‘fine’ (concreto ed essenziale) definisce un ‘criterio’ che non può essere svisato, un livello sotto il quale non si può mai scendere, pena il venir meno dei presupposti della convivenza e il dispiegamento repentino di espressioni inusitate di violenza (come vicende anche recenti e vicine a noi, quale quella jugoslava, hanno tragicamente confermato). Naturalmente, tutto sta ad intendersi sulla nozione di ‘pace sociale’. Essa può essere concepita in senso veramente minimale (come contenimento della violenza e ‘disarmo’ dei consociati, definendo una condizione di stabilità e di sicurezza su un territorio), oppure caricarsi ‘eticamente’ di una serie di contenuti sociali e assiologici, che la arricchiscono ma possono essere conflittuali. D’altra parte, anche attenendosi rigorosamente alla nozione minimale, è evidente che la pace sociale non può essere assicurata solo dalla forza (che pure è necessaria e rappresenta una sorta di precondizione senza la quale non c’è possibilità di far valer il diritto preservandone la validità complessiva). Della forza non si può fare a meno, ma non basta: occorre che essa sia sostenuta da una integrazione minima, da condizioni che consentano una riproduzione del legame sociale non affidata esclusivamente alla coazione (che stresserebbe il corpo politico aprendo prima o poi la strada all’instabilità). L’obbedienza al potere legittimo, richiesta dal diritto moderno, è meno del consenso e più della paura. È certamente un’obbedienza ‘esterna’ (riguarda i comportamenti, non pretende di catturare l’anima), ma implica in generale l’accettazione – esplicita o tacita, razionale, istintiva o per conformismo – di quella pace sociale minima che un ordinamento è in grado di offrire. Un possibile corollario di ciò è che sul lungo periodo qualsiasi ordine, per essere stabile e durare, debba perlomeno essere effettivamente in condizione di garantire la sopravvivenza, e perciò un’adeguata protezione, dei consociati, evitando che si scavi un fossato incolmabile tra governanti e governati: un compito che, preso sul serio con tutte le sue implicazioni, non è poi così esiguo, e offre già di per sé un primo criterio, per quanto minimo e generale, per spiegare radicali cadute di legittimità e cambi di regime.

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Uno dei paradossi della ragione politica moderna, che si riverbera ancora sui nostri ordinamenti, è che è vincolata a una logica riduzionista, per funzionare e non tradire i propri presupposti laici, ma allo stesso tempo deve presupporre e rigenerare quotidianamente un set di risorse di legittimazione e di energie integrative. Il ‘gesto’ che strappa le radici teologiche e tradizionali (ormai inservibili e conflittuali) ha un senso evidente (evitare la guerra civile) e un contenuto realistico (la ‘sopravvivenza’). Ma già la qualificazione della sopravvivenza e del tipo di ‘protezione’ che è chiamata ad assicurarla – liberale o sociale, garantita solo da sanzioni negative o anche da ‘prestazioni’ – riapre inevitabilmente una dialettica identitaria e conflittuale, che rende dinamico l’ordine apparentemente neutro e disincantato del Moderno, e per così dire ne alza la temperatura, trasformandolo ma determinando anche periodiche riconduzioni alle logiche ‘elementari’ dell’autorità e della sicurezza. Quanto più gli ordinamenti si fanno contenutisticamente complessi ed esigenti, come nello Stato costituzionale di diritto contemporaneo, fortemente pluralizzato, tanto più i tassi di presupposizione in termini di integrazione sociale, narrazione simbolica, memoria condivisa, sono destinati ad aumentare. Quella dell’ordine costituzionale è una prestazione onerosa. Ma in questa complessità sta anche il suo plusvalore: esso prova a fare della presa in carico di istanze sociali e di orizzonti di senso politico-culturale diversi, e del loro bilanciamento, la propria specifica risorsa, che sottrae al fondamentalismo di una verità assoluta le istituzioni25, pur caricandole di ethos ‘relativo’, secolarizzato, soprattutto attraverso il linguaggio dei principi e dei diritti fondamentali. Proprio in virtù delle possibili contraddizioni insite in questa strategia, dell’esigenza costante di equilibrio tra politica e diritto che caratterizza le costituzioni democratiche, è fondamentale garantire il prestigio delle istituzioni, evitando di destabilizzare l’asse autorità-libertà. Il primo obiettivo di una politica democratica lucida e responsabile dovrebbe essere quello di mettere in sicurezza il ‘tasso di presupposizione’ minimo dell’ordinamento costituzionale (che ne ha un bisogno vitale): esattamente l’opposto di quanto da tempo accade in Italia. 25

Cfr. G. Zagrebelsky, Contro l’etica della verità, Laterza, Roma-Bari 2008.

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Sarà bene stare molto in guardia quando, nel nostro Paese, si delegittima in toto la Costituzione, o si disarticolano le strutture dello Stato in nome di micro-identità e di uno pseudo-federalismo che, a differenza di quello vero – il modello americano del Federalist o quello ‘integrativo’ della Germania contemporanea – non serve a unire, ma a dividere. I conti del ‘politico’, persino in Italia, potrebbero prima o poi essere presentati. La cultura democratica, e in particolar modo quella giuridica, farebbe bene a svegliarsi dal proprio sonno formalista e/o moralista, e tornare a pensare la legittimità in rapporto anche ai processi politici (come in passato sapeva fare), senza imbarazzi o fughe ingenue. I cosiddetti ‘valori’ non saranno mai ‘sovrani’26. Avranno sempre bisogno di ‘poteri’ in grado di attivarli e proteggerli. Le forme liberaldemocratiche e sociali che i nostri ordinamenti hanno conseguito in Europa a partire dal secondo dopoguerra, presuppongono anch’esse una condizione politica di stabilità e di pace sociale ‘minima’, sulla quale poggiare. Il costituzionalismo cioè presuppone la lezione hobbesiana e deve farne tesoro. Proprio se si hanno a cuore quelle ‘forme’, non possono essere intese come meri dati normativi che si sostengono da soli. Specie a Sinistra, richiamare questi nodi ingenera spesso equivoci e riflessi condizionati, anche comprensibilmente. Ma non è rimuovendo le sfide sgradevoli che se ne comprende il senso e le strategie di risposta efficace. Non è rimuovendo lo ‘stato di eccezione’ che ci si sottrae alla sua presa, a quello che ci dice sul­l’origine non-giuridica del diritto stesso. La lotta contro l’irrazionalismo politico implica la comprensione critica delle ‘ragioni’ 26 Cfr., sul tema, R. Dworkin, Virtù sovrana. Teoria dell’uguaglianza, trad. it. a cura di G. Bettini, Feltrinelli, Milano 2002; G. Silvestri, Dal potere ai principi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Laterza, RomaBari 2009. Al di là delle ottime intenzioni, un’impostazione che sostituisca alla politica i ‘valori’ è debole. Se significa che non debbono essere considerati a disposizione di nessuno, neppure delle maggioranze, va bene (ma si tratta di un criterio normativo, che naturalmente deve trovare chi lo tutela). Se invece si pensa che i ‘principi costituzionali’ (preferisco questa espressione, meno moralistica e ambigua, a ‘valori costituzionali’) non necessitino di politica, che al posto della questione del potere sia subentrata la funzione autonomamente ordinativa dei ‘valori’, questa è un’illusione pericolosa, perché rischia di subire amare smentite di fatto.

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su cui poggia, la loro destrutturazione dall’interno. Così, nella mia ottica, ‘pace sociale’ non è solo né tanto una questione di ordine pubblico (per quanto in certe realtà di questo Paese lo sia eccome), non vuol dire affatto compressione del pluralismo o esclusione del conflitto, ma condivisione di un terreno comune, per quanto essenziale, che eviti defezioni estreme e secessioni o – e questo purtroppo in Italia sta diventando un tema d’attualità – sovvertimenti ‘mascherati’, dall’interno delle istituzioni, e delegittimazione diffusa del controllo di legalità. Questa integrazione però non può essere ‘neutra’. Tanto più in condizioni di instabilità e stanchezza civile, se non si vuole che sia prodotta decisionisticamente attraverso una rottura costituzionale, cioè sporgendosi sul crinale amico-nemico, è la politica come mediazione tra realismo e mobilitazione simbolica che deve incaricarsi della sopravvivenza dell’ordine costituzionale, ponendo argini e sviluppando una chiara battaglia ideale nella società. Facciamo un esempio. A mio avviso, la sicurezza è una questione seria, e come tale deve essere riconosciuta. È fatta di tante cose concrete: il degrado urbano, la violenza verso il diverso, la criminalità spicciola e quella dei colletti bianchi, la rinuncia di fatto a esercitare la sovranità dello Stato su certe aree del Sud, il pizzo e la corruzione politico-amministrativa, l’economia criminale e il contagio che essa ha determinato, diffondendo una sorta di modello sociale ‘nazionale’. Sicurezza significa, innanzitutto, controllo di legalità. Effettivo, valido per tutti. Se preso sul serio, sarebbe una grande rivoluzione per l’Italia. Significa inoltre un sistema nuovo ed efficiente di sicurezza sociale, per contrastare la povertà e l’eccesso di disuguaglianze. Anche questo, con la ridistribuzione di risorse che implica, sarebbe un bel cambiamento. Altra cosa invece sono le manovre della rassicurazione, che creano ansia fittizia e indeterminata per inscenare una fiction compensativa: così che dall’ossessione indistinta derivi facilmente lo scarico sul capro espiatorio, il bisogno di affidamento senza remore, il piacere generatore di consenso di sentirsi protetti da un’autorità che pensa per noi e si appropria della nostra sopravvivenza, narrandocela. La ‘politica della rassicurazione’ fa della paura non un problema da risolvere, ma la risorsa da spendere e rilanciare continuamente. Detto ciò, questa consapevolezza non può farci svisare un dato politico e teorico ineludibile: nessun ordine della libertà e

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dei diritti è possibile senza sicurezza. Cioè senza aver previamente risolto il problema della pacificazione e della stabilizzazione di una situazione normale, che ‘disarmi’ (anche in senso simbolico) i cittadini e imponga l’effettività del proprio ordinamento contro altri eventualmente ‘concorrenti’, almeno potenzialmente (ad esempio, criminalità organizzata, associazioni eversive, poteri occulti, gruppi terroristici ecc.). Questi, se prevalessero nei fatti, kelsenianamente non potrebbero certo essere arginati nella loro pretesa di validità. Ciò che distingue in ultima istanza un ordinamento legittimo da una ‘banda di briganti’ è l’effettività, la capacità di ottenere sufficiente e duratura obbedienza, di farsi ‘forma’ efficace e prevalente della vita sociale27. Ma anche se solo riescono, tali forze ‘eversive’ – magari quali ‘briganti’ occulti e pseudo-legalizzati – a inserirsi negli interstizi delle istituzioni e a sfruttarle, condizionandone così la vita (come il foolish di Hobbes), determinano una condizione ambigua di legittimità ‘doppia’ (che l’Italia periodicamente conosce), la quale svuota dall’interno la vita democratica sovrapponendole una sorta di energia politica altra, annidata in essa e dotata di un plusvalore non ufficiale ma prevalente, pronta ad attivarsi quando serve. Il paradosso è che a volte si danno situazioni di vero e proprio ‘equilibrio’ e compromesso permanente tra legalità e illegalità (cioè tra diversi modelli di ‘sicurezza’), come accade in almeno tre regioni italiane in virtù del radicamento sociale e territoriale della mafia, della camorra e della ’ndrangheta. Un compromesso perverso, che diviene instabile ogni qual volta lo Stato, attraverso i propri ‘rappresentanti’ sul campo – magistrati, forze dell’ordine, amministratori locali non compiacenti o ignavi –, torna a rivendicare la propria ‘esclusività’. Tutto ciò non è senza prezzo. In termini di qualità della vita democratica, di credibilità delle istituzioni e, soprattutto, di senso comune diffuso. Solo riducendo per quanto possibile la paura – le sue cause reali e quelle legate all’immaginario – e affermando concretamente il primato, la ‘forza’ dello Stato democratico si evita l’alternativa tecnicamente ‘reazionaria’ costituita dal nuovo potere politico ‘paternalistico-seduttore’ di cui il berlusconismo 27 Cfr. H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, a cura di M.G. Losano, Einaudi, Torino 1966, pp. 60 ss.

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è un modello, o da quello ‘mondano-pastorale’ di certa gerarchia ecclesiastica cattolica, collusivo con esso, che mirano al monopolio della ‘rappresentazione’ fittizia di una società ‘rinaturalizzata’, dominata da tassi di violenza e di esclusione incompatibili con il progetto normativo della modernità, e proprio per questo ‘bisognosa’ di un dominio senza mediazione. Questo nodo di fondo – il bisogno di sicurezza e di autorità – deve necessariamente essere monopolizzato dalla Destra più retriva, diventare terreno di conquista della coscienza popolare ormai consegnata all’irrazionalismo politico (e al razzismo)? Sicurezza e legalità sono parole d’ordine irrimediabilmente ‘compromesse’ e inservibili per la cultura democratica, destinata a delegarne la rappresentanza a chi, oltretutto, non è credibile proprio sul terreno delle regole? Io credo di no, anche se ovviamente il sentiero della concreta ragionevolezza politica è stretto, tra potenza della strumentalizzazione mediatica e (giusta, ma insufficiente) difesa delle forme giuridiche. Ma per provare ad allargare quel sentiero occorre prioritariamente prendere atto della necessità ai fini della ricostruzione del consenso nelle istituzioni di un potere autorevole, liberando il pensiero democratico e costituzionale dalle illusioni impolitiche che postulano una sorta di liberazione dal potere. Illusioni sbagliate concettualmente e perniciose praticamente, figlie di tempi più ‘tranquilli’. Altrimenti sarà sempre destinata a prevalere la ‘maschera’ berlusconiana dell’autorità – per nulla seria, anti-istituzionale, ma apparentemente forte e seduttiva –, anche dopo Berlusconi. L’ossessione della sicurezza, la sua politicizzazione, non riguarda del resto solo l’Italia. Certo, il nostro Paese sta sperimentando in forme acute il ‘populismo penale’28. Tuttavia, per fare un esempio significativo, è vero che il reato di immigrazione clandestina non è un’invenzione italiana, essendo stato introdotto prima in altri Paesi europei29. Tanto per essere chiari, si tratta a mio avviso di una previsione di reato ingiusta e odiosa (perché punisce di fatto una condizione soggettiva), oltre che inefficace per regolare i flussi dell’immigrazione e criminogena, in quanto ‘crea’ uno spazio di 28 Cfr. L. Ferrajoli, Democrazia e paura, in La democrazia in nove lezioni, a cura di M. Bovero e V. Pazé, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 115-135. 29 Esiste in Francia, Gran Bretagna e Germania.

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illegalità entro cui confinare i migranti. Un reato che è fondamentalmente una risposta simbolica ad uso interno, oltre che uno scarto discriminatorio, un dispositivo di de-umanizzazione. I migranti sono innanzitutto potenziali criminali, più che persone titolari di diritti: un messaggio chiaro al sistema giudiziario e alle forze di polizia. Ma ancora di più all’opinione pubblica: se le istituzioni fanno la faccia truce, vuol dire che sono in sintonia con gli ‘umori della gente’ e li prendono sul serio. Questo solo ‘messaggio’ – al di là dell’efficacia delle misure restrittive – contiene di per sé gran parte del risultato che si voleva ottenere in termini di rassicurazione. Ma sono altrettanto convinto che negare l’esistenza stessa del problema (di regolare per quanto possibile i flussi, agendo innanzitutto dal punto di vista internazionale, di reprimere le organizzazioni criminali che dell’immigrazione fanno un affare illegale, di accogliere in modo adeguato, di fornire servizi sociali minimi, di creare le condizioni reciproche della convivenza, di prevenire situazioni di tensione) è da irresponsabili che vivono fuori dalla realtà, in particolar modo dalla realtà sociale di chi per primo – ad esempio abitando nelle periferie – è chiamato a confrontarsi direttamente con il mutamento del panorama urbano determinato dall’immigrazione. Sulla ‘politica della rassicurazione’, c’è un altro punto rilevante da sottolineare: la rappresentazione esagerata delle minacce alla sicurezza, l’ossessione certamente non innocente per la cronaca nera, trovano spazio nell’opinione pubblica (ammesso che abbia ancora senso usare questa nozione, e non parlare direttamente di ‘pubblico di spettatori’), anche perché toccano corde originarie, mobilitano strati passionali profondi, suscitando dicotomie immediate (noi-loro, amici-nemici, bene-male). Un fondo oscuro, con il quale tutta la politica deve fare i conti, perché anche da esso proviene il bisogno originario di politica, e che non è stato ‘inventato’ dal populismo penale e dalle fiction della paura, ma semmai suscitato e rinfocolato. Del resto, queste ‘rappresentazioni’ consentono di essere spettatori di uno spettacolo certamente truce, che dà i brividi, ma da cui allo stesso tempo ci si sente in salvo, come dei ‘sopravvissuti’, che possono provare sollievo senza aver rischiato nulla. Emozione e catarsi, dal salottino di casa propria. Si tratta di fiction da cui, soprattutto, può nascere ‘la’ domanda verso il nuovo ‘potere protettivo’: quella di essere posti in salvo.

I. Ordine e sopravvivenza

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Una domanda che azzera e ridefinisce l’agenda politica, non ammettendo repliche razionali e realistiche (la sostanziale stabilità del numero dei reati, il fatto che non si sia per nulla in presenza di una ‘invasione’ di immigrati, le opportunità positive che il loro inserimento nei luoghi di lavoro e nella ‘normalità’ della vita sociale può assicurare ecc.). Il problema è che oggi siamo di nuovo in presenza – come è accaduto nella prima metà del Novecento – di opzioni politiche neo-reazionarie che spiazzano perché scelgono consapevolmente e senza pudori di puntare sull’‘immediatezza’, di giocare la carta pericolosa delle passioni originarie, cioè di stuzzicare lo ‘stato di natura’, per così dire. Opzioni radicali, certo non classicamente conservatrici. Ciò accade, probabilmente, anche perché le tendenze alla rinaturalizzazione, alla deregolazione, alla regressione identitaria sono tratti strutturali del mondo globalizzato, almeno così come è stato finora. L’estrema difficoltà nel fare ordine, nel ridefinire equilibri concreti, ‘spaziali’, la smentita delle illusioni in un presunto nuovo evo pacifico globale, aprono la strada a risposte ‘facili’ perché estreme, che uniscono radicalismo e tradizionalismo, innovazione e vecchie gerarchie. La ripoliticizzazione di quanto era stato oggetto, con la modernità, di una neutralizzazione che si voleva definitiva – odi, fedi e identità ‘assolute’ –, ripone alla ribalta quanto di problematico e forse di irrisolto c’era nel Moderno stesso, rinfocolato dall’impatto disarticolante dell’attuale modernizzazione capitalistica sulle risorse ordinative del razionalismo politico-giuridico. Ciò non significa semplicisticamente che la sua eredità sia ingannevole e da liquidare, ma che la natura del ‘progetto moderno’ è più complicata – ed esposta ad insidie interne – di quanto la cultura liberal contemporanea sia di solito disposta a vedere e a concedere. Di fronte al ritorno in grande stile del bisogno di sicurezza, non si tratta quindi di fare la ‘predica’ a chi assiste ammaliato al nuovo ‘spettacolo della paura’, perché non tiene fede al costituzionalismo dei diritti, ma di capire perché fa presa e di predisporre nuovi ‘freni’ rispetto a quel fondo oscuro, freni razionali ma non astratti, che incidano concretamente tanto sulle condizioni materiali quanto sull’immaginario sociale che alimentano il senso di insicurezza. La contrapposizione astratta ordine-diritti, autorità-libertà, rischia di essere pericolosamente fuorviante. Così come la pretesa di assegnare il monopolio di questi ‘bisogni/valori’ a una parte o

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all’altra. La sicurezza, in un’ottica democratica, è tanto una condizione di fatto (l’hobbesiano ‘ordine della sopravvivenza’, da garantire), quanto una questione culturale (il disinquinamento dei pozzi della paura, che per risultare efficace però deve essere perseguito attraverso un mix di pragmatismo e pedagogia politica ‘popolare’, prevenzione del rischio e narrazioni integrative). Così da provare ad alimentare una coesione sociale ‘aperta’, che passi attraverso una fiducia ragionata e realistica nelle istituzioni pubbliche – tutta da ricostruire – e il rifiuto della tentazione della semplificazione polemica, che compatta e rassicura saltando le mediazioni, sempre in agguato nell’uso politico delle fratture identitarie.

II

Identità e riconoscimento

1. Il paradosso dell’identità Le identità sono invenzioni. Eppure, chi pensa di poterle liquidare sbaglia. Ancora più radicalmente, è sbagliato ritenere normativamente ‘giusta’ questa liquidazione. E che quindi uno degli obiettivi prioritari di una politica democratica e razionalista non possa che essere l’eliminazione delle identità, o perlomeno la loro sterilizzazione. Proprio la consapevolezza dei rischi insiti nel possibile cortocircuito tra politica e identità – semplificazioni polemiche, chiusure culturali, intolleranza – deve portarci a cercare di scavarne il concetto, non ad accantonarlo, nell’illusione che così il problema che nomina scompaia. L’identità è una risorsa necessaria della politica. Se non c’è, o è confusa e labile, non si è capaci di nitide e riconoscibili assunzioni di responsabilità rispetto al merito delle questioni, al loro contenuto di principio. Altri occuperanno quello spazio vuoto, e risponderanno a quel bisogno. E non è affatto detto che abbiano gli stessi scrupoli auto-riflessivi1. 1 La bibliografia sull’identità è assai vasta, anche perché coinvolge, direttamente o indirettamente, gran parte del pensiero filosofico, politico, psicoanalitico, sociologico, antropologico. Mi limito a ricordare: la critica del concetto sviluppata da Francesco Remotti nei volumi Contro l’identità (Laterza, RomaBari 2007), che ne smontava acutamente le concezioni sostanzialiste e totalizzanti, ma la riconosceva come irrinunciabile, e L’ossessione identitaria (Laterza, Roma-Bari 2010), la cui tesi fondamentale è che dell’identità, semplicemente, si possa fare a meno: una conclusione estrema, che a mio avviso rischia di portarci fuori strada, innanzitutto dal punto di vista filosofico-politico; l’indagine di Remo Bodei volta a comprendere le modalità costitutive e le trasformazioni, le stratificazioni (consce e inconsce) e le funzioni perduranti dell’identità tan-

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Un approccio diverso per problematizzare il tema, senza negarlo, può muovere a mio avviso da questo punto di partenza: il meccanismo generatore dell’identità è, fondamentalmente, il riconoscimento. La risposta alle domande ‘chi sono?, chi siamo?’ è il risultato di un’attribuzione reciproca di identità2. Chi assume, interiorizza una determinata identità lo fa perché riconosce l’identità dell’Altro che gliela assegna o rimanda, in un gioco di specchi. Ma riconoscere l’identità dell’Altro significa anche attribuirgliene una. Chi ri-conosce, conosce da capo ciò che talmente gli appartiene (o, ma è lo stesso dal punto di vista dell’efficacia, sente appartenergli e appartenere alla relazione con l’Altro in quanto problema, ‘sfida’ che chiede una risposta), da apparire come un ‘presupposto’ comune: quando si acquisisce, accetta, afferma un’identità è come se, platonicamente, si ‘ricordasse’ ciò che era talmente implicito, profondo, da essere come ‘dimenticato’, non saputo, e quindi oggetto di nuova appropriazione. Chi riconosce conferma come ‘propria’ la qualificazione ricevuta, accettando con ciò la legittimità del soggetto che gliela assegna, identificandolo a sua volta. Naturalmente, questo è sempre un movimento reciproco, a doppio verso. E ha natura agonistica: il riconoscimento non è garantito in partenza e non ha nulla di melenso. Per quanto le identità possano essere inventate, ci sembrano sempre, non solo nel privato ma anche quando riguardano la sfera collettiva e politica, qualcosa di intimo, che ci parla di noi, e

to personale quanto collettiva, in Scomposizioni. Forme del’individuo moderno, Einaudi, Torino 1997, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 1991 (settima edizione ampliata, 2003), Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Feltrinelli, Milano 2002; la ricerca di Alessandro Pizzorno che, pur con le dovute cautele rispetto al concetto, dell’identità coglie la funzione sociale (Il velo della diversità. Studi su razionalità e riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2007); l’ampio affresco sull’identità moderna elaborato da Charles Taylor in Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, trad. it. a cura di R. Rini, Feltrinelli, Milano 1993. 2 Riprendo qui un punto fondamentale di A. Pizzorno (Il velo della diversità. Studi su razionalità e riconoscimento, cit., pp. 190 ss.). È opportuno non perdere di vista come il paradigma del riconoscimento abbia anche una valenza giuridica e giochi un ruolo decisivo non solo nelle relazioni infra-statuali, ma anche in quelle globali, per l’attribuzione della soggettività di diritto internazionale, trasformando rivendicazioni di identità in identità ‘legittime’, formalmente autorizzate su base di reciprocità.

