La mimesi e la traccia. Contributi per un'ontologia dell'attualità 8857520730, 9788857520735

284 94 2MB

Italian Pages 256 [255] Year 2013

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

La mimesi e la traccia. Contributi per un'ontologia dell'attualità
 8857520730, 9788857520735

Citation preview

EMANUELE ANTONELLI

LA MIMESI ECONTRIBUTI LA TRACCIA PER UN’ONTOLOGIA DELL’ATTUALITÀ

ANTROPOLOGIA DELLA LIBERTÀ

ANTROPOLOGIA DELLA LIBERTÀ N. 1 Collana diretta da Sergio Ubbiali e Paolo Heritier COMITATO SCIENTIFICO Massimo Amato (Università Bocconi), Salvatore Amato (Università di Catania), Alberto Andronico (Università di Catania), Giovanni Bombelli (Università Cattolica di Milano), Luigino Bruni (Università LUMSA di Roma), Fabio Ciaramelli (Università di Catania), Jean-Pierre Dupuy (Stanford University), János Frivaldszky (Pázmány Péter Catholic University, Budapest), Peter Goodrich (Cardozo School of Law, New York), Giovanni Magrì (Università di Catania), Maurizio Manzin, (Università di Trento), Maria Paola Mittica (Università di Urbino), Flavia Monceri (Università del Molise), Bruno Montanari (Università di Catania), Philippe Nemo (ESCP Europe, Paris), Patrick Nerhot (Università di Torino), Adrian Pabst (University ok Kent), Pierangelo Sequeri (Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale), Roberto Salizzoni (Università di Torino), Aldo Schiavello (Università di Palermo), Paolo Silvestri (Università di Torino), Guglielmo Siniscalchi (Università di Bari), Francesco Tomatis (Università di Salerno), Federico Vercellone (Università di Torino), Ugo Volli (Università di Torino).

EMANUELE ANTONELLI

LA MIMESI E LA TRACCIA Contributi per un’ontologia dell’attualità

MIMESIS Antropologia della libertà

Il volume è pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Torino - Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione.

© 2013 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana Antropologia della libertà, n. 1 Isbn: 9788857520735 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

INDICE

INTRODUZIONE

9 PARTE PRIMA

1. IL LIBRO DELLE DECISIONI 1.1. Ambiguità e supplemento 1.2. Il confine 1.3. Il centro 1.4. Lo spazio

23 23 28 30 33

2. IMITAZIONE E ISCRIZIONE 2.1. Icnografia 2.2. Mura di cinta e confini 2.3. Ragionamenti fallaci 2.4. Registrazione 2.5. Imitazione 2.6. La vita è segno

37 37 39 42 46 48 50

3. LA TEORIA MIMETICA 3.1. Il desiderio triangolare 3.2. La verità romanzesca e lo pseudo-narcisismo 3.3. Edipo e il meccanismo vittimario 3.4. La differenza 3.5. Imitazione e doppia mediazione 3.6. Riti e istituzioni

53 53 62 66 74 81 86

PARTE SECONDA 4. AUTOTRASCENDENZA E AUTONOMIA 4.1. Convenzioni e arbitrio 4.2. Il capo e il punto fisso endogeno

95 95 103

4.3. Il quasi-oggetto i. Il desiderio svincolato ii. La circolazione e lo scambio iii. Convergenze iv. Mimesi, traccia e genesi 4.4. Ordine e decostruzione 5. RITENZIONI E PROLETARIZZAZIONE 5.1. La ritenzione terziaria 5.2. La tecnica e l’epifilogenesi 5.3. Il processo di individuazione psichica e collettiva 5.4. Il double-redoublement épokhale 5.5. Proletarizzazione e neo-gregarismo 5.6. Pharmakon vs. Pharmakos

110 112 113 115 120 125 131 131 136 142 146 150 158

PARTE TERZA 6. MICROFISICA DELLA SECOLARIZZAZIONE 6.1. Lo svelamento e la conversione 6.2. La sovranità e il rito funebre 6.3. Lo spazio della vendetta 6.4. La solidarietà e l’indifferenza 6.5. La kén sis o il punto fisso endogeno 6.6. Il perturbante o la fine del moderno

163 163 168 173 177 181 185

7. PER UN’ONTOLOGIA DELL’ATTUALITÀ 7.1. Legittimità del post-moderno 7.2. Democrazia di confine 7.3. La logica dell’autoimmunità 7.4. Anamnesi e sintomatologie 7.5. Proletarizzazione e catastrofe: in guisa di conclusione

193 193 196 200 213 219

RINGRAZIAMENTI

231

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

233

INDICE DEI NOMI

251

A mio nonno Rinaldo, per avermi insegnato a prendere le cose per il verso giusto.

9

INTRODUZIONE

Nous ne pourrions pas faire autrement, même si nous souhaitions ou croyions le faire. Nous ne sommes plus assez crédules pour croire partir des choses mêmes en évitant les «textes», simplement en évitant de citer ou d’avoir l’aire de «commenter». Jacques Derrida, Donner le temps Intertextuality of this sort, nonchronological between authors who have no contact, leads me not merely to accept Girard’s hypothesis; it convinces me that I am not applying a method to texts but using texts to reveal things fundamental. William Blake Tyrrell, The Sacrifice of Socrates

Nel 1965, nel saggio Dell’interpretazione1, Paul Ricoeur coniava una formula di grande successo con la quale raccogliere in un’unica categoria i tre autori a cui la grande maggioranza delle riflessioni del XIX secolo si è ispirata: Marx, Nietzsche e Freud, i maîtres du soupçon. Quattro anni prima, nel 1961, René Girard aveva pubblicato Mensonge romantique et vérité romanesque2, punto di scaturigine di una riflessione di straordinaria 1

2

P. RICOEUR, De l’interprétation. Essai sur Sigmund Freud, Seuil, Paris 1965, trad. it. di E. Renzi, Della interpretazione. Saggio su Freud, II Saggiatore, Milano 1967, pp. 46: «Se risaliamo alla loro intenzione comune, troviamo in essa la decisione di considerare innanzitutto la coscienza come falsa coscienza. Con ciò essi riprendono, ognuno in un diverso registro, il problema del dubbio cartesiano, ma lo portano nel cuore stesso della fortezza cartesiana. Il filosofo educato alla scuola di Cartesio sa che le cose sono dubbie, che non sono come appaiono ma non dubita che la coscienza non sia così come appare a se stessa; in essa, senso e coscienza del senso coincidono; di questo, dopo Marx, Nietzsche e Freud, noi dubitiamo. Dopo il dubbio sulla cosa, è la volta per noi del dubbio sulla coscienza. Ma questi tre maestri del sospetto non sono altrettanti maestri di scetticismo; indubbiamente sono tre grandi distruttori. […] È oltre la “distruzione” che si pone il problema di sapere ciò che ancora significano pensiero, ragione e perfino fede. Ora tutti e tre liberano l’orizzonte per una parola più autentica, per un nuovo regno della verità non solo per il tramite di una critica “distruggitrice”, ma mediante l’invenzione di un’arte di interpretare», corsivi nostri. R. GIRARD, Mensonge romantique et vérité romanesque, Grasset, Paris 1961, trad. it. a cura di Leonardo Verdi-Vighetti, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965.

10

La mimesi e la traccia

importanza. A mezzo secolo di distanza, la teoria mimetica, nel frattempo consolidata ed estesa oltre i confini disciplinari ai quali apparteneva la sua prima occorrenza, richiede di essere presa sul serio e si candida a inaugurare una nuova stagione delle sciences de l’homme. Il lavoro che qui si introduce ambisce in primo luogo a partecipare al lavoro di approfondimento e di consolidamento delle categorie e dei concetti fondamentali della teoria mimetica; a tal fine si indagano le fertili complementarietà tra le riflessioni originate nei lavori di René Girard e Jacques Derrida. Per articolare le complicate relazioni tra le nozioni di mimesi e traccia, il testo estende l’esercizio di composizione alle rispettive tradizioni e si concentra sulla presentazione e discussione delle tesi di quattro autori rappresentativi delle diverse eredità della teoria mimetica e della decostruzione. Nella convinzione che Girard sia il più serio pretendente al retaggio della tradizione del sospetto, le pagine che seguono costituiscono il tentativo di applicare il paradigma a cui ha dato i natali per formulare una diagnosi filosofica della contemporaneità. Piano dell’opera Il volume esordisce come una storia fittizia dell’oggetto sociale confine: per ragioni contingenti, ma anche per tenere conto del ruolo della contingenza da un punto di vista formale oltre che sostanziale, si prende in esame a titolo di esempio la storia della fondazione di Roma. L’esercizio di decostruzione girardiana a cui ci dedichiamo nel primo capitolo ci farà scoprire nel doppio fondo della leggenda una sequenza di episodi vittimari. Una volta rinvenute nel dibattito antico sulle origini del pomerio, il confine sacro dell’Urbe, le ragioni per sostenere un’ontologia documentale3 degli oggetti sociali, nel capitolo secondo ci concentriamo sul ruolo costitutivo della traccia in modo tale da consolidare i risvolti morfogenetici della teoria mimetica: la complementarietà tra le nozioni e le funzioni della mimesi e della traccia è così analizzata ai fini dell’edificazione di un’ontologia sociale. Questa parte dell’indagine, oltre che di un’introduzione generale al pensiero di René Girard svolta nel capitolo terzo, si giova del lavoro teorico di affinamento delle dinamiche del meccanismo vittimario svolto da Jean-Pierre Dupuy in un appassionato confronto con le scienze della com3

M. FERRARIS, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, RomaBari 2009. In questo volume importante, Ferraris mette a frutto la lezione del maestro Derrida sul ruolo della traccia nella costituzione degli oggetti sociali.

