La mutazione individualista. Gli italiani e la televisione 1954-2011 9788842097242

Molto più di tutti gli altri media che l'hanno preceduta nella storia (stampa, radio, cinema) la televisione suscit

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La mutazione individualista. Gli italiani e la televisione 1954-2011
 9788842097242

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Quadrante Laterza 173

Giovanni Gozzini

La mutazione individualista Gli italiani e la televisione 1954-2011

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9724-2

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione

La televisione cambia la testa degli italiani? Gli storici non hanno difficoltà a rispondere di sì. E fanno sempre l’esempio della lingua. Se nell’ultimo mezzo secolo i nostri concittadini che parlano il dialetto più dell’italiano calano da due terzi a meno di un quarto, molto lo si deve a Mike Bongiorno e al piccolo schermo. Visto che da sempre nel nostro paese si legge poco e che il cinema rappresenta un passatempo troppo saltuario (non sono tanti quelli che ci vanno più di una volta a settimana) per modificare davvero le abitudini. La televisione, invece, campeggia nella vita quotidiana: quattro ore in media per ciascuno è il dato che emerge dalle statistiche. Meno di quanto la guardano gli inglesi e appena un po’ più di tedeschi e francesi. Ma certo in tutti i paesi ricchi la televisione si afferma come il mezzo informativo e il consumo culturale di gran lunga dominante. È per questo che fa anche molta paura. La nostra domanda di partenza ne nasconde altre. C’è la televisione dietro ai ragazzi che per soldi uccidono i genitori? C’è la televisione dietro alle contrapposizioni esasperate della vita politica? C’è la televisione dietro agli immigrati che arrivano credendo di sbarcare nel paese di Cuccagna? Un po’ come il demonio, il teleschermo diventa l’artefice ubiquo e onnipotente del pervertimento dei costumi. Del resto la demonizzazione della Tv vanta precedenti illustri: quelli che si richiamano alla «Scuola di Francoforte» (così detta per i legami di molti suoi esponenti, da Adorno a Marcuse, con l’Insti­­­­­v

tut für Sozialforschung di Francoforte) e alla sua idea della società moderna come società «a una dimensione», piallata dalla cultura di massa prodotta dalle industrie del consumo, obbediente al potere e alla persuasione occulta della pubblicità commerciale (Marcuse 1967). Eppure, se da allora una cosa gli studiosi hanno capito è che la televisione ognuno la vede a modo suo: non solo nel senso che sceglie quali programmi vedere, ma anche che la stessa trasmissione suscita effetti e sentimenti diversi tra giovani e anziani, tra uomini e donne. Dallas, capostipite delle soap opera televisive, può essere visto come un affresco della società statunitense o come uno psicomelodramma. Di fronte al teleschermo non si è mai soltanto schiavi dell’antitesi secca e manichea tra manipolazione passiva e resistenza attiva: ogni testo proposto contiene diversi livelli di lettura e viene decodificato da spettatori diversi in modi diversi. Ogni processo di fruizione dei mass media (giornali, radio, televisione) corrisponde a una sorta di negoziato tra le strategie delle emittenti, i simboli e i contenuti dei programmi, i caratteri psicologici e sociali di individui e gruppi che ne vengono raggiunti. La televisione, insomma, non crea le «veline» dal nulla, a differenza di quelle originali, diramate da Mussolini per orientare la stampa di regime. Così come non produce da sé crisi della famiglia, delinquenza, corruzione e migranti. Riesce invece a fare leva su problemi, insicurezze, fragilità che già esistono, per trasfigurarli in un mondo di sogni, miti, illusioni. Da questo punto di vista la storia della televisione italiana è particolarmente istruttiva, perché – in modo non diverso da tutte le altre televisioni europee che negli anni Settanta vivono la fine del monopolio di Stato – mostra il passaggio dalla televisione pedagogica di Mike Bongiorno ed Ettore Bernabei (il democristiano di stretta osservanza fanfaniana che dirige la Rai dal 1961 fino al referendum sul divorzio del 1974) alla «neotelevisione», che – da trasmissioni come Portobello (1977) fino al Grande Fratello (2000) – mette in scena, celebra e mitizza l’italiano medio. Una volta c’erano le parolacce che si dicevano a scuola, sul lavoro, a letto. Poi in pubblico si doveva controllare un po’ le proprie abitudini, e la Paleo televisione (sottomessa alla censura, e concepita per un pubblico ideale, mite e cattolico) parlava in modo depurato. Le televisioni indi­­­­­vi

pendenti, invece, vogliono che il pubblico si riconosca e che dica «siamo proprio noi» (Eco 1983, 177).

Se prima, al tempo della «paleotelevisione» – che insegnava a tutti l’italiano –, una ragazza poteva solo fantasticare di immedesimarsi nelle gemelle Kessler o in Sofia Loren, adesso, nel tempo della neotelevisione, il sogno di «andare in scena» diventa un’opportunità reale: qualcosa che può davvero e subito cambiare la vita, senza fatica e senza bisogno di studiare, prepararsi, aspettare. Tutte possono diventare veline. Questo passaggio ne porta con sé molti altri, meno evidenti ma forse ancor più significativi. Dallas e Grande Fratello convergono nel cancellare l’orizzonte collettivo della storia e della politica: la realtà si riduce a un microcosmo di individui che si confrontano tra loro. Chi segue da casa smarrisce via via il senso del confine tra vero e verosimile: ci interessa soltanto vedere chi vince. Il rispetto delle regole (ad esempio, l’effettivo isolamento dei partecipanti al Grande Fratello e la reale libertà dei loro comportamenti) diventa secondario rispetto alla suspence del racconto. Anche l’informazione politica ne viene trasformata. Da Samarcanda (1987) in poi, non è più un forum comunicativo di confronto tra opinioni regolato dalle leggi – come le vecchie, noiose Tribune politiche di Jader Jacobelli –, bensì una narrazione con buoni e cattivi, vincitori e vinti, dove ciò che avvince e interessa è soltanto il risultato finale della partita. Il wrestling sostituisce la boxe. Le regole (la democrazia) rimangono sullo sfondo e l’appello ad esse risulta alla fine pedante e inefficace. La politica diventa un genere di consumo: si vota per la trama migliore e più avvincente, come dalla poltrona di casa davanti al teleschermo, contando sul fatto (l’illusione) che la politica non toccherà davvero la sfera privata della vita quotidiana e il posto di spettatori in prima fila. Per loro stessa natura le televisioni commerciali – e le televisioni pubbliche obbligate a rincorrerle sul mercato degli spot commerciali – si collocano al crocevia tra individui e consumi: la loro inesorabile ragione sociale è di vendere spettatori agli inserzionisti pubblicitari. Il contenuto dei programmi è quindi funzionale unicamente a questa necessità, da cui dipende la loro stessa sopravvivenza. Della neotelevisione la pubblicità diventa l’anima, non solo perché materialmente ne garantisce l’esistenza, ma perché presiede alla formazione di un nuovo homo oeconomicus definito non più soltanto dal calcolo razio­­­­­vii

nale della propria utilità, bensì anche dalla partecipazione al mercato dei consumi di massa, che diventano di per sé valori e veicoli di identità. Gli spot si mischiano ai programmi come la realtà alla fantasia, l’informazione all’intrattenimento, lo spettacolo alla vita. In Italia abbiamo molte opere pregevoli e fortunate che raccontano queste vicende (Pinto 1980; Ortoleva 1995; Anania 1997; Chiarenza 2002; Menduni 2002; Grasso 2004; Padovani 2005; Monteleone 2009). Ma hanno più o meno in comune il limite di trattare la questione principalmente dal punto di vista della storia interna delle aziende (Rai e Mediaset) e della loro attività produttiva, con episodiche e residuali aperture verso il pubblico degli italiani, che la televisione la guardano, e verso le trasformazioni lente e molecolari da essa prodotte nelle loro forme mentali e nei loro comportamenti quotidiani. D’altra parte abbiamo anche tante ricerche sociologiche condotte su quest’ultima materia, che tuttavia soffrono spesso di un impianto metodico ristretto al territorio nazionale: la dimensione comparativa rimane relegata sullo sfondo e continuiamo a non sapere quanto e come gli italiani cambiano con la televisione in raffronto ad altri popoli, ad altre storie e culture, ad altre situazioni politiche (Morcellini 1986; Casetti 1995; Livolsi 1998 e 2005; Abis-BoniCarullo 1999; Boni 2004; Balassone 2004; Tarozzi 2007). Le poche eccezioni comparative (Rath et al. 1990; Richeri 2005) appartengono pressoché interamente al filone di studi «aziendalisti» e poco o nulla ci dicono sul pubblico televisivo. La televisione non è onnipotente. Se riesce a cambiare la testa delle persone è perché funziona da sponda (e da specchio) di una trasformazione sociale profonda: la mutazione individualista. La baby boom generation, concepita tra la fine della guerra e il 1955, inietta nelle società occidentali un’overdose di individualismo che in Italia – tra Sessantotto e anni di piombo – si esprime nelle forme tradizionali della politica, per poi allontanarsene e trovare sbocco in altri campi. Gli effetti di questa mutazione individualista si misurano su tre piani distinti, anche se naturalmente tra loro collegati. Il primo è il piano dei comportamenti demografici: meno matrimoni e meno figli, più single; le famiglie italiane, da sempre unità di risparmio, diventano anche unità di consumo e resistono nel tempo (in Europa i giovani italiani sono quelli che vanno via di casa più tardi), ma a prezzo di una crescente conflittualità interna. Il secondo è quello dei cambiamenti socioeconomici: calo della grande industria e sviluppo ­­­­­viii

della piccola e media, espansione del lavoro autonomo, perdita di centralità della classe operaia. Il terzo riguarda le identità culturali: secolarizzazione o, per meglio dire, religiosità-bricolage («credo in Dio ma non nella Chiesa»), ridimensionamento dei valori connessi al lavoro, crescita di quelli connessi al tempo libero e alla società dello spettacolo. Radio e televisioni private – ma anche, in California, i prototipi di personal computer – vengono direttamente dal cuore di questa rivoluzione, di cui partiti e sindacati capiscono poco o nulla. Quello che i media chiamano «riflusso» – sbagliando, perché continuano a vedere la realtà con gli occhiali deformanti della politica – è in realtà un «flusso» che alla fine degli anni Settanta abbandona la politica (incapace di vere grandi riforme) e si proietta sulla scena dell’autoimprenditoria: i baby boomers alimentano il popolo delle partite Iva e la terza Italia delle microaziende e dei distretti industriali. Orfani di una politica che li aveva fatti sognare in gioventù ma che si rivela sempre più conservatrice e autoreferenziale, gli italiani si fanno da sé, imprenditori di se stessi. Ma nello stesso tempo «disfano» o, per meglio dire, perdono l’Italia, come dimensione collettiva e condivisa di società civile, fatta di passato e di futuro. Gli italiani vivono nell’eterno presente personalizzato dei consumi di massa e del loro benessere, acrobaticamente conquistato e salvato contro le crisi petrolifere e l’austerità. Di questo passaggio molti storici tendono a dare un’interpretazione «continuista» e stereotipata: gli italiani sono sempre stati così, «Franza o Spagna, purché se magna». Si consolida nel tempo un complesso di peculiarità che li distinguono nel novero dei paesi civili: culto del particulare, ignavia politica, distacco tra paese reale e paese legale, familismo amorale, corruzione e clientelismo, furbizia individualistica e disprezzo per le regole, borghesia debole e quindi tendenzialmente autoritaria, forte presenza della Chiesa romana e timida cultura laica e liberale, divisioni ideologiche e integraliste della vita politica (guelfi e ghibellini, democristiani e comunisti, berlusconiani e antiberlusconiani). È un modo di guardare agli italiani e alla loro storia che vanta «padri» nobilissimi e intoccabili – da Dante e Guicciardini fino a Leopardi e Gramsci – e che rubricherei sotto l’etichetta di «paradigma eccezionalista». Gli italiani vengono visti sotto una luce etico-politica che ne illumina difetti, mancanze e ritardi rispetto ad altre epoche storiche (quella classica o quella ­­­­­ix

risorgimentale, per esempio) come anche rispetto a presunti modelli stranieri di cultura civica, di unità e forza delle istituzioni, di coesione collettiva delle popolazioni. Già nel 1955 Norberto Bobbio sintetizzava così la questione: Io credo che talvolta a qualcuno che ci guardasse dal di fuori [...] noi daremmo l’impressione di persone che sanno benissimo come la società italiana deve essere, ma non sanno assolutamente com’è. E si capisce: per stabilire una volta per sempre come deve essere, basta la deduzione trascendentale, per capire com’è occorrono indagini laboriose (Bobbio 1955).

Come sempre, gli stereotipi corrispondono a un effettivo pezzo di realtà. Ma finiscono per trascurare il quadro d’insieme: cosa ha tenuto e tiene insieme questo paese? Cosa gli ha permesso di diventare una delle maggiori potenze industriali del mondo passando attraverso dominazioni straniere, dittature, terrorismi? Non dirò che è stata la televisione. Sarebbe troppo. Ma la televisione ha rispecchiato (e quindi dato voce a) quella mutazione individualista trasversale che l’occhio etico-politico degli storici non riesce a cogliere. E che è invece al centro delle «indagini laboriose» raccomandate da Bobbio: economisti e sociologi disegnano un ritratto degli italiani meno etico-politico, ma anche meno sintetico e stereotipato, più frammentato e plurale. Prima le Italie diventano tre, aggiungendo alla tradizionale opposizione tra Nord e Sud un Centro e un Nord-Est caratterizzati dalla rete diffusa di piccole e medie industrie, dalla campagna urbanizzata, da subculture politiche (bianche o rosse) che funzionano da collanti di un radicato tessuto associativo locale. Poi le tipologie di italiani si moltiplicano (da otto fino a diciotto), secondo una logica di microsegmentazione tipica delle scienze del marketing, interessate a definire con crescente precisione i destinatari delle loro campagne di comunicazione pubblicitaria in base agli stili di vita e di consumo, piuttosto che in base a ideologie politiche o appartenenze di classe sociale, ritenute ormai secondarie. Gli italiani senza Italia si dividono in tante tribù di consumo («liceali», «delfini», «arrivati», «appartati»...) e la neotelevisione commerciale legata alla pubblicità è l’unica a tastare loro il polso quotidianamente, a registrare gli spostamenti anche minimi ­­­­­x

dei loro gusti e dei loro stili di vita. Partiti e sindacati ne capiscono sempre meno. Queste cose succedono in tutti i paesi sviluppati, ma solo in Italia la televisione diventa soggetto politico. In tutta Europa l’emittenza televisiva privata si afferma rapidamente nel corso degli anni Settanta. La prima storica differenza è che ovunque – tranne che in Italia – il potere politico è in grado di garantire le regole della libera concorrenza con apposite legislazioni antitrust che mediamente consentono agli editori il possesso, al massimo, di una sola rete nazionale. In Italia la rapida ascesa dell’imprenditore edile Silvio Berlusconi (fino alla conquista di tre reti nazionali) si spiega con l’assenza di normative, ottenuta grazie al tradizionale rapporto particolaristico di scambio che Berlusconi intrattiene con il leader socialista Craxi e che gli consente di approfittare di una lunga fase di «Far West» per fare piazza pulita di ogni concorrente. Non è qualcosa di eccezionale nella storia del capitalismo italiano, abituato a prosperare all’ombra del potere politico: Fiat e Olivetti sono cresciute nella stessa maniera. Ma di sicuro determina un’anomalia. Com’è noto, la legge che regola il sistema televisivo arriva solo nel 1990 e si limita a ratificare la posizione monopolistica raggiunta da Berlusconi. Come le maledizioni bibliche, anomalia genera anomalia. Quando la fine della guerra fredda determina la scomparsa dei suoi «padrini» politici, la neotelevisione privata è costretta a «scendere in campo»: non farlo equivarrebbe a correre il rischio di una nuova, seria, normativa antitrust, con la conseguenza di dover ridurre drasticamente le proprie dimensioni, omologandole a quelle delle altre reti televisive straniere. Una tipica lettura provinciale interpreta questo passaggio (ennesimo frutto del paradigma eccezionalista) nei termini di una «guerra per bande» tutta italiana, limitata all’inchiesta giudiziaria Mani Pulite che all’inizio degli anni Novanta decapita (con rare eccezioni, concentrate tra gli ex comunisti) l’intero ceto politico italiano. In realtà la svolta si manifesta ben prima dell’inchiesta, almeno a partire dal successo elettorale della Lega Nord alle amministrative del 1990 e dal referendum sull’abolizione delle preferenze nel 1991. Un minimo di profondità storica non può non mettere in relazione la fine della cosiddetta prima Repubblica con la fine dell’equilibrio bipolare del mondo, che priva il sistema politico italiano della sua legittimazione decisiva: quella di impedire la fuoriuscita del paese dal blocco occidentale. Venuta meno tale ­­­­­xi

giustificazione, entra in discussione ogni tradizionale base di consenso: le inchieste giudiziarie nascono innanzitutto da questa crisi di legittimità e, d’altra parte, l’ottusa resistenza ad oltranza opposta da un ceto politico «viziato» da decenni di inamovibilità non fa che peggiorare le cose, fino al punto di rottura. Nel 1994 Berlusconi scende in campo: dall’anomalia della mancata normativa antitrust si arriva all’anomalia del conflitto di interessi tra monopolista privato e monopolista pubblico del sistema televisivo, che diventano la stessa persona. Ma la forza d’urto di Berlusconi non sta nel megafono che le sue televisioni gli assicurano. Sta nella conoscenza di quegli italiani individualisti senza Italia che le sue televisioni hanno maturato nel quindicennio precedente. E quindi nel saper comunicare con loro. In questo schema interpretativo le «eccezioni» della situazione italiana non riguardano né la società civile, né la televisione, che seguono anzi linee di sviluppo del tutto simili a quelle percorse dagli altri paesi occidentali. Riguardano invece la politica e la sua crescente incapacità – dopo la fine degli anni Settanta – di approvare riforme serie e di dare sbocchi e risposte alla mutazione individualista. È una politica sempre più autoreferenziale e sempre più prigioniera del rapporto corporativo con i vertici del potere economico: sempre meno in grado di leggere, interpretare, rappresentare la società civile (soprattutto la sua maggioranza più o meno silenziosa, fatta dai «piccoli», imprenditori, commercianti, dipendenti, lavoratori autonomi che siano). La televisione, in altre parole, non determina il mutamento: lo rispecchia, lo catalizza e lo amplifica. Ma la trasformazione della società italiana provocata dalla mutazione individualista è destinata a rimanere irreversibile, ben oltre l’avventurosa permanenza di Berlusconi sulla scena politica. Nel mondo emotivo e trascendentale della comunicazione per immagini, la neotelevisione commerciale crea sogni, soddisfa ambizioni, placa paure. Riduce la realtà ad insieme di storie personali, governate dal caso e dal lieto fine. Regala attimi di celebrità a uomini e donne «senza qualità» se non quella di essere semplicemente se stessi, senza nemmeno chiedere più l’abilità di rispondere a dei quiz. Realizza effetti di partecipazione e immedesimazione con i personaggi importanti di un palcoscenico tanto effimero quanto potente. Pubblicizza beni di consumo come status symbol, veicoli e strumenti di identità personali altrimenti rese fragili dalla competizione e dalla globalità, ma soccorse da nuovi conformismi negli stili di vita. Cancella l’idea ­­­­­xii

del futuro come frutto di progetti comuni e di scelte condivise fra molti per sostituirgli un eterno presente fatto di soddisfacimento immediato di (presunti) bisogni personali. Cancella, cioè, la politica. D’altra parte, o la politica riparte da questi individui e dalle loro domande, riparla a tutti di felicità in modi plausibili e concreti per ciascuno, o è destinata a un ruolo sempre più marginale ed inutile rispetto ai «poteri forti» della finanza, dell’economia, della comunicazione. Firenze, febbraio 2011 Devo ringraziare alcune persone che mi hanno dato un aiuto prezioso: innanzitutto Marco Catena, sollecito e inappuntabile nel fornirmi dati. Poi Tommaso Detti, Marcello Flores, Giorgio van Straten: amici di una vita che, ancora una volta, hanno letto e corretto. Come sempre, quanto ho scritto è unicamente farina del mio povero sacco e non li impegna in alcun modo. Quello per Serena non è un ringraziamento, ma una dedica: alla meraviglia che è, alle scoperte e alle scommesse che ogni giorno facciamo insieme.

La mutazione individualista Gli italiani e la televisione 1954-2011

I

Il boom

(1954-1967)

1. Rivoluzione in famiglia Lungo tutto il Novecento la copertina illustrata della «Domenica del Corriere» rappresenta un appuntamento importante per molti italiani: a tinte forti mette in scena un avvenimento drammatico o comunque sensazionale della settimana, il più capace di emozionare i lettori. Quella del primo numero del 1954, illustrata da Walter Molino, è dedicata a un nuovo elettrodomestico che prova ad inserirsi nelle abitudini del paese: il suo nome, tradotto letteralmente dall’inglese, è «televisione». La didascalia di commento ne immagina un impatto tutt’altro che pacifico, con toni di allarme destinati a ripresentarsi ancora per lungo tempo negli anni a seguire: Rivoluzione in famiglia! L’arrosto brucia, i bambini dimenticano i compiti, il papà la pipa e l’appuntamento al caffè. Dopo due anni di fase sperimentale cominciano in Italia le trasmissioni regolari della televisione da Milano, Torino e Roma con un programma per ora unico.

Televisione uguale morte della conversazione uguale divorzio, si era sostenuto qualche anno prima su «Oggi» (Gullace 1950). Al suo apparire – più di trent’anni prima – la radio aveva suscitato molta meno apprensione. L’atto di ascoltare sembrava più naturale e domestico, poteva tranquillamente combinarsi alle attività normali di genitori e figli, non richiedeva un’attenzione così polarizzante ed ­­­­­3

esclusiva, riusciva ad avvicinare cittadini e istituzioni: come nel caso delle Fireside Chats, le «chiacchiere al caminetto» del presidente statunitense Roosevelt, o della voce dell’imperatore, che per la prima volta i giapponesi poterono conoscere nel 1945 mentre annunciava in diretta la resa delle sue forze armate e la fine della guerra. Fin dall’inizio, invece, la televisione viene vista come una presenza ingombrante e minacciosa, potenzialmente eversiva di rigidi equilibri familiari: le donne (neppure nominate dalla «Domenica del Corriere») in cucina, gli uomini al bar, i figli con i loro compiti di scuola. Paolo Monelli sulla «Stampa» ne commenta con snobistico catastrofismo di maniera i possibili effetti manipolatori sulle coscienze: Per qualche tempo l’alto costo degli apparecchi terrà immuni le famiglie borghesi e operaie da questo flagello (ma vedrete come si agiteranno i giornali di sinistra perché anche al popolo sia concesso il contagiarsi di questa tabe) ma è inutile illudersi, gli apparecchi verranno a buon mercato, e con le vendite a rate accessibili a tutti. Se in questi anni l’Italia è rimasta un po’ addietro riprenderà il suo posto all’avanguardia delle nazioni in marcia verso il progresso; un progresso all’ingiù, voglio dire, una società di analfabeti, di conformisti, di meccanizzati, per cui non ci sarà più posto per la varietà e l’imprevisto della vita, per la libera scelta dell’attività e dello svago. Che verso una società così si vada, è indubitato; l’umanità sarà sempre più schiava delle macchine [...] L’anno scorso, scrivendovi dall’America, vi ho detto che un mutamento la televisione ha portato e sta portando alla vita americana. Non soltanto la crisi del cinematografo o una nuova violenta forma di propaganda politica, per cui ogni famiglia si tiene in casa sua per una mezz’ora intiera, e più volte, il candidato di uno o dell’altro partito, lo sente e lo vede parlare come lo avesse dirimpetto, noverandogli i foruncoletti sulla pelle o le stille di sudore sulla fronte. Ma la televisione non ucciderà soltanto il cinematografo o il teatro, è sulla via di annullare quelli che sono stati finora i rapporti sociali e familiari, come già oggi radio e cinematografo hanno ucciso la conversazione [...] Perché questo è l’aspetto più deprecabile della televisione, subdolo strumento di dittatura nel campo dello spirito e della coscienza, tanto più inavvertita quanto più le immagini e i suoni la fanno seducente [...] E poiché, come appare, più ancora di quanto la radio e il cinema abbiano fatto finora, la televisione sta sostituendo ogni altra forma di divertimento, di curiosità, di istruzione [...] è chiaro che quella oligarchia di direttori coi loro gusti discutibili, le loro simpatie politiche, gli interessi cui sono legati, finisce con l’«imbottire i crani», come si diceva una volta, e con molta maggiore ­­­­­4

efficacia di quando nacque quella frase, quando l’«imbottitura» era fatta solo con i discorsi in piazza, e senza gli altoparlanti (Monelli 1953).

Argomentazioni destinate a ripetersi fino ai giorni nostri. Ma non mancano, anche se restano in netta minoranza, voci più tranquille e ottimiste, come quella di Gianni Granzotto, inviato della «Stampa» negli Stati Uniti e non per caso futuro amministratore delegato della Rai tra 1965 e 1969: Cominciamo intanto con il dire che non bisogna aver paura della televisione. Ho letto anch’io, qui in America, il bell’articolo di Paolo Monelli sui pericoli e le minacce della televisione. Le stesse cose si dissero e si scrissero quando la televisione incominciò a diffondersi negli Stati Uniti. Si disse che avrebbe ucciso la cultura, che avrebbe ucciso la conversazione, la lettura, le vecchie abitudini della vita sociale [...] Si è cominciato in America con venti ore di trasmissione alla settimana: ora la media è di sei ore e anche meno. La ipnosi da Tv non è un male cronico, ma una febbre passeggera. Se la televisione prende un posto preminente nelle abitudini di certe famiglie questo accade nelle case dove non esistevano nemmeno prima quelle forme di vita sociale che si teme vengano distrutte: case dove non si leggeva o si leggeva poco e male, dove non si tenevano conversazioni brillanti o concerti. In quelle case la televisione ha colmato un vuoto, e Dio volesse che la stessa cosa avvenisse anche in Italia (Granzotto 1954).

Granzotto si sbaglia sui dati. Secondo una prima rudimentale indagine della Nielsen (tra le maggiori società per indagini di mercato degli Stati Uniti), nel periodo 1950-1956 il tempo medio di ascolto televisivo delle famiglie statunitensi sale da quattro ore e mezzo giornaliere a cinque (Bogart 1956, 70). Ma non si sbaglia sulle paure, che sono simili su entrambe le sponde dell’Atlantico. Una delle prime situation comedy trasmesse in America, The Honeymooners (1955), fin dalla prima puntata mette in scena le proteste del marito che rientra a casa la sera e trova la moglie davanti al televisore: «abbiamo la Tv da tre giorni e da allora non sono più riuscito a mangiare qualcosa di caldo» (Spigel 1992, 88). Proprio allo scopo di esorcizzare le paure circa i possibili effetti eversivi del piccolo schermo sugli equilibri familiari, i televisori Zenith ed Emerson reclamizzati sulla stampa periodica si presentano come veri e propri pezzi di arredamento: mobiletti che quasi nascondono lo schermo e puntano innanzitutto ad inserirsi a pieno titolo nell’ambiente domestico. La televisione ­­­­­5

viene illustrata dalla comunicazione commerciale come uno status symbol della classe media emergente: un puntello essenziale della coesione interna, del decoro e della rispettabilità pubblica delle famiglie che ad essa appartengono. Tenendo tutti a casa, la televisione funziona da deterrente contro divorzi, alcolismo, vagabondaggio, delinquenza giovanile. Riduce sì tempi e spazi della socializzazione, ma dà un motivo a nonni, genitori e figli per stare insieme. L’ideale della compattezza familiare che la televisione arrivava a significare, si accompagnava – come tutte le fantasie culturali – ad ansie mal dissimulate che riemergevano spesso nella stampa popolare dell’epoca. Sebbene ripetessero di frequente che la televisione riuniva le famiglie in casa, i media di larga diffusione esprimevano anche disagio rispetto al suo ruolo nelle questioni domestiche. Un buon inserimento del televisore nelle case dipendeva dalla capacità di eliminare ciò che «House Beautiful» [una delle più diffuse riviste femminili] chiamava il suo «aspetto poco domestico». In un tempo in cui c’era molta attenzione per la modernizzazione dei nuclei familiari, la stampa femminile teneva sotto costante osservazione il rapporto tra la famiglia e la tecnologia. Sull’argomento le riviste si mostravano esitanti, talvolta accettando, talvolta rifiutando gli effetti della meccanizzazione (Spigel 1992, 45).

In Europa e in Italia, però, alle preoccupazioni di ordine sociale si affiancano preoccupazioni di natura più propriamente politica. Luigi Barzini mette in guardia dalla potenza pervasiva e totalitaria del nuovo mezzo: Io pensavo con spavento, mentre gli altri parlavano, delle responsabilità di chi avesse dovuto dirigere una simile spaventosa macchina. Tra breve, senza dubbio, l’apparecchio sarà letteralmente dovunque, dove ora sono radio-riceventi, in parrocchia, nello stabilimento di bagni, nelle trattorie, nelle case più modeste. La capacità di istruire e commuovere con l’immagine unita alla parola e al suono è enorme. Le possibilità di fare del bene o del male altrettanto vaste. L’Italia sarà, in un certo senso, ridotta ad un paese solo, una immensa piazza, il foro, dove saremo tutti e ci guarderemo tutti in faccia. Praticamente la vita culturale sarà nelle mani di pochi uomini (Barzini 1954).

È una polemica che accompagna fino ad oggi l’intera esistenza del nuovo mezzo di comunicazione e che ne enfatizza – assai più che per tutti gli altri media – particolari capacità non solo di distrar­­­­­6

Fig. 1.1. Consumi degli italiani, 1955-1990 100

frigo

90

lavatrice

80

auto

Tv (% famiglie) 70 60 50 40 30

carne (kg annui)

20

moto

10 0 1955

1960

1965

1970

1980

1990

re da compiti e attitudini sociali (secondo il grido di allarme della «Domenica del Corriere») ma anche di manipolare le coscienze e di trasformare i comportamenti. Eppure il televisore si diffonde nelle case degli italiani in contemporanea ad altri beni di consumo durevoli (frigorifero, lavatrice, auto) che insieme, tra 1955 e 1965, vanno a comporre il quadro del «miracolo economico»: il più significativo ed accelerato miglioramento di qualità della vita nell’intera storia del paese. Tra il 1950 ed oggi, per esempio, il consumo di carne dell’italiano medio è salito da circa 4-5 chili all’anno a 25: ma la maggior parte di questo aumento si concentra nel periodo 1955-1965, quando cresce da 9 a 20 chili. L’Italia peraltro non è un’eccezione: in Francia si verificano più o meno le stesse dinamiche (Gaillard 2006). Occorre sottolineare questo punto. In Occidente l’età dell’oro della ripresa economica post-bellica avviene all’insegna di un «sogno americano» che coniuga consumi e cittadinanza, benessere e diritti. Nel senso comune ­­­­­7

di fasce sempre più ampie di popolazione (non solo occidentale) il costante innalzamento dei livelli di vita diventa la misura dominante della qualità dei regimi politici e il possesso di beni entra a far parte delle identità individuali e collettive. Non si capisce l’intera seconda parte del Novecento (e il crollo del comunismo, per fare solo un esempio) se non si considera questa nuova centralità dei consumi privati di massa. Osservatori dell’epoca e storici (Alasia-Montaldi 1960; Fofi 1963; Diena 1963; Ginsborg 1989; Lanaro 1992; Crainz 1996) hanno tuttavia sottolineato come l’ascesa dei consumi degli italiani non si realizzi in un ambiente statico, ma si accompagni a un incremento della mobilità (prima individuale e poi familiare) senza precedenti per dimensioni di scala nella storia d’Italia: tra 1955 e 1971 cambiano residenza 26 milioni di italiani, per una media di un milione e mezzo ogni anno. In realtà i dati statistici supportano solo in parte questa received view per due ordini di motivi. Il primo è che, analizzata in un’ottica di più lungo periodo, l’Italia appare come un paese contraddistinto da una fisiologica e costante mobilità geografica a raggio ridotto (in larga misura entro i confini della regione d’origine) che neppure la legislazione restrittiva del regime fascista riesce a ridimensionare. Negli anni del boom (1959-1962) il tasso di migrazione interna registra un picco (34‰) che tuttavia non è sideralmente lontano da quello di periodi precedenti (lo stesso valore si misura nel 1937) e successivi: tra 1975 e 2005 oscilla infatti tra 21 e 23‰. Il secondo motivo è che, in una dimensione comparativa, la mobilità interna italiana anche nei suoi momenti di massima intensità appare inferiore a quella di molti altri paesi europei. A impressionare osservatori e storici dell’Italia sono l’impatto e la reazione di rigetto che la concentrazione di una massa critica di immigrati meridionali nelle città del Nord suscita nella popolazione: nasce di lì l’immagine dell’immigrato con la valigia di cartone che arriva spaesato a Milano, che tanta parte ha nella memoria collettiva del paese. Ma il flusso migratorio dal Meridione verso i poli urbani del triangolo industriale nordista esercita un ruolo assolutamente minoritario, sempre inferiore al 13% del totale. Di gran lunga maggiore (più che doppio) è il peso dei migranti meridionali che si muovono all’interno del Mezzogiorno. Nel complesso, quasi tre quarti di quei 26 milioni di italiani che migrano rimangono nell’area geografica di origine, spostandosi lungo direttrici a corto e medio raggio. ­­­­­8

A mettere in movimento questi italiani è innanzitutto una fuga dalle campagne più povere e disastrate verso le zone agricole più ricche, le frazioni e i comuni maggiori, le grandi metropoli. Il dato saliente della migrazione nel dopoguerra riguarda così il calo degli addetti all’agricoltura, che tra 1954 e 1964 scendono da 8 a 5 milioni. Si tratta di un processo di modernizzazione urbana e industriale che l’Italia condivide con gli altri paesi europei e che è prima di tutto conseguenza dell’innovazione tecnologica: trattori e mietitrebbia in rapidissima diffusione innalzano drasticamente la produttività e liberano forza lavoro che cerca impiego altrove e in prevalenza si dirige verso i centri abitati. In Italia, però, almeno fino al 1960 la fuga dalle campagne precede la meccanizzazione del lavoro nei campi e marcia a ritmi più veloci. È l’effetto congiunto della forza di attrazione esercitata dai nuovi posti di lavoro creati dal rilancio dell’edilizia abitativa e di quella legata alle opere pubbliche della ricostruzione, della reazione alle politiche di ruralizzazione più o meno coatte imposte dal regime fascista, dell’esclusione dai meccanismi di redistribuzione clientelare delle terre e del credito messi in atto dagli enti di riforma agraria, governati dopo il 1950 dalla Democrazia cristiana e dalla Coldiretti (la potente organizzazione contadina fondata nel 1944 da Paolo Bonomi). Solo in un secondo tempo lo spostamento della popolazione rurale si accompagnerà – come nel resto d’Europa – all’affermazione di un’agroindustria privata sempre più concentrata in poche grandi imprese, alla trasformazione in senso industriale e commerciale di colture e assetti del territorio, all’incremento straordinario degli scambi tra campagna e città e al conseguente sviluppo di una nuova rete logistica di servizi di trasformazione, trasporto, conservazione, commercializzazione e distribuzione dei prodotti agricoli. Nell’immediato, invece – a metà degli anni Cinquanta –, la fuga dalle campagne assume spesso le forme di un conflitto generazionale. A partire verso le città sono i giovani, che rompono l’atavica unità delle famiglie rurali (particolarmente di quelle mezzadrili, tipiche dell’Italia centrale). Li dividono dai genitori inediti livelli di scolarità: gli iscritti alle medie passano dai 500 mila del 1947 al milione e 600 mila del 1962 (alla vigilia dell’istituzione della scuola media unica e obbligatoria). Almeno fino a metà degli anni Sessanta, questo surplus di formazione (rispetto al passato) trova sbocco in una grande espansione del lavoro dipendente, soprattutto industriale: quasi due terzi della forza lavoro che lascia le campagne si impiegano nelle ­­­­­9

Fig. 1.2. Occupati in Italia (milioni), 1951-2001 30

25 totale 20

15 servizi 10 industria 5 agricoltura 0

1951

1961

1971

1981

1991

2001

2006

fabbriche e la disoccupazione tocca nel 1963 il suo minimo storico. Le grandi fabbriche del Nord Italia (tra le quali spicca la Fiat di Torino, che supera i 100 mila addetti nel 1961) acquisiscono nella vita civile e nell’immaginario collettivo una centralità destinata a durare fino a tutto il decennio successivo. In grande maggioranza i nuovi operai italiani sono dequalificati e occupati in mansioni ripetitive: anche per questo assimilano una nuova cultura collettiva, sindacale e politica. Per i molti di loro che vengono dalle campagne significa l’adesione a un modo di vita urbano che soppianta o quantomeno delimita la vecchia cultura nutrita di particolarismo clientelare. Le città crescono rapidamente: tra 1961 e 1971 la percentuale di italiani che vivono in centri con più di 20 mila abitanti sale dal 59,1 al 65,4%. Si tratta di un ritmo di crescita urbana che non ha pari in Europa: nello stesso periodo in Germania la crescita è solo dal 49,7 al 51,2%, mentre in Francia, su un arco di tempo ancora più lungo (1962-1975) e utilizzando una soglia inferiore (le città con più di 10 ­­­­­10

mila abitanti), la crescita è solo dal 47,9 al 51,9% (Flora et al. 1987, 267). Per una parte di italiani che diventa rapidamente maggioranza il flusso migratorio campagna-città mette capo a una stabilizzazione proprietaria: tra 1951 e 1981 le abitazioni in proprietà passano dal 40 al 59% (al Sud dal 48 al 63%), in una dinamica vicina a quelle americana (dal 55 al 61%) e inglese (dal 30 al 55%) ma molto superiore a quelle francese (dal 30 al 45%) e tedesca (dal 27 al 42%). La forma più importante di «individualismo acquisitivo» prende così piede in modo silenzioso e molecolare, mutando profondamente il modo di guardare al domani. Nelle famiglie dell’hinterland milanese la casa di proprietà vale anche il sacrificio dell’alimentazione dei figli (Pizzorno 1960, 190). È un mutamento antropologico in qualche modo antitetico a quello (minoritario) determinato dall’incontro con la grande fabbrica e la cultura collettiva da essa incarnata, perché incentiva il possesso particolare anziché la mobilitazione di massa. Ed è di qui che trae alimento, prima di tutto, il consenso che continua ad arridere al maggiore partito di governo. Il doppio movimento degli italiani sul fronte dei consumi e delle migrazioni ribalta il ciclo storico precedente, compreso tra le due guerre mondiali, quando la perdita di sicurezze e la percezione di vulnerabilità degli individui hanno prodotto una corsa al bene-rifugio dell’appartenenza a identità collettive forti, incarnate da regimi dittatoriali. A quella «fuga dalla libertà» si contrappone adesso, dopo il 1945, la nuova aspirazione a una libertà concepita innanzitutto come conquista di benessere materiale. La televisione, che si diffonde in modo così rapido nelle case degli italiani, campeggia al centro di questo processo decisivo: diventa la chiave d’accesso a nuove culture e rispecchia il movimento verso il progresso. Tra i giovani italiani il dinamismo determinato dall’istruzione si somma al primo loro protagonismo autonomo come nicchia di consumo: tra 1953 e 1963 i dischi venduti in Italia si moltiplicano da 5 a 22 milioni, i juke-box passano dai 4 mila del 1958 ai 40 mila del 1965. Nasce quella che i sociologi dell’epoca definiscono «la generazione delle 3 emme»: mestiere, moglie, macchina (Baglioni 1962). Le città che si gonfiano (Milano con 600 mila nuovi abitanti tra 1951 e 1961, Roma e Torino con 400 mila, Genova con 100 mila) diventano gli incubatori di nuovi stili di vita: secondo un’inchiesta Doxa del 1966 nelle città con oltre 400 mila abitanti i lettori di quotidiani e di libri ­­­­­11

sono in proporzione il doppio che altrove (Luzzatto Fegiz 1968, 725726). Sempre più spesso la vita di città viene assimilata nell’immaginario collettivo alla velocità e al dinamismo. L’utilitaria (la Seicento entra in produzione nel 1955, la Cinquecento nel 1957) sostituisce a poco a poco lo scooter e la Giulietta (1954) diventa uno degli emblemi di questa nuova Italia in crescita spregiudicata e arrogante, come la impersona Vittorio Gassman nel film di Dino Risi Il sorpasso (1962). Non è inutile ricordare che i morti in incidenti stradali del 1962 (poco meno di 10 mila) sono quasi il doppio di quelli odierni. La televisione è nello stesso tempo veicolo e diffusore del mutamento. La televisione, piaccia o non piaccia ai signori che ne detengono le chiavi e la vorrebbero stupida ed addormentatrice, sta lentamente minando nelle campagne, sulle montagne, sulle isole, tutto un modo di vivere, quieto e immobile da secoli: mette mille fermenti, sveglia, induce alle impazienze e ai confronti; agita la sete del nuovo e del meglio, porta un soffio di civiltà, comunque essa sia (Dallamano 1956a). La televisione porta nelle località più squallide, con l’evidenza delle immagini, l’aspetto del vivere moderno, con le sue tentazioni e il suo fascino. C’è da chiedersi come reagiranno alla violenta e persuasiva forza di quelle immagini le chiuse e arretrate comunità agricole così numerose nel nostro paese: non vi è dubbio che la televisione accelererà un processo ormai in atto, di svecchiamento, di superamento di vecchi modi di vita e di barriere che sembrano invalicabili. Per quante insidie una televisione regolata e dominata dalle forze più retrive del conservatorismo italiano contenga, essa ha in sé tanta forza di liberazione da chiudere sempre il suo bilancio all’attivo (Dallamano 1956b). Chi può scappa in città. In pochi anni da Pieve Delmona se ne sono andati quattrocento su millecinquecento, altrettanto a Galesco, Ca’ de Quinzani [...] L’altro mondo, quello della città, non è più una cosa sconosciuta, la televisione lo porta nelle osterie di campagna, ne presenta gli aspetti più gradevoli (Bocca 1960).

In effetti la modalità dominante di ascolto televisivo nell’Italia del boom non è quella domestica e assorbente illustrata dalla «Domenica del Corriere», che nel 1959 corrisponde a poco più di un terzo del totale. Per gli altri due terzi è quella collettiva nei locali pubblici (bar, ristoranti, osterie) oppure in casa di amici: esprime anch’essa un fattore di mobilità, di spostamento e ridislocazione seppur ­­­­­12

temporanea dell’unità familiare. A differenza della radio – i cui momenti pubblici di ascolto coincidevano con le adunate del fascismo – la televisione inventa una nuova opportunità di socializzazione, spontanea e autogestita. Soprattutto nei piccoli centri rappresenta un momento e un rituale di vita comunitaria che va ad aggiungersi a quelli tradizionali, organizzati dalle istituzioni ecclesiastiche o civili e dall’associazionismo locale. Non esiste in Italia niente di simile al movimento francese dei télé-club, cioè di fruizione collettiva organizzata (con dibattiti susseguenti) da enti civili o religiosi (Lévy 1999): in Italia il movimento associato verso la televisione rimane in larga maggioranza un fenomeno naturale. Da qualche mese, nella vita dei piccoli paesi della risaia vercellese, è entrato un elemento nuovo: la televisione, e si può però già dire che essa incida sul costume paesano più di quanto non abbia fatto in tanti anni il cinema [...] Anche dalle cascine più vicine ai paesi, se lo stato delle strade lo permette, le famiglie dei salariati anziché riunirsi la sera alle stalle, come è costume, si recano al più vicino locale con la televisione [...] Mentre nella vita delle nostre città la televisione ha ancora un peso irrilevante, nella vita paesana si può già dire ch’essa eserciti un’influenza sulle abitudini di vita associata: e – al contrario di quanto può parere a prima vista – la sua fortuna si adatta particolarmente a una situazione di povertà e isolamento, dove altri svaghi sono inaccessibili e le possibilità di spostamento limitate (Calvino 1954).

Nel paese toscano di Scarperia gli apparecchi in funzione nel 1959 sono solo 22 (metà in locali pubblici e metà presso le famiglie più ricche), su un totale di 5 mila abitanti: eppure sono meno di 500 quelli che dichiarano di non avere mai visto la Tv. contadini di montagna anche decrepiti [scendono] per viottoli scoscesi, magari sotto la pioggia, portandosi dietro la sedia per poter assistere a uno spettacolo televisivo. Persone di ambo i sessi, che non avrebbero mai pagato il biglietto d’ingresso per un film e si sarebbero trovate a disagio in una sala cinematografica, si recavano invece regolarmente a vedere la Tv nel locale più vicino anche se per far questo dovevano percorrere chilometri a piedi (Calamandrei 1959).

Nelle città maggiori, invece, la fruizione pubblica del televisore concretizza una delle rare opportunità di incontro tra nativi e immi­­­­­13

grati recenti, la cui convivenza è difficile e conflittuale. Le inchieste condotte all’epoca nelle metropoli del Nord documentano infatti l’insistenza degli stereotipi negativi associati ai «terroni» («fanno tanti figli e poi pretendono che siano gli altri a mantenerli», «vengono qui senza un mestiere e poi tocca a noi mantenerli»: Anfossi 1962, 262). La televisione è un’occasione nuova che, per tale natura, non reca con sé le differenze culturali più tradizionali e consolidate, dal consumo di carne e carta stampata alla condizione femminile. Accedervi nella saletta del bar o nell’appartamento dei vicini, magari portandosi la seggiola da casa, significa per i «terroni» un mezzo di integrazione e legittimazione che potenzialmente li parifica ai nativi. In Italia il possesso di un apparecchio televisivo esorbita dai confini di una sola famiglia; è proprietà e uso estensibile non tanto ai parenti e agli amici (il che è naturale) quanto agli inquilini del piano di sopra e di sotto, fino a coinvolgere l’intero caseggiato; nelle sere estive in quei grandi palazzoni multiformi di periferia che allevano balconcini e terrazze in ordinata monotonia è facile accorgersi dell’importanza sociale che viene ad assumere il possesso di un televisore. Le famiglie per così dire fortunate tengono corte bandita: le loro terrazze, i loro balconi formicolano di gente, bambini, vecchi, adulti, ragazzi assiepati dinanzi al piccolo schermo che lampeggia gaio e tentatore per i meschini che spiano da lontano nell’oscurità notturna [...] Ma è nei bar, nei caffè dove si misura in tutta la sua intensità il potere fascinatore della televisione. Sta nascendo un nuovo costume e pochi se ne accorgono. Famiglie intere che prima erano solite trascorrere le serate in casa ora escono all’aperto: si stipano nei bar, nei caffè all’angolo delle strade che possiedono il televisore. I locali si trasformano in piccoli cinema, in teatrini di varietà e di prosa con le sedie disposte alla buona intorno all’apparecchio e i tavoli per le consumazioni, necessari come il biglietto d’ingresso, relegati a lato. È un pubblico, si badi bene, attento, che ride facilmente e si accontenta di poco, ma interessato e preso dall’immagine sullo schermo. Chissà quale spinta riceveranno e in quale direzione i grandi modi collettivi del vivere sociale: è incredibile il numero delle persone che soltanto adesso attraverso la mediazione del piccolo schermo televisivo vengono a contatto per la prima volta con avvenimenti che per noi sono ormai scontati e consunti, che so, uno spettacolo d’opera, una grande corsa ciclistica, una seduta solenne al Parlamento. Ed è un contatto immediato di irresistibile potenza al cui confronto necessariamente svanisce e scolorisce ogni cronaca parlata alla radio (Dallamano 1955). ­­­­­14

Possono bastare queste forme particolari di ascolto collettivo della televisione a far ritenere il nuovo medium un solvente decisivo delle appartenenze locali, lo strumento di una irreversibile delocalizzazione della vita familiare e sociale, un alteratore della geografia situazionale, la dinamo di una nuova «mobile privatization»? Credo di no. Fin dall’inizio l’uso della televisione è un uso plurale: la visione in locali pubblici si affianca a quella elitaria privata, ma abbastanza rapidamente la seconda soppianta la prima. La Tv rispecchia quindi l’aumento del tenore di vita e si inserisce nel processo di modernizzazione del paese; ma l’Italia che migra si mette in movimento prima della comparsa del piccolo schermo e la frammentazione dei nuclei domestici è un processo che prende corpo solo in seguito, nel corso degli anni Settanta. In nessuno dei due esempi è possibile ipotizzare un ruolo determinante della televisione. «La televisione non è certo neutrale, ma non è neppure onnipotente» (Menduni 2004, 68). 2. «Carosello» L’avvento della televisione muta comunque in profondità le pratiche di vita sociale degli italiani. Ancora nel 1954 il campione rappresentativo intervistato dalla Doxa fotografa una graduatoria di usi del tempo libero che non appare sconvolta dall’avvento di cinema e radio. Per gli uomini le abitudini tradizionali – chiacchiere con gli amici (44%), gioco a carte (38%) – precedono ancora largamente ascolto della radio (23%), cinema (20%), lettura di giornali e riviste (16%), gioco con i bambini (9%), libri (7%) e lavoro manuale (5%). Per le donne la situazione è diversa, ma soltanto perché condizionata da un perdurante ed esclusivo orizzonte domestico: la radio (54%) supera così le chiacchiere con le amiche (33%), la lettura di giornali e riviste (23%), il gioco con i figli e il lavoro manuale (22%), il cinema (18%) e i libri (15%) (Luzzatto Fegiz 1968, 84). Dieci anni dopo, un campione di giovani sotto i 18 anni mostra una ormai avvenuta rivoluzione dei mass media, che dominano e restringono la vita sociale. La televisione (36%) prende largamente il sopravvento nei confronti della radio (24%), delle chiacchiere con gli amici (21%), dell’ascolto di dischi (17%), del cinema (16%), della lettura di giornali e riviste (15%), del gioco (14%), dello sport (13%). Ma è significativa anche tra i giovani la persistenza delle differenze di genere: tra le femmine la radio (36%) prevale ancora di misura sulla ­­­­­15

televisione (33%) e le pratiche private – dischi (22%), giornali e riviste (19%), lavori manuali (15%) – fronteggiano le pratiche pubbliche, come le chiacchiere con le amiche (23%), il cinema e il gioco (11%) (Volpicelli 1968, 385). Che la televisione cambi la vita se ne accorge anche il Partito comunista, che passa dall’iniziale demonizzazione in chiave antiamericana a un’attenzione più aperta (Guazzaloca 2010, 335). Il quotidiano di partito segue con assiduità le vicende di Lascia o raddoppia? e dalla fine del 1956 il titolo della rubrica di critica radiofonica e televisiva muta da La voce del padrone in Male e bene alla Rai-Tv. Le Case del popolo e le sezioni di partito si allineano rapidamente al costume della visione collettiva serale, acquistando apparecchi televisivi e collocandoli accanto al biliardo e al «calcio balilla». Su «Rinascita» compare l’invito a costituire gruppi di pressione dei telespettatori per la qualificazione culturale dei programmi e l’imparzialità dell’informazione. Nel 1961 è già tempo di autocritica ufficiale attraverso la penna di Aldo Natoli: Non so se si possa dire che sia in qualche misura mancata la consapevolezza del rilievo che la radio e più ancora la televisione hanno assunto nel campo della lotta politica e ideale; se sia stato sempre presente il senso della potenza, della forza di penetrazione, del grado di persuasività che è loro proprio e del condizionamento che questi strumenti ormai operano nei confronti di tutti gli altri mezzi di informazione e di propaganda politica, di diffusione della cultura, di ricreazione. Certo però che, abbandonando ogni forma di disdegno aristocratico e di inerzia mentale, deve farsi più acuta e costante la coscienza della parte che radio e televisione stanno conquistando nella vita moderna, lo studio del complesso di fenomeni sociali e culturali che alla loro massiccia presenza sono collegati, nella consapevolezza che attraverso questi strumenti deve passare oramai in notevole misura la nostra battaglia culturale e politica (a.n. 1961).

Tra i contadini lucani intervistati nel 1959 dalla sociologa Lidia De Rita l’interesse per la televisione si nutre principalmente di due motivi diversi: «c’è da apprendere», «c’è il divertimento» (De Rita 1964). Così rispondono giovani di poco più di vent’anni che hanno frequentato solo qualche anno di scuola elementare: Tutte le sere, fino a mezzanotte-l’una abbiamo visto, tutte le sere, la televisione... Quando non tengo da fare niente, tutte le sere vengo alla ­­­­­16

televisione. Anche quando la sera andiamo a Ferrandina, andiamo sempre alla televisione [...] Guarda, il cinema, quando hai visto, diciamo, la pellicola, hai visto... non c’è niente più, invece la televisione, una volta vedi un programma, una volta vedi un altro programma, la televisione è più... sportiva del cinema (ivi, 253). Che poi il cinematografo, certo, quando è... un buon film, allora c’è da vedere, ma poi tutto il resto non c’è niente. Ma la televisione sono diversi programmi, durante la serata, sono diverse cose, insomma sono più istruttive, c’è più da vedere [...] È quistione, dottore, noi siamo della campagna, la sera ti senti stanco... io l’unico divertimento, la sera me ne vengo alla televisione, sto un paio d’ore, poi mi vado a ritirare [...] Ma poi... mediante la televisione insomma ci sono tante cose che... tanti difetti che noi non l’abbiamo... non conosciamo debitamente... Mediante questa televisione insomma, attraverso la televisione ne fanno conoscere tutti i difetti della barbabietola, questi insetti... dove n’avvengono, quando depongono le uova... Eh così in pratica non le puoi vedere... tante cose (ivi, 238-239). Prima non capivano nudde [niente] invece mò vedi la televisione, vedi parecchi programmi, vedi parecchie cose [...] si capisce di più [...] Poi lo stesso programma dopo del Musichiere, no? «quindici uomini» [la canzone dell’Isola del tesoro] l’hanno visto anche i bambini, l’hanno visto! E vanno cantando strada strada... È stata una cosa che (gesto ampio della mano, come per indicare una cosa enorme) (ivi, 256-257). Forse le annunciatrici o le cantanti sono un poco scollacciate?... Eh insomma (ridacchia)... Non vi scandalizzate voi? No, eh, no! Noi, eh, allora... Ma neanche le signorine non si... Non si scandalizzano? No no! E quando fanno per esempio i balletti? Eh, ché quelli andiamo cercando, signorina, proprio... I giovani vogliono vedere i balletti. Quando è stato, signorina, quello l’altra sera... Ah sì, con Fred Buscaglione... Ah, stavano tutti a mirare, quelli, vogghia Dio! (come dire: per carità!) C’era molta... sentimento! [...] Io vorrei sapere, per esempio, quelle vecchie che si scandalizzano di tutte le cose, quando vedono quelle gambe da fuori, dicono qualche cosa, o no? Beh. Non dicono niente, signorina. Che vogliono dire, povere donne? Disce: non è che siamo tutti come qua, ché qua se vediamo nu fatto, non so che dobbiamo dire... Insomma, là è tutto diverso... (ivi, 259).

Non si tratta, come si vede, di una «delocalizzazione della vita sociale» (Meyrowitz 1993a), bensì di una nuova «simultaneità» (Buonanno 2006, 14), che mette a confronto la propria situazione con altri mondi fin allora sostanzialmente ignorati: la televisione ­­­­­17

educa alla pluralità, e incarna una inedita potenza di democratizzazione. Del nuovo mezzo si percepisce e si apprezza la natura integrativa, che serve a conoscere realtà diverse e in particolare «come si vive in città». I programmi più citati al riguardo sono Il Musichiere (il quiz musicale condotto da Mario Riva tra 1957 e 1960) e Lascia o raddoppia? (il celeberrimo quiz presentato da Mike Bongiorno tra 1955 e 1959). Il primo mette in scena le «canzonette» e viaggia quindi sull’onda di un mercato discografico in eccezionale espansione, di per sé potente omogeneizzatore delle abitudini e dei consumi culturali degli italiani. Ma il secondo conquista un’enorme popolarità – che il giovedì sera costringe i cinema a interrompere per più di un’ora la normale programmazione e a lasciare posto in sala al piccolo schermo – grazie alla corrispondenza tra la media normalità del pubblico e quella del conduttore e dei concorrenti. Il caso più vistoso di riduzione del superman all’everyman lo abbiamo in Italia nella figura di Mike Bongiorno e nella storia della sua fortuna. Idolatrato da milioni di persone, quest’uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere traspare una mediocrità assoluta (questa è l’unica virtù che egli possiede in grado eccedente) ed un fascino immediato e spontaneo spiegabile col fatto che in lui non si avverte nessuna costruzione o finzione scenica. Mike Bongiorno non si vergogna di essere ignorante e non prova il bisogno di istruirsi. [...] In compenso Mike Bongiorno dimostra sincera e primitiva ammirazione per colui che sa [...] professa una stima e una fiducia illimitata verso l’esperto (Eco 1961).

Scatta con Lascia o raddoppia? un potente meccanismo di immedesimazione del pubblico con il mezzo: la televisione fa vedere «gente come noi», permette a ciascuno di diventare un divo. Nello stesso tempo questa spettacolarizzazione dell’italiano medio è condotta all’insegna della conoscenza e della cultura: sia pure in una sola materia, con tratti parossistici di erudizione nozionistica, talvolta ai confini della fissazione o dell’hobby, è necessario essere competenti in qualcosa per avere successo (Grasso 2004, 43-57). Nei primi due anni di vita affluiscono alla redazione di Mike Bongiorno più di 300 mila domande di partecipazione. La televisione funziona così, fin dagli inizi, come un «dispositivo etnografico»: mette in scena il visibile e il vivibile, documenta realtà sconosciute ma allo stesso tempo le interpreta e le costruisce, trasforma le identità e mobilita le soggettività attraverso l’immaginazione di altri mondi (Stella 2003, 21). ­­­­­18

Il Musichiere e Lascia o raddoppia? sono entrambi programmi di importazione dagli Stati Uniti: di fatto la televisione americana costituisce una delle due principali fonti di ispirazione della Rai. L’altra è rappresentata dalla tradizione culturale del teatro di prosa, nazionale ed europeo: dei 23 romanzi sceneggiati trasmessi tra 1954 e 1961, solo 7 sono di autori italiani (Ruffini, Alianello, Fogazzaro, Deledda, De Amicis, Gotta, Nievo), gli altri sono stranieri (Alcott, Brontë, Austen, Dickens, Dostoevskij, Maupassant, Stevenson...). Il rilievo che assume lo «sceneggiato colto» rappresenta comunque una delle peculiarità di lungo periodo della programmazione Rai. Dalla Cittadella (1964) con Alberto Lupo all’Odissea (1968), ai Promessi sposi (1967) – terzi nella graduatoria degli ascolti dell’anno (per una stima di 18,2 milioni di spettatori) dopo il Festival di Sanremo e il varietà del sabato sera –, appare evidente e non temporaneo l’intento di conservare e trasmettere le «radici umanistiche» di una cultura intesa in un’accezione non strettamente nazionale. America, teatro e letteratura sono impiegati dalla Rai in un progetto culturale di massa senza precedenti. Secondo le stime di Todd Gitlin (2003, 21), un giorno di Tv negli anni Sessanta costa la decima parte di un biglietto di cinema nickelodeon agli inizi del Novecento e la centesima parte di un biglietto a teatro a metà del Settecento. Come società non abbiamo mai agito così tanto o guardato così tante persone agire [...] Quello che è veramente nuovo è che il dramma è insito nel ritmo della quotidianità. Nelle epoche precedenti, il dramma era importante in un festival, durante la stagione o come un consapevole viaggio a teatro; dall’onorare Dioniso o Cristo all’andare a vedere uno spettacolo. Quello che abbiamo oggi è il dramma come esperienza abituale: in molti casi, più dramma in una settimana di quello che la maggior parte degli esseri umani avrebbe in precedenza visto in una vita intera (Williams 1989, 3-5).

Si insiste talvolta sulla frattura tra intellettuali e televisione, tra cultura d’élite e cultura di massa (Guazzaloca 2010, 347 e la bibliografia ivi raccolta). È però una circostanza che riguarda tutti i paesi avanzati e che accompagna fin dalla nascita ogni mezzo di comunicazione di massa. L’idea di quella frattura nasce cioè da un pregiudizio, legato a un concetto arcaico e aristocratico di cultura, palesemente inadeguato a comprendere l’età contemporanea. Intellettuale è chi scrive libri e chi dirige serial televisivi. Se è interessato a comunicare quanto produce, sia l’uno sia l’altro devono fare i conti con il mercato e l’industria ­­­­­19

culturale: in misura diversa, ma è appunto una differenza di quantità e non di qualità. Almeno nelle intenzioni di chi lo governa, il mezzo televisivo funziona da potente elemento di integrazione: alla modernità dell’intrattenimento leggero (che viene da oltre Atlantico) si affianca la matrice colta e «pesante» della letteratura italiana ed europea. Ricorda Anton Giulio Majano, «padre» dello sceneggiato televisivo italiano, come al primo romanzo trasmesso dalla Rai (Piccole Donne) dovette aggiungere una puntata finale per soddisfare «il bisogno di fantastico» espresso a gran voce dagli spettatori con decine di lettere alla redazione (Majano 1985, 88). La cultura di massa che la televisione produce non è quindi il mero riflesso di una «americanizzazione», né il frutto meccanico di una convergenza pilotata dai ritmi crescenti dello sviluppo economico post-bellico: ogni paese ne costruisce una propria versione plurale grazie a un equilibrio (variabile nel tempo e nello spazio) tra stimoli esterni e radici nazionali. In qualche modo emblema della mediazione tra gusti del pubblico e missione educativa è Carosello, che per vent’anni (dal 1957 al 1977) incarna la via italiana alla pubblicità e ai consumi di massa. La logica del servizio pubblico impone alla comunicazione commerciale una formula rigida: due minuti e mezzo di «spettacolo» creativo e mezzo minuto finale di réclame (oggi gli spot durano meno di trenta secondi). La convenzione tra Stato e Rai stipulata nel 1957 fissa al 5% il tetto di tempo di programmazione concesso alla pubblicità: grosso modo la metà di quanto previsto dalle regole allora vigenti negli Stati Uniti, che concedono mediamente agli sponsor sei minuti per ogni ora di programma. Concentrata nella fascia oraria di maggior ascolto, dopo il telegiornale serale delle 20.30, la formula di Carosello esprime – rispetto al liberismo americano – una sorta di primato della politica: le aziende private sono costrette a sottostare a una regola di qualità dell’intrattenimento che antepone gli interessi degli spettatori a quelli dei consumatori. La Rai monopolista e finanziata dal canone se lo può permettere. Al momento della sua scomparsa Carosello lascia molto rimpianto, come mostra questa lettera scritta nel 1978 al settimanale della Rai, il «Radiocorriere Tv»: A me piaceva Carosello, la più bella pubblicità televisiva eliminata ignorando completamente i desideri della stragrande maggioranza dei telespettatori. Io ero convinto che almeno sarebbe stato sostituito da una trasmissione altrettanto valida. E invece ecco pubblicità a raffica. Perché ­­­­­20

non chiedete al pubblico cosa ne pensa? Che male ci sarebbe a riconoscere uno sbaglio? E Carosello potrebbe tornare con soddisfazione di tutti («Radiocorriere Tv», 11 giugno 1978).