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di serio, che ci mette in gioco. E questo per ragioni che non appaiono mai puramente utilitaristiche o strumentali (pur prestandosi magari a usi in questo senso), ma meritevoli di adesione perché espressive di un ‘plusvalore’ che ambisce a durare, di un’aspettativa di senso forgiata in comune. Se è così, a me pare che ciò non accada per puro inganno, ma proprio perché nella dinamica costruttiva delle identità interviene potentemente la dimensione politica del riconoscimento, che risponde a un bisogno irriducibile di soggettività, apre conflitti e mette in relazione, innova e stabilizza. Le identità si rivelano in questo senso cristallizzazioni di soggettività in relazione. Anche attraverso questi scambi identitari il ‘corpo vuoto’ del Leviatano, nel dispiegamento della modernità, si è ­riempito di contenuti normativi, forme di vita, interazioni sociali che si sono via via politicizzate, costituendo una ‘sfera pubblica’ spesso difficile da integrare e abitata da poteri indiretti, ma anche generatrice di legittimazione politica posttradizionale, di nuovi vincoli collettivi, e appropriabile da parte di soggetti ‘esclusi’. Contro una concezione essenzialista e naturalizzante, si può dunque difendere una nozione di identità come costruzione simbolica. Non un dato statico e compatto, ma il frutto e la posta in gioco di una lotta. L’identità, funzionalmente, è ciò che identifica (e in cui ci si identifica): energia psichica e sociale ancorata a contenuti accreditati di una certa stabilità e di valore, che attiva e mette in rapporto strati emotivi, pre-razionali, e azione consapevole, delimitando un senso dell’esperienza. Se si assume questo punto di vista, allora si comprende come e perché l’identità – rivendicata o riconosciuta –, che ci piaccia o no, svolga un ruolo decisivo in politica. Possiamo e dobbiamo decostruirla, guardarne con sospetto gli usi, sottoporla a un lavoro critico. Ma non si può pensare di liberarsene per sempre. Perché non è vero che non serve a niente. Perché è implicata inevitabilmente in ogni forma di politicizzazione (anche la più soggettiva e informale), in ogni processo di mobilitazione collettiva. Perché non c’è azione politica che non presupponga un’auto-definizione e non fissi delle gerarchie assiologiche. Quindi, in un modo o nell’altro, il suo ‘problema’ riemergerà sempre. E poi, non tutte le ‘identità’ sono uguali. Sia dal punto di vista dei ‘contenuti’. Sia dal punto di vista degli effetti che determinano. Ci sono identità ‘polemiche’ (che danno la sen-

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sazione di essere qualcosa solo per contrapposizione e mobilitano all’odio) e identità ‘in positivo’, centrate sull’auto-definizione di un nucleo di principi aperto all’esterno, su un progetto che non riduce e semplifica, ma integra la complessità e spinge ad uscire dal proprio guscio. Naturalmente, è una questione di misura: una certa differenziazione per contrasto, così come la paura di perdere la propria specificità, ci saranno sempre in ogni politicizzazione dell’identità. Si pensi a questo proposito all’ambiguità che segna il rapporto tra idea di nazione e nazionalismo, ben distinti e tuttavia intrecciati3: l’una fonte di identificazione della libertà dei popoli, della loro indipendenza, ma anche radice di una concezione etnica della politica (‘terra e sangue’); l’altro strumento della politica di potenza e dell’espansionismo imperialista, e tuttavia capace di coinvolgere le masse, nazionalizzandole, magari sulla base di sincere convinzioni patriottiche. Tra l’altro, proprio la funzione politica dell’idea di nazione mostra come il problema dell’identità non sia affatto un retaggio pre-moderno, ma acquisisca un ruolo centrale nella modernità, anche in virtù del processo di secolarizzazione. Paradossalmente, il fatto che il diritto moderno operi per sottrazioni identitarie, non elimina, ma anzi fa rinascere in forme nuove e alla lunga enfatizza il bisogno di identità. Peraltro, la stessa secolarizzazione è caratterizzata da un’ambivalenza strutturale: da un lato sterilizza politicamente le identità religiose, dall’altro ne ‘filtra’ le narrazioni, consentendo di riutilizzare almeno in parte ciò che passa attraverso il suo ‘setaccio’ laicizzante nella costruzione di nuove identità post-tradizionali4. Da 3 Per un complessivo ed equilibrato inquadramento critico del problema, cfr. A. Campi, Nazione, Il Mulino, Bologna 2004. Bisogna ricordare come anche identità del tutto ‘inesistenti’, prive di solidi elementi storici e culturali, ‘reinventate’ a posteriori, hanno spesso svolto una rilevante funzione storico-politica (cfr. sul tema il classico L’invenzione della tradizione, a cura di E.J. Hobsbawm e T. Ranger, trad. it. a cura di E. Basaglia, Einaudi, Torino 2002). In questo senso, guardando alle vicende italiane, bisogna essere consapevoli del fatto che la ‘Padania’, che non esiste, potrebbe produrre precisi effetti politici, se introiettata da una larga maggioranza disposta a credere ai suoi miti fittizi e a mobilitarsi per essa, accettandone le conseguenze. 4 Va nella stesso senso Habermas in un passaggio centrale di Faktizität und Geltung: «Con il nostro excursus abbiamo voluto spiegare perché i diritti umani e il principio di sovranità popolare rappresentino le uniche idee ancora capaci di dare giustificazione al diritto moderno. Queste idee infatti rappresentano il

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una parte lo Stato moderno secolarizzato costituisce uno spazio pubblico neutrale (come sappiamo, solo così sono possibili le libertà plurali e la sterilizzazione del conflitto sulle ‘cose ultime’). Dall’altra esso deve essere anche il luogo dell’appartenenza a valori condivisi (per quanto plurali), che fissino un ‘limite’ e sorreggano il sistema delle regole, e quindi non può essere ‘neutro’. Ora, seguendo la nota analisi di Böckenförde sul tema5, si vede appunto come la neutralizzazione sia sì necessaria, ma non possa mai essere completa, sfociare nell’indifferenza etico-politica, perché verrebbero meno quelle risorse di legittimazione – pur minime – funzionali ad ogni ordine. D’altro canto, un ‘resto’ di sacro – che non ha nulla di confessionale, ma è schmittianamente una pura ‘analogia’ teologico-politica6, una credenza laica nel plusvalore del vincolo politico – è indispensabile allo stesso dispositivo della secolarizzazione, il quale presuppone per funzionare una forma di trascendenza politico-collettiva dell’immanenza sociale e dell’atomismo individuale, sostitutiva di quella religiosa, che produca una sufficiente omogeneità. Non è dunque casuale se, a un certo punto della storia europea, dopo la seconda, più potente ondata secolarizzante rappresentata dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese, alla religione come sostrato etico collettivo si è sostituita l’idea di nazione7, ovvero un altro costrutto identificante ‘trascendente’, per quanto del tutto mondano. La nazione mostra in modo tipico il ‘doppio lato’ dei concetti politici moderni: tanto un prodotto della volontà che si afferma, costruendo un ordine nuovo, quanto un sostituto secolarizzato del vincolo religioso. La residuale ‘precipitato’ di quella sostanza etico-normativa che, originariamente ancorata nelle tradizioni religiose e metafisiche, è stata poi spinta attraverso il filtro della fondazione post-tradizionale. Nella misura in cui i problemi morali si sono differenziati da quelli etici, la sostanza etico-normativa appare come discorsivamente filtrata nelle due dimensioni dell’autodeterminazione e dell’autorealizzazione» (J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, cit., pp. 123-124). 5 Cfr. E.W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, ed. it. a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 33 ss., in particolare pp. 53-54. 6 Cfr. C. Schmitt, Teologia politica, in Le categorie del ‘politico’, ed. it. a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 61 ss. 7 Cfr. E.W. Böckenförde, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, cit., pp. 52-53.

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possibilità di sostituire a un patriottismo della nazione, che oggi appare compromesso e certo assai meno spendibile politicamente rispetto al passato, un patriottismo etico-politico, non formalista, della costituzione e dell’identità europee, rappresenta la sfida attuale dell’Europa, sulla quale aprire una discussione pubblica e un conflitto reali (visto che le declinazioni di quell’identità non sono univoche). Tenendo presente un’avvertenza assai rilevante quando si maneggiano le identità collettive: esse possono sempre serbare – e magari coprire – un fondo di ‘violenza simbolica’8, per cui chi accetta una determinata ‘qualificazione’ in realtà la subisce, assumendo in modo subalterno il discorso identitario dominante. Ma ciò ci dice anche che l’identità è sempre il frutto (provvisorio) di una lotta per l’attribuzione e la distribuzione di potere, e che a quel discorso dominante non è impossibile opporsi, imponendone la trasformazione, magari proprio in nome di identità ‘diverse’, che si attivino politicamente. La questione fondamentale che la funzione politica dell’identità pone e allo stesso tempo svela è insomma quella relativa al significato, agli effetti, alle ipoteche concettuali persistenti dei legami di dipendenza e dei rapporti di potere attraverso cui i ‘soggetti’ – tanto individuali quanto collettivi – si costituiscono e riconoscono. Le credenze identitarie sono il precipitato di questi processi, carichi di violenza e irrazionalità, ma anche politicamente produttivi. L’identità è la scatola nera del nesso politica-soggetto. Il testo classico per affrontare alla radice questo nodo è la lotta delle autocoscienze nella Fenomenologia dello Spirito9. Con questa celebre figura, Hegel punta dritto all’origine dell’obbedienza al potere in quanto ‘struttura di pensiero’. Il rapporto signoria (dominio)-servitù 8 Sul tema, con attenzione particolare al nesso identità culturali-diritti, cfr. F. Tedesco, Diritti umani e relativismo, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 81 ss. (che riprende le tesi di Spivak e Bourdieu). 9 Per un penetrante e accurato inquadramento del tema e delle sue fonti, cfr. R. Bodei, An den Wurzeln des Verhältnisses von Herrschaft und Knechtschaft, in Hegels Phänomenologie des Geistes, hrsg. von K. Vieweg und W. Welsch, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2008, pp. 238 ss. Nel medesimo commentario, suscita invece perplessità l’interpretazione proposta nel contributo di P. Stekeler-Weithofer (Wer ist der Herr, wer ist der Knecht? Der Kampf zwischen Denken und Handeln als Grundform jedes Selbstbewußtseins), che legge la figura di servo-signore come lotta tra pensiero e azione, tutta interna all’autocoscienza (ivi, pp. 205 ss.).

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(assoggettamento) è infatti la preistoria concettuale del rapporto potere-obbedienza. Il teatro delle forze elementari che vengono a comporlo. 2. La politica come destino Hegel afferma e indaga la politicità dell’umano (più propriamente, la politica come destino del genere umano) in senso opposto alla tradizione antica (si pensi a uno dei suoi luoghi classici, il primo libro della Politica di Aristotele), secondo cui la politica è ‘naturale’ perché spontanea, ordinata su un’unica sequenza di relazioni, inscritte in un ordine oggettivo complessivo: padre-figlio, maritomoglie, padrone-schiavo, polis-cittadini (anche se c’è differenza tra padrone e politikos, perché quest’ultimo esercita il dominio su uomini liberi). Nel Moderno invece la politica è fondata sulla volontà, ed Hegel accetta questo punto di partenza. Ma la sua idea di politica come sfida tragica e produttiva, a cui non ci sottrae e che determina le forme della ‘vita dello Spirito’ – in questo senso è un ‘destino’ –, si differenzia anche dalla condizione umana scarnificata che nello stato di natura hobbesiano costituisce la matrice dell’ordine (anche se in qualche modo ne assume e presuppone la radicale ‘problematicità’). In Hegel l’intreccio vita-artificio è più complesso, meno riduzionista: c’è la volontà, ma anche l’ethos, in un movimento reciproco, che immette una robusta iniezione di soggettività – e quindi di ‘trascendenza’ laica – nella Sostanza (spinoziana), ma non dimentica che il Soggetto proviene da mondi etici e ha sempre bisogno di partecipare alla riproduzione quotidiana di nuovi legami in cui riconoscersi e, soprattutto, da cui sentirsi riconosciuto, per non separarsi come un ‘idiota’ dalla ‘cosa’ comune. Soprattutto, Hegel sa che originaria è la relazione e la sua capacità di costruire i soggetti, non l’astrazione individuale. Il ‘soggetto libero’ non è un ‘dato’, ma il risultato di un processo emancipativo – di affermazione di sé e di interazione con il potere – permanente. Presuppone le istituzioni e un tessuto di legami sociali. La storia è storia della libertà, ma la libertà non è naturale. Non è un possesso o una dote. La libertà è liberazione. Nella Fenomenologia, in un primo momento, sembra che sia l’autocoscienza che sceglie la fedeltà alla lotta, a trovare la propria identità, ad essere confermata nella sua autonomia (è ‘signore’).

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Mentre il servo, che ha avuto paura e ha deposto le armi, sembra perderla, per preservare la propria vita. Ma, a ben vedere, anche la scelta della sopravvivenza determina un effetto identitario: non solo nel senso di una soggettività dipendente, ma soprattutto nel senso di una identità in evoluzione, che lavorando trasforma la natura, costruisce strumenti e oggetti, si fa essa stessa strumento, e così si elabora e può riappropriarsi dei contenuti ‘lavorati’ immessi nel mondo, riconoscendoli come propri. A differenza della staticità del signore che, godendo dei frutti del lavoro altrui, non conosce la mediazione con la natura, accollata al servo, questi, attraverso la disciplina dell’obbedienza e la funzione formativa del lavoro, si trasforma e ritrova se stesso, su un altro piano. Il lavoro del servo è il deposito e la promessa di senso dell’umanità. Ma andiamo per gradi. Innanzitutto, che cos’è questo ‘lavoro’ (Arbeit)? È desiderio (o appetito: Begierde) «tenuto a freno», una negatività produttiva che, invece di esaurirsi nel godimento immediato (e riproporsi sempre uguale, come nel consumo di un oggetto), persiste («diventa qualcosa che permane»)10. Il lavoro – che va inteso in senso ampio, come opera che trasforma e inscrive simboli – è una dilazione del desiderio che permette di produrre e accumulare significati, quasi una forma di sublimazione. Ma, dice Hegel, il lavoro da solo non basta. Senza l’esperienza originaria della «paura assoluta» provata dall’autocoscienza quando si è assoggettata, quel «formare» insito nel lavoro sarebbe solo un «vano senso proprio» (eitler eigener Sinn)11, particolare e privato. L’autocoscienza non è mera ostinazione, «pervicacia»12 (per quanto abbia in sé un che di irriducibile, il senso di attaccamento a una sorta di insondabile punto di aggancio interno). Ma per uscire da questa sua separatezza (aver senso solo per sé) e universalizzarsi, l’autocoscienza deve aver «tremato nel profondo di sé», «per l’intera sua essenza», essere «intimamente dissolta»13: per trovare veramente se stessa, ciò che c’è di «fisso» nella coscienza naturale deve «vacillare», essere «fluidificato». 10 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, trad. it. a cura di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, vol. 1, p. 162. 11 Ivi, p. 163. 12 Ivi, p. 164. 13 Ivi, pp. 161-162.

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In fondo l’esperienza dell’auto-coscienza in quanto tale (la sua «essenza semplice», dice Hegel) è in sé proprio questo «assoluto fluidificarsi» della coscienza che prova paura nella lotta. L’autòs dell’autocoscienza – il movimento di riferirsi a sé, il tornare a sé tematizzandosi – implica una «negatività assoluta» che ha natura corrosiva verso tutto ciò che appare certo e sussistente, sia nella realtà intrapsichica sia in quella oggettiva. Se la paura tempra, e la soggettività esprime la potenza del Negativo, lo Spirito – il lavoro universale del genere umano – non potrà mai essere quieto, conciliato, impolitico. Dunque il lavoro del servo, nella misura in cui toglie «la sua adesione all’esserci naturale» e lo «trasvaluta»14, racchiude in sé l’essenza semplice dell’autocoscienza ed esteriorizzandola la porta nel mondo. In qualche modo, lo stesso gesto filosofico che nega, revoca in dubbio l’ovvietà del mondo fenomenico e della coscienza naturale è frutto anch’esso di quella prima paura assoluta. La filosofia è debitrice del servo: non a caso Hegel afferma che «la paura del signore è l’inizio della sapienza»15. È vero, come dice Hegel nelle pagine precedenti, che «soltanto mettendo in gioco la vita si conserva la libertà»16. E che il signore è tale – immediatamente libero – perché, pur avendo avuto paura di non sopravvivere, ha tenuto il punto rischiando. Perché ha scelto la libertà. Ma la sua è un’identità granitica, priva di vere incrinature, e perciò sterile, senza futuro. Una scena brutale e sempre identica a se stessa di onori e sottomissione. È solo avendo sperimentato la paura assoluta e quindi la propria radicale vulnerabilità, avendo tremato al punto tale da scegliere la sopravvivenza, che si sa chi si è, che cos’è un’autocoscienza. È come se Hegel ci dicesse che la paura del servo è di diversa intensità, scava più nel profondo, o meglio che diventa servo colui a cui è accaduto, per motivi che rimangono inspiegati, di farsi invadere totalmente dalla paura, di farsi dominare da essa, scoprendo così – magari senza saperlo in quel momento – il nucleo più intimo e irriducibile a un contenuto determinato (anche a quello dell’onore) della soggettività umana. L’identità scelta dal signore era già data: la conferma di Ivi, p. 162. Ibidem. 16 Ivi, p. 157. 14 15

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sé a disprezzo della vita. Ma il Sé si conquista rinunciando a se stessi (al proprio Sé ideale), perdendo la propria identità ovvia, assegnata, a partire dall’accettazione della propria condizione di vulnerabilità. Una scoperta, quella della vulnerabilità, che è il primo gesto politico, perché inaugura il mondo dell’obbedienza e il racconto della necessità del dominio. La paura assoluta è per Hegel la paura della morte (violenta: un tema evidentemente hobbesiano). Essa è «signora assoluta»17. Non è casuale, o solo frutto di contingente ferocia, che il potere politico, ad ogni latitudine e in ogni epoca, debba sempre in qualche modo replicare, introiettandolo, il potere della morte. Avere il potere significa in ultima analisi ancor oggi, talvolta in modo evidente ed eclatante, altre volte in condizioni e luoghi ‘eccezionali’ spesso sottratti alla visibilità e alle garanzie giuridiche, essere in condizione di rivendicare la decisione sui corpi delle persone, sulla loro vita e la loro morte. Questo potere come Gewalt (istituzione ma anche violenza) è costitutivamente l’altra faccia della vulnerabilità, il suo velenoso corrispettivo, che ci dice qualcosa di noi, dei nostri bisogni. Per questo non ci si può illudere di eliminarlo una volta per tutte, si può solo smontarne pazientemente la poderosa macchina ideologica, sottoporlo a vaglio critico, controllarlo. Perché vi sia riconoscimento tra le autocoscienze occorre che esse accettino il rischio di mettere a repentaglio la vita e che mirino effettivamente alla morte dell’Altro rischiando (cioè che il conflitto estremo e il suo possibile esito distruttivo sia una situazione reale e non un gioco). Ma, come dice efficacemente Hegel nei paragrafi dell’Enciclopedia dedicati alla «lotta del riconoscimento» (una sorta di conciso resoconto redatto con sguardo sistematico e retrospettivo), ciascuna autocoscienza mette la vita in pericolo, «ma solo in pericolo»18. Insomma, non solo non è necessaria la morte reale, ma anzi essa deve essere evitata (nel senso della necessità, non del dover essere morale), perché bloccherebbe l’evoluzione successiva, impedendo l’instaurarsi della relazione signoria-servitù: sarebbe in fondo ancora un restare irretiti nella naturalità dell’appetito e nella reiterazione del consumo. InsomIvi, p. 161. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, ed. it. a cura di B. Croce, Laterza, Roma-Bari 1984, paragrafo 432, p. 426. 17 18

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ma, le autocoscienze in lotta mirano a superarsi l’un l’altra, essendosi riconosciute come identiche, autocoscienze e non oggetti di consumo. Sperimentano che non è necessario eliminarsi, che è possibile conservare l’esito di questa battaglia per il superamento reciproco, che si può sopravvivere al conflitto19. Come accade? L’una depone le armi, smette di combattere, si consegna. Ma potrebbe non bastare: per sopravvivere bisogna essere risparmiati. Non è scontato. Eppure accade: l’autocoscienza vittoriosa (per abbandono dell’altra) effettivamente la risparmia, mettendola al lavoro, usandola come uno strumento. Da quel momento essa è coscienza servile, perché dipende dal signore, che la ‘protegge’ (cioè continua a risparmiarla quotidianamente), come protegge tutto ciò che gli appartiene (beni, animali ecc.). Mentre il signore ‘gode’. Sempre identico a se stesso. E gode grazie al servo, che è diventato il ‘suo’ corpo20, nel rapporto di mediazione con la natura, nell’elaborazione delle cose. Il servo è il grande mediatore. Colui che lascia la sua impronta sulle cose del mondo. Che potrà riconoscerle, perché vi ha posto il suo sigillo. Il signore ha ottenuto di godere e di essere riconosciuto da qualcuno che gli dipende. Non può avere storia. Il servo è destinato alla «vera indipendenza»21, a ritrovare se stesso nelle cose che fa, nel mondo che crea. Attraverso l’esperienza interna della paura e l’esteriorizzazione del senso attraverso il lavoro, la coscienza servile ritrova se stessa attraverso se stessa, il suo «senso proprio»22. Senza servizio, obbedienza e lavoro, la paura resterebbe una pura esperienza interiore. Senza quella paura originaria che fa scintillare una scheggia di soggettività, non c’è libertà coltivata23. Ivi, pp. 157-158. Cfr. J. Butler, C. Malabou, Sois mon corps. Une lecture contemporaine de la domination et de la servitude chez Hegel, Bayard, Paris 2010 (testo nel quale Butler, in particolare, mette in luce acutamente come Hegel con servo-signore in qualche modo anticipi Foucault, nell’evidenziare come la costruzione della soggettività – i processi di soggettivazione, nel linguaggio foucaultiano – sia legata a dinamiche di potere e di assoggettamento, che passano per il corpo, caricandolo di valenze simboliche e relazionali). 21 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., vol. 1, p. 162. 22 Ivi, p. 163. 23 «Senza la disciplina del servizio e dell’obbedienza la paura resta al lato formale e non si riversa sulla consaputa effettualità dell’esistenza. Senza il formare la paura resta interiore e muta, e la coscienza non diviene coscienza per lei 19 20

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Hegel ritraduce nella ‘messa in scena’ di servo-signore il passo del Leviatano in cui Hobbes tratta del dominio dispotico. Cioè forza la macchina concettuale hobbesiana, trasformandola. Ma si porta anche dentro la questione della sopravvivenza, collegandola strutturalmente a quella dell’identità e mettendo in luce i temi riconoscimentali con i quali ogni passaggio all’ordine – anche quello hobbesiano – deve confrontarsi, perché la conflittualità può scatenarsi per ragioni sia strategiche sia simboliche, tanto per interesse quanto per onore, tanto per calcolo quanto per convinzione. Per Hobbes, il dominio dispotico e la servitù si generano in una scena di guerra. La resa del vinto ha già in sé un elemento pattizio: servo sarà il vinto che, «per evitare il colpo mortale imminente»24, si consegna al vincitore in cambio della garanzia della sopravvivenza («finché gli sarà concessa la vita e la libertà del corpo»25). Il servo non è un prigioniero, non è uno schiavo (che può legittimamente tentare di fuggire), ma un uomo che, dopo essere stato catturato, dopo essere stato in balia di un puro potere, può «disporre liberamente del proprio corpo»26 perché gli è stata data fiducia dal padrone, in seguito alla promessa di non scappare e di non esercitare violenza sul padrone medesimo. Promessa, fiducia, libertà (relativa), patto: è questa sequenza di razionalizzazione a fondare il diritto di dominio su chi è stato sconfitto, non il puro fatto della vittoria. Ma che tipo di obbligo si instaura così? A cosa si riduce il patto tra signore e servo? Al fatto che il vinto si sottomette volontariamente, da un lato; al fatto che il padrone si fida di lasciargli la libertà del corpo, dall’altro. È un obbligo asimmetrico: il vincitore non sarebbe obbligato a risparmiare il nemico, in virtù della sua resa. Ma l’atto di sottomissione e il servizio (equivalente del riscatto in denaro) possono consentire di fatto di scampare al furore del vincitore. Si badi che il signore concede la vita temporaneamente: può sempre decidere diversamente, se ritiene che il servo sia infido. Il volto oscuro e violento del potere sta tutto in questa scena elementare di guerra stessa. Se la coscienza forma senza quella prima paura assoluta, essa è soltanto un vano senso proprio» (ibidem). 24 Th. Hobbes, Leviatano, cit., p. 169. 25 Ibidem. 26 Ibidem.

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e sottomissione. Sembrerebbe altra cosa dal potere sovrano per istituzione, cioè dall’ordine instaurato razionalmente attraverso un patto giustificato dalle leggi di natura e dalla necessità di evitare la guerra di tutti contro tutti, e non frutto – come nel caso del dominio dispotico – precisamente di una guerra combattuta e vinta. E invece, in modo sorprendente ma assai rivelativo, Hobbes afferma che «i diritti sia del dominio paterno sia di quello dispotico e le proprietà che ne derivano sono esattamente gli stessi di quelli del sovrano per istituzione e per le stesse ragioni»27. Quello del servo è un patto di obbedienza (come quello del suddito), che consiste nell’autorizzazione e nel riconoscimento di ogni atto del signore come proprio (esattamente come accade con il sovrano). Hobbes, attraendo nella sfera contrattuale il dominio dispotico sembra proporne una relativa razionalizzazione. Ma scoprendone gli elementi di analogia con la sovranità, rivela, forse anche al di là delle sue intenzioni, la trama nascosta ad essa sottesa, gli elementi di violenza originaria e immediatezza occultati nella narrazione contrattualista, che non a caso riemergono in alcuni passaggi decisivi: quando entra in campo la ‘forza’ che garantendo il patto sostiene la razionalità dell’obbedienza, quando emerge in luoghi differenti la centralità della questione della sopravvivenza e la presa del potere (di ogni potere, padronale o sovrano che sia) su di essa, quando si delinea un parallelismo tra patto di assoggettamento e patto di sottomissione, obbedienza e servitù. È vero che, con sottigliezza, Hobbes sottolinea come tutti (sudditi o servi) hanno il diritto di disobbedire anche al potere esercitato legittimamente per difendere il proprio corpo (non si può essere obbligati a uccidersi, a ferirsi e mutilarsi, a non prendere cibo e medicine, ad accusarsi, a combattere)28, proprio in nome del primato del fine antropologico elementare della sopravvivenza. Ma è altrettanto vero, e politicamente dirimente, che il potere legittimo ha il diritto di uccidere, punire ecc., se serve a difendere l’ordine, e quindi alla garanzia complessiva della sopravvivenza. Insomma, al potere si può tentare di sfuggire ma, per ragioni diverse – gli esiti di una guerra, l’istituzione della persona sovrano-rappresentativa 27 28

Ivi, p. 170. Ivi, pp. 181-182.

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per creare uno spazio di pacificazione interna –, in qualche modo gli essere umani sono da sempre nelle sue grinfie. La scena originaria del contratto che Hobbes ci racconta – anche attraverso la sua spiegazione pattizia del dominio dispotico – non è quella di un potere compiutamente addomesticato dalla razionalità, ma di una razionalità politica che accetta di essere spuria per render conto del dominio incorporandolo nel suo discorso. Torniamo a Hegel. Abbiamo appurato che la figura signoriaservitù espone una relazione produttiva di soggettività. Essendo irriducibilmente conflittuale e determinando un’asimmetria di natura simbolica, quella relazione è in un qualche senso elementare ‘politica’ (e propedeutica al vincolo politico maturo), non semplicemente economica, domestica, psicologica, morale o genericamente sociale. Ma cosa vuol dire che attraverso il dominio e la dipendenza si diventa ‘soggetti’? Questa tesi di Hegel ha implicazioni radicali: significa che il soggetto – fonte della politica moderna – è un costrutto già in sé politico, che ha introiettato, in virtù della sua preistoria, del suo processo di soggettivazione, il potere. Non a caso, un punto straordinariamente debole della finzione contrattualista che Hegel scopre proprio grazie al rapporto servo-signore, è che gli individui liberi (cioè gli ‘attori’ del contratto) non sono già bell’è pronti (come compaiono in tutte le versioni del contrattualismo liberale, fino a Rawls), non sono entità ‘naturali’ ma appunto ‘costruzioni di potere’, realizzate proprio attraverso quel processo politico (di messa in relazione, di disciplinamento, di unificazione) di cui il contratto dovrebbe dar conto, circolarmente. 3. Oltre il contratto Nella Fenomenologia dello Spirito Hegel, con la figura della lotta delle autocoscienze, aggira e supera il contratto, facendone l’archeologia. La dialettica servo-signore si presenta come una sorta di genealogia anticontrattualista dell’ordine moderno, che rende ragione delle caratteristiche degli individui nel processo di unificazione politica, dei presupposti concettuali della finzione contrattualista e dei suoi esiti in termini di razionalizzazione, demolendo il contratto come ‘mezzo di produzione’ politica. Un tentativo di andare oltre il giusnaturalismo moderno inca-

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merandone gli effetti, cioè di sottrarsi al rischio individualistico e atomistico, alla semplificazione astraente, propri del contrattualismo, ma assumendo ciò che il razionalismo politico moderno aveva assicurato in termini di qualificazione dell’ordine29. Perché anche Hegel sa che la nozione di ordine presupposta dal «perfezionamento dello Stato a monarchia costituzionale», perfezionamento che costituisce «l’argomento della storia universale del mondo»30 – cioè, espresso nel suo linguaggio solenne, dallo Stato moderno – è di tipo post-tradizionale, un ordine da un certo punto di vista ‘artificiale’ perché centrato sulla volontà, per quanto ‘etico’. Nell’Annotazione al paragrafo 258 dei Lineamenti di filosofia del diritto, Hegel rilegge attraverso Rousseau la tradizione del diritto naturale moderno (che aveva ben presente), formulando la sua critica al contratto. Rousseau, per Hegel, ha il grande merito di aver stabilito come ‘principio’ dello Stato un principio che tanto per la sua forma quanto per il suo contenuto è pensiero: la volontà. Ma non è stato conseguente: l’ha intesa come volontà singola, particolarizzandola. Allo stesso modo, ha inteso la volontà generale non come volontà universale-razionale, ma come volontà comune. Qui Hegel almeno in parte fraintende o comunque semplifica Rousseau: la concezione della volontà generale elaborata nel Contratto sociale è molto più complessa e sofferta (più vicina alle preoccupazioni hegeliane, verrebbe da dire), perché Rousseau conosce bene il veleno privatistico che la insidia, se la si intende in senso puramente quantitativo come sommatoria di interessi parziali31. Volontà generale significa universalità della ragione politica: il problema è come raccordare tale ‘bene’, che in sé sembra nitido e certo, alle plurime volontà di cui il popolo si

29 Sul rapporto complesso tra la filosofia politica hegeliana e il giusnaturalismo moderno, cfr. N. Bobbio, Hegel e il giusnaturalismo, in Id., Studi hegeliani, Einaudi, Torino 1981. 30 Cfr. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it. a cura di G. Marini, Laterza, Roma-Bari 1987, Annotazione al paragrafo 273. 31 «Vi è spesso molta differenza tra la volontà di tutti e la volontà generale; questa mira soltanto all’interesse comune; l’altra all’interesse privato e non è che una somma di volontà particolari» (J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, trad. e note a cura di V. Gerratana, con un saggio introduttivo di R. Derathé, Einaudi, Torino 1966, p. 42).