Introduzione

11

plessità. Alla presentazione dei risultati di questo sforzo, che vanno sotto il nome di logica del punto fisso endogeno, è dedicato il capitolo quarto. Chiarite, anche se per così dire in stato di quiete, le logiche della genesi degli oggetti sociali a cui la mimesi e la traccia sono sottese, la ricerca si volge ad indagare i processi di costituzione dell’individuo, introducendo e discutendo il lavoro di Bernard Stiegler, allievo di Derrida e autore di un progetto filosofico noto con il nome di organologia farmacologica. A partire da questa analisi, la relazione tra mimesi e traccia viene indagata nel ruolo di supplemento ai processi di individuazione psichica e collettiva. La discussione della farmacologia stiegleriana ci permette inoltre di consolidare le intuizioni di matrice mimetica sull’ambiguità inerente dei processi in analisi. La seconda parte del volume mette infatti in luce la partecipazione ambivalente della mimesi e della tracccia sia alle logiche della genesi degli oggetti sociali e ai processi di individuazione psichica e collettiva, sia ai processi di decostruzione e disindividuazione: la traccia (che nella riflessione di Stiegler viene sostituita con la nozione di tecnica) e il meccanismo mimetico sono in questo senso dei pharmaka, ovvero al tempo stesso un rimedio e un veleno. La terza parte del lavoro è dedicata alla discussione degli ultimi sviluppi della teoria mimetica: in prima istanza attraverso una presentazione critica della riflessione di Paul Dumouchel, che definiamo microfisica della secolarizzazione, e in seguito attraverso un’analisi della convergenza dell’anima detta apologetica della teoria mimetica con il pensiero debole di Gianni Vattimo. A tal proposito, nei paragrafi finali si forniscono le ragioni sufficienti a superare le divergenze tra certe filosofie postmoderne e un autore dichiaratamente anti-postmodernista come Girard. Nel corso dei primi sei capitoli vengono così delineati i tratti essenziali di un’ontologia dinamica dei processi di costituzione e di decostruzione del mondo umano. Nell’ultimo capitolo, gli elementi fondamentali di questa ipotesi vengono messi alla prova tracciando il secondo polo ideale della storia fittizia da cui eravamo partiti, valutando i destini contemporanei del confine e in generale della differenza. All’interno di questa struttura narrativa si articolano altri piani analitici che è opportuno anticipare. La scoperta fondamentale di Girard è la relazione paradossale di contenimento reciproco della violenza e del sacro: il sacro contiene la violenza, nei due sensi della parola contenere. In primo luogo esso la porta dentro di sé, nella forma della violenza supplementare che è il sacrificio. In secondo luogo, il sacro trattiene la violenza, le impedisce di divampare, di esplodere, la contiene. La violenza realizza una strut-

12

La mimesi e la traccia

tura di autocontenimento mediata da un uso supplementare della violenza stessa. Jean-Pierre Dupuy, in lavori4 che in questa sede abbiamo preso in considerazione solo per il loro contributo teorico all’articolazione della logica del punto fisso endogeno, ha aggiornato questa intuizione proponendo la tesi per cui al sacro si sia sostituita, nel corso della modernità, una nuova forma di autocontenimento: l’economia di mercato. Essa stessa, come il sacro, contiene la violenza, rovesciando però i presupposti di tale effetto: non già impedendo che il desiderio mimetico si concentri su oggetti potenzialmente schismogenetici, ma aumentando all’infinito la disponibilità di interessi da frapporre agli individui. Le due logiche autocontenitive condividono la capacità di generare, con un uso supplementare e raffinato della violenza, differenze che vengono percepite come legittime e che pertanto possono fondare strutture sociali stabili. Il lavoro che segue a queste pagine introduttive rappresenta il tentativo di individuare nel fondo oscuro di queste logiche di autocontenimento il gioco dell’arbitrio. Il volume è così attraversato da un’indagine carsica sul ruolo e sulla conoscenza del ruolo della contingenza e dell’arbitrio nelle vicende umane che si propone di costituire la ragion sufficiente di una periodizzazione compatibile con le diverse filosofie della storia postmoderne5.

4

5

In primo luogo P. DUMOUCHEL, J.-P. DUPUY, L’enfer des choses. René Girard et la logique de l’économie, Seuil, Paris 1979; J.-P. DUPUY. Le sacrifice et l’envie. Le libéralisme aux prises avec la justice sociale, Calman-Lévy, Paris 1992, trad. it. di E. Nebiolo Repetti, Il sacrificio e l’invidia. Liberalismo e giustizia sociale, ECIG, Genova 1997, versione francese ripubblicata sotto il titolo Libéralisme et justice sociale. Le sacrifice et l’envie, Hachette, Paris 2009, e Id., L’avenir de l’économie. Sortir de l’économystification, Flammarion, Paris 2012, pp. 16-17, 41-56. Accogliendo le considerazioni di Alessandro FERRARA, esposte in diversi testi, tra i quali Autenticità riflessiva, Feltrinelli, Milano 1999 e Forza dell’esempio, Feltrinelli, Milano 2008, usereremo post-moderno come nome comune, in analogia a moderno/modernità; come orizzonte è sullo stesso piano della modernità o del moderno nel quale coabitano posizione tanto distanti quanto quelle di Hume e Kant, Locke e Hegel, ecc. Il postmodern(ism)o è un nome proprio, che designa una particolare corrente, se non proprio scuola, come kantismo, neoaristotelismo, neoplatonismo, ecc, di cui assumiamo Vattimo come rappresentante principale.

Introduzione

13

Supplemento introduttivo Né René Girard né Jacques Derrida potrebbero essere ricondotti o piuttosto ridotti senza forzature alla tradizione della filosofia politica e sociale francese, ma nell’intreccio delle opere riconducibili a questi due autori si potrebbe trovare lo strumento ermeneutico necessario per rispondere ad un problema, quello relativo al post-moderno, affrontato da molti di coloro che invece a quell’indirizzo si rifanno, ma infine lasciato irrisolto e apparentemente pronto ad essere accontonato. Con tale tradizione, a cui si ascrive la grande aristocrazia accademica del pensiero francese contemporaneo, Girard e Derrida, esule l’uno, costretto ad una sorta di confino interno l’altro, condividono molti interessi: delle tante prospettive che si potrebbero assumere per istituire questo dialogo, quella che guarda al problema dell’autonomia come grande principio di sviluppo immanente della storia della modernità occidentale è senz’altro molto fertile. «La modernità è quell’epoca in cui la società pretende di sapere di dover produrre da sé i propri miti»6; qui si mostrerà che l’istituzione di una complementarietà, da ritrovarsi nei testi e nelle intenzioni, tra i padri e gli estensori della teoria mimetica e della decostruzione, può rivelarsi utile ad aggiungere un tassello a tale descrizione. Ne risulterà un tentativo di dimostrare la legittimità del pensiero postmoderno e dell’istituzione storiografica di un’epoca postmoderna. La teoria mimetica ci permette di individuare la logica dei fenomeni collettivi alla base dell’autocostituzione delle strutture sociali delle società tradizionali e, opportunamente corroborata dalla riflessione derridiana sulla dimensione costitutiva della traccia, di cogliere appieno i procedimenti di istituzione della separatezza come loro principio fondativo7; tale fondazione riposa su fenomeni meccanici, automatici o per così dire, cambiando prospettiva, eteromatici. Molti condividono l’avviso8 che, dopo la vague comparatista imposta dallo strutturalismo, si possa tornare a ravvisare nel Cristianesimo la principale propulsione dello sviluppo che avreb6 7 8

D. BOUCHET, “The ambiguity of the modern conception of autonomy and the paradox of culture”, in «Thesis Eleven», n°88, 2007, pp. 31-54, p. 31. Cfr. M. GAUCHET, Le Désenchantement du monde. Une histoire politique de la religion, Gallimard, Paris 1985, trad. it. Il Disincanto del mondo. Storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992. Tra i tanti e importanti nomi possiamo ricordare non solo il già citato Marcel Gauchet, ma anche Pierre Manent, Claude Lefort, René Girard e Jean-Pierre Dupuy ovviamente e infine lo stesso Gianni Vattimo.

14

La mimesi e la traccia

be condotto l’Occidente ad inaugurare la modernità come quell’epoca in cui l’eteronomia del sacro o del religioso avrebbe potuto essere superata. Un’approfondita discussione della logica di tale argomento ci metterà nelle condizioni di aggiornare le tesi sulle dinamiche microfisiche della secolarizzazione e di ritrovare in tali medesime riflessioni le ragioni del post-moderno. Il sacro, riconosciuto in quanto fenomeno emergente autopoietico, verrà presentato come occorrenza di una logica complessa9 la cui manifestazione fenomenica è una struttura autotrascendente e il cui meccanismo si basa sulla pratica di selezioni discriminatorie. L’esercizio ermeneutico e critico che si condurrà sui testi e sulle tesi fondamentali della teoria mimetica, al prezzo di una deviazione nel pensiero della complessità, ci condurrà a ravvisare nell’arbitrio della selezione più che nell’innocenza della vittima – nozioni, è ovvio, molto prossime – la chiave decostruttiva che condurrà infine il progetto della modernità a arenarsi sugli scogli del post-moderno. Questa ipotesi ci permette di sganciarci dalla polemica cordiale sorta tra René Girard e Gianni Vattimo in occasione dei fruttuosi incontri tra le due riflessioni. Concentrarsi sull’innocenza della vittima conduce Girard a rifiutare le ragioni del post-moderno per avvilupparsi in una retorica apologetica e referenzialista che in realtà finisce per offuscare la posizione del problema; limitare il ruolo del pensiero dell’innocenza, ovvero di quello che chiameremo paradigma vittimario, a manifestazione moralmente impegnativa di una logica che invece deve fare i conti con l’arbitrio inerente alla selezione e alla discriminazione permette di riconfigurare il ragionamento. In secondo luogo essa ci consente di indirizzare l’entusiasmo logico di Jean-Pierre Dupuy verso una riflessione più attenta a valutare le condizioni e gli effetti storici dei fenomeni analizzati. Alla base dell’indagine condotta in questo saggio è la logica del punto fisso endogeno, riflessione capitale di Dupuy e formulazione astratta del meccanismo mimetico-vittimario, per così dire depurata dall’impegno

9

Oltre alle analisi condotte nel corpo della ricerca, si tenga presente l’operazione di S. KAUFFMAN, Reinventing the sacred. A New View of Science, Reason and Religion, Basic Books, New York 2008, trad. it. di S. Ferraresi, Reinventare il sacro. Una nuova concezione della scienza, della ragione e della religione, Codice, Torino 2010: il punto fondamentale di questo volume importante è di riconoscere, finalmente, nel sacro un’occorrenza della criticità auto-organizzativa al pari di altri fenomeni emergenti e non come applicazione metaforica, illegittima o retorica a seconda dei casi, di logiche dei fenomeni estrapolate in altri contesti. Il sacro, l’economia, la coscienza, la vita, sono, secondo Kauffman, fenomeni emergenti prodotti dal funzionamento di una medesima logica su «piattaforme multiple».