Con gusto e cautela Carosello introduce gli italiani sulla soglia del consumismo: nel 1957 apre a Milano il primo supermarket, sia pure con carrelli più piccoli di quelli americani. Liquori, detersivi, fibre sintetiche, brillantine per capelli corrispondono ad altrettanti personaggi di Carosello (il tenente Sheridan, il pulcino Calimero, Caio Gregorio «guardiano del pretorio», l’ispettore Rock), protagonisti di corti serial che incatenano l’attenzione degli italiani. Molti dei marchi che danno vita al miracolo italiano (il Moplen della Montecatini, Piaggio, Ignis, Candy, Ariston) passano di qui. Non è senza significato che Carosello si affermi in una congiuntura storica di espansione del reddito medio e di grandi spostamenti di popolazione. «Nelle città del Nord si vive meglio», dicono i contadini del Gargano a metà degli anni Sessanta (Eisermann-Acquaviva 1971, 185). Come il medium che la trasmette, la pubblicità televisiva assolve ad una funzione di unificazione socioculturale del paese – quasi antitetica allo spezzettamento tribale degli anni Novanta – perché svincola l’acquisto e il consumo di generi di largo uso quotidiano da ogni appartenenza di genere, classe, ideologia, religione. In altri termini, perché lo trasforma in un segnale di riconoscimento che permette agli uomini del nord e del sud, della città e della campagna, delle classi elevate e dei ceti popolari di accettarsi reciprocamente con una naturalezza che chiesa, lingua, partiti, istituzioni pubbliche e servizio militare non erano mai riusciti ad assicurare (Lanaro 1992, 258-259).

Non mancano gli osservatori che già all’epoca sottolineano questo passaggio, per molti versi decisivo. Nel deserto perfino i miraggi sono meglio della sabbia. Questo spiega come mai lo choc televisivo sia stato più forte nelle zone depresse d’Italia che non nelle altre. Spiega anche, forse, lo scandalo delle antenne Tv sulle baracche delle bidonvilles: qui il teleschermo diventa il sostitutivo di tutti i consumi mancanti d’una comunità che era sempre vissuta al di qua di ogni forma di mercato. L’abitante della sotto-Italia, il segregato sociale, realizzava davanti al video una specie d’uguaglianza magica col resto degli italiani; e per averne conferma ogni sera ecco che anche le famiglie che ­­­­­21

non possedevano nemmeno l’armadio o le scarpe, andavano a indebitarsi per comprarsi il televisore (Ajello-Zanetti 1964). La Tv non ha solo rivelato l’esistenza di un mondo, ha anche dimostrato che a questo mondo esistono possibilità di benessere. In questo senso anche le trasmissioni più inutili o negative, paradossalmente, hanno svolto una funzione di rottura. Cosa c’è di più banale di un annuncio pubblicitario che magnifica, grazie al sorriso di una bella figliola, le virtù di un detersivo o di un frigorifero? Eppure pensiamo per quante donne italiane un annuncio del genere serve a ricordare ogni sera che esiste un mondo in cui una donna «può» avere un frigorifero. L’informazione sarà fonte di dispetto e di invidia, ma invidia e dispetto si sostituiscono a un sentimento ben più grande: l’ignoranza, il non sapere nulla dei frigoriferi, il credere che i frigoriferi appartenessero alla fiaba. L’annuncio pubblicitario dice invece: «comprate il frigorifero». È una provocazione drammatica, per chi non ha neppure il cibo da mettervi dentro; ma la storia insegna che le classi sfruttate hanno incominciato a muoversi solo quando hanno preso coscienza che esisteva una alternativa (Eco 1964).

La «persuasione occulta» esercitata dalla pubblicità soddisfa diversi ed eterogenei bisogni individuali: autostima, creatività, rassicurazione emotiva, senso di potenza, coesione familiare. Al tempo stesso i veicoli mediatici che essa utilizza fanno parte a pieno titolo di una società industriale che punta a diventare «opulenta»: ne riflettono e trasmettono valori e regole. Molti dei prodotti che passano per Carosello hanno a che fare con la cura della casa (dado per il brodo, sughi e carne in scatola, detersivi, elettrodomestici) e completano il processo di individualismo acquisitivo che passa per l’acquisto dell’abitazione, mobilitando però al suo interno la componente femminile. La donna moderna e realizzata compete con l’uomo sul fronte dei consumi e rivendica voce in capitolo nella gestione dei bilanci domestici, ma pur sempre secondo un’«etica della nutrice» che ribadisce l’orizzonte esclusivamente privato e casalingo della propria identità. Un interessante fenomeno di natura sociale mi par di notare nell’uso di questi casalinghi arnesi elettrici, che forse è indizio di un capovolgimento non tanto remoto nei rapporti fra i due sessi, per il quale la donna tornerebbe ad essere quello che è la femmina presso tutti gli insetti e quasi tutti gli altri animali, il sesso dominante, e l’uomo ridotto a poco più di ­­­­­22

un accessorio, o come lo definiva Mrs. Emmeline Pankhurst, a social excrescence (Monelli 1963, 146).

D’altra parte, quando a metà degli anni Sessanta la Esso traduce in Italia la campagna «metti un tigre nel motore», assume un genere maschile del felino, che sfida la grammatica ma ribadisce la tradizionale dicotomia sessuata tra privato e pubblico: donna-casa, uomo-macchina (Bini 2010, 215-216). Calimero, pulcino apparentemente nero ma in realtà «solo sporco», viene creato da uno dei pionieri della pubblicità italiana, Nino Pagot, per reclamizzare un detersivo e incorpora un’elaborazione culturale significativa, che lo stesso ideatore racconta: Per vendere bisogna interessare le donne: che cosa attira l’attenzione delle donne? I bambini e gli animali. Bene, il prototipo del bambino indifeso è il pulcino. Se lo facciamo triste e disgraziato, suscita maggiori simpatie. Se lo facciamo nero, cominciamo subito a introdurre l’idea che bisogna pulirlo. Se lo facciamo protestare, assecondiamo uno dei più antichi vezzi degli italiani. Se gli facciamo combinare un sacco di guai, gli togliamo il carattere troppo patetico e dolciastro che finirebbe per urtare. C’è, caso mai, il lieto fine pubblicitario che accomoda tutto. Così è nato Calimero, che credo costituisca il più grosso successo di Carosello (Giusti 1995, 366).

Visto col senno di poi, Carosello può anche sembrare l’emblema di un’anima non commerciale della televisione, che da un lato difende il controllo politico democristiano e dall’altro incarna «una tradizione culturale accademica e schifiltosa, che accantonava tutto ciò che non avesse una ‘alta’ ispirazione» (Balassone-Guglielmi 1987, 31). Ma questa è forse un’interpretazione anch’essa troppo «accademica e schifiltosa». All’epoca Carosello rappresenta di fatto un’apertura al mercato pubblicitario: nel bilancio Rai del 1963 le entrate pubblicitarie assommano a 11 miliardi di lire, contro i 33 di abbonamenti, quando ancora nel 1968 il canone di abbonamento copre l’85% delle entrate della televisione di Stato francese. Nel suo complesso il mercato pubblicitario italiano mostra una ripartizione per media non molto diversa da quella statunitense: la stampa assorbe la grande maggioranza delle risorse (63% nel 1963, contro il 67% degli Usa nel 1956), la televisione una quota ancora minori­­­­­23

taria (11% contro 21%), seppur maggiore di quella della radio (8% contro 9%), mentre un peso rilevante è esercitato dalla pubblicità esterna (11% contro 3%) e da quella nei cinema (6%), che è invece assente nel quadro statunitense. Carosello è anche il frutto di una «virata laica» (Monteleone 2009, 299) imposta all’ente televisivo dalla nuova gestione di Marcello Rodinò (ingegnere elettronico) e Rodolfo Arata (giornalista), che dal 1956 sostituiscono alla direzione della Rai Filiberto Guala, uomo della vecchia guardia degasperiana. Di quest’ultimo solleva clamore la scelta immediatamente successiva di entrare nell’ordine dei frati trappisti, vista come sintomo della sua stretta vicinanza alla Chiesa di papa Pio XII. Ma non si deve dimenticare che la gestione Guala – arrivato alla Rai dopo la presidenza di un ente cruciale nella costruzione del consenso di massa alla Dc come l’Ina-casa, strumento principe dei piani di edilizia popolare negli anni Cinquanta – tiene a bada la schiera di dirigenti più legati all’esperienza della radio sotto il regime fascista e passati nelle file della destra democristiana. A Guala si deve così l’assenza di chiusure pregiudiziali nei confronti della modernità televisiva statunitense, ma anche l’istituzione di un centro didattico interno che presiede al reclutamento dei cosiddetti «corsari»: i giovani frequentatori dei corsi del centro stesso, molti dei quali (Eco, Vattimo, Guglielmi, Colombo) destinati ad un ruolo di primo piano nella cultura italiana. 3. La lingua degli italiani La Rai di Rodinò e Arata riflette da vicino l’ascesa alla guida della Dc di Amintore Fanfani e della corrente di Iniziativa democratica, favorevoli all’intervento statale in economia e a una maggiore autonomia dalla Chiesa. Fermo restando il ferreo controllo di partito sull’informazione televisiva, la Rai potenzia e diversifica le proprie fonti d’entrata grazie alla pubblicità, diventando un soggetto finanziario di primaria importanza nel quadro delle attività dell’Iri. Mentre nel 1968 la televisione francese ricava dalla pubblicità il 15% delle entrate, quella italiana già nel 1963 supera il 25%. L’attivo di bilancio consente l’ampliamento della programmazione alla fascia oraria pomeridiana – le ore di trasmissione crescono dalle duemila annue del 1956 alle 4.500 del 1964 (in Francia sono poco più di tremila) – con ­­­­­24

la nascita della Tv per ragazzi e di Telescuola (1958), programma che propone lezioni di avviamento professionale organizzate in collaborazione con il ministero della Pubblica istruzione e rivolte ai ragazzi residenti in località sprovviste di scuole secondarie. Fino dal 1961 (con due anni di anticipo sull’applicazione della riforma) la Rai dedica le lezioni ai programmi della nuova scuola media unificata. Rispetto al modello statunitense, questa vocazione pedagogica rappresenta la vera peculiarità della televisione europea e innanzitutto inglese (Bourdon 2001). Anche in Italia esemplifica un notevole grado di sintonia tra politica e società civile: la prima (e la Rai che ne è diretta espressione tecnica) interpreta con efficacia il dinamismo e la crescita della seconda. È un modo di «fare gli italiani» che è insieme vecchio e nuovo. Vecchio perché mutua dal passato l’approccio illuministico e paterno, nuovo perché al tradizionale discorso eticopolitico sostituisce l’appello alla mobilitazione individualistica per il benessere e l’espansione dei consumi privati. Telescuola e Carosello rappresentano bene questa convivenza di passato e futuro. Il corrispettivo del collante incarnato agli occhi del pubblico degli italiani dalla pubblicità soft e creativa di Carosello è l’effetto – probabilmente il più vistoso e significativo, sicuramente il più noto – che la televisione determina nella lingua parlata degli ascoltatori. Tullio De Mauro (1968) è stato il primo a indicare nel medium televisivo uno strumento decisivo di unificazione linguistica del paese. Il cinema infatti rappresenta un’occasione di incontro e familiarizzazione con l’italiano «nazionale» ancora troppo sporadica e per di più in fase calante, proprio ad opera del crescente successo della Tv: tra 1958 e 1960 gli spettatori che frequentano le sale cinematografiche almeno una volta alla settimana (il minimo indispensabile per mutare abitudini di linguaggio) calano dal 28 al 17%. La radio ha ovviamente una diffusione e costanza d’ascolto molto superiore e anzi ancora largamente predominante: nel 1965 dichiara di sentire la radio tutti i giorni o quasi il 52% degli italiani, contro il 39% che dichiara lo stesso a proposito della televisione. Ma il parlato della radio è diverso dal parlato normale: è una lingua formale e piatta, contraddistinta dalla sintassi semplice e dalla mancanza di enfasi («atonia prosodica» la definisce De Mauro), che non riesce più di tanto a convincere il pubblico. Nonostante vent’anni di esercizio attivo delle trasmissioni radiofoniche, introdotto e sostenuto con forza dal regime fascista, nel 1951 si stima che circa un terzo degli italiani abbia abbandonato ­­­­­25

l’uso del dialetto come unico ed esclusivo mezzo di comunicazione, ma meno di uno su cinque (19%) lo abbia compiutamente sostituito con l’italiano. Due italiani su tre usano ancora il dialetto come idioma normale in ogni circostanza sia pubblica sia privata. Viceversa, l’italiano della televisione è un linguaggio plurale: da quello aulico delle trasmissioni culturali come L’Approdo (1963) a quello informale delle commedie o di Mike Bongiorno. Per quanto l’italiano plurale della Tv susciti le critiche della carta stampata – «antilingua», «italo-romanesco», sono i giudizi che, ad esempio, si rincorrono sul «Corriere della Sera» – è anche l’unico a penetrare in profondità nelle abitudini domestiche, assai più di quanto non siano stati capaci di fare cinema e radio. Nel 1995 le proporzioni del 1951 appaiono quasi diametralmente rovesciate: gli italiani che parlano prevalentemente il dialetto sono calati da due terzi a meno di un quarto, quelli che parlano anche in privato l’italiano aumentano da un terzo a quasi metà (45%). Rimanendo sostanzialmente (e scandalosamente, come già detto) ferma la circolazione di libri, giornali e riviste – 38% di lettori abituali di quotidiani nel 1965, 40% nel 2001 –, è difficile non attribuire al piccolo schermo buona parte di questa trasformazione linguistica. La scuola, infatti, sembra influire soprattutto sulla scrittura e la lingua da essa insegnata (a una quantità di popolazione senza precedenti nella storia d’Italia) è un italiano «antiparlato»: una sorta di «superficie linguistica prefabbricata» ancora separata dalla «coscienza sottostante» (Poggi Salani 1993). Viceversa «l’italiano medio, rispettoso (talora velleitariamente) della norma anche fonetica, nonché perbenista» (Raffaelli 1994, 287) della paleotelevisione pedagogica riesce a entrare nell’uso quotidiano perché entra in sintonia con un doppio bisogno profondo – e solo in apparenza contraddittorio – degli italiani: il protagonismo individuale o familiare sul fronte delle migrazioni e dei consumi, da un lato, e l’aspirazione all’omologazione, integrazione e legittimazione sul piano sociale, dall’altro. Sia l’imprenditore del Nord proteso nella corsa allo sviluppo e nella difesa ante litteram del «made in Italy» sui mercati stranieri, sia il contadino del Sud inurbato e occupato nel lavoro dipendente, vivono questo doppio bisogno e la televisione – più degli altri media, più di chiese e partiti politici – è l’unica che riesce a soddisfarlo ogni giorno. Non si tratta solo del contributo diretto e attivo della programmazione Rai nella lotta contro l’analfabetismo – dato da trasmissioni come Non è mai troppo tardi (1960), condotta fino al 1968 dal mae­­­­­26

stro Alberto Manzi («prendete la vostra penna...»), con lezioni di grammatica, esercizi di scrittura, documentari –, quanto soprattutto della miscela di informazione e intrattenimento che ispira il resto del palinsesto televisivo. La televisione infatti incarna il giusto mezzo tra appeal familiare e rispettabilità pubblica: non ispira soggezione, coinvolge senza traumi o responsabilità. Abbina il linguaggio alle espressioni del volto e alle movenze della gestualità: lo rende vivo, accattivante, imitabile. Come dicono i contadini intervistati da Lidia De Rita, ci si istruisce anche durante Carosello perché si possono vedere tante Italie che non si conoscono. La massaia può scoprire l’esistenza del dado per il brodo, alleviare il senso di colpa per non prepararlo sempre in casa, assimilare così (o limitarsi a sognare) nuovi stili di vita. Di quest’Italia nuova che entra in casa o che è possibile scoprire al bar più vicino, fa parte anche una lingua nello stesso tempo castigata e informale. Il suo lento e quasi inconsapevole apprendimento peraltro non cancella l’uso del dialetto: ancora nel 1995 quasi un terzo degli italiani (28%) è abituato ad alternare ogni giorno italiano e dialetto, a seconda del carattere più o meno pubblico delle conversazioni. La televisione insegna un uso plurale della lingua: italiano comune, italiano regionale (quello di Totò ed Eduardo De Filippo), dialetto italianizzante, dialetto puro.... Ma il risultato finale non cambia: «è nato l’italiano come lingua nazionale», scrive nel 1964 Pasolini su «Rinascita». E nasce soprattutto per opera della televisione. Ecco quanto scrive un lettore al «Radiocorriere Tv» in occasione della messa in onda del Mastro don Gesualdo (1964) di Verga: Io sono siciliano e dovrei essere il primo a risentirmi del dialetto un po’ approssimativo che parlano quasi tutti gli attori non siciliani del «Mastro don Gesualdo». Ma intervengo proprio per fare una considerazione opposta, e cioè che nulla toglie all’efficacia drammatica della trasposizione televisiva quel dialetto così così. Anche perché, se proprio dovessimo sottilizzare, non basterebbe reclamare il vero dialetto siciliano, ma esistono modi di parlare profondamente diversi che rendono, per esempio, il palermitano e il catanese quasi due dialetti («Radiocorriere Tv», 9 febbraio 1964).

Per fare solo un altro esempio tra i tanti possibili, si pensi al discorso pronunciato da papa Giovanni XXIII la sera della seduta di apertura del Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962) – «tornando ­­­­­27

a casa troverete i bambini, date loro una carezza e dite ‘questa è la carezza del papa’» – e all’impatto che nell’immaginario collettivo degli italiani questa lingua semplice e familiare esercita, nel senso di diminuire la distanza ieratica che fin allora separava popolo e vertice dell’istituzione ecclesiatica. Merito di papa Giovanni, indubbiamente. Ma anche della televisione, che con le immagini della fiaccolata in piazza San Pietro contribuisce a diffondere e replicare l’evento, fino a farlo diventare simbolo e significato. Anche in questo caso la parola chiave per comprendere il mutamento torna ad essere pluralità. Al pari di ogni altro mezzo di comunicazione, la Tv non soppianta la realtà, non schiaccia le intelligenze dell’uditorio sotto il peso di un messaggio univoco, unidirezionale e manipolatorio, bensì propone testi che il ricevente rielabora in forme diverse secondo la propria singolare intelligenza. Cioè impara a miscelare italiano televisivo e dialetto secondo le circostanze. La televisione unifica il paese, dando vita a una «comunità immaginata» (Fanchi 2002, 100). Il mutamento linguistico è la spia di mutamenti del costume, più pervasivi e molecolari: quindi meno visibili ma non per questo meno significativi. Una fonte possibile è rappresentata, ancora, dalle lettere pubblicate sul «Radiocorriere Tv». Sono una vecchia... Eccellenza. Ma ormai questo titolo non conta più. Mia figlia mi ha riferito che la Tv ha interrogato alcune personalità sull’opportunità o meno di usare ancora questo titolo, e mi ha detto che alcune risposte sono state particolarmente gustose. Si potrebbero leggere sul «Radiocorriere Tv»? [...] Oriana Fallaci: «Mio nonno diceva che eccellenza era una parolaccia borbonica. E quando ero bambina, io la usavo quando volevo insultare qualcuno. Smisi di usarla quando mi accorsi che non era una parolaccia, ma un complimento da rivolgere alle persone potenti di cui si aveva paura. A me non piacciono le persone potenti, non piacciono i complimenti alle persone potenti, e tanto meno mi piace averne paura. Di conseguenza non può piacermi la parola eccellenza» («Radiocorriere Tv», 23 febbraio 1964).

Sempre sul settimanale della Rai Lina Wertmüller ricostruisce il senso di rottura provocato dalla scelta di affidare la parte di protagonista del Giornalino di Gian Burrasca (1964) a una donna, cantante e non attrice: Rita Pavone. Un incontro del tutto casuale. Rita stava incidendo delle canzoni negli studi della sua casa discografica. Lina Wertmüller, nello studio accanto, ­­­­­28

stava ascoltando la colonna sonora di un film [...] «Mi colpì, soprattutto, il suo modo di trattare, di muoversi, tutto scatti, e un gestire vivace, un fare burlone, una comunicativa straordinaria. E anche il suo modo di parlare velocissimo, non sempre raffinatissimo, se vogliamo, ma con modi di dire stravaganti e irresistibili come quel ‘boia bastimento’ che è la sua interiezione preferita [...] Dopo pensai: ecco il mio Gian Burrasca». Lina Wertmüller ne parlò a Rita. E lei immediatamente rispose di sì con entusiasmo. Mamma Pavone invece impiegò un po’ di tempo a convincersi, «la mia figliola – diceva – farle fare la parte del maschietto, non mi par bello» [...] Infine Mamma Pavone cedette, però non proprio volentieri. Dice: «quando me l’hanno riportata a casa, con i capelli tagliati corti corti, proprio come un maschietto, mi son sentita una stretta al cuore» («Radiocorriere Tv», 17 maggio 1964).

Dietro il mutamento linguistico e di costume stanno i numeri della diffusione del nuovo mezzo in Italia. All’inizio il televisore è senz’altro uno status symbol di nicchia: nel 1955 le famiglie che lo acquistano (1% del totale) possiedono anche la radio (nel 98% dei casi, contro il 68% del totale delle famiglie italiane), il telefono (80% contro 15%), il frigorifero (64% contro 9%), l’auto (65% contro 11%). Ma questo carattere elitario si stempera rapidamente. Dieci anni dopo le famiglie con la Tv salgono al 49% (35% nel Meridione), quelle con frigorifero al 55% (32%), quelle con lavatrice al 23% (12%). Certo, anche negli anni del boom (1958-1966) l’incremento del numero di case con televisore (dal 12 al 55% del totale) resta molto lontano dall’impressionante velocità degli Stati Uniti: dal 7 all’82% nel periodo immediatamente precedente (19501957), quando per raggiungere la stessa quota la radio ci aveva messo il doppio di tempo, tra 1925 e 1940. Ma la curva di crescita degli abbonati alla Rai e degli spettatori «sistematici» (che guardano la televisione tutti i giorni o quasi) non ha niente da invidiare agli altri paesi europei (fatta eccezione per l’Inghilterra, partita con vent’anni di anticipo). Nel 1963 la percentuale di adulti che guarda la Tv almeno tre volte a settimana è pari al 49% in Italia, al 33% in Francia, al 45% in Germania Ovest e all’85% in Gran Bretagna. A spingere in alto l’Italia è proprio la pratica dell’ascolto fuori di casa: gli abbonati alla fine del 1962 sono infatti soltanto il 6,8%, contro il 7,2 della Francia, il 12,6 della Germania e il 22,8 della Gran Bretagna. Appaiono tuttavia già pronunciate alcune differenze di fondo in materia di consumi culturali, destinate a riprodursi nel tempo fino ai ­­­­­29

giorni nostri. Gli italiani vanno di più al cinema: 44% di spettatori (almeno una volta al mese) contro il 30 in Francia, il 23 in Germania, il 20 in Gran Bretagna. Ma comprano molti meno giornali: legge un quotidiano almeno tre volte a settimana il 48% in Italia, contro il 76% in Francia, l’83 in Germania e il 93 in Gran Bretagna. Nell’affermazione del medium televisivo a metà degli anni Sessanta colpisce la corrispondenza tra la struttura sociale del paese e la composizione del pubblico televisivo. Tra coloro che guardano la Tv le donne sono presenti al pari degli uomini, le casalinghe sfiorano un terzo del totale, le percentuali di spettatori sistematici sono simili tra dirigenti (68%), impiegati (73%), braccianti (67%), operai comuni (65%), commercianti (67%). La distribuzione per ampiezza dei centri abitati non appare sperequata in favore delle città maggiori (gli spettatori in città con più di 100 mila abitanti sono un terzo del totale, mentre vi vive poco più del 40% degli italiani); gli spettatori con solo la licenza elementare (64%, ma erano soltanto il 26% ancora nel 1958) sono un po’ di meno rispetto a quelli reali (77%), a tutto vantaggio dei titoli di studio superiori; il Sud appare penalizzato (28% del pubblico televisivo, contro il 34% di popolazione presente), ma in misura non irrimediabile. Se dalle statistiche dell’ascolto si passa a quelle del possesso la sostanza non cambia: nel 1965 è presente al Sud un quarto dei televisori venduti in Italia, contro l’11% dei telefoni e il 17% delle auto. Ponderata con il reddito pro capite, la penetrazione della televisione al Sud è maggiore di quella al Nord (Ferrarotti 1968, 137; Pinto 1980, 45). Il possesso del televisore funziona da strumento di autoidentificazione nella parte moderna del paese: «differenziatore» e «ostentatorio» per i ricchi, mezzo di «eguaglianza» e di «socializzazione anticipatoria» per i poveri (Ferrarotti 2005, 36-37). Ciò non significa naturalmente che le differenze di reddito non contino. Secondo la Doxa nel 1965 gli spettatori «forti» (almeno quattro volte a settimana) corrispondono al 70% nella classe superiore, al 60% nella classe media e al 32% nella classe medio-inferiore e inferiore. Sono differenze (di ascolto) non molto lontane da quelle (di possesso) degli Stati Uniti di dieci anni prima, quando la Tv è presente nell’81% delle case di famiglie appartenenti al quarto più ricco, contro il 48% del quarto più povero. Viceversa, rispetto all’Italia, sull’altra sponda dell’Atlantico sembrano contare di più le differenze geografiche: nel 1955 la Tv è presente nel 74% delle abitazioni in aree urbane (con ­­­­­30

più di 50 mila abitanti) contro il 42% delle aree rurali, nell’80% delle famiglie degli Stati della East Coast contro il 62% di quelle del West (Bogart 1956, 14-15). Il carattere trasversale della penetrazione del mezzo televisivo in Italia ha, ancora una volta, molto a che fare con la pratica dell’ascolto collettivo, che funziona da potente traino all’acquisto. Rimane il fatto che – nel panorama dei beni di consumo durevoli – la Tv esercita un’attrazione sugli italiani e risulta accessibile alle loro tasche in modo del tutto particolare e ben visibile già all’indomani degli anni del boom economico: tra 1960 e 1965 gli abbonamenti Rai decollano dal 17 al 42% delle famiglie italiane. Per tutto il paese, milioni di persone vedono gli stessi programmi, con gli stessi personaggi nelle stesse situazioni e gli stessi riferimenti a luoghi e personalità. Tutto ciò produce un livello di esperienza culturale condivisa che nessun’altra società ha mai conosciuto (Bogart 1956, 25).

Lo stupore in tempo reale del sociologo statunitense può applicarsi senza difficoltà anche alla situazione italiana. Per quanto corrispondano a una società multietnica e a un sistema televisivo interamente privato e senza monopolio statale, i motivi che Bogart chiama in causa per spiegare la potenza del nuovo mezzo sembrano non perdere efficacia nemmeno in Europa: universalità dei simboli, carattere ufficiale, prestigio della fama, illusione di realtà e di dramma, corrispondenza con la vita quotidiana, senso di intimità, sogno fantastico, facilità di ascolto e deresponsabilizzazione dello spettatore. Un campione di cinquemila cittadini italiani, intervistato nel 1964, mette in ordine di preferenza questi giudizi sui programmi della Rai: interessanti, divertenti, istruttivi, distensivi, educativi, di buon gusto... I motivi che spingono in misura di gran lunga maggiore gli italiani verso la Tv sono: «per essere al corrente dei fatti del giorno», «perché è un piacevole svago», «per distrarmi e riposarmi dopo una giornata di lavoro» (Il pubblico 1965, 39 e 44). Conoscenza e qualità guidano i gusti anche degli spettatori italiani, forse con un peso maggiore del primo termine in confronto a un contesto, come quello americano, in cui la televisione vanta un’utenza più antica e collaudata. Rispetto agli altri mass media, la Tv mette in mostra fin dalle origini il suo volto più plastico e flessibile, capace di adattarsi ad un uso plurale da parte degli spettatori più diversi: scanzonato e ­­­­­31

realistico rispetto alla radio e al suo connaturato aplomb; invitante, domestico e intimo rispetto al cinema e alla sua forza di soggezione. «Una caratteristica essenziale del pubblico televisivo – scrive Bogart a proposito degli Stati Uniti – è la sua richiesta di varietà» (Bogart 1956, 46). Nella televisione americana del 1957 i programmi su cui gli inserzionisti pubblicitari investono di più sono, nell’ordine, film e sceneggiati, quiz e situation comedy: nuovo genere di spettacolo di immediato e grande successo – a partire da Father Knows Best, trasmessa dal 1954 al 1963 – che mette in scena, tra satirico e drammatico, le vicende della vita familiare quotidiana e che aspetterà più di un decennio per essere importato in Italia. Resiste infatti, non solo in Italia ma in tutta Europa, un pregiudizio contro la rappresentazione scenica del «presente comune» che deriva dalla configurazione pubblica del sistema televisivo e dalla conseguente missione pedadogica di nation-building che gli viene affidata: le famiglie sono considerate oggetto di una programmazione responsabile e di un’attenzione tendenzialmente censoria per i contenuti, non già soggetto di per sé interessante e degno di messa in scena (oltre che target decisivo della comunicazione pubblicitaria). A questo pregiudizio risponde anche il telegiornale della sera. Ricalcato sull’esempio radiofonico e letto da un unico «mezzobusto», diffonde un’impressione di autorevolezza e unitarietà dell’informazione televisiva: un potente senso di realtà accompagnato da una pressoché totale assenza di pluralismo e dalla tradizionale inclinazione pedagogica. In omaggio a quest’ultima ne sono sostanzialmente espulse economia e cronaca rosa: troppo complicata la prima, poco seria la seconda. I riti del potere (prime pietre, inaugurazioni, solennità civili e religiose) dominano la scena. Per gli italiani del boom il telegiornale funziona come il «World», il quotidiano di Pulitzer, tra gli immigrati di New York ai primi del Novecento: come strumento e certificato di integrazione e legittimazione sociale. Anche per chi il televisore non ce l’ha. Le indagini del neonato (1961) Servizio opinioni della Rai mostrano infatti una ulteriore corrispondenza nel gradimento dei diversi programmi tra abbonati e italiani senza piccolo schermo in casa: entrambe le categorie mettono in ordine di graduatoria film, telegiornali, telefilm, canzoni e musica leggera, sceneggiati, riviste e varietà, giochi a quiz. I gusti delle donne riflettono invece il pregiudizio di genere: i telegiornali retrocedono dal secondo al quinto posto, a tutto vantaggio di can­­­­­32

zoni e musica leggera (che salgono in classifica gli stessi gradini). Le preferenze degli spettatori italiani interrogati nel 1961 vanno in larga maggioranza al varietà musicale L’amico del giaguaro (1961), seguito da Tribuna politica (1960) e Campanile sera (1960). La graduatoria delle informazioni conferma la loro funzione di identificazione comunitaria e vede al primo posto quelle riguardanti la propria regione, seguite dalle calamità gravi, dalla cronaca mondana e nera, dagli avvenimenti politici, dall’attualità tecnica e scientifica; all’ultimo posto (sgradite al 74% del campione) le notizie relative alla vita dei partiti. Sondaggi successivi (1964) confermano in larga misura questi orientamenti: le differenze tra possessori o meno di televisori (collegabili a un divario di reddito) si manifestano nel gradimento di programmi particolari (cultura, opere liriche, musica sinfonica) ma non di quelli di maggiore ascolto, che sono anche quelli di prima serata e quindi più visibili fuori di casa propria. Non sono gusti particolari. Gli spettatori statunitensi del 1951 consegnano ai sondaggi graduatorie simili: telegiornali (che tra le donne scendono al quarto posto), musical, varietà e commedie, sceneggiati e film (che risentono della prolungata opposizione di Hollywood a concedere i diritti per l’uso televisivo). Proprio il caso di Campanile sera merita tuttavia un supplemento di attenzione. Si tratta infatti di un vero e proprio giro nelle province italiane che la Rai mette in campo con le sue unità produttive mobili e i suoi inviati Enzo Tortora ed Enza Sampò, che decentrano nelle piazze e nelle comunità locali il format della gara a quiz e delle prove di abilità. Attorno alla puntata televisiva in diretta si raccolgono autorità e popolazione, che vivono insieme (seppur separati da transenne) il proprio momento di celebrità: la Rai rafforza il loro senso di identificazione nazionale e locale, mentre nello stesso tempo rende tangibile il proprio ruolo di omogeneizzatore e collante dell’Italia dei comuni e dei tanti campanili. È, per ora, la via italiana alla sitcom: non già la sceneggiatura della vita domestica con i suoi problemi di ogni giorno, bensì la documentazione di una società civile ordinata e composta, retta dalle sue istituzioni e chiamata a dare il meglio di sé, mettendo a tacere conflittualità e opposizioni interne. Secondo la suggestiva immagine coniata da Horace Newcomb, la televisione funziona come l’intagliatore delle maschere rituali nelle tribù africane: esprime e condensa identità comunitarie locali, sistemi condivisi di simboli e significati (Newcomb 1999, 52). Cantagiro ­­­­­33

(1962), rassegna itinerante di cantanti che va in onda fino al 1970, e poi la sua emulazione Festivalbar (1966) proseguono la missione in provincia della Rai avviata da Campanile sera. Una delle voci più sensibili della cultura italiana, Cesare Zavattini, nota per tempo gli effetti omogeneizzanti della televisione: Se Attila sopraggiungesse all’improvviso e chiedesse un elenco delle persone da salvare, la gente sceglierebbe Bongiorno, Corrado [altro presentatore televisivo], Tortora, la Sampò, Topo Gigio [pupazzo della Tv dei ragazzi] e Angelino [personaggio di Carosello] (Zavattini 1961).

4. Pedagogia e censura Ciò che oltreoceano è il frutto naturale e meccanico del mercato e della libera concorrenza degli sponsor pubblicitari (alla ricerca di diverse fasce sociali di consumatori), in Europa e in Italia è invece la conseguenza deliberata e consapevole di politiche culturali. La precocità di Tribuna politica (quasi contemporanea alle omologhe versioni statunitensi) si spiega con lo stretto rapporto intrattenuto dalla Rai con le istituzioni pubbliche (e anche con il tradizionale scarso interesse per la politica di buona parte dei cittadini degli Stati Uniti). Per gli italiani il contatto visivo con i politici rappresenta comunque una novità. Abbiamo fatto una scommessa in famiglia. Io sostengo che anche gli uomini politici che partecipano a Tribuna elettorale si mettono il cerone sul viso, mia moglie dice di aver letto che non se lo mettono perché lo considerano una cosa incompatibile con la dignità parlamentare. Ci rimettiamo alla sua cortesia per sapere chi ha ragione e chi ha torto («Radiocorriere Tv», 14 aprile 1968).

L’allora direttore del «Radiocorriere», Ugo Zatterin, risponde sottolineando il cambiamento dei tempi: Ci fu un tempo, molti anni fa, in cui gli uomini politici che si avvicinavano per la prima volta a una telecamera rifiutavano sdegnosamente l’invito a «passare al trucco»: che significava, allora come oggi, lasciarsi stendere sul viso un velo di cipria solida, allora indispensabile, oggi – coi mezzi di ripresa più perfezionati – soltanto utile contro i luccichii dei nasi ­­­­­34

e delle fronti e contro le ombre nere della barba sulle guance. Un po’ alla volta si sono tutti convinti che la dignità dell’uomo riposa in ben altri comportamenti e che l’apparire più gradevoli ai telespettatori è oltre che un loro interesse elettorale, anche un dovere di cortesia, come presentarsi in un salotto col vestito stirato e con le scarpe lucidate. Ora «passano al trucco» prima ancora d’entrare nello studio, e qualcuno, ormai veterano delle riprese televisive, indica al truccatore o alla truccatrice la sfumatura di cipria solida che, per esperienza, ritiene gli si addica di più.

Non mancano tuttavia le resistenze, testimoniate da un’altra lettera: Non condivido affatto la sua opinione nei riguardi del democratico uso della Rai a servizio di tutti (ecco, forse, il suo parere sulla democraticità) per la campagna di propaganda elettorale. No, signor mio, la propaganda se i partiti se la vogliono fare se la debbono fare a spese loro e non del solito contribuente [...] Io pago (e perciò vanto dei diritti) un congruo canone annuo per essere informato e divertito, non per essere propagandato, sia pure, come lei dice, in chiave democratica (in quanto tutti i partiti sono ammessi a servirsi, in egual misura, della Rai-Tv). Signor Direttore, la RaiTv è un Ente statale, o para, e come tale non può affatto disporre delle sue possibilità divulgative a suo beneplacito, nell’assurda pretesa di esercitare un diritto democratico. Il diritto democratico nei riguardi [dei] politici la Rai-Tv lo esercita già e con larga misura con i servizi riguardanti i sindacati e [la] cronaca dei partiti, in quanto limitati alla parte informativa. La mia libertà di opinione deve essere rispettata, nessuno deve avere il diritto di farmi ascoltare la sua propaganda [...] ascolterò la voce di tutti i partiti, andrò ai loro comizi e leggerò i loro giornali, ma nessuno può e deve violare la Costituzione portando in casa mia opinioni che io ripudio perché contrarie alla mia religione e alla mia moralità. Io, capo di famiglia responsabile, ho il diritto della paterna potestà sui miei figli [...] perciò ho diritto a far rispettare la inviolabilità del mio domicilio garantitami dalla Costituzione [...] Oggi la Rai-Tv si introduce di prepotenza in casa mia [...] recando per mano figuri politici che se invece che in forma fotografica o magnetofonica si presentassero nella loro consistenza fisica (peraltro non dissimile dalla precedente) io non esiterei a prenderli a calci, tanto li considero repellenti. Ho detto delle verità troppo scottanti, e i «padroni rossi» della Rai-Tv non consentiranno la pubblicazione di questa protesta, però se la lettera non verrà pubblicata, una copia di essa sarà inviata alla Magistratura («Radiocorriere Tv», 21 aprile 1968). ­­­­­35

Zatterin replica in modo cortese ma fermo, rivendicando le ragioni del servizio pubblico. Risponderle compiutamente richiederebbe un discorsetto abbastanza lungo sul concetto di democrazia. È convinzione diffusa che libertà sia innanzitutto facoltà di scelta, e che per scegliere bisogna conoscere ciò che si sceglie e saperlo distinguere, a ragion veduta, da ciò che si respinge. Mettere in condizione il maggior numero possibile di elettori di ascoltare le idee e i programmi che animano i vari partiti in vista delle elezioni è soprattutto un dovere della Rai. Non metto in dubbio che lei abbia idee e aspirazioni così radicate, che le opinioni altrui non saranno mai in grado, che dico, di modificarle? Neppure di scalfirle. E sono convinto che, stando così le cose, a lei non importa un bel niente di ascoltare la parola dei suoi avversari politici. Ma questa (mi consenta di aggiungere: grazie a Dio!) non è la condizione d’altri milioni di elettori italiani, i quali avranno anch’essi delle chiare opinioni, ma desiderano sapere anche come la pensino gli altri, magari soltanto per potersi confermare più coscientemente nelle proprie convinzioni [...] Quanto alla inviolabilità del di lei domicilio, a differenza di quel che avveniva in un passato non remoto, che – se sbaglio me ne scusi – sembra calzarle a pennello, nessuno le impone di ascoltare le trasmissioni di Tribuna elettorale. Non vorrei essere accusato di monotonia, ma ricorderò anche a lei che esiste sempre «l’altro canale», sul quale può dirottare il suo ascolto; o, nella peggiore delle ipotesi, quella benedetta manopola con cui può tappar la bocca a qualsiasi contraddittore politico. A meno che – anche qui, se il sospetto è infondato, me ne scusi subito – il suo preciso riferimento alla «paterna potestà» esercitata nella sua famiglia [...] non nasconda l’intenzione assai poco democratica di impedire che altri ascoltino ciò che lei non vuole sia ascoltato. E non credo proprio che la Costituzione preveda l’intervento della Magistratura o d’altra autorità tutoria per difendere questa sua pretesa.

Non è tutto oro quel che luccica. La vicinanza della Rai alla politica si traduce anche in un volto censorio, a lungo impersonato dal codice di autoregolamentazione (istituito sotto la direzione di Guala e scritto da monsignor Galletto, direttore del Centro cattolico televisivo), che vieta in Tv argomenti ritenuti particolarmente scabrosi per la pubblica morale. È opportuno che il delitto e il vizio non siano descritti in maniera seducente e attraente, e che i sentimenti dello spettatore, rifuggendo da essi, siano per contro attratti verso i principi dell’honeste vivere e del ­­­­­36

neminem laedere [...] Il divorzio potrà essere rappresentato quando la trama lo renda indispensabile e l’azione si svolga in paesi dove questo sia ammesso dalle leggi. Il divorzio non deve essere trattato in maniera tale da indurre a ritenerlo come mezzo indispensabile per la soluzione dei contrasti tra i coniugi [...] Deve essere posto in rilievo che le relazioni adulterine costituiscono grave colpa [...] Attenta cura deve essere posta nella rappresentazione di fatti ed episodi in cui appaiano figli illegittimi [...] L’incitamento all’odio di classe e la sua esaltazione sono proibiti [...] Sabotaggi, attentati alla pubblica incolumità, conflitti con le forze di polizia, disordini pubblici possono essere riprodotti o rappresentati con somma cautela, e sempre in maniera tale che ne risulti ben chiara la condanna [...] Le relazioni (sessuali) illegali debbono essere sempre configurate come anormali e non debbono suscitare incitamento all’imitazione [...] Sono vietate le vicende che abbiano per oggetto o facciano cenno a malattie veneree, a perversioni sessuali, a forme patologiche, alla prostituzione ed ai luoghi ad essa destinati [...] Le scene erotiche sono proibite: i baci, gli abbracci, altre pose che abbiano esplicita relazione con l’istinto sessuale, possono essere rappresentati con discrezione e senza indurre a morbose esaltazioni [...] Le vesti e gli indumenti non debbono consentire nudità immodeste che offendano il pudore o che abbiano carattere lascivo (Calabrese-Volli 1995, 36).

Ecco ad esempio come lo stesso Ugo Zatterin, nel telegiornale della sera del 20 febbraio 1958, si esibisce in una serie di salti mortali per commentare l’approvazione della legge Merlin, che abolisce le case di tolleranza, senza mai nominarle espressamente, con un risultato decisamente criptico per gli spettatori. Oggi, poco prima che Togliatti aprisse con un discorso fiume un dibattito sulla politica estera che terrà impegnata per alcuni giorni la Camera, i deputati hanno approvato (385 sì, 115 no) la famosa legge Merlin. Finisce così, senza più possibilità d’appello, una questione decennale, apertasi esattamente nell’agosto 1948. L’Italia era ormai l’unico paese d’Europa in cui il problema sollevato dalla senatrice Merlin non fosse stato risolto e anche di recente l’Onu aveva sollecitato l’Italia perché lo risolvesse, dato che il suo statuto impone a tutti i paesi membri di adottare una soluzione come quella che è stata finalmente adottata. La legge Merlin prevede che le sue norme vengano applicate entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge stessa e, siccome la legge entra in vigore quindici giorni dopo essere stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, si può calcolare grosso modo che il nuovo corso incominci nel prossimo settembre. Insomma il canto del ­­­­­37

cigno si avrà intorno a Ferragosto. Dopo questa data, gravissime pene penderanno sul capo di coloro che cercheranno di riorganizzare ciò che la senatrice Merlin ha voluto distruggere. Le pene, dicevo, sono piuttosto grosse: da due a sei anni, con molti motivi per raddoppiare il carcere e le multe (Grasso 2004, 73).

Com’è noto, vittime illustri di questa politica culturale sono nel 1962 Dario Fo e Franca Rame, che non accettano la cancellazione dentro Canzonissima (il varietà musicale del sabato sera) di un loro sketch sugli infortuni di lavoro nei cantieri edili. «Canzonissima, nata con il centrosinistra – dichiara Dario Fo –, ha subito pressappoco le stesse peripezie. Quelli della Tv si debbono essere detti che quello poteva essere il momento buono per fare il mio nome [...] poi si sono accorti che anche col centrosinistra le cose continuavano come prima, e allora hanno cambiato musica, augurandosi che con le prime grane avrei capito il vento che tira e mi sarei arreso» (ivi, 124). Al vertice della Rai, che motiva ufficialmente l’inopportunità dello sketch per la concomitanza della vertenza per il rinnovo del contratto di lavoro dell’edilizia, siede dall’anno precedente Ettore Bernabei, che arriva dalla direzione del «Popolo», il quotidiano organo della Democrazia cristiana. È lui a tenere il timone di un’azienda cresciuta ininterrottamente e sempre più importante, che deve rendere conto al partito di maggioranza relativa (e ai suoi complessi equilibri correntizi interni) in una fase di delicata transizione politica. Ma non solo politica. Tra gli studiosi di scienze sociali sono diverse le voci che paventano «l’eclissi del sacro» e guardano alla secolarizzazione come tendenziale incrinatura delle più antiche radici e certezze degli italiani: una televisione «moderata» diventa essenziale per reggere l’urto del cambiamento. Così si esprime un lettore del «Radiocorriere Tv» all’inizio del 1964: La sera del 26 dicembre scorso, assistendo alla scena finale di «Gran Premio» tra le squadre della Sicilia e del Lazio, ho rilevato che la madrina del Lazio – riferendosi alla suggestiva rievocazione del Natale cristiano – concludeva dicendo che «la bella favola era finita» e porgeva tanti auguri ai piccoli spettatori che avevano richiesto tale rievocazione fin dall’inizio. Io ritengo che rivolgendosi a parecchi milioni di ascoltatori cattolici, grandi e piccoli, si dovrebbe evitare di parlare di «favola» per l’evento storico che ha iniziato da venti secoli l’era cristiana e che ha lasciato la Chiesa cattolica quale testimonianza perenne e vivente del Di­­­­­38

vino Fondatore. Non favola – il Natale cristiano – ma la più documentata e comprovabile delle realtà storiche.

«È bene che ci si richiami a questa realtà e ne ringraziamo il nostro ascoltatore» è la risposta del settimanale, che continua: Ci sembra giusto però pregarlo di non generalizzare sui rilievi, e di tenere presente – accanto all’espressione casuale, improvvisata nel finale di una presentazione – il complesso delle trasmissioni nelle quali, in quegli stessi giorni, commentatori qualificati e autorevoli hanno illustrato la realtà storica e religiosa del Natale («Radiocorriere Tv», 28 gennaio 1964).

Il varo del secondo canale nel novembre 1961 rappresenta il passo inaugurale del nuovo direttore Bernabei. Sotto la sua guida la Rai sta bene attenta non solo alla politica, ma anche a non perdere il proprio volto sfaccettato. Aumentano le ore di trasmissione dedicate ad avvenimenti sportivi (dal 4 al 12% tra 1956 e 1963), a programmi giornalistici e culturali (dal 12 al 25%), a film (dal 10 al 16%), a telegiornali (dal 10 al 14%); diminuiscono quelle di rivista e varietà (dal 36 al 12%), di teatro (dal 20 al 16%) e musica classica (dall’8 al 5%). L’organico dell’azienda cresce, in particolare nei ruoli giornalistici, che tra 1961 e 1974 aumentano da 300 a 800 (i tecnici passano da 2.600 a 2.900, gli amministrativi da 1.800 a 2.100). Il rafforzamento dell’offerta giornalistica e culturale rappresenta così il punto forte della paleotelevisione pedagogica di Bernabei: un punto non scontato (Rizza 1989, 170). Negli Stati Uniti l’intrattenimento leggero fa la parte del leone (53% della programmazione di tutte le reti che trasmettono nella città di New York a metà degli anni Cinquanta) anche rispetto ai film (10%) e solo l’8% del tempo viene dedicato all’informazione (Bogart 1956, 295). In Germania la televisione di Stato (frutto dell’associazione di nove televisioni regionali) vara il secondo canale in contemporanea all’Italia, ma gli anni Sessanta vedono invece una crescita dell’intrattenimento rispetto all’informazione (Rath 1990). La televisione francese dipende direttamente dal ministero dell’Informazione e il presidente de Gaulle esercita su di essa un controllo ferreo e pressoché esclusivo (Bourdon 1990; Vassallo 2005). Viceversa in Gran Bretagna già alla fine degli anni Cinquanta la nascita di un canale privato finanziato dalla pubblicità (la Independent TeleVision, creata nel 1955 da un ­­­­­39

conglomerato di società locali e fin dall’inizio sottoposta a un’authority di controllo) sposta il ruolo della Bbc – che apre il secondo canale nel 1966 – verso la qualità informativa e culturale, secondo un itinerario simile a quello della Rai, ma assai più liberale. «Non è compito nostro – afferma nel 1968 il direttore della Bbc Charles Curran – adottare una specifica moralità e tentare poi di persuadere tutti a seguirla» (Davis 1990, 121; Black 2007). Per Bernabei vale una logica quasi diametralmente opposta, ma con una preoccupazione specifica per la qualità. A quest’ultima risponde il varo di programmi giornalistici e culturali in prima serata, come Tv7 (1964) e Almanacco (1963), ma anche la nomina di Enzo Biagi alla direzione del telegiornale del primo canale, che tuttavia si scontra con le esigenze extraprofessionali di un’azienda di Stato. Biagi resiste meno di un anno e si dimette nell’estate 1962. Il telegiornale già allora era un posto dove la dote principale di un direttore doveva essere la capacità di mantenere certi equilibri. E per me erano davvero troppo complicati. Ricordo quegli undici mesi in modo ossessivo, perché ero un uomo sbagliato in un posto sbagliato. Infatti, dopo poco più di venti giorni a Roma, ho detto a mia moglie: «informati su quanto ci costa il trasloco di ritorno; rimaniamo qui qualche mese ancora, e solo per ragioni di decoro». Delle lottizzazioni non mi sono mai interessato, e il primo giorno ho riunito la redazione per dire: «non voglio sapere da che parte sta ciascuno di voi: se portaste una maglia con scritto il nome dei vostri protettori, mi sembrerebbe di stare al Giro d’Italia. Quindi facciamo finta di niente e proviamo a lavorare insieme» (Biagi 1988).

L’idea che la televisione appartenga di fatto al governo – «feudo dell’esecutivo» la definisce in questi anni Indro Montanelli (1964) – ne accompagna la diffusione fin dalla nascita e appare naturale agli italiani. È su questo terreno che si misura la più significativa continuità con l’esperienza fascista: nella perdurante assenza di una cultura civica diffusa, capace di distinguere tra Stato e governo, tra servizio pubblico e appartenenza politica. Non si può non essere d’accordo con Aldo Grasso quando sostiene che la Rai rappresenta il più formidabile progetto culturale elaborato dal pensiero cattolico italiano, erede di una tradizione antica fatta di oratori e cinema parrocchiali ma anche di una assuefazione più recente alla censura governativa del regime fascista (Grasso 2004, xxxi). L’enciclica Miranda Prorsus promulgata nel 1957 da Pio XII apre con fiducia al nuovo mezzo e ­­­­­40

nello stesso tempo richiama al dovere di un suo esercizio pedagogico, tanto più necessario quanto maggiori sono le potenzialità invasive della Tv in ambito domestico. Ma la Rai rimane comunque un progetto non monolitico, che si nutre di scontri in seno alla Dc tra ala confessionale e ala modernizzante, di spregiudicate mutuazioni dalla prassi televisiva statunitense, di cooptazione misurata di giornalisti e autori non particolarmente noti per fedeltà confessionale. Impostato secondo criteri non competitivi di ridotto allargamento dell’offerta –, il telegiornale dura la metà – il secondo canale serve a rafforzare l’egemonia del primo: nel 1966 i sondaggi della Rai stimano un picco di ascolto medio nella fascia di prima serata (dalle 21.30 alle 21.45) composto da 12,4 milioni di spettatori sul primo e 1,9 milioni sul secondo, senza particolari differenze di sesso, età, istruzione, professione tra i primi e i secondi. Il pubblico televisivo italiano si stabilizza: mentre finora in prima serata oscillava tra i 6 e i 10 milioni di spettatori, dal 1965 in poi non scende mai sotto i 10 milioni. In parallelo si definisce un palinsesto settimanale che «fidelizza» il pubblico con appuntamenti fissi per genere: il film al lunedì, il quiz al giovedì, il varietà al sabato. La regola rimane sempre quella di privilegiare il primo canale: per esempio, quando i responsi del Servizio opinioni misurano cali di pubblico per l’esperimento di Tv7 in prima serata di lunedì, con il film sul secondo canale, la Rai sposta Tv7 al venerdì e torna al film di lunedì sul primo canale (Pinto 1980, 64-65). Sempre nel 1965 gli abbonamenti superano i 6 milioni e corrispondono a quasi la metà degli utenti. Nel giro di dieci anni la pratica dell’ascolto collettivo fuori casa si è quindi molto ridimensionata e la televisione acquista la fisionomia «americana» di genere di consumo privato e domestico: non è più un mezzo di nuova socializzazione. Da «evento comunitario» si trasforma in «spettacolo domestico» (Abate-Brunetto 1996, 6; Foot 1999, 384). Nel 1959 i televisori in locali pubblici coprono il 42% degli spettatori totali, contro un 36% che la vede a casa propria e un 22% che la vede in casa di amici. Nel 1966 le percentuali si ribaltano: tre quarti degli spettatori italiani la vedono a casa loro, quelli che la vedono in casa d’altri sono calati al 15%, quelli che la vedono nei locali pubblici al 10%. Anche una delle famiglie del piano terreno possiede la televisione. Sono otto persone in due stanze: padre, madre, sei figli fra i cinque mesi e i dieci anni. Parlo con il padre. Quanto guadagna? «Poco», «Cinquan­­­­­41

tamila lire al mese, sessanta, secondo i mesi». Che cosa fa? «Il manovale». Quanto spende per l’affitto? «Non molto. Il proprietario è di Gangi, del mio paese. Mi favorisce. Gli do ottomila lire al mese. Quattromila per stanza». E la televisione quanto costa? «Mille lire d’abbonamento e diecimila di rata». Cioè, la televisione gli costa più dell’affitto? Allarga le braccia. Interviene la moglie a spiegare che lei era contraria a una simile spesa ma che lui, Salvatore, l’ha voluta a tutti i costi. Ma non preferirebbe un alloggio migliore rinunciando alla televisione? Salvatore scuote la testa: «No, qui siamo sistemati meglio che a Gangi. Non è una gran casa, è piccola, ma è meglio della tana in cui vivevamo giù in Sicilia. E poi con la televisione si risparmia. Io alla sera non esco più, non vado al bar, sto in casa. E poi è buona per i bambini che possono vedere tante cose e conoscere il mondo e imparare» (Leydi 1964).

I timori iniziali sull’«aspetto poco domestico» del televisore lasciano il posto a una realtà di rafforzamento e separazione dell’istituto familiare, che negli Stati Uniti appare evidente da almeno un decennio: un sondaggio del 1951 che misura il cambiamento di abitudini prima e dopo l’ingresso in casa della Tv, registra un terzo in meno di partecipazione ad attività associative, due terzi in meno di uscite serali, un quinto in più di visite serali a casa (Bogart 1956, 104). In realtà il tempo del bowling alone, dell’atomizzazione individualistica della società – che Robert Putnam colloca a metà degli anni Ottanta (Putnam 2004) –, comincia molto prima e la televisione vi gioca un ruolo importante. Ma non risolutivo. Quando, a partire dal Sessantotto, si apre anche nella società statunitense un ciclo di mobilitazione pubblica, la televisione potrà fare poco per impedirlo. In Italia appare evidente già agli osservatori del tempo il ruolo unificante della televisione. Nonostante la sua strutturale appartenenza a un «capitalismo aggressivo fondato sui consumi privati» (Alberoni 1968), la Tv unisce il paese dal punto di vista linguistico e della cultura di massa (creando nuovi divi con i programmi a quiz, nuovi personaggi con gli spot di Carosello), ma attenua anche il conflitto generazionale riunendo attorno al piccolo schermo giovani e anziani. In un paese storicamente contraddistinto da linee di frattura tra Nord e Sud e processi di centralizzazione statale tormentati e autoritari, la Rai assolve quindi una funzione particolare di nationbuilding, che in Europa trova un corrispettivo (non casuale) forse soltanto nella televisione tedesca e nel suo ruolo di ponte tra i diversi Stati regionali che compongono la Repubblica federale (Schramm ­­­­­42

2009, 76). Il «Radiocorriere Tv» risponde a questa funzione con la sua veste di rotocalco riccamente illustrato e le sue rubriche di utilità: L’avvocato di tutti, La donna e la casa (con moda, ricette, consigli di arredamento). Le risposte ai lettori spaziano dalle tecniche operatorie per il distacco della retina all’indirizzo di opere di carità. I bambini di Longarone [il comune più colpito dalla frana del Vajont] hanno scritto alla Befana: centotrenta letterine che i funzionari della Fiera dei sogni [il quiz condotto da Mike Bongiorno dal 1963 al 1966] hanno letto. Ci sono i bambini abituati a chiedere niente, o quelli che formulano un desiderio soltanto per rendere felice qualcuno della famiglia; e a Longarone la famiglia è una cosa molto più importante che altrove, perché chi l’ha persa o chi ha rischiato di perderla si stringe attorno ai cari superstiti con molto maggior affetto di prima. Così un bambino ha chiesto un pacchetto di «Nazionali» per il papà, un altro una gonna per la mamma [...] La Befana annunciata da Mike c’è stata, ma per qualche attimo soltanto, impersonata da Sandra Mondaini. Ha distribuito grandi pacchi soprattutto ai bambini [...] Vicino era seduta una biondina con due treccioline corte corte [...] Ha otto anni. Mi ha raccontato del suo viaggio per venire a Milano. Si sono alzati, lei e i suoi compagni, alle tre del mattino. «Che cosa ti è piaciuto di più a Milano?» le chiedo. «La Piazza del Duomo». «Non la televisione?». «No». «Come mai?» insisto. «Perché la televisione la vedo anche a casa» («Radiocorriere Tv», 12 gennaio 1964).

5. Consumi culturali e opinioni Nel 1968 il «Radiocorriere Tv» ospita sprazzi di un dibattito interessante sul ruolo della televisione pubblica. Io sono uno studente diciottenne perciò non pretendo di dire grandi cose. Tuttavia non vorrei rinunciare al tentativo di mantenere aperto il discorso. Il signor Barli accusava la televisione di essere eccessivamente prudente e un po’ dogmatica di fronte a questioni di grande attualità e importanza, tanto da favorire l’ignoranza di questi problemi e l’ipocrisia. Lei ha risposto che non si può essere troppo profondi e intelligenti quando c’è un pubblico immaturo nella grande maggioranza. Ora io penso che la Tv meriti tutta la nostra stima per l’allestimento di programmi che sono di eccellente qualità spettacolare (tra i migliori del mondo) e per la sua attività riguardante la scuola. Ciò però non basta, a mio avviso, perché si possa dare un giudizio globale del tutto positivo sui programmi televisivi ­­­­­43

[...] Se è vero che si possono provocare delle «esplosioni intellettuali» in molte famiglie italiane con programmi inadatti, è altrettanto vero che la stampa e la Tv non debbono accentuare e conservare il livello già basso della cultura di massa, col dare al pubblico ciò che qualitativamente equivale alla sua maturità. Lungi dall’essere, così, stimolo efficace per l’evoluzione civile e intellettuale del Paese. Sarebbe quindi auspicabile, da parte dei responsabili dei programmi, un maggiore impegno ai fini dell’educazione del cittadino, in modo da contribuire all’evoluzione della sua coscienza con un’azione lenta, intelligente e soprattutto coraggiosa («Radiocorriere Tv», 7 gennaio 1968).

La risposta del direttore Zatterin chiarisce bene la cautela da «giusto mezzo» della gestione Bernabei: Non basteranno neppure le quattro chiacchiere della sua lettera, né quelle della mia risposta, benché si tratti di cose già dette e dibattute più volte, soprattutto il dilemma se stampa e Tv debbano dare al pubblico ciò che equivale alla sua maturità o non piuttosto stimolarne l’evoluzione intellettuale e civile con programmi di maggiore impegno. Anche in questo caso, il pensiero mio e, mi pare, della Tv italiana è che si debba tenere il giusto mezzo. Stimolare troppo, può significare in pratica la chiusura in massa dei televisori e la conseguente valanga di proteste e di insulti contro i programmisti. Sapesse quello che abbiamo dovuto leggere e ascoltare immediatamente dopo la trasmissione di certi film di Flaherty e di Dreyer [...] Ma il fatto che certi programmi «impegnati» continuino [...] dimostra che non tutto quanto compare sui teleschermi è concepito al «basso livello della cultura di massa». L’offerta di trasmissioni formative c’è, e senz’altro superiore alla domanda. Il fatto che ci sia, significa fiducia, da parte dei vituperati programmisti, che col tempo la domanda possa affinarsi e quindi crescere.