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compone. Esse possono essere ingannate, e non bastano un buon metodo per prendere decisioni o una valida organizzazione della rappresentanza per evitarlo, occorre che lo spirito pubblico e la virtù politica del popolo come collettività autocosciente rimangano sempre vivi. In ogni caso, quella che agli occhi di Hegel appariva una deriva disgregatrice, e di fatto era una piena assunzione del principio di sovranità popolare (con tutte le sue aporie), ha fatto di Rousseau il padre filosofico della Rivoluzione francese, cioè dell’immane spettacolo di una completa rifondazione raziona­ le della Costituzione dello Stato, ma anche dei suoi gravi eccessi. Il problema del contratto è che fa dipendere la legittimità dell’ordine dall’arbitrio individuale. Un effetto che deve assolutamente essere evitato. Ma qual è allora il suo fondamento di legittimità, visto che, parallelamente, Hegel rifiuta di dedurlo dal particolarismo della forza e della tradizione32 (ciò che ne fa indubitabilmente un moderno), così come di individuare il fondamento di validità del diritto nella contingenza di ciò che è meramente «positivo»?33 Da un lato, Hegel cerca di sottrarre la volontà generale-razionale a una interpretazione individualistico-liberale, cogliendo ­peraltro, come si è detto, un punto effettivamente presente in Rousseau: la volontà generale è concettualmente diversa dalla ‘volontà di tutti’ (Kelsen aveva colto lo stesso punto, ma in senso opposto, come ragione di critica verso Rousseau34); non è ‘derivata’ dai particolarismi individuali, ma ha una funzione polemica, di contrapposizione agli interessi privatistici e allo spirito di fazione35. Dall’altro,

32 Come si vede nell’aspra polemica contro le concezioni politiche reazionarie di von Haller, nella medesima Annotazione al paragrafo 258 dei Lineamenti. 33 Si veda, sul punto, l’Annotazione al paragrafo 3 dei Lineamenti. 34 «La volonté générale di Rousseau – espressione antropomorfa che indica l’ordine statale obiettivo, valevole indipendentemente dalla volontà degli individui volonté de tous – è assolutamente incompatibile con la teoria del contratto sociale che è una funzione della volonté de tous» (H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in La democrazia, ed. it. a cura di M. Barberis, Il Mulino, Bologna 1998, p. 54). 35 «‘Ogni interesse – dice il marchese d’Argenson – ha principi differenti. L’accordo di due interessi particolari si forma con l’opposizione a quello di un terzo’. Avrebbe potuto aggiungere che l’accordo di tutti gli interessi si forma con l’opposizione a quello di ciascuno. Se non ci fossero interessi diversi, a stento si sentirebbe l’interesse comune, che non troverebbe mai ostacoli, tutto andrebbe da sé e la politica cesserebbe di essere un’arte» (J.-J. Rousseau, Il

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Hegel va alla ricerca di strategie che consentano di ‘ispessire’ il concetto di libertà: il rapporto signoria-servitù svolge anche questa funzione. Nella Filosofia del diritto, si aggiunge una nuova strategia: l’origine dell’eticità politica come oggettivazione della libertà viene rintracciata in una teoria dell’agire (quella delineata nell’Introduzione ai Lineamenti), tutta costruita sul concetto di volontà; una volontà che, determinandosi sulla base di bisogni, scegliendo, si riempie di contenuto e contribuisce alla costruzione di un vincolo oggettivo, ‘etico’, in cui riconoscersi. Ciascuno fa il mondo che lo trascende. Non a caso, i paragrafi dell’Introduzione ai Lineamenti rimandano esplicitamente a quelli dedicati alla trattazione generale dell’eticità e alla ‘società civile’36. Naturalmente bisogna chiedersi che tipo di eticità (che nel linguaggio di Hegel significa quale vincolo etico-politico) si costituisca a partire dalla determinazione della volontà mossa dagli impulsi (Triebe), produttiva di un sistema di connessione intersoggettiva. Solo quella al livello della interdipendenza della società civile? Oppure anche il punto più alto dell’etico, cioè lo Stato politico? E la molla originaria che determina il passaggio all’intersoggettività è quindi fondamentalmente economica (il soddisfacimento dei bisogni)? Questo sembrerebbe ben poco compatibile con il paradigma delineato in servo-signore, e anche con quanto Hegel sostiene a proposito della natura originariamente politica dell’eticità, negli stessi Lineamenti. C’è effettivamente nel pensiero hegeliano una compresenza di piani (e di fonti: economia politica, giusnaturalismo moderno, tradizione metafisica classica) non del tutto risolta. Ma bisogna anche sottolineare come il lavoro che ‘forma’ (bildet, da cui Bildung, elaborazione della natura in cultura), effetto della relazione signoria-servitù, in qualche modo mostra già il vincolo della politica con i Triebe (impulsi, bisogni) e la loro produttività sociale, una volta che sono ritradotti simbolicamente dalle autocoscienze, coinvolte nella rete di relazioni che a partire da quei ‘bisogni’ si instaurano. In definitiva, il tratto prevalente del paradigma hegeliano sembra da un lato l’inscrizione dell’etico nel ‘politico’, nell’originarietà e nella persistenza del conflitto e della sua contratto sociale, cit., p. 42). Dal che si evince che la concezione della politica e della democrazia di Rousseau è radicalmente anti-spontaneistica. 36 Cfr. il paragrafo 19, che rinvia al 150, e il paragrafo 20, che rinvia al 187.

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risoluzione asimmetrica e simbolica (non basta il ‘costume’, perché un popolo sia capace di esistenza politica; il rapporto potereobbedienza, pur razionalizzato, è insuperabile, così come la funzione produttiva della paura e la possibilità del conflitto estremo). E dall’altro il carattere articolato, mediato dell’eticità moderna, che rimane un presupposto indisponibile, il collante spirituale della convivenza, ma non è un ordine compatto e chiuso, dispoticamente comunitario, grazie all’apertura dello spazio della ‘società civile’. Il suo sviluppo è merito della lunga opera del servo: ora sarà anche possibile partire dai bisogni e dalla volontà, per arrivare al vincolo politico. Il vero protagonista del contratto – cioè dello Stato razionale – è il servo in quanto ‘soggetto’ che ha sperimentato l’obbedienza come sottomissione e si è ‘liberato’ elaborando la natura, esterna e propria. Rendendosi pronto così a un’altra forma di obbedienza, giustificata razionalmente, ad aderire consapevolmente a un ordine politico nel quale sia possibile riconoscersi. La ‘verità’ del contratto – di per sé contraddittorio e irrealistico come ‘strumento’ per generare ordine – è questa soggettivazione dei consociati e questa possibilità di riconoscimento. Il signore, che pure aveva preso distanza dalla ‘vita’ nella lotta, incarna invece un ‘resto’ di primitiva naturalità, l’immediatezza naturale e violenta del ‘politico’ (che persiste anche nei regimi razionalizzati in forme delimitate, come la continuità dinastica assicurata dal ‘corpo’ del sovrano, oltre che, ovviamente, nella guerra e nella pena capitale): un residuo opaco e non razionale, incorporato nella sovranità, anch’esso necessario alla narrazione contrattualista. Insomma, nel livellamento (Glättung) determinato dalla razionalizzazione moderna, all’arcaica lotta delle autocoscienze (il ‘politico’ primitivo) si sovrappone la produttività sociopolitica dei bisogni e della volontà agente (la ‘mediazione’ moderna). Del resto, per Hegel tanto il nesso dipendenza-libertà quanto la civilizzazione come destino di lotta e lavoro sono sfide inscritte nell’antropogenesi (intendendosi per antropogenesi, nella concezione hegeliana, non la rivelazione di una ‘natura umana’37, ma il 37 Per Hegel non si dà una ‘natura umana’, come dato costante e immutabile (si potrebbe dire che hegelianamente la ‘natura’ della natura umana è di essere ‘naturalmente’ innaturale). C’è però una natura «seconda» (com’è detto nel paragrafo 4 dei Lineamenti), quale mondo ‘umanizzato’: in questo nesso

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processo che porta alla produzione relazionale di ‘autocoscienze’ e all’auto-riflessività). Si tratta di un processo di universalizzazione di natura ‘politica’ sia all’origine, nel senso che la de-naturalizzazione avviene con mezzi che saranno i mattoni, i fattori basici, del rapporto governanti-governati, sia negli effetti, nel senso che la Bildung – l’elaborazione delle forme dello Spirito umano – è la posta in gioco costante dell’agire collettivo. L’azione umana, infatti, porta i singoli attori (altrimenti chiusi nella loro immobile e infeconda solitudine) a incontrare altri agenti, con i quali entrare in relazione e confliggere, esercitare e subire potere, ‘fare’ e appropriarsi dell’opera comune, contribuendo a riprodurre, grazie alle istituzioni politiche della convivenza, un ambiente sufficientemente ospitale per la civilizzazione, la cui via è comunque aspra: «La civiltà [Bildung] pertanto nella sua determinazione assoluta è la liberazione e il lavoro della superiore liberazione... Questa liberazione è nel soggetto il duro lavoro contro la mera soggettività del comportamento, contro l’immediatezza del desiderio, così come contro la vanità soggettiva del sentimento e l’arbitrio del libito»38. Razionalità delle istituzioni e ordinamento della libertà soggettiva – le conquiste del mondo moderno – non sono astrazioni, non sono invenzioni ingegneristiche. Implicano che il terreno dell’esperienza umana concreta venga adeguatamente dissodato. Il giusnaturalismo da Hobbes a Rousseau, che pure persegue la razionalizzazione dell’ordine e afferma il principio della soggettività, ha presupposti della cui complessità non riesce a dar conto. Hegel scava questi presupposti. Per questo c’è una sorta di ‘sporgenza’ hegeliana rispetto al Moderno, che tuttavia non lo porta fuori di esso e gli consente di coglierne la trama più profonda. La via alternativa rispetto al contratto battuta da Hegel ci pone di fronte a un paradosso: il rapporto servo-signore rappresenta una relazione duale, verticale ma senza Terzo, e tuttavia costituisce una inscindibile tra artificio e vita dello Spirito – che costituisce la realtà effettuale e dinamica (Wirklichkeit, da Wirken: ‘produrre’) – va inquadrato il ruolo delle istituzioni, che trascendono l’azione delle singole autocoscienze ma allo stesso tempo ne costituiscono i contesti, così come il rapporto di corrispondenza tra coscienza collettiva e istituzioni, spirito pubblico e leggi. 38 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., Annotazione al paragrafo 187, p. 158. Tornano qui alcuni termini cardine di servo-signore nella Fenomenologia, quali Begierde, Bildung e Arbeit.

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sorta di preistoria dell’ordine politico (che sussiste solo in presenza di un potere ‘terzo’). Si badi che è Hegel stesso ad affermare che «la lotta del riconoscimento e la sottomissione a un signore è il fenomeno, onde sorge la convivenza degli uomini come cominciamento degli Stati»39. Certo: si tratta solo del «fenomeno», non del «principio sostanziale». E tuttavia, fenomeno significa che nel concreto è attraverso quel passaggio di fatto che si instaurano effettivamente gli Stati, e anzi la convivenza che ne è la precondizione. Non si tratterà quindi di un evento così casuale e irrilevante. Quel fenomeno, pur calato nel mondo esterno dei duri fatti, ci dirà qualcosa dell’ordine che a partire da esso si instaura, lascerà una qualche impronta? E perché proprio la soggezione a un signore in conseguenza di un conflitto di riconoscimento (assai rilevante, perché tocca la genesi e la natura dell’autocoscienza) è – e non può non essere – l’origine dell’ordine politico? Hegel riconosce che la forza, essendo il fondamento della sottomissione, è la protagonista dell’instaurazione di fatto degli Stati. Ma afferma che non è il fondamento del diritto. Il passaggio al vincolo con il Terzo, all’istituzionalizzazione razionale, è il diritto a garantirlo. Il tentativo hegeliano è quello di tener ben distinti forza e diritto, enfatizzando la loro diversa legittimazione, ma procedendo su entrambi i binari. E tuttavia: la forza è giustificata perché è la sola a poter strappare l’autocoscienza alla naturalità, universalizzandola40. Quindi la forza è levatrice – per quanto brutale – dell’universale. Che a sua volta è ben strano, perché non avrebbe di per sé la capacità di affermarsi, se non fosse supportato da una forza esterna e ‘naturalistica’, efficace proprio perché dotata delle stesse caratteristiche di ciò che deve combattere, per fare spazio all’universale medesimo, per creargli un ambiente favorevole. Non solo: al diritto viene assegnato un alto ruolo, che va bene al di là della sua stretta dimensione tecnica, perché adempiendo alle esigenze di giustificazione razionale e di riconoscimento della giustizia 39 G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., Annotazione al paragrafo 433, p. 427. 40 «La forza, che è fondamento in questo fenomeno, non è perciò fondamento del diritto; quantunque sia il momento necessario e giustificato nel trappasso dalla condizione dell’autocoscienza, la quale è immersa nell’appetito e nell’individualità, alla condizione dell’autocoscienza universale. È il cominciamento esterno e fenomenico degli Stati; non già il loro principio sostanziale» (ibidem).

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istituzionalizza il senso della convivenza umana coltivata. E tuttavia, Hegel sa bene che il diritto senza quella instaurazione di fatto dell’ordine sarebbe condannato all’ineffettualità, non troverebbe il suo terreno. Così come sa che i poteri che compongono lo Stato, e in particolar modo la sovranità, anche nello Stato più razionale hanno bisogno della forza (come emerge in modo evidente sulla scena internazionale, in cui vige ancora lo stato di natura, ma come è vero anche all’interno degli Stati, seppur in circostanze più eccezionali). Insomma il fine e il senso dello Stato, garantiti dal diritto, non sono né la mera forza né una cieca sottomissione. Ma quella matrice resta: cruda, elementare, inquietante. Una matrice che continua a ipotecare l’ordinamento razionale del ‘politico’. Tanto che lo ‘scarto’ da essa mantiene dei tratti enigmatici. 4. Riconoscimento e potere Ricapitoliamo quanto abbiamo acquisito: la lotta del riconoscimento è una lotta per l’identità. Il concetto hegeliano di riconoscimento, così come appare nei suoi luoghi topici e maturi (la figura della lotta delle autocoscienze nella Fenomenologia, ripresa poi nell’Enciclopedia), fa tutt’uno con quella di autocoscienza41 ma non è una nozione ‘morale’ (come nella lettura di Honneth, che non a caso fa riferimento soprattutto agli scritti jenesi precedenti la Fenomenologia, e per certi aspetti anche in Ricoeur)42. È un 41 È Hegel stesso ad affermare espressamente che l’autocoscienza è tale soltanto se «riconosciuta»: «L’autocoscienza è in sé e per sé in quanto e perché essa è in e per sé per un’altra, ossia è soltanto come un qualcosa di riconosciuto» (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., vol. 1, p. 153). L’autocoscienza incorpora un «doppiosenso» (Doppelsinnigkeit), cioè la sua è una natura contraddittoria, quella di serbare il contrario di ciò che vive nella sua esperienza specifica, ovvero di avere in sé la potenzialità di trascendersi, altre identità possibili: «Il doppiosenso del distinto sta nell’essenza dell’autocoscienza, essenza per cui l’autocoscienza è infinitamente e immediatamente il contrario della determinatezza nella quale è posta. L’estrinsecazione del concetto di questa unità spirituale nella sua duplicazione ci presenta il movimento del riconoscere» (ibidem). Il riconoscimento – e il bisogno da cui nasce – è frutto di questa natura doppia dell’autocoscienza, della sua scissione interna che genera una duplicazione esterna e il desiderio di superarla nel mondo delle relazioni. 42 Cfr. A. Honneth, La lotta per il riconoscimento, trad. it. a cura di C. Sandrelli, Il Saggiatore, Milano 2002; P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, trad.

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conflitto ‘esistenziale’ (si rischia la sopravvivenza) e ha un esito asimmetrico (mentre fa sperimentare la reciprocità del conflitto determina l’emersione di una forma di dominio): laddove c’è riconoscimento c’è anche potere43. L’originaria ‘uguaglianza’ da cui muove l’incontro ‘a specchio’ delle autocoscienze («si riconoscono come reciprocamente riconoscentisi»44) è destinata, non appena la scena si anima e il meccanismo teorico si mette in moto, a rompersi. Quella origina­ ria uguaglianza è del desiderio, non dei diritti (o di sentimenti morali, quali l’attribuzione di dignità, l’incontro, l’intesa, l’accoglien­ za: attitudini encomiabili, che presuppongo però soggetti già disponibili ad esse; costrutti elaborati, mediati storicamente, niente affatto ‘ovvi’, che presuppongono contesti di istituzionalizzazione

it. a cura di F. Polidori, Cortina, Milano 2005. Contrapponendosi a queste letture ‘normative’, Alessandro Pizzorno ha invece elaborato un originale sviluppo funzionalista della «dialettica del signore e del servo», volto a corroborare la sua critica del paradigma individualista dell’azione e dell’ordine sociale. Signore è chi carpisce il riconoscimento: lo può fare chi mostra di poterne prescindere, chi si consegna ma non del tutto, chi mostra di non aver paura di rimanere da solo, scegliendo la preservazione più durevole della propria identità irrinunciabile rispetto alla mera vita. Tale irrinunciabilità da una parte è all’origine dell’asimmetria originaria della società; dall’altra fonda la possibilità di socialità alternative, di una vita autonoma come manifestazione del ‘non bisogno’, della ‘non ricerca dell’Altro’ (cfr. A. Pizzorno, Il velo della diversità. Studi su razionalità e riconoscimento, cit., pp. 181 ss.). Una lettura di grande fascino e interesse, ma che forza e va oltre Hegel, sia perché interpreta il nucleo irrinunciabile dell’identità (l’attaccamento alla quale ha reso il signore tale) come capacità di fare a meno del riconoscimento stesso da parte dell’Altro (mentre il signore proprio quello cerca, anche a costo di rischiare di fare a meno della vita), sia perché individua nel signore, e non nel servo, la possibilità di un’evoluzione, della fondazione di socialità alternative (anche se Pizzorno riconosce che il signore esce vincitore ma non può fare a meno del servo: paradossalmente l’esito della presunta autosufficienza del signore, grazie alla quale si determina la sua vittoria, è un doppio legame, un vincolo che è anche del signore al servo). 43 Tema ripreso di recente in chiave antropologico-giuridica da Supiot, quando afferma che il potere per durare ha bisogno di essere riconosciuto (cfr. A. Supiot, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del Diritto, trad. it. a cura di Ximena Rodriguez, Bruno Mondadori, Milano 2006, pp. 175 ss.). Anche se Supiot tende a eticizzare il potere in auctoritas: invece questo nesso potere-riconoscimento può essere inteso e indagato in senso molto più scarnificante e criticodecostruttivo, come smitizzazione che renda conto della necessità funzionale del mito, evitando di accollare al diritto il compito ‘sostanziale’ di istituire la ragione. 44 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., vol. 1, p. 155.

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a protezione della loro fragilità). Questo è uno snodo decisivo: è proprio perché il motore della relazione di riconoscimento è il desiderio, che si produce asimmetria di potere. Perché? Che cos’ha il desiderio di proto-politico? E di che natura è il desiderio dell’autocoscienza? È un desiderio tale da raggiungere «il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza»45. Ovvero, nasce come appetito naturale, ma scopre di aver bisogno per appagarsi di un oggetto che «compia in lui la sua negazione»46, cioè desideri a sua volta un’altra autocoscienza, che attraverso il desiderio si trascende47. Questo uscire «fuori di sé»48, interrompendo la ripetitività dell’appetito naturale e l’apparente autosufficienza della coscienza naturale, è già un atto potenzialmente generatore di trascendenza politica. Il desiderio di riconoscimento instaura lo spazio pubblico dell’azione. Non solo. Esso non è disincarnato e non è univoco: è desiderio di incorporazione ma anche paura di essere divorati; nostalgia di fusione e allo stesso tempo ansia di annichilimento; brama di unificazione e distruttività49. Questa compresenza di passioni ambivalenti inaugura una dimensione di imprevedibilità e di immaginazione che ha in sé le stimmate del conflitto politico, necessita di meccanismi di stabilizzazione, genera aspettative di senso e bisogni che solo in una logica collettiva possono essere compensati. Desiderando e lottando, si esercita un potere sull’Altro e ci si offre al suo. Soprattutto, si apre e sancisce uno spazio intersoggettivo di distribuzione del potere e di attribuzione di ruoli. Inoltre, quell’ineguaglianza che è il primo risultato della lotta per il riconoscimento50 serba una dura lezione politica: resterà la sfida estrema, l’ipoteca costante per gli stessi ordinamenti entro cui si sono create le condizioni dell’uguaglianza, dell’addomesticamento del dominio, della libertà (acquisizioni Ivi, p. 151. Ivi, p. 150. 47 Sul nesso desiderio-riconoscimento, il riferimento obbligato è A. Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, ed. it. a cura di G.F. Frigo, Adelphi, Milano 1996. Sul tema, cfr. anche J. Butler, Soggetti di desiderio, trad. it. a cura di G. Giuliani, presentazione di A. Cavarero, Laterza, Roma-Bari 2009. 48 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., vol. 1, p. 153. 49 In qualche modo qui Hegel sembra anticipare temi freudiani e kleiniani. 50 Cfr. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, cit., paragrafo 433, p. 426. 45 46

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parziali perché ‘determinate’, mai assolute e definitive, nell’ambito dello Spirito oggettivo ‘striato’ dal Negativo). Guardando oltre Hegel, il suo realismo politico filosoficamente fondato, ben altra cosa rispetto alle rozze semplificazioni dei realisti del luogo comune, ci serve a ricordare come le asimmetrie del potere – e della violenza – giochino un ruolo decisivo, ancor oggi, anche nella lotta per l’uguaglianza dei diritti fondamentali e per l’affermazione del costituzionalismo, che sono sempre e innanzitutto risultati politici, conflittuali e impastati di forza, ‘impuri’ e non assicurati in partenza, né acquisiti per sempre (Marchionne docet...). Che hanno bisogno per essere difesi di ‘soggetti portatori’, consapevoli e attrezzati. Dall’analisi svolta in questo capitolo abbiamo visto come il moderno ‘ordine della sopravvivenza’ – il grado zero dell’ordine – si riempia dei contenuti di senso determinati dalle istanze di riconoscimento (di bisogni, ruoli sociali, interessi e diritti) e dalla proliferazione di identità, complicandosi, incamerando inevitabilmente un tasso di conflittualità, ma anche arricchendosi di risorse di legittimazione plurime e più spesse. Abbiamo anche mostrato come in Hegel sia ben presente il ‘momento hobbesiano’, e anzi l’istituzionalizzazione della ragione politica nello Stato moderno rappresenti la forma compiuta della ‘seconda natura’ e dell’eticità, ma il suo sforzo ulteriore sia quello di andare a scavare nell’agire dei soggetti e nell’intersoggettività che a partire dall’azione – cioè dall’uscita fuori di sé, dall’auto-determinazione in un contenuto concreto – si determina per far emergere già lì l’elemento ‘eticopolitico’. A differenza di altre teorie o ricostruzioni che nell’ordine sociale vedono o qualcosa che viene dall’alto (un dono che ci dobbiamo preparare a ricevere come verità già data ed esterna all’artificio umano) o un mero processo spontaneo (magari legato alla dinamica di bisogni puramente ‘privati’). Insomma, tanto in Hobbes, secondo quella diversa strategia che è rappresentata dal contratto, quanto e soprattutto in Hegel, attraverso una strategia più complessa, genealogica e ricostruttiva, c’è l’idea che la politica sia auto-trascendenza dell’immanenza, uno ‘scarto’ inscritto nella ‘natura innaturale’, al contempo difettiva individualmente e produttiva di ‘protesi’ collettive, del genere umano. La mia tesi è che tra ‘sopravvivenza’ e ‘riconoscimento’ vi sia un nesso ineludibile, che si colloca all’origine della presa che la

II. Identità e riconoscimento

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politica esercita sull’esperienza umana. Sopravvivere, ed essere riconosciuti, sono congiuntamente i due lati di una sfida politica originaria (una sorta di Ur-Politische), da intendersi in senso non essenzialistico, ma ‘funzionale’ (un nucleo ‘problematico’ che si manifesta in forme varie, ma a cui non ci si sottrae). Una doppia sfida che la modernità potenzia e rende visibile. Questo intreccio è avvalorato dai dati teorici che abbiamo acquisito tramite l’analisi dei due fondamentali paradigmi generativi della politica post-tradizionale (ben distinti ma confrontabili e collegati da nessi concettuali sotterranei), quello hobbesiano e quello hegeliano: il tema dell’auto-conservazione emerge sul terreno simbolico e l’ordine della sopravvivenza è imposto dall’esigenza di neutralizzare conflitti che sono di natura anche identitaria; la lotta per il riconoscimento è una lotta tanto per la vita quanto per la propria autocoscienza, che viene decisa dal prevalere dell’istanza della sopravvivenza e in questo modo crea le condizioni per l’ingresso nella dimensione politica quale spazio di trasformazione delle identità assegnate (l’esito del conflitto non crea un blocco, perché la conservazione della vita e la gerarchia identitaria che ne deriva, avendo sterilizzato la questione della lotta esistenziale e dell’ordine, innescano un processo che imporrà nuovi riconoscimenti, all’insegna dell’universalizzazione della libertà e dell’uguaglianza e della rivendicazione del diritto ad altre identità). La sopravvivenza, oggetto hobbesianamente di ‘calcolo razionale’, fornisce il presupposto senza sostanza né auctoritas precostituita dell’artificio giuridico e del potere legittimo. L’attribuzione delle identità – effetto delle spinte riconoscimentali, intrecciate a istanze di autopreservazione – implica sempre una forma di ‘trascendimento’ del piano puramente orizzontale e individualistico dei rapporti sociali. In Hegel, tale ‘scarto’ – che trova il proprio compimento nella sfera politico-statuale – si rivela già esplicitamente inscritto nella produzione della società civile (e nelle sue contraddizioni che richiedono risposte pubbliche e istituzionali): la ‘costituzione’ dell’ethos collettivo – impasto di leggi e asimmetrie, virtù e interessi – è politica. La sua declinazione attuale – per quanto accentuatamente pluralistica, aperta e integrativa, quale è tipica della nostra epoca – può prescindere da questa consapevolezza? Se la politica è la forma reciproca, comune dell’espressività umana, il prodotto dell’ambivalenza che affetta il nostro stare al

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mondo, della proiezione nella sua contingenza, è assai azzardato darla per morta: l’energia che essa esprime e allo stesso tempo prova a governare riemergerà attraverso modalità tanto inedite quanto arcaiche. Come sta già accadendo. È molto più sensato, allora, porsi l’obiettivo di una riattivazione politica della mediazione giuridica e istituzionale, per canalizzare quell’energia. Facendosi preventivamente alcune domande, però: il costituzionalismo e il cosmopolitismo giuridico attuali sono attrezzati a questo compito? Ne hanno adeguata consapevolezza politica e culturale? Bastano da soli? Questa è la grande questione che abbiamo di fronte, cui probabilmente non si può rispondere affermativamente. Il che non significa affatto che si possa (o debba) liquidare il costituzionalismo, magari con festosità irresponsabile. In fondo, l’assunzione del ‘politico’, la mossa hobbesiana, è proprio ciò che ha consentito di costruire il diritto razionale moderno (o perlomeno ne ha posto certe premesse concettuali necessarie) e di sviluppare identità post-tradizionali. Il che significa certamente che il diritto razionale non può essere troppo spoliticizzato; ma anche che liquidarne in blocco l’eredità (in nome del capitalismo estremo e missionario, della post-democrazia o della potenza della ‘moltitudine’) si porterebbe con sé la scissione definitiva tra logos e polis. C’è però bisogno di tornare a farsi carico politicamente delle regole della convivenza, di ricostruirne il sostrato civile. E a questo compito deve contribuire anche la teoria costituzionale, senza rifugiarsi nel formalismo. Tanto più oggi che sotto attacco non è solo l’universalismo ambizioso, ma la ragione giuridica in quanto tale.