Introduzione

15

morale introdotto dalla centralità delle nozioni di violenza e di innocenza nell’ipotesi girardiana. Il contributo fondamentale di questa riflessione, oltre alla verifica della tenuta epistemologica della convergenza10 tra le tesi dell’antropologo e critico letterario e le teorie della complessità, è di permetterci di ritrovare alla base della chiusura organizzazionale dei sistemi sociali autotrascendenti analizzati quella medesima scintilla di arbitrio che altri scienziati duri avevano individuato nelle proprie ricerche11. Dupuy riconosce nell’«arbitrio il corrispettivo moderno di ciò che per la tradizione era l’ordine necessario delle cose: ciò che sfugge al controllo, ciò di cui non si deve rispondere, ciò di cui non ci si può appropriare, il luogo dell’esteriorità»12, ma non ne prende in considerazione la potenzialità euristica da un punto di vista storico. Se la modernità è quell’epoca che pensa di poter fare i conti con la logica dell’autotrascendenza, ovvero pensa, nei vari campi e discipline in cui si articola tale esigenza, di poter essere causa di un ente causa sui o di poter programmare «un programma che si programma da sé»13, di poter cioè essere libera, il post-moderno è l’epoca in cui tale progetto si scopre irrealizzabile e va in frantumi; il post-moderno è l’epoca in cui si capisce che produrre da sé i propri i miti è necessario ma anche impossibile. Ciò di cui ancora non si è «reso conto» ma che già lo condiziona è che la ragione per cui tale progetto è impossibile è che l’arbitrio, a differenza di qualsiasi altra forma di alterità – dalla violenza all’eteronomia – è in contraddizione con l’arbitrio. La modernità decostruisce ogni forma di esteriorità e trascendenza liberando l’individuo, il proprio centro, dagli orpelli della religione, della tradizione, della società, della politica, nel tentativo di dare alla luce una struttura autonoma e non alienante, salvo ritrovare nel cuore del proprio progetto una forma di esteriorità non riducibile. Nel tentativo di garantire le condizioni di possibilità della libertà 10

11 12 13

A cui Dupuy è dedito sin dal 1982: cfr. J.-P. DUPUY, Ordres et désordres. Enquêtes sur un nouveau paradigme, Seuil, Paris 1982, trad. it. a cura di A. Ciapetti, Ordini e disordini. Inchiesta su un nuovo paradigma, Hopefulmonster, Firenze 1986, una della prime incursioni filosofiche – anche se condotte da una figura intellettuale curiosa come potrebbe esserlo un polytechnicien dedito all’epistemologia – nel paradigma della complessità. Cfr. J. MONOD, Le hasard et la nécessité. Essai sur la philosophie naturelle de la biologie moderne, Seuil, Paris 1970, trad. it., Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 2001. J.-P. DUPUY, Avions-nous oublié le mal? Penser la politique après le 11 septembre, Bayard, Paris 2002, p. 89, trad. it. di Elisa Scattolini, Avevamo dimenticato il male? Pensare la politica dopo l’11 settembre, Giappichelli, Torino 2010. J.-P. DUPUY, P. DUMOUCHEL, “L’auto-Organisation: du social au vivant et du vivant au social”, in «Cahier S.T.S.», 5, 1984, pp. 48-73.

16

La mimesi e la traccia

da ogni forma di eteronomia, il moderno lascia il campo al caos dell’autoreferenzialità; cercando l’autonomia finisce per dare vita ad un automa. L’innesto della decostruzione sulla teoria mimetica ci aveva permesso14 di chiarire i meccanismi genetici della differenza, ovvero di tutto ciò che rende umano l’umano. Ne La creatività degli eventi descrivevamo il processo attraverso cui la traccia conferisce sostanza alla genesi per autotrascendenza della struttura differenziale della cultura umana: in accordo con la teoria mimetica, la risoluzione vittimaria di una crisi di indifferenziazione, prima e oltre a presiedere allo scarico catartico e quasi idraulico della violenza, ricrea una nuova struttura di differenze riflessa e fondata nella traccia dell’evento vittimario. Perché una cultura, un’istituzione, una forma di socialità qualsiasi viva, è necessario che conduca discriminazioni che un sapere in qualche modo reso disponibile a tutti – nella parte terza vengono analizzate le modalità, pratiche e teoriche, con cui tale sapere potrebbe essersi reso disponibile – tende ad individuare come essenzialmente arbitrarie e quindi apertamente illegittime: la conseguenza è che tali medesime differenze non possono più essere consolidate nella pratica individuale e quotidiana. Se è possibile giustificare, legittimare davanti al terzo, una violenza o un sacrificio, non è invece possibile fare altrettanto per l’arbitrio. A giudicare dalla storia, pare facile costruire un’ideologia ad uso e consumo di colui che somministra dosi di violenza raffinate, che si tratti di Caifa o del proprio vicino di casa: non altrettanto si può dire dell’arbitrio. Sacrificare una vittima in nome del bene comune è un conto, sceglierne una esplicitamente a caso è un altro. È forse possibile costruire un’ideologia, un discorso di verità, che possa legittimare una discriminazione, ovvero l’istituzione di una differenza, in un foro che abbia contezza della sua esplicita e indiscutibile arbitrarietà15? A maggior ragione, è forse possibile farlo quando la 14 15

Cfr. E. ANTONELLI, La creatività degli eventi. René Girard e Jacques Derrida, L’Harmattan Italia, Torino 2011, pp. 123-175. Vale la pena notare che quanto si va argomentando in questo lavoro trova applicazione rilevante nel dirimire la vexata quaestio sulla differenza tra destra e sinistra: ammesso che una qualsiasi struttura sociale che non voglia cadere direttamente nel caos vive delle proprie differenze, la storia dell’Occidente ha visto levarsi, grossomodo e paradossalmente in occasione della Rivoluzione Francese (che ha tutti i tratti di una vicenda vittimaria, cfr. L. SCUBLA, “Les hommes peuvent-ils se passer de toute religion? Coup d’œil sur les tribulations du religieux en Occident depuis trois siècles”, in Revue du MAUSS, 22, 2003/2, pp. 90-117), la contestazione della differenza eteronoma. La sinistra, nata in quei giorni, si caratterizza per la tensione a ritenere legittime solo quelle differenze che siano determinate sulla

Introduzione

17

propria ragion sufficiente è l’opposizione ad ogni forma di esteriorità? Una volta messo in luce il contenuto di arbitrio inerente tanto alle forme della socialità (le strutture forti dell’Essere, lo Spirito Oggettivo, l’ontologia sociale in genere), quanto ai processi di individuazione psichica e collettiva (l’epifilogenesi indagata da Bernard Stiegler attraverso la nozione di ritenzione terziaria è infatti una stretta parente della nozione di path dependency e con essa condivide il ruolo determinante e incomprimibile della contingenza), una volta che tutto ciò sia stato messo in luce per tutti, la modernità non può che risolversi nel post-moderno. Il che si potrebbe anche dire mettendo in luce il fatto che il problema del post-moderno non è tanto nel non riuscire ad abbandonarsi all’arbitrio del mercato lasciando perdere ogni pretesa di giustizia sociale in modo da salvarsi da invidia e risentimento16, quanto il fatto di non riuscire più a partecipare al consolidamento di quelle differenze su cui si fondava il progetto di autonomia del moderno e che richiederebbero di agire secondo modalità oggi riconosciute come evidentemente arbitrarie. Una volta messi in luce i vari livelli in cui si articola la complementarietà tra la mimesi e la traccia, ci si renderà conto che il processo di disvelamento inaugurato dalla Wirkungsgeschichte biblica, oltre a corrompere le istituzioni, fatte essenzialmente di tracce adibite a differire l’arbitrio inerente alle discriminazioni operative che ne costituiscono la ragione sufficiente, perverte inesorabilmente anche la loro funzione, delle tracce, nei processi di individuazione. La traiettoria così disegnata si articola in tre fasi: l’arbitrio come vettore della volontà divina nella dinamica autopoieti-

16

base di un accordo immanente a tutti i soggetti coinvolti, ovvero quelle differenze che siano frutto di decisioni autonome e condivise, e non conseguenze dirette o indirette di imposizioni eteronome. Il cambiamento, che per lungo tempo è parso essere il tratto caratterizzante della sinistra, progressista, è un epifenomeno di questa tensione più profonda ed essenziale. La destra invece è caratterizzata dalla determinazione a conservare, considerandole legittime, armoniose e soprattutto insostitituibili, differenze che trovano senso in una qualche forma di esteriorità, o eteronomia, sia essa l’ordine naturale delle cose, la volontà divina, la tradizione, il passato, la razza, i geni, il genere, il mercato, il merito, il caso, la fortuna o, più di recente, il vincolo monetario esterno. Come si può intuire, tutte le forme di esteriorità elencate condividono l’essenziale riferimento all’arbitrio, che sia per così dire in diretta o in differita. Quanto verrà sviluppato in questa ricerca ci fa ritenere che la sinistra stia oggi annaspando in quel buco nero in cui l’accordo, l’autoreferenzialità e la radicale eteronomia della soluzione vittimaria e dell’arbitrio si confondono. Così Dupuy commenta sagacemente il progetto distopico di v. Hayek; cfr. J.-P. DUPUY, Avions-nous oublié le mal?, cit., p. 74