Non per caso trovano spazio sul «Radiocorriere» anche lettere di tenore opposto: quasi a giustificare la funzione di «ascolto» del pubblico svolta dalla Rai. Ma insomma non l’avete capita ancora, che noi vogliamo dalla televisione soltanto canzoni, divertimenti e spettacoli, e non ci f... un bel niente della politica, delle inchieste, dei telegiornali eccetera eccetera. Perciò la pianti di prenderci in giro con le sue risposte sciocche, per dirci che ci vuole questo ma ci vuole anche quello, o che oltre il divertimento si deve ­­­­­44

anche informare e istruire eccetera eccetera. La voce del popolo è una sola: quella che io le dico («Radiocorriere Tv», 9 giugno 1968). Grazie, signor Mazzia, per averci fatto sapere qual è la volontà popolare. Penso anzi che governo e parlamento d’ora in poi potrebbero interpellare lei ogni cinque anni anziché spendere tanti quattrini e tante fatiche in consultazioni elettorali. L’unico guaio è che la sua certezza non costituisce un caso isolato. Sapesse quanti altri telespettatori, magari con idee molto diverse dalle sue, mi scrivono in nome del popolo, di cui credono di essere interpreti unici e infallibili.

I numeri che registrano la costante ascesa del piccolo schermo nei consumi culturali degli italiani danno ragione a Zatterin e a Bernabei. Allo stesso tempo, come di solito avviene nella storia dei media, la televisione non uccide né la radio, né i giornali, né il cinema. Negli Stati Uniti già nel 1954 il numero degli ascoltatori radiofonici risale (soprattutto nelle famiglie che da più tempo hanno la televisione) e il tempo medio di ascolto giornaliero (quasi due ore) cala di più nelle case senza televisore. Piuttosto la radio cambia collocazione (dal soggiorno alla camera da letto, alla cucina, all’automobile): nel 1956 si producono 14 milioni di radio (contro 7,4 milioni di televisori), di cui 10 tra radio portatili, radiosveglie e autoradio. Per i notiziari, la musica e i drammi a puntate la radio rimane preferita rispetto alla Tv (Bogart 1956, 123-124). In Italia le cose non vanno diversamente, almeno secondo i sondaggi della Doxa: gli ascoltatori giornalieri della radio corrispondono al 32% degli italiani nel 1949, al 40% nel 1963 (contro il 26% che guarda tutti i giorni la Tv), al 52% nel 1965 (contro il 39%). In molte famiglie che possiedono il televisore aumenta l’ascolto della radio durante il pranzo. Oggi il consumo di radio mostra una pluridecennale stabilità. In modo non dissimile, la minoranza di italiani che legge quotidiani e libri non sembra accusare particolari colpi inferti dalla pratica dell’audience televisiva. Nel 1968 corrisponde rispettivamente al 31% e al 16%: i lettori di quotidiani erano il 39% nel 1957 e il 36% nel 1963, e saranno il 40% nel 2000, mentre gli italiani che leggono libri (almeno uno negli ultimi tre mesi) erano pari al 16% nel 1961 e salgono al 36% nel 1990. Tra 1954 e 1962 la diffusione di quotidiani e settimanali cresce da 3,5 e 10,7 milioni di copie a 4,8 e 14,5. Anche in questo caso l’Italia segue una traiettoria già percorsa dagli Stati Uniti, dove tra 1946 e 1954 la diffusione delle riviste registra ­­­­­45

un incremento pari al 28%, contro un aumento della popolazione pari al 19%. I primi proprietari di televisori erano anche gli ascoltatori più assidui della radio e i lettori più frequenti di giornali e riviste. Avevano anche redditi superiori alla media ma si concentravano attorno ai livelli medi di istruzione. Col tempo, la televisione divenne accessibile a un numero sempre maggiore di famiglie appartenenti alle fasce più basse per reddito e scolarità, che leggevano meno libri e riviste. Ma una quota rilevante di persone più istruite, compresi i lettori abituali di libri, continuò a comportarsi come prima [...] Ricerche condotte con metodi e criteri diversi in luoghi e tempi differenti difficilmente possono produrre risultati omogenei. Tuttavia esiste un largo accordo sul fatto che la televisione abbia ridotto il tempo che il pubblico americano dedica alla lettura di libri e riviste, non quello per i giornali (Bogart 1956, 135 e 161-162).

Sul consumo di radio e stampa la televisione non sembra insomma esercitare un impatto determinante. Altre variabili (reddito e istruzione in primis) mostrano di pesare in modo assai più significativo. È a queste variabili che deve quindi essere ricondotto il gap nella lettura che continua (e continuerà) a separare gli italiani dagli altri popoli europei: nel 1963 la percentuale (48) di lettori di quotidiani e di libri (almeno tre volte a settimana) è poco più di metà di quella in Francia, Germania, Inghilterra. A non leggere in Italia sono (e saranno) soprattutto braccianti e agricoltori, casalinghe e operai comuni, che si sono fermati alle scuole elementari. Semmai la televisione funge da traino ad operazioni coraggiose che l’editoria italiana vara a metà degli anni Sessanta con i libri in edicola e il lancio (1965) dei tascabili. Ma nonostante le 60 mila copie vendute in un giorno dal primo Oscar Mondadori (Addio alle armi di Hemingway) il mercato non si allarga e i lettori forti (da almeno un libro al mese) restano in Italia una minoranza, valutata attorno al 20% nel 1980. L’altissima quota di rese dalle vendite di libri in edicola (pari al 40%) rende ben presto insostenibili i costi dell’operazione (Palazzolo 1993, 304-309). Diverso è invece il discorso per il cinema. Il drastico calo che si verifica negli Stati Uniti – dove la media di spettatori alla settimana precipita dagli 82 milioni del 1946 ai 34 del 1956 (Bogart 1956, 163) – si ripete in Europa e, seppure con qualche ritardo, anche in Italia. Nel 1955 l’avvento della televisione inverte infatti un trend ascendente del numero di biglietti venduti che durava dal 1950 (da ­­­­­46

650 a 800 milioni). Da allora in poi i biglietti staccati nei cinema si riducono senza soste – da 740 milioni nel 1960 a 525 nel 1970, a 240 nel 1980, a 90 nel 1990 – fino a entrare in caduta libera quando, negli anni Ottanta, si diffondono videoregistratori e videocassette e le sale di proiezione si riducono da 8 a 3 mila. Solo tra 1999 e 2005 il numero dei biglietti risale poco oltre quota 100 milioni (Monteleone 2009, 281; Pinto 1980, 51; www.istat.it/culturaincifre). Non è un’eccezione: l’Italia imita quanto avviene da tempo nel resto del continente. La crisi del cinema è quindi una crisi di lungo periodo e in Italia prosegue ininterrotta sia in una fase di espansione della spesa delle famiglie italiane in consumi culturali e ricreativi (istruzione, stampa, spettacoli), come quella che dura fino a tutti gli anni Sessanta, sia in una fase di contrazione come quella inaugurata dallo shock petrolifero del 1973. Solo negli anni Novanta la comparsa delle multisale (in forte ritardo sul resto d’Europa) e l’aumento del prezzo d’ingresso riescono in parte a compensare sul piano degli introiti un’emorragia di spettatori, che invece non riguarda il resto degli spettacoli dal vivo: teatro, opera, musica classica, danza. Tutti questi ambiti di spettacolo seguono infatti un percorso diametralmente opposto a quello del cinema, aumentando costantemente, a partire dal 1965, il numero delle rappresentazioni e anche (seppure in misura assai minore) il numero di biglietti venduti. Sul cinema la televisione (insieme alle sue tecnologie accessorie di riproduzione dei film) sembra quindi esercitare un ruolo concorrenziale più diretto e determinante. Altri generi di consumo ricreativo e culturale più «classici» mantengono nel tempo un’attrattiva «dal vivo» che invece pare sfuggire quasi del tutto alla «differita» cinematografica. La visione in Tv di quest’ultima appare comunque un’alternativa più comoda e almeno apparentemente gratuita. Di fatto il consumo di cinema registra un andamento in controtendenza rispetto al resto degli spettacoli dal vivo e degli altri media. È chiaro che il decollo del numero di spettatori televisivi rappresenta il fatto saliente nell’evoluzione del consumo mediatico degli italiani (come del resto in molti altri paesi). Ma non l’unico. A partire dal 1965 la crescita della quota di spese per balli, mostre e fiere mostra l’emergere di vecchie-nuove forme di uso del tempo libero (discoteche, turismo culturale e commerciale, sagre di paese ma anche luna-park, circhi, juke-box, flipper, videogame). E ancora nel 1995 un sondaggio registra una schiacciante maggioranza (84%) ­­­­­47

Fig. 1.3. Percentuali di consumatori abituali di media, 1956-1990 90 80 giornali

70

settimanali

60 50

radio

40 mensili

30

libri

20

0

cinema

Tv

10

1956

1965

1969

1975

1980

1986

1990

di italiani d’accordo con l’affermazione «l’informazione televisiva va bene per conoscere le cose in generale, per approfondirle è meglio leggere i quotidiani» (Abate-Brunetto 1996, 16). Magari predicano bene e razzolano male, perché i quotidiani poi non li leggono, ma gli italiani continuano a leggere i giornali e ad ascoltare la radio, seppure in misura minore rispetto ad altri popoli europei. Rimangono utenti plurali dei mezzi di comunicazione e tra di essi esercitano in qualche misura un diritto e una facoltà di scelta: di solito, in regimi democratici la pluralità delle tecnologie comunicative accresce e non riduce la libertà degli individui. Quando guarda la Tv il diritto-facoltà del popolo italiano si restringe molto, almeno al tempo del monopolio di Stato e dei due canali complementari. È vero che, rispetto a stampa e cinema, la televisione accentua la passività dello spettatore, la sua supina accettazione di quanto viene proposto dalla programmazione, con l’aggiunta di un timore reverenziale («l’ha detto la televisione») stranamente molto meno osservato negli altri due consumi culturali. Ma la politica culturale della Rai, nel suo attento dosaggio tra importazione del moderno americano, attenzione alla tradizione e censura, non si esercita su una tabula rasa, bensì su una popolazione in rapido e diffuso movimento. ­­­­­48

Tra 1953 e 1964 nel bilancio domestico della famiglia italiana media aumentano le voci di spesa relative a trasporti e comunicazioni, igiene e salute, abitazione, combustibili ed elettricità; calano quelle per cibo, abbigliamento, tabacco. Secondo un sondaggio effettuato nel 1964 su un campione stratificato (cioè rappresentativo per sesso, età, scolarità, professione della popolazione totale) di 5 mila cittadini in 300 comuni, le percentuali più alte di spettatori critici (cui i programmi televisivi piacciono «così così», «poco», «per niente») si trovano fra gli abbonati (rispettivamente 37, 12 e 3%) piuttosto che fra i non possessori di televisore (27, 8 e 2%). Alla fatale attrazione del piccolo schermo resiste in ogni caso una corposa minoranza di italiani. Lo «sgradimento» non sembra influenzato né dal sesso, né dall’età degli intervistati, bensì appare direttamente proporzionale al livello di istruzione e di reddito: ma senza che tra agricoltori, casalinghe, professionisti vi siano enormi differenze. Anche in questo caso l’Italia non è un’eccezione. Secondo i sondaggi effettuati in Francia durante le campagne elettorali del 1962 e del 1965, il medium più seguito diventa la televisione (che sale dal 22 al 52% dell’ascolto totale), a discapito della stampa (che cala dal 22 all’11%), mentre la radio rimane stabile (22-23%). Ma la Tv è anche considerata il medium meno attendibile di tutti. Alla pari di quello francese, lo spettatore italiano è uno «spettatore attivo», capace di usare la televisione per i propri bisogni di conoscenza (come i contadini lucani intervistati da Lidia De Rita) e di elaborare i testi televisivi alla luce della propria esperienza. Il piccolo schermo funziona da guida e sostegno nell’impetuoso processo di modernizzazione che gli italiani vivono, ma sono altre le variabili decisive – reddito e istruzione, in particolare – nel mutamento delle loro condizioni e dei loro atteggiamenti (anche rispetto alla televisione). Nelle quattro generazioni di spettatori televisivi che si susseguono dal 1950 fino ai giorni nostri, la prima (quella che arriva alla vigilia del Sessantotto) passa ancora poco tempo davanti al video. Solo nel 1968 la quota di utenti sistematici (che la vedono «tutti i giorni o quasi») supera la metà della popolazione totale e l’attenzione per il programma prescelto continua a prevalere largamente sull’attenzione per il mezzo in sé: l’accensione del televisore non è ancora diventato un gesto automatico. L’esposizione alla televisione non sembra, ad esempio, cambiare radicalmente le opinioni degli italiani. Secondo i sondaggi della Doxa la quota di italiani contrari al divorzio è pari al 68% (79% tra le ­­­­­49

Tab. 1.1. Grado di soddisfazione per i programmi Tv: percentuali sul totale del campione (aprile 1964) Molto

Abbastanza

Così così

Poco

Per niente

abbonati

Totale Uomini Donne 18-34 anni 35-54 anni 55 anni e oltre Elementare Media inferiore Media sup. e Università Professionisti, dirigenti Impiegati Commercianti Operai Agricoltori Casalinghe Pensionati Studenti

8 7 9 8 8 9 11 7

40 40 40 39 42 37 42 39

37 36 37 37 36 37 34 38

12 13 11 12 11 13 10 13

3 4 3 4 3 4 3 3

4

36

40

15

5

4

38

45

9

4

4 8 11 11 10 7 8

36 39 43 57 40 40 31

39 37 35 21 37 33 37

16 13 9 7 10 17 19

5 3 2 4 3 3 5

non possessori di tv

Totale Uomini Donne 18-34 anni 35-54 anni 55 anni e oltre Elementare Media inferiore Media sup. e Università Professionisti, impiegati, studenti Commercianti Operai Agricoltori Casalinghe, pensionati

16 11 21 14 15 20 17 10

47 48 46 48 51 43 49 43

27 29 26 27 26 31 27 28

8 10 5 9 6 5 6 15

2 2 2 2 2 1 1 4

5

39

39

11

6

7

39

33

16

5

18 11 15

40 57 47

28 22 31

12 8 6

2 2 1

21

45

28

5

1

­­­­­50

donne) nel 1947 e al 71% (77%) nel 1965. Le opinioni favorevoli rispecchiano una collocazione politica a sinistra, seppure in modo non esclusivo (tra gli elettori socialisti e comunisti resiste grosso modo un 40% di contrari), e appaiono in rapporto di proporzione diretta ai livelli di urbanizzazione, reddito, istruzione: non sembrano influenzate in un modo o nell’altro dal consumo di Tv. Allo stesso modo, i comportamenti di voto non sembrano conoscere particolari perturbazioni riconducibili a un qualche influsso televisivo. Le tribune elettorali della Rai non sembrano giocare un ruolo paragonabile a quello esercitato dalla televisione francese nelle elezioni presidenziali del 1965 (Brizzi 2007). Anzi, secondo alcune ricerche condotte a metà degli anni Sessanta, l’aumento del numero di abbonati alla Rai sembra positivamente correlato all’aumento di voti dei partiti di sinistra, nonostante il ferreo controllo esercitato dalla Democrazia cristiana sull’informazione televisiva (Alberoni 1968, 56). La tesi di Alberoni è che, dopo la prima fase unificante, la televisione si colleghi adesso più strettamente a dinamiche di acculturazione e di conseguente aumento delle aspirazioni a una mobilità sociale verso l’alto (in implicita contrapposizione alla staticità incarnata dalle parrocchie), riaprendo nuovi conflitti generazionali. Naturalmente non è la televisione ad accendere il Sessantotto, che è innanzitutto l’effetto dell’arrivo all’età adulta della baby boom generation e del suo impatto con istituzioni (come l’università) concepite per élites ristrette. Ma le immagini della guerra in Vietnam o del maggio francese contribuiscono a diffondere oltre i confini nazionali i motivi delle agitazioni. Non è la televisione a dare origine al movimento femminista. Ma la larga presenza di donne nel pubblico televisivo contribuisce alla rottura del loro isolamento domestico e alla maturazione di nuovi punti di vista più autonomi. Il piccolo schermo funziona da «segnale e motore del mutamento di valori», «chiave per penetrare le forme che stanno assumendo le relazioni sociali» (Ortoleva 1995, 36). Inizia presto anche in Italia la discussione pubblica sul ruolo diseducativo della violenza in televisione. Sono un’insegnante elementare in una scuola di campagna e mi accorgo che la Tv ha un ascendente molto forte sui miei scolari, i quali vedono il Telegiornale, Carosello e anche i film. Ogni giorno mi riportano ciò che hanno visto e sentito. Commentiamo insieme e mi accorgo ­­­­­51

che questo conversare allarga i loro orizzonti, rendendoli partecipi delle gioie e delle sofferenze dei fratelli di tutto il mondo. Purtroppo sono più le sofferenze delle gioie. E i miei scolari lo rilevano. Costante (6 anni e mezzo) mi confidava che voleva morire perché era stanco di soffrire. Alle mie domande ha risposto che alla televisione vedeva tante disgrazie. Non tutti hanno la sensibilità di Costante, ma altri mi hanno riportato ciò che li aveva impressionati in uno stato di angoscia. Il fenomeno che si verifica nella mia piccola, simpatica classe accadrà anche in altre. Lo sgomento che sconvolge i miei piccoli (ho chiesto a tutti ieri: sono più i momenti in cui sei felice o quelli in cui sei triste? Mi sono sentita rispondere dalla maggioranza: «i momenti in cui sono triste». E badi che ho cercato di approfondire la domanda, ho cercato di farli riflettere, di farli pensare. Hanno 7 anni. E mi vengono a dire che i giovani d’oggi sono spensierati e vuoti!) Ora le chiedo, e perdoni se posso sembrarle ingenua, non sarebbe possibile comunicare, attraverso uno strumento tanto influente come la Tv, notizie serene, positive, rassicuranti? Accanto alla spaventosa descrizione delle infernali battaglie che si svolgono nel Vietnam, farebbe bene sentire di ragazzi, uomini, donne che hanno compiuto gesti umili ma generosi. I nostri ragazzi hanno bisogno di un ridimensionamento del concetto di eroismo e certe notizie perché il bene è pudico, farebbero bene («Radiocorriere Tv», 10 marzo 1968).

La risposta del direttore Zatterin difende con toni di maniera il mestiere di giornalista: Non so in che misura i colleghi del Telegiornale potranno accogliere e soddisfare questo nobile appello [...] Che il male faccia cronaca assai più del bene, è forse conseguenza del nostro ottimismo originario, che considera degno di nota e di rilievo soprattutto ciò che rompe la tranquilla convivenza umana e insidia la serena sopravvivenza degli individui.

Ma la discussione continua: Sono una mamma e in tale qualità sono costretta a rivolgere la mia protesta per la cruda scena del teleromanzo Non cantare spara [parodia musicale condotta dal Quartetto Cetra] dove una maestra di scuola insegna ai suoi alunni a sparare con la pistola [...] Ai miei tempi, benché io non sono poi tanto vecchia, una cosa del genere sarebbe stata inammissibile. Ma ora tutto è crollato, e sui teleschermi, invece di far vedere ai ragazzi italiani il libro Cuore o altri racconti edificanti [...] gli insegniamo a sparare ed uccidere con la massima disinvoltura («Radiocorriere Tv», 9 giugno 1968). ­­­­­52

La risposta minimizzante di Zatterin restituisce una piena consapevolezza del ruolo moderatore e conservativo, di difficile mediazione tra vecchio e nuovo all’insegna dell’intrattenimento spensierato, esercitato dalla televisione. Lo spirito che anima questa lettera merita tutto il nostro rispetto. C’è tanta ingenua bontà, tanta «Italietta», come direbbe qualche colonnello a riposo, ma non nascondiamo che, di fronte alla fragilità e alla crudeltà dei nuovi miti, un po’ di nostalgia per quelli, pur così lontani, resta nei nostri cuori non più adolescenti. Ma non prenderemmo troppo sul serio una «gag» d’un allegro spettacolo televisivo e non ci soffermeremmo troppo su queste pagliuzze: ben più grosse travi viziano o deformano l’educazione degli adolescenti d’oggi, e che, o si riparano presto, o ci faranno piangere molte più lacrime.

Non è faccenda solo italiana. Già nel 1954 un sondaggio Gallup registra negli Stati Uniti un’ampia maggioranza (70%) di adulti che attribuiscono l’aumento della delinquenza giovanile ai fumetti e ai programmi radiotelevisivi che contengono violenza (Bogart 1956, 273). Non tardano le prime denunce allarmate degli effetti del piccolo schermo sul pubblico dei più giovani, in termini di sostituto dell’educazione familiare e della socializzazione primaria, di esposizione a una quantità inusitata di violenza contenuta nei film e quindi di incentivo alla devianza (Himmelweit et al. 1958). Ma a questa enfatizzazione della Tv come agenzia formativa prevaricante si sostituisce rapidamente una considerazione del mezzo televisivo come corroborante – e non produttore – di attitudini e tendenze positive o negative già presenti nei minori così come negli adulti. In Italia è ancora più precoce la voce dello psicanalista Cesare Musatti: non ci sono film che trasformino ragazzi normali in delinquenti; ci sono film che possono presentare un certo grado di pericolosità per ragazzi già nevrotici per cause familiari o sociali (Musatti 1955).

Del resto gli studi «classici» di sociologia delle comunicazioni avevano per tempo messo in luce il carattere non diretto e non esclusivo della televisione nella formazione delle scelte dell’elettorato statunitense. L’influsso della Tv segue infatti un percorso «a due passi»: interviene in seconda battuta a rafforzare orientamenti già determinati ­­­­­53

da altri opinion leaders nei diversi gruppi sociali e nei diversi contesti (di lavoro, tempo libero, socializzazione) della vita quotidiana (Lazarsfeld-Berelson-Gaudet 1948; Katz-Lazarsfeld 1955). Sono voci che tuttavia restano minoritarie in un contesto, come quello degli anni Sessanta, che è naturalmente portato a enfatizzare la potenza dei media. Nel 1964 il sociologo canadese Marshall McLuhan formula l’immagine del «villaggio globale»: attraverso la mediazione dei satelliti orbitanti attorno alla Terra (il primo a trasmettere immagini tra le due sponde dell’Atlantico è il Telstar, nel 1962), la tecnologia televisiva è in grado di collegare l’intero pianeta. Il limite fisico della distanza è superato dalla mondovisione (che tecnicamente si realizza in modo completo nel 1967), capace di stringere in unità di tempo e spazio tutti gli abitanti del pianeta, ripristinando la possibilità di contatti visivi «faccia a faccia» che il passaggio dalla comunità premoderna alla società moderna, anonima e spersonalizzante, aveva cancellato. Ancora (a lungo e forse per sempre) immaginifico sul piano internazionale, il concetto di «villaggio globale» interpreta meglio, paradossalmente, quanto avviene sul piano nazionale, non solo in Italia. Negli anni della ricostruzione e del boom la televisione è il mezzo di comunicazione che con maggiore efficacia rispecchia il mutamento vissuto dagli italiani. Movimento e velocità, pluralità, conoscenza e intrattenimento, familismo acquisitivo costruito attorno alla casa, sono le parole chiave di un processo che impressiona per il grado di trasversalità sociale e omogeneità geografica, probabilmente senza precedenti nella storia d’Italia.

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II

La rottura (1968-1980)

1. Pubblico e privato Alla svolta del Sessantotto la paleotelevisione pedagogica di Bernabei si presenta con il proprio volto plurale. Da una parte, Ungaretti che la domenica in prima serata declama i versi dell’Odissea prosegue la tradizione di rapporto culturale con le radici umanistiche del patrimonio letterario europeo. Dall’altra, La famiglia Benvenuti (1968) rompe il tabù anti sit-com e ne declina una versione italiana buonista, dove i conflitti di genere e generazione si stemperano grazie all’infaticabile opera mediatoria, silenziosa ma attenta della mamma: una versione già anticipata in misura ridotta (priva dei figli) dai duetti di Gino Cervi e Andreina Pagnani in Le inchieste del commissario Maigret (1964). Per la prima volta la famiglia italiana, da bersaglio privilegiato della comunicazione pubblicitaria di Carosello e di una scrupolosa politica culturale fatta di censura e qualità, assurge a contenuto della messa in scena. Il pubblico italiano conosce bene i telefilm americani [...] Questi eroi senza grandi gesti, appartenenti ad una mitologia minore, ripropongono i tratti caratteristici di un particolare sistema di vita, lontano spesso dall’esperienza comune al pubblico cui si rivolgono. A questi eroi, è vero, ha aperto la strada il cinema hollywoodiano in tanti anni di attività, ma la ragione del successo sta probabilmente nella capacità degli autori e dei produttori di individuare le esigenze più o meno nascoste, più o meno confessate, dello spettatore che ogni sera si siede davanti al suo televisore. ­­­­­55

Quasi sempre c’è la cura di accantonare l’immagine della vita com’è, per sostituirla con un’altra immagine, confortevole e rassicurante, frutto di una invenzione abilmente truccata di realismo. Ora con La famiglia Benvenuti entra in scena un tipo di telefilm, di produzione italiana, che intende compiere un’operazione diversa: non viene offerta in consumo la vicenda di un eroe, sia pure «medio» e quindi non confondibile con i «supermen» dei fumetti, ma viene presentato un nucleo familiare alle prese con l’esperienza quotidiana, immerso cioè nella cronaca di tutti i giorni, composta non semplicemente di fatti e di fatterelli ma di problemi effettivi, umani, di rapporti sociali e di comportamento [...] la serie di telefilm, a questo proposito, registra una delle modifiche più significative sul piano sociologico intervenuta nella vita familiare anche in Italia. Come noterebbero Ardigò, Ferrarotti o Volpicelli, l’autoritarismo sembra scomparso e si va facendo strada una ridistribuzione delle funzioni. I Benvenuti vivono in una sostanziale, profonda armonia. Non mancano i momenti di crisi e le opinioni possono essere messe a confronto con una certa vivacità ma questa armonia, che nasce dalla fiducia piena nei valori della famiglia, non s’incrina mai. Giannetti, sceneggiatore, sente la materia e vi semina abbondantemente quegli aspetti che si presentano nella accelerata trasformazione del costume negli ultimi anni. E ciò viene a correggere l’impressione di vuoto di storia [...] si va dal «boom» degli elettrodomestici al «boom» delle enciclopedie a dispense, dalla battente compagnia della pubblicità ai condizionamenti della televisione, dalla spinta consumistica all’abitudine del week-end. Tutto è toccato di passaggio ma serve a dare un sapore reale alle situazioni [...] c’è anche un richiamo alla protesta dei giovani. In una scena, ad esempio, Ghigo tornando a casa molto tardi per aver partecipato a una manifestazione pacifista sciolta dalla polizia, stupisce la madre preoccupata con la frase: «Un uomo è un uomo se dentro di sé conserva questo amore per la libertà». Frase un po’ melodrammatica ma sincera e utile per comprendere un altro degli elementi che entrano in gioco nella famiglia, in cui il padre è un sincero antifascista e si scontra talvolta con il nonno, che fascista lo è stato (Moscati 1968).

Non è senza significato, tuttavia, che il giovane attore della famiglia Benvenuti, Giusva Fioravanti, finisca qualche anno dopo coinvolto nelle trame eversive e sanguinarie del terrorismo neofascista. Nel corso degli anni Settanta, infatti, l’infelicità pubblica (nella sua accezione più strettamente politica) finisce per prevalere sulla felicità privata, faticosamente costruita nel decennio precedente tra migrazioni, consumi e televisori: incertezza e conflittualità diventano le cifre di lettura dominanti. Molti dei modi più tradizionali di ­­­­­56

guardare al Sessantotto – sia di parte conservatrice che di parte progressista – sono accomunati dal focalizzare l’analisi sulle ideologie dei movimenti, sottolineandone o il carattere antistorico e violento (Montanelli-Cervi 1991) o il potenziale innovativo contrapposto alla chiusura tetragona delle istituzioni e dei sistemi politici (Crainz 2003; Ginsborg 1989, 404). Indagato un po’ più da vicino, il mondo giovanile smentisce una rappresentazione monolitica e mette in luce contrapposizioni sociali interne, insieme a un certo grado di correlazione diretta tra orientamento rivoluzionario e reddito delle famiglie di appartenenza (Altan 1974). Ma l’aspetto interessante del Sessantotto prescinde dalla dimensione soggettiva dei protagonisti e appartiene invece alla sfera dei processi sotterranei di lungo periodo. Vista in questa luce, l’esplosione dei movimenti di massa della fine degli anni Sessanta assume l’aspetto (molto meno poetico) di un meccanico riflesso demografico. Non si tratta solo dell’impatto di una popolazione in eccedenza (la baby boom generation), ma anche dell’unica finestra temporale nell’intera storia del genere umano (quella tra gli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Ottanta) libera da malattie veneree contagiose: la sifilide è stata sconfitta dagli antibiotici e l’Aids deve ancora comparire. E dal 1960 esiste la pillola anticoncezionale: consumo di nicchia (meno del 5% delle donne italiane in età fertile negli anni Settanta, contro il 20% di oggi) ma dall’alto valore simbolico. Collocate in tale contesto, parole d’ordine altrimenti astratte – «rivoluzione sessuale», «rivoluzione femminista» – acquistano concretezza e il 1968 diventa quantomeno una data simbolica per periodizzare mutamenti irreversibili (anche se tuttora controversi) del senso comune e della vita sociale: maternità consapevole, parità di diritti tra uomo e donna, distinzione tra sesso e riproduzione. È come se il Sessantotto prolungasse sul piano delle mentalità e dei costumi il moto individualista acceso negli anni del boom (ed efficamente rispecchiato dalla paleotelevisione) sul piano della mobilità spaziale e della corsa ai beni di consumo privato. Nel 1965 apre a Roma un nuovo locale da ballo: si chiama Piper, ed è opera di Alberico Crocetta, avvocato, reduce della X Mas (la formazione di arditi fascisti attiva al tempo della Repubblica di Salò) e frequentatore degli Stati Uniti. Questa è una strana platea dove i ragazzi finalmente si scaricano, sono sinceri, liberi dai vincoli della famiglia. Io quand’ero ragazzo, e fino a ­­­­­57

pochi anni fa, ogni volta che facevo qualche cosa pensavo: «che penserà mio padre?». Infatti io non ero libero, sentivo il vincolo della famiglia, mi sentivo sempre osservato e rimproverato. Io voglio che i giovani di oggi si liberino di questi complessi. Ed è per questa ragione che ha fondato il Piper, che secondo le sue intenzioni dovrebbe essere una cosa da giovani, interclassista. Li vede questi ragazzi? Sono figli di operai e di lavandaie. Spendono mille lire o cinquecento, l’ingresso è gratuito, e si scaricano. Questi non hanno problemi sessuali [...] Eccoli lì, si purgano, si scaricano proprio di tutto, e tornano a casa purificati... Insomma mi dite voi cosa farebbero se non ballassero e non trovassero un locale dove tutti insieme si fanno coraggio e si dimenano? Andrebbero a rubare automobili (Saviane 1965).

A ben vedere, anche svolte epocali successive mantengono con il Sessantotto legami causali non immediatamente percepibili. In tutto il blocco dei paesi dell’Est europeo l’invasione della Cecoslovacchia nell’agosto 1968 corrisponde a una stretta autoritaria e centralista, che riporta di nuovo l’ago della bilancia dalla parte dell’industria pesante (e bellica in particolare). Nelle strategie del Cremlino il Sessantotto ha provocato un ritorno al «comunismo di guerra»: tra sconfitta statunitense in Vietnam (1973) e invasione sovietica dell’Afghanistan (1979) si consuma l’ambizione di assestare un colpo militare all’egemonia americana. Ma gli unici risultati di questa «seconda guerra fredda» sono una compressione dei consumi privati e un peggioramento del tenore di vita, che via via toglieranno consenso e legittimità al regime comunista, fino alla sua crisi finale. La stessa rivoluzione informatica dei personal computer – per fare un secondo esempio – proviene dal clima culturale del Sessantotto. I guru di quella rivoluzione (Bill Gates, Steve Jobs, Steve Wozniak) hanno più volte testimoniato la propria appartenenza alla baby boom generation e alla comunità hippy californiana. È in omaggio alla loro particolare filosofia anti-Ibm dell’accesso di massa alle nuove tecnologie che sperimentano, a metà degli anni Settanta, i primi prototipi di personal computer. Nella memoria collettiva degli italiani, per tornare a casa nostra, la drammatica esperienza del terrorismo durante gli «anni di piombo» schiaccia ogni considerazione del Sessantotto: è luogo comune che la chiusura della società politica nei confronti delle istanze della società civile produca radicalizzazione e imbarbarimento. Non è così. Riforma delle pensioni, che fissa il minimo sociale (1969); legge sul divorzio (1970); statuto dei lavoratori (1970); istituzione delle Regio­­­­­58

ni (1970); riforma fiscale, con introduzione dell’anagrafe tributaria (1971); avvio di un servizio sanitario nazionale su base universalistica, in sostituzione delle casse mutue professionali (1974-1978); nuovo diritto di famiglia, con la parità tra coniugi (1975). Non credo di sbagliarmi nel sostenere che questa semplice sequenza legislativa riassume una delle più intense stagioni riformatrici dell’intera storia d’Italia. È chiaro che ciascuna di quelle riforme apre altri problemi, destinati a durare fino ai giorni nostri, e tuttavia mette in luce la capacità del sistema politico italiano di rispondere almeno in parte alle esigenze di rinnovamento e modernizzazione allora emergenti. È una capacità che resiste in tempi difficili, a partire dalla strage di piazza Fontana a Milano, del dicembre 1969, e dall’intreccio di manovre destabilizzanti e autoritarie che essa mette in luce. In questa stagione la Rai si muove con cautela, cercando di adeguare ai tempi la propria missione pedagogica. Nella scia dell’Odissea e della Famiglia Benvenuti – ma anche di Quelli della domenica (1968), innovativo varietà che lancia Paolo Villaggio, Cochi e Renato, Ric e Gian – potenzia la propria capacità produttiva: sono 39 i telefilm realizzati e messi in onda nel 1968 (erano solo 9 nel 1965), mentre nello stesso arco di tempo cala drasticamente (da 142 a 62) il numero di film statunitensi trasmessi. Non senza problemi con il pubblico. Sono uno studente ginnasiale che ama passare alcune serate (molte serate) davanti al video. E sinceramente mi posso dichiarare soddisfatto dei programmi Tv, come anche di Quelli della domenica, nella quale ammiro particolarmente Paolo Villaggio. Ma devo muovere un serio appunto. Come è possibile che molte volte si parli nella succitata trasmissione di «braccianti meridionali» con un senso di ironia veramente pesante? Per esempio mi è sembrato di capire che si voleva paragonare nella trasmissione del 2 giugno i «braccianti calabresi» ai «servi della gleba» russi! Convenga almeno che è cosa sconveniente («Radiocorriere Tv», 23 giugno 1968).

Il direttore Ugo Zatterin difende il carattere dissacrante del nuovo intrattenimento televisivo. Credo di poter escludere che Paolo Villaggio, come chiunque altro alla radio o alla Tv prende come termine di paragone i «braccianti calabresi» per confrontarli con altri tipi di lavoratori più evoluti socialmente ed economicamente, lo faccia con ironia o con disprezzo. Il «bracciante calabrese» è entrato nella letteratura polemica e nella satira politica come ­­­­­59

il simbolo di una parte di italiani, che ancora hanno bisogno della solidarietà nazionale per sviluppare il proprio tenore di vita e il proprio livello culturale. Anni fa un importante uomo politico, oggi scomparso, alluse in un suo discorso ai «cafoni calabresi» senza il rispetto che meritano anche gli ignoranti, quando l’ignoranza sia dovuta alla miseria: molti ricorderanno le fatiche e le contorsioni dialettiche a cui egli dovette sottoporsi per cancellare gli effetti della sua «gaffe». Non mi pare sconveniente, signor Sacco, che Villaggio o altri ricordino la presenza, in una società che si autodefinisce «del benessere», dei braccianti meridionali.

Ma Paolo Villaggio urta e divide comunque. Non trovo educato dare giudizi villani e tanto meno offendere quindi mi limito a chiederle: quanto ancora dovremo sopportare l’attuale trasmissione Quelli della domenica? Presentatore e il resto non piacciono affatto... Siamo noi che abbiamo gusti sbagliati o voi che non avete di meglio da darci? Grazie per averci fatto conoscere il simpaticissimo nuovo presentatore Paolo Villaggio. È bravissimo, interessante e originale. Sono abbonato alla Tv e come tale, fidando nella sua cortesia, sono a chiederle se lei assiste allo spettacolo Quelli della domenica; e non le è mai venuto in mente di consigliare il signor Villaggio di darsi all’ippica? A me ed ai miei familiari sì, fin dalla prima volta. Quel Villaggio! Una cannonata! Vadano a scuola da lui i Franchi, gli Ingrassia, i Tognazzi, i Vianello, e chi più ne ha più ne metta. Mi pare fino impossibile che la Rai abbia concesso le sue telecamere a un presentatore così intelligente. Al signor Villaggio, con molta serietà, certo una serietà meno stupida della sua, vorrei soltanto dire: sparisci. Villaggio se non lo buttate dalla finestra voi, verrà il giorno che lo faranno i telespettatori infuriati. Anche la televisione italiana ha il suo Buster Keaton. I pareri dei lettori sono così profondamente divisi – molte altre lettere lo documentano – che sarebbe difficile per chiunque tentare una mediazione critica tra chi osanna e chi condanna. Ogni forma di novità (e nessuno può dire che Paolo Villaggio non sia un presentatore diverso dagli altri) provoca reazioni estreme. Il tempo (non saprei dire ancora quanto) chiarirà se sia più giusta l’esaltazione degli uni o l’esecrazione degli altri («Radiocorriere Tv», 25 febbraio 1968). ­­­­­60

Lo sforzo produttivo della Rai si coniuga allo slancio dell’ala aziendalista modernizzatrice e tecnocratica, impersonata da Gianni Granzotto (dal 1965 amministratore delegato in sostituzione di Rodinò) e fondata sul Rapporto sulla Rai scritto nel 1968 da Gino Martinoli, Salvatore Bruno e Giuseppe De Rita. Il Rapporto predica la trasformazione della Rai in grande impresa di comunicazione, capace di estendere la propria offerta sul mercato dei consumi culturali (cinema, teatro, musica) e di competere sul piano internazionale, svincolandosi dall’abbraccio della politica. A quell’abbraccio rimane invece fedele Bernabei, che manovra con abilità le leve della lottizzazione dei posti di lavoro e degli incarichi, riuscendo a emarginare e neutralizzare le spinte di cambiamento, fino alle dimissioni di Granzotto. La Rai assume una veste elefantiaca (2 vicedirettori generali, 14 direttori, 30 codirettori e 53 vicedirettori centrali) che non ha alcuna ratio organizzativa e risponde palesemente ed esclusivamente a criteri di sottogoverno clientelare al servizio dei partiti di governo. Ma in nome della medesima ragion di Stato Bernabei deve anche sottostare al rigore invocato dal Partito repubblicano e all’opposizione interessata di industria automobilistica e giornalismo di carta, che rinviano al 1975 l’introduzione della televisione a colori (sperimentata nel resto d’Europa a partire dal 1967). E sarà un ritardo gravido di conseguenze al momento della competizione con le reti private. L’interpellanza parlamentare presentata nel 1966 dal segretario repubblicano Ugo La Malfa, insieme ai socialisti Riccardo Lombardi e Antonio Giolitti, riflette bene il senso delle aspirazioni programmatorie dei governi di centrosinistra, ma anche il modo (preoccupato) in cui almeno una parte del ceto politico guarda alle condizioni dell’Italia. La creazione di un canale televisivo a colori introduce nel nostro paese un consumo opulento [...] in un momento in cui tutte le risorse dovrebbero essere invece mobilitate, secondo la logica dei piani di sviluppo, per la soluzione dei problemi di squilibrio territoriale e settoriale della società italiana (cit. in Cavazza 2010, p. 62).

2. Secolarizzazione La fine di Bernabei, parallela a quella del suo padrino politico Fanfani, arriva con l’esito del referendum che nel 1974 sconfigge il tentativo della Democrazia cristiana di abrogare per via popolare la legge ­­­­­61

sul divorzio. A determinare una maggioranza così ampia di contrari (59%), non prevista nemmeno dai partiti di sinistra (che avrebbero volentieri evitato la prova di forza), è il voto delle donne: altro effetto lungo e sotterraneo del Sessantotto. L’esito del referendum segnala così un processo di lungo periodo che attraversa la società italiana, alla pari di tutte quelle dei paesi più ricchi e avanzati: la secolarizzazione, cioè la perdita di importanza delle istituzioni religiose nei tempi e nei modi della vita quotidiana. Per quanto vadano presi con le molle, i sondaggi d’opinione segnalano in questi stessi anni un calo significativo della percentuale di italiani che vanno a Messa ogni domenica: 62% nel 1954, 69% nel 1956, 53% nel 1962, stabile fra 32 e 37% nel periodo 1973-1988. In realtà non si tratta di una mera «eclissi del sacro». Le inchieste retrospettive sulla materia mettono in luce una differenza tra religione e religiosità nel vivere cristiano a livello di massa (Cesareo et al. 1995; Garelli 2003). A differenza del resto d’Europa (dove cala costantemente negli ultimi decenni), in Italia il numero delle persone che si dichiarano credenti rimane stabile; ma il dato italiano si riallinea al dato europeo nel segnalare puntualmente maggioranze relative di cattolici che affermano di credere in Cristo e solo in parte nella Chiesa. Il punto di svolta all’origine di tale distinzione più spesso richiamato dagli intervistati è l’enciclica Humanae Vitae, promulgata da Paolo VI nel 1968, che ribadisce la tradizionale contrarietà ai metodi anticoncezionali artificiali. Con una punta di superbia farisaica le gerarchie cattoliche rifiutano di sentirsi chiamate in causa e riducono la critica che emerge dai sondaggi a effetto del consumismo: come nei supermarket, anche in chiesa si prende ciò che fa comodo e si scarta ciò che confligge con i propri stili di vita, in particolare per quanto riguarda i precetti in materia di comportamenti sessuali. È ciò che oggi papa Benedetto XVI indica con la categoria di «relativismo etico». Può essere. Ma è un fatto che in tutto il mondo (con la parziale eccezione dell’Africa centrale) la conquista di livelli più dignitosi di vita si accompagna fin dalla fine dell’Ottocento con un calo costante dei tassi di fecondità (il numero medio di figli per donna), e quindi con la trasformazione della maternità da fatto ripetitivo a libera scelta in favore di meno figli più curati. Tanto è vero che fino dal 1930 la Chiesa anglicana ammette la possibilità del ricorso a pratiche contraccettive artificiali, purché esenti da motivazioni di «egoismo, lussuria o mera convenienza»: una licenza solennemente confermata nella conferenza del ­­­­­62

1958, che riconosce la pianificazione familiare come «fattore giusto e importante nella vita della famiglia cristiana in quanto effetto di una scelta positiva compiuta di fronte a Dio». La stessa gestazione della Humanae Vitae mostra quanto considerazioni simili siano penetrate nelle istituzioni cattoliche. Risale infatti al 1963, in parallelo al Concilio Vaticano II, la scelta di papa Giovanni XXIII di istituire una commissione sul tema, che nel 1966 rimette a papa Paolo VI un rapporto favorevole alla libertà di scelta sui metodi contraccettivi (sia naturali, come l’Ogino-Knaus, sia artificiali, come la pillola) nel quadro di una vita matrimoniale improntata al comandamento della carità e del reciproco rispetto. Paolo VI rifiuta però questo rapporto, prendendo a pretesto la non unanimità dei pareri (7 contrari, tra cui quello del presidente del Sant’Uffizio cardinale Alfredo Ottaviani, su 72 membri della commissione), e rende pubblica la scelta contraria: una scelta di vertice, che infatti provoca l’immediata opposizione di diversi episcopati (olandese, tedesco, canadese). Al di là delle travagliate decisioni dei vertici, per molti cattolici italiani la disobbedienza nel voto al referendum sul divorzio coincide con altre disobbedienze in diversi comportamenti demografici. Separazioni e divorzi aumentano costantemente: tra 1982 e 2007 le prime salgono da 33 mila a 81 mila, i secondi da 14 mila a 50 mila. A partire dal 1974 si rovescia una tendenza all’incremento del tasso di nuzialità (che dura dal 1950) e si apre una fase di calo costante (interrotta solo da una brevissima ripresa alla fine degli anni Ottanta) del numero di matrimoni civili e religiosi, dal 7 al 5‰. Con qualche anno di ritardo comincia ad innalzarsi l’età media di sposi e spose, fino a raggiungere livelli attorno ai 30 anni, affatto inediti per la storia degli italiani. Ancora con qualche anno di ritardo in più, aumenta la percentuale di figli naturali nati fuori dal matrimonio, che si moltiplica (dal 2 al 20%) tra 1978 e 2008, con una forte correlazione con la giovane età (fino a 25 anni) e la condizione di occupata della madre (Indagine campionaria 2002). Nel corso degli anni Settanta per una parte di italiani (da allora in costante crescita) la famiglia ratificata per legge smette di essere un destino di vita automatico, precoce e scontato. A sua volta, questo cambiamento si inserisce in un quadro di calo costante del tasso di fecondità (da due a un figlio per donna), che inizia nel 1965. Pier Paolo Pasolini è, come al solito, molto netto nell’attribuire alla televisione l’origine di questi mutamenti. ­­­­­63

È stata la propaganda televisiva del nuovo tipo di vita «edonistica» che ha determinato il trionfo del «no» al referendum. Non c’è niente infatti di meno idealistico e religioso del mondo televisivo. È vero che in tutti questi anni la censura televisiva è stata una censura vaticana. Solo però che il Vaticano non ha capito che cosa doveva e cosa non doveva censurare. Doveva censurare per esempio Carosello, perché è in Carosello, onnipotente, che esplode in tutto il suo nitore, la sua assolutezza, la sua perentorietà, il nuovo tipo di vita che gli italiani «devono» vivere. E non mi si dirà che si tratta di un tipo di vita in cui la religione conti qualcosa [...] Il bombardamento ideologico televisivo non è esplicito: esso è tutto nelle cose, tutto indiretto. Ma mai un «modello di vita» ha potuto essere propagandato con tanta efficacia che attraverso la televisione. Il tipo di uomo o di donna che conta, che è moderno, che è da imitare e da realizzare, non è descritto o decantato: è rappresentato! Il linguaggio della televisione è per sua natura il linguaggio fisico-mimico, il linguaggio del comportamento. Che viene dunque mimato di sana pianta, senza mediazioni, nel linguaggio fisico-mimico e nel linguaggio del comportamento nella realtà. Gli eroi della propaganda televisiva – giovani su motociclette, ragazze accanto a dentifrici – proliferano in milioni di eroi analoghi nella realtà. Appunto perché perfettamente pragmatica, la propaganda televisiva rappresenta il momento qualunquistico della nuova ideologia edonistica del consumo: e quindi è enormemente efficace (Pasolini 1974).

In realtà il mutamento demografico è una svolta che non riguarda solo l’Italia. Anzi il Belpaese mutua in ritardo e in misura ridotta una trasformazione che cala dal Nord Europa. Divorzi, «matrimoni senza carta», riduzione del numero di figli, metodi contraccettivi, aumento dell’età alle nozze, figli illegittimi, rappresentano i fattori principali di una transizione demografica in atto dalla metà degli anni Cinquanta che annulla gli effetti della baby boom generation. I punti di riferimento oggettivi di tali processi sono stati molteplici: la famiglia urbana, unità di puro consumo, disincentiva l’utilità economica di una prole numerosa; l’onere economico dell’allevamento dei figli è crescente, quando per il loro futuro inserimento economico-sociale appare indispensabile un più elevato livello di scolarizzazione (ed infatti, i tassi di scolarità aumentano fortemente, sia nella scuola media – alla quale si estende l’obbligo dalla fine del 1962 – sia nella scuola secondaria superiore); l’attività lavorativa extradomestica crescente della donna costituisce, al tempo stesso, un veicolo di emancipazione ed una necessità economica del nucleo, ed entra in contrasto con la prolificità, quando la penuria ­­­­­64

di servizi sociali per l’infanzia non consenta la delega, sia pur parziale, dell’allevamento dei figli. Ed inoltre, la destinazione di porzioni crescenti del reddito familiare all’acquisto di beni più o meno durevoli e lo stesso messaggio pubblicitario e culturale, ampiamente diffuso dai mass media nella società urbano-industriale-consumistica, orientano verso una famiglia ristretta (Sonnino 1995, 542).

Proprio su quest’ultimo piano la televisione italiana matura nel corso degli anni Settanta una inavvertita ma crescente scissione interna. Il dopo Bernabei apre infatti una lunga e contrastata stagione di passaggio da «una Tv di tipo pedagogico-educativo» alla «industria del divertimento» (Anania 1997, 76). Da un lato, il tono dell’informazione e la censura sui programmi di intrattenimento rimangono fedeli a una linea tradizionalista e clericale di difesa a oltranza di una famiglia patriarcale, fondata sulla funzione casalinga della donna e su valori di risparmio, obbedienza e solidarietà interna. Dall’altro, il messaggio della pubblicità marcia al passo dei tempi e disegna un modello di famiglia nucleare, con pochi figli e una donna casalinga ma aperta al mondo: ancora «nutrice» ma creativa. Come Giampaolo Fabris spiega in una relazione tenuta alla Camera di Commercio di Genova nel 1968, le donne italiane vivono il conflitto tra la tradizione e l’ambizione lavorativa: cucina e shopping diventano i sostituti di un’indipendenza vagheggiata ma solo raramente realizzata. La Tv ha costantemente espresso una contraddizione. Da un lato ha alimentato l’immagine di un paese modesto, bigotto, morigerato, cui era bene non offrire eccessive aperture, cui era opportuno mostrare la vita come tranquilla accettazione dell’autorità, delle vecchie regole morali, dei vecchi principi legati alla società contadina o piccolo-borghese; dall’altro ha dato sfogo alle sollecitazioni consumistiche, intervenendo pesantemente (e non soltanto con la pubblicità vera e propria) per trasformare la gente delle parrocchie e delle cellule in avidi, instancabili, insaziabili consumatori [...] Ed è nato così l’italiano televisivo, cioè l’italiano secondo la rappresentazione televisiva. Un italiano che non è mai esistito nella realtà ma che, sotto il peso prevalente della Tv, in un certo modo s’è venuto parzialmente a formare nella realtà. In ognuno di noi un «pezzo» di quell’italiano televisivo è pure entrato a comporre, disorganicamente e spesso nevroticamente, la nostra nuova personalità (Leydi 1974).

Sono del resto segnali contraddittori che provengono dalle trasformazioni sociali in atto. All’inizio degli anni Settanta si concentra ­­­­­65

Fig. 2.1. Solitari e famiglie estese (percentuali sul totale dei nuclei familiari), 19512001 35

30

famiglie estese

25

20

15

10

solitari

5

0

1951

1961

1971

1981

1991

2001

il processo di convergenza nell’acquisto di beni di consumo durevoli (Fig. 1.1) che trovano nella famiglia – piuttosto che nell’individuo – il proprio baricentro: televisore, frigorifero, lavatrice, auto (anziché moto). Tra 1965 e 1971 le famiglie con la televisione crescono dal 49 all’82%, quelle con il frigo dal 55 all’86%, con la lavatrice dal 23 al 63%. Ma gli anni Settanta sono anche quelli che vedono il massimo incremento (da 2,1 a 3,3 milioni) del numero di nuclei familiari composti da una sola persona. Solo in parte minore (circa un terzo) la crescita di solitari si deve all’aumento di single giovani e indipendenti, per i quali il matrimonio è preceduto da una fase di indipendenza abitativa (e forse anche economica). In parte largamente maggiore si tratta invece di anziani, che il potenziamento dei servizi e delle strutture sanitarie consente alle famiglie di espellere dal proprio seno. Parallelamente cala infatti il numero delle famiglie estese (5 o più componenti) plurigenerazionali, entro le quali i nonni convivono sotto lo stesso tetto assieme ai ­­­­­66

nipoti. In entrambi i casi la famiglia italiana viene comunque meno al proprio tradizionale ruolo di ombrello sociale e di supplente dell’assistenza pubblica, in omaggio a un nuovo egoismo individuale che richiede spazi e risorse per sé. Non è un fenomeno solo italiano: la «cultura del narcisismo» attraversa tutto l’Occidente e rovescia nella corsa ai consumi privati il senso civile della convivenza. Partecipazione e condivisione del vivere sociale non passano più attraverso forme collettive di uso del tempo libero, bensì attraverso l’ostentazione di status symbol personali di cui entra a far parte anche la cura del proprio corpo (Lasch 1981). La crescita delle risorse materiali a disposizione degli italiani (che ha occupato gli anni del boom) produce le condizioni per un aumento delle facoltà di scelta e dei valori «post-materialisti» di autorealizzazione individuali: vale a dire quelli desunti dalle risposte alle domande poste periodicamente dall’agenzia di rilevazione Eurobarometer, che vanno nel senso della parità sessuale, della soddisfazione di vita, della lotta alle discriminazioni, della partecipazione civile, dell’attenzione per l’uso del tempo libero, della preoccupazione per l’ambiente (Inglehart 1983, 1997; Inglehart-Welzel 2005). Sia pure in posizione marginale e ritardata rispetto al resto d’Europa, anche l’Italia partecipa a un mutamento degli orientamenti di fondo della società, che riflette l’arrivo della sicurezza economica e della baby boom generation. 3. Il ciclo della politica Nei decenni successivi questo cambiamento generazionale appare sostanzialmente irreversibile (quindi trasmesso in larga misura alle generazioni successive) e catalizza una nuova soggettività individuale, destinata a manifestarsi in Italia (ma non solo) su un doppio livello. Da un lato, essa coinvolge le cellule sociali primarie, come la famiglia, trasformandole – almeno in linea di tendenza generale – da unità di risparmio in unità (anche) di consumo. Mentre le prime subordinano richieste e interessi individuali dei componenti del nucleo familiare alle strategie di gestione del bilancio domestico decise dal capofamiglia (maschio), le seconde mettono in discussione l’unità familiare secondo logiche di confronto sia sessuale (le donne chiedono di poter decidere sulle spese: lavatrice invece di automobile) sia generazionale (i giovani rivendicano il motorino). «Chi Vespa ­­­­­67

mangia le mele» è il fortunato slogan coniato dalla Piaggio nel 1969: lo scooter smette di essere il mezzo di trasporto del capofamiglia e diventa status symbol generazionale. I media (e in particolare la televisione) si prestano a un’estensione della merce a stile di vita: «compro dunque sono». Valori materialisti e valori post-materialisti possono anche intrecciarsi tra loro e un mezzo di trasporto può diventare simbolo di parità sessuale, soddisfazione di vita, lotta alle discriminazioni, partecipazione civile, attenzione per l’uso del tempo libero... Nel 1976 la campagna «Mulino bianco» della Barilla incorpora il valore post-materialista dell’ambiente: l’estensione della merce a stile di vita raccoglie il senso dello shock petrolifero del 1973, riprende il mito arcadico della natura incontaminata e anticipa il «riflusso» dalla politica del decennio futuro. Il messaggio pubblicitario non veniva visto come un semplice messaggio di vendita, ma come un’estensione del prodotto stesso. La pubblicità e il marketing entravano ora solidamente nel calcolo manageriale in quanto non venivano più visti come dei costi distributivi, ma come degli autentici investimenti che aggiungevano valore al prodotto. Con il mezzo televisivo, si pensava, la pubblicità poteva costruire una sorta di estensione immateriale del prodotto. Suggeriva una modalità d’uso, di come fare esperienza del prodotto, che diventava difficile da dissociare dal prodotto stesso, nella sua materialità, anche perché il televisore ora serviva per una sorta di educazione alla società dei consumi e, così facendo, riusciva a integrare il discorso pubblicitario nella vita quotidiana in un modo più profondo (Arvidsson 2010, 90).