III

Ostilità e diritto

1. La produttività politica dell’inimicizia Il fenomeno dell’ostilità non è solo un dato di fatto estremo, di cui in qualche modo occorre dare seriamente conto, sia sul piano internazionale che su quello interno. Esso fa emergere i presupposti politici più aspri del diritto, che ne smentiscono la presunta proprietà auto-generativa e le immagini troppo rassicuranti. È vero che – come insegnava Bobbio – il diritto ha, quale suo compito principale e imprescindibile, quello di assicurare la pace (intesa innanzitutto come ‘sicurezza’), risolvere i conflitti che la minacciano. Ma ciò non significa affatto – come Bobbio stesso ha messo in luce – che esso sia aproblematicamente ‘pacifico’, neutrale, sconnesso dalla forza1. Il diritto ordina il caos e limita la violenza, se riesce a commisurarsi a questa, assumendone all’interno del proprio dispositivo la sfida. L’ostilità è da un lato l’altro del diritto in quanto ‘ordinamento della sopravvivenza’, situazione normale. Ma dall’altro è anche la sua matrice genetica, il suo ‘problema’, non trattabile attraverso astrazioni o procedure che già presuppongono la soluzione, ovvero una pacificazione condotta con successo e di misura adeguata. L’ostilità spiega per tanti aspetti la funzione del diritto. Ciò non significa che il diritto promuova l’ostilità, perché al contrario la sua vocazione è l’ordine, ma proprio la centralità della ‘sicurezza’ e della preservazione della vita – di cui abbiamo trattato nel primo capitolo di questo libro – impongono alla forma giuridica di sporgersi sul crinale

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Cfr. N. Bobbio, Teoria generale della politica, cit., pp. 478 ss., 520 ss.

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del conflitto estremo, attrezzandosi ad esso, introiettandone la ‘lezione’. In questo capitolo ripercorrerò la concezione schmittiana del nesso ostilità-diritto, sulla base di un convincimento: Schmitt ha avuto il merito teorico di aver fissato come pochi altri lo sguardo sul ‘volto di Gorgone’ del potere e del conflitto ‘estremi’. Questo riconoscimento non implica affatto necessariamente adesione ai suoi assunti ideologici e a determinate opzioni di ‘politica del diritto’. Ma implica sapere, andando anche ‘oltre Schmitt’, che se non si vuol subire la nemesi di Gorgone, occorre conoscere il suo volto e farsene carico. Procederò quindi a una rilettura del Concetto di ‘politico’2, per poi considerare le ulteriori riflessioni schmittiane del secondo dopoguerra, in rapporto alle trasformazioni del diritto internazionale ‘post-westfaliano’. Per Schmitt, la costruzione di un concetto giuridico procede sempre dalla sua negazione3. Come mostrano esempi tratti dall’ordinamento giudiziario e dal diritto penale («un processo, in quanto controversia giuridica, è pensabile solo se viene negato un diritto. La pena e il diritto penale presuppongono non un fatto ma un non-fatto»4), non a caso quegli ambiti in cui più forte ed evidente è la connessione tra diritto e forza, giuridicità e ‘patologia’. Alla luce di tale tesi, il concetto di ‘politico’, focalizzando l’atten2 Della vasta bibliografia sul Begriff des Politischen, mi limito a citare: C. Schmitt, Der Begriff des Politischen: ein kooperativer Kommentar, a cura di R. Mehring, Akademie Verlag, Berlin 2003; C. Galli, Genealogia della politica, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 733 ss.; G. Preterossi, Carl Schmitt e la tradizione moderna, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 85 ss.; P.P. Portinaro, Materiali per una storicizzazione della coppia amico-nemico, in AA.VV., Amicus (inimicus) hostis, Giuffrè, Milano 1992, pp. 219-310; J.-F. Kervégan, Hegel, Carl Schmitt: le politique entre spéculation et positivité, PUF, Paris 1992 (in particolare, pp. 133 ss.); V. Holczhauser, Konsens und Konflikt: die Begriffe des Politischen bei Carl Schmitt, Duncker und Humblot, Berlin 1990; H. Meier, Carl Schmitt, Leo Strauss und der «Begriff des Politischen», Metzler, Stuttgart 1988; H. Hoffmann, Feindschaft – Grundbegriff des Politischen?, in Id., Recht, Politik, Verfassung, Metzner, Frankfurt am Main 1986, pp. 212 ss.; M. Schmitz, Der Freund-FeindTheorie Carl Schmitts, Westdeutscher Verlag, Köln und Opladen 1965. 3 In questo senso Schmitt risponde a Otto Brunner (la cui fondamentale impresa ‘storico-costituzionale’ molto deve alle intuizioni schmittiane), il quale gli imputava di aver assegnato un carattere concettuale ‘positivo’ solo al ‘nemico’. 4 C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, in Id., Le categorie del ‘politico’, cit., p. 95.

III. Ostilità e diritto

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zione sul ‘nemico’, vuole rappresentare solo la delimitazione, prudente e iniziale, di un preciso ambito concettuale, non uno slogan primitivo5. Attraverso di esso, Schmitt intendeva riconquistare una capacità di presa sulla realtà per la scienza giuspubblicistica, che la sottraesse ai suoi comodi, compiaciuti rifugi nell’astrattezza e nell’auto-referenzialità. Una delle mosse teoriche che Schmitt escogita per demistificare tali astrazioni dottrinali è quella di evitare la circolarità tra ‘statuale’ e ‘politico’, che aveva funzionato finché lo Stato poteva essere presupposto come un’entità non problematica. Schmitt vuole esplicitare radicalizzando quanto, finché si è data tale condizione di evidenza della statualità, era già incorporato all’interno della dottrina dello Stato moderno: il conflitto e l’unità politica. Il concetto di ‘unità politica’ intrattiene con quello di ‘Stato’ un rapporto stretto, ma non di identificazione. Si tratta di un nesso tra due paradigmi, di cui l’uno – quello dell’unità politica – è più elementare e scarnificato, l’altro – quello dello Stato (moderno) – si presenta come ‘forma’ storica concreta6. Nel primo, in evidenza sono le costanti di sfida per ogni ordine, che chiedono risposte e concretizzazioni (le quali possono variare nella loro configurazione specifica). Nel secondo, i fattori politici, giuridici e istituzionali definiscono un ‘ideal-tipo’ storicamente determinato. Insomma, per un verso sembrerebbe esservi una relazione biunivoca tra unità politica e Stato moderno (come se quella nozione generale fosse calcata sull’ideal-tipo storico, e questo rispondesse in modo compiuto, paradigmatico al problema dell’unificazione del corpo politico). Per altro verso, tale relazione mantiene un margine di oscillazione e ambiguità, che pare collocare su un piano di subordinazione lo Stato moderno (così come le altre forme storiche dell’associazione peculiarmente ‘politica’) rispetto al ‘preconcetto’ di unità politica (una sorta di ‘costante funzionale’, che permette di definire precisamente i confini di un ordinamento).

Ivi, p. 97. Cfr. C. Schmitt, Der Staat als ein konkreter, an eine geschichtliche Epoche gebundener Begriff, in Verfassungsrechtliche Aufsätze, Duncker und Humblot, Berlin 1958, pp. 375-385. Ma questo storicismo radicale schmittiano è l’altro lato di un tentativo teorico di definizione delle condizioni allo stesso tempo costanti e concrete dell’esperienza politica in quanto tale. 5 6

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Detto ciò, nella modernità lo Stato ha rappresentato effettivamente il ‘modello’ dell’unità politica, fulcro del diritto pubblico domestico e internazionale, criterio di coordinazione tra interno ed esterno. ‘Interno’ ed ‘esterno’ sussistono e sono concettualizzabili nella misura in cui si dia una qualche forma di ‘unità’ politicogiuridica, basata su una chiara distinzione tra amici e nemici. Uno dei grandi risultati dello Stato moderno è stato infatti la pacificazione interna, cioè la tendenziale eliminazione dell’inimicizia quale concetto giuridico. Tale ‘successo’ ha consentito ai massimi esponenti dell’Illuminismo giuridico di contrapporre guerra e diritto. Questa contrapposizione però ha in sé, sostiene Schmitt, il rischio di essere fuorviante. Essa si riferisce a un esito (o più precisamente a una tendenza concreta), non a un’opposizione originaria. La proscrizione giuridica dell’inimicizia (l’eliminazione della faida, che era come è noto un istituto giuridico medievale; la neutralizzazione delle guerre di religione) ha presupposto un’operazione politica sull’ostilità. Ma non il suo debellamento ‘irenico’, moralistico: anche con la modernità il fatto dell’inimicizia («la realtà per cui esiste ostilità tra gli uomini»7) ha trovato – non poteva non trovare – il suo spazio deputato. Per Schmitt è soprattutto la politica estera a rappresentare lo strumento pertinente ai fini della ‘messa in forma’ del ‘politico’: una sorta di ‘istituzionalizzazione’ chiamata per ruolo ad affacciarsi sull’eccezione ‘esterna’, sull’anarchia internazionale, essendone al contempo fattore attivo e disciplinatore. Il suo ‘primato’ presuppone e allo stesso tempo riproduce quel livello di strutturazione minima possibile del conflitto estremo che, colto dal modello hobbesiano delle relazioni internazionali, precipita storicamente nel sistema degli Stati sovrani europei sancito con la pace di Westfalia. Quel modello, anarchico perché privo di potere ‘terzo’, concentra l’ostilità attribuendone l’esercizio legittimo ai titolari della sovranità e la confina fuori dello Stato; questa valvola di sfogo esterna viene a rappresentare una sorta di corrispettivo funzionale della pace sociale interna. In questo senso tradizionale, è del tutto conseguente che la ‘grande’ o ‘alta’ politica sia appunto (e possa solo essere) la politica estera, il livello in cui le ragioni 7

C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., p. 96.

III. Ostilità e diritto

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dell’unità, della sua auto-conservazione (anche espansiva), che definisce e gerarchizza le solidarietà interne, si manifestano prevalendo su tutte le altre. In tale modello di ‘gestione’ dell’ostilità, che attraverso la sua esternalizzazione crea un terreno interstatale e coloniale del ‘politico’, specifico e particolarmente intenso, trova la propria radice quel paradigma della ‘politica di potenza’, che non è certo derubricabile a Sonderweg tedesco, a deriva esclusiva dell’Impero guglielmino, perché ha riguardato il modo di comportarsi di tutte le potenze europee tra Ottocento e Novecento, seppure ciascuna con le sue forme e modalità peculiari. Naturalmente, tale modello classico non è più proponibile in termini di jus publicum europaeum e di ‘diritto statuale esterno’, sia perché l’Europa è stata da tempo detronizzata politicamente, sia perché l’intreccio di spirito commerciale, tecnica e politica ha sfondato i confini dell’equilibrio territoriale europeo, basato peraltro sull’asimmetria coloniale con il resto del mondo. Il nemico si è fatto, con la crisi senza superamento del Moderno, ‘interno’ o più propriamente ‘transfrontaliero’: nel Novecento in quanto connesso a un internazionalismo ‘ideologico’ e ‘di classe’, oggi perché legato a uno scontro identitario presuntamente ‘religioso’ e ‘di civiltà’. Detto ciò, è significativo come nella prassi e nel linguaggio politico contemporaneo formule come ‘sicurezza nazionale’, ‘interessi geopolitici’, ‘immunità militari’, ‘non ingerenza negli affari interni’, vigano ancora e anzi incontrino una rinnovata fortuna. Da un lato sembrerebbe di essere di fronte a ‘retaggi’. Dall’altro, un’analisi realistica non può ignorare come gli elementi decisivi connessi alla sovranità politico-militare abbiano dominato ampiamente la politica delle grandi potenze dal 1948 ad oggi e abbiano conosciuto nell’ultimo ventennio, dopo le iniziali illusioni su ipotetici ‘governi mondiali’, una inattesa intensificazione (ciò che vale non solo per gli Stati Uniti, ma anche per la Russia, la Cina, nel teatro mediorientale Israele ecc.). Quei fattori di ‘confinamento immunitario’ costituiscono, da un lato, l’eredità spesso velenosa della tradizione moderna del ‘politico’, attraverso cui si tenta di rigenerare le risorse simboliche di legittimazione proprie della ‘politica di potenza’ in chiave contemporanea, anche nelle democrazie pluraliste: i ‘nuovi fini’ degli Stati costituzionali di diritto – connessi al discorso dei diritti, a politiche sociali integrative, alla cooperazione internazionale – sono così destinati, in fasi

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di crisi acuta dello scenario politico ed economico internazionale che alimentano esigenze di rassicurazione interna, a essere messi fortemente sotto pressione dal riuso (reale o fittizio, fondato o strumentale, poco importa) del ‘primato della politica estera’ come politica di difesa/offesa. Dall’altro lato, il fatto che la ‘grande politica’ sia stata aggiornata in chiave globalistica (come guerra ‘globale’ o ‘umanitaria’ o ‘preventiva’) rappresenta una distorsione che estremizza la natura sregolata del ‘politico’ (ormai privato di ‘forma’, di vocazione ordinante), svincolandolo dai limiti realistici determinati dal confronto di soggetti territoriali plurali dotati di pari dignità e legittimazione. Ciò determina, in un certo senso, uno scarto di paradigma, una iper-sovranità agita in modo fantasmatico e incoerente con le proprie premesse ‘hobbesiane’ di sistema. Non a caso, militarizzazione della decisione e inefficacia, eticizzazione delle relazioni internazionali e de-giuridificazione8 sono andate di pari passo nel recente, fallimentare ciclo neo-conservatore americano, da taluni inteso troppo semplicisticamente come ‘schmittiano’, in realtà leggibile criticamente, in chiave demistificante, attraverso Schmitt, ma certo non conseguente a una progettualità politica coerentemente ispirata al suo pensiero9. Ma vediamo più da vicino i tratti decisivi che caratterizzano la distinzione schmittiana ‘amico-nemico’. Essa rappresenta un ‘criterio’ concettuale, non una qualificazione contenutistica. È autonoma, cioè non necessita di altri ambiti (morale, economico, estetico ecc.) per fondarsi e operare. Il senso dell’amico-nemico consiste nella sua capacità di segnalare l’intensità di un’associazione o di una dissociazione, e il nesso strutturale tra questi due movimenti. Ciò significa che le unioni – e le separazioni – che si determinano in virtù della possibilità dell’ostilità sono costitutivamente diverse da qualsiasi altra forma di associazione e differenziazione umana. Quindi, il ‘segreto’ della politicità – ciò che ci fa avvertire, magari confusamente, che un club, un’associazione sportiva o una corporazione sono cosa diversa dalla ‘politica’ in 8 Cfr. J. Habermas, L’Occidente diviso, trad. it. a cura di M. Carpitella, Laterza, Roma-Bari 2005. 9 Sui rischi insiti in un’applicazione meccanica e strumentale delle categorie giusinternazionalistiche schmittiane alla politica ‘globale’, cfr. C. Galli, Lo sguardo di Giano. Saggi su Carl Schmitt, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 129 ss.

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quanto tale – consiste per Schmitt, in ultima istanza, nella possibilità dell’ostilità di essere un (‘il’) criterio di identificazione collettiva trascendente tutti gli altri10. Il nemico – dice Schmitt – è l’altro, l’estraneo (der Fremde). Si tratta di una condizione esistenziale, concreta, ma non di un’essenza ‘etnica’ (almeno così sembra seguendo il senso del discorso di Schmitt e la sua stessa auto-comprensione, anche se permangono dei margini di ambiguità): chiunque può essere – diventare – l’altro, in ragione del tipo di conflitto che con lui si instaura. Se non è neutralizzabile in termini giuridici, se non è interno a un ordine prestabilito e come tale si mantiene, il conflitto è ‘politico’ in senso forte, estremo: è un rapporto con l’alterità. Ma tale alterità ci appartiene (anche se Schmitt è assai parco quando si tratta di trarre da tale visione conseguenze in termini di identità personale e intersoggettività, spingendosi su un piano psicologico o morale: nel Glossarium è possibile leggere la celebre massima secondo cui «il nemico è la nostra peculiare questione in figura»11, ma lo Schmitt giurista e politologo non punta esplicitamente nella sua argomentazione su tale sfondo ‘etico-esistenziale’, forse anche per una sorta di pudore teorico). Tale coappartenenza funzionale dei ‘nemici’ è resa evidente non solo dal fatto che altrimenti non si potrebbe definire la condizione di ‘amicizia’12, il precipitato interno dell’alterità. Ma anche dal fatto che si tratta, in tutta evidenza, di un movimento biunivoco: ognuno, ogni raggruppamento è, reciprocamente, l’altro di un altro. E quello che vale per una parte può essere affermato con altrettanta certezza formale per l’altra. Siamo cioè di fronte a un gioco a specchi, per certi aspetti simile 10 Come afferma efficacemente Schmitt nella Teoria del partigiano (frutto di due conferenze tenute nel 1962 in Spagna, e concepita da Schmitt come una «integrazione al concetto del Politico»), «l’essenza del Politico non è l’inimicizia pura e semplice, bensì la distinzione fra amico e nemico, e presuppone l’amico e il nemico» (C. Schmitt, Teoria del partigiano, trad. it. a cura di A. De Martinis, con un saggio di F. Volpi, Adelphi, Milano 2005, p. 127). 11 «Der Feind ist unsere eigene Frage in Gestalt» (C. Schmitt, Glossarium, Duncker und Humblot, Berlin 1991, p. 247). 12 Per un’impostazione che muove dall’amicizia politica in funzione di un’altra idea e pratica della politica, ma vede lucidamente la costitutività legittimante per il diritto del nesso ostilità-violenza-ordine e l’implicazione possibile tra fratellanza e inimicizia, cfr. J. Derrida, Politiche dell’amicizia, trad. it. a cura di G. Chiurazzi, Cortina, Milano 1995.

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alla lotta delle autocoscienze hegeliana, salvo che Schmitt si vieta – ovviamente – qualsiasi approfondimento in chiave di filosofia dello Spirito di tale conflitto per l’identità. L’alterità dell’estraneo viene ‘decisa’: non basta, perché si carichi polemicamente, che sia una condizione statica, ‘data’. E tale decisione non può che essere ‘esistenziale’, cioè presa da chi è parte in causa sul terreno concreto del conflitto: solo se questi decide che l’altro rappresenta una minaccia alla propria forma di esistenza, scatta polemos. Il ‘politico’ in questo senso è quasi inafferrabile: un movimento, una dinamica priva di contenuto concreto che porta all’estremo. Schmitt, nel suo sforzo costante e per certi aspetti disperato, destinato al fraintendimento, di evitare al suo concetto di ‘politico’ cortocircuiti ideologici o moralistici e sovrapposizioni contenutistiche, sottopone il ‘criterio’ a una tale curvatura volontaristico-formale, che da un lato ascrive pienamente il ‘politico’ al Moderno (al suo nucleo artificialista), dall’altro lo sottrae – almeno dal punto di vista concettuale – alle mitologie völkisch su ‘terra e sangue’. Il prezzo di tale impostazione – che è poi il motivo del successo teorico del criterio amico-nemico e del suo persistente interesse – è che esso a tratti sembri oscillante, indeterminato, non vincolabile semanticamente, eppure in grado di produrre il vincolo teorico-politico prioritario e generale: apparentemente chiarissimo da un punto di vista formale, capace di grande presa su ogni ‘effettualità’, proprio per questo è come se spiegasse troppo, come se fosse un meccanismo concettuale potente e rarefatto sconnesso dalle concrete esperienze storicopolitiche, dalle diverse forme specifiche di integrazione sociale, e tuttavia loro precondizione. Insomma, un indicatore di ‘energia politica’: ciò che resta – una ‘mobilitazione’ dei concetti, un ‘potenziamento’ dei soggetti – una volta che la dimensione politica non possa che essere pensata modernamente, ‘senza Sostanza’. Concretezza, esistenzialità, intensità, estremità, originarietà – ma anche formalità (in senso non procedurale, bensì anti-sostanzialistico) – rappresentano le caratteristiche peculiari di ciò che è ‘politico’. Esso, anche quando sembra declinato in chiave universale, o connotato emotivamente, costituisce una ‘presa di posizione’ determinata, che colloca, identifica e riorienta per il solo fatto di sussistere l’intero scacchiere delle forze, influenzando l’auto-posizionamento degli altri soggetti: «I concetti di amico e

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nemico devono essere presi nel loro significato concreto, esistenziale, non come metafore o simboli; essi non devono essere me­ scolati e affievoliti da concezioni economiche, morali o di altro tipo, e meno che mai vanno intesi in senso individualistico-privato, come espressione psicologica di sentimenti e tendenze private. Non sono contrapposizioni normative o ‘puramente spirituali’»13. Concretezza e ‘forma’ vanno di pari passo. Non sono i contenuti ‘generali’ a determinare la politicità, ma l’orientamento polemico, l’atteggiarsi ‘tellurico’, non importa in base a quali ‘ragioni’. In questo senso, il ‘politico’ – soprattutto in un mondo senza ­auctoritas – ha in sé un germe potenzialmente nichilistico, perché non incorpora né presuppone alcun ethos oggettivo, ma solo una dinamica ‘antropologica’ produttiva di sensi e forme specifiche non preordinabili. Allo stesso tempo, rispetto a tale spinta distruttiva alla totalizzazione e allo svuotamento, offre un ‘salvagente’ ancorante interno, proprio in virtù della sua aspra ‘serietà’, dell’esperienza di apertura sull’estremo che gli è implicita e che svela il bisogno e la possibilità del ‘limite’ (concreto), del ‘confine’ che ordina. Il ‘politico’ schmittiano è quindi un’ipotesi sull’umano: non una sua definizione metafisica, certo, ma l’assunzione realistica di un condizionamento costante dei raggruppamenti umani, diventato esplicito ed evidente con la crisi della modernità. Il concetto di nemico e quello di lotta non hanno un significato astratto, ma «si riferiscono alla possibilità reale dell’uccisione fisica»14. In questo senso, la guerra costituisce il presupposto della politica. Ciò non significa affatto che la condizione normale e costante della politica sia la guerra, ma che la sua possibilità rea­le non è mai escludibile dall’orizzonte politico e dalla sua comprensione consapevole e memore. Anche la neutralità è a suo modo una presa di posizione, ciò che indica l’impossibilità di schermarsi ‘assolutamente’ rispetto alla logica del conflitto, che ci trascende in quanto singoli. L’assunto ‘filosofico’ fondamentale di Schmitt (anche se non presentato come tale e anzi evitato in quanto tesi ‘metafisica’) è l’impossibilità di ‘superare’ culturalmente l’ostilità, l’impossibilità di una civilizzazione che renda disponibile alla ra13 14

C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., p. 110. Ivi, p. 116.

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gione etico-giuridica il nucleo ‘problematico’ che allo stesso tempo rende necessaria e vincola all’elementare la razionalità politica. Per Schmitt il ‘politico’ non è un progetto, un’ideologia (militaristica, bellicista ecc.), ma un ‘fatto originario’, o meglio l’ipotesi minima e non trascendibile se si vuole cogliere la costitutività del ‘fatto politico’. In questo senso è ‘criterio’, e non ‘essenza’ (differentemente dalla curvatura teorica sviluppata da Julien Freund15); anche se si tratta di un criterio fatto apposta per qualificare una ‘condizione’, che non costituirà un’essenza, ma certo si presenta come una ‘costante funzionale’ (esattamente come l’unità politica): così che una certa ambivalenza ermeneutica sul suo ‘statuto’ – ontologico o meno – è presente già in Schmitt (nonostante tutti i suoi tentativi di sottrarsi a tale rischio ‘essenzialista’). Il ‘politico’ presuppone l’esperienza di una ‘radicalità esistenziale’, che nell’ottica schmittiana è l’unico criterio autentico, non venato di moralismo e strumentalizzazioni, di integrità etico-politica. Non basta che si diano contrapposizioni e contrasti, occorre che essi siano ‘seri’, cioè devono potersi spingere all’estremo del sacrificio personale. Il ‘politico’ è una lotta che non può escludere di mettere in gioco la vita e la morte, il rischio ‘fisico’. In questo senso è vero che, da una parte, dal punto di vista delle mentalità, dei quadri ideologici, sembra narrare di un vecchio mondo ‘patriottico’ e ‘nazionale’, sostanzialmente perduto (anche se di recente, dopo la caduta dell’equilibrio bipolare, risuscitato reattivamente in chiave di micro-nazionalità e neo-tribalismi etnici). Ma, dall’altro, è appunto la matrice persistente e incattivita da cui riemergono gli spettri della violenza (devastanti e ben poco eroici, in quanto sempre più mediati dalla tecnica), della paura per la minaccia all’integrità del proprio mondo (magari disgregato e anomico, ma ricompattabile fantasmaticamente come ‘comunità’ di fronte al pericolo), del lutto da rivendicare, della retorica della vita – o del way of life da difendere – come fonte di potenziamento e auto-autorizzazione ‘morale’. La cifra del ‘politico’ è la sua consequenzialità, una serie di inerenze semplici che talvolta sembrano delineare quasi una forma di tautologia e circolarità semantica. Lo stesso ‘gruppo politico’ 15 Cfr. J. Freund, L’Essence du politique (1965), Dalloz, Paris 2004; di J. Freund, si veda anche Il terzo, il nemico, il politico. Materiali per una teoria del politico, ed. it. a cura di A. Campi, Giuffrè, Milano 1995.

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è contenuto a se stesso, è auto-definito dalla propria politicità, ovvero dall’essere – e percepire se stesso – come gruppo che ha un comportamento e una conoscenza concreta della situazione aperta al conflitto decisivo, discriminante rispetto a tutti gli altri (che è un conflitto per essere ancora se stessi, per persistere in quanto gruppo). Il ‘politico’ è un’auto-identificazione senza contenuto (o meglio, in cui il contenuto non è determinante e può essere ideo­ logicamente vario, purché si leghi all’integrità del ‘collettivo’). Per Schmitt un mondo senza tali tipi di appartenenze e tali valvole di sfogo per la conflittualità sarebbe un mondo ‘senza politica’, mitemente diabolico, da non augurarsi mai. Non esistono, se non nell’apparenza di situazioni tranquille, che non sono in grado di prodursi e sostenersi da sole, associazioni politiche di matrice puramente individualistica e pacifica. Qui si radica il paradosso, l’auto-contraddizione del liberalismo (ma anche la sua forza seduttiva, perché in generale gli uomini preferiscono non curarsi della realtà politica e godersi una ‘serena sicurezza’, se possono). Esso presuppone, per vigere e funzionare, una certa dose (magari ridotta al minimo, ma necessaria) di ‘stato di eccezione’, soprattutto di fronte a conflitti sociali aspri o a scontri geopolitici, che entra in rotta di collisione con la sua ‘metafisica spontaneistica’, incapace di rendere conto dell’unità politica, assumendone fino in fondo e in modo teoricamente consapevole gli oneri. In realtà, politica per Schmitt è solo la ‘comunità’ (in quanto unità ‘decisa’, volontarismo auto-finalizzato): «In verità non esiste nessuna ‘società’ o ‘associazione’ politica, ma solo un’unità politica, una ‘comunità’ politica. La possibilità reale del raggruppamento di amico e nemico è sufficiente a costituire, al di sopra del semplice dato associativo-sociale, un’unità decisiva che è qualcosa di specificamente diverso e insieme di decisivo nei confronti delle altre associazioni»16. L’amico-nemico è in ultima istanza l’unico possibile contenuto ‘minimo’ e ‘certo’ della comunità, che viene così azzerata in quanto integrazione etico-sociale stabile e ridotta a concetto polemico. Tali assunti spingono Schmitt a liquidare tendenziosamente ogni forma di solidarismo sociale prodotto per via politica, come ovviamente il pacifismo tout court, anche nelle sue 16

C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., p. 128.