18

La mimesi e la traccia

ca alla base delle società tradizionali (si pensi ai tanti riti tradizionali basati sull’azzardo, sul caso, dalla torta con la fava all’ordalia); l’arbitrio come forma di esteriorità da cui affrancarsi nel pensiero del progetto razionale della modernità; la scoperta dell’arbitrio al fondo del lavoro della decostruzione moderna, ovvero la scoperta che oltre che esteriorità, l’arbitrio è al cuore dell’interiorità. Una breve deviazione potrebbe risultare utile per completare questo supplemento introduttivo. Secondo la teoria girardiana il desiderio e con esso l’essere umano tout court è mimetico e pertanto tende a intessere relazioni alienanti, ovvero relazioni in cui il soggetto tende a farsi altro, o meglio l’altro. Queste relazioni hanno l’inconveniente di trasformarsi facilmente in conflitti: se un desiderio è mimetico esso è anche facilmente schismogenetico. Girard, novello Tocqueville, individua infatti nell’identità, nella mancanza di differenze, la scaturigine della violenza; non si danno relazioni non alienanti senza trascendenza verticale, ovvero senza una differenza che contenga i desideri e li indirizzi verso mediatori esterni17. Il problema che si rende evidente grazie alla teoria mimetica è che la struttura differenziale capace di generare tali effetti positivi – che verranno analizzati più a fondo di quanto non faccia in genere la teoria mimetica attraverso il confronto con il lavoro di Bernard Stiegler – è essa stessa prodotto del medesimo meccanismo di alienazione. Tutto questo si potrebbe dire, e verrà detto e opportunamente argomentato nel corso del testo, sostenendo che l’autenticità è un frutto dell’alienazione, ma anche che l’ordine contiene il disordine al prezzo della somministrazione di piccole dosi di disordine, ovvero, infine, che il contenimento dell’arbitrio si può ottenere solo a costo di fare un uso differente dell’arbitrio stesso. Nel momento in cui questo principio si renda inapplicabile, per le ragioni già accennate, le conseguenze sono evidenti: il disordine, la violenza, l’arbitrio non troveranno (in realtà non autocostituiranno) più argini. Il post-moderno è l’epoca dei nuovi inizi a cui non corrispondono fini, della frammentazione del sociale, dell’accelerazione del tempo e della contrazione dello spazio; è soprattutto l’epoca in cui le nuove alienazioni non si risolvono in strutture autotrascendenti capaci di fornire un sostegno ai

17

Il gergo della teoria mimetica verrà introdotto nel corso del testo, principalmente nel capitolo terzo. Sviluppiamo questo tema specifico in infra, 4.3.ii: La circolazione e lo scambio. Per un’introduzione generale si veda anche l’utile G. MORMINO, René Girard. Il confronto con l’altro, Carocci, Roma 2012.

Introduzione

19

processi di individuazione e di costruzione dell’autenticità. Il post-moderno è anche l’epoca in cui la lotta tra le due logiche sociali individuate dagli autori afferenti alla teoria mimetica, la logica eraclitea, del sacro, e la logica giovannea, antidiscriminatoria, intercetta la dinamica sinusoidale dei processi di individuazione psichica e collettiva18, ovvero dell’istituzione di farmacologie in grado di somministrare quella particolare forma di arbitrio che è la traccia. In questo caso, rovesciando la prospettiva fin qui assunta e innestando la teoria mimetica sulla decostruzione, ci potremo rendere conto che senza discriminazioni non si possono gestire i processi di individuazione e senza tale terapia si va incontro a quello che Stiegler definisce neo-gregarismo. Da questo punto di vista, il post-moderno assomiglia ad un guanto rivoltato. La tessitura è la stessa, le dinamiche e le logiche dei fenomeni collettivi che presiedevano al sacro sono ancora attive ed anzi sempre più virulente, ma non hanno più potenzialità morfogenetiche né teogoniche, ovvero non sanno più creare e legittimare differenze, non proteggono più. Queste considerazioni ci conducono infine ad imbastire una riflessione diagnostica: una volta formulati gli strumenti per mettere in campo un’anamnesi filosofica, nel capitolo settimo viene presentata l’analisi dei rischi insiti nella combinazione peggiore ma a nostro avviso anche più verosimile dei possibili effetti velenosi della traccia e della mimesi, ovvero nell’articolazione di un pensiero della catastrofe. A differenza di quanto facciano in genere gli autori che si ispirano alla teoria mimetica, il nostro obiettivo non è infatti di concentrarci sul problema della violenza. Essa accade in genere come effetto collaterale del meccanismo animato dall’autoreferenzialità, come estremo tentativo di porre termine al disorientamento generato dall’instabilità e imprevedibilità19 dell’automa collettivo. Trovando ancora nella riflessione di Dupuy20 le figure retoriche e logiche per formulare una diagnosi filosofica della contemporaneità che sia anche un’analisi critica delle condizioni di possibilità della libertà, mostreremo che il nome più appriopriato per descrivere la condizione post-moderna, l’esperienza della vita all’interno della macchina che stiamo tutti insieme animando, è quello di panico.

18 19 20

Il gergo della riflessione di Bernard Stiegler verrà introdotto nel capitolo 5. Cfr. Jean-Pierre DUPUY, Moshe KOPEL, Henri ATLAN, “Complexité et aliénation. Formalisation de la conjecture de v. Foerster”, in F. FOGELMAN-SOULIÉ (éd.), Les théories de la Complexité, Seuil, Paris 1991, pp. 410-421. Cfr. J.-P. DUPUY, La Panique, Les Empecheurs de penser en rond, Paris 2003.

PARTE PRIMA

23

1. IL LIBRO DELLE DECISIONI

Inde cum altercatione congressi certamine irarum ad caedem vertuntur; ibi in turba ictus Remus cecidit. Volgatior fama est ludibrio fratris Remum novos transiluisse muros; inde ab irato Romulo, cum verbis quoque increpitans adiecisset, ‘Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea’, interfectum. Ita solus potitus imperio Romulus; condita urbs conditoris nomine appellata. Tito Livio, Ab Urbe Condita1 [ ] ,

. Senofonte,

2

1.1. Ambiguità e supplemento La storia della fondazione di Roma, come ogni racconto dell’inizio, è abitata da una strana ambiguità; anzi, da più d’una. La versione resa ufficiale da Tito Livio in Ab Urbe Condita già solo nella narrazione del fatto puntale ne contiene almeno due, l’una esplicita, evidente e dichiarata; l’altra opaca, appena accennata, presente solo nell’assenza. La sequenza di eventi che precede e segue l’infausto momento aggiunge poi ulteriore tensione. Condita urbs conditoris nomine appellata, la città, già fondata, è chiamata Roma, dal nome del fondatore. Questo sembra certo. Il gesto fondativo ci indica la strada che accompagnerà la ricerca che qui si apre. Romolo, 1

2

«Venuti quindi a parole, dalla foga della discussione furono spinti alla strage; fu allora che Remo cadde colpito nella mischia. È più diffusa la tradizione che Remo, in atto di scherno verso il fratello, abbia varcato con un salto le nuove mura; che per questo egli sia stato ucciso da Romolo infuriato, il quale, inveendo con le parole, avrebbe aggiunto: “Così d’ora in poi perisca chiunque altro varcherà le mie mura!” Pertanto Romolo ebbe da solo il potere; fondata la città, essa ebbe nome dal suo fondatore», I, 7, 2-3. Tutte le citazioni e i riferimenti al testo di Tito Livio sono tratti dalla versione di Mario Scandola, a cura di Claudio Moreschini, Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, BUR, Milano 1994. «Allo stesso modo un coro che danza in cerchio non solo è bello di per se stesso da osservare, ma anche lo spazio in mezzo appare bello e puro», ivi, 8, 21.

24

La mimesi e la traccia

inveendo con le parole, dichiara: «Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea». Romolo fonda la città con un performativo, con un atto linguistico iscritto nella memoria degli astanti e poi nella dura pietra. È la sua dichiarazione a rendere le mura invalicabili, oppure no? La versione dei fatti che implica l’uso della dichiarazione performativa poggia su un orribile crimine. Romolo, in preda all’ira, ha ucciso il fratello gemello Remo per punire il sacrilegio, o forse la mancanza di rispetto, di cui questi si era macchiato. La dichiarazione performativa è già anche la prima legge. Chiunque varcherà quelle mura sarà punito con la pena capitale. La fondazione della città mediante la definizione dei confini sacri e la promulgazione della prima legge coincidono. Ma questa è solo una vulgatior fama. Forse Remo non aveva tutti i torti ad affettare il proprio scherno nei confronti del fratello. Bisogna risalire a monte e cercare di capire quali cause o quali dettagli abbiano condotto ad un tale precipitarsi degli eventi. Romolo e Remo furono presi dal desiderio, cupido cepit, di fondare una città nei luoghi in cui erano stati esposti ed educati. D’altro canto, la crescente popolazione degli Albani e dei Latini, oltre al gran numero di pastori pian piano aggiuntisi agli abitanti della regione, rendeva auspicabile la fondazione di una nuova città, almeno così racconta Tito Livio. Purtroppo, a fianco di queste nobili e giuste intenzioni s’insinuò il male ereditario, la cupidigia di regnare, regni cupido, e così nacque l’indegna contesa. Essendo gemelli, nec aetatis verecundia discrimen facere posset (I, 6, 4), l’età non poteva valere come discrimine per decidere a chi spettasse legittimamente fondare la città. Alla cupido urbis condendae segue una regni cupido, al desiderio di fondare una città come quella di Alba appena resa al legittimo re Numitore, anzi più grande, più bella, più forte, fa seguito un nuovo desiderio che nessuna legittimità antecedente è in grado di contenere. I due fratelli sono gemelli, hanno partecipato entrambi alla vittoriosa missione contro il vile Amulio, entrambi sono sostenuti dalle rispettive schiere, ciascuno è accompagnato dalla sua multitudo. Come decidere? Come decaedere? Come dis-criminare? Mancando il criterio anagrafico, che avrebbe permesso di dirimere la questione appoggiandosi a un punto esterno, si pensa di delegare la decisione all’augurio divino. Così, Romolo e Remo si dividono, l’uno sceglie il Palatino, l’altro l’Aventino: la sciagura che si sostituisce all’augurio non impedirà a Roma di essere inaugurata. La leggenda racconta che a Remo per primo apparvero come segno favorevole sei avvoltoi. La schiera di Remo non fece in tempo ad annunciare l’augurio che avrebbe dovuto farne