Esiste però anche il rovescio della medaglia. Non avere un certo prodotto genera senso di esclusione e la pubblicità è abile nel suscitare tali emozioni, soprattutto nel pubblico più fragile dei bambini e degli adolescenti. È il noto parere di Nancy Shalek, dirigente di una delle più autorevoli agenzie di pubblicità statunitensi, intervistata dal «Los Angeles Times»: La televisione è diventata il medium pubblicitario migliore. Quando funziona bene la pubblicità riesce a far sentire alla gente che senza quel prodotto sei un perdente. I bambini sono molto sensibili a ciò. Se gli dici di comprare qualcosa offrono resistenza. Ma se gli dici che se non ce l’hanno saranno dei cretini, ottieni la loro attenzione. Penetri nelle loro vulnerabilità emotive ed è facile riuscirci con i bambini, perché sono i più vulnerabili (Harris 1989). ­­­­­68

La soggettività sollecitata dalla comunicazione commerciale libera le persone da vincoli e condizionamenti, le sospinge verso nuovi orizzonti di benessere, ma genera anche nuove disparità e disegna nuove divisioni sociali. Dall’altro lato, la nuova soggettività individuale si indirizza criticamente verso le istituzioni, esprimendo una domanda di democratizzazione (Revelli 1995). Nel contesto globale dei primi anni Settanta l’Italia si distingue per una conflittualità prolungata, che si trasmette dalle università del maggio 1968 alle fabbriche dell’«autunno caldo» 1969, dove le ore di sciopero raggiungono un picco assoluto nel 1971 (300 mila contro le 100 mila di media del decennio precedente). La ricaduta nel comparto industriale della baby boom generation è rappresentata dal cosiddetto «operaio-massa»: una figura nuova di lavoratore giovane, spesso emigrato e diretto erede dei processi di mobilità geografica e sociale degli anni del boom, socialmente sradicato, privo di rapporti con le tradizioni e le culture del movimento operaio, istintivamente portato alla ribellione. Questa nuova generazione operaia reca con sé una richiesta di rappresentanza diretta, fondata sull’articolazione concreta e minuta dell’organizzazione del lavoro di fabbrica, che spazza via la logica istituzionale delle vecchie strutture sindacali (le commissioni interne) e crea il delegato di reparto, eletto non sulla base della tessera di affiliazione ma scelto dai compagni di lavoro a portavoce dei loro interessi. I consigli dei delegati comunque non distruggono le organizzazioni sindacali tradizionali. Anzi, tra 1967 e 1977 la Cgil passa da 2,4 milioni di iscritti a 4,4 (il Pci nello stesso periodo soltanto da 1,5 a 1,8) e il tasso di sindacalizzazione della società italiana si innalza dal 29% del 1968 al 49% del 1978: un altro esempio di capacità ricettiva delle istituzioni. Ma in ogni caso l’operaio-massa è il protagonista di un ciclo di lotte che tra 1969 e 1973 si incentrano su un arco di tematiche (inquadramento unico salariale e normativo, rifiuto di ogni monetizzazione della salute e lotta contro la nocività delle condizioni di lavoro, 150 ore retribuite da destinare allo studio) che presentano una doppia novità. La prima è quella di ancorarsi al terreno microeconomico, segnando un forte ritorno alla fabbrica nella sua dimensione aziendale, non solo e non tanto sul versante salariale quanto soprattutto sul versante normativo. La seconda è di ispirarsi a un pronunciato orgoglio di classe: l’egualitarismo delle rivendicazioni risponde a un intento di «ricomposizione» degli strati operai e di definizione di ­­­­­69

un soggetto unitario, protagonista anche fuori della fabbrica: di qui il carattere politico di molti scioperi (pensioni, casa) e la richiesta di un tempo retribuito per lo studio. Sono gli anni della «centralità operaia»: i lavoratori dipendenti del settore industriale incarnano fino dal censimento del 1951 il baricentro della società italiana, stabilmente pari al 40% della popolazione attiva totale. A tale costante preponderanza materiale fa riscontro negli anni Settanta il ruolo politico cruciale esercitato dalle grandi fabbriche del Nord: ciò che vi succede ha un peso immediato e importante su tutto il resto d’Italia. Al tempo stesso la società italiana avvia il proprio processo di terziarizzazione, in sintonia con l’arrivo sul mercato del lavoro della baby boom generation (Figg. 1.2, 2.2). Le dinamiche di scolarizzazione e urbanizzazione che accompagnano gli anni del boom producono un aumento del pubblico impiego (degli occupati nelle articolazioni centrali e periferiche dello Stato) ma anche delle professioni liberali tradizionali. Diversi sono i modi in cui questi ceti medi in espansione partecipano allo spirito del tempo. Mentre i dipendenti statali danno vita a un moto di intensa sindacalizzazione non priva di crescenti esasperazioni corporative, le professioni vivono processi di politicizzazione che trasformano ambiti corporativi da sempre abituati a una rigida e paludata continuità istituzionale e si concretano nella nascita di nuovi soggetti (Magistratura democratica, Medicina democratica, Psichiatria democratica, primi embrioni di sindacati nella Polizia), accomunati da un’attenzione al proprio ruolo sociale e portatori di progetti di modernizzazione e svecchiamento di metodi e contenuti professionali, destinati a lavorare sottotraccia per lungo tempo e a lasciare segni profondi e irreversibili. Anche sul piano dei comportamenti elettorali il referendum del 1974 segna una svolta periodizzante. Mentre le elezioni politiche del 1968 e del 1972 vedono l’avanzata dell’estrema destra, alle amministrative del 1975 e alle politiche del 1976 le sinistre ottengono il successo elettorale più consistente di tutta la loro storia. Fino al 1968 l’elettorato italiano appare governato da una «regola della continuità»: solo una modesta quota di elettori, valutabile tra un quarto e un quinto del totale, cambia partito, ma rimanendo sempre sullo stesso versante (di destra o di sinistra) dello schieramento politico. La media trentennale dell’indice di instabilità del voto colloca l’Italia agli ultimi posti della graduatoria europea, vicino alla Gran Bretagna e lontano da Francia e Germania. L’analisi dei flussi di voto del «ter­­­­­70

Fig. 2.2. Classi sociali in Italia (percentuali), 1951-1993 100 dipendenti terziario

90 80 70

operai industria

60 salariati agricoli

50

contadini proprietari

40

commercianti

30

artigiani

20

impiegati pubblici

10

impiegati privati

0 1951

borghesia 1971

1983

1993

remoto» elettorale del 1975-1976 stima in misura molto ridotta l’apporto degli elettori che compiono il grande salto da destra a sinistra; di gran lunga maggiore viene considerato il peso di ex astensioni e schede bianche (elettori di sinistra «stanchi», rimotivati dal vento del cambiamento) e soprattutto dei diciottenni, per la prima volta ammessi al diritto di voto (altro effetto a distanza del Sessantotto). Il voto ai partiti maggiori obbedisce ancora in maggioranza a una logica di «autocollocazione di classe»: Pci e Psi raccolgono il voto di chi si sente parte del mondo del lavoro dipendente, la Dc quello di coloro che non se ne sentono parte (in ordine di prevalenza relativa pensionati, casalinghe, lavoratori autonomi). Nonostante le apparenze, dunque, la regola della continuità non cambia. L’elettorato italiano segue innanzitutto una logica di appartenenza identitaria capace di trasmettersi tra le generazioni. Nel 1979 tra i sedicimila delegati ai congressi federali del Pci quasi metà ha il padre iscritto allo stesso partito e tre quarti hanno maturato la propria scelta politica con l’approvazione della famiglia (AccorneroMannheimer-Sebastiani 1983, 164 e 379). Nonostante le trasformazioni che iniziano ad investirle, le famiglie italiane mostrano un alto grado di omogeneità politica interna e una forte propensione alla ­­­­­71

trasmissione ereditaria delle opinioni di padre in figlio: la potenza trasmissiva e l’insularità della famiglia italiana tendono a riprodursi senza soluzioni di continuità negli anni di grande diffusione della Tv (a proposito di non onnipotenza della televisione). Per spiegare questa forza ideologica delle famiglie italiane la sociologia adotta fin dalla seconda metà degli anni Sessanta la categoria di «subcultura», applicata a zone delimitate del territorio nazionale (le «regioni rosse», le «regioni bianche») contraddistinte da uno stato di accentuata simbiosi tra identità politiche e culture popolari. È una categoria che proviene dalla politologia statunitense, impressionata dalla forte frattura tra comunisti e democristiani nell’Italia degli anni Cinquanta: la subcultura equivale a un limite del processo di modernizzazione che impedisce la piena costruzione di una civic culture, cioè di una cultura politica nazionale condivisa che comporti l’identificazione piena e senza riserve nelle istituzioni e nello Stato di cui si è cittadini. In Italia, viceversa, sussiste un grado di polarizzazione dell’elettorato tra destra e sinistra molto più elevato che altrove: l’attribuzione di qualità negative («egoisti», «ignoranti», «traditori») agli avversari politici ricorre assai più spesso di quanto non accada in Germania, Stati Uniti e Gran Bretagna, il matrimonio di un figlio con un partner dell’opposto schieramento è visto con assai maggiore ostilità. Compattezza familiare e linee di frattura («cleavages») persistenti rendono il cittadino italiano un cittadino solo a metà, chiuso nel suo particulare e lontano dall’idea di una res publica comune: le diverse subculture di appartenenza politica sostituiscono una moderna cultura della cittadinanza e un’identità nazionale condivisa, i partiti diventano strutture portanti della vita sociale quotidiana. Ma se le famiglie italiane sono portatrici di subculture politiche opposte e inconciliabili come riescono poi, nonostante questa separatezza, a convivere assieme? Le risposte degli studiosi oscillano tra l’indicazione – parallela al grande successo dei personaggi di Guareschi, Peppone e don Camillo – di un «tessuto più profondo di rapporti umani e sociali che il conflitto ideologico non giunge a intaccare», da un lato, e la sottolineatura dell’«agire politico coperto» in senso consociativo e spartitorio svolto dalle élites di partito a dispetto di una retorica delegittimante, dall’altro (Scoppola 1991, 159; Pizzorno 1993, 228; Mastropaolo 1996, 12; Fabbrini 1994, 31). Sono però risposte che ignorano la penetrazione del mezzo televisivo ­­­­­72

e la sua profonda funzione unificante sul piano della cultura di massa (dalla lingua parlata alla diffusione pubblicitaria di personaggi e prodotti di largo consumo). È lì che le famiglie italiane, divise dalla politica, ritrovano una trasversale omogeneità di fondo e una condivisione di stili di vita. I sei milioni di abbonati alla Rai del 1965 diventano dieci nel 1970 e dodici nel 1975, arrivando così a sfiorare la soglia dei tre quarti delle famiglie italiane. Gli spettatori della prima serata salgono dai quattordici milioni del 1966 ai venti del 1970. Non è più il ritmo impressionante del decennio precedente: almeno a stare ai dati raccolti dal Servizio opinioni della Rai, negli anni Settanta la corsa al consumo televisivo rallenta, in termini sia di abbonati sia di spettatori assidui (che la vedono ogni giorno). D’altra parte ci si avvicina a un tetto fisiologico di saturazione: le case senza televisore – il dato del 1980 include per la prima volta anche un 16% di famiglie che lo possiedono a colori – e gli spettatori saltuari diventano ormai un fatto residuale. Non solo. Fino dalla metà degli anni Sessanta l’aumento dell’ascolto televisivo procede in modo omogeneo in ogni fascia di età e in ogni classe sociale, sia pure con una temporanea flessione (anche questa omogenea) all’inizio degli anni Settanta. Tab. 2.1. Spettatori giornalieri: percentuali sul totale di classi di età e professioni

Classi di età: 18-24 anni

1964

1966

1970

1972

1977

1980

32

65

62

55

60

78

25-34

32

69

66

57

63

79

35-44

36

71

67

66

73

83

45-54

36

75

69

60

74

82

più di 55

26

77

73

62

76

79

Impiegati

64

73

66

67

81

Commercianti

14

67

61

69

78

Operai

31

65

59

61

79

Contadini

13

75

44

67

72

Casalinghe

31

78

62

74

82

Studenti Pensionati

46 42

65 81

63 54

67 73

81 79

Professioni:

­­­­­73

Pacifica e quasi scontata in una fase storica di aumento del reddito come quella del boom, l’opera omogeneizzante svolta dalla televisione diventa più difficile e conflittuale nella fase di contrazione che si apre a metà degli anni Settanta. Alla vigilia del primo shock petrolifero, provocato dalla guerra dello Yom Kippur (1973), l’Italia arriva peraltro con un significativo ritardo rispetto agli altri paesi europei. La discesa della quota di spesa delle famiglie destinata all’alimentazione – indice dell’aumento di benessere – appare assai meno rapida (nel 1970 è ancora sopra il 40%, mentre in Francia, Germania e Gran Bretagna è vicina al 30%) e per di più tende a ristagnare per tutti gli anni Settanta. Nel 1971 le spese per la pubblicità sono pari a circa metà di quelle di Germania e Gran Bretagna, ma anche inferiori a quelle della Francia. La stampa italiana ne raccoglie comunque la maggior parte (65%), mentre alla televisione arriva una quota largamente minoritaria (12%), simile a quella della televisione di Stato francese (10%) ma lontana da quella della Tv commerciale inglese (23%), che vanta ormai 25 anni di attività. A sua volta questo ritardo rispecchia un atteggiamento di maggiore diffidenza nei confronti dei media e della comunicazione commerciale che sembra distinguere il pubblico italiano nel quadro europeo, almeno a giudicare da una delle prime indagini sistematiche condotte nel continente (European Consumers 1976) e che si riflette anche nella flessione dei dati dell’ascolto televisivo relativi all’inizio degli anni Settanta. Italiani e olandesi, infatti, condividono un atteggiamento negativo nei confronti della pubblicità (ritenuta ingannevole e responsabile di superflui bisogni indotti) che sembra molto meno diffuso nel resto d’Europa. Ma non negli Stati Uniti, che anzi registrano nella prima metà degli anni Settanta ampie maggioranze di consensi (67%) all’affermazione «la pubblicità induce la gente a comprare cose di cui non ha bisogno» e quasi maggioranze (46%) di persuasi che «la maggior parte della pubblicità prova ad ingannare anziché informare». Con preoccupazione nel 1975 il congresso dell’American Association of Advertising Agencies ritiene che il numero di cittadini statunitensi critici nei confronti della pubblicità sia aumentato di un terzo nell’ultimo decennio, particolarmente nei ceti sociali con più alti livelli di reddito e istruzione. Il fatto che su entrambe le sponde dell’Atlantico la disaffezione verso la pubblicità – insieme a quella (temporanea) verso la televisione – si concentri nelle classi di età più giovani sembra indicare ­­­­­74

il peso specifico della baby boom generation e del Sessantotto nel mutamento di opinione. Le nuove generazioni guidano una svolta critica che frammenta l’integrazione del decennio precedente e marcia di pari passo col peggioramento della situazione economica. Secondo l’indagine del 1976 l’Italia è il paese europeo che avverte di più gli effetti negativi dell’inflazione e la necessità di azioni conseguenti (tagli alle spese voluttuarie ma anche a quelle per vestiario e alimentazione). Non solo: gli italiani sono quelli che percepiscono di più (il 53% contro una media europea pari al 41%, in diretta proporzione al livello di istruzione e presumibilmente di reddito) una dose di inganno da parte dei commercianti e che si lamentano di più (60% contro 40%) dell’inefficienza dei servizi pubblici (acqua, gas, elettricità, telefoni, poste, trasporti sono indicati nell’ordine). Lo stesso particolare atteggiamento critico si ritrova nei confronti della stampa: l’informazione dei quotidiani è ritenuta «buona» soltanto da una ristretta minoranza (27% contro una media europea del 38%) e ancora peggiore è il giudizio sui periodici (24% contro 31%). Ma nel contesto europeo spicca l’avversione italiana per l’informazione fornita dalla radio (solo il 29% la ritiene «buona», contro il 39% dei francesi, il 43% degli inglesi, il 55% dei tedeschi) e ancor più per quella della televisione: 32% contro 46% dei francesi, 57% degli inglesi, 63% dei tedeschi. Nel giro di un decennio la quota di spettatori critici del 1964 si direbbe quindi notevolmente aumentata e trova anche un piccolo spazio, sia editoriale sia politico, grazie al ciclo di convegni che anticipano la riforma del 1975. La presa di distanze da media e pubblicità ribalta il ciclo di mobilitazione consumistica degli anni Sessanta e lo converte nelle forme dell’ideologia e della politica. Rispetto al resto d’Europa, infatti, in Italia appaiono in forte ritardo ritardo le organizzazioni di consumatori: il loro ruolo è coperto da movimenti e partiti che puntano a un rinnovamento generale della società. Al cittadino consumatore si sostituisce il cittadino politico. Da un punto di vista molto particolare – l’affezione e il rimpianto per una cultura popolare minacciata dalla modernizzazione – Pier Paolo Pasolini interpreta questa reazione: Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano impertur­­­­­75

babili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro è tale e incondizionata [...] Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè [...] i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane. L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che «omologava» gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale «omologatore» che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria) (Pasolini 1973).

I sondaggi d’opinione testimoniano che la denuncia di Pasolini non è poi così isolata. Del Festival di Sanremo – che fino al 1969 ha sempre segnato il record di ascolti di tutta la programmazione – la Rai trasmette dal 1973 solo la serata finale a causa del calo verticale di ascolto. Ma a guidare il cambio di ciclo contro media e Tv rimane comunque una «minoranza rumorosa» di italiani che si concentra nelle università e nelle grandi fabbriche. La «maggioranza silenziosa» seguace dell’«edonismo di massa» vive ai margini e di riflesso il cambiamento, senza per questo calare di peso e di importanza. Da un lato la crescita quantitativa dei ceti medi prosegue nelle forme degli anni Cinquanta che hanno strutturato il consenso per la Democrazia cristiana: lo Stato si astiene da interventi regolatori pesanti (in termini di controlli fiscali, vincoli urbanistici, relazioni industriali) e consente la crescita di un’economia sommersa abituata ad arrangiarsi e a non contare sull’efficienza dei servizi pubblici (Pizzorno 1974). Sul piano dei conti dello Stato ciò che distingue l’Italia degli anni Settanta non è l’ampiezza della spesa pubblica, ­­­­­76

che si mantiene abbondantemente al di sotto della media europea, bensì l’insufficienza delle entrate statali (33% del prodotto lordo nel 1980, contro il 41% della media europea). La ridotta capacità «estrattiva» dello Stato si traduce nel ricorso all’indebitamento: negli anni Settanta il deficit pubblico corre a una velocità almeno tripla rispetto al resto d’Europa. Dall’altro lato, nel corso degli anni Settanta l’incremento dei posti di lavoro industriali avviene quasi per intero nelle piccole e medie unità produttive (con meno di 50 addetti) e per quasi due terzi si concentra nelle regioni del Centro e del Nord-Est: una «terza Italia», diversa dal Nord e dal Sud, entra in incubazione (Trigilia 1995). 4. «Exit» Questi processi rimangono comunque sottotraccia, oscurati dalle difficoltà di una crisi economica mondiale e dalla particolare intensità italiana del conflitto politico. A distinguere l’Italia è infatti un livello singolarmente alto di disoccupazione: nel 1976 equivale al 6,7% (in percentuale sulla forza lavoro corrispondente), contro il 4,4% della Francia e il 4,6% della Germania occidentale. A ingrossare le file dei senza lavoro è soprattutto la disoccupazione femminile, che nei primi anni Settanta supera il 10%: un primato negativo su scala europea destinato a riprodursi nel tempo. Ancora nel 1990, infatti, l’occupazione femminile in Italia è pari al 29,1%, contro il 37,8% della media europea (40,4% in Francia, 52,4% in Germania, 48,3% in Gran Bretagna). Si tratta di una contraddizione particolarmente vistosa rispetto ai processi di crescita di soggettività e mobilitazione che proprio tra le donne il Sessantotto ha messo in moto: silenziosamente quelle stesse donne si ritirano dal mercato del lavoro e rientrano in famiglia. Frammentata dai processi migratori e dalle logiche acquisitive del consumismo, spietata con gli anziani (come dimostra l’aumento dei solitari), la famiglia nucleare composta da genitori e figli agisce in Italia come potente sostituto dello Stato sociale, proteggendo i propri membri e integrando i loro redditi con servizi non retribuiti (il lavoro domestico sostituisce gli asili nido che mancano) e con entrate supplementari provenienti dal lavoro al nero e dall’economia sommersa. Iniziano a prendere corpo adesso due processi correlati ­­­­­77

tra loro che si dispiegheranno appieno nel corso degli anni Ottanta: espansione del fenomeno del lavoro informale e convivenza prolungata dei figli nell’abitazione dei genitori. Dietro le quinte di un palcoscenico occupato pressoché totalmente dal conflitto politico, la modernità italiana si svolge nel segno contraddittorio di un nuovo individualismo che viene dal Sessantotto e si declina (per il momento) nelle forme vistose della mobilitazione collettiva e della secolarizzazione culturale, ma anche in quelle più molecolari e sotterranee della resistenza alla crisi economica offerta dalla famiglia come supplente e surrogato di ciò che lo Stato – nonostante le riforme di inizio decennio – non riesce a dare: servizi sociali, sussidi di disoccupazione, incentivi alla formazione lavorativa. È una contraddizione non nuova: sotto la crosta della loro peculiare acculturazione e partecipazione politica, gli italiani si abituano – ma forse sono abituati da sempre – a fare a meno delle istituzioni e della politica. Se si resta al livello della politica formale queste contraddizioni non si scorgono. A prima vista gli anni Settanta appaiono dominati da un ciclo di intensa politicizzazione di massa – forse il secondo nella storia della Repubblica dopo quello del 1948 – che contraddice la tradizionale passività ed estraneità alla sfera pubblica delle grandi masse e che si esprime in una conflittualità esaperata. Insieme alla Germania, infatti, l’Italia è l’unico paese europeo dove il Sessantotto prelude alla lunga scia di sangue degli «anni di piombo». Secondo stime ufficiali elaborate sulla base di dati del ministero dell’Interno, tra 1969 e 1987 si contano più di 400 vittime del terrorismo, più di 1.000 feriti in quasi 15 mila atti di violenza «politicamente motivati» contro persone e cose. Tra 1969 e 1984 muoiono circa 150 persone in stragi perpetrate dal terrorismo di destra (di cui 85 alla stazione di Bologna nel 1980) e altre 150 in agguati mirati prevalentemente ad opera di terroristi di sinistra. Nel 1978 l’uccisione degli uomini della scorta, il rapimento e poi l’esecuzione del leader della Dc Aldo Moro segnano lo spartiacque: il gruppo terroristico delle Brigate Rosse conosce il suo momento di massima notorietà, ma anche l’inanità del proprio progetto politico. Oltre un certo limite (circoscrivibile a qualche migliaio di individui) il terrorismo di sinistra non riesce a fare proseliti; sia pure con sbandamenti – si diffonde all’epoca in alcuni ambienti intellettuali lo slogan «né con lo Stato né con le Brigate Rosse» – l’opinione pubblica reagisce con indifferenza alla prospettiva di uno scon­­­­­78

tro rivoluzionario; il fronte della fermezza opposto dai partiti e dalle istituzioni riesce tutto sommato a tenere; attraverso il meccanismo dei «pentiti» (terroristi catturati e convinti a collaborare) l’azione di polizia diretta dal generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa assesta gravi colpi alle organizzazioni terroristiche. Tuttavia la sostanziale vittoria ottenuta sul fronte della lotta al terrorismo viene pagata a caro prezzo sul piano della capacità di rappresentanza del sistema politico. Quello del 1976 è infatti un voto paradossale. Dopo il 1948, quell’esito elettorale è il più bipolare dell’intera storia della Repubblica (Dc e Pci coprono più del 70% dei suffragi). Il leader comunista Berlinguer lega il successo del suo partito alla strategia del «compromesso storico», cui fino dal 1973 (all’indomani del golpe cileno del generale Pinochet) ha conquistato la larga maggioranza del gruppo dirigente e della base degli iscritti. Si tratta di una strategia moderata, ispirata dai vincoli della guerra fredda e dall’impossibilità di un’alternanza al governo in Italia: un ipotetico governo delle sinistre a maggioranza risicata modificherebbe in modo insopportabile l’equilibrio tra i blocchi in un’area cruciale come quella mediterranea e andrebbe incontro agli stessi pericoli del governo di Allende in Cile. L’idea è quella di un ritorno alle origini: a un governo di solidarietà nazionale tra comunisti, socialisti e cattolici, non dissimile dalle coalizioni che ressero l’Italia fino al 1947 e che, approfittando della presenza della Santa Sede, guadagni una sorta di extraterritorialità del paese rispetto alla ferrea logica bipolare dei blocchi contrapposti. È evidente che dietro a questa idea stanno sia la percezione delle trame oscure che mettono a repentaglio la natura democratica delle istituzioni, sia la fiducia nella presenza, in seno alla Dc, di interlocutori autorevoli e sensibili alla proposta (Aldo Moro in primis). Eppure – ecco il paradosso – alle elezioni amministrative dell’anno precedente il Pci prende voti in base non solo e non tanto a questo disegno strategico moderato, bensì a un’immagine di buongoverno onesto ed efficiente, seccamente alternativo rispetto alla Dc. Per buona parte degli elettori comunisti a metà degli anni Settanta la prospettiva, che dal piano delle amministrazioni locali passa al quadro politico nazionale, non è quella di una nuova alleanza tra democristiani, socialisti e comunisti. In qualche modo la loro visione del mondo è più ottimista di quella berlingueriana e assume come possibile (magari irresponsabilmente) la prospettiva di un’alternati­­­­­79

va e di un’alternanza al governo, anche con il 51% dei voti. È come una sorta di voto «sovversivo» contro la guerra fredda: a favore, cioè, di una «ripartenza» dell’Italia su basi nuove, di avvicendamento al potere. Piuttosto che elettori moderati – come crede Berlinguer – è questa la forza di attrazione che il Pci esercita sugli elettori più giovani: non solo i diciottenni, ma anche quella parte più larga di baby boom generation che è la prima nella storia a crescere «all’ombra della bomba atomica» (Arendt 1996, 21). Tra domeniche a piedi senza auto, dimissioni del presidente statunitense Nixon per il caso Watergate, sconfitta americana in Vietnam, rivoluzione dei garofani in Portogallo, quella generazione cresciuta nel mondo bloccato della guerra fredda accarezza l’illusione di uno sfaldamento degli equilibri bipolari. I miti di Mao, del Che, di Ho Chi Minh rispondono a questo bisogno di futuro: da un contesto «altro», esotico e diverso, si estrapolano figure austere, lontane dal consumismo e dagli agi della vita occidentale, ispirate a un ascetismo della rivoluzione. Prima ancora che veicoli culturali di un improbabile marxismo volontaristico, sono i simboli di una «ripartenza» del mondo contro lo strapotere atomico delle due superpotenze. Le sinistre italiane galleggiano su quest’onda di opinione e la riconvertono nelle forme del compromesso. Sul piano più ampio delle istituzioni diffuse, la linea seguita dal Pci è infatti quella della «partecipazione democratica»: una strategia di moltiplicazione degli enti di gestione nei diversi settori della vita sociale e di inclusione al loro interno dei rappresentanti dei partiti di sinistra. Uno degli esempi più significativi è la riforma della Rai, che nel 1975 istituisce un nuovo canale televisivo (il terzo, poi partito effettivamente nel 1979) affidato a responsabili indicati dal principale partito di opposizione. Non è una novità assoluta nella storia della Repubblica. Sul piano dei comportamenti parlamentari, la prassi di voti dell’opposizione mischiati a quelli governativi risale fino alla prima legislatura e si caratterizza come uno dei modi concreti di funzionamento del sistema politico italiano nell’intero arco della sua esistenza. Definita in senso spregiativo come «consociativismo» e «lottizzazione», questa prassi ha permesso per diversi decenni al nostro sistema politico di riassorbire almeno in parte le spinte della società. L’impossibilità dell’alternanza al governo, infatti, va di pari passo con l’apertura di spazi residuali e subordinati alla rappresentanza degli interessi tradizionalmente espressi dai partiti di sinistra: la grande maggio­­­­­80

ranza di quei voti «mischiati» riguarda «leggine» a copertura di tali microinteressi sociali (Morisi 1992). Ma nasce di qui la sensazione diffusa di una perdita di confini chiari tra governo ed opposizione. E, com’è noto, la reazione della Dc al compromesso storico e all’avanzata del Pci somiglia a una resistenza passiva, funzionale all’intento di approfondire tale sensazione. I governi che si succedono cercano di manovrare tra crisi economica ed emergenza terroristica, senza aprire né chiudere ai comunisti la porta dell’ingresso al governo. Prima ancora che una strategia organica, questa indecisione programmatica è il frutto di veti incrociati interni. La lotta tra le correnti democristiane – che il sequestro Moro porta alla luce in tutto il suo ingombrante e scabroso bagaglio di risentimenti – produce un’inazione di fatto, che tuttavia consegue il risultato di un logoramento del Pci, costretto a una lunga anticamera che lo corresponsabilizza senza la possibilità di contare nelle scelte. Emblema di questa difficoltà è la cosiddetta «linea dell’Eur» che nel 1978 il segretario della Cgil Luciano Lama propone ai sindacati: tregua salariale in cambio di investimenti. La centralità operaia che ha aperto il decennio si risolve così nella rinuncia unilaterale ad esprimere un progetto di cambiamento: le rivendicazioni nate con l’autunno caldo (egualitarismo, studio, salute) lasciano il posto al loro contrario («sacrifici» è la parola usata da Lama), riconsegnando al ceto imprenditoriale la chiave delle scelte di politica economica. I sindacati italiani abbandonano adesso un terreno di iniziativa cruciale – organizzazione del lavoro, innovazione tecnologica, produttività – rinunciando di fatto a un ruolo di protagonisti nella modernizzazione della base produttiva. La trasformazione in soggetto politico avviene a scapito della capacità di conoscere e rappresentare gli interessi (non solo e non tanto salariali) degli operai. L’anno prima, in un discorso tenuto al teatro romano dell’Eliseo e rivolto agli intellettuali, Berlinguer indica «l’austerità» come occasione per trasformare l’Italia in senso meno consumista e più solidale. Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale di fondo, e non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato (Berlinguer 1977). ­­­­­81

È una parola d’ordine nobile, con predecessori al più alto livello scientifico che già nel 1972 sollevano il tema dei «limiti dello sviluppo»: crescita demografica accelerata e fonti di energia non rinnovabili a rischio di esaurimento (il petrolio innanzitutto) pongono un gigantesco punto interrogativo sul futuro del pianeta. Il Pci raccoglie questa indicazione in esplicita e secca controtendenza rispetto alle tendenze profonde del paese, che vanno invece nella direzione opposta di un’espansione dei consumi privati di massa. Come quella tra compromesso e alternativa, anche la contraddizione tra austerità e consumi rimane implicita, ma apre un distacco – al momento inavvertito e tuttavia gravido di conseguenze – tra politica e società. Non si tratta soltanto dell’avanzata di un processo di secolarizzazione destinato a cancellare una cultura (per molti aspetti contadina) della parsimonia e della frugalità, comune a cattolici e comunisti. Come dimostrano i numeri in costante ascesa del mondo del volontariato – le organizzazioni non governative a carattere internazionale passano da 1.470 nel 1964 a 5.927 nel 1985, a 20.928 nel 2004 (Union of International Association 2005-2006) –, la mutazione individualista non è soltanto edonismo e consumismo. Ma in Italia il terremoto elettorale del 1975-1976, il sogno del cambiamento e della ripartenza, la baby boom generation rimangono senza prospettive: partiti e istituzioni sembrano perdere quella capacità riformatrice che ha contraddistinto l’inizio del decennio. Il terrorismo si infila in questa impasse, rendendola ancora più insopportabile. Come nelle guerre e nei momenti di acuta crisi collettiva che ne hanno punteggiato la storia millenaria, il popolo italiano sceglie allora d’istinto e quasi inconsapevolmente la strada del rifugio nel privato: famiglia, casa, lavoro tornano a riempirne l’orizzonte. La breve stagione di fiducia nella politica aperta dal Sessantotto si chiude rapidamente nell’arco di un decennio. I media lo chiamano «riflusso», ma sbagliano due volte. La prima perché la sfiducia nella politica professionale esprime pur sempre un movimento di opinione a carattere «politico» (nel senso ampio del termine). Qualcosa di simile a quanto Albert Hirschman chiama «exit»: una defezione, cioè una scelta strategica razionale quando le strade alternative della lealtà o della protesta (cioè della partecipazione politica) appaiono difficili da percorrere (Hirschman 1982). Più ancora che dalla incerta fermezza delle istituzioni – profondamente inquinate dalle trame della strategia della tensione, come lo ­­­­­82

scandalo della loggia massonica coperta denominata P2 porta alla luce – il terrorismo risulta infatti sconfitto da questa sorta di ritirata. Lo si vede alla successiva tornata elettorale del 1979, quando la storica e fisiologica percentuale di astensioni (fissa attorno al 7% dal 1948) inaugura una fase di espansione costante che la porta al 9,4% e poi verso le vette vicine al 20% degli anni Duemila. Si dissolve allora rapidamente il luogo comune che vorrebbe gli italiani depositari di una peculiare tradizione di partecipazione politica in un contesto europeo di molta minore affezione per la cosa pubblica. Al sondaggio Eurobarometer (che regolarmente tasta il polso delle opinioni pubbliche del continente) del gennaio 1983 italiani e belgi condividono il primato del più basso grado di interesse per la politica. Nel 1985 un campione di cittadini italiani registra un’ampia maggioranza relativa (47%) di «indifferenza, noia, diffidenza» per la politica, che si unisce a un 27,5% contraddistinto invece da «arrabbiatura, disgusto» (Mannheimer-Sani 1987). È significativo che a raccogliere questa disaffezione per la politica sia l’andamento dell’attenzione per i telegiornali, da sempre il genere più seguito dal pubblico televisivo. Tra 1976 e 1987 – ben prima che inizi, nel 1991, l’epoca dei notiziari delle emittenti private – l’audience media dei tre telegiornali di prima serata quasi si dimezza (da 22 a 13 milioni di spettatori). A perdere terreno è soprattutto il Tg1 (da 20 a 8 milioni) mentre, sia pure marginalmente, Tg2 e Tg3 conquistano pubblico (rispettivamente da 1 a 4 milioni e da 0,4 a 1,2) grazie a uno stile meno paludato. Il conduttore – esemplare in tal senso Lilli Gruber al Tg2 – si colloca di tre quarti, si alza in piedi, dialoga con inviati ed esperti: l’effetto prossemico è di passare dalla parte dello spettatore, di invitarlo ad entrare nello spazio dello studio televisivo. In altre parole, l’anchorman in movimento offre l’illusione di una comunicazione più interattiva. Ma al di là di questi espedienti, la tendenza al calo di spettatori intereressati all’informazione sul piccolo schermo appare di tale peso e costanza da non essere controbilanciata dalla pur significativa comparsa nel panorama della stampa quotidiana nazionale della «Repubblica» (1976), che arriva a toccare la soglia del mezzo milione di copie. Si profila anzi una spartizione unilaterale di campo: i quotidiani vecchi e nuovi – oltre alla «Repubblica» di Scalfari, il «Corriere della Sera» di Ottone, «il Giornale» di Montanelli – si spostano verso la dimensione del commento politico, lasciando il terreno dell’informazione pura alla televisione. ­­­­­83

Il secondo errore dei media italiani viene da lontano e deriva dalla loro storica vicinanza alle stanze del potere e dalla loro corrispettiva distanza dal pubblico dei lettori: cioè dai tradizionali occhiali politici (nel senso stretto del termine) con cui sono abituati a leggere la realtà. Ben lungi dal rappresentare un addio alle armi e un ritorno a casa, il cosiddetto «riflusso» è in realtà un «flusso» verso un dinamismo socioeconomico destinato a dispiegarsi interamente nel corso degli anni Ottanta: lavoro autonomo e terza Italia ne sono gli aspetti salienti. L’exit dalla politica della baby boom generation va preso sul serio e non liquidato moralisticamente come semplice riflusso: è la critica più radicale a un ceto politico che, nel suo insieme, si rivela inefficiente (a partire dalla fine degli anni Settanta fino ai giorni nostri), cioè incapace di ripetere anche in minima parte la stagione riformatrice della prima parte del decennio. Frustrata da una politica incapace di riforme e sempre più parassitaria, la baby boom generation trova nuove strade per proseguire la propria mutazione individualistica. Una di queste strade, forse la prima in ordine di tempo storico, è quella che si apre con le radio e le televisioni private. La stagione delle «radio libere» intrattiene con il Sessantotto e con i movimenti giovanili un rapporto più diretto, anche se la loro diffusione decolla a metà degli anni Settanta: 70 nel 1974, 1.176 nel 1977, 2.500 nel 1978. Spesso le forme di gestione sono cooperative e vicine al no profit, mentre la programmazione si fonda su due pilastri. Il primo è la musica rock, vera e propria koinè globale dell’epoca: formidabile veicolo di identità generazionale assolutamente congeniale al mezzo radiofonico. È questa una delle chiavi per la sopravvivenza (e anzi la riscossa) delle radio «povere» nel tempo della televisione «ricca». Il secondo pilastro è una filosofia dell’accesso, fondata sul contributo attivo degli ascoltatori alle trasmissioni attraverso le telefonate in diretta. Non è un’esclusiva delle radio private: sul secondo canale radiofonico della Rai Chiamate Roma 3131 (1969) giunge in pochi mesi a tre milioni di ascoltatori e 500 chiamate al giorno. L’interazione con il pubblico disegna un nuovo spazio bidirezionale della comunicazione (politica e non) che la televisione cercherà di imitare. Con il telefono la radio sembrava acquistare la possibilità di un feed back in tempo reale, la cui negazione aveva da sempre costituito una delle qualifiche caratterizzanti tutti gli elementi delle comunicazioni di massa. ­­­­­84

Un poco spinta dal dibattito politico, che richiedeva partecipazione e accesso ai media, un poco condizionata dalle mode culturali dell’estemporaneità e della rinuncia al rigore strutturale del testo, un poco vittima delle ristrettezze economiche nelle quali si è sempre dibattuta la sua programmazione, la radio ha finito per mettere in scena una vera e propria performance continua della conversazione, della parola in libertà, della casualità e dell’apparente equivalenza (o meglio, scambio paritetico) dei ruoli di chi trasmette e di chi riceve. In questa corsa verso il telefono è stata inseguita ancora una volta dalla televisione, che si è appropriata dello stesso apparecchio con risultati di ben minore efficacia (Bettetini 1984, 43-44).

Quasi completamente diverso appare il ciclo delle televisioni private, che prende avvio con Telebiella nel 1971. Assai meno legate a una filosofia della partecipazione e della democrazia dal basso, molto meno centrate sulla musica, le Tv libere italiane sono opera di singole figure imprenditoriali più o meno avventurose (proprietari di discoteche, ex dipendenti Rai, psichiatri), quasi sempre lontane dall’editoria – nel 1976 Rusconi è il primo proprietario di giornali a entrare nel settore – e dall’industria ma rigorosamente attente all’incentivo del profitto (Menduni 2002, 58). È un comparto produttivo non del tutto nuovo in Italia – primi tentativi di televisioni concorrenti, subito abortiti per legge, si erano avuti agli inizi del monopolio Rai – ma reso particolarmente precario dalla pressoché totale mancanza di norme in materia. Nel 1974 una sentenza della Corte costituzionale dichiara illegittimo il decreto del ministero delle Poste che ordina lo smantellamento delle televisioni straniere (Montecarlo e Capodistria) irradiate sul territorio nazionale, rendendo ormai obbligata e urgente la riforma della Rai, che arriva l’anno seguente. Nel 1976 una nuova sentenza liberalizza il mercato televisivo privato su scala locale, invitando il parlamento a legiferare in materia: una sentenza, com’è noto, consapevolmente disattesa fino al 1990. Il risultato è una lunga fase di Far West durante la quale le televisioni private proliferano a ritmo geometrico su tutto il territorio nazionale: 30 nel 1975, 168 nel 1976, 244 nel 1977, 434 nel 1978, 800 nel 1981 (Padovani 2005, 105). Le tipologie societarie sono le più varie, ma comune è la fisionomia di fondo largamente prevalente della spoliticizzazione – a differenza delle radio, le Tv locali schierate politicamente sono un’esigua minoranza – e del mercato pubblicitario locale (le «televendite»): dei (piccoli) desideri contro l’austerità. ­­­­­85

Ancora nel 1989 il pubblico di queste emittenti viene stimato in circa 30 milioni di italiani, che almeno una volta al giorno si collegano ad almeno una di esse (Ortoleva 1995, 79; Gambaro-Silva 1992, 283). 5. La riforma della Rai Non è una strada solo italiana. In tutta Europa gli anni Settanta vedono la rottura del monopolio e l’apertura ai privati del mercato televisivo. Vengono infatti meno le ragioni tecnologiche e politiche che hanno a lungo giustificato l’esclusività della presenza statale nel settore in una fase di costruzione delle infrastrutture e di formazione del pubblico: motivi costituzionali di pluralismo informativo e culturale premono ormai in direzione di una liberalizzazione regolata. A farsene interprete in Italia è, tra gli altri, Eugenio Scalfari: Un regime di libera concorrenza tra radiotelevisione pubblica e canali commerciali privati presenterebbe sicuri vantaggi. Personalmente sono convinto che la sinistra debba impegnarsi a fondo in questa battaglia nella quale ha molto da guadagnare e, nella situazione presente, nulla da perdere (Scalfari 1972).

In Francia il sistema misto nasce così dalla privatizzazione di una rete pubblica e fissa il tetto di proprietà consentito in una sola rete su scala nazionale. In Germania dal 1986 una sentenza della Corte costituzionale federale assegna una missione pubblica anche al settore privato e non consente partecipazioni azionarie superiori al 49,9%. In Belgio, Grecia, Spagna e Portogallo il tetto di concentrazione è fissato in un quarto delle azioni di un solo canale. Negli Stati Uniti dal 1999 è stato innalzato a due il numero massimo di reti detenute dallo stesso soggetto, a condizione che nella stessa area sia consentita l’effettiva operatività di almeno altre otto emittenti. In Italia nulla, com’è noto, fino al 1990. Il parlamento latita per calcoli politici di una parte e insipienza dell’altra. Nell’immediato l’effetto principale della riforma del 1975 è di accentuare la lottizzazione interna della televisione pubblica: «Da questo momento la Rai, invece di affrontare i problemi che il mercato impone, diventa una sorta di benefit mediatico a disposizione di quasi tutti i partiti» (Grasso 2004, xxviii). La vicinanza alla politica non è una novità, né per la Rai né per ­­­­­86

la stampa. È un vizio antico dei media italiani quello di costituire, anziché un quarto potere di vigilanza, un segmento del sistema istituzionale, spesso sotto forma di un «lobbying all’italiana» richiesto da editori «impuri» – da Enrico Mattei a Carlo De Benedetti – i cui affari si svolgono fuori dai media ma che dei media (meglio se posseduti direttamente) hanno bisogno per rappresentare i propri interessi in alto loco. È questa la ragione principale per cui i quotidiani non hanno mai raggiunto le tirature dei loro omologhi in Europa. Come recita il «paradigma eccezionalista», sulla ristrettezza del mercato dei media in Italia incidono anche debolezze congenite del processo di modernizzazione, innanzitutto in termini di bassi livelli di scolarità. Ancora nel 1980 il numero medio di anni-scuola nella popolazione minore di 25 anni è il più basso tra tutti i paesi sviluppati: 5,22 contro una media di 8,67. Ma i quotidiani statunitensi, inglesi, francesi superano la soglia del milione di copie prima della fine del XIX secolo, quando i livelli di analfabetismo dei loro paesi erano superiori a quelli dell’Italia post-Sessantotto. I giornali italiani da sempre vendono poco perché parlano di (una certa) politica ai politici, non della realtà ai loro lettori. Ad ogni modo la riforma del 1975 non riproduce soltanto tare ataviche del giornalismo italiano. Stando alle classificazioni elaborate da Mario Morcellini (1995a), nella programmazione della Rai si inverte un ciclo ormai più che decennale di crescita dei contenuti informativi (fino al 40% del totale) – che contraddistingue la gestione Bernabei – a tutto vantaggio di quelli di spettacolo, che salgono dal 22% del 1970 al 38% del 1981. Tra 1977 e 1983 il drastico ridimensionamento dei programmi scolastici guida una tendenza più generale alla riduzione delle funzioni di servizio pubblico (in termini di programmi culturali e informativi) e all’aumento della dimensione di intrattenimento. Per esempio, tra 1975 e 1981 i film trasmessi aumentano da 115 a 375. La televisione pubblica insomma si adegua preventivamente al mood di spoliticizzazione introdotto dalle televisioni private, ancora prima che queste ultime conoscano i processi di concentrazione monopolistica destinati a portare alcune di loro ad assurgere al ruolo di concorrenti paritetiche. Nel corso degli anni Novanta, infatti, l’offerta televisiva di Rai e Fininvest si stabilizzerà su questi stessi livelli, con lo spettacolo che copre il 40-50% della programmazione in entrambe le reti, mentre cultura e informazione si dividono, grosso modo a metà, la fetta restante del tempo televisivo. ­­­­­87

L’apertura pluralistica post-riforma si traduce anche in una parziale ma significativa liberalizzazione del palinsesto. Il telegiornale appare leggermente meno paludato: più dirette esterne, più approfondimenti, mezzibusti meno ingessati. Nuovi programmi movimentano la scena: L’altra domenica (1976), innovativo e dissacrante contenitore domenicale diretto da Renzo Arbore, con Roberto Benigni nei panni di improbabile critico cinematografico, ma soprattutto Bontà loro (1976) e Portobello (1977). Il primo, condotto da Maurizio Costanzo, inaugura la versione italiana del talk show (classico format della Tv statunitense fino dai primi anni Cinquanta) e anticipa simbolicamente il cosiddetto «riflusso»: per quanto i personaggi intervistati facciano spesso parte dell’establishment, Costanzo chiude una finestra all’inizio di ogni puntata, come a rappresentare un movimento di ritorno dalla scena pubblica a quella domestica e intima delle chiacchiere in famiglia. In questo spazio appartato lo spettatore vive l’illusione tutta passiva di una partecipazione empatica e pettegola alla collettività nazionale. Il secondo, diretto da Enzo Tortora, prosegue e approfondisce la scoperta della provincia a suo tempo realizzata con Campanile sera: nello stesso tempo «un giornale di piccoli annunci, un’agenzia matrimoniale, una pretura di provincia, un confessionale, un programma dell’accesso, una radio parlata» (Menduni 2002, 69). Per la prima volta il pubblico degli spettatori comuni entra in scena, con i drammi e le gioie della sua vita privata quotidiana. Soprattutto nel primo e nel terzo caso l’intrattenimento assume la forma di un’interazione con il pubblico, esercitata attraverso le telefonate in diretta o la propagazione di gags ed espressioni gergali che diventano una sorta di codice di riconoscimento nella comunità degli spettatori più affezionati. Viste in prospettiva, Chiamate Roma 3131, Bontà loro, Portobello rappresentano altrettante tappe di avvicinamento alla «neotelevisione» di cui parla Umberto Eco nel 1983: quella in cui il pubblico si riconosce e dice «siamo proprio noi». È lo stesso Enzo Tortora ad esprimere la piena consapevolezza soggettiva (non priva di una certa prosopopea) di tale ribaltamento. Di Portobello che posso dire? [...] Io trovo perfettamente legittimo che a parlare di Portobello sia invece la gente. In tram, in autobus, in ufficio, per la strada. Arrivo a dire che io non ho neppure il diritto di farne un commento: sono molto più titolati loro, i mille e mille signor Nessuno ­­­­­88

che si sono affacciati ogni venerdì balenando, coi loro problemi, risolti o da risolvere, a questo grande specchio della verità italiana (Tortora 1978). Non credo che le uniche felicità nascano dai gettoni d’oro, le uniche incertezze dalle domande di riserva. Certo il quiz occupa giustamente un suo posto nella storia della Tv. Ma guai se ci si addormenta fra notai e vallette, fra diapositive e buste da lacerare. La televisione è giovane. Credo anzi che non invecchierà mai. A un patto: che ne facciamo lo specchio dei nostri giorni. Questo vado ripetendomi ogni giorno che, addetto ai lavori, giro il mondo e guardo le televisioni degli altri Paesi. Le migliori sono sempre quelle che raccontano, in presa diretta, storie della gente. Essere il vostro cantastorie è la mia massima ambizione. Curioso no?, eppure credo che sia proprio la verità («Radiocorriere Tv», 6 gennaio 1980). Consiglio a tutti gli ideatori di programmi, a tutti gli immaginosi architetti del video di seguire il mio esempio e di farselo, ogni tanto, un bel viaggetto a domicilio in casa della gente alla quale si parla. Certo, la gente è più facile immaginarsela a tavolino e poi erogare immagini di persone che non esistono. Questi viaggi fanno bene. Sono doverosi. Almeno per uno come me, che questo mestiere cerca di farlo con rispetto e con amore (Tortora 1980).

Il populismo della neotelevisione commerciale è una cosa seria. Vorrei ringraziare, per tutte le famiglie degli handicappati gravi e gravissimi come mia figlia, le due signore che hanno partecipato a Grand’Italia [programma erede di Bontà loro] (e Maurizio Costanzo che le ha invitate) e qui hanno parlato del problema. Anche esse avevano figlie in tali condizioni e hanno posto in modo deciso e chiaro la drammatica questione dell’assistenza che nel nostro Paese è del tutto carente o non esiste addirittura («Radiocorriere Tv», 27 gennaio 1980).

Ma è una cosa seria anche il «lato oscuro» della sua forza. L’altra domenica, ad esempio, rappresenta il contraltare di Domenica in (1976): primo esempio di trasmissione non-stop della domenica pomeriggio e di televisione come sottofondo. La programmazione asseconda il tempo sonnacchioso della famiglia italiana: l’accensione del mezzo prevale sulla scelta del programma, l’attenzione cala a livello di compagnia secondaria del relax da giorno di festa. Nel 1974 lo studioso inglese Raymond Williams conia il termine di «flusso» per indicare questa inedita capacità della televisione di accompagnare le vite quotidiane, di accomodarsi in mezzo alle famiglie, di sprigionare ­­­­­89

un rumore di fondo e perciò di esercitare un ruolo costante, anche se flessibile, di autorevolezza pesante e di intrattenimento leggero nello stesso tempo (Williams 1981). Gli effetti sul gusto attivo e sulla capacità di scelta del pubblico sono devastanti e a lungo termine: tra 1979 e 1995 la percentuale di spettatori televisivi statunitensi che «guardano quello che c’è» sale dal 29 al 43% (Gitlin 2003, 5). In Italia spariscono, in particolare, le preoccupazioni di rispetto dei tempi della vita familiare: fino dal 1968 si apre la fascia di programmazione dell’ora di pranzo e la Tv dei ragazzi si prolunga fino alle 19 (mentre dal 1973 il telegiornale viene anticipato alle 20), senza più lasciare uno spazio per fare i compiti di scuola (Rizza 1989, 170). Dal 1977 il tempo «preserale» del ritorno a casa (dalle 19 alle 20) viene occupato da Furia, telefilm western importato dagli Stati Uniti (dove è stato trasmesso tra 1955 e 1966) adatto a grandi e bambini (Pinto 1980, 200-201). Dietro queste scelte invasive, che rompono i vincoli pedagogici e moralistici degli anni Sessanta, si affaccia una nuova filosofia aggressiva, protesa alla conquista di quote sempre maggiori di pubblico. La rottura del monopolio spinge infatti la Rai ad accrescere la propria presenza sul mercato pubblicitario, in modo da restringere gli spazi della concorrenza: manovra destinata però a rivelarsi ben presto di assai corte vedute. A farne le spese è comunque Carosello, che nel 1977 interrompe le trasmissioni a tutto vantaggio di una disseminazione di spot, più brevi e senza vincoli di contenuto e qualità del testo, per tutto l’arco del palinsesto giornaliero. Per tollerare questa maggiore presenza di pubblicità senza sforare il tetto previsto per legge (7% del tempo totale di trasmissione), la programmazione si espande in tutte le fasce orarie rimaste libere allo scopo di innalzare il tempo percentualmente destinabile alla comunicazione commerciale. Le reazioni del pubblico, puntualmente registrate dal «Radiocorriere», non si fanno attendere. Forse la Rai deve avere tanti soldi da buttare via (i «nostri» soldi) dal momento che ha inventato il Telegiornale delle 13,30 ed altre trasmissioni in ore impossibili per noi italiani che lavoriamo. O forse sono trasmissioni fatte per i romani e i napoletani, che, com’è noto, di lavoro ne fanno ben poco. Mi piacerebbe proprio sapere quanta gente si vede la vostra Tv del Mezzogiorno (capito il gioco di parole?). Ho capito: sia il gioco di parole, sia il suo incallito «nordismo», que­­­­­90

sta sorta di infezione sociale e morale che affligge ancora, per fortuna in misura decrescente, parecchi italiani nati al nord del Po. A parte ciò, la fascia meridiana iniziatasi il 15 gennaio ha trovato un suo pubblico [...] Le trasmissioni varie fra le 13 e le 13,30 hanno un ascolto medio di circa 2 milioni di telespettatori e il Telegiornale che segue tocca una media di oltre 3 milioni, con punte di 5 milioni e più la domenica («Radiocorriere Tv», 25 febbraio 1968).

Per la Rai è una trasformazione epocale. La paleotelevisione del monopolio rispondeva infatti a criteri politici di alfabetizzazione e unificazione culturale del paese. La neotelevisione della libera concorrenza risponde al criterio commerciale di procurare spettatori agli inserzionisti pubblicitari. All’unità familiare si sostituisce la frammentazione dei pubblici (bambini, teenager, adulti maschi, adulti femmine) secondo generi di programmi e di prodotti reclamizzati e quindi, secondo le scienze del marketing, «in termini di valori, richieste, abitudini, bisogni» (Pilati 1981, 231; Carmignani 1986). Al rispetto non invasivo per i ritmi e le consuetudini del nucleo domestico si sostituisce un flusso televisivo continuo e il sovraffollamento degli spot. La moltiplicazione dell’offerta televisiva genera domanda e aumento del consumo: secondo i dati della Nielsen, tra 1977 e 1983 il tempo medio di accensione del televisore passa da tre ore e mezza a cinque (quello dell’ascolto individuale da due ore e mezza a tre) grazie a un incremento tutto concentrato nella fascia del mezzogiorno e del primo pomeriggio (Gagliardi 1986). È indicativo dei tempi che corrono il dialogo che nel 1980 intercorre sulle pagine del «Radiocorriere Tv» tra un professore allarmato e il direttore Gino Nebiolo: Appena ho avuto tra le mani il nuovo «Radiocorriere» ho cercato i nuovi programmi con la speranza che finalmente non comparisse più il «diluvio» Happy Days [serial televisivo di importazione dagli Stati Uniti con protagonisti i giovani della provincia americana]. Ma subito c’è stata la delusione: continua! Non vi pare che la Tv superi i limiti? E si pretende che gli utenti corrano danzando a pagare il canone convinti che la Tv è ancora loro. Non siamo così scemi da sopportare che ci si tratti come tali, imponendoci per mesi la visione di tre scansafatiche a null’altro impegnati se non a sbaciucchiare ragazze, fare festa nel locale di Arnold, senza mai vederli lavorare o studiare, con il superarbitrato di un bullo protagonista. Davvero educativo! Nelle scuole accade così che i ragazzi mentre fanno ­­­­­91

il compito, improvvisamente si alzano inalberando il super dito al grido fatidico «ehi»; c’è chi si mette a far la faccia da scemo e il riso da galletto alla Fonzie o la bocca aperta o il «naso chiuso» come Richie. Taluno per andare ai servizi dice «all’ufficio Fonzie»... Così la lezione-Tv dà i suoi frutti. Quanta colpa possono avere i giovani se credono che la vita sia proprio come la vedono in Tv?... Ci sarà speranza che finisca questa serie? Ma sono piccole, innocenti mode. Una volta i giovani si atteggiavano a ribelli e masticavano la gomma alla Marlon Brando. Ora fanno i Fonzie. Ma è perché hanno bisogno di slogans, di piccoli modelli che con gli anni non serviranno più e verranno cancellati. E poi, continuando a vedere Fonzie a pieno ritmo, se ne stancheranno e cercheranno altri «pollici alzati» («Radiocorriere Tv», 17 febbraio 1980).

Il settimanale della Rai registra una diffusa percezione del mutamento in atto nella televisione italiana da strumento pedagogico a veicolo commerciale, con le reazioni che esso inevitabilmente suscita nel pubblico degli spettatori. Non si comprende come la Tv, che deve avere anche una funzione educativa, possa propinare spettacoli che, a parte il valore artistico, sembrano impegnati ad ammaestrare come si uccide, si ruba, si rapina. Quello che mi appare sconcertante è la postilla da lei aggiunta. Certo, la Tv come qualsiasi mass media è lo specchio dei tempi che viviamo, carichi di violenza e delitti. Ma questi non sono la vita: sono una distorsione della vita, una negatività da combattere, non da esaltare e mettere in rilievo. La Tv che entra in tutte le case e influisce in tutti gli ambienti, anche i più deteriori, dovrebbe esaltare i valori, non deprimerli ed abbassarli: seguendo la sua funzione educativa, dovrebbe formare una coscienza civile e sociale contro la violenza, altrimenti tutti, dico tutti, caro direttore, abbiamo una responsabilità su quanto accade ogni giorno. «Fotografare», così come lei dice, il momento, ritengo sia inopportuno. La Tv è un grande mezzo di comunicazione e cultura ed ha perciò tutti i requisiti per poter agire sull’individuo al fine di cercare di modificare il momento in cui si vive. Sia dunque la Tv ad iniziare quest’opera di «rimbonimento» non mandando in onda film-istruzioni delinquenziali. Quanto le scrivo non viene da una «vecchiona»: ho trentadue anni e una figlia di due. Come questi, sono stati molti altri i lettori che ci hanno scritto sullo stesso argomento [...] Certo, la Tv ha una funzione educatrice ma anche ­­­­­92

informativa: quando dicevamo che deve essere lo «specchio dei tempi» intendevamo appunto questo («Radiocorriere Tv», 9 marzo 1980).

Non per caso il «Radiocorriere» di Nebiolo appare assai diverso da quello degli anni Sessanta diretto da Zatterin: somiglia molto di più a un rotocalco di gossip e perde l’aderenza stretta ai programmi e agli argomenti televisivi che l’ha contrassegnato in passato. Anche il settimanale riflette così il passaggio da una logica monopolistica di servizio pubblico a un inserimento concorrenziale (e relativa omologazione sul piano dei contenuti) nel mercato privato della stampa periodica. Ma dalle lettere al direttore continua a trasparire un diffuso malessere. Altro segnale contraddittorio dei tempi: nel 1980 la Rai trasmette per la terza volta l’Odissea. Mi è molto dispiaciuto che le varie puntate dell’Odissea nell’ultima replica non siano state precedute dai memorabili interventi del grande poeta Ungaretti, come invece accadde dieci anni fa. Era così bello sentire nella traduzione di questo grande (e proprio con la sua voce) alcuni versi del poema di Omero. E sarebbe stato bello rivedere quel suo faccione granitico e sorridente. Perché questa omissione?

La risposta del direttore riflette bene la logica della neotelevisione: Quest’Ulisse doveva essere più spettacolare che non culturale. Abolire Ungaretti è stata quindi una scelta precisa (e come forse lei avrà notato, perché fosse più spettacolo, quest’Odissea ha avuto numerosi «allungamenti»). Ma già nella replica del ’74 la voce e il volto di Ungaretti erano andati persi. Comunque la bobina senza dubbio esiste negli archivi della Rai. E quando si farà un omaggio al grande poeta, verrà ripescata («Radiocorriere Tv», 23 marzo 1980).

«Abolire Ungaretti». Si misura bene, al livello di queste scelte di programmazione come anche della penetrazione tra i giovani della gestualità alla Happy Days, la totale inanità della strategia della «partecipazione democratica»: la presenza ai vertici della Rai di esponenti dell’opposizione non appare in grado di governare (e forse nemmeno di comprendere) la trasformazione in atto da paleo a neotelevisione commerciale. La proposta di riforma elaborata dal Pci si ispira a un modello inglese di televisione pubblica senza pubblicità, che in Italia non esiste più dai tempi di Carosello, cioè dalla ­­­­­93

fine degli anni Cinquanta (Pinto 1980, 144). È una proposta che sottovaluta l’ampiezza dei processi di concentrazione monopolistica in atto nel settore televisivo privato (dai quali emergerà vincitore Berlusconi) e la conseguente urgenza di un intervento legislativo non solo in senso antitrust ma anche a tutela della qualità del servizio televisivo (sia pubblico sia privato) in termini di offerta culturale e informativa. Solo nel 1995 si arriverà a un referendum sulla limitazione degli spazi pubblicitari in Tv: si propone allora di chiudere la stalla quando i buoi sono fuggiti da un sacco di tempo e l’ipotetico provvedimento pare agli italiani ormai assuefatti una vessatoria e punitiva restaurazione. Si apre invece a metà degli anni Settanta una strada che contraddistingue il caso italiano (insieme a quello giapponese, dove però il quotidiano maggiore tira 14 milioni di copie, contro il poco più di mezzo milione del «Corriere della Sera») nel panorama dei paesi occidentali. Il mercato pubblicitario continua infatti a marcare un ritardo (nel 1979 le spese pubblicitarie equivalgono allo 0,33% del prodotto lordo, contro lo 0,65% della Francia, lo 0,90% della Germania, l’1,27% della Gran Bretagna). Ma cambia radicalmente la sua composizione interna. La quota di introiti pubblicitari che vanno alla stampa, attestata da tempo attorno ai due terzi del totale, cala rapidamente al 58% nel 1980 e al 43% nel 1984, anno in cui viene superata dalla parte che va alle televisioni (47%, pari a 1.400 miliardi di lire, cioè quasi otto volte gli introiti del 1979). Le ripercussioni non tardano a farsi sentire: tra 1970 e 1979 il numero di copie di quotidiani vendute ogni 100 abitanti cala da 14 a 9. Ovunque in Europa la televisione toglie influenza alla stampa quotidiana: tra 1960 e 1993 il numero di copie tirate ogni cento abitanti cala in Gran Bretagna (da 58 a 33) e in Francia (da 24 a 16). Ma la Germania, ad esempio, fa eccezione (da 38 a 39): segno che non sempre e non per forza il piccolo schermo deve togliere pubblico al giornalismo di carta. Il dato italiano infatti testimonia di una peculiare e storica disaffezione in materia piuttosto che di una nuova concorrenza esercitata dalla Tv (Padovani 2005, 106; Gozzini 2000, 254-255). Nel tempo del monopolio gli investimenti pubblicitari nel mezzo televisivo rimangono stabili attorno al 12% del totale, ma la liberalizzazione dell’emittenza televisiva cambia tutto lo scenario. Le spese in pubblicità – che durante gli anni Settanta calano dallo 0,45% del prodotto lordo del 1965 allo 0,26% del 1976 – aumen­­­­­94

tano costantemente: 0,32% nel 1980, 0,49% nel 1985, 0,62% nel 1990. A trainare l’espansione sono le televisioni: nel corso degli anni Ottanta gli investimenti pubblicitari sulla Tv di Stato si moltiplicano per sette (quelli alla stampa per cinque), ma quelli sulle reti private addirittura per più di trenta volte. Agli altri media (radio, stampa, cinema) la televisione italiana lascia solo le briciole: nel 1999 assorbe il 53% degli investimenti pubblicitari, contro il 34% della Francia, il 23% della Germania, il 33% della Gran Bretagna. Nel 2003 la spesa pubblicitaria televisiva pro capite è in Italia doppia rispetto a Gran Bretagna, Francia, Germania. Già nel 1984 le Tv private fanno la parte del leone: incamerano più del doppio della Rai e mettono in onda – senza alcun limite di legge, a differenza della Rai che deve osservare il tetto pubblicitario – quasi mezzo milione di spot all’anno (contro i 46 mila della Rai), equivalenti a più di 3 mila ore, cioè un terzo della loro programmazione. A investire in spot radiotelevisivi (in misura superiore a metà del budget) sono soprattutto le aziende alimentari e di prodotti per la cura della casa e della persona: imprese automobilistiche ed editori preferiscono ancora largamente la stampa. Ma ogni giorno lo spettatore italiano viene inondato da un volume di pubblicità televisiva (1.500 spot) che è superiore a quello di tutti gli altri paesi europei messi insieme. Tab. 2.2. Investimenti pubblicitari per destinazione (miliardi di lire correnti), 1975-1990

Quotidiani Periodici Totale stampa Rai Reti private Tv locali Tv estere Totale Tv Radio Rai Radio private Radio estere Totale radio Cinema Affissioni

1975

1980

1985

120 124 244 61

359 358 717 148 77 80 28 333 45 35 6 86 24 85

860 740 1.600 694 1.185 190 8 2.077 61 82 2 145 7 200

3 64 34 9 2 45 17 32

­­­­­95

1990

2.015 1.470 3.485 1.133 2.454 192 106 3.885 114 160 274 19 400

In questi ultimi, infatti, ma anche negli Stati Uniti, la proliferazione delle emittenti televisive si accompagna a norme di legge antitrust che – oltre a prevedere un limite di concentrazione proprietaria (generalmente non più di una rete diffusa su scala nazionale) – fissano anche tetti di raccolta pubblicitaria. Il risultato è che fino agli anni Novanta in Francia, Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti (ma anche in Cina e India) la stampa continua a primeggiare sulla televisione: con evidenti vantaggi per il pluralismo del sistema mediatico e per la tutela dello spettatore dall’invadenza degli spot commerciali. Solo la comparsa di Internet erode (soprattutto in Francia) gli investimenti pubblicitari a favore della stampa. Tab. 2.3. Investimenti pubblicitari per destinazione (percentuali sul totale nazionale), 1993 e 2003

Giornali Periodici

Stati Uniti Francia Germania Italia Gran Bretagna Giappone Cina India

Radio

Cinema

1993

38

13

37

Tv

11

0,4

Affissioni Internet

2

2003

30,4

14

33,9

12,9

0,2

3,3

1993

25

24

31

8

1

12

2003

16,9

24,3

32

8,4

0,7

11,9

1993

48

27

18

4

1

3

2003

40,8

24,8

23,8

3,6

1

4,4

1993

22

18

53

4

0,2

2,8

2003

20,2

14,1

54

5,6

0,9

3,9

1993

39

23

32

2

1

4

2003

39,7

14,9

30,4

4,3

1,5

6,4

1993

29

9

42

6

0,1

13,9

2003

25

9,6

46,4

4,3

0,1

11,8

1993

43

2

33

4

2003

37,6

3,8

39,4

9,2

1993

67

21

3

1

8

2003

47,2

37,5

2,5

0,6

5,6

6,2

5,1 5,7 1,5 1,3 2,8 2,8

18 8

2 0,3

Il ragionamento non è solo economico. L’onnipresenza della pubblicità rafforza un punto cruciale della cultura prodotta dai mass media: la felicità è un fatto privato da vivere nel presente (Ferrarotti 2005, 43). Rispetto agli altri media, l’impatto delle immagini televi­­­­­96

sive tende a stemperare i confini tra reale ed immaginario: il mondo illustrato dalla pubblicità «realizza» (nel senso etimologico del termine) i sogni e concretizza le ambizioni. La felicità privata si sgancia dalla felicità pubblica, perde il senso di un progetto condiviso di futuro comune e inverte il senso del movimento verso l’autoespressione collettiva che ha ispirato la parte iniziale del decennio. Inizia l’epoca dell’«edonismo immaginativo autonomo»: il capitalismo metabolizza la mutazione individualista della baby boom generation e del Sessantotto riconvertendola in integrazione sociale dettata dai consumi soddisfatti. 6. Pluralità È interessante notare come l’ascesa della televisione nei consumi e nel mercato della pubblicità avvenga di pari passo a un significativo cambio di paradigma nella sociologia dei media. Alla lettura «unidimensionale» della Scuola di Francoforte, che tende a equiparare nei tempi brevi esposizione ai media e manipolazione delle coscienze, si sostituiscono infatti approcci più pragmatici e meno allarmati. Non perché venga meno l’importanza del fattore informazione-comunicazione, di cui anzi si teorizza la centralità in società che si avviano a diventare «post-industriali»: buona parte dell’espansione del settore terziario si lega allo sviluppo di questo settore. Ma perché, da un lato, sulla base di ricerche che mettono a confronto orientamenti politici di stampa e Tv con i comportamenti elettorali, la teoria dell’agenda setting fissa il principio secondo cui i mezzi di comunicazione non dettano direttamente opinioni e scelte, ma stabiliscono di volta in volta (per i lettori ma anche per gli altri media) le emergenze e le priorità di cui occuparsi. Il potere di redigere l’agenda delle elezioni è il potere di stabilire il contesto entro il quale i candidati presidenziali vengono valutati. Martellando giorno per giorno il tema della disoccupazione, mentre si tace su quello dell’integrazione razziale, i mass media spingono la disoccupazione in cima all’agenda della campagna e relegano in fondo l’integrazione razziale. L’effetto può essere decisivo: un’elezione combattuta sulla disoccupazione sarà molto diversa da un’elezione combattuta sul tema dell’integrazione; in alcuni casi perfino il risultato finale può essere diverso (Patterson-McClure 1976, 75). ­­­­­97

Dall’altro lato, invece, la cultivation theory sistematizza su un piano più generale quanto emerso dalle ricerche relative ai possibili influssi della televisione su bambini e giovani, insistendo sugli effetti a lungo termine dei media: il piccolo schermo catalizza e coltiva tendenze che già sono presenti negli individui, fino a sedimentare «letture della realtà» capaci di modificare il senso comune e le coscienze individuali. Così facendo si affianca alle tradizionali agenzie di socializzazione (famiglia, scuola), esercitando autorità e creando dipendenza («l’hanno detto alla Tv») nel linguaggio, negli stili di vita, negli usi del tempo libero. Considerare la televisione come uno strumento che interagisce con gli individui (e non semplicemente li condiziona) apre la strada a una concezione del pubblico e dello spettatore come entità «attive», secondo quanto sostiene la scuola del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham, legata al nome di Stuart Hall. Il consumo di televisione diventa un esercizio di lettura al plurale, cioè di interpretazione e attribuzione di senso a «testi» che sono prodotti uguali per tutti ma che ciascuno è in grado di vedere in modo diverso. Il serial Dallas (1981), trasmesso dal 1978 negli Stati Uniti, viene visto in Israele come un racconto mitologico di eroi buoni e potenti cattivi dalla minoranza araba e da quella ebraica di origine marocchina, come una messa in scena psicologica dove l’empatia con i personaggi prevale sulle preoccupazioni di verosimiglianza dai cittadini nati in Israele (ma anche a Los Angeles), come un esempio inverosimile di imperialismo americano dagli israeliani di origine russa (Katz-Liebes 1993). Il film Flashdance viene presentato su una rete generalista per famiglie (Canale 5) come una storia d’amore, mentre su una rete di nicchia giovanile (Italia 1) come un talent show, variazione sul tema di «saranno famosi» (Rizza 1989, 97). Parallelamente a quanto vengono facendo le agenzie pubblicitarie, anche gli audience studies si esercitano nella scomposizione del pubblico televisivo, cercando di collegarne gusti e modalità di lettura a caratteristiche di sesso, età, classe sociale, reddito, istruzione, ambiente sociale d’appartenenza, identità ideologiche. Il rapporto con i media diventa a doppio senso di marcia: una sorta di negoziato in cui le intenzioni e le attitudini manipolatorie dell’emittente si intrecciano con i bisogni (soprattutto immateriali) di informazione, rassicurazione, compensazione, evasione, gratificazione, propri degli spettatori. A loro volta, questi ultimi diventano oggetto di studio ­­­­­98

etnografico – alla stregua delle comunità locali indagate dagli antropologi – attraverso un’«osservazione partecipante» che ne sottolinea le diversità interne: non solo tra gruppi sociali nello spazio, ma anche tra generazioni nel tempo (Lull 2003; Silverstone 2000). Alla prima generazione televisiva, che tende a riconoscersi nei testi trasmessi dal piccolo schermo come una «comunità immaginata» (Anderson 2000) unificata da consumi e culture di massa, si sostituisce nel corso degli anni Settanta una seconda generazione per la quale il piccolo schermo fa ormai parte di una routine quotidiana di flusso comunicativo, di gran lunga prevalente sugli altri media, ma che nello stesso tempo viene «interpretato» in modi molto diversi dagli appartenenti al medesimo nucleo familiare (Morley 1980 e 1986). Le identità personali e collettive appaiono così il frutto dei processi di socializzazione primaria che avvengono in famiglia e a scuola attraverso la trasmissione di patrimoni culturali ereditati dal passato, ma anche delle relazioni sociali attivate nel presente (compresa quella con i mass media) e in continua trasformazione. La televisione dispensa parole, mode, stili di vita che lo spettatore utilizza come strumenti di comunicazione e integrazione sociale, per parlare con gli altri e farsi riconoscere; il consumo televisivo assume la forma di una conversione dei testi in risorse di capitale sociale (Katz-Gurevitch-Haas 1973; Moores 1998). Alla comunicazione verticale che scende sul pubblico dal mercato televisivo e pubblicitario si affianca quella orizzontale tra spettatori nelle pratiche della vita quotidiana. Per quanto sia difficile misurare queste tendenze, in Italia proprio le trasformazioni linguistiche indotte dal piccolo schermo sembrano confermare la sostanza dei nuovi approcci plurali allo studio dei media. L’italiano parlato di Mike Bongiorno, infatti, non cancella il dialetto, bensì allarga le competenze linguistiche individuali in direzione di un loro uso articolato e flessibile: dialetto in famiglia, italiano in pubblico. L’uso del piccolo schermo non corrisponde a un’alternativa secca e manichea tra manipolazione e resistenza, bensì a un negoziato che trasforma ma non pialla tradizioni e identità precedenti. Offrendo ai ragazzi uno spazio perché facessero essi stessi la critica televisiva per i programmi loro destinati, non ci aspettavamo una risposta così immediata e viva. Le lettere sono arrivate subito, crescono ogni giorno [...] Contraddicono l’immagine tradizionale di una generazione ­­­­­99

in ascolto passivo dinanzi alla Tv [...] Le maggiori critiche che i ragazzi fanno alla Tv sono di scarsa aderenza al reale, di eccessivo lieto fine (e nella vita non succede) [...] Atlas Ufo Robot [cartone animato giapponese trasmesso dal 1978] non ci presenta un futuro migliore, senza guerre, senza violenza, ma un futuro con guerre fantascientifiche. Poi c’è il fatto che quando in futuro avremo dei guai più o meno seri non ci verrà a salvare Nembo Kid ma dovremo cavarcela da soli senza il suo superpotere. Un’altra nostra critica si rivolge alla pubblicità, perché prima hanno fatto di tutto per togliere Carosello, perché dicevano che incoraggiava il consumismo. Adesso invece di fare cinque réclames in una volta sola, ne fanno il doppio o il triplo sparse per tutta la giornata televisiva [...] Le isole perdute [telefilm australiano trasmesso dalla Rai nel 1978] mi piacciono perché i ragazzi che sono naufragati sanno evitare i pericoli. Però sono troppo coraggiosi, si avventurano in imprese difficilissime e quando incontrano i pericoli non hanno neanche un po’ di paura. Poi hanno tutto. Quindi sono troppo fortunati [...] Heidi [altro cartone animato giapponese trasmesso nel 1978] è piacevole e ci fa vedere la storia di una bambina come noi che può essere paragonata alla realtà. Ella è abituata a vivere all’aperto e a contatto con la natura, è stata costretta a vivere in una città colma di fumo e senza vegetazione. Questo è il dramma anche di molti ragazzi d’oggi (Buongiorno 1978).