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versioni realistiche e istituzionali. Infatti i pacifisti, nel momento in cui volessero fare sul serio, diverrebbero ‘polemici’, finendo per confermare la ‘logica del politico’, anche se credendo di liberarsene in una sorta di ‘guerra finale contro tutte le guerre’: «Se l’opposizione pacifista alla guerra fosse tanto forte da poter condurre i pacifisti in guerra contro i non pacifisti in una ‘guerra contro la guerra’, in tal modo si otterrebbe la dimostrazione che tale opposizione ha realmente forza politica perché è abbastanza forte da raggruppare gli uomini in amici e nemici. Se la volontà di impedire la guerra è tanto forte da non temere più neppure la guerra stessa, allora essa è diventata un motivo politico, essa cioè conferma la guerra, anche se solo come eventualità estrema, e quindi il senso della guerra»17. Il politico è un destino da cui non ci si libera. E se si tenta di farlo è peggio: si finisce per confermarlo a caro prezzo. Per quanto il modo schmittiano di impostare il problema del rapporto guerra-pace paghi dazio a una certa semplificazione, anche per una sorta di gusto cinico della scarnificazione morale e del rovesciamento paradossale che delegittima le migliori intenzioni, svelandone il veleno inatteso, tuttavia Schmitt un punto di grande rilievo teorico lo coglie: anticipando lucidamente certe tendenze attuali, evidenzia i rischi e le derive insite nella moralizzazione anti-politica della guerra, in nozioni quali guerra ‘umanitaria’ e ‘in nome dell’umanità’, come se fosse possibile una guerra ‘definitiva’ e moralmente ‘assoluta’. Si delinea così la fisionomia di una ‘guerra non guerra’ a priori giustificata, che si può permettere il lusso morale di de-umanizzare perché veramente ‘umana’: «Tali guerre sono necessariamente particolarmente intensive e disumane poiché, superando il ‘politico’, squalificano il nemico anche sotto il profilo morale come sotto tutti gli altri profili e lo trasformano in un mostro disumano che non può essere solo sconfitto ma dev’essere definitivamente distrutto, cioè non deve essere più soltanto un nemico da ricacciare nei suoi confini. Dalla possibilità di tali guerre appare in tutta chiarezza che la guerra come possibilità reale esiste ancor oggi, il che è importante per la distinzione di amico e nemico e per la comprensione del ‘politico’»18.

17 18

Ivi, p. 119-120. Ivi, p. 120.

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Il riferimento alla difesa/definizione dei confini consente a ­ chmitt di rivendicare19 una nozione ‘misurata’ di ostilità, funzioS nale all’unità politica, contrapponendola a un concetto ‘assoluto’ di nemico – sconfinato, sradicato, senza vincoli realistici –, e perciò dalla valenza polemica illimitata. Un’ostilità, questa, allucinatoria, pericolosa perché intensamente polemogena e discriminatoria, e allo stesso tempo inefficace, incapace di fare ordine assumendo i vincoli della cultura del limes. Il ‘buon’ nemico, schmittianamente, non può che essere il nemico ‘pubblico’, il quale implica un’appartenza collettiva e una conflittualità la cui valenza non sia riducibile ad affare ‘personale’ o ‘morale’. L’offuscamento di tale ‘pubblicità’, e la progressiva dilatazione/indistinzione dei confini, dei profili della conflittualità – determinati dal globalismo moralistico e tecnocratico – non significa affatto il tramonto dell’ostilità, ma al contrario la sua diffusione e intensificazione. Tra criterio del ‘politico’, decisione e unità politica vi è un nesso di implicazione. Quel criterio indica infatti il grado di intensità di un’associazione (e di una dissociazione), tale da assorbire i motivi ‘non politici’ che determinano le altre forme di associazione e contrapposizione (religiose, culturali ecc.). Le ragioni di tale solidarietà interna non sono indagate da Schmitt. Il nemico ‘esterno’ svolge perfettamente la funzione di compattare in modo ‘immediato’ – quasi fosse una ‘briscola’20 che viene calata sul tavolo della paura –, senza dover mettere a tema le sedimentazioni di senso e le cristallizzazioni di interessi attraverso cui si costruisce realisticamente l’integrazione in società pluralistiche. Il ‘popolo’ è il soggetto-di-volontà dell’unità politica. Il popolo è allo stesso tempo volontà di unità, oggetto di questa volontà e contenuto unico dell’unità: si evidenzia qui (anche al di là dello specifico schmittiano) la circolarità politica del popolo in ogni discorso di legittimazione ‘democratico’ o post-tradizionale (su cui tornereIn particolare nella nota 25, aggiunta all’edizione del 1963 del Begriff. Differentemente da quello che pensa Dworkin, a mio avviso purtroppo la vera ‘briscola’, la carta decisiva nel campo politico, soprattutto quando le ansie di sicurezza non sono tenute sotto controllo e diventano anzi terreno per la costruzione di egemonie neo-autoritarie, non sono i diritti, ma la paura verso ciò che ci minaccia e per questo ci è ‘nemico’ (vero, presunto o impastato di realtà e fiction che sia il pericolo). 19 20

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mo nel prossimo capitolo). Ora, il problema è che, per funzionare, tale circolo rivela sempre in sé la tendenza a produrre un ‘Altro’ semplice: il nemico. Così, la finzione dell’unità del popolo che la decisione invoca e di fatto presuppone (per produrla forzosamente), in sé ben poco realistica, è una carta tendenziosa che effettivamente può consentire al potere, in contesti difficili, di aggirare le mediazioni e imporre il terreno riduzionista del ‘politico’ quale pura ostilità produttrice di forma, giocando il tutto per tutto. È un gioco rischioso, che spesso deve ‘inventare il nemico’ e addirittura criminalizzarne uno ‘interno’, quando le ragioni della disgregazione sono endogene, ma che se riesce consente di ridefinire i contorni della legittimità, agganciandola definitivamente al potere che ha scelto di spingersi sul crinale della coppia ‘amiconemico’, riattivandone la funzione ‘costituente’. L’identificazione del ‘nemico interno’ è funzionale, in situazioni critiche, al bisogno di pacificazione. La decisione sovrana e/o costituente, punto cieco e fondativo dell’ordinamento, si nutre dell’ostilità (interna) e la trasforma, neutralizzandola, nella principale risorsa di legittimazione. Schmitt delinea21 una contratta quanto tendenziosa sequenza di esempi della ricorrente funzio­ ne ‘produttiva’ del ‘nemico interno’: in Grecia, la decisione popolare seguente alla cacciata dei Quattrocento nel 410 a.C., che identificava in chiunque fosse ostile alla democrazia ateniese un ‘nemico’ degli Ateniesi; a Roma la dichiarazione di hostis; le prassi intensamente polemiche e discriminatorie dei giacobini, che collocano hors-la-loi i nemici del popolo francese, sulla base di una inesorabile deduzione: la volontà del popolo, una volta manifestatasi (attraverso i suoi interpreti autentici), si identifica con la sovranità stessa e definisce i confini della legittimità (tutto ciò che le è contrario è esterno ad essa e può essere trattato, in quanto estraneo, solo con la spada: non sono possibili terreni comuni di pacificazione). Così come, ed è un esempio chiave, estremamente rivelatore, quando si tratta di eretici: in tali casi, innumerevoli nella storia europea, l’espulsione dalla ‘comunità di pace’ avviene anche solo sulla base della logica del sospetto, ovvero della mancanza presunta di sentimenti pacifici negli ere21

Cfr. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., pp. 130-131 (nota 32).

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tici. Significativamente, Schmitt pone sullo stesso piano tanto gli appartenenti a determinate religioni quanto gli aderenti a ‘partiti’ (ideologici), nella presunzione di pericolosità, ennesima conferma di una lettura della crisi del Novecento tutta condotta alla luce del paradigma delle guerre civili di religione, di una connessione tra esito e origine. L’eretico è costitutivamente una sfida per l’ordine, anche se sembra comportarsi pacificamente: in realtà, in quanto eretico, non può essere pacifico (Schmitt cita qui una massima del De una et diversa religione di Nicolas de Vernuls, 1646). L’irriducibilità esistenziale, che in questo contesto Schmitt coglie e sottolinea con inquietante acutezza, fa dell’eretico il paradigma dell’insidia interna di chi defeziona in nome dell’attaccamento alla propria autenticità, al proprio ‘dio’ refrattario alle mediazioni istituzionali. È anche attraverso questo passaggio paradossale – di assolutizzazione di un ‘senso’ interiorizzato e di apertura al diritto di conversione – che salta l’ordine ontologico pre-moderno. La soggettivazione della Sostanza, che lacera e disgrega il m ­ ondo tradizionale (aprendo lo spazio delle libertà soggettive e della società civile) passa inizialmente, pagando un alto prezzo, anche dal­l’ostinazione che custodisce e rivendica gelosamente se stessa e i propri convincimenti in rapporto a un ‘dio’ esclusivo, intimo, e in connessione con tali ‘stati devozionali’22 si soggettivizza. Non a caso, nella lettura di Schmitt, la forza della neutralizzazione hobbesiana consisteva nel suo essere una risposta reattiva all’altezza di tali dinamiche disgregative e assolutizzanti, che ne assumeva il dato di fatto, comprendendone la logica, e allo stesso tempo lo sterilizzava. La sovranità è stata efficace e ancora politicamente nitida, incorrotta, fino a quando ha consentito un contenimento politico di quelle soggettivazioni, costruendo solo libertà private e spoliticizzate: il godimento ‘proto-liberale’ della vita tranquilla e della prosperità non poteva implicare conseguenze collettive, erosioni e defezioni ‘pubbliche’, cioè un protagonismo del ‘foro interno’ auto-espansivo. Un ‘freno’ che ha finito per essere vittima delle conseguenze sociali del proprio successo. Non a caso, nel 1963 Schmitt aggiunge alla nota 32 che stiamo analizzando un 22 Cfr. A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta e altri saggi, Feltrinelli, Milano 1993.

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riferimento alla tesi elaborata da Koselleck in Kritik und Krise (fortemente debitrice della lettura schmittiana della modernità e in particolare di Hobbes), che riconduce la logica politica della Rivoluzione francese a quella delle guerre civili di religione. Acutamente Schmitt vede qui il nesso stringente tra la costruzione dello Stato di Rousseau e quella di Hobbes, entrambe centrate sulla nozione di unità politica e sulla proiezione all’esterno del nemico (la volontà generale non è null’altro che questa unità identica a se stessa, l’auto-riferimento di un’universalità politicamente deter­minata). La guerra civile è la guerra dell’intolleranza: l’ordine moderno il suo rovescio. Un costrutto che si realizza grazie alla canalizzazione istituzionale e all’esternalizzazione di quella logica ‘assoluta’ dell’auto-identificazione – che è in definitiva il ‘politico’ –, compresa e utilizzata come ‘farmaco’. Dall’analisi delle caratteristiche che definiscono il ‘politico’ Schmitt deriva il carattere necessariamente ‘pluriverso’ della politica (internazionale). Il mondo è ‘striato’. Se da un lato la radicalizzazione insita nel concetto del ‘politico’ presuppone la crisi dell’aggancio completo della politica allo Stato e una sorta di rie­ splicitazione polemica di un’energia che altrimenti risulterebbe offuscata, dall’altro l’assetto che il Begriff ricostruisce e mira a legittimare è ancora quello per ‘unità politiche’. Esse non saranno più ‘westfaliane’, perché le condizioni storiche e i presupposti socio-culturali sono drasticamente mutati, ma il vincolo che la distinzione amico-nemico impone determina comunque una pluralità di soggettività politiche sulla scena internazionale irriducibili le une alle altre23. Infatti quello di umanità non è un concetto ‘politico’ (se non in senso indiretto e opaco, o quale strumento di espansione imperialista). Così come l’idea di uno Stato mondiale è una contraddizione in termini, la pretesa di ordinare politicamente la negazione del ‘politico’: «Se uno ‘Stato mondiale’ comprendesse il mondo intero e l’intera umanità, esso non sarebbe più un’unità politica e potrebbe essere chiamato Stato solo per modo di dire. Se l’intera umanità e il mondo intero venissero riuniti di fatto sulla base di un’unità solo economica e tecnico-commerciale, ciò non costituirebbe più un’‘unità sociale’, allo stesso modo 23

Cfr. C. Schmitt, Il concetto di ‘politico’, cit., pp. 137-138.

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come non costituiscono ‘unità’ sociale gli abitanti di un casamento o gli utenti del gas di una medesima fabbrica o i viaggiatori del medesimo autobus»24. Il criterio del politico serve a ‘salvare’ la nozione di unità politica, sottraendosi alla tenaglia tra Stato continentale europeo (in crisi) e Stato mondiale (sintomo e mezzo di un’impostazione ideologica che nell’ottica schmittiana produce la crisi). L’universa­lismo spoliticizzato si riduce a un’utopia spontaneistica, che lungi dall’abolirli occulta i reali rapporti di potere: «È però facile chiedersi a quali uomini toccherebbe il potere che è legato ad una centralizzazione economica e tecnica estesa a tutto il mondo. Non si può certo rispondere a questa domanda sollevando la speranza che in tal caso tutto ‘andrebbe da sé’, che le cose ‘si amministrerebbero da sé’ e che sarebbe superfluo un governo di uomini sopra altri uomini, poiché allora gli uomini sarebbero assolutamente ‘liberi’: infatti ciò che ci si chiede è proprio per che cosa essi diventano liberi»25. Lo Stato mondiale – o, più propriamente, un ordinamento omogeneo del globo, alla Kojève – per Schmitt è volontà di potenza senza soggettività, senza possibilità di rapporto con l’Altro. 2. Oltre il diritto eurocentrico Per quanto già nel Concetto di ‘politico’ Schmitt abbia colto lucidamente i prodromi della crisi dello jus publicum europaeum e della politicizzazione dell’umanità, è solo con il saggio sul passaggio al «concetto discriminatorio di guerra» del 193826 e poi, più sistematicamente, con il Nomos della Terra27, che le conseIvi, p. 142. Ivi, p. 143. 26 Cfr. C. Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra, trad. it. e cura di S. Pietropaoli, Prefazione di D. Zolo, Laterza, Roma-Bari 2008. 27 Sulla teoria giusinternazionalistica di Schmitt, anche nell’ottica delle sue possibili applicazioni alla politica globale e al diritto internazionale contemporaneo, cfr. K.J. Shapiro, Carl Schmitt and the Intensification of Politics, Rowman and Littlefield, Lanham 2008; The International Political Thought of Carl ­Schmitt, a cura di L. Odysseos e F. Petito, Routledge, London-New York 2007; H. Kleinschmidt, Carl Schmitt als Theoretiker der internationalen Beziehungen, Studien zur internationalen Politik, Heft 2, Institut für internationale Politik, Hamburg 2004; M. Koskenniemi, The Gentle Civilizer of Nations, Cambridge 24 25

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guenze per il diritto internazionale classico dell’avvento delle nuove guerre novecentesche – e della loro paradossale ideologia anti-bellica – vengono colte in tutta la loro portata. È da notare, tra l’altro, che nel 1963 Schmitt, rileggendo il Begriff, qualifica la guerra discriminatoria quale guerra tout court ‘rivoluzionaria’28, avendo in mente le guerre ‘internazionaliste’ in nome della ‘Giustizia’, che segnano l’epoca della ‘guerra civile ideologica’. Ma tale tratto ‘assoluto’ della guerra post-classica, al di là dello specifico riferimento alle ideologie rivoluzionarie del Novecento, si presta, più in generale, a qualificare ogni guerra combattuta in nome di un’etica sradicante, anche quando si presenta in versione mite e liberal, quale guerra per la pace e la libertà. Nel Nomos della Terra Schmitt chiarisce esemplarmente il ruolo giocato dallo Stato moderno quale forza portante (per quanto non esclusiva e in concorrenza con altre, ma in definitiva dotata di spinta propulsiva prevalente) nella definizione di un nuovo modello di diritto internazionale di natura ‘interstatale’. Si trattava di un diritto ‘europeo-moderno’, che si affrancava ‘concettualmente’ dal paradigma della ‘guerra giusta’, di eredità medievale, così come dalla tradizione romanistica. Tale mutamento di paradigma fu possibile sulla base di un assetto territoriale che consentì un ordinamento spaziale concreto, basato sull’equilibrio tra gli Stati in Europa, avendo sullo sfondo gli immensi spazi liberi del Nuovo Mondo, aperti alla conquista e allo sfruttamento perché collocati al di fuori delle regolarità interne dello jus publicum europaeum29. Esso rappresentò certamente un significativo esempio di ‘razionalizzazione possibile’ – cioè una forma di effettiva limitazione della violenza – ma sulla base di una netta asimmetria tra spazi europei ed extra-europei. Anche questa ricostruzione – che da un lato valorizza il portato ‘progressivo’ del diritto westfaliano e dall’altro ne vede le implicazioni e i costi – conferma come per University Press, Cambridge 2002 (in particolare, pp. 415-437, 453-454, 459465). Sul concetto di nomos, cfr. anche P.P. Pattloch, Recht als Einheit von Ordnung und Ortung, Pattloch, Aschaffenburg 1961 e P.P. Portinaro, Appropriazione, distribuzione, produzione, Franco Angeli, Milano 1983; sulla dottrina dei ‘grandi spazi’, R. Voigt, Grossraum-Denken, Steiner, Stuttgart 2008. 28 Cfr. la nota 36 del Concetto di ‘politico’, cit., p. 135. 29 Cfr. C. Schmitt, Il Nomos della Terra, ed. it. a cura di E. Castrucci e F. Volpi, Adelphi, Milano 1991, p. 163.

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Schmitt, non senza motivi ed esempi eloquenti, ogni razionalizzazione politico-giuridica si basi sempre su un cospicuo fondo di ‘non-ragione’, in questo caso di violenza conquistatrice e brama appropriativa. Uguaglianza e disuguaglianza si intrecciano e presuppongono anche nel diritto moderno, poiché vincolate a un doppio livello di inclusione/esclusione, interno/esterno: quello tra gli Stati, e quello che definisce una linea divisoria tra spazi europei e non-europei, al fine di preservare l’eurocentrismo e di consentirne, per certi aspetti contraddittoriamente, almeno per i suoi effetti ‘detronizzanti’ sul lungo periodo, la proiezione ‘oceanica’. Tale doppio livello dello jus publicum europaeum, terrestre e marittimo, politico-territoriale e commerciale, era implicito nel rapporto – problematico ma costitutivo – tra sovranità continentali e potenza insulare inglese. Nell’ambito di quella che Schmitt non esita a chiamare la ‘famiglia’ degli Stati europei, il passaggio dalla guerra ‘giusta’ al nemico ‘giusto’ (ovvero quello legittimo, statuale, incardinato a uno spazio pubblico esclusivo) si accompagna alla deteologizzazione dei conflitti e alla loro ‘messa in forma’. Schmitt ricorda come già nel Medioevo, pur in presenza di un’autorità spirituale comune e universalmente riconosciuta, si palesasse la possibile connessione tra guerra ‘giusta’ e guerra ‘totale’: il Concilio Lateranense del 1139, che aveva vietato l’uso di armi distruttive (per l’epoca) quali frecce e macchine a lunga gittata tra principi e popoli cristiani, tentando apparentemente una limitazione della violenza, venne contraddetto nella sua interpretazione applicativa, che prevedeva una deroga nel caso di ‘guerra giusta’ (cioè nel caso che una ‘parte’ si ritenesse e accreditasse nel ‘giusto’)30. Le guerre confessionali dei secoli XVI e XVII porteranno alle estreme conseguenze tali germi, trasformando la guerra giusta, inevitabilmente soggetta a dinamica di assolutizzazione, in guerra civile. Naturalmente, la guerra tra Stati non era priva di violenza e di potenzialità di distruzione. Tuttavia, il fatto che essa fosse vincolata ad un’unica soggettività agente, a eserciti identificabili, a chiare distinzioni territoriali, a un monopolio della politicizzazione che escludeva mobilitazioni indirette in nome della verità, cioè col30

Ivi, pp. 164-165.

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locate al di fuori del circuito della responsabilità politica diretta sintetizzata dal criterio ‘protego ergo obligo’, ne ridimensionava la carica polemica, mantenendola a quel livello di bassa tensione permanente che, come sappiamo, nell’ottica schmittiana non può né deve essere considerata eliminabile. Solo l’unità (costruita) che nega le parti ‘totali’, assumendosi l’onere di disarmarle materialmente e ideologicamente, può costituire un ‘freno’. La nozione di guerra che Schmitt difende è una sorta di ‘resto’ – in qualche modo funzionale a uno sfogo ‘misurato’ dell’ostilità – che non è qualificabile né come guerra di religione e di fazione, né come guerra coloniale, anzi è reso possibile e acquisisce il suo senso ‘giuridico’ proprio dalla loro esclusione. Escludendo dall’orizzonte del ‘politico messo in forma’ le discriminazioni totalizzanti (i nemici come ‘criminali’, ‘pirati’, i popoli indigeni come ‘selvaggi’), si crea in Europa lo spazio concreto e simbolico per un concetto di nemico «capace di assumere una forma giuridica»31. Sviluppan­do un’analogia perlomeno singolare, anche se suggestiva, tra guerra moderna e duello (classico prodotto della civiltà tradizionale dell’onore), Schmitt intende sottolineare come la ‘personalità fittizia’ degli Stati, il loro essere incardinati in persone fisiche (i sovrani) che rappresentano ‘persone pubblico-morali’, consente un confronto e un conflitto tra ‘partner’ che non implica la demonizzazione del ‘nemico’: «Là dove il duello viene riconosciuto come istituzione, la giustizia di un duello consiste proprio nella netta separazione della justa causa dalla forma, dell’astratta norma di giustizia dall’ordo concreto. Un duello, in altre parole, non è giusto per il fatto che in esso vince sempre la giusta causa, ma perché nella tutela della forma sono assicurate determinate garanzie»32. La giustizia delle guerre non è più inquadrabile nell’ottica teologico-morale della colpa, non è un problema di ‘contenuti’. Le uniche guerre ‘giuste’ sono quelle condotte da nemici ‘giusti’, cioè ‘legittimi’ titolari dello ius belli, nell’ambito di un sistema complessivo ed egualitario di reciprocità, non derogabile né delegittimabile unilateralmente. I soggetti del diritto internazionale hanno nello jus publicum europaeum la qualità ‘istituzionale’ e ‘strutturale’ di ‘entità politiche’, 31 32

Ivi, p. 166. Ivi, p. 167.

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che ne consente la connessione agli altri attori ‘analoghi’ del diritto internazionale, fornendo un realistico vincolo minimale, escludendo la qualificazione del conflitto bellico in termini di tradimento e criminalizzazione33. Tale ‘evidenza pubblica’ delle soggettività politiche internazionali è per Schmitt un’esigenza strutturante ineludibile, da adempiere nuovamente anche dopo la crisi del diritto eurocentrico, nelle forme possibili. Schmitt non si limita a cogliere il dato ‘formale’ insito nel concetto di sovranità e la ‘geometria’ che consente, ma li problematizza in chiave spaziale. Quello dell’auto-obbligazione e dei trattati è un filo sottile, di per sé non sufficiente a spiegare il funzionamento effettivo dell’ordinamento internazionale europeo-moderno. Come nello ‘stato di eccezione’ interno sussiste ancora un minimum di Recht, di ordinamento, sebbene il diritto in senso normativistico (Gesetz) sia sospeso, così lo stato di natura interstatale infraeuropeo è anarchico34 (nel senso che non c’è un’autorità terza e superiore), ma non privo di diritto35. Schmitt adotta la stessa logica tutte le volte in cui si concentra sulle situazioni-limite: tende il filo 33 Ancora in questo luogo, attraverso l’elegante riferimento al duello e la critica della criminalizzazione dell’iniziatore di una guerra quale ‘aggressore’, Schmitt non rinuncia a difendere la Germania portando una stoccata – seppur indiretta – alle potenze ‘liberali’ vincitrici della prima guerra mondiale, artefici delle accuse ai suoi occhi odiose, ipocrite e strumentali rivolte al Kaiser Guglielmo II in quanto presunto ‘unico’ responsabile del conflitto, nel tentativo di sottoporlo a un processo per crimini di guerra. Dimenticando però che la portata totale di una guerra ‘mondiale’ non consente agevolmente di intendere l’inizio di una guerra di tale entità – di chiunque sia la responsabilità – come l’atto di uno ‘sfidante’. In ogni caso, sulle effettive aporie della giurisdizionalizzazione della politica e della storia, cfr. A. Demandt, Processare il nemico, ed. it. a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 1996; H. Quaritsch, Giustizia politica: le amnistie nella storia, ed. it. a cura di P.P. Portinaro, Giuffrè, Milano 1995; D. Zolo, La giustizia dei vincitori, Laterza, Roma-Bari 2006; O. Marquard, A. Melloni, a cura di, La storia che giudica, la storia che assolve, Laterza, Roma-Bari 2008. 34 Sul modello ‘anarchico’ delle relazioni internazionali, che per certi aspetti sembra proiettare su scala mondiale il paradigma ‘hobbesiano’ dello jus publicum europaeum, sottovalutando le sue precondizioni politico-istituzionali e geopolitiche, che Schmitt mette in evidenza, cfr. il già citato studio di H. Bull, The Anarchical Society. Per un’analisi del concetto di guerra e delle sue trasformazioni fortemente debitrice nei confronti di Schmitt, ma di uno Schmitt letto alla luce della nozione di ‘società anarchica’ alla Bull, cfr. S. Pietropaoli, Abolire o limitare la guerra?, Edizioni Polistampa, Firenze 2008. 35 Cfr. C. Schmitt, Il Nomos della Terra, cit., p. 173.