Il libro delle decisioni

25

il re eponimo della nuova città che a Romolo si offrirono dodici avvoltoi. La situazione di indecidibilità si ripresenta, ulteriormente aggravata. La gerarchia non è stata stabilita, non si può decidere quale sia il livello superiore e quale quello inferiore. È più importante essere stato colui a cui gli dei hanno concesso di vedere per primo un numero inferiore di uccelli o colui che pur per secondo ne ha visti di più? Se al livello della temporalità Remo parrebbe godere di un certo favore, al livello della quantità (dello spazio), chiaramente Romolo è stato preferito. Lo stato di cose, così determinato dal caso, è indecidibile. Del tutto prevedibilmente l’alterco esplode: le rispettive schiere avevano acclamato re entrambi, gli uni valutando la priorità nel tempo, gli altri il numero degli uccelli manifestatisi. Venuti a parole, dalla foga della discussione furono spinti alla strage: ad caedem vertuntur. Ecco che Tito Livio fornisce quella che lui considera la versione più attendibile. Fu allora, in quella strage – caedes vale anche uccisione, omicidio, sacrificio, immolazione, oltre che in generale taglio – che Remo cadde, colpito nella mischia, o meglio ancora nella massa, nella folla, nella calca: in turba Remus cecidit. Tito Livio non aggiunge altri dettagli e passa subito in rassegna la seconda versione della leggenda, la tradizione diffusa e oggi più nota che abbiamo già considerato. La sovrapposizione di due versioni differenti permette a Tito Livio di non addentrarsi nel torbido, di non fare ordine in ciò che è letteralmente perturbante. La prima ambiguità a cui si faceva riferimento è dunque chiaramente riportata dallo storico romano. Remo è morto vittima della folla nel mezzo della calca o è stato ucciso dal fratello gemello Romolo per un sacrilegio? Questi due racconti sono contraddittori, perché sostengono tesi diverse a proposito dei medesimi personaggi, dei medesimi momenti, sotto il medesimo rispetto. Tuttavia, come già aveva ben visto Michel Serres, la lezione di René Girard li rende compatibili, a ben vedere complementari. Diremmo anzi che le intuizioni di Girard rendono evidente la necessità di accostare due versioni ambiguamente complementari. «La lotta tra gemelli è un operatore, la morte in mezzo alla turba è un punto d’articolazione. La prima è motrice di un tempo, la seconda è fine d’un tempo e inizio di un altro. Da qui il riferimento per la fondazione»3. Esiste però una seconda ambiguità, meno vistosa, meno esplicita, eppure chiaramente inscrivibile nel paradigma inaugurato dalla lezione di Girard. In effetti, a dar retta alla versione vulgata, la storia che attribuisce al solo 3

M. SERRES, Rome. Le livre des fondations, Grasset et Fasquelle, Paris 1983, trad. it. a cura di Roberto Berardi, Roma. Il libro delle fondazioni, Hopefulmonster, Firenze 1991, p. 114.

26

La mimesi e la traccia

Romolo la responsabilità della morte del gemello Remo nasconde una strana inversione che Girard ha saputo individuare in altri miti. La versione dei fatti resa da Plutarco, tutta incentrata sulla vulgata, articola la vicenda aggiungendo alcuni dettagli preziosi4. Innanzitutto insinua due variazioni determinanti: non accenna alla contesa sui criteri di decisione, di cui invece Tito Livio fa la causa dell’alterco, e al tempo stesso allude alla possibilità che Romolo abbia mentito in proposito ai propri avvistamenti. «Alcuni vogliono che Remo li abbia veramente veduti, ma che Romolo abbia mentito». Pare che Remo si fosse accorto tardi della frode, quando ormai già l’empio fratello aveva iniziato a scavare la fossa per costruirvi le mura. Solo davanti al sacrilegio del fratello Romolo, di cui si poteva legittimamente sospettare che avesse ingannato tutti facendosi beffe della volontà delle divinità locali, Remo avrebbe preso a deriderne il lavoro e a frastornarne i progressi, saltando per disprezzo le mura. A questa versione dei fatti, che lascia poco spazio all’interpretazione, Plutarco aggiunge una seconda variante, scaricando la responsabilità dell’uccisione di Remo sulle spalle d’un certo Celere, senza per altro fornire un dettaglio non indifferente: Celere sarà infatti il nome poi attribuito ai trecento soldati della guardia personale di Romolo, i Celeri5. La versione di Plutarco manifesta alcune interpolazioni, ma rende evidente la seconda ambiguità, o oscurità, presente nel testo di Tito Livio. Aggiungendo il dettaglio della frode e omettendo sia la lite tra le due avverse fazioni sia soprattutto la strage, Plutarco dà sfogo al desiderio di fare ordine, cercando di modificare gli elementi che non tornano. Ma come ogni complicità reticente, la versione apprestata non torna. Né in Tito Livio né in Plutarco si dice alcunché di cosa avrebbe dato a Romolo il diritto e la legittimità di iniziare i lavori della fondazione, salvo poi, una volta narrato l’omicidio, riportare con dovizia di particolari, specialmente nel caso di Plutarco, le procedure per compiere il rito fondativo. Com’è possibile che Remo abbia potuto trovarsi nella condizione di valicare quelle stesse mura il cui diritto di costruzione era l’oggetto dell’inaugurale contesa non ancora risolta? Questo tipo d’inversione o di aggrovigliamento temporale è stato accortamente individuato da Girard come uno degli indizi fondamentali della sua metodologia ermeneutica. Per esempio, nell’analisi del mito Tikopia6: «molto tempo fa, gli dei non si distinguevano dagli uomini, [essi] 4 5 6

PLUTARCO, Vita di Romolo, 9-13. La traduzione consultata è la versione curata da Carlo Carena, Plutarco, Vite parallele, Einaudi, Torino 1958. Cfr. TITO LIVIO, op. cit., I, 15. C. LÉVI-STRAUSS, Le totémisme aujourd’hui, P.U.F., Paris 1962, trad. it. di D. Montaldi, Il totemismo oggi, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 29-30, cit. in R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 135.

Il libro delle decisioni

27

erano, sulla terra, i rappresentanti diretti dei clan. Ora avvenne che un dio straniero, Tikarau, rese visita a Tikopia, e gli dei del paese gli prepararono uno splendido festino; ma, prima, organizzarono gare di forza e di velocità per misurarsi con il loro ospite. In piena corsa questi finse d’inciampare e dichiarò d’essersi ferito. Ma mentre fingeva di zoppicare saltò verso i cibi imbanditi e li portò via, verso le colline. La famiglia degli dei si lanciò al suo inseguimento; questa volta Tikarau cadde davvero, così gli dei clanici poterono riprendergli uno una noce di cocco, l’altro un taro, il terzo un frutto dell’albero del pane e gli ultimi un igname…Tikarau riuscì a raggiungere il cielo con la massa del festino, ma i quattro alimenti vegetali erano stati salvati per gli uomini»7. Il confronto con il mito Tikarau offre la possibilità di mettere in luce i tratti comuni tra i racconti ambigui e complementari di Tito Livio e la griglia metodologica formulata da Girard. In primo luogo, il tema dell’indifferenziazione violenta, ossia il tipo di contesto sociale che tende a suscitare la violenza collettiva, ben rintracciabile nell’alterco tra i due gemelli, estesosi per contagio alle due schiere e sfociato nella strage. D’altro canto, già la cupido che muove i due fratelli allude all’indifferenziazione mimetica8: è il passaggio dalla mediazione esterna fornita dal nonno Numitore, alla (doppia) mediazione interna a scatenare la lite. In seconda istanza, la presenza di un’accusa subito trasformata in punizione e legge. Un’accusa che ha un tratto caratteristico cruciale. Remo, come altri eroi mitici è punito perché assassino della differenza: valicando il solco tracciato da Romolo, Remo viola il taglio, annulla la differenza, rende vana la de-cisione. La rappresentazione della violenza collettiva è così riassunta da Tito Livio, ibi in turba ictus Remus cecidit: più che una rappresentazione, una velata allusione. Infine, «il fattore essenziale, quello che lancia tutti su una falsa pista, ma anche il più rivelatore quando sia stato inteso, è che l’accusa contro l’eroe mitico non si spaccia per una semplice accusa ma per un dato

7 8

Ivi, p. 159. Per una presentazione generale del pensiero di René Girard ci permettiamo di rinviare a E. ANTONELLI, La creatività degli eventi, cit., pp. 25-76. Per un’introduzione dei concetti fondamentali su cui questo lavoro farà perno, si veda sotto il capitolo 3, La teoria mimetica. Per ora basti anticipare che per indifferenziazione mimetica si intende la diffusione per contagio di desideri comuni. In questo caso, Tito Livio allude al fatto che la cupido regni sia stata per così dire contratta dai gemelli per imitazione del nonno Numitore.

28

La mimesi e la traccia

assolutamente certo, per un fatto incontestabile»9. In questo tratto potremmo forse riconoscere lo spunto ermeneutico di Girard, il mito, come ogni menzogna, come ogni manipolazione della realtà, funziona solo fintanto che riesce a presentarsi come verità certa, come fatto incontestabile – soprattutto non come una delle possibili interpretazioni del mondo: «Remo ha valicato, per ludibrio e scherno, le nuove mura di Roma». A questi elementi, che ci aiutano a collocare inequivocabilmente e precisamente la leggenda della fondazione di Roma nel novero dei miti sacrificali analizzati da Girard, ne va aggiunto uno. Un dettaglio in cui si manifesta la seconda ambiguità del racconto di Tito Livio. Come nella vicenda di Remo, anche nel racconto dei misfatti di Tikarau qualcosa salta all’occhio. Remo e Tikarau sono accusati di aver compiuto dei crimini contro la struttura differenziale della comunità che stanno visitando ma che in realtà la loro espulsione contribuisce a costituire. In entrambi i casi, un elemento esterno10 – anche Remo è in qualche misura in visita, come Tikarau – si macchia di un crimine indifferenziatore e dalla sua espulsione scaturisce l’ordine differenziale la cui violazione aveva causato in prima istanza la punizione. In una versione del racconto Remo viene ucciso dalla folla e in seguito la città viene fondata. Nell’altra versione, opportunamente collocata come un supplemento testuale estraneo ma decisivo all’interno dello svolgimento della prima, l’uccisione di Remo è frutto della violazione dei confini della nuova città, consolidati dalla sentenza performativa e già tracciati e sacri. 1.2. Il confine Romolo non ha ucciso il fratello gemello per punirne la mancanza di rispetto, né per infliggere una punizione esemplare. Remo non ha semplicemente schernito Romolo valicando d’un salto le mura in costruzione; egli ha commesso un terribile sacrilegio, ha violato il confine sacro dell’Urbe, ha violato il pomerio. La nozione di pomerio tormenta storici e filologi sin dai tempi di Roma Antica. Il significato di questa espressione è ignoto ai moderni tanto quanto 9 10

R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 159, corsivo nostro. Dettaglio fondamentale nell’argomentazione di Girard in quanto gli permette di mettere in luce l’incoerenza dell’analisi di Lévi-Strauss, cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., pp. 159 e sgg. Cfr. infra p. 70, nota 147.