L’introduzione della televisione a colori (1977) costituisce un test importante per capire incidenza e portata di tali trasformazioni. L’avvio è buono, anche se non travolgente: il ritmo di diffusione dei nuovi apparecchi (16% delle famiglie italiane in tre anni) è superiore a quello della Tv in bianco e nero (che raggiunge lo stesso obiettivo tra 1955 e 1960), ma in misura non corrispondente all’incremento del reddito medio, che nel frattempo si è più che raddoppiato. La stasi della quota coperta in esso dalla spesa alimentare (nel 1980 pari al 36%, contro il 40% del 1970) mostra resistenze e viscosità al mutamento, rafforzate dalla tradizionale alta propensione al risparmio delle famiglie italiane. In particolare sono gli anziani ad offrire maggiori resistenze al cambio del televisore in bianco e nero, mentre quello a colori fa parte in misura prevalente delle abitazioni delle nuove coppie giovani, con o senza figli. Ancora nel 1980 la maggioranza delle famiglie (47%) fa la spesa sotto casa e solo un quarto acquista abitualmente nei supermercati; i consumatori legati alle marche di prodotti sono una ristretta minoranza (15%). Il «Radiocorriere Tv» raccoglie il senso di queste resistenze: ­­­­­100

Egregio Direttore, le frustrazioni cui oggi siamo continuamente sottoposti, considerando le grosse difficoltà del vivere sociale, non ci danno respiro. Come se questo non bastasse, ogni sera moltissimi telespettatori davanti ai loro televisori «non a colore» vengono continuamente frustrati dalla candida e dolce voce dell’annunciatrice, la quale sottolinea, con un sorriso, che il tale film o il tale documentario verranno teletrasmessi a colori [...] Sentire annunciare ogni sera una trasmissione a colori è la stessa cosa che mostrare a un affamato una tavola imbandita chiusa dentro ad una vetrina («Radiocorriere Tv», 8 gennaio 1978).

Un’altra lettrice si indigna perché i premi in denaro non vinti verranno suddivisi tra abbonati al televisore a colore estratti a sorte. Chi sono gli abbonati col televisore a colori? Sono coloro che possono permettersi di pagare 700 mila lire circa per un televisore (cosa per me addirittura impensabile) cioè sono coloro che non hanno dei problemi economici. Va bene che i responsabili della Rai fanno questa estrazione per favorire le vendite dei televisori a colori e per poter pubblicizzare le loro trasmissioni , ma non mi sembra giusto (ibid.).

La risposta del direttore Nebiolo è asciutta e in perfetto stile commerciale: «gli americani, per primi molti anni fa, individuarono nell’emulazione uno dei più importanti incentivi all’acquisto di elettrodomestici». Nonostante continui ad essere la più affezionata utente del piccolo schermo, la parte più anziana della società italiana si sente esclusa non soltanto dai nuovi consumi di massa, ma anche dalla programmazione televisiva. Ormai per la radio e la Tv esistono solamente i giovani, le loro scuole, i loro problemi, il loro linguaggio, le loro canzonette. Gli ascoltatori adulti (quelli che pagano il canone di abbonamento) possono andare a buttarsi a fiume [...] Perché nessuno tiene conto che esiste anche una categoria di ascoltatori non più giovanissima, non sportiva, che desidera tanto nel tardo pomeriggio, alla domenica, un bel film senza troppi pugni e galoppate, una commedia, un giallo alla Christie, uno spettacolo che aiuti a trascorrere le ore della malinconia e della solitudine? («Radiocorriere Tv», 19 febbraio 1978).

Peraltro, nel corso degli anni Settanta la crescita del consumo televisivo guida una tendenza al riequilibrio delle spese per il tempo ­­­­­101

libero degli italiani. Dal panorama degli anni Cinquanta monopolizzato dal cinema si passa a un quadro plurale che vede il ritorno marginale ma significativo di attività classiche (teatro, musica), assieme all’espansione del ballo e delle mostre. Tra 1975 e 1980 i visitatori dei musei salgono da 18 a 27 milioni; tra 1970 e 1979 i biglietti staccati a teatro raddoppiano da 12 a 24 milioni. Interrogato dal Servizio opinioni della Rai e dall’Eurisko (una delle maggiori società italiane di indagini di mercato), un campione rappresentativo della popolazione mostra il revival della socializzazione primaria con amici (66% contro il 21% del 1964, registrato con metodi diversi), l’ascesa della Tv (46% contro il 36%) anche tra le donne (52% contro il 33%) e quella dell’ascolto di dischi e musicassette (38% contro il 17%) anche tra le donne (35% contro il 22%) (Morcellini 1986, 70 e tab. 4). La televisione conquista insomma una posizione dominante ma non esclusiva, in un contesto che analisti e sociologi cominciano a definire di «frammentazione» e «politeismo» dei consumi culturali (Porro 1986; Censis 1982). Le indagini dedicate alla società italiana in questo scorcio di tempo trovano un punto di accordo nel rilevarne l’intima struttura dualistica, divisa tra ambienti in rapida evoluzione e sottofondo arcaico teso a conservare se stesso. Per tutta la prima parte degli anni Settanta questa divisione in due dell’Italia si esprime nelle forme, anche drammatiche, del conflitto politico e sindacale. Ma verso la fine del decennio l’exit dalla politica disperde il dualismo tra conservazione e modernità nel corpo vivo della società. È con la fine degli anni Settanta, infatti, che le ricerche di mercato cominciano a raffigurare gli italiani come un insieme frammentato di gruppi di consumatori divisi tra loro non tanto dalla condizione socioeconomica, quanto dall’adesione o meno a valori e stili di vita «moderni». Per molti aspetti questa modernità ingloba i valori post-materialisti teorizzati da Inglehart: parità sessuale, soddisfazione di vita, antidiscriminazione, partecipazione civile, qualità del tempo libero, ambientalismo. A loro volta questi valori – che sono in larga parte frutto di scelte consapevoli ed hanno quindi un rapporto soltanto indiretto e mediato con la propria condizione sociale – si traducono in atteggiamenti pratici di apertura e dinamismo, da cui dipendono anche i comportamenti di consumo. Nella mappa sinottica di Eurisko le casalinghe si dividono tra «chiuse» e «partecipanti» e i maschi tra «protagonisti» e «pre-culturali» a seconda della loro partecipazione ­­­­­102

Fig. 2.3. Mappa sinottica Eurisko (2004) DONAZIONE AGLI ALTRI

PENSIERO

- SENSIBILITÀ Élite femminile (4,4%)

Le casalinghe partecipanti (7,7%) Le casalinghe chiuse (13,2%)

MARGINALITÀ

Le donne doppio ruolo (6,8%)

Protagonisti (2,0%)

Le sognanti (3,5%)

I ragazzi evolutivi (4,0%)

INERZIA

La tranquillità femminile (12,0%)

PROTAGONISMO

La pre-élite progetti (2,8%)

Il lavoro e svago (11,6%)

La tranquillità maschile (10,9%)

Élite maschile (6,7%) AZIONE

Lavoratore d’assalto (4,1%)

Il maschio pre-culturale (11,0%)

ISTINTO

- EGOISMO

EGOCENTRISMO

o meno alla vita pubblica, del loro rapporto con gli altri, della loro capacità progettuale e innovativa. Molto spesso queste differenze di vita tagliano trasversalmente redditi, occupazioni e scelte politiche: «casalinghe chiuse» e «maschi pre-culturali» si trovano nelle famiglie operaie di sinistra come anche nell’alta borghesia di destra. In questa rappresentazione la società italiana diventa un mercato segmentato: ciascun individuo si colloca lungo linee trasversali (quelle tratteggiate della mappa) più o meno vicino ad uno dei due poli estremi: azione/inerzia, donazione/egocentrismo, protagonismo/marginalità, pensiero/istinto. Si tratta di visioni del mondo, più o meno conscie, che nascono dall’esperienza quotidiana e misurano il livello di complessità e articolazione dei consumi. La propensione all’acquisto del televisore a colori, in altre parole, cresce o diminuisce a seconda della collocazione sulla mappa degli stili di vita. Al tempo stesso, il passaggio da valori materialisti a valori post-materia­­­­­103

listi, dal consumismo alla coscienza globale, che Inglehart immagina sotto forma di un pacifico passaggio di consegne tra generazioni (tra quella che consegue la sicurezza economica e quella che così diventa libera di pensare oltre l’orizzonte della sopravvivenza), in Italia assume un aspetto diverso: di convivenza reciprocamente indifferente di pezzi separati di società, che nel corso degli anni Settanta smettono di credere a progetti politici condivisi e individualmente traducono il loro grado di adesione alla modernità in dinamismo imprenditoriale (terza Italia e lavoro autonomo), «egoismo» demografico (più solitari, meno figli), consumismo (più televisori, più motorini). I valori post-materialisti non spodestano e anzi convivono tranquillamente (anche nello stesso individuo) con quelli materialisti. La visione plurale e dinamica della società italiana elaborata dalle indagini di mercato appare così molto lontana da quella semplificata e statica (spesso manichea) della storia e della politica. Quasi sempre queste ultime rappresentano l’Italia come vittima di una abnorme e atavica lacerazione interna tra guelfi e ghibellini: un luogo comune provinciale – basti pensare agli Stati Uniti della guerra di Secessione o alla Francia del caso Dreyfus – frutto del «paradigma eccezionalista». «L’italiano» diventa uno stereotipo generico (pizza, mandolino...) contraddistinto sia da un elevato grado di egoismo sociale, cioè dall’assenza di quella «società stretta» che Leopardi lamenta nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1824), sia dal culto del particulare, cioè da quel ritrarsi dai «tumulti» della grande città verso la cura dei propri interessi personali o familiari che Manzoni attribuisce in sede di riflessione conclusiva al protagonista dei Promessi sposi. Di solito è abbastanza facile e comune ricondurre questi stereotipi ai limiti di modernizzazione che il perdurante conflitto tra Stato e Chiesa ha imposto agli italiani, condannandoli a un senso dimezzato e conflittuale, poco laico e molto integralista, della cittadinanza: da guelfi e ghibellini si passa a fascisti e antifascisti, comunisti e democristiani, berlusconiani e antiberlusconiani. È uno stereotipo facile, fatto di «deduzione trascendentale», direbbe Bobbio, che ignora i processi (molecolari e sotterranei, quindi più difficili da vedere) di osmosi tra culture diverse. Se si scende al livello delle «indagini laboriose» le cose si possono vedere anche al contrario. «Società larga» e particulare possono anche essere considerati come il frutto nel lungo periodo della Controriforma sulla psicologia individuale e sull’identità collettiva del popolo italiano: il ­­­­­104

primato del perdono sulla responsabilità, il terrore del cambiamento traumatico, il codice sottile della dissimulazione nei rapporti con il potere, la disponibilità trasformistica al compromesso, la prevalenza della morale privata su quella pubblica (Schiavone 1998, 84-85). Tratti di carattere che si trovano negli opposti schieramenti di ogni tempo. Anche se pubblicamente si fronteggiano in cagnesco, guelfi e ghibellini danno vita a culture e identità reciprocamente contaminate: esattamente come Peppone e don Camillo. Stili di vita e di consumo si diffondono alla base, oltre le divisioni della sfera politica e le gerarchie della sfera socioeconomica. Di questo conflitto e intreccio la televisione rispecchia la veste più gommosa e patinata, che insiste sul secondo termine fino a cancellare il primo. A sua volta, il palinsesto televisivo (soprattutto nella parte extrainformativa) risponde in misura crescente a una scomposizione del «pubblico» in gruppi di consumatori da rivendere agli inserzionisti pubblicitari. Le opposizioni diadiche su cui lavorano storici e politici (pubblico/privato ad esempio) diventano una scala misurabile di comportamenti individuali e di gruppo, le cui variazioni nello spazio sociale e nel tempo di vita rispondono sia a vincoli economici, sia a scelte culturali. Pluralità ritorna sempre come parola chiave quando si parla di televisione. Quasi nessuno se ne accorge, ma per gli italiani protagonisti dell’exit dalla politica alla fine degli anni Settanta pluralità significa la perdita silenziosa e molecolare di un’identità nazionale condivisa. Gli italiani che «si sono fatti da sé» durante il miracolo economico perdono l’Italia che Massimo d’Azeglio aveva data per «fatta» più di un secolo fa: diventano cioè una società a maglie sempre più larghe e slabbrate, superficialmente unificata dalla televisione commerciale e dai consumi di massa, ma frammentata nel profondo da una mutazione individualista che smette di riconoscersi nella politica.

III

L’Italia degli individui (1981-1993)

1. «Dallas» e «particulare» Per gli italiani e la televisione gli anni Ottanta sono appunto quelli della pluralità. Al cambiamento tecnologico introdotto dagli schermi a colori si sovrappone il cambiamento degli assetti istituzionali: si struttura il duopolio Rai-Fininvest e si allarga l’offerta di programmi in contemporanea. La neotelevisione commerciale, segmentata secondo le diverse platee di spettatori-consumatori, cancella definitivamente e per sempre la paleotelevisione pedagogica del servizio pubblico. Il telecomando entra nell’uso quotidiano e diventa l’incubo di pubblicitari e programmisti televisivi: contro lo «zapping» – come si chiama in gergo il salto da un canale all’altro – ogni mezzo diventa lecito per inchiodare lo spettatore e indurlo a non interrompere il flusso del piccolo schermo: a non sottrarsi alla propria dose quotidiana di spot commerciali che economicamente sostiene l’intero sistema. Gli italiani vengono «inghiottiti» da un video che li «intrattiene», nel senso stretto della parola (Carmignani 1986; Livolsi 1998, 22). Da strumento di «mediazione del patrimonio simbolicoistituzionale del paese» la televisione diventa «pura tecnologia del divertimento» (Fanchi 2002, 79-80). Dallas (1981), sit-com importata dagli Stati Uniti quasi in tempo reale (l’originale va in onda nel 1978), rappresenta bene l’insieme di questi passaggi. Trasmesso da Rai1 in seconda serata incontra un gradimento relativo, mentre passato dopo pochi mesi su Canale 5 ­­­­­106

(dal 1980 il primo canale televisivo privato di Berlusconi) sostituisce il film in prima serata all’insegna dello slogan «in contemporanea con l’America» e diventa un potente traino degli ascolti: vero e proprio «cavallo di Troia per rompere il monopolio Rai» (Freccero 1985, 211). Si inaugura un genere – Dynasty (1982), Flamingo Road (1982), Dancing Days (1982), Anche i ricchi piangono (1982), Beautiful (1990) – contraddistinto dalla serialità lenta e rassicurante che consente una immedesimazione degli spettatori diluita nel tempo. Attraverso una sorta di variante dei meccanismi di «mimesi» e «metessi», imitazione e partecipazione, attraverso i quali il mondo reale discende dal mondo delle idee di Platone, il pubblico partecipa empaticamente alle vicende dei personaggi di un jet set tanto globale quanto immaginario, attraverso un effetto di realismo che stempera i confini tra vero e verosimile. Sono meccanismi noti da tempo negli Stati Uniti. Le strategie autoreferenziali della televisione degli esordi funzionavano in due direzioni, a prima vista di segno opposto. Da un lato, l’autoreferenzialità dava agli spettatori una distanza critica dalla vita quotidiana: la capacità di ridere degli aspetti di artificio e di drammatizzazione della quotidianità. Dall’altro, incoraggiava gli spettatori a sentirsi più vicini al cuore dell’azione drammatica, come se possedessero una connessione privata con la scena. Riconoscendo la propria teatralità artificiosa, la family comedy spingeva il pubblico a prendere in giro se stesso e nello stesso tempo a prendersi sul serio (Spigel 1992, 165).

L’inflazione e la banalizzazione del dramma in formato Dallas mischiano l’introspezione psicologica, l’attenzione empatica per la vita quotidiana, la fiaba che divide buoni e cattivi, il sentimentalismo da feuilleton e da fotoromanzo. Sommati insieme, questi ingredienti danno come risultato un potente riduttore della complessità, una chiave personale di interpretazione individualistica della realtà del tempo, perfettamente in linea con le trasformazioni in atto nel corpo vivo della società. Al di là dei diversi livelli di lettura possibili che, come abbiamo visto, ne decretano un successo trasversale su scala planetaria, la versione evoluta del genere sit-com, soap opera, telenovela elimina l’orizzonte collettivo delle istituzioni e dei movimenti per ridurre il mondo a un microcosmo di individui in perenne incontro e scontro reciproco. La lirica prevale sull’epica e il senso della storia ­­­­­107

si perde, a tutto vantaggio di una ruota della fortuna casuale ma regolatrice dei destini personali: la felicità non è più un bene pubblico, ma un bene privato da perseguire attraverso intrighi e relazioni (Richardson-Meinhof 1999, 125-126). «Non esiste una cosa come la società. Esistono gli individui maschi e femmine, ed esistono le famiglie»: è il noto aforisma pronunciato nel 1987 davanti a una platea di donne da Margaret Thatcher, premier inglese dal 1979 al 1990. La neotelevisione commerciale e la deregulation del sistema televisivo accompagnano la rivoluzione neoliberista (usualmente accoppiata al nome della «iron lady» inglese e del suo collega statunitense Ronald Reagan) nelle politiche economiche degli anni Ottanta. Dallas, insomma, rispecchia efficacemente l’exit dalla politica dell’Italia degli anni Ottanta. Ma gli italiani non sono un’eccezione. In Gran Bretagna l’analisi ravvicinata di un campione di 300 famiglie mostra la pluralità di usi della televisione. A quello regolativo (i telegiornali che scandiscono l’orario della giornata) si affiancano l’uso ambientale (la Tv come rumore di fondo e presenza più o meno rumorosa che accompagna altre attività) e l’uso relazionale di facilitazione della comunicazione (programmi e personaggi come argomento di discussione), di appartenenza (riunione della famiglia davanti al piccolo schermo), di apprendimento sociale (conoscenza e condivisione di convenzioni e norme dominanti) (Lull 2003). Dallas riesce a mescolare insieme questi diversi usi del piccolo schermo: una sorta di supermarket di significati (pro o contro la famiglia, pro o contro gli Stati Uniti) ad uso e consumo di clienti diversi (Fiske 1989, 132). Ma è solo l’immagine di un mutamento di ben altra portata. In tutta Europa la crescita dei soggetti privati nel mercato televisivo porta in primo piano la competizione per la raccolta pubblicitaria. La novità introdotta da questa mutazione commerciale è la modulazione sempre più individuale – e sempre meno collettiva e familiare – dei programmi. Per essere efficaci, gli spot devono raggiungere non un pubblico generico, ma quello specifico dei potenziali acquirenti del prodotto reclamizzato e devono quindi essere inseriti in programmi fatti per catturare l’attenzione di quella specifica nicchia di spettatori-consumatori. Il pubblico e la programmazione si frammentano secondo diversi target, obiettivi precisi da colpire nella massa altrimenti indistinta degli spettatori. Il tempo di Carosello, quando la politica era in grado di imporre le sue condizioni di qualità all’economia, è ormai passato per sempre. ­­­­­108

È l’economia ora ad imporre le sue leggi non solo alla televisione, compresa quella di servizio pubblico, ma anche alla politica stessa. Da sola, la televisione non inventa nulla. Si limita a rispecchiare il tempo che adesso si apre della «post-democrazia» (Crouch 2005). Quando la politica comincia ad andare in televisione per le sue campagne elettorali – tra i primi è il presidente francese Mitterrand, nel 1985 – i suoi costi iniziano a lievitare e per coprirli, in una fase di mobilitazione calante e di disaffezione crescente, l’interazione tra élites politiche ed élites economiche diventa pressoché inevitabile. Il ruolo della partecipazione popolare si riduce a episodico e marginale, meramente elettorale, mentre gli interessi organizzati dei più forti (tra cui i network televisivi) sono quelli più rappresentati e ascoltati in sede politica. L’ascesa di Berlusconi nel sistema televisivo italiano si spiega prima di tutto così. Ma non soltanto così. È anche il frutto della capacità di capire e interpretare la mutazione individualista e la frammentazione degli italiani. La televisione commerciale moltiplica i canali di ascolto e frammenta il senso comune: rispecchia «la caduta della partecipazione e dell’impegno politico tradizionali, la valorizzazione delle disuguaglianze, l’affermarsi di comportamenti acquisitivi e particolaristici che hanno contribuito a sgretolare i tradizionali riferimenti normativi, politici e ideali» (Di Fraia-Stefanizzi 1995, 94). L’aforisma della signora Thatcher su individui e società condensa nel modo più efficace il senso profondo di una rivoluzione culturale – a ben vedere, l’unica vissuta in Occidente dopo il 1945 – che ispira il decennio immediatamente precedente alla fine del comunismo e della guerra fredda. Gli anni Ottanta si avviano infatti nel segno di uno storico cambio di paradigma nelle teorie e nelle pratiche economiche: la quasi cinquantennale egemonia del keynesismo (fondata sull’espansione della spesa pubblica in funzione antidisoccupazione) viene scalzata da un nuovo corso che assume l’inflazione come pericolo prioritario e ne ricava rigide ortodossie monetariste: riduzione del ruolo economico dello Stato, pareggio dei conti pubblici, impulso all’imprenditoria privata e alla libera concorrenza, tagli alle politiche assistenziali, liberalizzazione commerciale. Torna così in auge una rinnovata e radicalizzata fiducia nei meccanismi trickle down (di sgocciolamento verso il basso della ricchezza) teoricamente propri del libero mercato. Ma l’effetto, soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, è un aumento dell’ineguaglianza interna dopo oltre mezzo secolo di efficaci politiche redistributive e ­­­­­109

di welfare. In entrambi i paesi aumenta la dispersione salariale (data principalmente dall’innovazione tecnologica e dai conseguenti premi retributivi alla forza lavoro più qualificata) assieme alla quota di reddito del quinto più ricco della popolazione (grazie anche al peso crescente delle rendite finanziarie), cui si accompagna una crescente regressività dei sistemi fiscali, che tendono ad alleggerire il carico contributivo sui ceti più abbienti. Nondimeno la cultura socialdemocratica è costretta a giocare di rimessa, temperando e moderando la rivoluzione culturale neoliberista, senza la capacità di una proposta altrettanto organica e innovativa. La figura di Gorbacˇëv, nuovo e giovane segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica, ostaggio al seguito del presidente degli Stati Uniti Reagan nei summit Usa-Urss che punteggiano il decennio, si collega in tal senso alla crisi dei socialismi europei: per entrambi la forza propulsiva del capitalismo appare un dato di fatto sostanzialmente indiscutibile. Lo sviluppo diventa una conseguenza della capacità imprenditoriale di stare sui mercati e il ruolo dello Stato smette di essere quello «sociale», equalizzante e redistributore della ricchezza, per ridursi a quello di custode delle regole della libera concorrenza e di garante della sicurezza degli investimenti, come illustra il caso delle «tigri asiatiche» (Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong): unici paesi poveri a varcare la soglia del sottosviluppo e a ridurre le distanze dal club dei paesi ricchi. Passata la stagione demonizzante del decennio precedente (quando la compagnia statunitense Itt viene accusata di aver incoraggiato il golpe del generale cileno Pinochet), le imprese multinazionali assurgono a nuovi soggetti di questo sviluppo e i governi che ne ospitano le filiali produttive passano dai propositi di nazionalizzazione a politiche di incentivazione e agevolazione (innanzitutto fiscale) dei loro investimenti. La Cina di Deng Xiaoping apre a questa penetrazione le sue «zone speciali» costiere, ma soprattutto liberalizza l’economia rurale, dando spazio alle energie imprenditoriali (agricole ed extra-agricole) dei contadini: nel corso dell’ultimo ventennio del secolo 400 milioni di cinesi fuoriescono dall’orizzonte della povertà estrema. Di questa riscossa neoliberale globalizzante l’Italia vive una versione casereccia. Faticosamente archiviati gli «anni di piombo» attraverso i colpi inferti alle Brigate Rosse dai pentiti e dal generale Dalla Chiesa, l’aspirante interprete domestico del thatcherismo è il nuovo leader del Partito socialista Bettino Craxi, che cerca di imitarne la pars ­­­­­110

destruens antisindacale approfittando delle difficoltà dei due partiti maggiori. La Dc, colpita duramente dallo scandalo P2, attraversa infatti una fase di grande debolezza e nel 1981 perde per la prima volta la presidenza del governo (a favore del repubblicano Spadolini). Il Pci abbandona il compromesso storico e nel 1980 da Salerno Berlinguer propone un «governo degli onesti» di difficile attuazione: un anno dopo Giorgio Napolitano si dimette dalla segreteria criticando una linea politica che giudica limitata alla mera denuncia e alla sterile proclamazione della propria «diversità» sul piano della «questione morale». In questa impasse si inserisce Craxi, che nel 1983 sale alla carica di primo ministro e l’anno successivo taglia per decreto (con l’assenso di Cisl e Uil) un quarto dei punti di «scala mobile» (il meccanismo di adeguamento automatico dei salari al costo della vita). Il Pci (orfano di Berlinguer che muore improvvisamente nel 1984) e la Cgil promuovono un referendum contro il decreto che viene sconfitto nel 1985 da una maggioranza (54%) favorevole all’azione del governo. In realtà a dare avvio alla controffensiva è il management Fiat, che prima licenzia, nell’ottobre 1979, una sessantina di operai ritenuti responsabili di atti di violenza, poi nel settembre 1980 mette in cassa integrazione 23 mila lavoratori e riceve l’appoggio di 40 mila dirigenti e quadri intermedi dell’azienda, che in ottobre sfilano per Torino. Poco prima di questi ultimi avvenimenti, nel febbraio 1980, un’inchiesta condotta dal Pci tra gli operai della Fiat svela una maggioranza relativa (42%) di favorevoli alla collaborazione tra lavoratori ed impresa «necessaria perché a vantaggio di tutti», unita a un altro terzo (31%) che la ritiene «possibile ma da contrattare»; solo per una minoranza (27%) è «impossibile perché lavoratori e imprenditori hanno interessi opposti» (Berta 1997, 691). È un segnale importante di come, nel cuore del sistema industriale italiano, stia mutando la coscienza di classe: dall’orgoglio autonomista e propositivo dell’«autunno caldo» a un atteggiamento difensivo e «collaborazionista», che innanzitutto riflette una perdita di sicurezze e speranze nel futuro. Tra gli effetti immediati dello shock petrolifero del 1973 c’è infatti una contrazione costante del numero dei lavoratori dipendenti del comparto industriale (Fig. 1.2). Sono soprattutto le grandi fabbriche del Nord a ridurre i propri organici, determinando una perdita complessiva di posti di lavoro (tra 1974 e 1993 sono più di 100 mila ogni anno) che non riesce ad essere compensata dalla parallela espansione delle piccole e medie imprese. Tra 1971 e 1991 ­­­­­111

le imprese manifatturiere con meno di 20 addetti crescono in quota percentuale sul totale degli occupati del settore (+6%), mentre tutte quelle sopra i 50 addetti calano in diretta proporzione alle loro dimensioni: a ridursi maggiormente (–9%) sono quelle sopra i 500 addetti (Brusco-Paba 1997, tab. 2). È la faccia nuova di una tradizionale peculiarità della base produttiva italiana: già nel 1960 gli addetti in unità manifatturiere con meno di 100 occupati rappresentavano il 57% dell’occupazione industriale totale, contro il 36% della Germania Ovest, il 26% degli Stati Uniti, il 19% della Gran Bretagna (Bagnasco 1996, 21). Nel 2001 il censimento dell’Istat fissa un punto d’arrivo di questa crescita: le piccole fabbriche con meno di 10 operai corrispondono ai quattro quinti (81%) della base industriale e a un quarto del totale degli occupati del settore (negli Stati Uniti le quote corrispondenti sono pari al 65% e al 3%). Se sommiamo alle piccole imprese manifatturiere anche quelle del settore terziario e dell’agricoltura le percentuali decollano: nel 2001 le unità con meno di 10 addetti corrispondono a quasi metà (47,8%) degli occupati e alla quasi totalità (94,9%) delle unità produttive (Chiesi 2009, 57). A sostenere la crescita economica del paese reale negli anni Ottanta è la cosiddetta «terza Italia»: le aree del Centro e del Nord-Est contraddistinte dai distretti industriali di piccole e medie imprese. Tessile a Prato, ceramiche a Sassuolo, calzature sportive a Montebelluna: nel 1981 i distretti censiti in Italia sono più di 100 e rappresentano dei casi particolari – capaci di guadagnare notorietà internazionale (Porter 1991) – di concentrazione territoriale di conoscenze tecniche derivanti da antiche esperienze artigiane, disponibilità di capitali provenienti da agricolture ricche, energie imprenditoriali, spirito cooperativo, industrializzazione diffusa, campagna urbanizzata, capacità di ascolto delle amministrazioni locali, coesione sociale garantita da subculture politiche tradizionali (bianca nel Nord-Est, rossa nel Centro), transizione dolce alla modernità industriale senza grandi poli produttivi, regolazione sociale del mercato del lavoro grazie alle reti di solidarietà familiari e comunitarie. Nel 1991 i distretti salgono a 238, per un totale di 1,7 milioni di occupati su quasi 7 milioni di occupati nell’industria (Brusco-Paba 1997, 280). Nel lessico spigoloso della sociologia Aldo Bonomi descrive le nuove identità territoriali (e la loro nuova distanza dalla politica) che maturano tra i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori della terza Italia: ­­­­­112

Fig. 3.1. Addetti per dimensioni delle imprese (percentuali sul totale), 1991 100

90

80

70

60

50

40

30

20

10

0

Italia

più di 250 addetti

Germania

Francia 10-49 addetti

50-249 addetti

Gran Bretagna 1-9 addetti

Il cittadino territorializzato era colui che aveva ormai individuato la politica come specificità e che, leggendo il messaggio politico al di fuori di ogni visione ideologica, scopriva il voto come risorsa. La territorialità diventava così teatro di una logica virtuosa in cui prendeva corpo l’«autoconsistenza» dei soggetti e con essa la manifestazione stessa dell’individuo. In quegli anni il tempo presente era l’unica cifra temporale dell’agire sociale: la paura del futuro appiattiva sul presente la società lombarda, la paura della modernità riduceva al qui e subito ogni progetto di futuro (Bonomi 2008, 21).

Come si vede, sono identità locali che possono trovare consonanze e simpatie con quelle fittizie narrate da Dallas, di cui condividono ­­­­­113

l’esistere e l’esaurirsi nel qui e subito, piuttosto che con le classi sociali e gli interessi rappresentati dalle istituzioni, dai partiti, dai sindacati nazionali. Solo la Lega Nord, infatti, si rivela capace di «inventare» una tradizione di identità territoriali legate allo sviluppo economico di questa parte d’Italia. Anche se, in effetti, la terza Italia non è un fulmine a ciel sereno, collocare alla sua base l’esistenza di una civicness, di un senso civico urbano, fondato in tarda età medievale dall’esperienza di autogoverno dei comuni (Putnam 1993), equivale a gettare «un ponte vertiginoso» nel tempo, come criticamente si è sostenuto (Mutti 1994). Nondimeno, l’ardita tesi di Putnam coglie alcune costanti di lungo periodo che sembrano ancora particolarmente significative nelle regioni centrali e nord-orientali del paese: il prevalere di identità locali rispetto all’appartenenza nazionale, la forza di tradizioni associative comunitarie capaci di assumere nei secoli forme e culture diverse (dalle corporazioni alle camere del lavoro), un itinerario verso la modernità abbastanza privo di strappi sociali e grandi perturbazioni immigratorie. Nelle aree meridionali assimilabili alla terza Italia (la dorsale adriatica di Abruzzo e Puglia) la diffusione dei distretti di piccole imprese è inversamente proporzionale all’intervento dello Stato e alla presenza della criminalità organizzata (Trigilia 1995, 752). 2. I lavori Fatto è che nel corso degli anni Ottanta si vengono concentrando nelle zone della terza Italia la crescita dei livelli occupazionali, l’innovazione tecnologica e la competitività sui mercati internazionali, l’aumento della quota mondiale di esportazioni. In larga parte la rete in espansione delle piccole imprese è il frutto di ricadute ed esternalizzazioni delle grandi aziende; ma è anche l’esito della trasformazione di operai in imprenditori e di processi di urbanizzazione di ex contadini alla ricerca di nuove attività economiche. Sono le nuove strade che l’exit dalla politica schiude alla mutazione individualista della baby boom generation. Nel quadro complessivamente statico della società italiana fanno eccezione i movimenti dei lavoratori dipendenti sia urbani che rurali verso la piccola borghesia urbana del commercio al dettaglio, dei mestieri artigiani, del lavoro autonomo e delle piccole imprese. D’altra parte la piccola dimensione supplisce ­­­­­114

alle rigidità della grande impresa ed è anche congeniale a un ambiente – come quello italiano – contraddistinto dalla persistenza della piccola distribuzione e delle sue reti locali di rifornimento: ancora alla fine degli anni Ottanta le prime cinque catene commerciali di vendita al dettaglio coprono in Italia una quota di mercato pari al 10%, contro il 63% in Gran Bretagna, il 48% in Germania, il 46% in Francia (Brusco-Paba 1997, 325). Nelle grandi fabbriche, invece, la classe operaia non solo si riduce, ma si trasforma. Da un lato crescono al suo interno gli strati impiegatizi: i «colletti bianchi» preposti alle mansioni intellettuali correlate alla produzione – ricerca, progettazione, organizzazione del lavoro, commercializzazione. Dall’altro il modello Toyota introduce concetti nuovi (produzione snella, just in time, controllo di qualità, servizi ai consumatori e personalizzazione del prodotto) che puntano sulla flessibilità e la rotazione delle mansioni operaie. Almeno in parte, robot e isole produttive conferiscono margini di autonomia e capacità decisionale ai diversi gruppi di lavoratori impegnati nelle varie fasi del ciclo della produzione (Hirst-Zeitlin 1991; Deaglio 1991, 45-47). Così ragiona agli inizi degli anni Novanta un «conduttore di sistema» di Fiat Mirafiori: Qui noi siamo continuamente in evoluzione e tutti sappiamo che, per far fronte alle esigenze, la Fiat deve evolvere senza sosta, quindi anche la nostra conoscenza deve crescere parallelamente [...] Il criterio principale è la disponibilità ad assumere delle responsabilità e ad essere estremamente flessibili. Flessibili nel senso che il conduttore è una figura multifunzionale [...] È anche importante capire i problemi degli altri. Se mi metto nello stato d’animo di non essere un dipendente durante il mio operato, ma di essere un cliente e un fornitore nello stesso momento, io devo come qualsiasi buon gestore d’azienda comprendere i problemi degli altri (Bonazzi 1993, 186).

Un’inchiesta condotta nello stesso periodo rende conto di un’ampia maggioranza relativa di lavoratori (45%) convinti di poter «decidere e programmare la maggior parte del proprio lavoro»: sono un po’ meno dei loro colleghi olandesi, ma più di quelli francesi, tedeschi e inglesi (Beretta 1995, 224). È bene ricordare che l’attore allegorico «classe operaia» è sempre stato una costruzione ideologica. Quando lo si va a indagare da vici­­­­­115

no, ad esempio attraverso i libri matricola delle singole maestranze, si scopre una realtà assai più mobile. Quasi due terzi degli operai assunti nel primo dopoguerra all’Alfa Romeo – uno dei luoghi mitici della classe operaia italiana, all’epoca dell’occupazione delle fabbriche del 1920 – rimangono in fabbrica per meno di un anno: si muovono verso altre fabbriche o altre occupazioni (Bigazzi 1988, 640). L’Alfa Romeo non è un’eccezione: sono dati confermati anche in altre situazioni italiane coeve, così come alla tedesca Volkswagen negli anni Sessanta (Garbarini 1990, 176; Curli 1997, 439; von Oswald 1997, 706). Da sempre i «Cipputi» (l’operaio dei fumetti di Altan) che intrattengono con il loro ambiente di lavoro un rapporto di vita sono una minoranza: la più attiva e capace di creare identità. Ma per la maggioranza esiste una distanza tra quella che Marx chiamava la classe «in sé» (determinata dalla comune condizione materiale) e la classe «per sé» (determinata dalla coscienza): quella maggioranza è anche composta da individui – per quel che possono – imprenditori di se stessi, alla ricerca di percorsi lavorativi ed esistenziali non sempre e non esattamente coincidenti con una loro appartenenza di classe. La ristrutturazione aziendale degli anni Ottanta fa dunque leva su costanti storiche di lungo periodo (seppur trascurate dalle ideologie politiche e sindacali) e su trasformazioni più recenti. Alla fine degli anni Ottanta sono 86 mila i dipendenti della Fiat che acquistano azioni del gruppo, per un importo medio pari a un milione e mezzo di lire a testa. L’operaio viene coinvolto in un’opera di consulenza per la razionalizzazione delle operazioni produttive che lo riguardano. Smette di pensare a se stesso come a un essere completamente subordinato e controllato da un potere alieno, riscattabile soltanto attraverso la contrapposizione sindacale: almeno in parte, il lavoro può essere qualcosa di creativo. Secondo le parole di uno dei più attenti osservatori del mondo del lavoro, il convoglio operaio si allunga e ciascun vagone accentua le proprie differenze dagli altri (Accornero 1994). Frustrata da una politica che le chiede solo sacrifici, la mutazione individualista della baby boom generation persegue altre strade e trasforma nel profondo, in modo molecolare e diffuso, la società civile. Il risultato è un’Italia più ineguale. L’indice di Gini (una misura sintetica dell’ineguaglianza) dei redditi italiani al netto dei prelievi fiscali e dei trasferimenti sociali precipita nel corso degli anni Settanta sotto quota 0,32, per poi risalire fino a 0,35 nel corso del decennio successivo. Di contro, secondo i dati dell’Ocse, lo stesso indice in ­­­­­116

Fig. 3.2. Indice di Gini dei redditi italiani, 1972-1995

42 40 38 36 34 32 1960

1970

1980

1990

2000

Germania rimane stabile attorno a 0,27 e in Francia cala da 0,31 a 0,28. Solo Gran Bretagna (0,35) e Stati Uniti (0,36), che passano per la rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan, hanno indici vicini a quelli italiani. In misura largamente maggioritaria (74-89%) l’ineguaglianza italiana è spiegata dalle differenze tra redditi da lavoro, e solo in parte residuale (8-9%) dalle differenze patrimoniali (Brandolini 2009, 149). Mentre gli anni Settanta si svolgono all’insegna di un aumento della quota dei salari sul reddito nazionale (dal 45 al 53%) e di un contemporaneo appiattimento delle retribuzioni, che è frutto delle strategie egualitarie del sindacato e al tempo stesso sintomo e veicolo di una ricomposizione delle classi sociali, gli anni Ottanta si muovono in senso diametralmente opposto. Non solo la quota dei profitti risale già nel 1988 ai livelli record degli anni Cinquanta (33%) e quella dei salari ridiscende costantemente, fino al 40% del 2000, ma aumenta anche la dispersione salariale in relazione alla crescita della quota di salario contrattata direttamente sul posto di lavoro e alla divisione dei 15 milioni di lavoratori dipendenti italiani (grosso modo a metà) tra chi ha fatto solo la scuola elementare e chi possiede un titolo di studio superiore. In Italia e Germania ad allargare la forbice non sono i premi salariali appannaggio di questi ultimi, bensì il ridimensionamento relativo delle retribuzioni più basse destinate ­­­­­117

alle mansioni più dequalificate. Il toyotismo all’italiana, insomma, non sembra premiare i «migliori», ma penalizzare i «peggiori». L’ineguaglianza italiana colpisce di più il Meridione. È lì che si concentra una quota di italiani, superiore al 10% e stabile nel tempo, pienamente identificabile come povera: percepisce redditi inferiori alla metà della media nazionale, alloggia in case popolari, non ha accesso al sistema bancario. Sono famiglie numerose con un solo stipendio, ma anche anziani solitari in pensione. Di ineguaglianza e povertà cresce anche la percezione diretta quanto confusa. Secondo i sondaggi campionari condotti da Eurisko tra 1987 e 1992 aumenta la percentuale di cittadini che si collocano nello strato sociale più basso (da 2,6 a 8,6%) e in quello medio-inferiore (da 16,3 a 26,7%); rimane sostanzialmente stabile la quota che si autodefinisce ceto medio (dal 55,3 al 52,5%), mentre si dimezza quella che si giudica appartenente agli strati superiori (dal 25,9 al 12,3%) (Esping Andersen 1993b, 70). Ad allargare la forbice reale e percepita dei redditi è anche la parallela espansione, soprattutto in alcuni settori non industriali (agricoltura, trasporti), della quota di lavoratori dipendenti temporanei o comunque soggetti a condizioni retributive e normative di tipo speciale. Inizia l’epoca – destinata a protrarsi fino ai giorni nostri – dei lavori «atipici», che sui media vengono sempre più spesso chiamati «Mcjobs»: il friggitore di patatine assunto con contratto a tempo determinato nelle catene di fast-food ne diventa l’emblema. All’inizio degli anni Novanta in Italia esiste un 9% di lavoratori dipendenti (concentrato nel terziario) che percepiscono un salario inferiore alla metà di quello dei loro colleghi a tempo pieno: un dato estremo in Europa. All’altro estremo della scala sociale si registrano movimenti opposti e simmetrici di dispersione verso l’alto. Tra 1984 e 1986, complice il lungo ciclo di rialzo dei profitti borsistici (destinato ad incontrare un duro crash alla fine del 1987), entrano in Borsa circa due milioni di nuovi azionisti e si quotano più società dell’intero ventennio precedente. Al dinamismo della finanza si accompagna il decollo del debito pubblico: è l’epoca dei «Bot people» – come i media definiscono gli acquirenti di titoli di Stato –, le cui file sono ingrossate dai pensionati che possono permetterselo, ma anche da lavoratori autonomi, professionisti, imprenditori. Sono in molti ad osservare criticamente in tempo reale l’instaurarsi di un circolo vizioso tra evasione fiscale ­­­­­118

e rendita finanziaria: la prima riduce le entrate dello Stato, che è di conseguenza costretto a indebitarsi attingendo per altra via a quella parte di reddito di cui non riesce ad impossessarsi, ma contribuendo nel tempo a riprodurre e ad accrescere la seconda. Alcuni osservatori prendono spunto da questi processi per teorizzare la «fine del lavoro» (Rifkin 1996). Dopo il 1989 e la fine della guerra fredda spuntano come funghi i facili e avventati profeti – di fine della storia, di fine dello Stato nazione, di morte della distanza, di fine della geografia (Fukuyama 1992; Ohmae 1996; Cairncross 1997; O’Brien 1992) –, tutti destinati ad essere rapidamente smentiti dai fatti (nuove guerre, nuovi Stati, nuove mappe del mondo): futili effetti retorici delle fini di millennio. Ma è vero che nella parte finale del XX secolo in tutte le società avanzate il tempo di lavoro riduce il proprio peso sul tempo di vita e perde importanza rispetto al tempo libero. Secondo alcune rilevazioni, in Francia tra 1981 e 1991 la quota di tempo lavorativo si riduce dal 18% al 14% del tempo di vita (escluso il sonno), mentre in Germania tra 1961 e 1991 le ore di lavoro manifatturiero calano dal 30% al 20% sul complesso delle occupazioni (Paci 1996, 708). Come comprendere la crescita degli individualismi, la maggiore autonomia dei soggetti, se non si fa riferimento alla liberazione del tempo più vincolante per la maggior parte degli individui? [...] La società si costruisce sempre più «dal basso», sfuggendo alle regolazioni sociali stabilite, di cui il lavoro come tempo dominante era il principio fondamentale [...] La crescita della società civile è oggi correlata alla crescita del tempo liberato (Sue 1994, 195).

Tuttavia le indagini più ravvicinate mettono in luce soprattutto una oggettiva mobilità esasperata dei lavori a tempo parziale piuttosto che un mutamento del rapporto soggettivo tra lavoro e identità. Anziché una comunanza di destini individuali (un «proletariato post-industriale»), i Mcjobs configurano una condizione temporanea: semplice tappa verso altri lavori precari, verso lavori più qualificati o verso il ritorno nella famiglia d’origine. Piuttosto che una ricaduta della rivoluzione individualistica, la precarietà esprime una complicazione del rapporto con il futuro, se non una vera e propria perdita di fiducia e di speranza, forzata dagli interessi di imprenditori alla costante ricerca di manodopera sottopagata e non tutelata. ­­­­­119

Il lavoro non finisce. In tutto l’Occidente i dipendenti salariati continuano a formare la grande maggioranza (due terzi in Italia) della popolazione occupata e la forza lavoro manifatturiera continua a rivestire un ruolo cruciale: ancora nell’Italia degli anni Novanta gli operai sono 6 milioni e mezzo (e risalgono a 7 milioni nel 2005 grazie alla ripresa dell’edilizia), pari a quasi un terzo della popolazione attiva. Ma il lavoro si complica, si frammenta e diventa precario. Si sposta, anche. Tra 1960 e 2000 la quota di posti di lavoro industriale detenuta dai paesi poveri in Asia, Africa e America Latina sale da un terzo a due terzi del totale mondiale (Gozzini 2010, 280-281). Tra gli effetti di tale crescente ridislocazione del lavoro c’è l’indebolimento del sindacato. Il tasso di sindacalizzazione della società italiana, che cresce costantemente nel corso del ventennio precedente, durante gli anni Ottanta cala dal 49% al 39%. Non è una tendenza solo italiana. Anche in altri paesi europei tradizionali fattori macroeconomici (disoccupazione) e nuove dinamiche occupazionali (forme di lavoro temporaneo) tendono a ridurre il peso del sindacato. Ma è significativo il fatto che le organizzazioni sindacali conservino influenza nei paesi del Nord Europa (Svezia, Danimarca, Norvegia), dove – a differenza di quanto accade in Italia – sono direttamente coinvolte nella gestione dei sussidi di disoccupazione. Il calo del tasso di sindacalizzazione è un risvolto significativo del processo di exit dalla politica che contraddistingue gli italiani degli anni Ottanta. Le tradizionali autoidentificazioni di classe vengono meno, erose dalla compenetrazione tra lavoro manuale e intellettuale nelle grandi fabbriche, dalla piccola dimensione (spesso a conduzione familiare) delle unità produttive della terza Italia dei distretti, dalla proliferazione di occupazioni temporanee e precarie. Ma, alla pari delle altre società avanzate, anche quella italiana è attraversata da intensi processi di terziarizzazione che si svolgono in parallelo alle trasformazioni del settore secondario (Figg. 1.2, 2.2). In tutta l’Europa (a 15 paesi) tra 1980 e 1993 i posti di lavoro calano di 5 milioni nel settore agricolo e di 8 milioni nel settore industriale, ma aumentano di 22 milioni nel terziario. In Italia i lavoratori dei servizi (tra cui spiccano quelli del pubblico impiego, che tra 1951 e 1993 crescono dal 7% al 18% del totale degli occupati) sorpassano quelli del settore industriale, fino a superare nel 1995 il 60% della popolazione attiva (Carboni 2002, 10). Solo in parte minore (quantificabile a meno del 10%) il nuovo terziario italiano può essere assimilato a quelli che negli Stati Uniti Robert ­­­­­120

Reich (ministro del Lavoro nei primi anni della presidenza Clinton) chiama «analisti simbolici»: operatori della conoscenza legati – anziché a competenze da assumere e ripetere, come le vecchie professioni liberali – alla intermediazione strategica, alla ricerca e allo sviluppo, ai servizi finanziari, organizzativi, commerciali alle imprese (Reich 1993; Deaglio 1991). Sono loro a incarnare la parte forse più significativa della mutazione individualista connessa alla baby boom generation. Le figure in questione costituiscono un mondo sociale molto segmentato. Esse vivono sul mercato e riescono a valorizzare tanto più pienamente le loro risorse quanto più il mercato del lavoro è libero da vincoli solidaristici e pronto a premiare il frammento differenziato di specializzazione offerto (Bagnasco 1996, 32).

In parte largamente maggioritaria il terziario italiano è invece fatto di alberghi e negozi nel settore privato e di burocrazia nel settore pubblico. Ancora nel 1991 in Italia esistono 171 negozi ogni 10 mila abitanti, contro gli 81 della Gran Bretagna, gli 85 della Germania, i 97 della Francia (Barberis 1995, 362); la crisi dei primi anni Novanta porta una contrazione delle rete distributiva (nel 2005 il numero degli esercizi fissi scende a 135 ogni 10 mila abitanti), le cui dimensioni tuttavia rimangono abbondantemente sopra la media europea. Il pubblico impiego, nelle sue articolazioni centrali e periferiche, non pare sovrabbondante in confronto a quello di altri paesi – 6,5% della popolazione totale nel 1991, contro il 9,2% della Gran Bretagna e l’8,8% della Francia –, ma gli studiosi ne mettono in luce le lacune generalizzate in materia di cultura amministrativa (l’impiego come posto fisso e non come funzione). Tra 1975 e 1990 circa il 60% dei nuovi assunti entra nelle file della burocrazia italiana non per concorso ma per sistemazione di posizioni precarie: procedura che lascia aperte le porte alla penetrazione di protezioni e clientelismi familiari, partitici, sindacali. Accanto alle piccole imprese e al terziario cresce il lavoro autonomo. Nell’arco di tempo 1980-1993 si moltiplicano per tre i liberi professionisti, per due gli imprenditori, i dirigenti di impresa e gli impiegati pubblici di qualifica medio-alta. Tra 1979 e 1990 le occupazioni indipendenti non agricole crescono in Italia (+3,4%) più che in ogni altro paese occidentale, esclusa la Gran Bretagna (dove peraltro aumentano soprattutto nel settore finanziario): nel 2000 rappresentano più di un quarto (26,2%) del totale degli occupati, ­­­­­121

il doppio rispetto a Gran Bretagna (11,8%) e Germania (10,3%) e il triplo della Francia (7,4%) (Speranza-Toussijn 1993, tab. 2.9; Ippolito 2002, 46). Per quasi metà del totale il lavoro autonomo si sviluppa nel settore dei servizi alla rete del commercio e degli alberghi, ma anche il settore agricolo – pur nel suo ridimensionamento complessivo – vive la stessa dinamica: nel 1993 i contadini indipendenti superano di un terzo i lavoratori dipendenti, ma al Nord sono tre volte di più e al Centro il doppio. Spesso (almeno nel 40% dei casi) queste piccole aziende familiari integrano al loro interno redditi agricoli ed extra-agricoli: sfumano così i caratteri tradizionali delle famiglie rurali e si accorciano le loro distanze dal resto della società (Fabiani 1995, 325 e 341). Alla fine degli anni Novanta il ceto medio indipendente (compresi i liberi professionisti) raccoglie in Italia più di un terzo degli occupati, contro una media europea che oscilla tra l’8 e il 15%, eccezion fatta per Francia (23%) e Spagna (28%) (Carboni 2002, 11). I lavoratori autonomi propriamente detti corrispondono al 24% degli occupati – e salgono al 27% se si considerano i doppi lavori – (contro il 14% della media europea) e si concentrano nell’industria delle costruzioni, nei servizi alle imprese, nel commercio e riparazioni, negli alberghi e pubblici esercizi (Guelfi-Pensa 2002, tab. 1). I riflessi comparativi sulla composizione del reddito delle famiglie sono evidenti: le entrate da lavoro autonomo sopravanzano largamente quelle di Germania e Stati Uniti (Brandolini 2009, 136). Tab. 3.1. Composizione del reddito delle famiglie (percentuali sul totale) in Italia, Germania e Stati Uniti, 2000 Italia

Redditi da lavoro dipendente Redditi da lavoro autonomo Redditi da proprietà Previdenza Assistenza sociale Affitti da abitazioni di proprietà Pensioni private Altri redditi

Germania

Stati Uniti

43,6 20,8

54,7 10,1

73,7 5,9

7,3

6,7

6,1

26,3

25,2

9,0

1,1

1,7

1,9

21,3

4,6

7,3

0,3 0,6

1,1 0,7

2,5 0,9

­­­­­122

Sovradimensionato rispetto a quello degli altri paesi, il «popolo delle partite Iva» italiano presenta livelli di istruzione inferiori (la quota di laureati è la metà della media europea) ma redditi in rapida crescita: anzi, i lavoratori autonomi dell’industria e del terziario corrispondono alla fascia sociale che tra 1993 e 2004 incrementa di più il proprio reddito, anche rispetto a imprenditori, dirigenti, liberi professionisti. Ma già nelle indagini demoscopiche condotte dal Censis nei primi anni Ottanta il lavoro indipendente (rispetto alle medie nazionali) si posiziona nelle fasce medio-superiori e superiori di reddito: il lavoro autonomo si configura come uno dei pochi canali di mobilità sociale ascendente in una società altrimenti molto statica come quella italiana. 3. Frammentazione e immobilità Il ceto medio indipendente orienta il senso comune più generale e quindi pesa più del proprio volume quantitativo, in termini di intraprendenza, dinamismo, fiducia, speranza, ottimismo, rincorsa di una qualità materiale della vita, «privatismo». La terza Italia dei microimprenditori è quindi il prodotto più vistoso della mobilitazione individualistica degli anni Ottanta, che allo stesso tempo riscopre e catalizza una «fiducia a raggio corto», aggregata attorno alla società comunitaria dei distretti. Lo Stato rimane sullo sfondo, sostituito da un patto sociale informale ma efficace su scala locale; le reti fiduciarie strette rimpiazzano il senso della cittadinanza moderna. Di questa parte di italiani Paul Ginsborg disegna un ritratto per contrapposizione etico-politica al ceto medio dipendente «riflessivo». I ceti medi, blocco centrale e decisivo della società italiana, si esprimevano con due voci molto diverse. La prima, caratteristica soprattutto dei piccoli imprenditori e dei commercianti, era localistica, consumistica, fortemente orientata all’interesse personale e a una totalizzante etica del lavoro. L’altra, prevalente tra coloro che lavoravano nella scuola e nei servizi sociali, tra le frange critiche delle libere professioni e i lavoratori salariati (tutti settori in cui si faceva sentire in maniera particolarmente incisiva la nuova presenza femminile), parlava una lingua diversa, non puritana ma critica, che non rifiutava il nuovo consumismo individualistico ma cercava di collocarlo in un contesto sociale. La prima interpretava la modernità in termini di etica del profitto e di successo personale e fami­­­­­123

liare, una sorta di distillato del thatcherismo senza la signora Thatcher. L’altra, che non aveva profeti, andava in cerca di una mediazione collettiva dei processi che stavano inquinando non solo l’ambiente ma anche la società. La prima, tenuto conto del modo in cui lo Stato e l’economia si erano evoluti in Italia, era strutturalmente molto più forte della seconda; ma era anche più assenteista, più propensa ad andare al mare la domenica che a deporre il proprio voto nell’urna (Ginsborg 1998, 129).