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della giuridicità fino all’estremo, ma senza spezzarlo (o almeno tale è la sua rivendicazione). Ciò consente di guadagnare non solo un altro sguardo sui meccanismi interni al giuridico, smontandoli, ma proprio un altro ‘concetto di diritto’, intrinsecamente ‘politico’. Tale politicità è connessa a una determinazione per ‘confini’ precisi di uno spazio relativamente omogeneo, «sullo sfondo di immensi spazi aperti dotati di un particolare tipo di libertà»36 (ovvero, di una libertà diversa da quella possibile entro lo spazio europeo, una libertà ‘naturale’ espressiva di un’energia che di fatto può dispiegarsi senza vincoli). La ‘forza vincolante’ è propria dell’ordinamento spaziale eurocentrico, e i sovrani sono compresi all’interno di esso: lo spazio europeo concretamente ordinato – e asimmetrico rispetto al suolo non europeo – funge da ‘presupposto’del diritto interstatale. Addirittura, Schmitt si spinge a sottolineare, non senza contraddizioni, dopo aver ripetutamente insistito sulla tabula rasa dell’ordine pre-moderno determinatasi con le guerre di religione e la crisi della Respublica christiana, come sussistessero ancora, nel sostrato dello jus publicum europaeum, forti vincoli tradizionali (di natura ecclesiastica, sociale ed economica)37, alleggerendo la portata volontaristica implicita nel modello dell’auto-obbligazione incardinato sulla sovranità (o di una sua lettura puramente formale). Se in Teologia politica e nel Concetto di ‘politico’ il presupposto è decisionistico e agonistico, nello Schmitt del secondo dopoguerra il nomos assorbe il ‘politico’. Non si tratta di rovesciamenti o opposizioni, ma di due diverse sottolineature e accentuazioni del rapporto perennemente costitutivo tra decisione e ordinamento, volontà e radici, ostilità e spazialità. A Weimar, la produttività dell’origine è data dall’assenza di Fondamento. Nel Nomos della Terra, l’accento è sul ‘radicamento’ (per quanto portatore di un carico asimmetrico ‘fondante’). La scoperta della funzione radicante dello spazio38 per i raggruppamenti umani, la consapevolezza della necessità realistica di ‘linee di amicizia’ che governino l’ostilità, hanno consentito a Ivi, p. 175. Ivi, p. 174. 38 Sulla costitutiva ‘spazialità’ della politica, cfr. C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Il Mulino, Bologna 2001. 36 37

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Schmitt di cogliere con profetica acutezza, per contrasto, la crisi del mondo globale che stiamo vivendo, o perlomeno la sua logica tendenziale: «Se le armi sono in modo evidente impari, allora cade il concetto di guerra reciproca, le cui parti si situano sullo stesso piano. È infatti proprio di tale tipo di guerra il fatto che si dia una certa determinata chance, un minimo di possibilità di vittoria. Se questa viene meno, l’avversario diventa soltanto oggetto di coazione. Si acuisce allora in misura corrispondente il contrasto tra le parti in lotta. Chi è in stato di inferiorità sposterà la distinzione tra potere e diritto negli spazi del bellum intestinum. Chi è superiore vedrà invece nella propria superiorità sul piano delle armi una prova della sua justa causa e dichiarerà il nemico criminale, dal momento che il concetto di justus hostis non è più realizzabile»39. Le conseguenze del potenziamento dei mezzi di annientamento e dello sradicamento spaziale della guerra, gli effetti della combinazione tecnica-finanza-industria bellica, l’ascesa concomitante di un’ideologia opacamente discriminatoria, hanno aperto lo scenario di una inusitata e per ora non ordinabile distruttività. Il vero rischio per l’umanità contemporanea è rappresentato dalla combinazione, che corrisponde a una logica ineluttabile, tra distruttività assoluta e assoluta delegittimazione, perché una forma politicamente realistica e quindi in qualche modo delimitata di ostilità non è in grado di sostenere le implicazioni ‘spirituali’ – in termini di mentalità e auto-rappresentazione – determinate dalla potenza delle nuove tecnologie militari: «armi extraconvenzionali presuppongono uomini extraconvenzionali... L’estremo pericolo non risiede perciò neppure nell’esistenza dei mezzi di annientamento o in una premeditata malvagità dell’uomo. Risiede nella ineluttabilità di un obbligo morale. Gli uomini che adoperano simili mezzi contro altri uomini si vedono costretti ad annientare questi altri uomini – cioè le loro vittime e i loro oggetti – anche moralmente. Devono bollare la parte avversa come criminale e disumana, come un disvalore assoluto. Altrimenti sarebbero essi stessi dei criminali e dei mostri... L’inimicizia diventa così terribile che forse non è più nemmeno lecito parlare di nemico e inimicizia; entrambi questi concetti sono addirittura condannati e banditi formalmente 39

C. Schmitt, Il Nomos della Terra, cit., p. 430.

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prima che possa cominciare l’opera di annientamento... Solo la sconfessione della vera inimicizia spiana la strada all’opera di annientamento di una inimicizia assoluta»40. Si delinea così la figura conturbante di un nuovo nemico ‘oltre l’inimicizia politica’, ‘oltre il politico passibile di messa in forma’: una sorta di Altro assoluto e post-politico, de-soggettivato in quanto mero ‘oggetto’ meritevole di annichilimento etico-tecnologico, condannato necessariamente a soccombere, ad essere inerme di fronte a chi ha i mezzi per distruggere sottraendosi alla qualificazione di ‘parte in causa’, di attore (con e come gli altri) di un conflitto a cui si appartiene. Nel mondo contemporaneo i nemici sono contemporaneamente interni/esterni; la distinzione tra criminale e nemico è divenuta labile; le guerre si sono fatte ‘asimmetriche’, sia nel senso della disparità abissale di forza tecnologica ed economica tra le parti, sia nel senso di una qualificazione ‘moralistica’ priva di reciprocità che distingue, il più delle volte strumentalmente, tra guerre (quelle degli altri) e operazioni di polizia (quelle delle grandi potenze mondiali); i civili – come già annunciato dalle due guerre mondiali – sono sempre più gli ‘oggetti reali’ delle forme attuali della violenza bellica, i cui effetti sui ‘non militari’ non sono residuali o collaterali, ma strutturali (l’arte della guerra non è oggi concettualizzabile se non come produzione del ‘terrore’ in quanto tale). In una prospettiva schmittiana ‘critica’, per arrestare tale deriva occorre ricostruire le condizioni materiali e politiche della reciprocità politica (intesa non in senso idealistico, ma come articolazione concreta e bilanciamento di grandi ordinamenti spaziali). Schmitt chiude Il Nomos della Terra riprendendo l’esempio eloquente, cui abbiamo già fatto riferimento, del divieto delle armi a distanza varato dal secondo Concilio Lateranense. L’interpretazione della Glossa che ne tradisce l’istanza di limitazione della violenza, in nome del diritto della parte che si ritiene nel giusto a usare ogni mezzo efficace contro la parte ‘ingiusta’, sembra, dice Schmitt, «di fatto inconfutabile e fa riconoscere un nesso essenziale»41. Con questa sintetica notazione, Schmitt vuole ancora una volta mettere in guardia dallo scivolamento sul piano 40 41

C. Schmitt, Teoria del partigiano, cit., pp. 130-131. C. Schmitt, Il Nomos della Terra, cit., p. 431.

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inclinato della de-territorializzazione e moralizzazione dell’ostilità. Non è possibile alcuna dimostrazione incontrovertibile, alcun vincolo argomentativo quando le ‘ragioni etico-polemiche’ definiscono l’identità di una ‘parte assoluta’. Tale violenza senza radicamento spaziale, tale ostilità senza diritto perché pretende di averne troppo, serba una tendenza esponenziale e inarginabile. L’unico modo per fermarla è romperne la logica, delegittimarla complessivamente, reagire all’omologazione della Terra. Schmitt ci mostra, sgradevolmente ma con validi motivi, che non si può rimuovere l’ipoteca dell’ostilità, né essere amici di tutti. Tuttavia, la sfida per un pensiero democratico né astratto né irresponsabile è quella di provare a immaginare – al di là delle ossessioni schmittiane – un’amicizia politica che guardi in faccia i conflitti, accetti l’irriducibile pluralità del mondo, ma non trovi la sua unica ragione di esistenza nel ‘nemico’.

IV

Popolo e populismo

1. Il concetto politico di popolo Quello di ‘popolo’ è un concetto ambiguo, un contenitore di significati spesso incerti e in contraddizione tra di loro1. E tuttavia, sarebbe illusorio pensare di liberarsene (tanto più all’interno di un orizzonte di senso ‘democratico’, o che come tale si percepisce, per quanto genericamente). Tutti i tentativi di pensare la politica e la democrazia ‘senza il popolo’ (sostituendolo con il pluralismo sociale, i corpi intermedi, le istituzioni di garanzia ecc.) sono destinati a scontrarsi con delle obiettive controindicazioni: innanzitutto, l’accusa di elitarismo (lo schema secondo il quale diffida del popolo chi lo teme e magari mira ad ingannarlo); inoltre, la rinuncia onerosa all’energia politica e al surplus di legittimazione che il riferimento ‘popolare’ assicura. Infine, la difficoltà di sostituire a questa nozione dalle valenze più ‘mitiche’ che descrittive un equivalente altrettanto carico di forza simbolica (quella della sovranità popolare che ha preso il posto del potere monarchico) e capace di sintetizzare, catalizzandola, l’eredità storica delle rivoluzioni moderne. Proprio guardando a questa eredità storica, e all’orizzonte teorico definito dal razionalismo politico-giuridico,

1 Sul concetto di popolo nell’esperienza politica occidentale, mi limito a segnalare: R. Bendix, Re o popolo. Il potere e il mandato di governare, trad. it. a cura di G. Rigamonti, Feltrinelli, Milano 1980; P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, 4 voll., Laterza, Roma-Bari 1999-2002; P. Rosanvallon, Il popolo introvabile. Storia della rappresentanza democratica in Francia, trad. it. a cura di A. De Ritis, Il Mulino, Bologna 2005; L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2004.

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è possibile delimitare una nozione politica di popolo (connessa a quella di ‘potere costituente’ e al processo di istituzionalizzazione/limitazione della sovranità popolare che da esso origina). Il popolo in senso politico non è un dato puramente naturalistico o etnico. Potranno ovviamente ben esserci elementi culturali comuni (la lingua, i costumi, la letteratura ecc.), peraltro sempre frutto di trasformazioni, intrecci e contaminazioni ‘artificiali’, via via stabilizzatisi nel tempo. Ma questi elementi debbono essere mobilitati politicamente, perché il ‘popolo’ si percepisca e operi come un ‘soggetto politico’. Il popolo è una moltitudine trasformata – attraverso un meccanismo di unificazione – in ‘matrice’ di un ordine determinato (ciò non significa che non ci siano più differenze al suo interno, ma che sono relativizzate e ricomprese in un quadro cooperativo comune). La stessa tendenza alla ‘naturalizzazione’ del popolo – presente ad esempio nel pensiero romantico, o in maniera ancor più insidiosa nelle mistiche novecentesche del ‘sangue’ e della ‘terra’, che oggi ritornano – non è mai politicamente innocente, essendo il più delle volte funzionale ad alimentare polemicamente un’identità ‘pura’ e ‘chiusa’, magari fragile ma che si pretende rigida. Quindi, i fattori che vengono attivati prevalentemente nella politicizzazione di un popolo (tradizionalisti o razionalisti, legati a un oscuro sostrato etnico o a una volontà che si costituisce come libera e consapevole) incidono fortemente sul tipo di ‘popolo’ – o meglio di auto-percezione che ne struttura la soggettività politica – che ‘fonda’ e sorregge un ordine, determinandone in ultima istanza la fisionomia costituzionale. Insomma, è vero che il ‘popolo’ non esiste. Che è una costruzione. Ma si tratta di una costruzione straordinariamente produttiva di effetti politici. E, soprattutto, funzionalmente necessaria in democrazia. Ciò significa che non convince la pretesa di ricondurlo a una concezione atomistica, come sommatoria di individui (e dei loro diritti2). Una mossa teorica motivata dalla comprensibile preoccupazione di neutralizzarne le possibili derive ‘assolute’ (la volontà generale può tutto perché esprime l’unità del popolo) o populiste (il potere del Capo non può essere limitato né discus2 Un punto di vista che è assunto anche da L. Ferrajoli in Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. 1. Teoria del diritto, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 386-391, 929.

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so perché ‘riflette’ il popolo, il quale per definizione ‘ha sempre ragione’), ma che rischia di rimuovere o fraintendere alcune questioni di fondo. Innanzitutto, la politicità di questi individui è determinata su quali basi? Qual è il loro rapporto con la comunità politica che li identifica come cittadini? Si tratta di un nesso puramente formale e scarnificato, che non ha bisogno di uno specifico legame e di un concreto radicamento? Se non si danno dei criteri di appartenenza politica che trascendono l’individuo astratto, in che senso un insieme di individui costituisce un ‘popolo’? Non c’è un peculiare plusvalore attribuibile all’esperienza politica in comune di quegli individui, fondata su un’auto-consapevolezza, su una condivisione minima identificante che vada al di là degli orientamenti individuali (pur in sé legittimi)? Se la societas civilis si riduce a un pulviscolo puntiforme, in che senso, allora, un ordine politico è qualcosa di diverso da una qualsiasi associazione costituita per fini particolari? In realtà, anche una comunità politica pluralista e democratica, quindi non basata su un’omogeneità sostanziale (etnica, religiosa, ideologica ecc.), implica una qualche forma di trascendenza del particolare nel generale, una consapevolezza comune e duratura della propria dimensione collettiva. Ogni ordine – anche quello liberaldemocratico erede della modernità, che è tanto individualista quanto generatrice di legami sociali post-tradizionali – è inderivabile da individui pre-politicamente considerati (i quali, peraltro, esattamente come il ‘popolo’, non sono un dato astratto e pre-costituito, ma un risultato di processi di auto-costituzione e riconoscimento reciproco, già in sé intrisi di politicità, come si è messo in evidenza nel terzo capitolo di questo libro; e quando vengono pensati come ‘originari’, è per ragioni polemiche rispetto all’idea del primato della comunità ‘naturale’). Considerata questa comune matrice artificiale dei soggetti individuali e collettivi, non è casuale che nella costruzione dell’ordine moderno e nei suoi discorsi di legittimazione intervenga sempre, in modo esplicito o come ‘traccia’, un elemento ‘rappresentativo’ di connessione tra molteplicità e unità, che fa ordine ponendosi in relazione diretta o indiretta con l’energia politica che proviene dal basso, e con i bisogni essenziali che la alimentano. Gli individui debbono essere integrati in un soggetto che li trascenda ‘rappresentandoli’: ciò implica una scelta selettiva di istanze (materiali e simboliche), che sarà certamente parziale e contestabile, ma

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che avanza con efficacia una pretesa ‘rappresentativa’ generale. In sostanza, il circuito popolo-istituzioni è sempre costruito e si presta a usi ambivalenti. Ma è inaggirabile, perché anche l’ordine democratico non sarà mai il semplice specchio delle preferenze di individui giustapposti e politicamente scollegati. Dunque, il popolo è il simbolo post-tradizionale dell’energia politica, di quanto conferisce legittimità ed è efficace concretamente, in un mondo che non è più un cosmo etico oggettivo e perciò non può essere vincolato a ‘sostanze’ e autorità immutabili. In quanto soggetto del potere costituente, è irriducibile ai poteri costituiti e agli organi dello Stato, e proprio questa ‘eccedenza’ lo rende fonte (sempre riattivabile) di plusvalore politico3. Il popolo serba quindi in sé un potenziale polemico. Nelle democrazie, esso può e deve essere frenato, incanalato, ma non può essere neutralizzato una volta per sempre e del tutto. Quindi è illusorio, e perciò perdente, proporsi tale obiettivo. La ‘pericolosità’ del popolo (può essere eversivo, antigiuridico, rendersi disponibile ad avventure) è l’altro lato della sua forza legittimante e del dinamismo che grazie ad esso (o a sue ‘parti’ motivate che si pongono come rappresentative del ‘tutto’) si può immettere in sistemi politici stanchi e immobili, determinando il riconoscimento di istanze precedentemente negate. La stessa storia dell’affermazione dei diritti è per larga parte una storia di lotte di popolo, di avanguardie popolari in grado di imporre nella sfera pubblica certi temi. Quindi, con il popolo (soprattutto con gli ‘appelli al popolo’) bisogna stare in guardia, ma se si vuole fare politica non si può prescinderne, né guardare in chiave puramente negativa la spinta che da esso può venire. Ma come può un popolo farsi Stato? All’epoca dello Stato liberale ‘monoclasse’4, il problema (quasi) non si poneva: i cittadi­ ni attivi politicamente erano solo quelli appartenenti ai ceti di ‘proprietà’ e ‘cultura’5. Il popolo era allora strutturalmente una ‘grandezza negativa’, gli esclusi6. Quando però, con l’emergere

3 Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione, trad. it. a cura di A. Caracciolo, Giuffrè, Milano 1984, p. 318. 4 Riprendo qui l’efficace formula coniata da Massimo Severo Giannini. 5 Secondo la definizione felice di un grande giurista tedesco, Rudolf Gneist, volta a tratteggiare il modello dello Stato di diritto ottocentesco. 6 Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., p. 318: «Popolo sono – in

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della società industriale di massa, quella ‘grandezza negativa’ si è riattivata, attingendo all’eredità radicale delle rivoluzioni settecentesche e collegandola con le lotte del mondo del lavoro salariato, il problema dell’integrazione delle masse nell’ordine politico e di una sua nuova fisionomia si è posto con forza: in fondo il Novecento è stato dominato per gran parte dall’esigenza, assai problematica da realizzare, di trovare una forma stabile ai regimi politici di massa, che potesse dirsi democratica e pluralista. A lungo, il passaggio allo Stato ‘pluriclasse’ e il suo consolidamento è stato caratterizzato dalla necessità di far convivere pacificamente, attraverso un compromesso efficace e non dilatorio di interessi e ideali, blocchi di società divisi e contrapposti tra di loro, ma al loro interno omogenei. In Italia l’esistenza di identità politiche forti e diverse ma disposte a identificarsi nei principi costituzionali comuni, oltre alla capacità dei ‘partiti’ e delle altre organizzazioni di massa di costituire una ‘membratura’7 della società, hanno per un quarantennio consentito al ‘popolo’ – meglio, alle ‘forze’ popolari – di farsi Stato, di riconoscersi nella Costituzione e nelle istituzioni. Oggi il quadro è profondamente mutato. Ma non solo dal punto di vista degli attori politici. Ad essere cambiata è anche la materia sociale che deve essere integrata. Non si tratta più di mettere insieme ciò che è compatto ed esprime una soggettività politica, perché ha un’identità percepita come chiara e prevalente (e il problema è allora quello delle alleanze e del conseguimento di un equilibrio, che di volta in volta potrà essere riformista o conservatore). Il ‘popolo’ è adesso soprattutto un pulviscolo di individui-atomi tendenzialmente impauriti, che si percepiscono in balia di qualcosa di più grande di loro (gli automatismi della globalizzazione economico-finanziaria, i fenomeni migratori), minacciati da identità ‘altre’, esse sì compatte, prima lontanissime e oggi invece assai prossime, e tenuti insieme virtualmente dalla ­ ossibilità narrazione televisiva, la cui fruizione non crea alcuna p di legame sociale attivo. È quindi molto più difficile integrare deuno speciale significato della parola – tutti quelli che non sono eccellenti e distinti, tutti i non privilegiati, tutti quelli che non sono posti in risalto dalla proprietà, dalla posizione sociale o dall’educazione». 7 Riprendo qui il termine – Gliederung – utilizzato da Hegel nella Filosofia del diritto per tratteggiare l’organizzazione istituzionale della ‘società civile’.

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mocraticamente il popolo, e tanto più far leva su di esso per un cambiamento, perché mancano i soggetti attivi e collettivi della mediazione politica. Certo, apparentemente l’ordine sociale non sembra a rischio. Ma il prezzo del quietismo che domina, ad esempio, l’Italia, anche di fronte a evidenti eccessi del potere e a cedimenti rispetto a determinati standard essenziali di civiltà giuridica, è la resezione o la marginalizzazione tacita di tutto ciò che metta in discussione criticamente la finzione narrativa del nuovo potere ‘ultra-democratico’. Un potere che discrimina, gerarchizza le differenze naturalizzandole, in nome dell’uguaglianza democratica. Un potere ‘al di sopra’, proprio perché pretende di esserci intimo, invasivamente familiare. Il popolo rischia così di tornare ad essere una ‘grandezza negativa’ silente, espropriato di fatto della sua ‘energia politica’ erosiva, paradossalmente nel momento della sua massima celebrazione ‘populista’. Il problema è che il popolo ‘funziona’ proprio perché è un significante ambivalente al massimo grado, che sintetizza due principi politici contraddittori ma inscindibili: è allo stesso tempo ‘identità’ (e questo senso di fusione, di comune e uguale appartenenza ne fa un potente attivatore emotivo della politica), e ha bisogno di ‘rappresentazione’ (tutto il popolo non potrà mai essere contemporaneamente presente in pubblico: quindi è un’assenza, che il potere ‘democratico’ rende presente). Il potere nel rito democratico è ‘visibile’. Il corpo politico in quanto tale no. La dialettica che così si instaura da un lato rende strumentalizzabile il popolo in quanto organismo e fine (la sua ‘salute’ è quella del corpo politico) da parte del potere, dall’altro impone a quest’ultimo di confermarsi sempre come ‘forza autentica’ in sintonia con la ‘pienezza assente’ della comunità, con un’istanza identitaria che, per sua natura, è politicamente condizionante ma istituzionalmente inattingibile. Tradizionalmente, chi o ciò che ‘rappresenta’ deve esprimere sempre una forma di ‘altezza’, di auctoritas, come aveva ben colto Schmitt: «Qualcosa di morto, qualcosa di scadente o privo di valore, qualcosa di basso, non può essere rappresentato. Ad esso manca la specie sviluppata di essere che è capace di una progressione nell’essere pubblico di un’esistenza. Parole come grandezza, altezza, maestà, gloria, dignità e onore cercano di cogliere questa particolarità dell’essere accresciuto e capace di rappresentazione (Repräsentation). Ciò che serve solo agli affari ed interessi privati, può essere

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delegato; può trovare suoi agenti, avvocati ed esponenti, ma non è rappresentato in un senso specifico»8. La riproduzione di tale ‘altezza’ della rappresentazione nelle democrazie di massa comporta però un dispositivo complicato che contemporaneamente deve sacralizzare il potente, reiterarne il culto (possibilmente senza intralci ‘eretici’), ma anche avvicinarlo al suo popolo, rendendolo familiare, contiguo: Padre e Fratello9. Nella sua versione populista, il cortocircuito ‘identificazione-rappresentazione’ assicura ai consociati un ritorno simbolico, una paradossale gratificazione che depriva di potere reale ma restituisce un senso di appartenenza e l’illusione di essere attratti nella sfera della visibilità. In quanto permette di sentirsi ‘accresciuti’ e allo stesso tempo ‘gregari’, ‘compensati’ per così dire nella propria qualità: il soggetto della rappresentazione – quell’immagine che si spende, che si offre – è visibile fondamentalmente perché ci si specchi in lui. È come se dicesse: tu sei me, e attraverso di me migliore. Rappresentanza, quindi, non tanto come proiezione nelle istituzioni di istanze collettive, ma soprattutto come ‘messa in scena’ dell’immaginario comune tanto al potere quanto ai soggetti che vi si identificano. Ma che succede se l’unica modalità per preservare la legittimità della ‘rappresentazione’ (nella sua modalità populistico-mediatica) è quella della sacralizzazione del ‘privato’ del potente (la ricchezza, la famiglia, gli interessi personali, la sessualità)? Qui si apre una grave contraddizione, perché è l’idea stessa di ‘pubblico’ che viene sovvertita: la ‘pubblicità’ da sfera pubblica si fa spot (e gossip ad uso del potente). Ci sarà ancora spazio per ‘rappresentare’, proseguendo su questa strada? E un corpo sociale narcotizzato dallo svuotamento della rappresentanza, dalla sua privatizzazione, fino a quando sarà ancora capace di un’esistenza politico-democratica? 2. L’uso populista del popolo Alla luce di quanto abbiamo detto finora, dovrebbe essere chiaro come il popolo – quella parte di società che riesce ad accreditarsi C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., p. 277. Cfr. E. Laclau, La ragione populista, ed. it. a cura di D. Tarizzo, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 56. 8 9

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o viene accreditata come ‘rappresentativa’ della massa indistinta – sia sempre oggetto di una narrazione sociale e ‘protagonista’ – più o meno attivo – dell’immaginario politico che essa contribuisce a determinare. Il problema, oggi, è che questa narrazione è soprattutto ‘televisiva’. Ed è una narrazione fondamentalmente ‘emotiva’. Naturalmente, gli elementi emotivi ci sono sempre stati nei grandi racconti politico-ideologici. Ma da un lato erano mediati con quelli razionali, dall’altro erano legati a fattori simbolici capaci di durata, basati su una memoria condivisa e su un investimento fiduciario progettuale, non effimeri e soggetti alla rotazione consumistica e pubblicitaria, come avviene invece nel caso delle identità popolari televisive. Nel caso del ‘popolo televisivo’10, decisiva non è la mobilitazione consapevole, l’interazione attiva nell’ambito della sfera pubblica, popolata da soggetti e movimenti collettivi, ma la disponibilità docile e generica, passiva e privatizzata, ad essere mobilitati ‘a casa propria’: la consegna a un potere personalistico che si appella al (suo) popolo, offrendo una sorta di fusione immediata con la propria biografia e il proprio corpo (sono uno di voi, e allo stesso tempo uno che ce l’ha fatta: una sorta di ideale del Noi consumistico). Questo cortocircuito tra ‘capo’ e ‘seguito’ in versione mediatica, mentre azzera la cittadinanza come spazio di concreta azione politica e dibattito pubblico, perversamente crea l’illusione di una partecipazione al ‘sogno’, grazie a cui la ‘gente’ conterebbe davvero, a prescindere dai giudizi argomentati e dal consenso informato sul merito delle questioni pubbliche. Qui nasce la ‘nuova legittimità’ che il ‘paradigma Berlusconi’ minacciosamente rivela, il cui significato generale va al di là della sua avventura politica. 10 Chi sostiene che la televisione non conta, o non ha capito nulla, o è cinicamente in malafede. Del resto, non si capirebbe tanto accanimento nel controllarla, e nel cancellare le poche voci ‘diverse’ (che non occultano la realtà sgradita), se non contasse. Peraltro, il ruolo della televisione nella costruzione, ad esempio, dell’immaginario populista di destra, è fondamentale non solo né tanto nelle trasmissioni di informazione, ma soprattutto in quelle apparentemente impolitiche (talk show pomeridiani, reality ecc.) che contribuiscono ad alimentare un senso comune perfettamente funzionale all’immaginario politico berlusconiano. La televisione generalista incide come nessun altro mezzo di comunicazione o agenzia formativa su quel livello pre-politico, su cui si fonda e di cui si alimenta una democrazia.