Il libro delle decisioni

29

lo era ai romani, i quali senza alcun dubbio, al tempo in cui iniziarono a scriverne, non avevano che un’idea molto confusa e imprecisa di ciò che il pomerio era in origine11. Giacché l’archeologia non ha mai dato risultati significativi e sufficienti per fare luce sull’oscuro significato di quest’espressione pur cruciale per Roma, si è sempre cercato appoggio nell’etimologia. In realtà non tutti sarebbero concordi nell’accettarne l’incertezza, per esempio Varrone, che già pensava di poter risolvere agilmente la questione limitandosi ad intendere, in analogia con l’etimologia accettata di pomeridiano (post-meridiano), pomoerium per post-moerium, al di là delle mura; oggi però si tende a vedere in questa soluzione un errore. La tesi varroniana non può essere accettata per ragioni inerenti al normale sviluppo fonetico e grafico del latino12, cosa che per altro induce a rifiutare anche altre proposte etimologiche articolate sulla medesima tesi. L’importanza del riferimento alle mura è il dato cruciale per questo ragionamento: la discussione si concentra sulla possibilità che questa parola si riferisca ad uno spazio libero interno (post) o esterno (pro) rispetto alle mura di cinta, riferimento che invece rimane per lo più costante13. Esiste tuttavia una tesi, sostenuta da Roger Antaya e fondata sul precedente lavoro del Vanicek14, che cambia completamente prospettiva, liberando il campo da ogni riferimento alle mura di cinta. Secondo questa linea interpretativa, il termine pomerio non ha niente a che fare con murus, ma piuttosto con la radice *mar, *mer ‘misurare, dosare, allocare’. Questa radice è per esempio presente nel greco meiromai (dare suddividendo), méros (porzione), moira (destino, parte) così come nel latino mereo che proprio dal greco moira, destino, prende il significato di meritarsi. La nozione della divisione in porzioni si presta facilmente ad indicare la divisione della terra con una linea di confine. Se a questa lettura recuperiamo la prossimità 11

12 13

14

Cfr. F. HARTMANN, W. KROLL, “Italische Sprachen und lateinische Grammatik”, in «Glotta» 9, 1918, pp. 245-282, cfr. p. 261: «Die Prüfung der schwierigen Stellen ergibt, dass schon die Römer die eigentliche Bedeutung von pomerium nicht kannten». R. ANTAYA, “The Etymology of Pomerium”, in «American Journal of Philology», 101, vol. 2, Summer, 1980, pp. 184-189, cfr. p. 186. Per una panoramica su questo tipo di tesi, si veda R. G. KENT, “The Etymological Meaning of Pomerium”, in «Transactions and Proceedings of the American Philological Association», vol. 44, 1913, pp. 19-24. In questa sede si prende in considerazione l’ipotesi che in fin dei conti la dizione migliore potrebbe essere circa-moerium, cfr. ivi, p. 24, ridimensionando così la farraginosa disputa pseudoetimologica e pseudoarcheologica. A. VANICEK, Etymologisches Wörterbuch der Lateinischen Sprache, Leipzig 1881, p. 215.

30

La mimesi e la traccia

del latino po- con il greco ó (apó), emerge che pomoerium ammette senza forzature etimologiche il significato di ‘misura esterna, confine esterno’. Questa tesi permette di tenere distinto il concetto e il significato di pomerio dalle mura di cinta15; ne consegue che «il pomerio è una linea e non un’area libera [nei pressi delle mura]»16. Viene da chiedersi come sia possibile che Tito Livio17 e altri scrittori romani, oltre allo stesso Plutarco, abbiano potuto commettere un tale errore: è vero infatti che in molti luoghi il pomerio correva parallelo alle mura, per esempio alle mura Serviane18, tuttavia, molti degli autori che notano l’importanza di un’aerea libera in prossimità delle mura per fini militari stranamente non si rendono conto che proprio una tale funzione giustifichi l’esistenza di quelle aree, senza l’esigenza di invocare la funzione religiosa che connotava il pomerio. Solo più avanti potremmo capire quale possa essere il significato del termine pomerio e in che misura possa essere utile allo svolgimento degli argomenti di questo lavoro. Nel corso di questa ricerca emergerà inoltre che l’errore di Varrone, campione della tesi muraria, non è molto dissimile dalla tesi di un autore contemporaneo come John Searle. 1.3. Il centro L’incredibile morte di Remo, conseguenze e risvolti della quale abbiamo appena iniziato ad affrontare, non è la sola a colmare d’orrore e sgomento il lettore del I libro della Storia di Roma di Tito Livio. Altri eventi sorprendenti seguono e precedono la morte di Remo: la morte di Rea Silvia, l’uccisione di Tarpea, e il sacrificio di Tito Tazio, per arrivare infine alla morte di Romolo. La vicenda di Rea Silvia, la madre di Romolo e Remo, richiede di allontanarsi dal testo di Tito Livio, insolitamente pudico nel narrarne la 15

16 17

18

Pur precedendo e prescindendo dall’analisi etimologica di Vanicek e a fortiori di Antaya, già R. BURN sostenne una tesi non dissimile in Id., Rome and the Campagna, London 1876, p. 53: «il pomoerium era semplicemente un confine religioso che sin dai tempi più antichi non era necessariamente coestensivo alle mura». R. ANTAYA, op. cit., p. 188. TITO LIVIO, Ab Urbe condita, cit., I, 44: «Hoc spatium quod neque habitari neque arari fas erat, non magis quod post murum esset quam quod murus post id, pomerium Romani appellarunt; et in urbis incrementis semper quantum moenia processura erant tantum pomerii proferebantur». Esiste un’eccezione tutt’altro che marginale a questa coincidenza: l’Aventino, il luogo eletto da Remo per ricevere gli auguri e dove lo stesso Remo fu sepolto, era abbracciato dalle mura, ma non dal pomerio.

Il libro delle decisioni

31

sventura. Rea Silvia fu nominata Vestale dallo zio Amulio il quale, per consolidare il potere sottratto con la violenza al fratello e legittimo erede Numitore – scelto secondo volere e legge, aetatis verecundia discrimen facere posset, dal padre Aventino – intese eliminare ogni possibile pretendente al trono. Per realizzare tale infame disegno, egli uccise i nipoti maschi e, facendone una Vestale, impedì alla nipote Rea Silvia di generare figli. Tuttavia il destino operò diversamente dai piani dell’empio Amulio. La vestale fu vittima di violenza e diede alla luce i due gemelli: che ne fosse realmente convinta o che le apparisse meno disonorevole ammettere una colpa di cui era responsabile un dio, attribuì a Marte la paternità della sua illegittima prole. Sed nec Dii, nec homines, aut ipsam, aut stirpem a crudelitate regia vindicant, sacerdos vincta in custodiam datur. Pueros in profluentem aquam mitti jubet. Purtroppo né gli dei, né gli uomini la salvarono dalla crudele punizione del re Amulio. Tito Livio riduce la punizione sofferta da Rea Silvia alla prigionia, versione senz’altro vera ma lontana dall’essere esaustiva. In epoca storica, le vestali accusate di aver perso la propria verginità erano sepolte vive nei pressi della porta Collina, nel tristemente famoso campus sceleratus. La prima occorrenza storicamente documentata di un tale supplizio risale in realtà solo al 336 a.C., vittima la Vestale Minucia; altre Vestali avevano patito punizioni diverse, sin dal caso della Vestale Oppia registrato nel 481 a.C., per non parlare ovviamente della vicenda di Tarpea19. Tuttavia le informazioni in nostro possesso in merito a Rea Silvia possono far immaginare un trattamento simile. I dettagli forniti, tra gli altri da Plutarco e Fedro, non lasciano indifferenti. Nella collina veniva scavata una camera sotterranea e vi si collocava un letto, una lampada, del pane, un bicchiere d’acqua, dell’olio e del latte. Nel frattempo in città il corteo si dedicava ai preparativi. La lettiga sulla quale la Vestale veniva trasportata come un cadavere era chiusa con cinture e tessuti, in modo che nessuno potesse vedere la vittima né questa potesse vedere alcunché. La processione attraversava il foro e si avvicinava alla collina. I sacerdoti recitavano le preghiere segrete. La colpevole era estratta dalla lettiga, completamente avvolta da veli, quindi condotta verso la scala che portava alla camera. Una volta estratta la scala dal pozzo d’accesso, l’imbocco della cripta veniva riempito di terra fino a coprire ogni traccia della prigione. Il sacerdote presiedeva al rito, circondato dagli altri preti, circondati a loro volta dagli

19

Il nome della giovane - Tarpeia traduce , ovvero pharmakos, colui o colei che scongiura la malasorte e allontana i mali –, così come il luogo eponimo, chiariscono senza bisogno di altri argomenti la natura vittimaria della sua vicenda.