Ho l’impressione che questa rappresentazione dicotomica colga solo una parte della realtà. Il mondo del volontariato, ad esempio, conosce una costante ascesa quantitativa (3,2 milioni di persone nel 2001 secondo l’Istat), che non risente dell’exit dalla politica e dal sindacato dei primi anni Ottanta: dalle 8 mila onlus (organizzazioni non lucrative di utilità sociale) del 1970 alle 24 mila del 1980 e alle 122 mila del 2000. In modo particolare questa crescita si concentra nelle regioni del Nord-Est, dove dovrebbe predominare il ceto medio «non riflessivo». Secondo indagini campionarie svolte nel 2000, la graduatoria per regioni della percentuale di persone che dichiarano di partecipare alle attività del terzo settore vede ai primi posti Trentino (41,6%), Veneto (29,8%), Emilia Romagna (28,2%), Friuli (27,7%), Toscana (25,7%), Lombardia (25,2%) (La Valle 2009, 163). È una faccia positiva della mutazione individualista. Il «riflusso» si traduce in forme diverse di impegno sociale non direttamente politico, spesso riconducibili a identità religiose non strettamente legate alla dottrina ufficiale del Vaticano: una sorta di forma spuria di secolarizzazione che «crede in Dio» e «solo in parte nella Chiesa», come registrano i sondaggi d’opinione (Cesareo et al. 1995). Non sempre e non dovunque il ceto medio «non riflessivo» segue il comandamento dell’egoismo antistatale. Veneto e Friuli sono anche le regioni italiane con minor incidenza dell’evasione fiscale (Bagnasco 1996, 36-37). D’altra parte le «regioni rosse» dell’Italia centrale non rimangono indietro nella corsa ai consumi privati di massa e l’essere «riflessivo» del ceto medio che le abita non si esplica in comportamenti diversi, neanche sul piano del consumo di televisione. Nel 1995 gli abitanti del Centro Italia vedono in Tv più intrattenimento e meno informazione, meno telegiornali, meno programmi scientificoculturali di quelli del Nord-Est (www.auditel.it). I «valori» che i sondaggi d’opinione rilevano negli italiani alla fine degli anni Ottanta non sembrano particolarmente eversivi della ­­­­­124

morale civica: in ordine di preferenza, benessere della famiglia, condurre una vita sana e regolata, amicizia, possedere una casa propria, affermarsi con i propri mezzi, leggere studiare conoscere, migliorare le proprie capacità, conquistare la stima degli altri, trovare un posto di lavoro sicuro, saper risparmiare. Agli ultimi posti figurano invece condurre una vita avventurosa, avere cariche e responsabilità pubbliche. Il dinamismo della mutazione individualista incontra un limite nel conformismo della tradizione. Ma soprattutto non si divide lungo linee di classe. Operai e ceti superiori, infatti, condividono l’insieme di questi valori, con piccole devianze: le operaie preferiscono avere più tempo libero dal lavoro rispetto alle donne del ceto superiore (più simili in questo ai loro mariti), i maschi dei ceti superiori danno meno importanza al possesso dell’abitazione e all’avere figli. Allo stesso modo gli stili di consumo – da quello di massima ostentazione a quello di rifiuto critico del consumismo, passando per tutta la gamma di gradazioni intermedie – si distribuiscono in tutte le condizioni sociali, dall’imprenditore al pensionato. All’inizio degli anni Novanta nel ceto operaio, ad esempio, si trovano rappresentati in misura pressoché paritaria entrambi gli estremi: la penetrazione di modelli culturali si affianca alla condizione economica e alla concreta disponibilità di risorse nel dettare stili di vita e comportamenti di consumo. Nella struttura di spesa delle famiglie rilevata al 1989 il peso esercitato dalle spese per istruzione, cultura e divertimenti è tra i lavoratori dipendenti (7,1%) poco lontano da quello tra gli imprenditori e i liberi professionisti (7,8%) e ancora comune è la tendenza alla crescita di questa voce di spesa. Ma nei due ceti sociali la quota destinata alle spese alimentari (indicatore preciso del livello di reddito) è assai diversa (22,6% contro 16,8%): altro segnale che gli stili di vita rispondono non soltanto alla collocazione sociale ma anche a modelli culturali. Come mostra la mappa sinottica dell’Eurisko (Fig. 2.3), valori e comportamenti (diffusi principalmente dalla televisione commerciale) attraversano i confini di classe, reddito e ideologia. Anche le scelte elettorali rappresentano sempre meno il riflesso immediato della condizione lavorativa e sociale. Analogamente a quanto accade all’estero, l’appartenenza di classe esercita un’influenza decrescente sul voto: in Italia soprattutto a partire dal 1976. Gli operai italiani, che nel 1983 votano al 69% per i partiti di sinistra, nel 2008 votano al 60% per le liste di centrodestra (Feltrin 2010). ­­­­­125

Valori, stili di consumo, comportamenti elettorali lasciano intravedere una destrutturazione molecolare delle classi sociali, fino al punto da rendere alquanto obsoleti i tentativi di classificazione che si muovono nella scia delle categorie a suo tempo proposte da Sylos Labini (1974): borghesia, piccola borghesia, ceto medio, classe operaia. Ciascuna di queste etichette copre ormai un arcipelago di percorsi e condizioni in cui il rapporto con il proprio lavoro rappresenta solo uno dei motivi identitari: non più l’unico e forse nemmeno il prevalente, accanto ad altri fattori che crescono di importanza nel dettare scelte e comportamenti sempre più individuali (valori materialisti e post-materialisti, uso del tempo libero, forme di socialità). Le persone si ridefiniscono in base non più soltanto all’occupazione professionale, ma anche al capitale (sociale, culturale, simbolico) da esse in vario modo incorporato. Le loro forme di impegno civile (ambiente, pace, parità sessuale) si dividono lungo linee sempre più estranee alla condizione lavorativa. Il lavoro su cui si fonda la Repubblica italiana deve ormai essere declinato al plurale: è il tempo della «società dei lavori». Tuttavia è bene chiarire che frammentazione e individualismo in Italia non significano mobilità. Le ricerche sulla mobilità sociale svelano infatti il quadro di un’Italia pittosto statica rispetto al quadro europeo: sono comparativamente più basse sia le opportunità di carriera «intragenerazionali» (cioè guadagnate all’interno di ogni singola vita lavorativa) sia quelle «intergenerazionali» (cioè il cambio di status rispetto alla professione del padre grazie all’aumento di scolarità). Famiglie di origine e giovani «bamboccioni» che vi rimangono a lungo giocano un ruolo importante nella trasmissione ereditaria di mestieri e condizioni. Fanno eccezione i movimenti dalla classe operaia rurale verso il ceto medio urbano e impiegatizio, così come quelli dalla classe operaia urbana verso la piccola borghesia urbana, intesa soprattutto come lavoro autonomo nel commercio e nell’artigianato: fetta decisiva nello sviluppo della terza Italia (Cobalti-Schizzerotto 1994). Eppure agli inizi degli anni Novanta la percezione degli italiani appare tutta diversa: i figli convinti di fare un lavoro migliore di quello del padre sono la maggioranza (53,3%, di cui il 22,1% crede di fare un lavoro «molto migliore»), contro una ristretta minoranza (12,3%) che pensa di essere andata a peggiorare. Nelle loro traiettorie professionali gli italiani del ceto medio indipendente fanno da sempre affidamento sull’indifferenza di uno Stato che non li sostiene né li incoraggia (in formazione, sussidi, ­­­­­126

coperture assicurative, incentivi), ma è ben disposto a chiudere più di un occhio in materia di imposizioni e accertamenti fiscali. È un patto al ribasso – scarsa qualità dei servizi pubblici a fronte di tolleranza nei confronti dell’evasione – che da sempre incoraggia l’arte di arrangiarsi e il «fai da te». Ancora nel 2006 più di un quarto degli imprenditori e professionisti italiani dichiara al fisco redditi inferiori alla cifra irrisoria di 6 mila euro, mentre a dichiarare quelli superiori a 100 mila euro sono soltanto lavoratori dipendenti (Chiesi 2009, 65). Per lungo tempo, almeno dagli anni Cinquanta, il consenso alla Democrazia cristiana nasce da qui: bassa produttività del lavoro manuale e intellettuale, basso livello dell’intervento regolatore delle istituzioni nella vita civile (fisco, urbanizzazione, politiche industriali), Stato sociale particolaristico fondato sulle mutue corporative, occhio di riguardo per il pubblico impiego. Particolarmente vistoso nel Meridione – dove nel 1990 al 36% della popolazione corrisponde il 35% della spesa pubblica ma solo il 18% delle entrate fiscali (Trigilia 1995, 755) –, questo patto al ribasso prevede la debolezza strutturale dello Stato: secondo le stime Istat, la percentuale di economia sommersa in Italia (che è in crescita costante dal 1960, come in tutto il resto dei paesi ricchi) negli anni Duemila oscilla tra il 15 e il 20% del Pil ed è tra le più alte nell’ambito dei paesi Ocse, seconda soltanto alla Grecia. Solo in parte l’evasione può essere considerata una forma di voice, di protesta contro il peso dell’imposizione fiscale. Nel 2000 la Svezia ha le tasse di gran lunga più alte d’Europa (53% del prodotto lordo) e un peso del sommerso inferiore a quello italiano; tra 1996 e 2000 l’Austria sopporta un carico fiscale superiore a quello dell’Italia (45% contro 43%) e ha un’economia sommersa pari al 7-8% del prodotto lordo. Secondo le stime dell’Istat, il sommerso italiano nasce per due terzi dalla sottodichiarazione del fatturato di attività regolari e per un terzo dall’assunzione di lavoratori al nero: il suo peso è infatti più significativo in agricoltura e nel terziario. In buona sostanza la scelta di exit dagli obblighi contributivi rappresenta quindi una rottura consapevole e reciproca (tra datore di lavoro e lavoratore) del patto di cittadinanza: «un vasto movimento di fuga dalla normazione universalistica, di defezione dai sistemi sociali che la incorporano [...] e di recupero di valori particolaristici» (Gallino 1982, 32). È questo un aspetto tradizionale dello sviluppo nel nostro paese (almeno a partire dall’epoca del boom), ma anche un’altra faccia – tutta negativa e contigua alla dimensione della criminali­­­­­127

tà organizzata – della mutazione individualista: discende cioè dalla medesima ricerca di benessere personale, sganciata da ogni progetto collettivo di futuro. Il ricorso all’economia informale esprime così nello stesso tempo un aspetto di dinamismo soggettivo e una forma di degrado e precarietà della condizione lavorativa: senza interventi di qualificazione professionale della forza lavoro sono rari i passaggi dal settore informale a quello formale della vita produttiva. Il Rapporto 1986 dell’Eurisko registra un 35% di italiani (45% al Sud) che ritiene i connazionali «non molto» o «per nulla» affidabili, contro il 16% degli spagnoli e il 25% dei greci. Fra tutti i retaggi che pesano negativamente sull’attuale società italiana dovremmo porre al primo posto la cultura della diffidenza, dalla quale è plasmata quasi geneticamente la mente di ognuno di noi. L’indagine conferma che gli italiani, nella grande maggioranza, hanno poca fiducia in se stessi, meno ancora negli altri, poca nelle istituzioni pubbliche, pochissima nei sindacati e nei partiti [...] Siamo un popolo di santi, di eroi, di artisti, di improvvisatori, di ingegnosi arrangiatori e soprattutto di furbi: la furbizia consiste appunto nel pensare che gli altri approfitterebbero di noi se non approfittassimo prima degli altri. L’humus su cui cresce questa cultura popolare è profondo (Calvi 1986, 11).

L’assenza di «società stretta» (per dirla con Leopardi) è anche un effetto di questo patto sociale al ribasso stretto tra Stato e ceti medi, che presenta dei gravi costi in prospettiva. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta il tasso di disoccupazione giovanile (tra i minori di 25 anni) risulta essere quasi triplo rispetto alla media nazionale: nel 2000 è di gran lunga il più alto in Europa (30,6% contro il 9,1% della Germania, il 19,7% della Francia, il 12,3% della Gran Bretagna). Fra tutti i paesi sviluppati l’Italia è quello più segnato da una disoccupazione socialmente connotata, escludente e segregata, che colpisce in modo particolare giovani e donne: nel 1990 il tasso di occupazione di queste ultime è pari al 29%, contro il 40% della Francia, il 48% della Gran Bretagna, il 52% della Germania. Questa fisionomia punitiva della disoccupazione italiana rappresenta il prezzo pagato ad una politica sociale dello Stato ma anche ad una strategia sindacale: entrambe sono infatti volte a proteggere gli occupati, attraverso una spesa pubblica che, rispetto al resto dei paesi sviluppati, appare fortemente sperequata verso il sistema pensionistico e – caso abbastanza unico – non prevede sussidi né per la disoccupazione né per chi è in cerca ­­­­­128

di prima occupazione. Il sistema non esplode perché, come al solito, le lacune dell’intervento statale sono compensate dalle famiglie: nel 1982 il 90% dei giovani maschi sotto i 25 anni abita con i genitori (contro il 43% della Germania, il 52% della Francia, il 58% della Gran Bretagna). Dieci anni dopo le cose peggiorano dappertutto e le percentuali rispettive si alzano ulteriormente: 94% in Italia, 69% in Germania, 62% in Francia, 67% in Gran Bretagna. In questo arco di tempo cresce da un terzo a metà la quota di giovani italiani che, pur rimanendo in famiglia, tiene i soldi per sé: la famiglia «lunga» (perché i figli se ne vanno più tardi) e «sottile» (perché espelle gli anziani dal suo seno) diventa una famiglia contrattata. Piuttosto che rafforzare la coesione domestica, la convivenza prolungata genera quindi insoddisfazione e irresponsabilità reciproca tra le generazioni: una condizione puntualmente confermata dalle inchieste a campione (Cavalli 1995; Di Nicola-De Bernart 1995). 4. Mutazione individualista e neotelevisione Nel corso degli anni Ottanta l’ineguaglianza dei redditi comincia a riflettersi in una divaricazione dei consumi e degli stili di vita. In particolare la quantità di tempo trascorso davanti alla televisione smette di essere un fattore unificante della società italiana, senza conoscere differenze di reddito e istruzione, e diventa invece inversamente proporzionale ai livelli di capitale sociale: più sono bassi e collegati a modalità separate e domestiche di esistenza (casalinghe, pensionati), più cresce l’ascolto televisivo. Al contrario, il minor consumo televisivo (unito a un più elevato consumo di libri, dischi, giornali, cinema) si trova nelle fasce più alte di reddito e istruzione: nell’ordine, imprenditori e professionisti, lavoratori autonomi, dirigenti e impiegati (Scamuzzi 1993, 212-213). La distribuzione del consumo televisivo somiglia così ai gradini di una scala modulata secondo una gerarchia abbastanza chiara di livelli di reddito e di istruzione. Piuttosto che riflettere una rigida stratificazione di classe e tantomeno una polarizzazione tra massa ed élite, la differenza tra consumi culturali plurali o monopolizzati dalla televisione sembra disporsi anche lungo le linee dinamiche degli atteggiamenti degli italiani disegnate dalla mappa Eurisko tra diverse coppie di estremi: protagonismo e marginalità, egoismo e sensibilità, azione e inerzia, egocentrismo e donazione agli altri. Grosso modo la ­­­­­129

Tab. 3.2. Percentuale di spettatori abituali (più di due ore al giorno) e di non lettori (meno di un libro/anno) per categorie, 1986 Tv

Libri

Imprenditori e professionisti Lavoratori autonomi

42,3 48,7

38 66

Dirigenti e impiegati

47,9

42

Operai e assimilati

54,9

71

Pensionati

65,1

66

Casalinghe

69,0

50

Studenti

69,7

33

Disoccupati

71,7

42

Laureati

40,4

23

Diplomati medie superiori

53,1

41

Diplomati medie inferiori Licenza elementare

62,9 63,9

63 84

dipendenza dalla televisione sta più vicina ai secondi poli dell’opposizione e decresce gradualmente man mano che ci si avvicina all’altro estremo. Perché la capacità di modulare attivamente l’uso del tempo libero e di sviluppare consumi culturali diversificati (e di obbedire meno al riflesso condizionato e passivo del telecomando) dipende abbastanza chiaramente dal grado di scolarizzazione e dalla quantità e qualità di vita associata. La sovrapposizione con determinate condizioni a basso capitale sociale può essere abbastanza precisa (come nel caso di pensionati, casalinghe, studenti), ma non stringente né esatta quando si parla di altre condizioni lavorative. Perché torna a farsi valere la circostanza degli usi plurali possibili sia del piccolo schermo sia del tempo libero e quindi di un variare del rapporto con esso relativamente indipendente dallo status socioeconomico. La neotelevisione diventa una sponda significativa e determinante – forse l’unica – del processo molecolare di individualizzazione della società italiana. Dal punto di vista del medium, la saturazione del mercato domestico si è compiuta già nel corso degli anni Settanta, spianando la strada al cambio degli apparecchi in bianco e nero con quelli a colori: nel corso degli anni Ottanta la quota di famiglie che effettua il cambio sale dal 26 all’86% (Fig. 1.1). Negli stessi anni si avvia la corsa alla raccolta pubblicitaria per opera della ­­­­­130

Rai in forma di «guerra preventiva» contro i concorrenti privati. Nel 1980 la Tv di Stato italiana dedica alla pubblicità una quota di tempo simile a quella delle altre «sorelle» europee, ma gli introiti che ne derivano coprono solo il 20% delle entrate (contro il 60% della Francia, il 38% della Germania, il 25% dell’Olanda) a causa di tariffe più basse concesse agli inserzionisti grazie ai proventi del canone (Carcano 1981, 191). Tra le resistenze all’adozione di una normativa antitrust in campo televisivo vanno messe anche quelle della Rai: il vantaggio competitivo assicurato dalla tassa sul possesso del televisore si giustificherebbe male in un quadro di concorrenza regolata. Meglio allora il Far West che una messa in discussione del canone: calcolo miope che quasi subito si ritorce contro la stessa Rai, costretta a rincorrere il mercato pubblicitario, con effetti distorsivi su tutto il sistema italiano dei media (Tab. 2.3). Per la comunicazione commerciale televisiva significa un salto di qualità: la sequenza degli spot impone un confronto ravvicinato tra marche di prodotti che ne esaspera tutti gli aspetti di incorporazione di status symbol e nello stesso tempo marcia al passo della mutazione individualista. Rispetto alla reazione critica di metà anni Settanta, la prima parte del decennio successivo vede l’avvio di un ciclo diametralmente opposto di calo progressivo della diffidenza nei confronti della pubblicità. A guidare questo mutato atteggiamento sono i giovani, interpreti di una nuova soggettività che rompe gli argini del risparmio familiare e disintegra la gerarchia unica dei beni acquistabili secondo il loro valore d’uso. La marca, la griffe, diventa valore di scambio: sinonimo di stile di vita e simbolo identitario. Nel 1990 quasi tre quarti delle famiglie italiane comprano acqua minerale in bottiglie, anche se meno di metà ha un conto corrente e meno di un terzo possiede un abito confezionato su misura (Pittau 2000, 54). Nel mutato ambiente competitivo degli anni Ottanta la marca (e quindi la pubblicità) assume una doppia valenza strategica: da un lato offre un contenuto valoriale aggiuntivo a quello materiale che viene speso, nei confronti del consumatore, come elemento di competizione no price, come arricchimento del patto fidelizzante; dall’altro rappresenta una cintura di protezione contro la pretesa delle catene distributive di trasferire in un’immediata contropartita monetaria la propria forza negoziale; in quanto legame diretto con il consumatore, infatti, la marca costituisce un vincolo per la catena che vuole accreditarsi come luogo commerciale autorevole e completo (di assortimenti). La seconda condizione che, ac­­­­­131

canto allo sviluppo della distribuzione organizzata, sospinge gli investimenti alla marca, è l’atteggiamento dei consumatori. Anche prima degli anni Settanta i consumi hanno esplicato funzioni di integrazione sociale attraverso un’educazione simbolica: si pensi ai beni dell’infrastruttura domestica (auto, frigo, lavatrice) che negli anni Cinquanta fungono da simboli certificanti della cittadinanza. Negli anni Ottanta questa missione dei consumi cresce: mentre in passato la loro funzione simbolica agiva da complemento subordinato di altri istituti di educazione sociale (la religione, la scuola, i partiti: in generale, la tradizione), ora i consumi sono proiettati (per cause molteplici: il dissolvimento delle tradizioni, la complessità della vita urbana, la complicata varietà dei ranghi professionali, la secolarizzazione) a un ruolo di primo piano sia come modelli di orientamento in un paesaggio sociale turbolento, sia come sorgenti affettive. Questo ruolo, che sfugge alla materialità del prodotto, tocca alla duttilità cognitiva della marca: la pubblicità degli anni Ottanta non vende ai consumatori, nel suo patto fiduciario, solo prestazioni tecniche e cognizioni pratiche, ma offre soprattutto chiavi di interpretazione (know how sociale, posizionamenti interpersonali, visioni del mondo, scale di valori) per una vita collettiva insieme sfuggente e intricata, che sempre meno le tradizionali fonti di autorità riescono a intendere, a rappresentare e a indirizzare (Pilati 1994, 252-253).

Paradossalmente la rottura del monopolio e la fioritura del pluralismo televisivo si svolgono all’insegna di un binomio televisione-pubblicità che frammenta i generi e appiattisce le differenze. L’interscambio di programmi (come Dallas) e di conduttori (Bongiorno è solo il primo a passare a Canale 5, nel 1979) mette in luce come quel binomio riduca le distanze tra Tv pubblica e Tv privata. La traiettoria seguita da Berlusconi appare di tipo giapponese: rincorsa del modello Rai per efficienza e serietà, concorrenza senza quartiere per le risorse (Ortoleva 1995, 82). Ancora non si vede, ma la traiettoria sarà convergente anche per quanto riguarda la ricerca di protezioni politiche: punto costitutivo di partenza per la Rai, spregiudicato e opaco rapporto strumentale nonché punto di arrivo per Berlusconi. Ma le reti Rai e quelle Fininvest appartengono entrambe alla Tv commerciale, la cui ragione sociale è vendere spettatori agli inserzionisti pubblicitari. È una logica inesorabile, cui la Rai si sottomette prima ancora di affrontare la competizione con l’emittenza privata. In parallelo all’exit dalla politica e alla crisi dei tradizionali soggetti di nation-building (istituzioni, partiti, Chiese), il binomio ­­­­­132

televisione-pubblicità trasforma l’opinione pubblica in opinione di massa e la società civile in società di mercato, composta da individui isolati e passivi o, per meglio dire, attivi sul piano collettivo solo in quanto consumatori: conformisti e separati gli uni dagli altri. Gli italiani si fanno, resta da fare (nel senso che non c’è più) l’Italia. È un processo quasi diametralmente opposto quello raccontato da Alberto Sordi su Rai2 con Storia di un italiano (1979) attraverso il montaggio di spezzoni dei suoi film con documentari d’epoca. I personaggi di Sordi sono infatti rappresentazioni di passaggi storici della nazione e di stereotipi del genio italico: nel (poco) bene e nel (molto) male hanno sempre a che fare con una dimensione collettiva della convivenza civile. Anche il consumismo americanista più esasperato – come quello di Un americano a Roma (1954) – viene preso in giro da un punto di vista moraleggiante e tradizionalista (Patriarca 2010, 251-252). Viceversa la scomposizione operata dal binomio televisione-pubblicità rompe proprio il nesso etico e intellettuale tra individuo e società, tra comportamenti personali e storia nazionale, tra presente e passato: i primi sono autorizzati a sentirsi finalmente e del tutto indipendenti dai secondi. La Tv commerciale presiede alla formazione di una nuova antropologia, che intacca e incrina precisi valori culturali e civici: la qualità dei programmi, il pluralismo delle identità, la partecipazione comunitaria, la libera creatività di bambini e giovani (Blumler 1992). Al tempo stesso la scomposizione tra individui e società travalica i confini della comunicazione commerciale e detta i contenuti del palinsesto. Non si tratta solo di sit-com: tra 1983 e 1995 i programmi che hanno per oggetto la vita quotidiana delle famiglie conoscono un aumento costante, trainato da Canale 5. Il loro minimo comun denominatore risiede nel rapporto di prossimità e convivialità instaurato con il pubblico: la televisione rispecchia la mutazione individualista in atto nella società italiana e assegna all’audience un ruolo attivo crescente nella definizione dei contenuti. Il «saper vivere» raccontato prevale sulla cultura e sulla conoscenza, l’italiano medio vive l’illusione di un nuovo protagonismo attraverso il mezzo televisivo. La corrida (1986), che su Canale 5 traduce in immagini un fortunato programma radiofonico degli anni Sessanta, è il prototipo di trasmissione che attenua i filtri dell’accesso aprendo il palcoscenico a dilettanti allo sbaraglio (cantanti, attori, imitatori...) direttamente giudicati dal pubblico in sala. La televisione si trasforma in arena ­­­­­133

collettiva, lo spettatore diventa un esperto in grado di valutare, il «divo» di turno è impersonato da un essere umano senza qualità. È un genere che si presta a variazioni infinite: M’ama non m’ama (1983), Il gioco delle coppie (1985), C’eravamo tanto amati (1989) sul motivo agenzia matrimoniale, Forum (1985) che si occupa delle beghe di condominio, Aboccaperta (1984) con Gianfranco Funari, OK il prezzo è giusto (1983), dal 1987 condotto da Iva Zanicchi. La «mediocrità assoluta» dei conduttori di questi programmi è molto diversa da quella descritta da Umberto Eco per Mike Bongiorno: somigliano infatti a «domatori» da circo che spesso aizzano i sentimenti più forti (rabbia, aggressività, lacrime...) dei loro ospiti in trasmissione, esasperando il lato peggiore e più maleducato dell’identificazione degli spettatori con i protagonisti del video, della vita con la televisione. Per molti aspetti la storia personale di Silvio Berlusconi è la storia di un italiano e di un interprete della mutazione individualista. La sua ascesa nell’emittenza privata prende avvio dall’acquisto del magazzino della Titanus: 500 film che compongono il patrimonio iniziale di contenuti del network che fa capo a Telemilano, fondata nel 1974 come televisione via cavo del centro residenziale Milano Due (realizzato dallo stesso Berlusconi nel comune di Segrate, alle porte del capoluogo). Questo trampolino viene usato per una scommessa avventurosa che nessun altro imprenditore approdato al settore ha il coraggio di fare: puntare scopertamente alla conquista di una posizione di monopolio nella televisione non statale, sfidando la normativa esistente e contando sull’assenza prolungata di una legge antitrust. A differenza di tutti gli altri, Berlusconi è convinto che una regolamentazione antitrust non arriverà mai e che la posizione di monopolio raggiunta sul campo non potrà mai essere scalzata da una nuova legge. Chiave di volta decisiva per la scalata è la creazione di Publitalia nel 1979. Fino a questo momento la Rai e le televisioni locali ed estere si sono affidate a concessionarie esterne, mentre la Fininvest (holding che raccoglie tutte le attività di Berlusconi) non solo internalizza con Publitalia il ruolo della raccolta pubblicitaria, ma introduce un’innovazione decisiva. La nuova agenzia non si limita a vendere spazi temporali della programmazione televisiva, ma si propone come partner dell’inserzionista, personalizzando le forme di comunicazione e sponsorizzazione: in Superflash (1982) è Mike ­­­­­134

Bongiorno stesso a reclamizzare il prodotto. Non solo: Publitalia accetta di condizionare il pagamento di una parte degli spazi al raggiungimento degli obiettivi di vendita dell’inserzionista (Pilati 1994, 246-247). Dai 12 miliardi di lire raccolti nel primo anno di attività, Publitalia decolla ai 201 del 1982: il suo ritmo di crescita è pari a quattro volte quello della Rai. È questa velocità che permette nel 1983 a Berlusconi di acquistare per la cifra di 35 miliardi la rete Italia 1, costituita appena l’anno prima da Rusconi. A sua volta il raddoppio degli spazi televisivi rende irresistibili in termini di sconti quantità e di costi-contatto (la spesa necessaria per raggiungere uno spettatore) le proposte di Publitalia: è questa la leva che permette a Berlusconi di rastrellare gli introiti da pubblicità e di strangolare ogni concorrente. Nel 1984 l’acquisto per 130 miliardi di Rete 4 (creata nel 1981 da Mondadori) chiude il cerchio: nello stesso anno gli investimenti raccolti da Publitalia superano quelli della Sipra (la concessionaria Rai per la pubblicità). Tra 1980 e 2000 la quota destinata alla Rai degli investimenti pubblicitari totali cala dal 55 al 33%; quella di Fininvest sale dal 20 al 62%. I tentacoli del gruppo arrivano anche alla stampa: nel 1988 Fininvest acquista il quotidiano «il Giornale», nel 1989 la maggioranza del gruppo Mondadori (leader nel mercato dei settimanali e dei libri). Lo snodo politico decisivo per questa ascesa monopolistica avviene nel 1984 per mano del governo presieduto dal leader socialista Bettino Craxi. Alcuni pretori oscurano le emittenti di Berlusconi, in ossequio alle sentenze della Corte costituzionale del 1976 e del 1981, che auspicavano una regolazione legislativa antitrust e consentivano televisioni private soltanto a carattere locale. Il potere politico interviene allora per annullare il provvedimento, sull’onda della rivolta del «popolo dei puffi»: le famiglie italiane protestano contro il «licenziamento» in tronco della babysitter ausiliare e gratuita incarnata dalle trasmissioni pomeridiane della Tv privata (Guzzanti 1984). Il cosiddetto decreto Berlusconi legittima la violazione della legge operata dai network televisivi di sua proprietà, blocca l’autorizzazione di nuove emittenti locali, ribadisce i limiti alla raccolta pubblicitaria della Rai: contro la Costituzione, il governo italiano riconosce e sanziona un’assoluta anomalia nel panorama dei paesi occidentali e dei loro sistemi mediatici. Il rapporto di amicizia e di scambio tra Craxi e Berlusconi non rappresenta niente di nuovo nella storia italiana di lungo periodo delle ­­­­­135

relazioni tra potere economico e potere politico. Da sempre le grandi imprese – radicalmente diverse sono invece le condizioni in cui operano le piccole – prosperano all’ombra delle protezioni e dei favori accordati dalle istituzioni. Eppure Craxi, con la propria iniziativa modernizzatrice, si troverebbe nella posizione ideale per rappresentare al meglio i processi sotterranei che trasformano la società italiana in senso individualistico. Non vi riesce per due sostanziali ragioni di fondo. La prima è esemplificata proprio dal caso Berlusconi. Con le forze emergenti e dinamiche dell’imprenditoria privata e del lavoro autonomo il gruppo dirigente socialista intrattiene un rapporto non dissimile da quello tradizionalmente esercitato dalla Dc: un rapporto di scambio particolaristico tra favori e consenso. Non possiede la capacità di elaborare un progetto politico organico di nuova rappresentanza politica (cioè collettiva e non particolaristica) di questi interessi in formazione. Nessuno dei partiti – il Psi non fa eccezione – ha la minima percezione del mutamento che si sta preparando e soprattutto confida nella continuità e nella perdurante forza del sistema politico. Non si tratta di una convinzione peregrina. Senza la fine della guerra fredda molto difficilmente la crisi dei partiti italiani all’inizio degli anni Novanta – che oggi col «senno di poi» appare così evidente – avrebbe assunto aspetti così traumatici e catastrofici. La seconda ragione, strettamente collegata alla prima, è che Craxi non riesce a realizzare la pars construens del progetto neoliberista e ad esprimere una reale alternativa ai metodi democristiani di governo. La più evidente conferma di questa incapacità è data dall’esplosione del debito pubblico, che tra 1981 e 1991 quasi raddoppia di volume (dal 61 al 104% del Pil). L’offensiva antisindacale realizzata con il congelamento della scala mobile non si coniuga al rigore nell’erogazione della spesa pubblica e all’affermazione del valore della libera concorrenza: corporazioni e ordini professionali, «lacci e lacciuoli» restano al loro posto in un mercato poco libero. E anche la mafia: i primi anni Ottanta vedono la sanguinosa ascesa del gruppo dei corleonesi, che si afferma attraverso una lunga serie di omicidi eccellenti, tra cui quello del generale Dalla Chiesa (1982), inviato in Sicilia per ripetere i successi della lotta al terrorismo ma lasciato solo dalle istituzioni, profondamente inquinate dalle ambiguità e dalle connivenze mafiose della corrente democristiana capeggiata da Andreotti. L’incapacità di Craxi nel raccogliere le spinte della società civile sta dunque nella natura tradizionalmente ed esclusivamente politica del ­­­­­136

suo progetto: invertire la tendenza bipolare degli anni Settanta e fare spazio al proprio partito nei meccanismi usuali di governo (e sottogoverno) modellati nel tempo dalla Democrazia cristiana. Le riforme costituzionali invocate allo scopo di un’attenuazione dei poteri del parlamento, la minaccia frontista di un ritorno all’unità d’azione con il Partito comunista, la stessa libertà di antenna procurata all’amico, hanno in realtà una valenza esclusivamente tattica nel quadro di una trattativa di potere con la Dc. Laddove Craxi interviene meno pesantemente – ad esempio nel settore della carta stampata – gli effetti non sono così devastanti: il quadro della stampa quotidiana nazionale non sembra infatti soffrire della pronunciata tendenza alla concentrazione monopolistica del settore televisivo. Nell’Italia degli anni Ottanta non si verificano ascese impressionanti di editori di carta, come quelle di Rupert Murdoch in Gran Bretagna e di Robert Hersant in Francia, né si registrano situazioni di sostanziale duopolio come quella della stampa quotidiana tedesca, divisa tra i gruppi Springer e Bertelsmann. Un grossolano indice di concentrazione industriale (dato dalla quota di mercato coperta dai due maggiori gruppi editoriali della stampa quotidiana) pone l’Italia agli ultimi posti in Europa, anche dopo che nel 1984 l’acquisizione del gruppo Rizzoli da parte della Fiat ha concentrato nelle mani di Agnelli «Stampa» e «Corriere della Sera». Alla televisione pubblica, invece, dopo il decreto Berlusconi non rimane scelta: accettare la resa e venire a patti con il concorrente privato che nel giro di pochissimi anni ha stravolto l’intero settore. Nel 1984 la Rai, le aziende che investono in pubblicità raccolte nell’Upa (Utenti pubblicità associati) e le emittenti private locali e nazionali danno vita all’Auditel, che raccoglie i dati sulle abitudini di consumo televisivo di un campione di famiglie italiane (dalle 600 iniziali alle circa 5 mila attuali). Nel 1986 si raggiunge un accordo che fissa un tetto orario comune per una presenza di pubblicità pari al 16% del tempo di programmazione. Nel 1989 il bilancio Fininvest (1.079 miliardi di lire) si avvicina a quello Rai (1.198), che tuttavia moltiplica per poco più di una volta il costo delle attrezzature, mentre la prima riesce a moltiplicarlo per più di 11 volte (Gambaro-Silva 1992, 41). Nel 1990 la legge Mammì (dal nome dell’allora ministro delle Poste e telecomunicazioni), varata dopo un lungo scontro politico – cinque ministri della sinistra democristiana si dimettono –, fotografa la situazione esistente: un tetto antitrust ridicolo (tre reti nazionali), ­­­­­137

senza paragoni nel mondo sviluppato, accompagnato dal divieto di possesso di quotidiani nazionali (prontamente aggirato da Berlusconi con la vendita del «Giornale» al fratello Paolo), un limite agli spot pubblicitari, fissato al 12% orario per la Rai e al 18% per le reti Fininvest, facoltà di trasmissioni in diretta per le televisioni private. La situazione in Italia era complessa sulla carta, ma in pratica indubbiamente assai liberale. La proprietà di più reti televisive era consentita da una nuova legge emanata nel 1990 fino a non più di tre canali diffusi su scala nazionale. Come si è visto, dal 1976 era esistito un vuoto legislativo più o meno totale. Solo alla fine la Corte costituzionale era riuscita a far approvare un provvedimento legislativo. Ma nel frattempo gli interessi privati avevano avuto corsa libera. In particolare, Berlusconi aveva conseguito il controllo dell’intero settore televisivo commerciale, arrivando a possedere integralmente tutti e tre i maggiori network nazionali privati. Quando entrò finalmente in vigore, la legge si limitò a decretare il fatto compiuto, permettendo a Berlusconi di conservare il proprio monopolio del settore privato (Humphreys 1996, 219).

Il nuovo regime di duopolio pubblico/privato instaura una competizione esasperata sul piano della ricerca di pubblico da investire con la pubblicità. Gli spettatori della prima serata – che scendono dai 20 milioni del 1970 ai 14 milioni del 1974 – risalgono rapidamente ai 20 milioni del 1984 fino ai quasi 25 del 1995. Il tempo medio trascorso davanti alla Tv aumenta da 173 minuti nel 1988 a 214 nel 1995. Lo share medio annuo (la quota percentuale di spettatori) dei canali Fininvest sale dal 40% del 1987 al 43% del 1992: Rete 4 con quasi il 20% è l’ammiraglia del gruppo e nel 1992 supera per la prima volta Rai1. Tra 1987 e 1992 l’offerta giornaliera di programmi di Rai1 e Rai2 (al netto delle interruzioni pubblicitarie) cresce da 15 a 22 ore; quella di Rete 4 e Canale 5 (dal 1980 nuovo nome di Telemilano) da 15 a 19 ore (Anania 1997, 149). La televisione si allarga a coprire l’intero arco della giornata e conquista nuove fasce di pubblico: in particolare i canali Fininvest scoprono e colonizzano la fascia di età tra 4 e 14 anni con programmi pomeridiani – I Puffi (1983) – e mattutini pre-scuola. Nel 1982 Canale 5 organizza il Mundialito di calcio, primo evento sportivo in Italia ad essere interamente predisposto in funzione della ripresa televisiva: al telecronista si affianca un ex calciatore, interviste a bordo campo e in tribuna coprono i tempi morti. ­­­­­138

Più di così non si sa cosa chiedere a una telecronaca. Interviste prima della partita, nell’intervallo, dopo, grande prontezza nei dettagli da inquadrare, uso appropriato del replay da almeno tre angolazioni, 12 telecamere in funzione più una sospesa a 43 metri sul campo (molto utile) (Mura 1987).

La logica inesorabile della neotelevisione commerciale contagia anche la terza rete Rai, che comincia a trasmettere alla fine del 1979. Una volta superate le difficoltà infrastrutturali di diffusione del segnale, che si protraggono a lungo, la fortuna di Rai3 non appare legata al progetto originario di regionalizzazione – destinato anzi a un sostanziale fallimento (almeno sul piano di un effettivo decentramento degli assetti istituzionali), solo in parte compensato dall’avvento dei telegiornali regionali – bensì a una sostanziale novità dell’offerta. Il processo del lunedì (1980), Telefono giallo (1987), Chi l’ha visto? (1989) sono programmi che rispondono a una filosofia dell’accesso e di «Tv-verità» volta alla messa in scena diretta della società italiana: «la nuova forma di romanzo popolare» la definisce il critico letterario Angelo Guglielmi, che dal 1987 dirige la rete. Come nella stagione originaria delle radio libere, il telefono rappresenta lo strumento di una partecipazione degli spettatori che rende bidirezionale il processo della comunicazione. Ma a ben vedere, seppure raggiunto per via giornalistica, l’effetto non è molto diverso da quello ottenuto dalla soap opera con la fiction e dalla pubblicità con i suoi spot: lo spezzettamento individuale del tempo e della storia, la perdita di un senso collettivo dell’esistenza e del futuro. Che si tratti di calcio, di casi giudiziari irrisolti o di persone scomparse, il messaggio di spoliticizzazione non cambia. La cosa interessante (inquietante) è che questo messaggio riguarda in modo trasversale sia reti che producono in autonomia più di due terzi del proprio palinsesto (come quelle Rai e Canale 5), sia reti che acquistano da fuori i quattro quinti della propria programmazione (come Rete 4 e Italia 1) (Gambaro-Silva 1992, 230). La colonizzazione televisiva del tempo domestico della mattina trova un battistrada-rompighiaccio in Pronto Raffaella (1983), strumento principe della controffensiva di Rai1 contro le reti private. Lo studio è arredato come un qualunque salotto di appartamento privato con vista su Roma e Raffaella Carrà (vecchia conoscenza del pubblico) conduce il programma come una padrona di casa amica di tutti. Il quiz erudito di Mike Bongiorno si volgarizza in un gioco ­­­­­139

casuale alla portata di ciascuno: indovinare quanti fagioli ci sono dentro a un barattolo. È ancora il telefono a rappresentare il veicolo di un’interazione con gli spettatori da casa (in studio non c’è pubblico), garantita dalla trasmissione in diretta che rimane ancora appannaggio esclusivo della rete di Stato. La televisione è casa e la casa è televisione. Il salotto di Raffaella realizza uno dei sogni della comunicazione commerciale: reclamizzare prodotti che completano naturalmente il quadro di decoro piccolo-borghese offerto dal programma. Finché è in vigore, il divieto della diretta indirizza di necessità le reti private verso l’intrattenimento anziché l’informazione: fino al 1992 Canale 5 non ha un telegiornale. L’informazione dovrebbe quindi rappresentare un vantaggio competitivo per le reti pubbliche. Nondimeno la Rai riduce ulteriormente il tempo ad essa dedicato: dal 40% del 1975 al 26% del 1987, al 21% del 1994. Tra 1975 e 1986 lo spazio occupato nel palinsesto dai telegiornali cala dal 15 al 9%, mentre quello riservato all’intrattenimento, per effetto soprattutto di film e soap opera, cresce dal 5 al 21%. Nel 1987 i film trasmessi dal piccolo schermo sono tre al giorno, rispetto ai due a settimana del periodo finale del monopolio: con effetti distorsivi sul mercato (nel corso del decennio il costo di un film si moltiplica fino a 40 volte) e sui consumi culturali (per le sale cinematografiche sono gli anni più duri). Per la Rai è una scelta suicida di spoliticizzazione, ispirata dal ferreo criterio dell’abbassamento del costo-contatto (procurare più pubblico possibile agli inserzionisti pubblicitari) che si riflette anche in uno slittamento progressivo di generi: proprio la linea editoriale «populista» di Rai3 mostra la commistione tra informazione e intrattenimento. Spesso l’infotainment contiene una rinuncia implicita ma determinante all’approfondimento, alla fatica della ricerca di fonti e della divulgazione del sapere scientifico, a tutto vantaggio di una spettacolarità emotiva e superficiale. Gli ascolti premiano la tendenza. Tra 1987 e 1992 Rai3 triplica i propri spettatori e raddoppia lo share medio annuo dal 4 al 9%: un incremento che avviene quasi tutto a scapito della prima rete, in calo dal 25 al 19% (Anania 1997, 149-150). L’invenzione della piazza televisiva con Samarcanda (1987) conferma la vocazione populista della rete. Nelle parole del conduttore Michele Santoro è esplicito il venir meno della stessa funzione giornalistica (in termini di controllo e verifica delle fonti), a tutto vantaggio della denuncia scomposta dei cittadini, della contrapposizione accesa tra gli ospiti: ­­­­­140

Trattiamo i fatti della cronaca scegliendoli in base a criteri di evidenza giornalistica, e siamo disposti a modificare l’intera impaginazione del programma anche all’ultimo momento, anche poco prima di andare in onda. Questo vuol dire che non usiamo particolari cautele, ma il valore della diretta sta proprio nell’evitare le misure preventive. Quando scegliamo di far raccontare a qualcuno una storia, ci preoccupiamo soprattutto di verificarne la validità, non andiamo a fare ogni volta le indagini per stabilire se chi la racconta è o meno un delinquente. I filtri sono ridotti al minimo necessario, la nostra è la strada della manipolazione debole (cit. in Grasso 2004, 471).

Piuttosto che confronto democratico regolato dalle leggi per la comune ricerca di soluzioni condivise ai problemi, la politica in Tv diventa così teatro e colosseo: clamore, urla, lacrime, chiacchiere, applausi e fischi a scena aperta. Quella che sembra una riscoperta della politica corrisponde in realtà a una spoliticizzazione spettacolare, dove lo schieramento prevale sulla discussione, la semplificazione sulla complessità, l’umore sul ragionamento, il sentimentalismo sulla logica, la voce sull’ascolto, l’esperienza diretta del profano sul sapere competente dell’esperto (Balassone 2004, 92). Proprio nel tempo della fine delle grandi ideologie del Novecento, paradossalmente in Samarcanda e nelle sue molte riedizioni e imitazioni la politica si trasforma in narrazione con buoni e cattivi, vincitori e vinti: ci si contenta di parteggiare, non di cambiare davvero le cose. Samarcanda sta all’informazione politica come il wrestling sta alla boxe: si perdono il senso delle regole, il fair play, il confine tra vero e verosimile, la differenza tra sport (nel senso di confronto leale) e spettacolo (nel senso di trama e regia). Lo spettatore si limita a fare il tifo e a seguire passivamente un copione scritto da altri. Sono modificazioni sotterranee e molecolari della forma mentale con cui gli italiani guardano alla politica, che sono destinate a mostrare appieno i loro effetti solo nel decennio successivo. 5. Le colpe della politica Non è una faccenda solo italiana. In tutto il mondo occidentale gli anni Ottanta vedono la deregulation del sistema televisivo e la crescita della neotelevisione commerciale. Anzi l’Italia rimane, accanto alla Grecia, il fanalino di coda per volume di investimenti pubbli­­­­­141

citari: 0,99% dei consumi interni nel 1989, contro 1,52% in Gran Bretagna, 1,43% in Germania, 1,11% in Francia (Gambaro-Silva 1992, tab. 5.2). Ma per le reti televisive di tutta Europa l’aumento medio annuo delle entrate pubblicitarie (+11%) sopravanza di gran lunga quello del canone di abbonamento riservato alle reti pubbliche (+0,2%): una situazione che costringe queste ultime a una continua rincorsa in affanno e a frequenti scelte obbligate in favore di programmi a basso costo (come i talk show) e di tagli alle produzioni di fiction più onerose (Richeri 1991, 348). Facilitata dalla libertà di movimento sul fronte della raccolta pubblicitaria, l’ascesa delle reti televisive private nel corso degli anni Ottanta apre il tempo della «post-democrazia»: si coniuga a una trasformazione della partecipazione politica dei cittadini, che diviene più fluttuante, meno ideologica, più difensiva e one issue, cioè legata a singoli problemi grandi e globali (ambiente, pace) o piccoli e locali (no alla discarica, al tracciato dell’autostrada o dell’alta velocità ferroviaria, al campo rom), meno fiduciosa nella capacità della politica di costruire futuro. L’uso dei media da parte del ceto politico innalza i costi della presenza nella vita pubblica ma non inverte la tendenza a una disaffezione crescente dei cittadini, puntualmente misurata dai sondaggi che rilevano indici di popolarità calante dei partiti e delle istituzioni. Il ciclo aperto dalla rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan non riesce a rinnovare davvero la politica e anzi la rende più elitaria. Dal canto loro, le televisioni commerciali private non sono interessate al cambiamento politico: sono interessate a vendere pubblico agli inserzionisti e il rinnovamento che portano con sé va nella direzione dell’intrattenimento spoliticizzato di human interest, ispirato dalla vita quotidiana. Secondo le stime di Robert Putnam (2004), negli Stati Uniti un’ora in più di televisione spiega circa un quarto del calo di partecipazione e impegno civile. Ma anche nella Russia che vive il trapasso post-comunista la riconquistata libertà dei media accresce – anziché ridimensionare – il senso di soggezione e di passività dei cittadini, la loro perdita di senso civico e infine il loro rifiuto della politica (Oates 2006). È difficile dire se la televisione sia causa o effetto della frammentazione della vita sociale: probabile che sia entrambe le cose. Ma certo in Italia la situazione è comunque peggiore che altrove: i sondaggi periodici condotti a livello continentale da Eurobarometer registrano dal 1976 in poi una quota stabile attorno al 70% (con un ­­­­­142

picco all’80% nel 1993) di insoddisfatti del funzionamento della democrazia, contro una media europea vicina al 40% (Ginsborg 1989, tab. 27; Ginsborg 1998, tab. 40). È il «lato oscuro della forza» della mutazione individualista e della baby boom generation. Nel 1985 solo quattro cittadini su 50 interpellati accettano di far parte della giuria popolare al maxiprocesso contro la mafia intentato nell’aula bunker del tribunale di Palermo. Non è solo colpa dei cittadini. In Italia è peggiore anche e soprattutto la politica. Negli altri paesi europei, infatti, la politica appare assai più capace di governare la deregulation del sistema televisivo. In Germania le due televisioni private maggiori appaiono nel 1984 ad opera dei poteri forti dell’editoria, Bertelsmann e Springer, che si aggiudicano ciascuno circa il 15% dell’audience, contro il 55% dei due canali pubblici. Questi ultimi conservano una salda priorità alla sezione informativa e acquistano in esclusiva 1.500 film di Hollywood. Sono scelte antitetiche a quelle compiute in Italia, che consentono alla Tv pubblica tedesca di mantenere anche all’inizio del decennio successivo una quota maggioritaria di pubblico rispetto alle emittenti private (51% contro 46% in Italia, 44% in Gran Bretagna, 33% in Francia), nonostante che ancora nel 1997 il canone di abbonamento sia tra i più alti in Europa: l’equivalente di 193 dollari, contro 91 in Italia, 125 in Francia, 167 in Gran Bretagna. La parte di risorse pubblicitarie ingoiate dal piccolo schermo è assolutamente minoritaria rispetto agli altri media e in particolare alla stampa: 11% nel 1990 contro 25% in Francia, 26% in Gran Bretagna e ben 49% in Italia. Anche la ripartizione complessiva del fatturato televisivo vede la televisione pubblica tedesca ai primi posti in Europa: 46% rispetto al 54% delle reti private, contro il 27% della Tv pubblica francese, il 26% di quella inglese, il 44% di quella italiana. Il risultato è che nel 1999 la percentuale di cittadini «abbastanza» o «molto soddisfatti» della democrazia è in Germania pari al 67%, in Gran Bretagna al 64%, in Francia al 59% e in Italia a un misero 35%. E non perché gli italiani siano particolarmente qualunquisti, chiusi in casa, rinserrati nel proprio particulare: la quota di italiani che non parla mai di politica con gli amici (26%) è inferiore alla media europea (30%). Mentre quella che è disposta ad accordare fiducia alla televisione in genere (59%) è più alta della maggioranza critica del decennio precedente post-Sessantotto, ma anche decisamente inferiore alla media europea (67%). In Italia la neotelevisione com­­­­­143

merciale produce guasti maggiori che altrove non solo sullo spirito pubblico, ma anche sulla stessa propria credibilità. In sintonia con gli anomali tassi di economia sommersa, anche l’evasione del canone Rai (superiore al 20%) appare negli anni Duemila assai più alta di quella media in Europa (8%) e concentrata nel Meridione (dove gli abbonati corrispondono al 23% degli abitanti, contro il 30% del Centro-Nord) (Papathanassopoulos 2002; Perrucci-Richeri 2003). In Gran Bretagna la comparsa dell’emittenza privata è molto più antica (1955), ma non insidia mai il primato della Bbc, che approfondisce nel tempo la propria missione di «illuminismo culturale e professionismo tecnico», capace di produrre in autonomia più dell’80% della programmazione, contro il 70% circa di Rai1 e Rai2 (Levy 1990, 145; Gambaro-Silva 1992, 230). Quella inglese rimane un esempio di televisione pubblica indipendente dalla politica (grazie a un’authority di controllo) che non rincorre il modello della televisione commerciale, senza per questo cedere quote significative di pubblico né monopolizzare le risorse pubblicitarie, lasciando spazio agli altri media. Viceversa il caso francese presenta molte analogie con quello italiano. Nel 1986 il ritorno al governo del conservatore Chirac abolisce il limite antitrust alla stampa quotidiana (pari al 15% delle copie in circolazione) fissato dal precedente governo socialista e agevola la scalata del gruppo presieduto da Robert Hersant, ex collaborazionista dei nazisti e antisocialista dichiarato. Insieme a Berlusconi, Hersant sfonda anche nel settore televisivo con La Cinq. Nondimeno il miglior funzionamento del sistema politico riesce a garantire le condizioni minime di concorrenza: nel giro di pochi anni il gioco al rialzo sul mercato pubblicitario – che fa la fortuna di Berlusconi in Italia – conduce La Cinq sull’orlo del fallimento. Hersant è costretto a vendere e gli anni Novanta vedono la rivincita della televisione pubblica, i cui ascolti medi risalgono dal 33 a oltre il 40% dell’audience totale. La politica insomma fa la differenza. In tutto il mondo occidentale la logica della neotelevisione commerciale è la stessa – creare pubblico per la pubblicità – e non ammette eccezioni. Ma non per questo il piccolo schermo trasmette «ciò che la gente vuole» (Popper 2002, 72). In realtà l’Auditel misura solo la limitata libertà di scelta che il pubblico ha entro l’ambito dei programmi che gli vengono proposti e, alla pari di ogni altro dispositivo sociale istituzionalizzato, la televisione possiede una propria inerzia conservativa, refratta­­­­­144

ria all’innovazione. La pubblicità, dal canto suo, prospera sulla forza delle abitudini di consumo ed enfatizza la continuità e la fidelizzazione del cliente alla marca. Il combinato disposto della neotelevisione commerciale lascia quindi poco spazio alla novità e alla qualità culturale, ma è sempre l’offerta che crea la domanda. Ciò che programmisti televisivi e pubblicitari chiamano (a mo’ di alibi scagionante) la «dittatura dell’audience» è un effetto – e non una causa – del loro lavoro in comune e del binomio televisione-pubblicità. Quando l’innovazione di qualità arriva, la risposta positiva del pubblico non tarda. È il caso, ad esempio, di Quelli della notte (1985), con il suo seguito Indietro tutta (1987), caotico contenitore surreale di personaggi e ideale prosecuzione di L’altra domenica (1976), sempre diretto da Renzo Arbore, che nel giro di poche settimane raggiunge il 50% di share in seconda serata. Il corrispettivo della trasmissione di Arbore sulle reti Fininvest è Drive in (1983), prima creatura di Antonio Ricci, che risponde a un senso del comico più giovanile, eccessivo, demenziale, ma anche a un ritmo spezzettato che incorpora come naturale l’interruzione pubblicitaria. Anzi, i momenti «di punta» del programma devono precedere immediatamente lo spot, per convincere lo spettatore a non cambiare canale. La tivù è porno, dal greco porne: meretrice (dal verbo pernemi: vendere). Come ogni meretrice deve essere agghindata in maniera esagerata per l’adescamento [...] È chiaro che una tivù commerciale non può vivere senza i soldi degli inserzionisti, ma è evidente che senza una trasmissione che funzioni la pubblicità non può essere veicolata (Ricci 1998, 8-33).

Mentre Indietro tutta prende in giro la pubblicità con finti spot enfatici (Cacao Meravigliao), Drive in li usa come metronomo, all’interno di una satira trasgressiva e indirizzata su personaggi vistosi ma deboli e inoffensivi: quasi mai prende di petto la politica. La rottura dell’unità di tempo e spazio, tipica di una trasmissione-mosaico a frammenti, corrisponde a una perdita di senso complessivo della realtà e alla rinuncia deliberata e unilaterale a una sua qualsiasi interpretazione più o meno organica. È il «non-senso» di questa televisione che Fellini mette in scena in Ginger e Fred (1985). Lo stravolgimento di qualsiasi sintassi articolata ha come unico risultato quello di creare una sterminata platea di analfabeti pronti a ridere, ­­­­­145

e a esaltarsi, ad applaudire tutto quello che è veloce, privo di senso e ripetitivo (Fellini 1985).

Qualche anno prima, in un’intervista al «Radiocorriere Tv», lo stesso Fellini esplicita le profonde differenze tra il cinema «classico» e la neotelevisione commerciale: Prima di tutto il fatto di entrare nelle case toglie alla comunicazione il suo carattere, diciamo così, religioso. Voglio dire che quando un certo numero di persone si raccoglie in un sol luogo dove, alzandosi un sipario o illuminandosi uno schermo, appare qualcuno che racconta una storia, avviene di fatto la comunicazione di un messaggio. A teatro o al cinema questo rituale più o meno sciattamente ha la possibilità di verificarsi; in altre parole il «luogo di raccolta» diventa una chiesa, un luogo adatto per accogliervi la comunicazione, il messaggio. Questa condizione non esiste in televisione. Non può esistere, quindi viene a mancare l’aspetto sacrale dello spettacolo. Intanto non è che il pubblico si muova da casa e venga da te. Sei tu che vai da loro: già questo ti mette in una condizione d’inferiorità. In primo luogo c’è da smontare l’atteggiamento padronale dello spettatore. Chi ha la televisione è il padrone della televisione. Ciò non accade né in teatro né al cinema: dove lo spettatore non si sente padrone del teatro o del cinema. Anzi, deve uscire di casa, deve fare la fila, deve pagare il biglietto, deve entrare al buio, sedersi, dev’essere vestito completamente e non in mutande o in vestaglia. C’è insomma un clima di rispetto che dovrebbe predisporre a un certo tipo di ascolto. Alla televisione no. Lì sei tu che devi entrare con molta educazione, subito obbligato a interessare o divertire la gente. Tu autore non puoi ignorare questo fatto perché questo pubblico, questo padrone, poiché ti ha comprato, se non lo diverti subito ti chiude, o cambia programma, ti spegne. Tieni inoltre presente che devi parlare, devi raccontare le tue storie segrete a gente che, proprio perché si trova in casa propria, ha il pieno diritto di fare tutti i commenti che vuole ad alta voce, e persino di insultarti o peggio di ignorarti. Allora come è possibile rimanere se stessi, essere fedeli al proprio mondo, ai propri «stilemi», in una situazione simile, sapendo cioè di fare del chiasso per attirare l’attenzione, che sei costretto a dire le cose più divertenti subito, che non devi perdere tempo, ecc.? Io non credo che sia possibile («Radiocorriere Tv», 2 aprile 1978).

Anche per un uso più esplicito e insistito del nudo femminile, Drive in assurge a simbolo della «televisione spazzatura», degenerata e stupida. Eppure Ricci è anche autore di Striscia la notizia (1988), ­­­­­146

parodia di telegiornale che smonta i linguaggi dei media, insegna a dubitare delle retoriche ufficiali, provoca e denuncia (Grasso 2004, 487). La televisione decostruisce se stessa e diventa specchio fedele della post-democrazia: schegge di significato, questioni microlocali, un deus ex machina (il Gabibbo) alfiere dei sentimenti popolari contro i potenti ma anche testimonial pubblicitario, morte della politica come mobilitazione collettiva e chiave di lettura del mondo. È uno specchio non troppo dissimile da quello di Blob (1989), di Enrico Ghezzi e Marco Giusti: spezzoni di programmi televisivi vengono rimontati insieme con effetti paradossali, che mostrano le goffaggini e le incongruenze della televisione. «È la cosa più orribile che abbia mai visto» dice all’inizio la voce fuori campo, tratta dal film originale – The Blob, «Fluido mortale» (1958) –, alle prese con una melassa aliena velenosa e inarrestabile: la neotelevisione ridicolizza se stessa, ma al tempo stesso si nobilita e si conferma, compiacendosi della propria capacità autocritica. Insomma diventa sempre più autoreferenziale, sempre meno capace di raccontare una realtà che non sia la propria. Il posto della televisione materna e pedagogica del monopolio viene preso dalla neotelevisione commerciale, con i suoi tratti distintivi: la serialità ripetitiva, la conversatività affabulatoria, la proposta trasgressiva, l’esercizio demenziale. Tutti linguaggi mutuati dalla pubblicità. I due canali che ospitano Striscia la notizia e Blob (Italia 1 e Rai3) sono anche quelli che tra 1987 e 1992 conquistano di gran lunga più pubblico. Ma fin quando si imitano, Rai e Fininvest rimangono sugli stessi livelli di ascolto medio: la prima tiene la seconda a una distanza di 8-10 punti percentuali di share, pari a circa mezzo milione di spettatori. Nonostante la crescente frammentazione della società italiana, i primi anni del duopolio si svolgono ancora all’insegna della convergenza: secondo uno stretto rapporto di proporzione diretta tra costo del programma, audience, investimento pubblicitario. I programmi innovativi di nicchia (come quelli appena menzionati) rappresentano delle eccezioni; la regola rimane quella di una competizione sulle trasmissioni di maggiore ascolto; il pubblico televisivo più importante è quello generico, anziano e contraddistinto da livelli medio-bassi di reddito e istruzione, che sta davanti al piccolo schermo «perché non ha altro da fare» o «perché fidelizzato a un programma o a un appuntamento orario» (Gambaro-Silva 1992, tabb. 6.2 e 6.3). Laddove si socializza di più (come al Meridione) o si spende in altri consumi culturali (come nelle classi sociali più alte) il consumo televisivo diminuisce. ­­­­­147

Tab. 3.3. Popolo della televisione italiana, 1990 (cifre assolute in migliaia) Spettatori cifre assolute percentuali

Popolazione

Indice di concentrazione cifre assolute percentuali (spettatori/popolazione)

Uomini

2.765

42,97

26.772

48,47

89

Donne

3.670

57,03

28.466

51,53

111

Nord-Ovest

1.957

26,69

14.642

26,51

101

Nord-Est

1.448

19,75

10.068

18,23

108

Centro

1.438

19,61

10.596

19,18

102

Sud

2.489

33,95

19.933

36,09

94

573

7,97

6.211

11,24

71

3.426

47,66

28.006

50,70

94

2.582

35,92

18.021

32,62

110

Classe alta Classe medio-alta Classe medio-bassa Classe bassa

606

8,44

3.000

5,43

155

Elementari

2.894

45,81

19.137

40,22

114

Medie inf.

1.911

30,24

14.563

30,19

100

Medie sup.