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Nella fuga dalla complessità della politica e delle questioni che è chiamata ad affrontare, si apre lo spazio del populismo, che risponde a un bisogno di politica «negato». Il leader populista esprime una sorta di ‘verticalità’ stemperata, di ‘trascendenza’ familiare e amichevole: sono anti-elitario, i ‘poteri forti’ mi ostacolano, e per questo la mia ‘potenza’, per quanto debordante, è come se fosse la vostra. Comando, e godo, per voi. Un’appropriazione caricaturale, un vero e proprio rovesciamento, della grande promessa partecipativa implicita nella democrazia: la fine dell’opposizione governanti-governati, la possibilità di riconoscimento popolare in ciò che i ‘governanti’ e le classi dirigenti fanno, la limitazione dell’invadenza politica dei poteri indiretti, soprattutto economici, non legittimati e non controllabili dal basso. Se non se ne immagina un’altra di risposta, che sappia assumere anche, almeno in parte, le esigenze emotive implicite nelle attese e nelle dinamiche delle società democratiche di massa, mediando passioni e razionalità, anzi ripoliticizzando le passioni, è difficile evitare il successo dell’opzione puramente populista. Il populismo è un sintomo. La questione di fondo è il destino del ‘politico’ – come rapporto istituzioni/popolo, potere pubblico/potenza economica, universalità/contingenza – nelle democrazie attuali. Come si è già accennato prima, negli Stati costituzionali di diritto europei della seconda metà del Novecento – e anche in Italia, fino al crollo del sistema dei partiti tradizionali –, è stata soprattutto l’esistenza di forze politiche popolari e strutturate (disposte a investire nella funzione integrativa e modernizzatrice dello Stato sociale) a evitare lo slittamento populista della politica democratica, svuotando i potenziali serbatoi di consenso dell’antipolitica. Quelle forze rappresentavano infatti bisogni e speranze in una sintesi complessa – tanto razionale quanto emotiva, tanto realista quanto progettuale –, finendo per svolgere anche una funzione pedagogica, ‘formativa’. Oggi è legittimo chiedersi se, in una fase in cui il ‘soddisfacimento dei bisogni’ si rideclina in sollecitazione di desideri (di consumo), le risorse per le politiche sociali si riducono costantemente e la proposta politica si risolve sempre più spesso in offerta pubblicitaria, sia ancora possibile una politica non populista. E in quale direzione, secondo quali modalità. Probabilmente una certa dose – omeopatica – di ‘populismo’ deve essere messa in conto persino se si vuole provare a ricostruire una

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politica autenticamente democratica, calata nella società, che non salti per via plebiscitaria le mediazioni. Del resto, figure e proposte politiche come quella di Obama o di Angela Merkel, benché diverse tra loro, uniscono non a caso equilibrio razionale e uso dei simboli, sobria credibilità e capacità di suscitare speranze nel futuro, realismo e immaginazione politica (si pensi al discorso di Obama al Cairo, o a quello sulla ‘razza’, o ancora alla dura battaglia culturale per riformare la sanità negli Stati Uniti, ma anche alle posizioni avanzate sostenute dalla ‘moderata’ Cancelliera tedesca in tema di diritti civili, bioetica, ecologia). In questo senso, pur essendo le tendenze antipolitiche e quelle alla trasformazione della politica in ‘prodotto’ fenomeni generali, bisogna dire che altrove, in Occidente, questi fenomeni sembrano più ambivalenti e aperti a evoluzioni di tipo diverso, non necessariamente regressivo come attualmente in Italia. E la ragione è che in altri contesti democratici esistono maggiori anticorpi, fronti vivi di resistenza civile e innovazione culturale nella società, punti di equilibrio promossi dalle stesse classi dirigenti. Naturalmente, le istituzioni della mediazione (associazioni, corpi intermedi, partiti) sono ancora essenziali. Ma non bastano, soprattutto oggi. Intanto, e in Italia in particolar modo, vanno ricostruite perché sono state di fatto azzerate o perlomeno erose. Inoltre, quei nodi di connessione tra società e Stato, individuo e istituzioni, debbono non solo svolgere una funzione di compensazione di interessi, ma anche contribuire a riprodurre le risorse etiche del vincolo politico, elaborando gli elementi portanti di una narrazione integrativa credibile. La quale, per arrivare a sintesi, tanto più in una società della comunicazione, avrà certamente bisogno di una certa dose di ‘rappresentazione’. Ma ciò costituisce necessariamente un ostacolo insormontabile, un vizio distruttivo per una politica non plastificata, che non si riduca a spot? Ogni forma di ‘rappresentazione’ politico-simbolica, capace di rispondere alla ‘domanda di identità’ da cui nasce il populismo e a cui le politiche populiste offrono risposte compensative e semplificanti, è necessariamente neo-autoritaria e anti-costituzionale? Non credo. Il bisogno di unificazione politica è un dato costitutivo della ‘politica senza Sostanza’ frutto della modernità. E può avere tipologie di risposta assai diverse (dall’unità su base religiosa a quella ‘nazionale’, dall’etnia alle ideologie universaliste, fino ai

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principi democratici). Poiché la ‘politica senza Sostanza’ – e tale è sia quella della Sinistra sia quella della Destra – è inevitabilmente una politica della soggettività11, tutto si gioca sull’interpretazione, e soprattutto sulle forme di attivazione, dei soggetti concreti. Sulla disponibilità o meno a riconoscerne l’autonomia e l’integrità, contro la tendenza a ridurli a mezzi, cose, pezzi di un ingranaggio, che prende sempre più campo (dal mondo del lavoro all’immaginario veicolato dai media e dalla stessa ‘scena’ del potere populista). Non solo: un’unità politica dei soggetti può ben essere ‘relativa’ (quella strettamente necessaria al ‘politico’ secolarizzato), aperta, non ridotta a un’omogeneità organicista. Questo implica, però, prendere sul serio e dare spazio ai soggetti reali, incarnati che operano sulla scena sociale e da qui, precisamente da questo ritorno di realtà, partire per offrire nuove sintesi politiche. Il ‘primato della politica’ di cui giustamente tanto si parla, significa innanzitutto primato delle idee relative alla polis, dell’interesse generale sul particolare (sia questo economico, corporativo, partitico ecc.). E si ricostruisce tanto con la competenza politica quanto con la presa simbolica di poche idee-guida normativamente cariche, tanto con il radicamento nei bisogni e nei territori quanto con il plusvalore di un’ostinata coerenza. In questo senso, è bene sgombrare il terreno da un equivoco: primato della politica non può voler dire che il potere politico (qualsiasi ne sia l’orientamento) debba essere immune dal controllo di legalità, insindacabile. Una tesi supportata da un tipico atteggiamento italiano, insieme cinico e qualunquista, secondo cui stimabile è l’immoralità che rivendica se stessa, perché smaschererebbe gli idoli, mostrando che ‘sono (siamo) tutti uguali’, che ciascuno ha i suoi scheletri nell’armadio, e quindi nessuno può essere chiamato a rispondere (il ‘teorema Craxi’). Il risultato inevitabile di questo piano inclinato è una progressiva de-civilizzazione, un regresso che non viene più percepito come tale, o che addirittura pretende l’applauso. Proprio alla luce di questi rischi, dovrebbe essere evidente che una politica democratica non può fiorire sulla riabilitazione degli arcana imperii, non può dare per scontato che con la mafia, la corruzione e i poteri occulti bisogna convivere, 11

Cfr C. Galli, Perché ancora destra e sinistra, Laterza, Roma-Bari 2010.

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perché – come insegnava Bobbio – democrazia significa potere ‘in pubblico’, trasparenza, limite all’arbitrio. Un ‘politicismo’ ambiguo e puramente tattico – che va di moda anche a Sinistra – non afferma alcun ‘primato’, ma anzi contribuisce a gettare discredito sulla politica. Insomma, ai rischi del populismo si risponde non (solo) con la difesa delle procedure o con il professionismo politico, ma soprattutto con un progetto mobilitante, basato su un’idea ambiziosa di umanità e di convivenza politica, sul rilancio dell’eredità normativa della soggettività (moderna) – seppur in una chiave non più eurocentrica e occidentalista –, che permetta la costruzione di un orizzonte di senso sì capace di attrazione simbolica, ma non regressivo e anti-moderno. Dopo e al di là di tutte le decostruzioni, ciò che resta del ‘soggetto’ – quel residuo irriducibile che non si lascia conculcare indefinitamente, quella fonte del desiderio che, se ascoltata, può animare nuovi progetti di vita in pubblico, in relazione – rappresenta potenzialmente la leva di una nuova politica emancipativa. Per questo non si può regalare la libertà e l’individuo alla Destra populista, che li declina in chiave ‘naturalistica’. Il problema piuttosto è: quale libertà? Libertà significa chiusura ostinata nel proprio interesse privato, contro gli altri? Rifiuto di ogni regola? O è auto-determinazione consapevole, autonomia nella sfera pubblica? E ancora: è possibile, e come, ‘tenere insieme’ le diversità che così si sviluppano? Come si ricostruisce un vincolo politico delle differenze orientato all’interesse generale? A mio avviso, poter realizzare un proprio ‘progetto di vita’ perché il contesto sociale e normativo lo rende possibile, rende già più agevole riconoscersi nella comunità a cui si appartiene. Poi, sta alla politica produrre o mobilitare risorse, materiali e simboliche, da spendere ai fini dell’integrazione del pluralismo. Soprattutto in un Paese quale l’Italia, che avrebbe bisogno di una robusta iniezione di libertà soggettiva (dalle questioni bioetiche, ai model­li di famiglia, all’investimento sull’autonomia dei giovani), il pensiero democratico dovrebbe ingaggiare una battaglia culturale sull’interpretazione della libertà, senza remore e subalternità. E la politica democratica sfidare la Destra populista proprio su questo terreno, senza aver paura del Vaticano o della disgregazione dei cosiddetti ‘valori tradizionali’. L’unica possibilità di rigenerare in chiave non regressiva un legame sociale già abbondantemente

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sfibrato è quella di scommettere sulla possibilità di una nuova conciliazione di ‘libertà soggettiva’ e ‘libertà oggettiva’. Per rilanciare un’idea così ambiziosa di politica, e una concezione emancipativa di ‘popolo’, bisogna però porsi delle domande di fondo, riconoscerle come decisive. Per fare alcuni esempi: è ancora centrale politicamente l’uguaglianza (e di conseguenza la lotta contro le disuguaglianze)? Come si rideclina oggi: solo come chance, o anche da un punto di vista sostanziale (almeno rispetto a determinati beni fondamentali, come l’acqua e il cibo, la salute, la formazione, l’accesso alle tecnologie che hanno maggior impatto sulla vita delle persone)? Ha senso la tenaglia che oppone ‘universalismo dell’uguaglianza’ (una sorta di gabbia che comprimerebbe l’effervescenza del singolo, o addirittura escluderebbe le persone in carne e ossa) e ‘individualismo della libertà’ (la corsa fintamente libera di soggetti ‘rinaturalizzati’, soli e allo stesso tempo omologati in una sorta di guerra quotidiana per la sopravvivenza)? Non si tratta di due opzioni rigide, caricaturali, da mettere in discussione? Bisogna ricostruire o no il primato di ciò che è ‘pubblico’, perché riguarda interessi di tutti e di lungo periodo, al di là dell’esigenza di sburocratizzarne la gestione? La giustizia sociale – tema che certo non manca d’attualità, né all’interno delle nostre società occidentali, né tantomeno nel mondo, che peraltro abbiamo a vario titolo ‘in casa’ – deve rientrare nell’agenda politica, o dobbiamo rassegnarci a considerarlo un retaggio da abbandonare del ‘progetto incompiuto della modernità’? A seconda delle risposte che si prova a dare a queste domande, emergono opzioni politiche e culturali differenti, dai profili netti. Naturalmente, trarne ricette, soluzioni e consenso non è affatto semplice. Ma a me pare che il diffuso senso di disagio per l’erosione delle cosiddette ‘risorse etiche’ delle democrazie occidentali e la consapevolezza della crisi di sistema del modello economico neo-liberista aprano uno spazio di azione in questa direzione ‘critica’, che oltretutto eviterebbe di abbandonare in via esclusiva tali domande alla supplenza di agenzie del senso di matrice religiosa (la potestas indirecta della Chiesa cattolica, ma anche in senso diverso le varie forme di religiosità ‘fai da te’). Certo, l’avvento dei populismi xenofobi e neo-reazionari ha colto di sorpresa la politica tradizionale europea, soprattutto di Sinistra, che si è scoperta sempre meno ‘popolare’, quanto più

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si istituzionalizzava (ed europeizzava). Da una parte il successo, almeno parziale, delle politiche socialdemocratiche ha per lungo tempo favorito la sterilizzazione dei conflitti e della memoria delle lotte per i diritti, dall’altro la diminuzione delle risorse da ridistribuire e la durissima competizione sul mercato del lavoro indotte dalla globalizzazione economica hanno determinato un senso di sfiducia e minaccia, che non favorisce battaglie solidali, ma piuttosto il ripiegamento difensivo in nicchie ‘protettive’ (che la Lega, ad esempio, offre attraverso la produzione di una nuova omogeneità ‘etnica’, post-costituzionale e discriminatoria: ‘padroni a casa propria’). Da qui una evidente crisi di radicamento sociale e di rappresentatività delle forze politiche tradizionali. Ma questa divaricazione società-partiti è ineluttabile, il presupposto di una nuova politica tecnocratica e ‘leggera’, dominata dalle lobbies e supportata da abili spin doctors della comunicazione12, o non è piuttosto ‘il’ problema? Forse la liquidazione dei ‘soggetti politici’ generali, strutturati, così come delle categorie di Destra e Sinistra, di moda in questi ultimi decenni, è stata un po’ affrettata. Così come è stato avventato non vedere i rischi dell’abbandono dello spazio simbolico della partecipazione, che ovviamente è stato occupato da nuovi ‘soggetti’, i quali producono per via anti-politica il (loro) popolo, e trovano facilmente un ‘nemico’ in ciò che resta dei vecchi apparati, percepiti come residui ‘oligarchici’, nei poteri ‘terzi’, o negli ‘estranei’. In Italia questa ‘fuga dalla politica’ è diventata un vero e proprio ‘senso comune’, che ha contagiato anche chi aveva una vera storia politica alle spalle, da ripensare criticamente ma anche da spendere. Invece, è impressionante come, ad esempio, la Sinistra italiana – ed è paradossale considerando il peso della tradizione gramsciana – abbia completamente abbandonato il terreno dell’identità politica, lasciandolo alla Destra populista. Forse perché giudicato compromettente, o perché si è pensato erroneamente che dopo le identità iper-ideologiche del Novecento non ne sarebbe stata possibile – né necessaria – alcuna. O perché, caduto anche di fatto il vecchio sostrato ideologico (largamente fittizio 12 Per un’analisi di queste tendenze, cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, trad. it. a cura di C. Paternò, Laterza, Roma-Bari 2003.

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e superato), non si è voluto confrontarsi sul serio con il proprio bagaglio storico-culturale, per analizzarlo lucidamente al fine di ridefinirlo, preferendo rimozioni liquidatorie e sostituzioni grottescamente superficiali. Questo contrappasso del passato ha già prodotto effetti devastanti, quasi azzerando l’eredità culturale e l’esperienza di partecipazione della Sinistra italiana, privandola di strumenti di comprensione autonoma della società contemporanea. Naturalmente, il problema non interessa solo la Sinistra, perché riguarda, molto più in generale, la qualità complessiva della nostra vita democratica, e la fioritura di radicate identità politiche ‘civili’, tanto di Sinistra quanto di Destra. La ricostruzione progressiva, attraverso un lavoro di lunga lena, di identità ‘civili’ implica la ricostruzione di un ‘contesto’, di uno spazio veramente ‘pubblico’ della rappresentanza. Quindi, a ­ ttunde la fronte dell’autarchia televisiva che in Italia omologa e o cultura popolare diffusa, contagiando anche le cosiddette élites, e della desertificazione degli spazi pubblici (reali e virtuali) compiutasi nell’ultimo decennio, il primo obiettivo (precondizione di tutti gli altri) di una politica davvero consapevole del suo primato dovrebbe essere l’immaginazione di un grande progetto di riqualificazione culturale del Paese, che miri a riaprire i luoghi e gli accessi sociali attualmente sigillati, bloccati, valorizzando le energie che pur ci sono, prima che se ne vadano o si rassegnino definitivamente. Un progetto di ampio respiro, non di parte, che punti certamente sul rilancio della scuola, sull’investimento selettivo, meritocratico nell’università e nella ricerca, sulla tutela rigorosa del patrimonio storico-artistico, ma che ripensi radicalmente e apra a nuove energie anche i media dell’informazione e della cultura popolare (attraverso cui si forma prioritariamente l’autocomprensione diffusa di una comunità). Così che l’intera società italiana – a tutti i livelli, in alto come in basso, nelle diverse forme possibili – possa riaprirsi al mondo, produrre e far circolare idee (al posto di luoghi comuni e slogan), tornare a credere nel merito e nella qualità (che non si vede perché debba essere riservata alle sole élites). Per difendere una società corporativa, chiusa, statica, che replica e ‘naturalizza’ le disuguaglianze (cosa ci si è messi in testa, che il figlio di un operaio possa diventare avvocato o manager?...), non c’è niente di meglio del torpore omologato di una massa fintamente ‘eguale’. Gerarchie del privilegio e livellamento

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verso il basso si tengono. Ma un Paese del genere, oltre che profondamente ingiusto, è un Paese che si condanna all’impoverimento complessivo e alla fuoriuscita dalla modernità. Per sottrarsi a questa deriva, però, occorre che la classe dirigente – tutta, non solo quella politica – in primis prenda coscienza della gravità del problema (che a lungo è stato sottovalutato), per contrastare poi con l’esempio e la proposta di un nuovo ‘patto sociale’ la tendenza cinica ad abbandonare il Paese al proprio destino, come se fosse ineluttabile, e a preoccuparsi esclusivamente della messa in salvo del proprio ‘particulare’. Altrimenti rimarrà solo l’emigrazione ‘interna’ – il rifugio in nicchie di senso e appartenenza civica, finché sarà possibile – o, per chi ne ha le opportunità, la proiezione dei propri talenti e interessi altrove, dove gli standard di una convivenza civile sono adeguatamente assicurati. Gli Stati, le comunità politiche, possono anche implodere per stanchezza, per secessione etica; vivere un lento, infinito deperimento fino alla marginalizzazione estrema e allo svuotamento di ogni minima struttura comune di convivenza civile. 3. Egemonia «versus» populismo Questa ‘presa di coscienza’ delle classi dirigenti democratiche non può essere intesa in chiave moralistica, come se si trattasse prioritariamente di un problema ‘soggettivo’. Il tema è quello, piuttosto, della ricostruzione di una nuova forma di egemonia della politica, compatibile con il pluralismo e con l’individualizzazione della società contemporanea. Si tratta ovviamente di una sfida molto difficile, perché pluralismo e individualizzazione (in sé non negativi, perché effetto della libertà moderna), combinandosi con la logica particolaristica del mercato, sviluppano una sistemica refrattarietà alla sintesi politica lungimirante, e una peculiare facilità di saldatura con la politica ‘mercificata’. Ma è fondamentale trovare gli strumenti almeno per ‘frenare’ tali tendenze. Anche perché, se non ci si riesce, l’esito non sarà affatto una politica meno ‘intensa’, l’addomesticamento del potere (perché meno ‘egemonico’), ma da un lato il suo potenziamento plebiscitario (inevitabile quando per creare consenso non si punta sulla razionalità decidente, ma sull’agitazione illusionistica di fantasmi irrazionalistici), dall’altro la sua deresponsabilizzazione sugli obiettivi di medio-lungo ter-

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mine (che presuppongono progetti politici strutturati, i quali non pagano nell’immediato). Egemonia è un termine-concetto che ha una storia ricca di effetti politici e culturali13, la quale tuttavia per certi aspetti potreb­be sembrare lontana, archiviata, perché parte dell’esperienza politicamente intensa e spesso drammatica dei grandi movimenti ideologici del Novecento. In particolare, l’elaborazione consapevole del concetto – soprattutto da parte di Gramsci14 – è stata un fattore costitutivo del processo di integrazione delle masse nel progetto emancipativo della Sinistra europea: un’esperienza politica e un paradigma teorico di complicazione dello schema marxista ortodosso, cui forze e culture politiche popolari nel mondo (ma significativamente nell’ultimo ventennio non in Italia) hanno continuato a guardare con grande interesse, per andare oltre il determinismo struttura-sovrastruttura, assumendo come ‘strutturale’ il problema della costruzione del consenso, dell’organizzazione politica e delle alleanze, del potere delle idee. Oggi, il tema dell’egemonia sta tornando al centro della riflessione teorico-politica anche in Occidente, di fronte alla crisi delle ideologie neo-liberali e globaliste dell’ordine spontaneo e al paradossale, concomitante indebolimento delle forze tradizionali della Sinistra (soprattutto europea), che potrebbe aprire la strada a possibili uscite demo-reazionarie dalla crisi (come quelle degli anni Venti e Trenta del Novecento). Ma cosa si intende per egemonia? Seguendo Gramsci, si può dire che indica una capacità di direzione intellettuale e morale delle forze sociali. Una forza che non è ‘mera’ forza, dunque, ma che è in grado di creare consenso in virtù dell’efficacia della sua lettura della società e della qualità ordinatrice della sua proposta 13 Sul tema, mi limito a citare, tra la letteratura recente: E. Laclau, Ch. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy: Towards a Radical Democratic Politics, II ed., Verso, London-New York 2001; J. Butler, E. Laclau, S. Žižek, Dialoghi sulla Sinistra. Contingenza, egemonia, universalità, ed. it. a cura di L. Bazzicalupo, Laterza, Roma-Bari 2010; P.D. Thomas, The Gramscian Moment: Philosophy, Hegemony and Marxism, Brill, Leiden 2009; Gramsci and Global Politics: Hegemony and Resistance, ed. by Mark McNally and John Schwarzmantel, Routledge, London 2009; A. Schiavone, L’Italia contesa. Sfide politiche ed egemonia culturale, Laterza, Roma-Bari 2009. 14 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, 4 voll., Einaudi, Torino 2007.

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politica. Una politica che non registra l’esistente, ma si pone un passo avanti (magari uno solo, evitando fughe utopistiche, ma almeno uno sì). E perciò forma l’opinione pubblica. Questa dimensione culturale dell’egemonia mostra come si tratti di un concetto politico che esprime processi fortemente alimentati da risorse prepolitiche, le quali attengono soprattutto alla qualità dei ‘mondi vitali’ informali di una società e del suo dibattito pubblico (che volente o nolente ne è influenzato). La possibilità di ricostruire un profilo alto della politica rinvia quindi, come si è già avuto modo di sottolineare, allo ‘spirito civico’ complessivo di una comunità. Da intendere però non tanto (o solo) nel senso dei cosiddetti ‘ceti medi riflessivi’, cioè di quel livello di cittadinanza in cui siamo tutti già convinti, ma guardando a quello che si agita nel ‘fondo’ della società (un senso ‘civico’ che può essere un po’ civile e un po’ no): è su questo terreno ‘dirigente’, fatto di confronto con la realtà e capacità di costruire alleanze sociali sulla selezione degli interessi concreti e la proposta di parole d’ordine credibili e chiare, che i ceti medi effettivi e i ceti medi ‘riflessivi’ (nella speranza che siano sufficientemente ampi e ‘riflessivi’) possono forse riuscire a incontrarsi. Per certi versi, il concetto di egemonia è l’opposto di quello di populismo. Ma la matrice generativa è la stessa, così come la sfida a cui entrambi tentano di dare risposta, cioè la costruzione niente affatto ovvia di una nuova legittimità del potere nei regimi politici di massa: una ‘legittimità’ che rimane un presupposto ineludibile per la tenuta di qualsiasi ordinamento, anche democratico, ma che non potendo più essere fondata sulla trascendenza e sulla tradizione, deve poggiare su una qualche forma di ‘riconoscimento’ del ‘popolo’ in chi lo dirige. Quindi, da un lato, il potere politico, la sua ‘verticalità’ e la sua pretesa di obbedienza, per quanto assai alleggerite, non scompaiono affatto, dall’altro sono oggetto di una apparente appropriazione dal basso, che sembra avvicinare il potere ai cittadini. Ma questa prossimità è ricca di ambivalenze e si presta a inaspettati rovesciamenti fino a poter arrivare, paradossalmente, alla rilegittimazione di un potere senza limiti. Infatti, se nel potere ‘democratico’ si riflette la massa, in una sorta di immedesimazione ‘diretta’, quel potere ne sarà enormemente potenziato, potrà sentirsi autorizzato a tutto in suo nome. Ciò significa, concretamente, che il potere democratico di massa, lungi

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dall’essere indebolito dalla sua natura ‘derivata’ e dal pluralismo che lo circonda e che è chiamato ad esprimere, potrà sempre avere la tentazione di invocare e convocare quella ‘energia’ popolare per alimentare e, eventualmente, giustificare colpi di mano. In fondo il populismo è un modo – antipolitico – per riattualizzare in forme contemporanee un rapporto immediato tra comando e obbedienza. Questo è il motivo più profondo per cui il potere di ‘tutti’ (che appare come potere della ‘massa’, e che di fatto vuol dire potere dei ‘molti’, cioè della maggioranza e di chi di volta in volta la rappresenta) in una democrazia regolata deve trovare degli alvei entro cui esprimersi, delle ‘forme’ e dei ‘limiti’ validi generalmente, come prescrive l’articolo 1 della nostra Costituzione, entro cui esercitarsi. Del resto, non è un caso che la fonte del potere democratico (la ‘sovranità popolare’, appunto) sia qualificata con lo stesso termine che indica la forma classica del potere moderno: ‘sovranità’. L’aggiunta dell’aggettivo ‘popolare’ non trasforma in altro quella matrice concettuale, rovesciandone completamente il senso. Sovrano è il potere non disponibile, quello più alto. Unito a democrazia, sembra – e in parte effettivamente è – la celebrazione massima del principio democratico, la sua sacralizzazione simbolica. Ma i concetti politici non perdono mai il segno della loro genesi, né possono liberarsi del tutto della loro logica ‘polemica’: la sovranità ha rappresentato lo snodo decisivo per concentrare verticalmente il potere in mani ‘terze’ e monopolizzare la produzione giuridica, espropriando i poteri indiretti e limitando i particolarismi feudali. Un processo di unificazione politica e universalizzazione concreta che ha costituito una premessa essenziale della razionalizzazione della società moderna (non solo sul piano giuspubblicistico, ma anche in campo civile ed economico). La sovranità popolare è frutto di questa storia, e per quanto rappresenti il rovesciamento dell’assolutismo e della sovranità ‘monarchica’, non può non ereditarne e replicarne per certi aspetti la logica: non a caso, per Rousseau come per i Giacobini, il popolo vuole sempre il bene, è volontà generale. ‘Sovranità popolare’ è quindi un dittico complesso e delicato, che esprime una contraddizione: l’istanza della riconduzione del potere ai consociati, ma anche la potenza non limitabile dell’energia politica depositata nel ‘popolo’ (concetto altrettanto carico simbolicamente della sovranità

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monarchica); il consenso, ma anche il plusvalore di potere di chi quel consenso in qualche modo detiene. Non è affatto detto che con la sacralizzazione del principio democratico, le insidie del potere cessino. Lo stesso aggettivo ‘popolare’ può anzi essere fonte di equivoci (ad esempio se si pensa che indichi concretamente e senza ulteriori specificazioni ‘esercizio diretto del potere da parte del popolo’). Quel ‘popolare’ vuol dire che l’origine del potere è il popolo, che il discorso di legittimazione che lo sorregge può far ricorso esclusivamente a quella ‘fonte’, che deve in qualche modo essere assicurato un flusso che alimenti dal basso le istituzioni, attraverso una ‘corrispondenza’ – determinata innanzitutto dal momento elettivo, ma non riducibile ad esso – tra il popolo (che concretamente significa la società con le sue differenze) e chi decide. Ma è evidente che, anche con la sovranità popolare, il potere continua ad essere esercitato da élites politiche15, che devono però ottenere, organizzare, promuovere ‘consenso’. Quindi decisivo per il potere democratico è proprio la costruzione e la riproduzione di una rapporto vitale con la propria fonte energetica (e in particolar modo la capacità di esprimere adeguatamente un ‘proprio’ popolo, ponendolo in relazione con gli altri pezzi di popolo che costituiscono la società di massa). Questo significa 15 Secondo la lezione di realismo, da cui non è agevole prescindere, degli elitisti: cfr. G. Mosca, La classe politica, a cura di N. Bobbio, Laterza, RomaBari 1994; R. Michels, Potere e oligarchie (Antologia 1900-1910), ed. it. a cura di E.M. Albertoni, Giuffrè, Milano 1989; V. Pareto, Trattato di sociologia generale, 4 voll., a cura di G. Busino, UTET, Torino 1988. Sul tema, cfr. N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia, Laterza, Roma-Bari 2005; F. Tuccari, Capi, élites, masse. Saggi di storia del pensiero politico, Laterza, Roma-Bari 2002; L. Canfora, La natura del potere, Laterza, Roma-Bari 2009. In merito al realismo politico, occorre però uscire da un equivoco: esprime certamente una serie di vincoli decisivi anche per la politica democratica (la persistenza della distinzione governanti-governati, il ruolo delle classi dirigenti, l’incidenza politica delle asimmetrie di potere materiale nel campo sociale ed economico). Però questa dimensione realistica non può essere intesa come una sorta di essenza eterna della politica, che condanna anche il discorso democratico, così come tutte le promesse emancipative della modernità, ad essere una mera copertura retorica di una struttura immodificabile dell’ordine. Altrimenti tutte le stagioni e le esperienze politiche sarebbero sostanzialmente uguali, ciò che è smentito dalla oggettiva trasformazione delle condizioni di vita e di integrazione politica dei ceti subalterni laddove si è realizzato – grazie a dure lotte sociali e culturali – lo Stato democratico di diritto.