32

La mimesi e la traccia

astanti e dal resto dell’urbe: Rea Silvia, costretta ad accogliere in sé la violenza di Marte, viene incatenata e gettata in prigione: sacerdos vincta in custodiam datur. La morte di Rea Silvia, anticipazione della morte di ogni vestale infedele ed impura, pur nella povertà di dettagli forniti da Tito Livio, lascia emergere un tratto originario comune alla morte del figlio Remo e di altre vicende di cui ci occuperemo in questa sede. In entrambi i casi si tratta, o almeno potrebbe trattarsi, di linciaggi spontanei o rituali. A questo punto è legittimo proporre la tesi seguente: come in tutti i miti fondativi, secondo la griglia interpretativa indicata da Girard e riassunta in 1.1, l’accusa attribuita a Rea Silvia, ovvero l’impurità sessuale, è presentata come una colpa evidente e fuor di dubbio. La precendente condizione di crisi è essa stessa indicata con chiarezza da Tito Livio. Il regno è in preda a gravi turbolenze. Il fratello minore ha usurpato il trono del fratello maggiore, legittimo erede, e ne ha estirpato la discendenza. Con la sequenza di violenze a danno del ramo famigliare originato da Numitore, Amulio ripristina la stabilità del regno di Alba. Mancherebbe solo la rappresentazione della violenza collettiva, ma la deviazione attraverso lo studio genetico e funzionale del culto delle Vestali ha chiarito oltre ogni ragionevole dubbio che la pudica versione di Tito Livio, sacerdos vincta in custodiam datur, altro non è se non la rappresentazione reticente di una violenza collettiva con caratteristiche molto precise. La Vestale, dopo aver accolto su di sé le impurità diffuse dalla violenza intrafamigliare – occorsa nella propria famiglia ed essa stessa verosimilmente una rappresentazione simbolica di una crisi sacrificale di indifferenziazione: torna ossessivamente il tema della lotta fratricida – è condotta, incatenata, al sacrificio espiatorio. L’ammissione della colpa, per quanto camuffata da attribuzione della responsabilità al dio Marte, è nel gioco delle parti inscenato da ogni narrazione mitica. La punizione mira a rimuovere, convogliare e contenere la contaminazione riconducendola ad un preciso crimine rituale, evitando allo stesso tempo che la comunità rimanga contagiata da tale impurità. Nessuno è direttamente responsabile dell’uccisione di Rea Silvia e nessuno ne lamenterà la morte20. Questo proposito contribuisce a spiegare lo statuto 20

Il rituale di ordinamento di una Vestale prevedeva infatti che questa fosse liberata dalla sottomissione alla patria potestà e dalla tutela di qualsiasi altro uomo. L’atto di liberare una donna da qualsiasi uomo, in modo tale che potesse incarnare tutti gli uomini, la rimuoveva da tutte le classificazioni convenzionali: non era una moglie, non era una madre, non era una figlia. Fuori da ogni classificazione convenzionale, la Vestale acquistava diritti e tratti che Dumézil ha indicato come maschili; cfr. G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, avec un appendice sur la religion des Étrusques, Payot, Paris 1964, trad. it., La religione romana arcai-

Il libro delle decisioni

33

eccezionale delle Vestali romane. Grazie alle procedure di liberazione la Vestale non solo poteva rappresentare e incarnare magicamente tutta la cittadinanza, ma poteva soprattutto accollarsi la funzione farmacologica, perire nel rituale espiatorio, senza dare adito a reazioni vendicative da parte dei membri della famiglia. È così che muore Rea Silvia: sacrificata da Amulio secondo il rito nascituro delle Vestali per porre fine alla crisi ereditaria e sacrificale che stava distruggendo il regno di Alba. La morte della Vestale Rea Silvia e la morte del figlio Remo determinano e costituiscono il focolare e la soglia, ovvero l’unità e l’identità di Roma. La madre di Roma è morta linciata, fondamento della fondazione dell’Urbe, sepolta viva sotto quella che sarà la tomba del figlio Remo. L’una e l’altro hanno costituito il centro e il confine sacri della città: condita urbs est. 1.4. Lo spazio Anche la storia della morte di Romolo è abitata da un’inquietante ambiguità. La storia di Tito Livio riporta, ancora una volta, due versioni contrastanti. Plutarco, per parte sua, pare concentrarsi sui dettagli che più si prestano ad assecondare un’interpretazione ideologica. Tito Livio inizia a descrivere le condizioni assolutamente eccezionali di questa vicenda associandole, ed anzi quasi confinandole, al piano atmosferico, salvo poi per così dire tradirsi, con l’uso eminentemente equivocabile di un aggettivo come turbido. Remo era morto ictus in turba, Romolo, in modo altrettanto misterioso, muore in un turbido die21. Non affrettiamoci e ripartiamo con calma, dall’inizio della vicenda. Esiste un antecedente, nella linea di analogie su cui ci stiamo muovendo, che per così dire collega la morte di Tarpeia a quella di Romolo. La Vestale Tarpeia, colta di sorpresa mentre si preparava ad attingere l’acqua per i suoi sacrifici, accusata di tradimento, muore sepolta viva da una lapidazione perpetrata dai sabini di Tito Tazio. Prima dell’apoteosi di Romolo, Tito

21

ca, Rizzoli, Milano 1977, vol. 2, p. 587, tra gli altri il diritto, assolutamente unico, di fare testamento. TITO LIVIO, op. cit., I, 15. È qui forse il caso di ricordare la radice comune a turba e a turbido, ovvero la descrizione degli eventi associati alla morte dei due gemelli. Il latino ‘turba’ viene dal greco tyrbé, che vale trambusto, disordine rumoroso di una moltitudine e, per metonimia, moltitudine disordinata, calca, turba, folla. Vi si associa turbazein, ovvero perturbare, confondersi, darsi molto affanno. Le due voci vengono ricondotte alla radice tur, tvar, con il senso originario di rapido movimento. La turba latina è, dunque, la moltitudine di gente in confusione, la calca, la folla, la torma. Cfr. infra, 6.6.

34

La mimesi e la traccia

Livio racconta di un’altra morte, occorsa nel mezzo di una folla tumultuante, concursu facto interficitur22. Anche in questo caso, Tito Tazio, lo stesso re sabino che aveva orchestrato il linciaggio di Tarpeia, si trasforma da officiante del sacrificio, per il quale si era recato a Lavinio, in vittima espiatoria. Morto il re Tazio, con cui aveva condiviso cinque anni di regno, Romolo, grazie al coraggio, ai successi militari, al fermo proposito di rafforzare l’Urbe con la guerra e con la pace, riesce a rendere Roma tanto potente da poter godere in seguito di sicura pace per oltre quarant’anni. Dopo aver compiuto queste opere immortali, mentre teneva un’adunanza nel Campo Marzio presso la palude della Capra per passare in rassegna l’esercito, una tempesta scoppiata all’improvviso con gran fragore di tuoni avvolse il re in un nembo così denso che lo sottrasse alla vista degli astanti; da quel momento Romolo non fu più sulla terra. Dissipato il timore, quando dopo sì fosche tenebre la luce ritornò limpida e serena, la gioventù romana, come vide vuoto il seggio del re, benché prestasse fede ai patrizi che erano rimasti al suo fianco, i quali asserivano ch’egli era stato portato via dal turbine, come colpita dal timore d’essere rimasta orfana, stette per lungo tempo in mesto silenzio. Poi, racconta Tito Livio, per iniziativa di pochi, deinde a paucibus initio facto, tutti quanti salutano Romolo come un dio nato da un dio, re e padre della città di Roma. Questa, nella traduzione di Mario Scandola, la narrazione degli eventi a cui, tuttavia, Tito Livio si premura di aggiungere una voce divulgatasi assai velatamente: già allora alcuni sospettarono in cuor loro che il re fosse stato trucidato dai senatori. Lo stesso Plutarco riporta entrambe le versioni anche se, per stratagemma retorico, ripete due volte la narrazione che attribuisce la responsabilità ai senatori, inserendovi, a mo’ di zeppa, l’apoteosi atmosferica. Non pago, aggiunge un dettaglio di non poco conto. Si racconta, così Plutarco, che i senatori avessero assalito e trucidato Romolo nel tempio di Vulcano, ne avessero smembrato il corpo e, ripostasene ciascuno una parte nella toga, l’avessero portata via. L’apoteosi di Romolo viene confermata dalla voce messa in giro da Proculo Giulio. La cittadinanza, ancora turbata dagli eventi, commossa per il rimpianto del re ed ostile ai senatori, viene indotta a festeggiare l’apoteosi dal personaggio di Proculo Giulio, il quale diffonde la voce di esser stato testimone dell’apparizione di Romolo. Pervaso di paura, Proculo avrebbe ricevuto un messaggio da parte del padre di Roma, nel quale questi chiedeva che fosse annunciato ai Romani «ch’è volere dei celesti che la mia Roma sia la capitale del mondo». Il commento di Tito Livio è illuminante, se messo in linea con i dettagli precedentemente 22

TITO LIVIO, op. cit., I, 14.

Il libro delle decisioni

35

forniti: «è davvero sorprendente che si sia prestata tanta fede a un uomo che dava una simile notizia, e che tanto si sia mitigato nella plebe e nell’esercito il rimpianto di Romolo, una volta creatasi la convinzione della sua immortalità»23. I dettagli determinanti per il paragone tra la morte di Remo e quella di Romolo sono due. In primo luogo la descrizione della sparizione o assunzione. La turbolenza è confinata al versante atmosferico, tuttavia turbido die non può tradire altro che la descrizione di una calca impazzita. Sebbene la turba sia presente, anche se nelle parole di Tito Livio solo per analogia o metafora, la logica che nella lezione della teoria mimetica presiede alla costituzione dei fenomeni vittimari, ovvero il contagio imitativo, è stabilita con certezza dall’autore. È per iniziativa di pochi che il timor panico suscitato dall’oscurità e dal fragore della tempesta si trasforma in un giubilo di adorazione per l’apoteosi del padre della patria. Che Romolo sia stato assunto in cielo nel corso di una tempesta, linciato nel mezzo della palude della Capra o smembrato in uno sparagmos nel tempio di Vulcano, poco importa: ciascuna di queste descrizioni allude alla medesima tipologia di evento. La logica è sempre la stessa: è il «tutti contro uno» risolutivo. È la stessa logica che presiede alla morte di Remo, alla morte di Rea Silvia, alla morte di Tarpeia, di Tito Tazio e di molti altri di cui il solo primo libro di Tito Livio straborda. Rea Silvia, Remo e Romolo condividono e rappresentano la medesima logica mortifera e allo stesso tempo fondativa. Le tre morti non sono che una e medesima, il cui differimento nel tempo e nello spazio fonda Roma, la città delle tombe, la città degli inizi24. La morte di Rea Silvia, la sepoltura, fonda e definisce il centro di Roma, il sacro fuoco delle Vestali; il linciaggio di Remo traccia il confine sacro, il pomerio, il limite invalicabile; lo smembramento di Romolo per così dire colma lo spazio che separa l’uno dall’altro, l’una dall’altro. Il punto, la linea, lo spazio. Rea Silvia, Remo, Romolo non fanno che una vicenda, una medesima logica, un medesimo evento in cui sacertà, violenza ed imperium si fondano e si rifondano, differiscono nel differimento. Dice Michel Serres che nella vicenda di Romolo sta la soluzione alla differenza tra Hobbes e Spinoza. «L’uomo è un lupo per l’uomo, violenza. L’uomo è un dio per l’uomo, sacro. Come si può descrivere il cambiamento tra lo stato che pone Hobbes e quello che dice Spinoza? La storia di Roma, la fondazione di 23 24

TITO LIVIO, op. cit., I, 16, 6-8. Cfr. M. SERRES, op. cit., p. 119.