1.300

20,58

11.691

24,57

84

Università

213

3,37

2.390

5,02

67

Uomini 15-24

497

5,72

4.648

8,37

68

Uomini 25-34

417

5,32

4.539

8,18

65

Uomini 35-44

427

5,45

3.930

7,08

77

Uomini 45-54

421

5,37

3.476

6,26

86

Uomini 55-64

497

6,34

3.208

5,78

109

Uomini 65+

553

7,06

3.445

6,21

114

Donne 15-24

499

6,37

4.451

8,02

79

Donne 25-34

511

6,52

4.441

8,00

82

Donne 35-44

504

6,43

3.948

7,11

90

Donne 45-54

599

7,65

3.603

6,49

118

Donne 55-64

692

8,84

3.555

6,40

138

Donne 65+

864

11,03

5.113

9,21

120

Non deve quindi sorprendere che la graduatoria dei programmi più seguiti non si discosti da quella degli anni Sessanta: nel 1991, secondo i dati Auditel che comprendono tutte le emittenti maggiori pubbliche e private, è in testa l’informazione (20% di share medio), seguita dal varietà (19%), dai giochi a quiz (16%), dagli sceneggiati ­­­­­148

(16%) e dai talk show (16%). Del resto l’investimento pubblicitario si concentra nei prodotti di maggior consumo: confezionati non alimentari per la cura della casa e della persona, seguiti a distanza dagli alimentari confezionati e dai beni di consumo durevoli. Così si esprime un direttore dei programmi Fininvest alla fine degli anni Ottanta: Per il mercato americano il punto centrale è la famiglia giovane, in quanto più dedita al consumo e più sensibile alla possibilità di cambiare. In Italia siamo più conservatori, anche per i prodotti: ci sono molti meno prodotti di target elevato, siamo molto indietro sui servizi, che invece tendono a colpire una fascia più sensibile al consumismo. Essendo indietro con questo tipo di prodotto, la pubblicità chiede meno in quella fascia e noi dobbiamo dare casalinghe il più ebeti possibile, cioè la massa. Se io faccio «Va’ pensiero» [nel 1987 il contenitore domenicale di Rai3, condotto da Andrea Barbato], un programma che mi delizia, ho sbagliato tutto. Mi piacerebbe tanto fare «Va’ pensiero», ma se lo faccio mi cacciano, perché 500 mila persone di grande intelligenza non interessano ai grandi investitori. Noi siamo a volte tacciati di poca intelligenza, ma purtroppo non possiamo fare diversamente (Rizza 1989, 66).

Allo stesso modo (solo un po’ più esplicito e brutale) suona la voce del dirigente della rete televisiva statunitense Cbs raccolta da Todd Gitlin: Non mi interessa la cultura. Non mi interessano i valori pro-sociale. Mi interessa una sola cosa: se la gente guarda o no il programma. Questa per me è la differenza tra bene e male (Gitlin 2003, 226).

La presenza del canone di abbonamento, che ancora oggi corrisponde a più di metà delle entrate, consente alla Rai una relativa libertà rispetto a questa logica del «dare casalinghe». Ma è una libertà minore a quella delle altre Tv di Stato europee, dove il peso medio del canone è pari a tre quarti del fatturato. L’ascesa costante della quota coperta in bilancio dagli introiti pubblicitari (dal 20% del 1980 al 37% del 2008, con un picco al 56% nel 1999) determina quindi una spinta crescente (e affatto particolare nel contesto europeo) alla rincorsa del pubblico e alla «poca intelligenza». Ciò non toglie che la struttura organizzativa di Rai e Fininvest sia radicalmente diversa. La frammentazione della prima risponde a criteri di lottizzazione partitica e mette capo a una logica di competizione in­­­­­149

terna che non sempre produce risultati ottimali, soprattutto sul fronte della raccolta pubblicitaria. Spesso programmi destinati agli stessi pubblici (e quindi agli stessi consumatori) si sovrappongono, con effetti di dispersione degli investimenti da parte degli inserzionisti. Viceversa in Fininvest la situazione (del tutto anomala nel mondo) di avere tre canali a disposizione di un’emittente privata in qualche modo obbliga a una gestione centralizzata, che evita le sovrapposizioni tra programmi delle reti, ne organizza la complementarietà, riserva spazi appositi per la sperimentazione. Lo stesso direttore dei programmi chiarisce bene il punto: Io credo nella scelta di fare una televisione su tre canali perché se io voglio dare i bambini li devo dare per forza dalle 16 alle 18, perché lì stanno. Se io mettessi dalle 16 alle 18 i bambini su tre reti non avrei ottenuto niente, perché avrei 100 bambini che invece di guardare un programma ne guarderebbero tre. Se invece noi facciamo tendenzialmente gioco su Canale 5, tendenzialmente bambini e ragazzi su Italia 1 e donne su Rete 4 copriamo un arco diversificato (Rizza 1989, 63).

Al di là del colorito linguaggio un po’ da orchi («dare bambini»), nel corso degli anni Ottanta prende piede la tendenza a settorializzare la pubblicità per programmi e target di pubblico. E anche per canali: Canale 5 (che dal 1985 trasmette Buona domenica, il suo contenitore del pomeriggio festivo) si afferma come rete generalista per famiglie, diretto contraltare di Rai1, mentre Italia 1 rafforza la propria vocazione per i giovani. Obiettivo del palinsesto diventa sempre più quello della «striscia settimanale»: stabilizzare una particolare fascia su un appuntamento orario giornaliero. Miami Vice (1986), serial importato dagli Stati Uniti, funziona molto meglio nel tempo preserale del ritorno a casa e dell’ascolto distratto, intermittente e promiscuo, che non in quello «liturgico» della prima serata. D’altra parte la programmazione televisiva è sempre un negoziato: con le esigenze della pubblicità, con i tempi della famiglia, con la competizione tra reti. Si comincia infatti anche a seguire un criterio di «controprogrammazione»: individuare i punti deboli del palinsesto concorrente per concentrare in quel punto la propria capacità competitiva. La neotelevisione commerciale reagisce in tempo reale alle trasformazioni della famiglia italiana. Già all’inizio degli anni Ottanta il «politeismo» dei consumi – termine coniato dal Censis (1982, tabb. ­­­­­150

5 e 7) – appare il chiaro riflesso della correlazione di single giovani e coppie con figli (sia giovani sia adulte) con livelli di istruzione e reddito più alti della media. È questo pezzo di società italiana a guidare la modernizzazione consumista. Il possesso del televisore a colori si concentra nelle coppie più giovani (con o senza figli), mentre nelle famiglie nucleari il capofamiglia maschio presiede alla scelta dei beni di consumo durevole, la moglie a tutti gli altri acquisti, i figli ai consumi culturali diversi da quello televisivo (dischi, fotografia). Il potere di scelta di donne e giovani cresce con il crescere del reddito: la mutazione individualista della baby boom generation modifica dall’interno gli equilibri domestici. Le analisi sociologiche dell’epoca (Censis 1982; Fabris-Mortara 1986) fotografano la frammentazione degli stili di vita e di consumo degli italiani. I comportamenti si collocano lungo rette continue disegnate da opposte concezioni del mondo (tradizione/innovazione, privato/sociale, integrazione/ anomia) frutto di condizioni lavorative, scelte ideologiche, esperienze personali (tra cui spiccano quelle vissute negli anni del boom e del Sessantotto). «Arcaici», «puritani» e «cipputi» rappresentano le famiglie a basso reddito, alto tasso di risparmio e basso consumo di televisione; «conservatori» e «integrati» corrispondono a quelle in fase di ascesa sociale verso la piccola borghesia e a forte vocazione consumistica (compresa l’assidua presenza davanti al piccolo schermo); «affluenti», «emergenti» e «progressisti» comprendono i lavoratori autonomi, gli strati superiori del pubblico impiego, i liberi professionisti a più alto livello di istruzione (e di secolarizzazione «post-materialista») con consumi culturali più diversificati (e anche più critici verso la Tv). Inizialmente la competizione Rai/Fininvest si concentra sui due strati intermedi («conservatori» e «integrati»), che insieme corrispondono a quasi un terzo della popolazione totale, con programmi di taglio tradizionale. Ma si estende ben presto anche alle componenti più giovani e in crescita – in particolare gli «emergenti», aumentati dal 12 al 16% tra 1979 e 1985 – con programmi più innovativi e anticonformisti. Solo per alcuni di questi gruppi (cipputi, conservatori, progressisti) sono evidenti le correlazioni con fedeltà politiche e condizioni socioeconomiche; per tutti gli altri, comportamenti elettorali e vincoli materiali contano sempre meno. Come sempre, la televisione è lo specchio di una società in rapido mutamento. Le persone che la guardano di più (anziani con bassi livelli di istruzione e di reddito) sono quelle che rimangono ai mar­­­­­151

gini del mutamento, lo seguono e spesso lo subiscono. Gli italiani «normali» che invece la guardano in modo «normale» (più o meno come in ogni altra nazione occidentale) recepiscono messaggi subliminali capaci di modificare in profondità la loro percezione della realtà: la felicità come bene privato e materiale da realizzare subito, la politica come racconto con buoni e cattivi, la moltiplicazione e la miniaturizzazione dei significati e dei sensi, la perdita di fiducia nel futuro e nella possibilità di costruzioni collettive condivise. La politica rimane indietro. Le categorie di analisi che è abituata ad usare (appartenenze di classe, identità ideologiche e religiose, interessi corporativi organizzati) non sono più in grado di leggere la mutazione individualista e la frammentazione della società. Nondimeno la politica prosegue diritta per la sua strada. Quando la fine della guerra fredda priva il sistema politico italiano delle ragioni internazionali di immobilità (cioè di impossibilità dell’alternanza al governo per la presenza del maggiore partito comunista dell’Occidente) il crollo del ceto politico è assoluto ed esiziale. Non per colpa di presunti complotti di «toghe rosse». Ma perché la società italiana è tanto mutata nel frattempo da risultare irriconoscibile (e ingovernabile) agli occhi di quel ceto. L’unica che ha seguito, accompagnato e in qualche misura costruito la nuova Italia degli individui consumatori è la neotelevisione commerciale.

IV

La scesa in campo (1994-2011)

1. Berlusconi «Telecrazia» non è parola italiana. Risale addirittura al 1963 e sono studiosi francesi ad applicarla al generale de Gaulle e al suo ferreo controllo della televisione di Stato (Brizzi 2010, 293). Niente di nuovo o di «tipicamente italiano», quindi, almeno a prima vista. Ma certo la parola rientra di prepotenza nell’uso comune al momento della «scesa in campo» di Berlusconi alle elezioni politiche del 1994. Anomalia genera anomalia. Nel panorama legislativo dei paesi occidentali l’ascesa imprenditoriale di Berlusconi nel sistema mediatico nazionale si configura come una indubbia eccezione, che tuttavia è anche frutto di uno dei tratti di fondo della storia dei media in Italia: la loro prossimità al mondo della politica. Altrove (proprio in Francia con La Cinq) i metodi di «Sua Emittenza» non funzionano. Nel 1999 il grado di concentrazione monopolistica del settore televisivo italiano appare unico in Europa: i due gruppi maggiori (Rai e Fininvest) controllano l’82% del mercato complessivo, contro il 69% della Germania (Tv pubblica e gruppo Kirsch), il 57% della Gran Bretagna (Bbc e Itv), il 43% della Spagna (Rtve e Antena 3), il 45% della Francia (France Tv e Canal Plus) (Perrucci-Richeri 2003, 27). Il fenomeno Berlusconi coniuga insieme avventurosi tratti personalistici e modifiche profonde della società italiana: una miscela singolare che diventa ancora più evidente quando l’editore puro si trasforma in imprenditore politico. È una nuova anomalia nel con­­­­­153

testo occidentale che deriva direttamente dalla prima anomalia. La «scesa in campo» avviene infatti sotto la spinta di cambiamenti esogeni: la fine della guerra fredda significa la crisi delle protezioni politiche che hanno consentito la scalata monopolistica berlusconiana al settore dei media. Anche altrove grandi imprenditori sono entrati nel mondo della politica (Perot e Bloomberg negli Stati Uniti, per esempio), ma arrendendosi o adeguandosi rispetto a sistemi di partiti ancora in stato di relativa efficienza. In Italia si verifica invece una condizione straordinaria di vuoto determinata dal venir meno di una parte decisiva dell’offerta politica tradizionale, che l’arrivo di Berlusconi sopraggiunge a colmare quasi per una sorta di principio idraulico dei vasi comunicanti. Senza le radici che la Tv commerciale ha affondato nella società e nell’economia, la «scesa in campo» non sarebbe possibile. D’altra parte, la «scesa in campo» diventa pressoché inevitabile per salvaguardare quelle stesse radici: un altro governo meno amico potrebbe essere tentato dall’idea di correggere la prima anomalia, ripristinare una seria normativa antitrust e mettere in pericolo l’impero di Mediaset (dal 1994 nuova denominazione del conglomerato di imprese che mette capo alla famiglia Berlusconi). Se in precedenza i media servivano a un’attività di «lobbying all’italiana» al servizio di altri interessi industriali e commerciali (Ortoleva 1997a), adesso i media diventano essi stessi oggetto della contesa politica e nuovo soggetto politico. Sull’onda del clima di rinnovamento suscitato dalle inchieste giudiziarie, la nascita di Forza Italia (il partito capeggiato da Berlusconi) viene celebrata da una comunicazione che enfatizza la soluzione di continuità rispetto al ceto politico professionale appartenente al passato recente: la stessa denominazione da tifo calcistico e soprattutto la stessa figura del suo presidente incarnano la rivincita di una società civile che si riappropria della sfera della rappresentanza. Salta così uno dei diaframmi che avevano impedito a Craxi e al Partito socialista di rappresentare appieno la mutazione individualista vissuta dagli italiani: quella rivoluzione invade adesso direttamente il mondo politico. Nello stesso tempo Berlusconi opera una scelta di autocollocazione sul continuum destra-sinistra molto drastica e precisa, rispolverando la bandiera tradizionale dell’anticomunismo: anche se meramente negativa, è l’unica capace di ricompattare un elettorato formato da democristiani, liberali, socialisti craxiani e rimasto improvvisamente orfano. ­­­­­154

Tutto ciò pare indicare che, nelle elezioni che hanno tenuto a battesimo la nostra incerta e prolungata transizione, le consuetudini di voto del passato abbiano contribuito a modellare le reazioni degli elettori alle immagini dei «nuovi» partiti, ai «nuovi» leader e alle offerte di identità politico-ideologica proposte dai nuovi protagonisti. Una grande inerzia del passato dunque, forse facilitata dal fatto che il protagonista delle elezioni del 1994 non si risparmiò, allora ma anche dopo, nel denunciare che dietro al nuovo nome dell’altra coalizione (i Progressisti) si nascondeva la «vecchia» opposizione comunista. Per battezzare il nuovo si usò dunque un’acqua molto vecchia e, visti i risultati, si direbbe con una certa efficacia (Sani-Segatti 2002, 273).

Un nemico, quindi, e una promessa («meno tasse per tutti», «per un nuovo miracolo italiano»): la propaganda di Forza Italia si modella sui canoni della pubblicità commerciale, rompendo gli argini del «politichese» e di una comunicazione politica ristretta agli addetti ai lavori. La personalizzazione esasperata dell’imprenditore che scende in campo – enfatizzata da una comunicazione che torna ai grandi manifesti murali con l’immagine a tutto campo del «capo» – si rivela la più funzionale al nuovo sistema elettorale uninominale, che antepone il candidato al partito. Non vi è quindi all’origine della «scesa in campo» nessuna rottura culturale paragonabile a quella determinata dalla Grande Guerra e raccolta dal fascismo. Né un movimento d’opinione simile alla riscossa neoliberista che ha accompagnato l’ascesa al governo della Thatcher o di Reagan. Forza Italia non è un movimento di massa cresciuto spontaneamente nella società civile. È un’azienda che, grazie alla peculiare ramificazione della propria agenzia pubblicitaria (Publitalia), si trasforma in partito. Non ha alle spalle una elaborata e definita cultura politica, comparabile non solo a quella dei soggetti politici precedenti più o meno lontani nel tempo – moderati, riformisti, conservatori o reazionari che siano – ma anche a quella degli alleati del momento (Lega e Movimento sociale). Il motivo che sembra emergere maggiormente è una sorta di «populismo», declinato prima nelle forme antipolitiche del self made man e del pragmatismo d’impresa, poi nell’identificazione tra vittoria elettorale e mandato in bianco consegnato dagli elettori. Come molti studiosi rilevano quasi in tempo reale, questo motivo – variamente nutrito di autorità carismatica personalistica, appello alle individualità, liberismo e antistatalismo, critica delle pastoie burocratiche della democrazia ­­­­­155

costituzionale – costituisce un filone significativo di una nuova reazione di destra xenofoba e antiglobale, emergente in varie parti del mondo (Riker 1996; Meny-Surel 2002; Taggart 2002). È difficile dire se questo populismo sia l’effetto di tattiche comunicative o di difficoltà politiche contingenti piuttosto che una scelta programmatica consapevole, così come è difficile dire se possa davvero costituire una base culturale comune a tutto lo schieramento di centrodestra. A ben vedere, almeno per quanto riguarda Forza Italia, gli elementi di continuità con il passato democristiano e socialista – sottaciuti nell’immediato da una comunicazione populista innovativa – sembrano destinati con il passar del tempo a manifestarsi in modo crescente, sul piano sia del personale politico riciclato, sia delle scelte di governo: basti per tutte l’evoluzione programmatica in materia di sistema elettorale da una scelta iniziale decisamente maggioritaria fino alla rivendicazione di un ritorno al proporzionale. Certo è che la nascita di Forza Italia avviene all’interno di una fase di radicale rifondazione di un sistema politico che, rimasto sostanzialmente immobile per mezzo secolo, si trova ad assorbire un passaggio al sistema elettorale maggioritario forzato da un referendum di iniziativa popolare stravinto (82,7%) dal fronte dei favorevoli all’abrogazione della legge elettorale vigente. Due sono le novità fondamentali: la forte personalizzazione della lotta politica (legata all’introduzione del voto uninominale) e la prevalenza della logica di coalizione su quella di partito (conseguente all’adozione del principio del premio di maggioranza). Da un lato Forza Italia obbedisce a quest’ultimo elemento agendo da efficace interfaccia-collante tra partiti già esistenti (Lega e Alleanza nazionale) ma territorialmente circoscritti o politicamente emarginati. Dall’altro Berlusconi introduce nella competizione il peso schiacciante dei propri capitali e delle proprie reti televisive, sfruttando ancora una volta il vuoto legislativo esistente in materia di conflitto di interessi e di par condicio nella comunicazione politica. È la prima volta nella storia d’Italia (e forse dell’Occidente) che un’azienda si trasforma in partito. L’impero economico di Berlusconi non è certamente il primo ad essere stato costruito all’ombra di potenti protezioni politiche: da questo punto di vista esso rappresenta in Italia la regola piuttosto che una anomalia. Ma è invece l’unico soggetto economico che ha preteso di trasformarsi direttamente in soggetto politico, portando con sé e quindi esponendo sotto i riflet­­­­­156

tori dell’opinione pubblica e dell’autorità giudiziaria tutti gli «scheletri nell’armadio» racchiusi in quella spericolata scalata a posizioni di forza nel mercato mediatico italiano. Non solo: una volta alla guida del governo, Berlusconi tende a mutuare metodi e problemi della sua biografia precedente, con il risultato – deliberato o preterintenzionale, poco importa – di trasformare spesso il potere esecutivo in un comitato d’affari (economici o giuridici che siano) destinato inevitabilmente ad entrare in rotta di collisione con gli altri poteri istituzionali. Ma, a differenza di altri organici progetti autoritari, il livello dello scontro tra governo, forze sociali, parti della macchina statale sembra direttamente proporzionale alle difficoltà occasionali o strutturali connaturate a questa genesi affatto particolare, anziché il sintomo di una forza esercitata consapevolmente secondo un piano preordinato. E d’altra parte le fondamenta pluralistiche della costituzione materiale appaiono in Italia ancora troppo solide per consentire una trasformazione indolore del governo in comitato d’affari. Sono in diversi a ritenere determinante la propaganda televisiva nella formazione delle scelte di voto e quindi nel successo politico di Berlusconi. Tra gli studiosi è soprattutto Luca Ricolfi (1994) a sostenere, sulla base di un sondaggio condotto su un campione di 2.500 persone, la presenza di un grado di correlazione tra esposizione ai media e intenzione di voto più alto e significativo sia di fedeltà territoriali (tra «regioni rosse» e partiti di sinistra) sia di corrispondenze di classe sociale (tra lavoratori autonomi e Forza Italia). Poco più di un terzo del campione muta scelta nel corso della campagna elettorale e la metà di questo terzo attraversa addirittura il crinale tra destra e sinistra. Su questi spostamenti, secondo le stime di Ricolfi, la Rai incide per il 5% (prevalentemente verso il centro e la sinistra), i canali Fininvest per il 14% (prevalentemente verso Forza Italia). Nel suo complesso la televisione sposta l’8% dei voti dal centro (3%) e dalla sinistra (5%) verso il centrodestra: un contributo importante, seppur non decisivo, al distacco (12-14 punti percentuali) che quest’ultimo infligge nelle urne al centrosinistra. Un sostegno significativo alla tesi di un impatto politico forte della televisione viene dai dati raccolti dall’Osservatorio di Pavia (cooperativa di ricerche sui media che collabora con la locale Università, con la Rai e la commissione parlamentare di vigilanza). Mentre nel corso della campagna elettorale le reti Rai osservano una sostanziale equità di tempo dedicato ai diversi partiti politici, le reti Mediaset ­­­­­157

seguono una strategia di squadra: Canale 5 imita l’equilibrio della televisione di Stato (fedele alla consegna di ammiraglia autorevole e rispettabile), Italia 1 e Rete 4, invece, penalizzano i partiti di centro e assegnano spazi considerevolmente maggiori a Forza Italia (45% in media del tempo totale, contro il 31% della Rai) e, in subordine, al Partito democratico della sinistra (23% contro 19%). Tutte le televisioni esercitano comunque, ben prima della campagna elettorale, un ruolo importante nella personalizzazione esasperata del confronto e quindi nella polarizzazione dei contenuti. Sono due fattori che portano acqua al mulino berlusconiano in misura assai più rilevante delle quote di tempo televisivo misurate col bilancino. In primo luogo la personalità di Berlusconi rappresenta la novità cruciale e nessun leader di centrosinistra (tutti professionisti della politica, tranne Prodi) riesce ad esercitare una leadership e un carisma paragonabili per spessore e durata nel tempo. In secondo luogo l’anticomunismo d’antan rispolverato per l’occasione si rivela uno strumento altrettanto cruciale per compattare il potenziale elettorato di riferimento e nello stesso tempo dare continuità e passato a una forza politica altrimenti fragile e senza radici. Formulate a caldo sull’onda di una novità così dirompente per l’ambiente politico italiano (abituato a gestazioni storiche lunghe e complesse dei partiti), le tesi di Ricolfi sono state sottoposte a una revisione critica soprattutto sul piano della possibilità di un nesso così stringente e meccanico tra esposizione ai media e comportamento elettorale. Del resto lo stesso Ricolfi (1994, 1046) mette in guardia da una interpretazione del mezzo televisivo in termini di mera manipolazione delle coscienze: lo spettatore è sempre in grado di rielaborare a modo proprio i contenuti che gli vengono proposti. Punto comune a diverse ricerche successive è tuttavia la constatazione di un rapporto forte tra consumo televisivo e comportamento elettorale: gli elettori del centrodestra preferiscono le reti private, quelli del centrosinistra la Rai. Il problema è semmai la direzione del nesso causale: la scelta del canale tv precede e motiva la scelta politica o viceversa? È chiaro che gli esiti altalenanti delle elezioni successive hanno tolto vigore – anche soltanto per una semplice assuefazione del pubblico – all’idea di una invincibile forza condizionante del piccolo schermo: se così fosse non si spiegherebbero le vittorie, per quanto effimere, del centrosinistra nel 1996 e nel 2006. L’agenda setting dei canali Rai e Mediaset non appare granché diverso e le dinamiche dei ­­­­­158

sondaggi d’opinione effettuati nel corso delle campagne elettorali convergono nel mostrare una relativa stabilità delle scelte di voto (sia per le coalizioni sia per i partiti), che si rivelano in larga misura costituite in precedenza e quindi abbastanza impermeabili alla propaganda. Il mezzo televisivo sembra cioè funzionare da strumento di mobilitazione e incapsulamento dell’elettorato, di conferma delle sue identità profonde (radicate anche nei suoi gusti televisivi) piuttosto che di un effettivo spostamento d’opinione. La plastica e piatta cultura di massa prodotta dalla televisione appare più forte dei problemi e delle scelte della politica. Tanto è vero che la «scesa in campo» non produce un riassorbimento dell’astensionismo: dal 9,5% del 1987 si sale al 13,9% del 1994. La Tv non mobilita e non produce nuova partecipazione politica; conferma distrattamente vecchie o nuove opinioni politiche che non hanno un ruolo centrale nella mutazione individualista. Gli italiani sono assai più interessati ad altri veicoli di identità trasmessi dal piccolo schermo (innanzitutto i beni di consumo) e l’avvento di Forza Italia non cambia il loro disgusto per la politica e la loro insoddisfazione per lo stato della democrazia italiana, come i sondaggi Eurobarometer continuano a confermare: al 70% degli italiani la politica non interessa in generale e al 50% neanche in periodo di campagna elettorale. Quasi un italiano su tre ritiene l’azione del governo inutile. In particolare i comportamenti elettorali degli anni Novanta mettono in luce una cristallizzazione sorprendentemente precoce dell’elettorato delle due coalizioni di centrodestra e centrosinistra, assieme a una «fedeltà leggera» nei riguardi dei partiti che le compongono. Oggi, dopo alcuni anni di assestamento del nuovo sistema dei partiti, la situazione appare molto simile al passato circa l’impermeabilità dei due maggiori blocchi e la fedeltà alla propria coalizione: pur in presenza di una quantità di elettori che cambia il proprio voto compresa tra il 35% e il 45%, chi passa da un partito di centro-sinistra ad uno di centro-destra (o viceversa) rappresenta una quota intorno al 3-4% del corpo elettorale, meno di un decimo del movimento complessivo (Natale 1997, 302).

Questa stabilità delle aree elettorali mette capo a una diversità sociale dei due elettorati: quello di centrodestra è più tradizionale e meno scolarizzato, più lontano dalla politica e meno informato (quindi più dipendente dalla Tv), mentre quello di centrosinistra ­­­­­159

presenta caratteristiche simmetriche di istruzione, informazione, interesse e utenza plurale dei media. Sarebbe tuttavia un errore pensare che il corpo elettorale italiano abbia trasferito le proprie antiche identità di appartenenza dai partiti della «prima» Repubblica alle coalizioni della «seconda», ritagliandole lungo consuete linee di frattura legate alla religione, alle classi sociali, alle aree «subculturali» bianche e rosse. La letteratura sociologica e politologica ci dice infatti che quelle tradizionali linee di frattura sono oggi assai meno vive e operanti di ieri. L’indice di penetrazione tra i cattolici praticanti assidui cala dal 173 della Dc nel 1985 al 104 del Polo di centrodestra nel 2001 (Sani-Segatti 2002, 265). Ancora all’inizio degli anni Novanta l’ascesa della Lega avviene proprio nelle aree della subcultura bianca e sulle ceneri del rapporto di fiducia tra la Dc e il suo elettorato. La Lega si colloca infatti in veste autonomista a presidio di interessi locali che non si sentono più tutelati in sede centrale dalle mediazioni del potere democristiano (Diamanti 1993). Il che comporta un allentamento irreversibile del rapporto tra voto e fattore religioso, ormai capace solo in minima parte di definire in modo tendenzialmente esclusivo una galassia sociale troppo eterogenea. Anche le distinzioni di classe vanno incontro, come abbiamo visto, a una drastica ridefinizione: dal punto di vista degli stili di vita e di consumo, ma anche dei comportamenti elettorali, appare assai più pregnante la distinzione, fondata su natura e origine del reddito, tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti (Pisati 2010). 2. Un nemico e una promessa Nondimeno l’appello anticomunista di Berlusconi – rafforzato dall’esito delle amministrative del 1993, che vedono eletti molti sindaci di sinistra – richiama in vita anche il tradizionale collante religioso: quasi due terzi del voto etichettabile come cattolico vanno nel 1994 allo schieramento di centrodestra, mentre il terzo restante si divide più o meno equamente tra il centro del Partito popolare e la sinistra dei Progressisti. Nello stesso tempo la forte personalizzazione autobiografica del self made man rappresenta la chiave di interpretazione e rappresentanza della mutazione individualista incarnata dalla baby boom generation e accompagnata dalla neotelevisione commerciale. Quest’ultimo aspetto si rivela quello decisivo, più forte di antiche identità di appartenenza e capace di attraversare tutto il corpo ­­­­­160

sociale, senza confini di classe o di religione. Rispetto alla vecchia Dc, infatti, tra 1994 e 2001 la coalizione capeggiata da Forza Italia aumenta costantemente la propria capacità di penetrazione nella piccola borghesia urbana dei lavori autonomi, perde nei settori del pubblico impiego, mantiene le posizioni negli strati superiori della borghesia, ma cresce anche tra i lavoratori manuali. L’appello agli individui costituisce la chiave interclassista per convincere ceti professionali e condizioni lavorative così diverse. Nella vittoria di Berlusconi si sommano quindi fattori vecchi e nuovi. Da un lato, c’è una sorta di ritorno al passato che rivitalizza una delle eredità più corpose della cosiddetta «prima» Repubblica, e cioè il peso di identità definite prevalentemente in chiave negativa nei confronti di un avversario politico percepito, assai più che in ogni paese occidentale, come un nemico antropologico. Il risultato è che «prima» e «seconda» Repubblica continuano a condividere un tratto di fondo, rilevato dagli studiosi ormai mezzo secolo fa: l’assenza di una civic culture condivisa e la costante delegittimazione reciproca degli schieramenti politici. Tuttavia nella «prima» Repubblica la polarizzazione è riconducibile a fattori oggettivi sia interni (la presenza del più forte partito comunista d’Occidente) sia internazionali (la collocazione geopolitica dell’Italia negli equilibri della guerra fredda) strettamente connessi tra loro, che dopo il 1989 hanno perso molta forza. Nel 1994 invece, senza più la guerra fredda, l’anticomunismo assume la forma della difesa di un benessere relativo e recente contro chi vorrebbe appropriarsene: in primo luogo lo Stato e le sue leve fiscali. Subentra allora la novità di un richiamo agli animal spirits che innervano la frammentazione individuale e consumista della società italiana: sono gli stessi spiriti messi in scena dalla neotelevisione. Da questo punto di vista l’Italia non è affatto un’eccezione. In tutto l’Occidente il ciclo neoliberista degli anni Ottanta mette in moto processi di disgregazione sociale. Innanzitutto aumenta l’ineguaglianza. Negli Stati Uniti tra 1963 e 1992 il rapporto tra primo e ultimo decile dei salari operai medi passa da 2,9 a 5,1; tra 1980 e 1998 quello tra primo e ultimo quintile del reddito domestico da 7,5 a 8,9; tra 1973 e 1992 il differenziale retributivo medio tra forza lavoro diplomata e laureata passa dal 35% al 93% (Freeman 1995; Wood 1994, 256). Una parte almeno di questa crescita dell’ineguaglianza nei paesi ricchi è dovuta alla globalizzazione: afflusso di merci a basso costo dai paesi poveri che espellono dal mercato le industrie tradizionali, ­­­­­161

immigrazione di lavoratori che mettono sotto pressione il mercato del lavoro e facilitano il calo dei salari, delocalizzazione di posti di lavoro nei paesi a basso reddito e conseguente disoccupazione tra le qualifiche operaie più basse. Ma il fattore che incide maggiormente sull’incremento delle distanze sociali è l’innovazione tecnologica: sono i lavoratori che ne rimangono esclusi (per scarsa scolarità e preparazione, per appartenenza a comparti industriali tradizionali incapaci di rinnovarsi) ad ingrossare le file dei nuovi poveri nei paesi occidentali. Nella cosiddetta container revolution – per fare un esempio – ciò che conta dal punto di vista dei salari e dei posti di lavoro non sono né le merci trasportate, né la nazionalità degli operai, quanto le gru e i computer che sostituiscono i portuali nelle operazioni di carico-scarico delle merci e nella sincronizzazione con i mezzi di trasporto terrestre. Con l’avvento dei container i lavoratori manuali dequalificati, che prima rappresentavano l’unica forza lavoro dipendente, rimangono disoccupati o ancorati a salari molto inferiori a quelli dei gruisti e degli addetti ai computer (Levinson 2006). Contrariamente a quanto spesso si ritiene, in nessuno dei paesi industriali si manifesta una chiara correlazione tra aumento dei flussi immigratori e aumento della disoccupazione. Tra 1990-1995 e 19952000 il tasso medio annuo di immigrazione netta negli Stati Uniti sale da 4,0 a 4,5 e quello di disoccupazione cala da 6,4 a 4,8; in Germania il tasso di immigrazione cala da 6,6 a 2,3 e quello di disoccupazione sale da 8,1 a 9,2. I lavoratori immigrati si trovano infatti a competere direttamente con i lavoratori nativi meno qualificati (badanti, raccoglitori di prodotti agricoli, camerieri), ma risultano complementari e non sostituibili a quelli dotati di maggiore specializzazione (gruisti e operatori al computer negli interporti di movimentazione dei container, appunto), che sono in aumento in tutti i paesi sviluppati grazie anche ai processi di terziarizzazione dell’economia. Allo stesso modo gli studiosi convergono nel sottolineare anche nel breve periodo la debolezza di ogni correlazione causale diretta tra immigrazione e andamento dei salari: parallelamente a quanto accade sul fronte occupazionale, l’arrivo di immigrati non sembra incidere più di tanto sulle dinamiche salariali complessive dei paesi che li accolgono (Smith-Edmonston 1997; Stalker 2000). Piuttosto sono i redditi più alti ad allontanarsi dalla media, soprattutto per effetto di un’abnorme lievitazione delle remunerazioni dei top manager delle compagnie maggiori. Negli Stati Uniti del ­­­­­162

ineguaglianza (% del decile di reddito più basso sulla metà dei redditi)

Fig. 4.1. Ineguaglianza e spesa sociale, 1995 60 Belgio

Finlandia Svezia Paesi Bassi Italia Francia Germania

55

50

Irlanda Canada

Giappone Australia

45

Regno Unito

40 Stati Uniti

35

30

0

5

10

15 20 25 spesa sociale (% sul prodotto interno lordo)

30

35

1960 l’amministratore delegato di una di esse guadagnava 40 volte (12 dopo le tasse) il salario medio di un suo operaio, mentre nel 1990 guadagna 93 volte (70 dopo le tasse), contro le 17 volte del Giappone e le 35 della Gran Bretagna. Ma tra i paesi ricchi le cose non sono tutte uguali. Le politiche fiscali (con criteri più o meno progressivi di imposte sui redditi) e le spese per trasferimenti sociali (assistenziali, assicurative, pensionistiche) determinano significative differenze: i sistemi capitalistici nazionali dell’Europa continentale manifestano livelli di welfare state e di uguaglianza dopo le tasse notevolmente maggiori di quelli dei paesi anglosassoni. In realtà anche i paesi europei appaiono soggetti a una ripresa dell’ineguaglianza, in termini non di reddito, ma di accesso all’occupazione: le rigidità di un welfare state più pesante proteggono gli occupati ma aumentano le distanze con gli esclusi da un lavoro stabile. Nel 1996 le percentuali di senza lavoro in Germania (10,3%), Francia (12,2%), Italia (12,1%) sono quasi doppie rispetto a quelle di Gran Bretagna (7,5%) e Stati Uniti (5,6%): con evidenti riflessi sulle statistiche della povertà, che registrano le persone con meno della metà del reddito medio nazionale. ­­­­­163

Tab. 4.1. Famiglie in condizione di povertà: percentuali sul totale, 1975-2000 1975

1980

1985

1990

2000

Francia Germania

14,8 6,6

18,0 10,3

14,8 9,2

8,4 5,9

7,3 8,4

Italia

21,8

12,0

14,7

12,8

12,7

6,3

14,1

21,7

20,7

12,5

12,3

12,4

14,8

17,3 11,8

17,0 11,8

Gran Bretagna Stati Uniti Giappone

Ineguaglianza e povertà non sono ovviamente indifferenti per la tenuta del tessuto sociale. Salute mentale e abuso di farmaci, aspettativa media di vita, obesità, rendimento scolastico, tassi di criminalità, mobilità sociale verso l’alto, sono tutte variabili che peggiorano a partire dagli anni Ottanta nei paesi occidentali con più alti livelli di ineguaglianza. In queste statistiche internazionali l’Italia degli anni Novanta occupa una posizione intermedia: più vicina ai paesi anglosassoni che a quelli europei per ineguaglianza (Fig. 3.2), più vicina ai paesi europei (ma ancora distante da quelli scandinavi) per qualità della vita, sia pure con la doppia (e correlata) eccezione negativa di un peggior rendimento scolastico sotto i 15 anni di età e di una minore mobilità sociale ascendente. La svolta politica degli anni Novanta, susseguente alla fine della guerra fredda, si sovrappone alla svolta monetaria ed economica. Nel corso dell’ultimo decennio del secolo, infatti, vengono al pettine i nodi e le fragilità dello sviluppo italiano. La spinta della terza Italia e la sua capacità di penetrazione sui mercati internazionali si affievoliscono sotto l’onda della competizione globale portata dai paesi asiatici in rapida crescita: prima le «anatre in volo» del Sud-Est (Malaysia, Thailandia, Vietnam, Filippine, Indonesia), poi i colossi di Cina e India. Nel 1992 la lira esce dal Sistema monetario europeo e si avvia un travagliato percorso di risanamento dei conti pubblici dettato dai parametri fissati nel Trattato di Maastricht (1992), che porta nel 1999 all’ingresso nell’euro. Il capitalismo italiano sembra aver assunto, nell’ultimo ventennio, una forma particolare, caratterizzata da una flessibilità a breve termine, di reazione agli stimoli del mercato specie in settori tradizionali o di beni intermedi dove prevalgono le piccole e medie imprese. Il ruolo delle ­­­­­164

grandi imprese resta molto limitato (hanno il peso minore nel confronto tra i principali paesi industrializzati) [...] Quello italiano è dunque un capitalismo che sembra più capace di sfruttare le risorse di flessibilità del suo tessuto sociale, ma che tende a limitare gli impegni più complessi, più rischiosi e a resa più lunga per i quali mancano quei requisiti istituzionali, di cultura, di politiche pubbliche, di relazioni industriali, di assetto proprietario delle imprese che – come mostra l’esperienza di altri paesi – sono necessari per orientarsi in tale direzione [...] I valori culturali non sostengono una fiducia impersonale e generalizzata, ma piuttosto una fiducia localizzata, personale, o a volta locale, cioè circoscritta a un certo contesto. Questo significa che tende ad esservi bassa fiducia nelle istituzioni, specie in quelle più lontane dall’esperienza dei singoli, mentre la reciprocità e le relazioni personali vengono ad avere un ruolo importante nell’orientare le relazioni sociali (Trigilia 1995, 774-775).

Dinamismo privato e disordine pubblico – per usare i termini di Carlo Trigilia – danno il senso della frammentazione della società italiana. Tra la fiducia a corto raggio delle forze del lavoro e le istituzioni politiche si allarga una distanza che il venir meno di partiti e sindacati (come organismi permanenti di orientamento e partecipazione) rende ancora più evidente. In tale distacco, per un momento Forza Italia e il suo leader sembrano rappresentare un nuovo strumento di raccordo. Per origine e natura sociale, ma anche per modalità di comunicazione (nel gennaio 1994 Berlusconi annuncia la «scesa in campo» con una videocassetta), questa novità politica si collega organicamente alla neotelevisione commerciale, cioè a una delle poche entità che ha saputo (e dovuto) mantenere nel tempo una capacità di ascolto e rappresentazione dell’Italia degli individui. All’esordio, più della metà dei parlamentari di Forza Italia viene da esperienze imprenditoriali (una cinquantina direttamente da Publitalia), a fronte del quarto scarso (al massimo) di tutti gli altri gruppi politici coevi e precedenti che hanno popolato il parlamento italiano: le elezioni del 1994 triplicano il numero di imprenditori in parlamento (Paci 1996, 773; Carboni 2007a, 59). Non è un mutamento di poco conto. All’accordo di basso livello tipico dell’esperienza di governo democristiana («disattenzione» fiscale e scarsa qualità dei servizi pubblici) si viene sostituendo una nuova cultura che vede il mondo come un insieme di opportunità da sfruttare e le istituzioni come strumento e condizione di questa libertà. I motivi morali della convivenza civile – che pure non sono estranei alla cultura imprenditoriale – arretrano però in secondo pia­­­­­165

no rispetto a questa spinta individualistica. Lo scenario nel quale essa è nata e cresciuta, fatto di laboriosità e consumi opulenti, diventa il nuovo scenario della politica. Lo stesso Berlusconi, una volta alla guida del governo, tende a mutuare metodi e aspirazioni efficientistiche della propria biografia precedente: con il risultato di mal sopportare il sistema di check and balances previsto dalla Costituzione. Ma è un momento. L’eterogeneità della coalizione che porta Berlusconi al governo (Lega al Nord, Alleanza nazionale al Sud) conduce rapidamente a un epilogo prematuro della legislatura. Le elezioni del 1996 assegnano una risicata vittoria all’Ulivo, la coalizione capeggiata da Romano Prodi che raccoglie il centro e la sinistra. Negli anni successivi Berlusconi dimostra ampiamente di saper vincere le elezioni e quindi di interpretare i sentimenti della maggioranza degli italiani, ma anche di non saper innescare un ciclo riformatore paragonabile a quello dei primi anni Settanta. Il disgusto per la politica e la fiducia a corto raggio permangono a presidiare il fossato che si riapre tra gli italiani e le istituzioni. 3. Neotelevisione e maleducazione È più facile allora comprendere perché molti degli elementi dell’avventura berlusconiana che suscitano legittimo scandalo nelle opinioni pubbliche occidentali – il conflitto di interessi, il monopolio televisivo, il tentativo di sottomettere il potere giudiziario – risultano invece molto più digeribili per una larga parte dell’opinione pubblica italiana. Intanto quegli elementi fanno parte dell’esperienza storica recente e condivisa (o sopportata, ma il risultato finale non cambia) dall’elettorato di centrodestra. Sono cittadini che i loro antichi partiti di riferimento – Dc e Psi, in primo luogo – hanno abituato all’uso spregiudicato del clientelismo e del sottogoverno, al controllo illimitato ed esclusivo dei media e della magistratura, alla rottura discreta e ad personam delle regole dello Stato di diritto. Un’assuefazione che, a propria volta, aveva alle spalle l’esperienza del partito unico fascista. Tuttavia è anche lungo l’elenco degli elementi fattuali che appaiono separare irrimediabilmente il Polo (poi Casa, poi Popolo) delle Libertà dal predecessore democristiano: il peso determinante di un’autorità carismatica, l’assenza di una cultura politica organi­­­­­166

ca, la genesi del partito-azienda, l’alleanza con forze post-fasciste e para-secessioniste, l’elevato grado di secolarizzazione (quanto meno nelle vite private di molti dirigenti) e una relazione scopertamente strumentale con il Vaticano, la scompostezza dei metodi di governo, il clima di scontro quotidiano con la magistratura. Se l’elettorato tollera queste novità di «maleducazione» culturale e politica rispetto alla tradizione più ortodossa dalla quale proviene il suo passato di simpatizzante democristiano, socialista o missino, ciò accade per effetto di una trasformazione del senso comune che ha molto a che fare con la neotelevisione e che precede di parecchio la «scesa in campo» di Berlusconi. Seppure di alcuni anni posteriore, il Grande Fratello (2000), format importato dall’Olanda che simula la convivenza forzata di un gruppo di persone entro la stessa casa, emblematizza bene questa trasformazione. Perché conduce in porto il lungo processo di divizzazione del cittadino medio, intrapreso ormai mezzo secolo prima da Lascia o raddoppia?. Uomini e donne senz’arte né parte, ma scelti da un’attenta regia, danno vita a un mix di psicodramma, recita a soggetto, competizione spregiudicata con lo scopo di espellere gli altri dal gioco. Questi personaggi normali immessi in situazioni anormali esprimono una messa in scena potenzialmente più attrattiva della classica fiction perché più capace di essere «bidirezionale»: cioè di attivare maggiormente i meccanismi di «mimesi» e «metessi», di immedesimazione e partecipazione, da parte degli spettatori. Tra medium e spettatore subentra un patto diverso dal passato: il secondo conquista l’illusione del protagonismo grazie al primo. Si ribalta così un «patto comunicativo» che anche negli Stati Uniti regola da sempre la programmazione televisiva, come anche quella degli altri media. La maggior parte della gente comune non fa mai notizia, se non come statistica. Come la gente comune lavora, ciò che fa nel tempo libero, in famiglia, in chiesa, nei circoli o in altri luoghi associativi, che atteggiamento hanno nei confronti del governo e delle istituzioni: è molto difficile che tutto ciò entri mai a far parte dell’informazione (Gans 1979, 15).

Adesso la gente comune occupa la scena. Ma il senso, in fondo, è lo stesso di Dallas: la riduzione del mondo e della vita a un microcosmo di individui governato dalle logiche (cooperative o conflittuali a ­­­­­167

seconda dei casi) della sopravvivenza personale. Con in più la finzione della realtà, che si fonda sulla messa in scena di non-personaggi comuni e sulla rozza discussione psicologica da salotto dei loro comportamenti. Il grande successo del programma mandato in onda da Canale 5 – che si prolunga sulla stampa scandalistica di settore e in qualche incerto inizio di carriera nel mondo dello spettacolo – testimonia dell’avvenuta perdita nel pubblico di ogni confine tra realtà e fiction. Ciò che si vede in televisione acquista significato perché verosimile, coerente a una trama interna che ha come unico scopo quello di catturare l’attenzione. Il rispetto delle regole (ad esempio, l’effettivo isolamento dei partecipanti e il grado di libertà dei loro comportamenti) diventa del tutto secondario rispetto alla suspence del racconto: ci si contenta di parteggiare per chi sta più simpatico e di vedere chi vince. Sono diversi gli italiani che vivono in questo modo la campagna elettorale del 1994 e molte delle successive. È per questa ragione che il richiamo alle regole e alla democrazia risulta per loro poco comprensibile, alla stregua di un pignolo e noioso intervento da grillo parlante, interruzione fastidiosa di uno show che deve, per definizione, solo andare avanti. Nel percorso di «maleducazione» televisiva degli italiani, il Grande Fratello è solo un (provvisorio) punto di arrivo. La prima tappa di tale percorso è la riduzione del divario di ascolti tra Rai e Mediaset. A cambiare i rapporti di forza è nel 1992 l’arrivo del Tg5, diretto dall’ex giornalista Rai Enrico Mentana: il distacco cala allora nel giro di un solo anno dal 12 al 3%, per mantenersi a meno del 5% negli anni successivi. La ruota della fortuna (1989), ennesimo gioco condotto da Mike Bongiorno, funge da traino potente al nuovo telegiornale e tra 1992 e 1997 Canale 5 sale dal 12 al 22% di share medio annuo. Si tratta di una scalata compiuta a danno soprattutto di Rete 4 (che cala dal 20 al 9-10%), ma che conquista anche nuovi spettatori: l’ascolto medio sale dai 7,2-7,3 milioni di spettatori del 1990-1991 ai circa 8 milioni del 1994-1996 (Anania 1997, tab. 22). L’ingresso in scena del direttore – che nei telegiornali Rai rimane rigorosamente dietro le quinte – approfondisce il mutamento della teleprossemica (la gestualità) del giornalista, avviato negli anni Ottanta da Lilli Gruber che al Tg2 si presenta girata di tre quarti al pubblico. Mentana al Tg5 personalizza ancora di più questo rapporto: il ritmo si velocizza, conduttore e inviati dialogano, il commento acquista scioltezza e informalità, diventa accattivante e quasi cerca ­­­­­168

la complicità degli spettatori. Il Tg5 non innova molto sul piano dei contenuti: partito per dare maggiore spazio alla cronaca, viene suo malgrado occupato dalle convulsioni della fase politica tempestosa del dopo guerra fredda e di Mani Pulite (come viene chiamata l’ondata di arresti che a partire dal febbraio 1992 decapita il sistema dei partiti). Nondimeno riesce a conquistarsi una discreta credibilità nel pubblico, grazie anche al gioco di squadra Mediaset e alla maggiore partigianeria degli altri programmi informativi di Rete 4 e Italia 1 (condotti da Paolo Liguori ed Emilio Fede). Eppure non sono questi i dati più importanti. Nel 1995 i telegiornali coprono meno del 9% del tempo di programmazione e sulle reti private il dato è ancora minore. Ancora nel 1996 le fasce di età in cui Mediaset prevale nettamente sulla Rai sono quelle più giovani, da 2 a 24 anni (Anania 1997, 149-150). Sono fasce di età che in assoluto guardano poca Tv e ancora meno i telegiornali (Tab. 4.3). In realtà i programmi che fanno opinione e tendenza in questa parte di società sono altri e sono tutti creature del network privato: Amici (1992), talk show per teenager condotto con toni asciutti da Maria de Filippi, e Karaoke (1992), palcoscenico musicale itinerante e trampolino di lancio di Fiorello. Entrambe le trasmissioni rappresentano altrettante tappe del percorso di «maleducazione», di divizzazione dell’italiano medio e di «autotelevisione», aperto da Lascia o raddoppia? e destinato ad arrivare fino al Grande Fratello. Mentre prima attraverso la televisione la commessa sognava di diventare una diva, adesso diventa diva attraverso la televisione, immediatamente e senza sforzo. Il confine tra spettacolarizzazione e mercificazione del proprio corpo si assottiglia o, per meglio dire, la televisione invita a varcarlo con maggiore disinvoltura. Almeno un po’ dell’odierno fenomeno escort nasce di qui: senza inventare niente di nuovo o di particolarmente scandaloso – si pensi a Bellissima (1951), il film di Luchino Visconti con Anna Magnani –, ma trovando nella televisione un mezzo (o uno scopo) potente e diretto, una giustificazione autorevole, collettiva e rassicurante. Del resto, la comparsa anche fulminea in Tv diventa un investimento reputazionale personale, potenzialmente ma effettivamente capace di schiudere impensabili carriere nel mondo della politica e dello spettacolo. La stessa semplificazione dei quiz inaugurata nel 1983 da Pronto Raffaella con i fagioli del barattolo di vetro – dallo specialismo erudito talvolta maniacale di Lascia o raddoppia? a do­­­­­169

mande per tutti, fino a indovinare in modo assolutamente casuale il contenuto di pacchi – risponde alla medesima trasformazione della televisione «da maestra ad arena collettiva». Il pubblico, in studio o da casa, diventa l’esperto che valuta e giudica. Come il carnevale di strada nelle società premoderne, Scherzi a parte (1992) rovescia le gerarchie sociali: sono i personaggi dello spettacolo ad essere presi in giro. Ai suoi esordi la candid camera italiana – con Specchio segreto (1964) di Nanni Loy – provocava la gente comune con rotture studiate delle convenzioni sociali (inzuppare la brioche nel cappuccino del vicino al bancone del bar) e ne fotografava lo smarrimento e l’irritazione di fonte all’imprevisto. Adesso immortalare le medesime reazioni della gente famosa realizza un ribaltamento di ruoli simmetrico a quello del Grande Fratello: come la gente comune può diventare famosa, anche la gente famosa può manifestarsi insicura e inviperita alla stessa stregua della gente comune. I meccanismi platonici di «mimesi» e «metessi» funzionano in entrambi i sensi di marcia. La televisione realizza così il sogno americano di una società senza classi: è la nuova terra delle opportunità, il nuovo elisir di immortalità gratuito e a disposizione di tutti. Altro che politica. Anzi, il modo di guardare la televisione come mezzo per il soddisfacimento di bisogni immediati (attraverso la pubblicità e/o l’immedesimazione nel mondo dello spettacolo) plasma il modo di guardare alle istituzioni come strumento da usare per la propria vita: se non servono, meglio starne lontani. Come osserva Peppino Ortoleva (1995, 118) con le elezioni del 1994 una nuova linea di frattura, l’anti-intellettualismo, si sedimenta nella vita politica e civile del paese: è la rivincita populista di una «società post-alfabeta» formata dalla neotelevisione commerciale contro le élites di ogni ordine e grado. In una cornice di riferimento in cui tutto sembra essere diventato futile e immediato, aleatorio ed effimero, con la vittoria travolgente del solipsismo individuale tutto è consentito a chi ha la missione di esaltare se stesso, perché il vero valore non è il comportamento, bensì la motivazione: l’essere se stesso, appunto. Come se la dimensione etica del privato fosse prevalente al punto tale da modificare anche la morale collettiva (Censis 2009, 15).

Questa trasformazione antropologica – evidentemente connessa alla mutazione individualista – accomuna strati sociali sia tradizionali, sia emergenti: gli anziani e le casalinghe come anche le commesse e ­­­­­170

il popolo delle partite Iva e dei lavoratori autonomi. Su questi italiani la fiaba moderna del self made man, le sue promesse e le sue paure (del nemico di sempre: il comunismo), esercitano una presa efficace, tale da lasciare sullo sfondo ogni preoccupazione per le regole e il galateo «di una volta». D’altra parte, la «maleducazione» politica in televisione viene da lontano: dal tempo e dal luogo insospettabile di Samarcanda, quando il wrestling prende il posto della boxe (cfr. supra, pp. 140-141). Sul piano della curvatura commerciale e spettacolare non esiste differenza di sostanza tra televisione pubblica e televisione privata, come testimonia la costante rincorsa reciproca alla raccolta pubblicitaria. Alla fine degli anni Novanta il canone di abbonamento alla Tv pubblica italiana è il più basso in Europa (l’equivalente di 91 dollari, contro i 125 della Francia, i 193 della Germania, i 167 della Gran Bretagna). Il deficit di entrate da abbonamenti è compensato da un surplus di investimenti pubblicitari che colloca la Rai ai vertici delle classifiche europee in fatto di spesa e a fanalino di coda (con distacco) per autonomia produttiva. Nonostante le reiterate raccomandazioni in senso contrario dell’Unione Europea, la televisione italiana resta una delle più «colonizzate»: 357 ore annue di programmi a produzione nazionale nel 1998, contro 621 della Francia, 851 della Spagna, 1.321 della Gran Bretagna (Padovani 2005, 147). Del resto, i programmi acquistati da reti estere o da società esterne premiano almeno sul piano dell’audience: nel 2000 la Tv di Stato italiana conserva uno share medio di pubblico (48%) superiore a quello dei canali pubblici di Francia (40%), Germania (42%) e Gran Bretagna (39%) (Papathanassopoulos 2002, tab. 3.1). Per gli italiani, tuttavia, la televisione rimane anche fonte primaria di informazioni. Secondo un sondaggio Datamedia del 1995 il telegiornale è il canale principale di formazione delle scelte di voto per il 50% del campione, contro il 26% che lo individua nella cultura personale, l’11% nella stampa quotidiana, il 7% nei libri, il 3% negli amici, il 2% nei periodici (Calabrese-Volli 1995, 5). Quindici anni più tardi, le indagini campionarie del Censis accentuano ulteriormente questo dato: nelle elezioni politiche del 2008 la quota di italiani che ha maturato la propria scelta di voto attraverso il telegiornale sfiora il 70%, di contro a un quarto che lo ha fatto attraverso la stampa e a quasi un quinto che se l’è formata nelle conversazioni con parenti e amici (Censis 2009, 123). L’ascolto dei telegiornali in ­­­­­171

Italia, dopo la liberalizzazione di quelli privati nel 1991, risale dai 13 milioni del 1987 e torna ad oscillare tra 18 e 25 milioni di spettatori – complice la difficile fase di transizione politica che si apre – contro i 12-15 milioni di lettori di quotidiani (compresi quelli sportivi). Nel 1999 la percentuale di italiani che per informarsi guardano ogni giorno la televisione (82%) è tra le più alte in Europa, superiore a quelle di Gran Bretagna (72%) Germania (70%) e Francia (59%) (Papathanassopoulos 2002, tab. 6.1). Ciò non toglie che l’ascolto dei telegiornali (tutti) rifletta e anzi accentui i tratti generali dell’ascolto televisivo. Auditel lavora sull’indice di concentrazione: quando è superiore a 100 significa che nelle 5 mila famiglie del campione di pubblico televisivo quella certa quota di spettatori (femmine o maschi, giovani, anziani, meridionali...) è sovrarappresentata rispetto alla percentuale da essa coperta nella popolazione totale. A seguire di più i telegiornali (come anche la televisione in genere), secondo i dati Auditel, sono gli italiani con minore capitale socioculturale: quelli che hanno solo la licenza elementare (ma nel 1995 sono 19 milioni, un terzo del totale) e anziani sopra i 55 anni (15 milioni, pari al 28%). Si tratta di una tendenza che tra 1995 e 2009 non fa che approfondirsi. Marino Livolsi (2005) interpreta questa tendenza nei termini di una polarizzazione del pubblico televisivo italiano. Da un lato, una maggioranza relativa (45% nel 2003) ad alto consumo (più di tre ore giornaliere) e basso capitale sociale, la cui modalità di ascolto è prevalentemente passiva: nelle sue file risiede il quarto di spettatori che, secondo il sondaggio Datamedia del 1995, non cambia mai canale durante gli spot pubblicitari. La parte residua del pubblico televisivo si divide tra una minoranza (18%) a basso consumo (meno di un’ora al giorno), con forte capacità di scelta critica dei programmi da vedere, e un «centro» (36%) contraddistinto da livelli di consumo intermedi (1-3 ore al giorno) e corrispondente alla gran parte del pubblico che fa zapping e/o guarda solo alcuni spot. I «teledipendenti» coincidono con i più anziani, i meno abbienti e i meno istruiti: gli italiani che nelle mappe Eurisko (Fig. 2.3) si collocano attorno ai poli della marginalità sociale, dell’inerzia, dell’egoismo. Sul piccolo schermo seguono praticamente tutto, ma se li si vuole trovare concentrati tutti insieme (dato importante per gli inserzionisti pubblicitari) è giocoforza andare sui film, sui contenitori della domenica pomeriggio, sul varietà del sabato sera: sono questi gli appuntamenti ­­­­­172

Tab. 4.2. Dati Auditel di ascolto dell’intera giornata e dei telegiornali, 1995-2009 Indice di concentrazione (spettatori/popolazione)

Maschi Femmine Maschi 4-7 anni

Indice di concentrazione telegiornali

1995

2009

1995

2009

89 110

87 112

90 109

87 112

76

60

48

25

Maschi 8-14

71

67

44

32

Maschi 15-24

64

55

51

36

Maschi 25-34

73

58

68

50

Maschi 35-44

85

77

81

64

Maschi 45-54

96

90

105

84

Maschi 55-64

119

113

141

134

Maschi 65+

129

136

167

177

Femmine 4-7

69

62

45

34

Femmine 8-14

76

71

47

38

Femmine 15-24

81

63

64

44

Femmine 25-34

92

83

78

62

Femmine 35-44

105

96

98

82

Femmine 45-54

125

122

134

122

Femmine 55-64

141

142

162

169

Femmine 65+

149

159

172

189

Nord-Ovest

103

101

108

109

Nord-Est

105

105

97

109

Centro

99

97

101

97

Sud e Isole

96

103

89

92

127

145

133

161

Istruzione media inferiore

95

105

89

99

Istruzione media superiore

85

85

88

83

Laurea

72

69

86

70

Istruzione elementare

fissi cui la neotelevisione commerciale è riuscita ad abituarli. Viceversa gli «spettatori consapevoli» stanno nell’altra parte di società: giovani, istruiti, benestanti, integrati, dinamici, socializzati. Sono, al­­­­­173

meno in parte, quelli che seguono Amici e Karaoke, ma anche Le iene (1997), programma di giornalismo provocatorio su Italia 1; Quark (1981), classica testata di divulgazione scientifica condotta da Piero Angela su Rai1; Report (1997), rubrica di giornalismo serio e non asservito diretta da Milena Gabanelli su Rai3. Tuttavia a me sembra che questa rappresentazione polarizzata del pubblico televisivo – non troppo lontana, a ben vedere, dalla distinzione del ceto medio in «riflessivo» e non, proposta da Paul Ginsborg – rifletta solo una parte della realtà. In effetti la distribuzione del consumo televisivo per gruppi sociali nel 2003 ricalca da vicino quella del 1986 (Tab. 3.2): piuttosto che disporsi ai due estremi di una scala (a meno di non contrapporre pensionati e casalinghe a tutto il resto, il che ci direbbe molto poco), segue un gradiente inversamente proporzionale a reddito, istruzione e capitale sociale (Livolsi 2005, 4547). Ma soprattutto la sua disaggregazione per gradimento di macrogeneri (informazione, cultura, fiction, intrattenimento) mostra che i gusti sono in larga parte trasversali e che tutti gli spettatori (quelli dipendenti e quelli consapevoli) sono in qualche misura onnivori. Il consumo televisivo è per sua natura misto, contagioso, inerziale e debordante. Chi ha più cose da fare guarda meno televisione. Ma la guarda anche lui e quando la guarda, guarda un po’ tutto. Tab. 4.3. Ascolto medio (minuti) e percentuali per genere televisivo, 2003 Minuti

Film

Telefilm

Telegiornali

Pubblicità

Pensionati Casalinghe

315 288

12,8 12,5

13,2 12,9

13,5 13,0

14,3 12,7

Commesse

196

8,5

9,9

10,0

12,6

Operai

193

11,3

12,4

10,5

10,5

Impiegati

155

13,6

13,4

13,6

16,3

Manager

129

13,7

12,5

12,9

11,0

Rampanti Emergenti

106 84

14,8 13,0

13,6 12,0

14,0 12,5

12,0 10,7

Proprio per questo i dati dell’Osservatorio di Pavia sono importanti per la deontologia professionale del lavoro giornalistico, ma assai meno per la formazione delle opinioni e del senso comune. La corrispondenza (relativa e non assoluta) tra elettorato di centrode­­­­­174

stra e reti Mediaset si costruisce nel tempo, lungo un percorso di divizzazione dell’italiano medio, perdita di confine tra vero e verosimile, prevalenza dello show sulle regole, che non passa attraverso l’informazione dei telegiornali, bensì attraverso (quasi) tutto il resto. La neotelevisione commerciale «ha istinti e passioni suoi propri» (Ortoleva 1995, 113). La sua differenza con la paleotelevisione pedadogica sembra ricalcare da vicino quella che, a metà Ottocento, Tocqueville tracciava tra giornalismo americano ed europeo: Lo spirito del giornalista, in Francia, consiste nel discutere in modo violento, ma elevato e spesso eloquente, i grandi interessi dello Stato e, se questo non avviene sempre, è perché ogni regola ha le sue eccezioni. Lo spirito del giornalista, in America, consiste nello stimolare grossolanamente, senza preparazione né arte, le passioni di coloro cui si indirizza il giornale, nel lasciare i principi per impadronirsi degli uomini, seguirli nella vita privata e metterne a nudo le debolezze e i vizi (Tocqueville 1997, 198).