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esercitare un’egemonia politico-culturale. Che è precedente al momento finale, elettorale, e suo presupposto. Intorno a questo nodo si è sempre giocata la partita delle democrazie di massa. Sia nella loro versione classico-novecentesca, basata su sistemi politici molto forti e radicati nella società, sia in quella attuale, in cui il ruolo dei partiti certamente permane (come dimostrano tutte le democrazie europee), ma la costruzione del consenso è fortemente condizionata dai media e dalla tendenza alla personalizzazione politica. La matrice problematica comune dell’egemonia e del populismo non deve far dimenticare le differenze di fondo. L’egemonia politica, per quanto ‘di parte’, forma e allarga lo spazio della partecipazione, seppur ‘guidandola’ (come è inevitabile, se non in irrealistici sogni anarcoidi o micro-comunitari). Il populismo invece isola e salta le mediazioni. L’egemonia si esercita nell’ambito della società civile, quindi presuppone uno spazio articolato di azione consapevole. Il populismo lo appiattisce, minandolo. L’egemonia trasforma una massa informe e atomizzata in ‘popolo’. Il populismo usa la massa (oggi soprattutto mediatica) ‘come se’ fosse un popolo. Potremmo dire che il criterio di distinzione tra queste due dimensioni del dispiegamento e della crisi della modernità politica è la ‘passivizzazione’, l’identificazione immediata ed esclusiva nella ‘persona’ del Capo e nella sua biografia, e non il riconoscimento in una storia comune, in un deposito di fiducia collettiva. Naturalmente anche l’egemonia presuppone dei leader (pensiamo a figure come Churchill o De Gasperi o, più vicino a noi, a quello che ha rappresentato per la società italiana Enrico Berlinguer), che possono essere sì simboli, catalizzatori di fiducia, ma che sono soprattutto guide responsabili di una classe dirigente e di un’esperienza collettiva concreta, articolata al proprio interno, la quale non può certo esaurirsi nel Capo né essere prodotta illusionisticamente da lui. Quando la politica perde la propria presa culturale sulla realtà sociale, emerge il populismo, che si rivela in sostanza una compensazione sostitutiva della crisi dell’egemonia politica. L’egemonia non riguarda solo la lotta politica e i suoi esiti, la determinazione di tendenze politiche prevalenti, ma anche ciò che precede ed è presupposto a questo piano ‘competitivo’. C’è infatti, e si tratta di un architrave della democrazia, un’egemonia

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della costituzione – che esprime un comune sentire e un quadro condiviso di riferimento, anche in un contesto pluralistico – senza la quale la Costituzione non avrebbe potuto darsi né potrebbe reggere sul lungo periodo. Le costituzioni non reggono senza presupposti pre-giuridici. Non poggiano sul ‘vuoto’, perché non sono vuote (esprimono un ‘indirizzo fondamentale’, che ne costituisce il nucleo qualificante e perciò immodificabile: se viene traviato o sostituito, è la Costituzione stessa a saltare). E qualsiasi tentativo di ‘svuotarle’ di senso, di delegittimarle complessivamente, è di fatto una sovversione, anche se proviene dall’alto. Quando Costantino Mortati parlava di ‘costituzione in senso materiale’ in fondo non pensava a qualcosa di molto diverso: quell’equilibrio politico di principi, interessi e orientamenti di senso che ambiscono a porsi come ‘generali’, duraturi e definiscono il nucleo indisponibile della Costituzione, la sua identità; uno ‘spirito costituzionale’ che deve essere alimentato culturalmente e sorretto da ‘forze determinate’ le quali – al di là delle contingenti maggioranze – organizzano la società presupponendo quel nucleo integrativo. Anche le costituzioni ‘pluraliste’ non possono permettersi di essere ‘neutre’. Certo, ‘organizzare’ la società contemporanea – corporativa e frammentata – è oggi probabilmente più complesso che nei primi decenni del secondo dopoguerra, la stagione d’oro dello Stato costituzionale di diritto e dello Stato sociale (anche se non bisognerebbe mai dimenticare i conflitti estremi e le minacce alla democrazia che proprio l’Italia ha vissuto dalla fine degli anni Sessanta: una situazione che non rese certo agevoli la difesa della Costituzione e il mantenimento di una solidarietà sociale, obiettivi invece nella sostanza conseguiti dalle forze politiche di allora, perché popolari e non populiste, oltre che fedeli alla Costituzione). Tuttavia, rinunciare del tutto nell’attuale fase di stanchezza democratica a radicarsi attivamente nella società intorno a un nucleo di principi e interessi forti da rimobilitare, assumendo in chiave subalterna i luoghi comuni della ‘politica light’, è un’opzione perniciosa che lascerebbe il campo a quelle forze che sembrano avere se non un’egemonia, almeno una presa populista sulla frammentazione sociale italiana, ma sostanzialmente divisiva e anti-costituzionale. Riaprire la questione dell’egemonia oggi, in un orizzonte certamente non ‘rivoluzionario’, può offrire tanto un terreno di competizione democratica, quanto un supporto alla

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cultura costituzionale, tanto un fronte conflittuale vivo, quanto un contributo alla qualità condivisa del discorso pubblico. Non mi nascondo che il concetto di egemonia è stato a lungo visto con sospetto, perché considerato compromesso ideologicamente e non del tutto compatibile con una visione pluralista della società. Ma a mio avviso esso, se inteso in questo duplice senso – come politica capace di direzione perché razionalmente appassionata, insieme realista e simbolica, e come plusvalore contenutistico della cultura costituzionale –, è perfettamente compatibile con il pluralismo. Del resto quella per l’egemonia, in un contesto democratico, è sempre una lotta, mai decisa definitivamente e aperta a nuovi conflitti. Una lotta non violenta, ma realmente agonistica, tra opzioni culturali e interessi sociali diversi, che devono trovare dei punti di equilibrio non effimeri, capaci allo stesso tempo di trasformare e durare, di rompere un quadro ormai statico come di stabilizzare il consenso. Egemonia e pluralismo possono essere declinati insieme, in un’ottica né organicista né sostanzialista, ma che riconosca il ruolo dei vincoli sociali pre-individuali e dei processi di identificazione collettiva nella produzione di legittimità politica post-tradizionale. La sfida per la politica contemporanea è duplice: individuare un modo culturalmente denso per prendere sul serio la politicizzazione delle soggettività, il loro spiccato bisogno di autonomia; costruire nuovi contesti di compatibilità in vista di un interesse comune, che non può essere un’epifania, ma deve essere ‘preparato’. Una rinnovata battaglia egemonica ‘democratica’ potrebbe creare tanto lo spazio di esplicazione di un vissuto politico plurale e conflittuale, quanto una sua messa ‘in forma’ attraverso una narrazione integrativa, premessa della stessa mediazione istituzionale. A questo fine, la ricostruzione di ordinamenti parziali delle soggettività in relazione è oggi un passaggio essenziale per evitare la saldatura ‘immediata’ tra un nuovo atomismo sociale omologante e un potere neo-autoritario ‘seduttore’, nel quale in­ dividui presuntamente ‘liberi’, puntiformi e irrelati, possono tro­vare uno specchio compensativo fittiziamente unificante. L’agenda di potenziali conflitti e mobilitazioni politiche non mancherebbe: anche perché democrazia costituzionale e diritti sociali hanno rappresentato dei modelli di compromesso che il capitalismo ha accettato finché c’è stata una sfida di sistema da sostenere; venuta

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meno la quale, sono tornati ad essere pesantemente in discussione: si tratta dunque di provare a riassumere la rappresentanza dell’insoddisfazione popolare, prima che lo facciano forze autoritarie e regressive (come già accaduto negli anni Venti e Trenta del Novecento). Egemonia versus populismo, dunque16. Suo vero antidoto. Ma ciò significa che anche dal populismo, o meglio dalla sorgente da cui sgorga, dai problemi che pone, le forze democratiche debbono trarre insegnamento, rinunciando all’illusione della sua neutralizzazione per via puramente procedurale e impolitica. E che deve essere messa in discussione l’idea dell’autosufficienza delle ‘forme’ democratiche: esse vivono di passioni e mobilitazioni che eccedono la loro formalità; soprattutto, la democrazia non può essere solo una ‘cornice’ (necessaria ovviamente, ma come precondizione di garanzia), bensì deve riempirsi di contenuti politici e culturali coinvolgenti, incarnati. Altrimenti sarà impossibile invertire la tendenza, particolarmente acuta nell’Italia attuale, che conduce a un sostanziale svuotamento della rappresentanza, tanto politica quanto sociale. Gli attori politici democratici debbono prioritariamente individuare dei ‘soggetti’ da intercettare e collegare, avere qualcosa di chiaro da dire nel merito della vita sociale e delle questioni etiche: giocare una partita vera, non limitarsi a parlare dell’arbitro. Altrimenti, sembrerà sempre che siano i ‘populisti’ ad occuparsi di ciò che interessa veramente alla cosiddetta ‘gente’. Dunque un punto fermo di un rinnovato pensiero democratico dovrebbe essere la consapevolezza che anche la democrazia – metodo ‘ragionevole’ per contare le teste e non tagliarle, preservando diritti individuali e pluralismo – ha a che fare con le passioni e i simboli. E per ragioni strutturali, non per fraintendimenti logici o per arretratezza dei cittadini. Infatti, la logica dei ‘due corpi’ del Da questo punto di vista, che mira a preservare ancora un criterio di distinzione ‘normativo’ – per quanto non spoliticizzato – tra egemonia e populismo, la dissociazione che propongo va in direzione diversa rispetto all’impostazione di Laclau (che tende a identificarli, in quanto ogni strutturazione egemonica presupporrebbe una dinamica populista). A mio avviso, il populismo non è la forma contemporanea dell’egemonia, ma un sintomo di spoliticizzazione e una finzione di egemonia. Tanto che di solito fallisce la prova del governo e si trova costretto, per mantenere consenso, a rilanciare dall’alto l’antipolitica e a fabbricare sempre nuovi ‘nemici’, tanto interni quanto esterni. 16

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re17 – uno immortale, simbolo del plusvalore e della continuità dell’ordine politico, l’altro caduco, che incarna nella contingenza la legittimità del potere – non scompare nella democrazia. L’identificazione politica della comunità democratica in qualcosa che la costituisca e confermi avvalorandola può configurarsi in molti modi, ma funzionalmente deve darsi. In nessuna forma politica tale funzione ‘unificante’ può essere svolta dal ‘puro vuoto’. Come ha sostenuto Ernesto Laclau in un libro discutibile e forse troppo indulgente con il populismo, ma che ha il merito di indagarne le ‘ragioni’ genealogiche, senza liquidarlo18, quel «corpo immortale rinasce, ogni volta, nella forza egemonica»19. Anche nelle società inclusive (democratico-pluraliste) permane un’esclusione – una potenziale domanda politica non (già) risolta né integralmente giuridificata – che detiene un potenziale generativo di (nuova e diversa) politica. Del resto, l’universalità in politica è destinata a determinarsi, cioè a incorporare il limite. Anzi, la nozione stessa di ‘universale’ in questa prospettiva è un costrutto intrinsecamente politico-egemonico, come capacità di una ‘parte’ di rappresentare il ‘tutto’, di svolgere una funzione ‘generale’ a partire da una differenza simbolica. 17 Cfr. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, trad. it. a cura di G. Rizzoni, Einaudi, Torino 1989. 18 Una tendenza presente invece in interpretazioni come quella di Y. Meny, che comprensibilmente sottolinea i rischi del populismo e difende il bilanciamento dei poteri, ma rischia di non cogliere le ragioni del successo del populismo e la sua effettiva radice politica, sottovalutando la funzione simbolica del concetto di popolo (cfr. Y. Meny, Y. Surel, Populismo e democrazia, Il Mulino, Bologna 2001). 19 E. Laclau, La ragione populista, cit., p. 162. Occorre sempre un ‘significante’, che si riempia di senso accogliendo e selezionando istanze sociali e culturali. A mio avviso, il ‘significante vuoto’ di cui parla Laclau sulla scia di Lacan (ivi, pp. 91 ss.) è cosa diversa dal ‘puro vuoto’ della forma spoliticizzata. Anche se, va detto, l’originaria ‘vuotezza’ del significante egemonico teorizzata da Laclau, che si presta a ospitare e catalizzare qualsiasi contenuto, corre il rischio di essere troppo formale, e perciò generica e ambigua. Vale indistintamente tanto per Mussolini, Perón o Berlusconi, quanto per movimenti e soggetti collettivi che rivendichino più democrazia effettiva, sulla base di istanze critiche e conflittuali. In realtà una differenza c’è, e deve essere mantenuta nella teoria: i populismi plebiscitari sequestrano il conflitto e la partecipazione, di fatto azzerandoli o riducendoli a rito del potere, mentre la politica egemonica mira a integrarli mantenendone aperta la dialettica.

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L’egemonia insomma include e allo stesso tempo esclude, perché definisce un limite che non può non essere presupposto. La peculiarità della sua ‘forza’ consiste propriamente nell’identificare una ‘soggettività politica’, conferendo unità e visibilità a istanze che – se non codificate in una sintesi che istituisca una gerarchia di valori e interessi e diventi narrazione prevalente – rimarrebbero potenziali e magmatiche. Qui si situa la produttività politica della finzione ‘popolo’. Almeno all’interno di un discorso di legittimazione democratica, popolo è il nome tanto dell’inclusione egemonica, quanto di un ‘resto’ la cui attivazione politica non può mai essere esclusa a priori, la possibile matrice di altre istanze politicizzabili, di bisogni che si fanno desideri di nuovo riconoscimento. Quel ‘resto’ è una sfida per l’ordine (la possibilità di una sua rottura), ma anche fonte rigeneratrice, che segnala l’esigenza critica di una sua costante apertura democratica in senso non formalista. La politica democratica, per non ottundersi, non può fare a meno di ciò cui il termine-concetto ‘popolo’ allude: le istanze di riconoscimento che provengono dal basso, e che chiedono integrazione in una sintesi egemonica vitale, debbono essere sì selezionate e orientate, ma innanzitutto registrate. Questa ermeneutica progettuale attualmente pare farsi sempre più problematica, essendosi inceppato il circuito comunicativo tra sfera pubblica e rappresentanza. Siamo dentro una forbice spietata, nella quale si tengono e si alimentano due tendenze speculari. Da una parte una progressiva neutralizzazione che desertifica lo spazio pubblico della partecipazione. Una tendenza alimentata da fattori diversi e anche contraddittori tra loro: la ‘naturalizzazione’ dell’economia (che ne impone l’immagine di un meccanismo anonimo basato su automatismi ineluttabili, sottratti alla decisione umana); la crisi del diritto e delle istituzioni pubbliche, ma anche l’eccesso di giuridificazione che allontana i cittadini dal diritto, perché percepito come macro-apparato tecnico, pervasivo e strumentalizzabile in ogni direzione; la delegittimazione e frammentazione del mondo del lavoro, la cui capacità di generare identità sociali risulta così sterilizzata. Dall’altra parte una colonizzazione seriale del desiderio ad opera della società dei consumi e dei media di massa che satura lo spazio simbolico, espropriandone i soggetti collettivi, monopolizzando e consumando le risorse dell’immaginario sociale, in una sorta di caricatura totalizzante e

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antipolitica dell’individualismo moderno. Il cui effetto di sistema è un paradosso: l’omologazione dei modelli culturali, che predispone i soggetti al consumo (anche di ‘prodotti’ politici) e riduce lo spazio della riflessione critica, appare come trionfo della libertà ‘senza se e senza ma’, allargamento delle opportunità di scelta, auto-realizzazione narcisistica che si risolve in una gratificazione docilmente conformista secondo binari precostituiti accuratamente, e forse proprio per questo rassicuranti. Per interpretare, e correggere, queste trasformazioni, è la nozione stessa di politica a dover essere ripensata. Innanzitutto riconoscendo che la politica non è – e non potrà mai essere – mera ‘tecnica’. È anche ‘narrazione’. Ma non nel senso, banale, di propaganda, retorica. Bensì come capacità di esprimere e mettere in ordine interessi e passioni, paure e desideri, offrendo tanto uno specchio in cui riconoscersi, quanto una sequenza selettiva di questa ‘matrice’ generativa. In questo senso, buona amministrazione e capacità organizzativa sono importanti, ma non bastano. Debbono legarsi a un ‘immaginario politico’: rappresentarlo, se possibile guidarlo, ma innanzitutto essere in grado di suscitarne uno, cogliendone le potenzialità nel discorso pubblico e negli spazi di azione sociale (forzandoli simbolicamente, se questi si chiudono e deperiscono, o sono omologati). Occorre capire la ‘pancia’, per rafforzare la ragione. In una dichiarazione rilasciata a caldo dopo la sconfitta nelle elezioni regionali del 2010, Mercedes Bresso, Governatore uscente del Piemonte, notava amaramente come in Italia non valga la pena governare bene: conta ‘ fare politica’, parlare, raccontare... È vero, quello che conta è fare politica. Peccato che ciò non significhi occuparsi di cose non importanti, chiacchierare. Narrare politicamente significa rendere evidente ai cittadini che quello che la politica afferma e realizza è rilevante per loro, significa non essere auto-referenziali, avere antenne per quello che accade nella società, starci dentro. La sorgente della legittimazione politica è proprio quel nucleo ‘passionale’ che chiede di essere narrato e messo ‘in forma’ in una carta di identità (non necessariamente chiusa o aggressiva). Se non si capisce questo, vuol dire che non si è preso le misure della politica democratica contemporanea. Né tantomeno si è compresa l’ondata populista che il bipolarismo all’italiana ha determinato. In questo senso, la politica come ‘gioco politico’, costruzione delle alleanze e com-

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promesso, era forse sufficiente fino a venti, trent’anni fa, quando c’erano partiti forti perché portatori di una legittimità riconosciuta e molto radicati, che organizzavano e integravano pezzi di società, e il loro problema era mettersi insieme per un progetto comune, più ampio. Oggi questo quadro è mutato profondamente: perciò limitandosi a questo ‘lato’ della democrazia rappresentativa si rischia di sommare solo pezzi di ceto politico senza alcun plusvalore mobilitante. Naturalmente mediazioni e alleanze sono importanti, ma se sono rappresentative di soggetti reali, se coinvolgono forze e tendenze effettive dal basso, se sono coerenti ed esprimono un progetto credibile, non se si tratta di esperimenti rarefatti in alambicchi arrugginiti. È possibile che arte politica e narrazione simbolica, capacità di governo e costruzione del consenso, vincoli della concretezza e immaginazione progettuale debbano essere dimensioni necessariamente scisse, incompatibili tra di loro? In questa opposizione speculare tra mediazione politica (sempre più inefficace, ma di cui ci sarebbe bisogno) e rappresentazione populista (straordinariamente potente, ma in definitiva statica e paralizzante, perché sequestra l’intera scena) non sta forse una delle radici più profonde della crisi democratica attuale? Non a caso, per la Sinistra, che ha subito l’ondata populista e ne è stata a volte subalterna, il vero punto politico oggi è superare il suo divorzio dal ‘popolo’ (anche dal ‘suo’ popolo tradizionale), comprendendone le ragioni. Per la Destra, invece, che ha cavalcato assai abilmente il populismo, il problema è superare la fusione mistica del popolo con il Capo, articolando politicamente il consenso, istituzionalizzandolo, se vuole uscire dal circolo vizioso seduzioneeversione cui il successo dell’Icona-Berlusconi l’ha condannata. Per ridare spazio e potere alla ‘ragione pubblica’, è necessario che il discorso politico sia in grado di alimentare passioni civili. Una ragionevolezza politica ‘disincarnata’ si condanna all’impotenza, mentre una democrazia al servizio delle passioni elementari è inevitabilmente regressiva. Peraltro, il problema di riannodare il filo che lega istituzioni e cittadini, Costituzione e consenso, poteri e simboli, non è solo italiano. L’affermazione in Europa di movimenti populisti di matrice xenofoba e neo-autoritaria – cioè l’emergere di una minaccia alle democrazie dal loro interno – non sarà forse l’effetto, anche, della spoliticizzazione che ha fin qui caratterizzato la costruzione

IV. Popolo e populismo

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europea, ovvero della separazione tra le sue istituzioni e i ‘popoli’ europei? L’Unione appare come un grande apparato tecnocratico e giuridico-formalistico, distante dai cittadini, iper-regolatore e sospettoso del coinvolgimento popolare. Una costruzione inedita per la storia istituzionale europea, certo originale, ma priva di sostanza politica. La scelta di aggirare accuratamente questo nodo ha condannato le élites politiche europee all’afasia se non all’impotenza sulla scena internazionale e a subire le conseguenze delegittimanti della separazione tra vincoli e politiche dell’Unione e partecipazione democratica, moneta e scelte economico-sociali interne. Infatti, l’impossibilità di sentirsi parte di un destino comune, la grande difficoltà a individuare un circuito legittimazione-responsabilità visibile, il disinvestimento da parte delle classi dirigenti nazionali, evidentemente ripiegate su stesse, rispetto alle potenzialità di una vera sfera pubblica europea, hanno lasciato i popoli europei in mezzo al guado, e perciò facile preda di chi cavalca paure del ‘diverso’ e micro-identità ‘etniche’. Dietro un populismo sottovalutato o mal compreso, c’è pronta, purtroppo, la logica del capro espiatorio e della identificazione nel Capobranco. Tanto in Europa quanto nel nostro Paese, non occorre meno, ma più politica, per impedire un uso antidemocratico della democrazia.

Indici

Indice dei nomi

Agamben, G., 8n. Agostino, santo, xiin. Albertoni, E.M., 100n. Argenson, R.-L., marchese d’, 44n. Aristotele, 35. Ballerini, L., xxii. Barberis, M., 44n. Bazzicalupo, L., 3n, 97n. Bendix, R., 81n. Benjamin, W., 9n. Berlinguer, E., 101. Berlusconi, S., 25, 88, 105n, 108. Bobbio, N., 3n, 43n, 55 e n, 92, 100n. Böckenförde, E.W., 33 e n. Bodei, R., xxii, 29n, 34n. Borsari, A., xxii. Bourdieu, P., 18n, 34n. Bovero, M., xxii, 3n, 25n. Bresso, M., 107. Brown, W., xviiin. Brunner, O., 3n, 56n. Bull, H., xxn, 75n. Busino, G., 100n. Butler, J., 39n, 51n, 97n. Campi, A., 32n, 64n. Canetti, E., xiv, 5 e n. Canfora, L., 81n, 100n. Caranti, L., xiiin. Carnevali, B., 18n. Castrucci, E., 72n.

Catania, A., 3n, 7n. Cattaneo, M.A., 8n. Cavarero, A., 51n. Ceppa, L., xin. Churchill, W., 101. Ciavolella, M., xxii. Coleman, J., 18n. Comanducci, P., xxii. Costa, P., 3n, 81n. Craxi, B., 91. Croce, B., 38n. Crouch, C., 94n. De Gasperi, A., 101. Demandt, A., 75n. Derathé, R., 43n. Derrida, J., 61n. Didero, D., xiiin. Duso, G., 3n. Dworkin, R., 22n, 67n. Ferrajoli, L., 6n, 25n, 82n. Ferrarese, M.R., xvin. Ferrero, G., 3n. Fioravanti, M., 3n, 6n. Foucault, M., 39n. Francesco d’Assisi, santo, xiin. Freund, J., 64 e n. Frigo, G.F., 51n. Galli, C., 19n, 56n, 60n, 76n, 91n. Gallino, L., xiiin. Gerratana, V., 43n, 97n.

­­­­­114 Giannini, M.S., 84n. Gneist, R., 84n. Gramsci, A., xiv, xxi, 97 e n. Guglielmo II, 75n. Habermas, J., x, xin, 32n, 33n, 60n. Haller, A. von, 44n. Hardt, M., xiin, xiii e n. Hart, H., 7 e n, 8n, 15, 16 e n, 17. Hegel, G.W.F., xiv, 34-35, 36 e n, 37, 38 e n, 39n, 40, 42, 43 e n, 4445, 46 e n, 47 e n, 48 e n, 49 e n, 50n, 51n, 52-53, 85n. Hobbes, T., xi, xiv, xxi, 7, 10 e n, 11-12, 13 e n, 14, 15 e n, 16, 17 e n, 19, 24, 40 e n, 41-42, 47, 52, 70. Hobsbawm, E.J., 32n. Hoffmann, H., 56n. Holczhauser, V., 56n. Honneth, A., 49 e n. Jesi, F., 5n. Jouvenel, B. de, 3n. Kant, I., xi. Kantorowicz, E.H., 105n. Kelsen, H., 12 e n, 24n, 44 e n. Kervégan, J.-F., 56n. Kleinschmidt, H., 71n. Kojève, A., 51n, 71. Koselleck, R., 70. Koskenniemi, M., 71n. Krugman, P., xn. Lacan, J., 105n. Laclau, E., 87n, 97n, 104n, 105 e n. Lincoln, E., 3n. Losano, M.G., 12n, 24n. Lupoli, A., 10n. MacCormick, N., 7n. Magri, T., 15. Malabou, C., 39n. Marchionne, S., 52. Marquard, O., 75n. Matteucci, N., 3n.

Indice dei nomi

McNally, M., 97n. Mehring, R., 56n. Meier, H., 56n. Melloni, A., 75n. Meny, Y., 105n. Merkel, A., 90. Michels, R., 100n. Miglio, G., 3n, 33n. Mortati, C., 102. Mosca, G., 100n. Mouffe, Ch., 97n. Mussolini, B., 105n. Negri, A., xiin, xiii e n. Obama, B., xix, 90. Odysseos, L., 71n. Pacchi, A., 10n. Pandolfi, A., xiin, xiiin. Pareto, V., 100n. Pattloch, P.P., 72n. Pazé, V., 25n. Perón, J.D., 105n. Petito, F., 71n. Pietropaoli, S., 71n, 75n. Pizzorno, A., 18n, 30n, 50n, 69n. Plotino, xiin. Pogge, Th., xiiin. Popitz, H., 3n. Portinaro, P.P., 3n, 56n, 72n, 75n. Posner, R.A., xviin. Preterossi, G., 3n, 33n, 56n. Quaritsch, H., 75n. Ranger, T., 32n. Rawls, J., xin, 12, 42. Reinhard, W., 3n. Remotti, F., 29n. Revelli, M., xiiin, 4n. Ricciardi, M., 7n. Ricoeur, P., 49 e n. Ritter, G.A., 3n. Rodotà, S., 9n. Rodrik, D., xn.

115

Indice dei nomi

Romano, S., xvin. Rosanvallon, P., 81n. Rossi, G., xviiin. Rotelli, E., 3n. Rousseau, J.-J., xi, 43 e n, 44 e n, 45n, 47, 70, 99. Sassen, S., xx e n. Schiavone, A., 97n. Schiera, P., 3n, 33n. Schmitt, C., xiv, xxi, 33n, 56 e n, 57 e n, 58 e n, 60, 61 e n, 62, 63 e n, 64, 65 e n, 66-67, 68 e n, 69, 70 e n, 71 e n, 72 e n, 73-74, 75 e n, 76, 77 e n, 78 e n, 79, 84n, 86, 87n. Schmitz, M., 56n. Schwarzmantel, J., 97n. Sciacca, E., 3n. Shapiro, K.J., 71n. Silvestri, G., 22n. Spinoza, B., xiin. Spivak, G.C., 34n. Stekeler-Weithofer, P., 34n.

Stiglitz, J.E., xn. Stoppino, M., 3n. Supiot, A., 50n. Surel, Y., 105n. Tarizzo, D., 87n. Taylor, C., 30n. Tedesco, F., 34n. Thomas, P.D., 97n. Tortarolo, E., 3n. Tuccari, F., 100n. Vernuls, N. de, 69. Vieweg, K., 34n. Voigt, R., 72n. Volpi, F., 61n, 72n. Welsch, W., 34n. Zagrebelsky, G., 21n. Žižek, S., 97n. Zolo, D., xn, xxn, 3n, 71n, 75n.

Indice del volume

Introduzione

ix

1. Per una critica dell’ideologia post-politica, p. ix - 2. Equivoci globalisti, p. xvi

I. Ordine e sopravvivenza

3

1. L’ambivalenza del potere e il mistero dell’obbedienza, p. 3 - 2. La politica come artificio, p. 7 - 3. L’insufficienza della società, p. 17 - 4. Il contenuto minimo del ‘diritto politico’, p. 19

II. Identità e riconoscimento

29

1. Il paradosso dell’identità, p. 29 - 2. La politica come destino, p. 35 - 3. Oltre il contratto, p. 42 - 4. Riconoscimento e potere, p. 49

III. Ostilità e diritto

55

1. La produttività politica dell’inimicizia, p. 55 - 2. Oltre il diritto eurocentrico, p. 71

IV. Popolo e populismo

81

1. Il concetto politico di popolo, p. 81 - 2. L’uso populista del popolo, p. 87 - 3. Egemonia «versus» populismo, p. 96



Indice dei nomi

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