La campagna elettorale del 1994 mette in luce la maggiore capacità delle reti Mediaset – rispetto alla «disordinata» competizione interna di quelle Rai – nel penetrare in fasce differenti e complementari di pubblico. Rete 4 si indirizza verso quelle anziane (a prevalenza femminile), Italia 1 coinvolge soprattutto bambini e giovani sotto i 34 anni, mentre Canale 5 (alla pari di Rai1) non si differenzia dai dati medi dell’ascolto televisivo, confermando così la propria vocazione di rete familiare e generalista. Sono tratti destinati ad essere fedelmente e gelosamente mantenuti nel tempo, tra 1995 e 2009. Potrà sembrare strano, ma stiamo ancora parlando – in termini quantitativi – di una metà della popolazione. Tra 1995 e 2010 nell’arco della giornata l’ascolto medio della televisione supera raramente i 10 milioni e in prima serata raggiunge un totale di 27-28 milioni: poco più di un italiano (sopra i 4 anni di età) su due. Quasi metà degli italiani non guarda la televisione. Non sono ovviamente sempre gli stessi, di volta in volta cambiano; ma rappresentano pur sempre una fetta ragguardevole di popolazione. Per di più, gli spettatori assidui si disperdono su una serie di programmi che, dalla fine degli anni Novanta, si moltiplicano sempre di più grazie all’avvento della televisione satellitare e della pay tv. Solo in occasioni straordinarie non particolarmente rilevanti dal punto di vista politico-culturale ­­­­­175

(partite di calcio, Festival di Sanremo), si concentrano su una stessa trasmissione fino a raggiungere picchi di 20-21 milioni. Desidero rivalutare l’intuizione (primitiva ma densa di sviluppi clamorosi) della non-audience. Proponendo anzi un neologismo maccheronico che conferisca dignità e identità ai milioni di persone che non guardano una determinata trasmissione: «absence». L’«absence» della Piscina di Alba Parietti, ad esempio, è stata di 57 milioni, simile a quella di Funari. Molto alta anche l’absence di Fantastico (circa 53 milioni), rispettabilissima persino quella di Novantesimo minuto (51 milioni) [...] So bene la scontata critica che può essere rivolta al concetto di «absence»: mentre si sa per certo che i tre milioni di italiani che guardano La piscina stanno certamente guardando La piscina, è molto incerta l’occupazione dei 57 milioni di italiani che non stanno guardando La piscina. Ci sarà chi dorme, chi mangia, chi gioca, chi esce, chi fa l’amore, chi (vera anima ideologica dell’«absence») non sta facendo un tubo e gira i pollici. Ci sarà chi sostiene, insomma, che l’«audience» indica gruppi omogenei, mentre l’«absence» definisce gruppi eterogenei, dunque non definisce alcunché. Eppure è altrettanto ovvio che l’«absence», pur nella sua frastagliata composizione, contiene un elemento unificante (non aver visto La piscina) di grande rilievo, soprattutto se raffrontato [...] al numero mirabolante di articoli, fotografie, copertine, soffietti e colte critiche pubblicate dal cento per cento dei giornali italiani a proposito della Piscina stessa [...] La televisione è quel luogo nel quale un insieme di piccole minoranze transita per i più disparati bisogni, dai più turpi ai più edificanti; ma neppure la somma aritmetica di queste minoranze è paragonabile alla misteriosa e inconoscibile galassia dell’«absence», la non televisione (Serra 1991).

Michele Serra esagera un po’. Se si levano i bambini, gli italiani che non guardano La piscina sono meno di 57 milioni e tra di loro ce ne sono molti che a quell’ora guardano comunque altri programmi del piccolo schermo. La generazione del 2000 è quella che in Italia consuma più televisione di tutte le precedenti. Ma non ha torto nella sostanza del ragionamento. Le «piccole minoranze» televisive contano più della maggioranza «non televisiva» per due ragioni. La prima è la loro centralità nel sistema della neotelevisione commerciale: quelle minoranze sono le uniche a fornire dati (veri o presunti che siano, comunque orientano gli investimenti) su cui fondare strategie produttive di merci e programmi. Salvo eccezioni, il mercato ne conferma grosso modo la validità. La seconda ragione è che la ­­­­­176

televisione si presta a diversi usi sociali: la parte che non la guarda rimane esclusa dalla conversazione sulla televisione e quindi, in una certa misura, ai margini dei processi di produzione e riproduzione di tendenze e opinioni diffuse, cioè ai margini di quella che molti definiscono come «cultura di massa». Il talk show televisivo diventa una nuova «sfera pubblica», non più soltanto nel senso classico di Habermas (1971), come sede moderna della formazione di un discorso e di una volontà collettivi che rompe l’isolamento degli individui tipico delle società premoderne; bensì anche come strumento sempre più indispensabile di integrazione sociale, cioè di apprendimento, relazione, appartenenza entro i confini della stessa comunità, sia pure immaginata attraverso il piccolo schermo. Rispetto ai caffè e alle gazzette delle grandi rivoluzioni borghesi di fine Settecento, questa nuova sfera pubblica televisiva perde quasi del tutto la politica ma incorpora empaticamente il vissuto personale di chi ne è protagonista e di chi la guarda da casa: i conflitti e le riconciliazioni tra uomini e donne, tra genitori e figli, tra semplici cittadini. La sua lingua è uno psicologismo semplificato che si esaurisce nel tempo presente dell’esperienza e nello spazio ristretto delle esistenze individuali. Da questo punto di vista la neotelevisione commerciale non conosce opposizione tra programmazione e pubblicità; e neanche il suo pubblico. Nel 1993 le sei reti maggiori di Rai e Mediaset trasmettono 791 mila spot commerciali: Canale 5 da sola (167 mila) ne trasmette più di tutte le reti Rai messe assieme (131 mila). Nondimeno Canale 5 si mantiene saldamente attorno al 20% di share per tutti gli anni Novanta: il carico abnorme di pubblicità non penalizza l’ascolto delle reti private. Nel corso del decennio si verifica comunque un effetto saturazione: l’ascolto medio giornaliero raggiunge un tetto attorno agli otto milioni di persone e lì si ferma, quello del prime time serale si assesta sui 24 milioni. Anzi la quota di spettatori assidui (che vede la Tv tutti i giorni) diminuisce dal 38% del 1992 al 28% del 1999, mentre quella che non la vede mai o quasi mai sale dal 31 al 40%. A giudicare dai dati disponibili, la disaffezione si indirizza particolarmente nei confronti dei programmi di intrattenimento (il cui gradimento cala dal 23 al 14%), di contro alla sostanziale stabilità di quelli di informazione (attorno al 30%) e all’aumento (dal 57 al 69%) dei film. I riflessi sul mercato degli investimenti pubblicitari sono pressoché immediati: a metà degli anni Novanta la crescita co­­­­­177

Fig. 4.2. Investimenti pubblicitari in Italia (milioni di euro), 1962-2007 10.000

8.000

6.000

4.000

valori costanti 2005 valori correnti

2.000

1962 1975 1977 1979 1981 1983 1985 1987 1989 1991 1993 1995 1997 1999 2001 2003 2005 2007

stante in cifra assoluta che dura dal 1960 si arresta in tutta Europa e dovrà aspettare il nuovo millennio per poter ripartire. L’Italia non fa eccezione: la crisi degli investimenti riguarda in particolare la televisione, che per la prima volta vede calare (sia pure temporaneamente) la propria quota percentuale sul totale. 4. «Homines videntes» Non si tratta di una congiuntura temporanea. Una volta scontata l’emergenza seguita agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, le tendenze degli investimenti pubblicitari alla crescita e alla concentrazione sul mezzo televisivo non riprenderanno con la forza costante degli anni Ottanta. Per la prima volta dal 1945 le spese delle famiglie italiane si contraggono e ritorna l’attenzione al fattore prezzo: cresce il pubblico della grande distribuzione. Per molte agenzie di comunicazione iniziano anni di vacche magre. Sono segnali che si riverberano anche a livello della cultura «alta». La vittoria di Berlusconi riattiva infatti una critica radicale e apocalittica della televisione. In edizione originale il saggio di Karl Popper (2002) precede di pochi anni quello di Giovanni Sartori (1997), ma entrambi si muovono su un piano di analisi – quello dei mutamenti indotti dall’utenza assidua del mezzo televisivo sui sistemi cognitivi dell’individuo – significati­­­­­178

vamente diverso dal classico approccio politico-manipolatorio della Scuola di Francoforte. L’homo videns rappresenta una mutazione dell’homo sapiens perché l’immagine, a differenza del simbolo, tende a perdere rapporto con la parola e il mero vedere è cosa diversa dal capire e non mette in moto l’immaginazione (come invece fanno il libro e la radio). La netta preminenza di fiction e intrattenimento sugli altri generi televisivi (tra 1995 e 2009 più di metà dell’intero tempo di programmazione delle reti nazionali, sia tradizionali sia satellitari) produce un effetto di spoliticizzazione o, per meglio dire, di «emotivizzazione» della politica. La «solitudine elettronica» davanti al piccolo schermo (di televisore o computer) sostituisce i partiti come strumenti collettivi di formazione dell’opinione pubblica, con l’effetto di una perdita secca del senso della comunità civica. Tab. 4.4. Macrogeneri televisivi: percentuale del tempo di programmazione totale al netto della pubblicità sulle sette reti maggiori (Rai, Mediaset, La 7), 1995-2009 Generi

1995

2009

Film Fiction

13,9 21,8

10,1 23,6

Cultura

5,2

4,9

Informazione

4,4

6,9

Bambini

6,8

4,7

Sport

6,0

3,9

Intrattenimento

16,1

13,7

Telegiornali Programmi di servizio

10,4 1,7

13,0 7,2

Sono tesi che hanno indubbi riscontri nella realtà. Ma non esclusivi e forse neppure dominanti. Perché ignorano la svolta vissuta dalla sociologia dei media a metà degli anni Settanta e quindi rischiano di accreditare un’idea dello spettatore televisivo passiva e monolitica, incapace di quell’uso plurale e «intelligente» del piccolo schermo che invece sondaggi a campione e rilevazioni periodiche mettono puntualmente in luce. Dentro le famiglie italiane il consumo di televisione si diversifica: individuale di mattina e di notte, dei figli al pomeriggio, del nucleo domestico al gran completo la sera dopo cena. L’integrazione del teleschermo negli equilibri e nei tempi ­­­­­179

familiari rispecchia un negoziato tra sessi e generazioni in costante evoluzione secondo i diversi livelli di reddito e istruzione: al loro crescere, cresce anche il pluralismo dei gusti e delle preferenze, la fruizione critica e articolata dei programmi televisivi. Più in generale, la neotelevisione commerciale rispecchia una trasformazione sociale (la mutazione individualista) che la precede e la sostiene nel tempo: la televisione non ne è la causa. Le dinamiche imprenditoriali che danno origine alle Tv libere sono anzi un effetto della mutazione individualista, anche se poi di quella mutazione la neotelevisione diventa sponda determinante nei sentimenti e negli umori delle grandi masse. Il piccolo schermo «coltiva» spinte e tendenze che sono già presenti e vive nel suo pubblico. «Il vero simbolo del berlusconismo – sostiene un attento osservatore del Nord Italia come Aldo Bonomi – non sta quindi nella televisione, ma nel capannone e nella villetta con i nanetti nel giardino» (Bonomi 2008, 52). Non solo. Le tesi apocalittiche sottovalutano la moltiplicazione plurale dei media che è in atto. Molti degli odierni movimenti significativi dell’opinione pubblica internazionale – dall’«onda verde» iraniana della primavera 2009 alle rivelazioni degli archivi diplomatici statunitensi condotta da Wikileaks nell’inverno 2010, ai moti popolari che scuotono i paesi arabi del Mediterraneo all’inizio del 2011 – passano anche attraverso social network via computer (Facebook, YouTube, Twitter) che trasformano la «solitudine elettronica» in reti a distanza di informazione e mobilitazione. È quasi una sorta di «canto del cigno» (o «secondo tempo», se si vuole guardare il bicchiere mezzo pieno) della mutazione individualista. Le reti informatiche aprono nuove dimensioni post-fordiste e post-tayloriste di rapporto personale con il lavoro: la liberazione dall’obbligo della contiguità fisica e dagli orari fissi, la possibilità di lavorare da casa senza limiti di tempo, la remunerazione a prestazione (e non più a tempo), ma anche l’impraticabilità dello sciopero come arma di pressione e la fine del nesso tra salario e sussistenza e riproduzione nel tempo della forza lavoro. Nel Nord milioni di soggetti fanno impresa, come migliaia di giovani lavorano nelle nuove professioni dei servizi e della creatività con autonomia, rischio e merito, implementando le loro conoscenze. In contesti di flessibilità e mobilità stressanti [...] a questo nuovo esercito del lavoro non si indica un futuro possibile che abbassi il rischio di non avere una ­­­­­180

pensione e alzi la qualità dei servizi. Si offre il ritorno al passato, all’unico codice che la sinistra conosce e difende: quello del lavoro normato e salariato. Ma il «secondo popolo» è diventato «moltitudine», massa deprivata della socialità e della coesione che avevano contrassegnato la classe, nuda vita al lavoro dentro le reti dissipative dell’economia globale. Al contempo si è affermata una volontà di «fare da sé», il bisogno di autonomia e il rifiuto di farsi definire da altri, di farsi «pensare da altri». Questo è l’elemento che guida la galassia dei nuovi lavori, che rende tollerabile ciò che altrimenti sarebbe del tutto intollerabile: la flessibilità, l’incertezza (Bonomi 2008, 146-147).

Sono dinamiche contraddittorie in pieno svolgimento, anche se riguardano una nicchia della popolazione italiana. Per la grande maggioranza l’Italia degli anni Novanta appare percorsa dalla crescente percezione di un allargamento delle distanze sociali e di una conseguente insoddisfazione per la propria condizione materiale. Solo in parte tale percezione trova riscontro nei dati della realtà: sia pure con un picco nel 1998, tra 1993 e 2006 l’indice di Gini rimane sostanzialmente stabile sotto il livello di 0,35 toccato all’inizio degli anni Novanta (Fig. 3.2) e la percentuale di famiglie povere non conosce significativi incrementi. Piuttosto, la spinta positiva della mutazione individualista innescata dalla baby boom generation sembra incontrare un punto di arresto. Secondo l’indagine condotta dalla Banca d’Italia su un campione di 8 mila famiglie, il lavoro autonomo cessa di espandersi e anzi si contrae, in peso relativo sia sulla popolazione che sul reddito totale. L’ombra dell’invecchiamento relativo e del declino del tasso di fecondità si allunga sulla società italiana: i pensionati sono l’unica categoria ad espandersi (Banca d’Italia 2008). I dati complessivi dell’Istat sugli occupati sembrano confermare queste tendenze di fondo. A soffrire è anche la terza Italia, che finora ha trainato il resto del paese. I distretti attirano forza lavoro immigrata, che altera profondamente il tessuto sociale comunitario su piccola scala della campagna urbanizzata (immobile da generazioni) e suscita allarme. La competizione dei paesi in via di sviluppo a basso costo della manodopera complica la vita delle piccole imprese italiane e mette a nudo la loro bassa capacità di innovazione tecnologica. La guida nei processi di rinnovamento viene invece assunta da medie imprese, capaci di delocalizzare attività all’estero e di svettare sul panorama ­­­­­181

Tab. 4.5. Categorie e condizioni: percentuali sulla popolazione e sul reddito totale, 1989-2006 1989

1993

1998

2006

39,83

39,97

35,88

38,37

–3,68

6,93

4,26

4,32

4,86

–29,80

Autonomi

20,22

17,33

16,83

16,55

–18,15

Pensionati

32,03

36,18

38,68

37,28

+16,40

Impiegati e operai

36,93

38,66

31,73

32,31

–12,52

Manager e quadri

9,86

7,39

7,16

7,44

–24,50

26,19 26,31

21,35 31,58

23,02 35,79

25,29 33,60

–3,41 +27,72

Quota nella popolazione: Impiegati e operai Manager e quadri

Variazione %

Quota di reddito:

Autonomi Pensionati

diffuso delle piccole unità produttive. Le «subculture» rossa e bianca si scongelano (nel 1999 le sinistre perdono per la prima volta la guida dell’amministrazione comunale di Bologna); partiti e sindacati tradizionali abbandonano il ruolo di collanti centrali delle società locali. Il voto operaio smarrisce la propria originaria collocazione identitaria a sinistra e nell’arco di tempo compreso tra 1983 e 2008 si rovescia di segno: le preferenze per i partiti di centrodestra salgono dal 31 al 60% (ma nel Nord Italia dal 26 al 66%). L’unica condizione professionale a compiere il percorso opposto da destra verso sinistra (i cui voti crescono dal 40 al 60%) è quella degli insegnanti. A livello politico e istituzionale l’Italia dei «piccoli» privati (delle microimprese, del lavoro autonomo, dell’artigianato) risulta e si sente sottorappresentata. Il «rancore» diventa il tono dominante di questa parte d’Italia. Tutti quelli che erano stressati venivano dipinti come bastardi, evasori fiscali, campioni del familismo amorale ecc. L’intuizione politica del leghismo era stata invece proprio comprendere che il vuoto determinato dalla fine delle appartenenze del Novecento poteva essere colmato con il pieno dell’identità territoriale. Un dispositivo di riduzione della complessità psico-sociale (quindi pre-politica) che incontrò il consenso diffuso di orfani, stressati e spaesati alla ricerca di un riparo dalla fine del recinto di classe, dalla crisi dell’individualismo proprietario di prima generazione ­­­­­182

e dall’apocalisse culturale comunitaria. Su questi pilastri, che attengono alla sfera antropologica dei soggetti, si regge l’azione capillare di radicamento territoriale della Lega come imprenditore politico della paura [...] Così mentre la Lega proponeva con successo alcune semplici ricette sagacemente confezionate sul piano della comunicazione mediatica ma anche della pratica sociale e dell’organizzazione politica – incentrate nel diventare rifugio dall’avanzante globalizzazione che andava imponendosi sul territorio, disarticolando quell’impasto tra famiglia, impresa, e comunità locale che aveva assicurato crescente benessere e coesione sociale – la sinistra politica rimaneva tutta sulla retorica socialdemocratica tra statualità e mercato e si candidava a sostenere la transizione tecnocratica verso l’Europa (Bonomi 2008, 47-48).

Nelle regioni centrali i tassi inferiori di immigrazione e una lunga storia di conflittualità tra governo locale e poteri centrali garantiscono maggiore continuità e tenuta delle tradizionali appartenenze a sinistra, ma i processi di scomposizione individualistica e generazionale sono gli stessi del resto del paese. In tutte le condizioni occupazionali a livello nazionale si allarga infatti la forbice delle retribuzioni, principalmente per effetto della crescente volatilità dei redditi (e delle condizioni contrattuali di lavoro) delle generazioni più giovani. Tra 1998 e 2003 queste ultime vanno incontro a modifiche sostanziali che riguardano l’istruzione universitaria (con l’introduzione della laurea breve triennale, che rialza i tassi di immatricolazione) e l’ingresso nel mondo del lavoro (con nuove forme di impiego temporaneo). I risultati sono contraddittori: aumenta la percentuale di laureati nella società italiana (dal 4 all’8% tra 1995 e 2009), ma diminuisce la loro presenza nelle occupazioni più qualificate; a differenza di quanto accade nel resto d’Europa, in Italia più istruzione non corrisponde a più reddito da lavoro. La sottoccupazione dei laureati è strettamente correlata con la precarietà. Nel 2005 più del 10% dei lavoratori dipendenti – ma il dato è in rapida crescita – opera in condizioni diverse dal contratto a tempo indeterminato e percepisce retribuzioni più basse dei lavoratori stabili. Le indagini a campione condotte sui nuovi iscritti agli elenchi della previdenza sociale dopo il 1998 mostrano che, a distanza di sei anni, solo la metà riesce a conseguire un lavoro permanente: un quinto continua a versare in condizioni di lavoro precario e un terzo smette di versare i contributi all’Inps (dirigendosi in misura prevalente verso l’economia sommersa e in misura minore verso il lavoro autonomo e le sue gestioni ­­­­­183

pensionistiche separate). Più che un «trampolino», il lavoro precario somiglia così a una «trappola» che tende a riprodursi nel tempo, con effetti negativi sulle prospettive di vita dei più giovani: la loro è una «modernità liquida», come la definisce Zygmunt Bauman (2002). La mutazione individualista della baby boom generation lascia il campo a una nuova generazione assai più globalizzata nei consumi e negli stili di vita, ma anche assai più incerta rispetto al futuro. Della generazione precedente quest’ultima conserva alcuni tratti – l’individualismo e l’exit dalla politica, in primo luogo – ma sembra incontrare maggiori difficoltà sul mercato del lavoro. Alla vigilia della crisi finanziaria dell’estate 2008, le rilevazioni campionarie di Global Entrepreneurship Monitor sulla formazione di nuove imprese collocano l’Italia un po’ sotto la media dei paesi sviluppati (4,6% di adulti impegnati in attività economiche nate nei tre anni precedenti, contro il 10,8% degli Stati Uniti, il 5,9% della Gran Bretagna, il 5,6% della Francia, il 3,8% della Germania): dato in peggioramento rispetto al 2002 (5,9%) e particolarmente grave per un paese storicamente contraddistinto dalla microimprenditorialità. Tra gli ostacoli più ricordati dagli imprenditori intervistati figurano le difficoltà di accesso al credito bancario, la carenza di infrastrutture, l’assenza di politiche industriali dedicate. Le indagini Istat confermano questa tendenza: nel 2005 i giovani imprenditori italiani (più di due terzi sotto i quarant’anni) sono per un quarto laureati (dato in linea con gli altri paesi sviluppati), ma lamentano la scarsa utilità dell’istruzione ricevuta. Per quasi metà provengono infatti dal mondo del lavoro dipendente e il desiderio di mettersi in proprio rappresenta la motivazione di gran lunga prevalente. Quasi tutti (86%) hanno impiegato capitali propri e solo una piccola parte ha ricevuto aiuti pubblici (7%) o crediti bancari a fronte di garanzie (16%) (Istat 2007). Stiamo comunque parlando di una minoranza. La grande maggioranza delle giovani generazioni italiane va incontro a un destino di disoccupazione o sottoccupazione: precarietà e mancanza di lavoro sono considerate emergenze prioritarie da più della metà degli italiani e dai due terzi di chi ha meno di 34 anni (Eurispes 2009). Nonostante la sua emarginazione produttiva, quest’ultima parte della popolazione mostra una padronanza plurale dei mezzi di comunicazione che tendenzialmente rompe un regime di dipendenza esclusiva dalla neotelevisione commerciale. Il successo del Grande Fratello è ­­­­­184

almeno in parte dovuto anche alla nuova articolazione del sistema mediatico. A seguirne le vicende non è solo la stampa di gossip più prossima, ma anche siti Internet e pay tv che seguono in diretta no stop la casa oggetto della trasmissione. Alla fine degli anni Novanta la pluralità dei mezzi di comunicazione è testimoniata dal decollo del numero di host (nodi di rete permanenti) italiani su Internet e di telefoni mobili. La millennium generation dei nati negli anni Novanta amplia il numero dei media utilizzati quotidianamente (computer, telefono cellulare, playstation...) rispetto a quelli prevalenti (televisione, radio, stereo) nella baby boom generation (Lotz 2007, 178). Nel 2009 i giovani italiani sotto i 29 anni rappresentano la fetta di società più digitalizzata: l’utilizzo di televisione e radio via web raggiunge percentuali superiori al 40%, più che doppie rispetto al resto della popolazione, ma anche quello dei giornali on line (21%) risulta superiore alla media (18%). Il digital divide che taglia in due la società italiana si rivela esattamente speculare al consumo televisivo: ad usare Internet sono le fasce sociali (giovani, maschi, colti, urbani) che meno guardano il piccolo schermo (Censis 2009, 29-79). Ma anche tra i non giovani aumentano gli abbonati alla maggiore pay tv (Sky Italia, attiva dal 2003), che in sette anni salgono a quasi 5 milioni: poco meno di un terzo dei 16 milioni e mezzo di abbonati Rai. Cresce così il numero di spettatori che dal broadcasting passa al narrowcasting: si allontana dalla televisione generalista e dal suo palinsesto di flusso continuo, per scegliere e pagare solo ciò che vede (evento sportivo, documentario, film che sia). Secondo le rilevazioni annuali del Censis, tra 2003 e 2008 il pubblico abituale (almeno tre volte a settimana) della televisione tradizionale cala dal 95 all’88%, mentre quello della pay tv sale dal 25 al 37%. Ancora maggiore è la resistenza del pubblico legato alla vecchia Tv in Francia (91%); ma in Gran Bretagna (79%) e soprattutto in Germania (50%) la rottura introdotta dal narrowcasting appare ormai evidente e irreversibile. Sia in Spagna che in Italia le critiche più comunemente rivolte alla televisione generalista riguardano la volgarità, la sudditanza al potere politico, lo scarso pluralismo: tutte critiche che significativamente riscuotono un consenso assai minore negli altri paesi europei. Inizia insomma il tempo del viewsing: viewing (vedere) più using (usare). Sono tendenze che allineano, con qualche anno di ritardo, l’Italia al resto del continente. Il tempo degli stentati esordi di Home Box Office (creata nel 1972 dal gruppo Time) negli Stati Uniti e di ­­­­­185

Canal Plus (1984) in Francia appare ormai lontano: nel corso degli anni Novanta in Europa la quota di ricavi delle pay tv sale dal 6 al 22% del totale, a tutto discapito sia delle reti pubbliche (dal 57 al 46%) che di quelle private (dal 37 al 32%). Nei bilanci delle pay tv europee del 2009 le entrate da abbonamenti superano quelle da pubblicità. Il settore si ripara così dalla crisi degli investimenti pubblicitari e si prepara al nuovo salto tecnologico della connessione tra broadcast e broadband (tra televisione e Internet), favorita dalla copertura della rete digitale terrestre (alla fine del 2010 completata al 90% in Italia, Spagna e Gran Bretagna, al 75% in Francia). Per molti aspetti il pubblico italiano della pay tv sembra complementare a quello della neotelevisione commerciale: l’utenza abituale si concentra tra gli uomini, le classi di età più giovani, i ceti più istruiti. Se calcio e film predominano largamente nei pacchetti di programmi acquistati, è tuttavia rilevante anche il gradimento dei canali tematici (storia, natura, scienze), mentre la posizione di coda è occupata dai reality show, che mantengono un pubblico di nicchia tra le donne sotto i 29 anni (Censis 2009, 36-43). 5. Morte della televisione? Quali sono le conseguenze di questa nuova pluralità del sistema dei media sulla neotelevisione commerciale? È significativo che la graduatoria di preferenze degli spettatori tradizionali non si discosti da quelle di un passato ormai anche molto lontano, continuando a tenere nei primi posti la fiction e l’informazione. Viceversa, gli spettatori della pay tv mostrano molti segnali di rottura di continuità: all’alto gradimento per i documentari e la divulgazione scientifica si accompagna la pronunciata disaffezione nei confronti del genere «intrattenimento» (nella sua forma classica come anche nelle versioni reality e talent show). Almeno tendenzialmente, si rompe il circolo vizioso della televisione generalista che concentra l’investimento pubblicitario sui programmi tradizionali e collaudati di massimo ascolto e di più alto costo. La pay tv introduce il concetto di «coda lunga»: accanto alla fascia di massimi ascolti si collocano consumi televisivi di nicchia, con programmi e interessi specifici (scienze, natura, sport minori, viaggi, storia, tecnologia...), che la televisione generalista trascura perché troppo piccoli e dispersi, marginali e ininfluenti nel computo ­­­­­186

Tab. 4.6. Preferenze per generi di programmi televisivi: percentuali sul totale, 2009 Generi

Film

Tv tradizionale

Pay tv

64,9

60,1

Telegiornali

48,4

12,9

Serial

29,0

22,5

Approfondimenti giornalistici

19,1

5,8

Sport

16,1

39,9

Documentari/divulgazione

13,0

20,3

Varietà/spettacolo

11,6

2,7

9,6

5,8

Reality/Talent show Quiz/giochi

9,3

2,3

Cartoni animati

7,1

12,0

Musicali/videoclip Cronaca/gossip

6,3 4,2

4,7 2,1

complessivo di costi e ricavi. La pay tv invece, grazie alla propria struttura di servizio a pagamento, redistribuisce le risorse (comprese quelle degli inserzionisti pubblicitari) in modo mirato su un numero maggiore di programmi specifici per pubblici specifici. Anche quella che Michele Serra definisce come «absence» e che la televisione generalista non considera, perché fuori dai grandi numeri del piccolo schermo, rientra nel gioco. Nicchie di pubblico marginale – la «coda lunga», appunto, nella curva degli ascolti televisivi – che non sono interessate al contenitore-varietà della domenica pomeriggio, ai film, ai telegiornali, vengono recuperate sulla base dei loro interessi particolari con un’offerta televisiva moltiplicata e articolata. Nell’uso plurale dei media l’Italia dunque non rimane indietro. Anzi. All’origine di questa capacità ricettiva dell’innovazione tecnologica stanno probabilmente circostanze sociali eterogenee. Dietro la diffusione record dei telefonini è possibile ipotizzare la maggiore presenza di lavoratori autonomi (che hanno meno bisogno di sedi di rappresentanza e telefoni fissi), ma anche un certo «mammismo» italico che si sente rassicurato dal dare in dotazione ai figli adolescenti un telefonino, sostituto di cordoni ombelicali e guinzagli. Sta di fatto che tra le generazioni del tempo di Internet si sviluppano il «nomadismo» tra media diversi e il «disincanto» (come lo chiama il ­­­­­187

Censis): l’incapacità di stabilire gerarchie di attendibilità tra fonti di informazione che si moltiplicano rapidamente produce una sorta di indifferenza nei confronti del mondo, accompagnata dalla ricerca di forme di socializzazione virtuale attraverso i social network. Si afferma una sorta di itinerario diametralmente opposto a quello vissuto dai giovani dei paesi poveri in via di sviluppo. Tra questi ultimi, infatti, Facebook e Twitter rappresentano le chiavi di accesso al «grande mondo» globale della storia e del protagonismo collettivo, mentre i loro omologhi dei paesi ricchi (e dell’Italia) si appartano dal «grande mondo» per rifugiarsi in quello «piccolo» a corto raggio dei propri amici via computer. È il ciclo lungo dell’affermazione del primato del soggetto, della personalizzazione, del relativismo morale individuale, il cui inizio si può far risalire alla metà degli anni ’60, quando si celebrava l’acme del collettivismo, mentre già se ne consumavano le ceneri (Censis 2009, 15).

Almeno per ora, tuttavia, il nuovo uso plurale dei media non modifica, bensì riproduce, la tradizionale distribuzione sociale del consumo di televisione, andando di pari passo con i livelli di istruzione, reddito, apertura e dinamismo dei nuclei familiari e degli individui. Chi guarda programmi dedicati della televisione satellitare corrisponde cioè alla nicchia di italiani colti e benestanti che guarda poca televisione ma soggiace a una ulteriore frammentazione del senso comune provocata dalla moltiplicazione dei canali (Dahlgren 1995, 40). La grande maggioranza che guarda molta televisione generalista tradizionale continua a guardare sempre la stessa. Alla domanda retorica se la neotelevisione commerciale possa sopravvivere alla moltiplicazione dei media on demand, la risposta (per ora) è assolutamente positiva (Stella 2003, 165). Come sempre accade nella storia della comunicazione, i nuovi media non cancellano i vecchi: li obbligano a rifondarsi, magari anche in profondità, ma non ne decretano mai la scomparsa. Così è avvenuto in passato per stampa, radio, televisione; così accade anche oggi per Internet. Secondo le rilevazioni del Censis (condotte su un campione rappresentativo di 1.200 cittadini sopra i 14 anni), l’uso della rete è quello che cresce di più nel corso degli anni Duemila (+27%), ma nella distribuzione complessiva del consumo abituale dei media (almeno una volta a settimana) rimane ben lontano (47%) sia dal livello di quasi satura­­­­­188

zione (98%) raggiunto dalla televisione, sia dalle alte percentuali di radio (81%) e telefonia mobile (85%), sia dalla tradizionale minor diffusione di quotidiani (64%) e libri (57%) (Censis 2009, 18). Le indagini Multiscopo condotte sulle famiglie italiane dall’Istat (2005) confermano che la prevalenza di computer e Internet nelle giovani generazioni (fino ai 40 anni) non si accompagna a un calo del consumo televisivo, seppure frammentato dalla diffusione delle pay tv. La compenetrazione tra vecchio e nuovo emerge anche nel dettaglio. Indagate da vicino, le modalità di uso del teleschermo da parte dei bambini non mostrano, ad esempio, significativi cambiamenti dal tempo dei «Puffi», negli anni Ottanta, quando le reti private cominciano «l’assalto» al pubblico dei più piccoli. Si sviluppa allora un’interazione tra mezzo televisivo e routine domestica che affida al primo una funzione di produttore di ordine che tiene occupati e tranquilli i minori (surrogando la presenza attiva dei genitori), ma anche di «droga» che produce abitudine e assuefazione (se non proprio dipendenza). Il senso di nocività della «troppa televisione» – pur largamente diffuso nelle famiglie – scende a patti con il poco tempo libero dei genitori: con le madri nel ruolo di controllori normativi del consumo televisivo, ma padri e nonni che spesso agiscono nella direzione contraria di maggior lassismo e violazione delle regole. Non è naturalmente una faccenda solo italiana. Da un lato, sul piano dell’offerta, Rai e Fininvest rappresentano insieme il sistema televisivo che in Europa meno produce da sé e più acquista da altri quanto trasmette: i contenuti che gli italiani guardano vengono dall’estero e sono gli stessi che si vedono nelle altre nazioni. Dall’altro, sul piano della domanda, la «maleducazione politica» e la dissonanza cognitiva tra vero e verosimile rimangono effetti maggioritari e di fondo dell’ascesa della neotelevisione commerciale in tutto l’Occidente, non solo in Italia. Basti ricordare che, secondo un sondaggio commissionato da «Newsweek» a fine agosto 2010, quasi un terzo di cittadini statunitensi ritiene «vero» o «probabile» che il presidente Obama «simpatizzi con gli scopi dei fondamentalisti musulmani che vogliono imporre a tutto il mondo la legge islamica» (http:// nw-assets.s3.amazonaws.com/pdf/1004-ftop.pdf, domanda 24). In Italia e Stati Uniti gli adolescenti hanno modalità di ascolto televisivo assai simili: passivo, deconcentrato, emotivamente indifferente. All’estremo opposto del mondo, i cittadini russi indagati attraverso focus groups dimostrano di non credere all’indipendenza dei media ­­­­­189

e di sentirsi consumatori sfruttati senza diritti, nel mentre che manifestano un rifiuto della politica attiva e una rassegnata passività nei confronti di un presente percepito alla stregua di un caos ingovernabile (Oates 2006). Maleducazione e dissonanza possono tranquillamente convivere con la transizione verso i valori post-materialisti teorizzata da Inglehart. Parità sessuale, soddisfazione di vita, lotta alle discriminazioni, partecipazione civile nel mondo del volontariato, attenzione per l’uso del tempo libero, preoccupazione per l’ambiente non sono, di per sé, in contraddizione con la mutazione individualista, il consumismo anche esasperato, la presenza anche assidua davanti al teleschermo e la riduzione della politica a spettacolo. Perché la televisione si dimostra più capace di intercettare quei valori (almeno nel mondo immaginario ed aleatorio delle aspirazioni) di quanto non riesca a fare la politica nel mondo concreto della soluzione dei problemi. Se ciò accade anche negli Stati Uniti, figuriamoci in Italia, dove i cittadini sperimentano da decenni l’incapacità della politica professionale di riformare alcunché. L’ascesa del post-materialismo non significa la scomparsa delle problematiche e delle preoccupazioni materialiste. Conflitti su come garantire la prosperità e uno sviluppo economico sostenibile rappresenteranno sempre questioni politiche importanti. Nondimeno l’effettivo cambiamento dai valori della sopravvivenza a quelli dell’espressione di sé comporta implicazioni di lungo periodo. L’asse principale del conflitto politico si sposterà gradualmente da questioni ad alto contenuto di classe (come la redistribuzione del reddito e la proprietà statale dell’industria) verso questioni relative alla qualità della vita. Secondo quanto teorizzato da Inglehart (1983) il voto come espressione degli interessi di classe sociale è in declino nelle società industriali più avanzate. Nelle ultime due elezioni presidenziali degli Stati Uniti, per esempio, il voto si è polarizzato su questioni relative agli stili di vita (come l’aborto e i matrimoni gay) piuttosto che su questioni relative agli interessi di classe: queste ultime sono anzi rimaste sullo sfondo fino al punto da esercitare un impatto assai limitato sulle decisioni di voto (Inglehart 2008, 142).

A gradi e livelli diversi i paesi occidentali mettono in mostra un processo comune e convergente di trasformazione della partecipazione politica in senso meno ideologico, più volatile e fluttuante, meno fiducioso nella possibilità di risolvere collettivamente i grandi ­­­­­190

problemi, più ostinato nella difesa di posizioni e interessi corporativi e microlocali. È difficile dire quanto il piccolo schermo domestico sia causa o effetto di questo processo: probabile – ancora una volta – che sia entrambe le cose. Ma certo alla lunga il suo infotainment spettacolare, sanguigno, volgarizzato finisce per contribuire alla disaffezione per la politica, così come l’entertainment propriamente detto tende a cancellare la politica spezzettando la realtà e i suoi significati in tanti frammenti di storie personali. Per quanto di valore non assoluto (come testimoniano le oscillazioni talvolta implausibili dei dati), le ricognizioni quinquennali del World Values Survey offrono una conferma del «paradosso di Easterlin»: oltre un certo livello di reddito l’aumento di ricchezza non corrisponde sempre e comunque a un aumento di felicità e soddisfazione (Easterlin 1974). La posizione relativa del Messico, sempre superiore agli Stati Uniti nelle risposte ai sondaggi su quest’ultimo tipo di domande (seppur con un reddito medio pari a un quinto), come anche l’andamento oscillante della Cina, dimostrano che tra le due variabili (ricchezza e felicità) non esiste un nesso stringente di proporzione diretta. Più spesso entrambe rispondono invece a una crescita del capitale sociale, cioè alla quantità e qualità di relazioni intrattenute dagli individui e alla conseguente maggiore tenuta del tessuto comunitario civile. In queste misurazioni internazionali la posizione dell’Italia appare nella media: forse un po’ più in basso di quanto i luoghi comuni sul sole e sul Belpaese indurrebbero ad aspettarsi. Se la neotelevisione commerciale produce più maleducazione e dissonanza che altrove, è per le particolari carenze del ceto e del sistema politici. La sua storica incapacità di garantire il libero mercato televisivo (e quindi la quantità e la qualità dei programmi offerti) è strettamente correlata alla stessa conformazione interna delle nostre élites dirigenti. Uomini, in media sessantenni, istruiti, poco cittadini del mondo, appartenenti spesso ai network della cultura e delle professioni o allo scenario della politica piuttosto che dell’economia, in grado di giocare le proprie abilità e capacità su più tavoli e contesti: questo appare l’identikit prevalente della power élite italiana a metà del primo decennio del 2000. Vista in un’ottica prospettica, che abbracci gli ultimi 15 anni, tale immagine muta parzialmente, anche se le indicazioni di cambiamento non sono univoche: se infatti da un lato (molto lentamente) diminuisce ­­­­­191

la dominanza maschile, aumenta il livello medio di scolarità e quello di internazionalizzazione, dall’altro si verifica un processo di invecchiamento accentuato nella composizione delle élite. Sta inoltre avvenendo, in quest’ultimo quindicennio, un rimescolamento nella composizione interna delle élite: i personaggi appartenenti al mondo dell’economia lasciano sempre più spazio ai politici e a coloro che sono impegnati nel mondo della cultura e delle professioni (Carboni 2007b, 149).

Il collegamento con l’imprenditoria privata (e con la mutazione individualista), che si era aperto nel 1994 con l’arrivo di Forza Italia in parlamento, sembra quindi essersi ridimensionato, ostruito dal peso di una classe politica autoreferenziale e interessata a preservare il proprio potere: sempre più lontana sia dai problemi «materialisti» che stanno di fronte al paese, sia dai valori «post-materialisti» che si affermano nelle giovani generazioni. Di contro, gli italiani continuano a manifestare un crescente distacco dalla politica. Secondo le indagini campionarie dell’Istat, tra 1999 e 2005 la quota di italiani che non parla mai di politica sale dal 26 al 34%. Tra gli operai (32%) è più alta che tra i lavoratori autonomi (25%): segno che la svolta della fine degli anni Settanta ha quasi ribaltato l’inclinazione verso la sfera pubblica di questi due segmenti della società italiana, spingendo alla rassegnazione i primi e proiettando verso un inedito protagonismo i secondi. Ma il dato più alto di disaffezione per la politica (38%) si raggiunge tra i disoccupati e le persone in cerca di prima occupazione: sintomo preoccupante di una più generale emarginazione. La militanza attiva in un partito coinvolge meno di due cittadini su cento ed è largamente sopravanzata da altre forme di volontariato (in associazioni culturali, ambientaliste, di cooperazione internazionale) che interessano quasi il 10% della popolazione, ma con significative differenze tra casalinghe (3%), operai (6%), lavoratori autonomi (8%), impiegati (14%), studenti (14%), dirigenti e liberi professionisti (17%), che sembrano direttamente proporzionali ai livelli di capitale sociale di ciascuna delle condizioni (Istat 2005). Secondo le indagini campionarie del Censis, l’Italia di oggi appare una società frammentata e confusa, priva di punti di riferimento forti e stabili. La televisione domina largamente i consumi culturali e quasi il 70% degli italiani si affida ad essa (e in particolare ai telegiornali) per formare le proprie scelte di voto. Ma le fedeltà consolidate e il voto di appartenenza sembrano in forte calo, anche rispetto alla ­­­­­192

prima metà degli anni Novanta. Solo il 27% dei cittadini (media corrispondente al 15% tra i giovani sotto i 29 anni e al 36% tra gli anziani sopra i 65) sapeva già per chi votare all’inizio della campagna elettorale del 2008, contro il 40% abbondante del 1994 (Censis 2009, 127-128; Sani 1994b). La cifra della comunicazione politica della nostra epoca – postindustriale, postideologica, postmoderna – è data dunque da due elementi fondamentali. Il primo è lo squilibrio a favore della percezione emotiva piuttosto che verso la riflessione cognitiva, realizzato attraverso il rinforzo reciproco che si danno la comunicazione televisiva e quella informatica, diverse tra loro per tanti motivi, ma convergenti nell’uso del loro vettore: lo schermo. Nella civiltà dello schermo, la formazione dei quadri di riferimento attraverso i quali si configura la coscienza di sé e del mondo in cui si vive avviene in forma intuitiva, basata sulla simpatia personale, sulla capacità di suscitare emozioni. La rapida ascesa di un uomo politico quasi sconosciuto come Barack Obama e il successo del presidente francese Nicolas Sarkozy, e dell’inglese Tony Blair pochi anni fa, ne sono un’evidente dimostrazione. Una delle poche eccezioni è rappresentata da Angela Merkel in Germania e forse non è un caso che proprio questo fosse il paese europeo in cui negli anni scorsi si era rilevato il maggiore indice di lettura e quello più basso di consumo di televisione. Dato che la nostra è l’epoca dei «post», è anche pronto il nome per questo fenomeno, che da tempo è stato definito da diversi interpreti come «postdemocrazia». Il secondo elemento fondamentale consiste nella privatizzazione della comunicazione politica. La partecipazione alla vita dei partiti è un fenomeno di élite e gli stessi dibattiti pubblici sono una merce rara. Si discute un po’ in famiglia e tra amici, per il resto ci si affida alla televisione, che comunque ci raggiunge nelle nostre case, da soli o per piccoli gruppi, familiari o di amici. Le scelte pubbliche si fanno nel privato, chiusi nel proprio particolare. Non è strano che si finisca per privilegiare la ricerca della convenienza personale rispetto al bene generale. Non è strano che domini la scena il mezzo che incarna la privatizzazione della comunicazione pubblica meglio di ogni altro: la televisione (Censis 2009, 131).

In Italia il tempo della post-democrazia riflette la crisi della mutazione individualista portata con sé dalla baby boom generation. Alla sua fiducia nel futuro, prima collettiva e poi personale, è subentrata nei giovani di oggi una sensazione di incertezza, data principalmente dalla precarietà delle prospettive di lavoro. La neotelevisione commerciale aiuta a vivere in questo mondo instabile: frammenta i ­­­­­193

significati e riduce la complessità, costruisce miti del successo individuale attraverso la celebrità facile, reclamizza beni di consumo come sostegni delle identità personali. L’accesso molto più facile e articolato di prima ai nuovi media (dal telefonino a Internet, alla pay tv) è forse destinato a decretare la morte della tv generalista e comunque porta a maturazione nuovi gusti critici nei confronti dei generi di entertainment vecchi e nuovi. Ma non sembra (almeno per ora) compensare la perdita di certezze e speranze: la politica, come possibilità condivisa di costruire un domani migliore, continua a rimanere lontana. Forse Berlusconi non continuerà a dominare ancora per molto la vita pubblica italiana. Ma l’Italia degli individui che la neotelevisione commerciale ha rispecchiato e fatto crescere è destinata comunque a sopravvivergli.

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Indice dei nomi

Abate, Gabriella, 41, 48. Abis, Mario, viii. Accornero, Aris, 71, 116. Acquaviva, Sabino, 21. Adorno, Theodor Wiesengrund, v. Agnelli, Gianni, 137. Ajello, Nello, 22. Alasia, Franco, 8. Alberoni, Francesco, 42, 51. Alcott, Louisa May, 19. Alianello, Carlo, 19. Alighieri, Dante, ix. Allende, Salvador, 79. Altan, Carlo Tullio, 57. Altan, Francesco Tullio, 116. Anania, Francesca, viii, 65, 138, 140, 168, 169. Andreotti, Giulio, 136. Anfossi, Anna, 14. Angela, Piero, 174. Arata, Rodolfo, 24. Arbore, Renzo, 88, 145. Ardigò, Achille, 56. Arendt, Hannah, 80. Arvidsson, Adam, 68. Attila, 34. Austen, Jane, 19. Bagnasco, Arnaldo, 112, 121, 124.

Balassone, Stefano, viii, 23, 141. Barbato, Andrea, 149. Barberis, Corrado, 121. Barzini, Luigi, 6. Bauman, Zygmunt, 184. Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), 62. Benigni, Roberto, 88. Berelson, Bernard, 54. Beretta, Claudio, 115. Berlinguer, Enrico, 79, 81, 111. Berlusconi, Paolo, 138. Berlusconi, Silvio, xi, xii, 94, 107, 109, 132, 134, 135, 136, 137, 138, 144, 153, 154, 157, 158, 160, 161, 165, 166, 167, 178, 194. Bernabei, Ettore, vi, 38, 39, 44, 45, 61, 87. Berta, Giuseppe, 111. Bettetini, Gianfranco, 85. Biagi, Enzo, 40. Bigazzi, Duccio, 116. Bini, Elisabetta, 23. Black, Lawrence, 40. Blair, Tony, 193. Bloomberg, Michael, 154. Blumler, Jay G., 133. Bobbio, Norberto, x, 104. Bocca, Giorgio, 12.

­­­­­219

Bogart, Leo, 5, 31, 32, 39, 42, 45, 46, 53. Bonazzi, Giuseppe, 115. Bongiorno, Mike, v, vi, 18, 26, 34, 43, 99, 134, 135, 139, 168. Boni, Federico, viii. Boni, Vittorio, viii. Bonomi, Aldo, 112, 113, 180, 181, 183. Bonomi, Paolo, 9. Bourdon, Jérôme, 25, 39. Brando, Marlon, 92. Brandolini, Andrea, 117, 122. Brizzi, Riccardo, 51, 153. Brontë, Emily, 19. Brunetto, Beppe, 41, 48. Bruno, Salvatore, 61. Brusco, Sebastiano, 112, 115. Buonanno, Milly, 17. Buongiorno, Teresa, 100. Buscaglione, Fred, 17. Cairncross, Frances, 119. Calabrese, Omar, 37, 171. Calamandrei, Mauro, 13. Calvi, Gabriele, 128. Calvino, Italo, 13. Carboni, Carlo, 120, 122, 165, 192. Carcano, Giancarlo, 131. Carmignani, Paolo, 91, 106. Carrà, Raffaella (Raffaella Pelloni), 139, 140. Carullo, Alberto, viii. Casetti, Francesco, viii. Cavalli, Alessandro, 129. Cavazza, Stefano, 61. Cervi, Gino, 55. Cervi, Mario, 57. Cesareo, Vincenzo, 62, 124. Chiarenza, Franco, viii. Chiesi, Antonio M., 112, 127. Chirac, Jacques, 144. Christie, Agatha (Agatha Mary Clarissa Miller), 101. Clinton, William Jefferson, 121. Cobalti, Antonio, 126. Cochi (Aurelio Ponzoni), 59. Colombo, Furio, 24.

Corrado (Corrado Mantoni), 34. Costanzo, Maurizio, 88, 89. Crainz, Guido, 8, 57. Craxi, Bettino, xi, 110, 111, 135, 136, 137. Crocetta, Alberico, 57. Crouch, Colin, 109. Curli, Barbara, 116. Curran, Charles, 40. Dahlgren, Peter, 188. Dalla Chiesa, Carlo Alberto, 79, 110, 136. Dallamano, Piero, 12, 14. Davis, Howard H., 40. d’Azeglio, Massimo, 105. Deaglio, Mario, 115, 121. De Amicis, Edmondo, 19. De Benedetti, Carlo, 87. De Bernart, Maura, 129. De Filippi, Maria, 169. De Filippo, Eduardo, 27. de Gaulle, Charles, 39, 153. Deledda, Grazia, 19. De Mauro, Tullio, 25. Deng Hsiao Ping, 110. De Rita, Giuseppe, 61. De Rita, Lidia, 16, 27, 49. Diamanti, Ilvo, 160. Dickens, Charles, 19. Diena, Leone, 8. Di Fraia, Guido, 109. Di Nicola, Paola, 129. Dostoevskij, Fëdor Michajlovicˇ, 19. Dreyer, Theodor Carl, 44. Dreyfus, Alfred, 104. Easterlin, Richard A., 191. Eco, Umberto, vii, 18, 22, 24, 88, 134. Edmonston, Barry, 162. Eisermann, Gottfried, 21. Esping Andersen, Gosta, 118. Fabbrini, Sergio, 72. Fabiani, Guido, 122. Fabris, Giampaolo, 65, 151. Fallaci, Oriana, 28.

­­­­­220

Granzotto, Gianni, 5, 61. Grasso, Aldo, viii, 18, 38, 40, 86, 141, 147. Gruber, Lilli, 83, 168. Guala, Filiberto, 24. Guareschi, Giovanni, 72. Guazzaloca, Giulia, 16, 19. Guelfi, Anita, 122. Guevara, Ernesto (Che), 80. Guglielmi, Angelo, 23, 24, 139. Guicciardini, Francesco, ix. Gullace, Gino, 3. Gurevitch, Michael, 99. Guzzanti, Paolo, 135.

Fanchi, Mariagrazia, 28, 106. Fanfani, Amintore, 24. Fede, Emilio, 169. Fellini, Federico, 145, 146. Feltrin, Paolo, 125. Ferrarotti, Franco, 30, 56, 96. Fioravanti, Giuseppe Valerio, 56. Fiorello, Rosario, 169. Fiske, John, 108. Flaherty, Robert Joseph, 44. Flora, Peter, 11. Fo, Dario, 38. Fofi, Goffredo, 8. Fogazzaro, Antonio, 19. Foot, John, 41. Franchi, Franco, 60. Freccero, Carlo, 107. Freeman, Richard B., 161. Fukuyama, Francis, 119. Funari, Gianfranco, 134, 176. Gabanelli, Milena, 174. Gagliardi, Carlo, 91. Gaillard, Isabelle, 7. Galletto, Albino, 36. Gallino, Luciano, 127. Gambaro, Marco, 86, 137, 139, 144, 147. Gans, Herbert, 167. Garbarini, Giovanni, 116. Garelli, Franco, 62. Gassman, Vittorio, 12. Gates, Bill, 58. Gaudet, Mazel, 54. Ghezzi, Enrico, 147. Gian (Gianfabio Bosco), 59. Ginsborg, Paul, 8, 57, 123, 124, 143, 174. Giolitti, Antonio, 61. Giovanni xxiii (Angelo Roncalli), 27, 28, 63. Gitlin, Todd, 19, 90, 149. Giusti, Marco, 23, 147. Gorbacˇëv, Michail, 110. Gotta, Salvator, 19. Gozzini, Giovanni, 94, 120. Gramsci, Antonio, ix.

Haas, Hadassah, 99. Habermas, Jürgen, 177. Hall, Stuart, 98. Harris, Ron, 68. Hemingway, Ernest, 46. Hersant, Robert, 137, 144. Himmelweit, Hilde T., 53. Hirschman, Albert O., 82. Hirst, Paul, 115. Ho Chi Minh, 80. Humphreys, Peter J., 138. Inglehart, Ronald F., 67, 102, 104, 190. Ingrassia, Ciccio, 60. Ippolito, Roberto, 122. Jacobelli, Jader, vii. Jobs, Steve, 58. Katz, Elihu, 54, 98, 99. Keaton, Buster, 60. Kessler, Alice, vii. Kessler, Helene, vii. Lama, Luciano, 81. La Malfa, Ugo, 61. Lanaro, Silvio, 8, 21. Lasch, Christopher, 67. La Valle, Davide, 124. Lazarsfeld, Paul, F., 54. Leopardi, Giacomo, ix, 104, 128. Levinson, Marc, 162.

­­­­­221

Levy, Marie-Françoise, 13, 144. Leydi, Roberto, 42, 65. Liebes, Tamar, 98. Liguori, Paolo, 169. Livolsi, Marino, viii, 106, 172, 174. Lombardi, Riccardo, 61. Loren, Sofia (Sofia Scicolone), vii. Lotz, Amanda D., 185. Loy, Nanni, 170. Lull, James, 99, 108. Lupo, Alberto, 19. Luzzatto Fegiz, Pierpaolo, 12, 15. Magnani, Anna, 169. Majano, Anton Giulio, 20. Mammì, Oscar, 137. Mannheimer, Renato, 71, 83. Manzi, Alberto, 27. Manzoni, Alessandro, 104. Mao Zedong, 80. Marcuse, Herbert, v, vi. Martinoli, Gino, 61. Marx, Karl, 116. Mastropaolo, Alfio, 72. Mattei, Enrico, 87. Maupassant, Guy de, 19. McClure, Robert D., 97. McLuhan, Marshall, 54. Meinhof, Ulrike H., 108. Menduni, Enrico, viii, 15, 85, 88. Mentana, Enrico, 168. Meny, Yves, 156. Merkel, Angela, 193. Merlin, Lina, 37. Meyrowitz, Joshua, 17. Mitterrand, François, 109. Molino, Walter, 3. Monelli, Paolo, 4, 5, 23. Montaldi, Danilo, 8. Montanelli, Indro, 40, 57, 83. Monteleone, Franco, viii, 24, 47. Moores, Shann, 99. Morcellini, Mario, viii, 87, 102. Morisi, Massimo, 81. Morley, David, 99. Moro, Aldo, 78, 79, 81. Mortara, Vittorio, 151.

Moscati, Italo, 56. Mura, Gianni, 139. Murdoch, Rupert, 137. Musatti, Cesare, 53. Mussolini, Benito, vi. Mutti, Antonio, 114. Napolitano, Giorgio, 111. Natale, Paolo, 159. Natoli, Aldo, 16. Nebiolo, Gino, 91, 93, 101. Newcomb, Horace, 33, 34. Nievo, Ippolito, 19. Nixon, Richard, 80. Oates, Sarah, 142, 190. Obama, Barack H., 189, 193. O’Brien, Richard, 119. Ohmae, Kenichi, 119. Ortoleva, Peppino, viii, 51, 86, 132, 170, 175. Ottaviani, Alfredo, 63. Ottone, Piero, 83. Paba, Sergio, 112, 115. Paci, Massimo, 119, 165. Padovani, Cinzia, viii, 85, 94. Pagnani, Andreina, 55. Pagot, Nino, 23. Palazzolo, Maria Iolanda, 46. Pankhurst, Emmeline, 23. Paolo vi (Giovanbattista Montini), 62, 63. Papathanassopoulos, Stylianos, 144, 171, 172. Parietti, Alba, 176. Pasolini, Pier Paolo, 63, 64, 75, 76. Patriarca, Silvana, 133. Patterson, Thomas E., 97. Pavone, Rita, 28, 29. Pensa, Cristina, 122. Perot, Ross, 154. Perrucci, Antonio, 144, 153. Pilati, Antonio, 91, 132, 135. Pinochet, Augusto Ugarte, 79. Pinto, Francesco, viii, 30, 41, 47, 90, 94.

­­­­­222

Pio xii (Eugenio Pacelli), 24. Pisati, Maurizio, 160. Pittau, Massimiliano, 131. Pizzorno, Alessandro, 11, 72, 76. Platone, 107. Poggi Salani, Teresa, 26. Popper, Karl R., 144, 178. Porro, Renato, 102. Porter, Michael, 112. Prodi, Romano, 158, 166. Pulitzer, Joseph, 32. Putnam, Robert, 42, 114, 142. Raffaelli, Sergio, 26. Rame, Franca, 38. Rath, Claud Dieter, viii, 39. Reagan, Ronald, 108, 110, 117, 142, 155. Reich, Robert, 120, 121. Renato (Renato Pozzetto), 59. Revelli, Marco, 69. Ric (Riccardo Miniggio), 59. Ricci, Antonio, 145, 146. Richardson, Kay, 108. Richeri, Giuseppe, viii, 142, 144, 153. Ricolfi, Luca, 157, 158. Rifkin, Jeremy, 119. Riker, William, H., 156. Risi, Dino, 12. Riva, Mario, 18. Rizza, Nora, 39, 90, 98, 149, 150. Rodinò, Marcello, 24, 61. Roosevelt, Franklin D., 4. Ruffini, Giovanni, 19. Rusconi, Edilio, 85, 135. Sampò, Enza, 33, 34. Sani, Giacomo, 83, 155, 160, 193. Santoro, Michele, 140. Sarkozy, Nicolas, 193. Sartori, Giovanni, 178. Saviane, Sergio, 58. Scalfari, Eugenio, 83, 86. Scamuzzi, Sergio, 129. Schiavone, Aldo, 105. Schizzerotto, Antonio, 126. Schramm, Manuel, 42.

Scoppola, Pietro, 72. Sebastiani, Chiara, 71. Segatti, Paolo, 155, 160. Serra, Michele, 176, 187. Shalek, Nancy, 68. Silva, Francesco, 86, 137, 139, 144, 147. Silverstone, Roger, 99. Smith, James P., 162. Sonnino, Eugenio, 65. Sordi, Alberto, 133. Spadolini, Giovanni, 111. Speranza, Lorenzo, 122. Spigel, Lynn, 5, 6, 107. Stalker, Peter, 162. Stefanizzi, Sonia, 109. Stella, Renato, 18, 188. Stevenson, Robert Louis, 19. Sue, Roger, 119. Surel, Yves, 156. Sylos Labini, Paolo, 126. Taggart, Paul A., 156. Tarozzi, Massimiliano, viii. Thatcher, Margareth, 108, 109, 117, 142, 155. Tocqueville, Alexis de, 175. Togliatti, Palmiro, 37. Tognazzi, Ugo, 60. Tortora, Enzo, 33, 34, 88, 89. Totò (Antonio De Curtis), 27. Toussijn, Willem, 122. Trigilia, Carlo, 114, 127, 165. Ungaretti, Giuseppe, 55, 93. Vassallo, Aude, 39. Vattimo, Gianni, 24. Verga, Giovanni, 27. Vianello, Raimondo, 60. Villaggio, Paolo, 59, 60. Visconti, Luchino, 169. Volli, Ugo, 37, 171. Volpicelli, Luigi, 16, 56. Von Oswald, Anne, 116. Welzel, Christian, 67. Wertmüller, Lina, 28, 29.

­­­­­223

Williams, Raymond, 19, 89, 90. Wood, Adrian, 161. Wozniak, Steve, 58. Zanetti, Livio, 22.

Zanicchi, Iva, 134. Zatterin, Ugo, 34, 36, 37, 44, 45, 52, 53, 59, 93. Zavattini, Cesare, 34. Zeitlin, Jonathan, 115.

Indice del volume

Introduzione

v

1. Il boom (1954-1967)

3

1. Rivoluzione in famiglia, p. 3 - 2. «Carosello», p. 15 - 3. La lingua degli italiani, p. 24 - 4. Pedagogia e censura, p. 34 - 5. Consumi culturali e opinioni, p. 43

2. La rottura (1968-1980)

55

1. Pubblico e privato, p. 55 - 2. Secolarizzazione, p. 61 - 3. Il ciclo della politica, p. 67 - 4. «Exit», p. 77 - 5. La riforma della Rai, p. 86 - 6. Pluralità, p. 97

3. L’Italia degli individui (1981-1993)

106

1. «Dallas» e «particulare», p. 106 - 2. I lavori, p. 114 - 3. Frammentazione e immobilità, p. 123 - 4. Mutazione individualista e neotelevisione, p. 129 - 5. Le colpe della politica, p. 141

4. La scesa in campo (1994-2011)

153

1. Berlusconi, p. 153 - 2. Un nemico e una promessa, p. 160 3. Neotelevisione e maleducazione, p. 166 - 4. «Homines videntes», p. 178 - 5. Morte della televisione?, p. 186



Riferimenti bibliografici

195



Indice dei nomi

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