36

La mimesi e la traccia

Roma rispondono alla questione. Anticipano i due principi. Romolo è lupo e dio» 25. Romolo è il primo re di Roma. Lo è davvero? La regalità è il tempo che trascorre mentre dal Campidoglio si attende, si differisce, l’arrivo alle rupe Tarpea. Il re è una vittima differita, un dio ancora in vita, il dio è un re già linciato26. Remo è il primo re di Roma, la differenza tra Remo e Romolo coincide con la capacità o la fortuna dell’ultimo nel differire la propria tragedia, la propria apoteosi. Remo è re per un istante, Romolo per trentasette anni27. Decidere, de-caedere. La storia di Roma, il libro delle fondazioni, la città delle tombe, è il racconto ab urbe condita di una serie di decisioni, ovvero la somma di iscrizioni, la sedimentazione, la cristallizzazione della risulta di una sequenza abissale di stragi. Roma, città degli inizi, Roma, città delle tombe: Roma è un’icnografia.

25 26 27

Ivi, p. 95. Cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., pp. 71109 e A.M. HOCART, Kings and Councillors, U.P. of Chicago, Chicago, IL 1970. Per quanto in genere si attribuiscano a Romolo quarant’anni di regno, gli storici romani datano la fondazione della città al 21 aprile 753 a.C. e la morte di Romolo il 5 (o 7) luglio 516 a.C., per un totale di trentasette anni.

37

2. IMITAZIONE E ISCRIZIONE

Volevo cambiare il mondo, ma ho perso lo scontrino. Anonimo

2.1. Icnografia Roma è la città degli inizi, la città che non smette mai di fondarsi e rifondarsi. Una città che nel rifondarsi si costituisce e si conferma1: l’oggetto Roma non si costituisce per espansione di un nucleo centrale. Il mito lo racconta, la teoria che qui stiamo cercando di formulare lo confermerà. Il primo gesto fondativo è una frattura, una lacerazione, un taglio. Alcune versioni della leggenda insistono sui dettagli procedurali del rituale etrusco, il quale prevedeva che il primo momento fosse a ben vedere l’escavazione del mundus. Tuttavia il mito vede meglio. Scavare il mundus e farne il centro in riferimento al quale muovere l’aratro per tracciare il solco sacro del pomerio sono uno e un solo gesto, un taglio, caedes. Il punto che si fa linea, in attesa che lo spazio che li separa venga colmato. Anzi, in attesa che lo spazio colmandosi separi la linea dal punto. La spazializzazione della città di Roma è raccontata dal mito nella forma del differimento: un centro inattingibile, il fuoco sacro di Vesta e una soglia invalicabile, il pomerio. Romolo, la città di Roma, è lo spazio che colma e allo stesso tempo separa il centro dal confine. Il diasparagmos di Romolo, il cui corpo smembrato è sparso per tutta la città dai senatori, non rappresenta altro che il processo di espansione dell’unica soglia abitabile ancora in corso2. All’inizio, è lo spazio di una linea, idealmente la linea da cui, in cerchio, le moltitudini indifferenziate dei due gemelli linciano Remo. La linea, trac1 2

Cfr. infra 7.3, in cui approfondiamo questa modalità di costituzione. A tal proposito ci permettiamo di rimandare alle considerazioni sviluppate in E. ANTONELLI, “The Child of Fortune. Envy and the Constitution of the Social Space”, in «Contagion. Journal of Violence, Mimesis, and Culture», Vol. 20, No. 1, 2013, pp. 117–140.

38

La mimesi e la traccia

ciata e iscritta dalle orme degli assassini, è l’unica soglia abitabile, né troppo vicina né troppo lontana dal sacro, dal corpo di Remo, abbandonato e già fondativo. Il rituale etrusco, o romano che sia, non può che essere la ripetizione di un linciaggio originario e spontaneo, una ripetizione che è allo stesso tempo uno svelamento ed una copertura reticente. Ecco allora che Romolo, o chi per lui, nel compiere il rito fondativo, parte dal centro, scava il mundus, e poi traccia il solco. Il rituale, come la versione di Plutarco3, prima di innumerevoli a compiere il medesimo errore, parte dalla fine, dà per scontata la priorità del centro sul confine, della meta sul cammino, inverte causa ed effetto, cerca un punto di riferimento esterno, chiaro e stabile. Per prima cosa [Romolo] chiamò dall’Etruria degli esperti, che gli spiegarono e insegnarono minutamente il cerimoniale prescritto dai testi sacri come se si trattasse di un rito magico. Quindi fu scavato un fosso rotondo, del perimetro dell’attuale Comizio, e vi furono riposte le primizie di tutte le cose sancite dalla consuetudine come utili e dalla natura come necessarie alla vita umana. Poi ciascuno portò una manciata di terra del paese da cui proveniva, e la gettò tra le primizie, confondendole tutte assieme. Indi, preso il fosso che designano col nome usato anche per l’universo, e cioè mundus, come centro di un cerchio, tracciarono in giro il perimetro della città: il fondatore attacca un vomere di bronzo all’aratro, aggioga un bue e una mucca, poi, guidandoli personalmente, traccia un solco profondo attorno alla linea di confine, seguito da uomini, che hanno il compito di rovesciare all’interno le zolle sollevate dall’aratro, per impedire che alcuna si riversi al di fuori. Su questo tracciato dovrà sorgere il muro chiamato pomoerium, un nome contratto, che significa “dietro il muro” o “accanto al muro”».4

Anche se dichiara la propria appartenenza al novero dei sostenitori dell’interpretazione etimologica che abbiamo definito muraria, secondo i quali ‘pomerio’ indica il muro di cinta, Plutarco racconta del rito di fondazione mettendo in luce la rilevanza del solco, della misura esterna5. Si potrebbe dire che Plutarco non riconosce valore costitutivo al rito fondati3 4 5

PLUTARCO, Vita di Romolo, 11. Ibidem. D’altro canto, come ricorda Hannah Arendt, la «parola polis designava originariamente pressappoco le mura della cerchia perimetrale, e sembra che anche il latino urbs esprimesse l’idea della “cerchia” e avesse la stessa radice di orbis. La stessa connessione si trova nella parola inglese town che, come il vocabolo tedesco Zaun, significa la siepe perimetrale», H. ARENDT, The Human Condition, Univerisity of Chicago, Chicago IL, 1958, trad. it. di Sergio Finzi, Vita Activa. La condizione umana, Bombiani, Milano 19882, p. 337.

Imitazione e iscrizione

39

vo. Non la tracciatura del solco, non l’iscrizione della misura: il momento costitutivo è l’edificazione delle mura. La versione di Plutarco, che accogliendo la tesi Vanicek-Antaya può essere emendata dall’errore etimologico, racconta suo malgrado un’altra storia: la fondazione di Roma non è edilizia, ma icnografica. 2.2. Mura di cinta e confini La diatriba etimologica sull’origine e il significato del termine pomerio, che come abbiamo visto data sin dai tempi di Roma antica, ha un controcanto incredibilmente simile nel dibattito molto più recente in merito all’ontologia sociale. Sorprendentemente, il mito della fondazione di Roma può dire la sua anche in questa sede. Plutarco, colui che abbiamo eletto a campione della tesi muraria, edilizia, sostiene che pomoerium sia il nome del muro sorto sul solco tracciato da Romolo. Potremmo dire che per Plutarco il muro di cinta conta come confine sacro in un contesto più o meno preciso, che copre l’era di Roma antica. Per la fazione VanicekAntaya, pomoerium è invece il nome del solco medesimo. L’oggetto sociale pomoerium – cioè il prototipo ideale di ogni confine – è un muro o una traccia? In altre parole è un oggetto X che conta come Y in un contesto C, oppure un atto iscritto? L’alternativa posta in questi termini indica sin da subito la direzione del ragionamento. Come abbiamo già mostrato, la tesi etimologica edilizia non tiene, per ragioni inerenti alla normale evoluzione fonetica del latino. L’antica saggezza delle parole ci induce quindi a propendere per un’ontologia sociale che faccia del proprio fondamento non tanto il conferimento di una funzione sociale ad un oggetto fisico quanto la registrazione mediante iscrizioni di atti sociali. In questi termini, la riflessione rimanda ai lavori di Maurizio Ferraris, il quale, pur avendo raggiunto un risultato importante, manca un punto cruciale affinché la sua ontologia sociale possa aspirare ad essere una compiuta ontologia dell’attualità e non solo una descrizione statica dell’essenza degli oggetti sociali. Il punto di contatto con la teoria della documentalità è offerto dalla riflessione sull’origine e significato del pomoerium, che per ora non abbiamo fatto altro che introdurre. L’esempio del confine ci servirà da cartina tornasole per mettere in prospettiva il contributo di Ferraris sullo sfondo della teoria di Searle – la posizione standard in merito alla natura degli oggetti sociali – e per cercare di fare un passo in più. Prendiamo dunque l’argomento del confine e vediamo in che misura esso possa risultare esemplare. La legge fondamentale dell’ontologia sociale di

40

La mimesi e la traccia

Searle si riduce ad una formula, X conta come Y in C, ovvero un oggetto fisico conta come oggetto sociale, mediante quella che Searle definisce «imposizione di funzione», in C, un contesto specifico; ciò che permette di coprire il passaggio dalla X alla Y, ovvero ciò che presiede all’assegnazione di una funzione che vada al di là delle intenzioni del singolo individuo è la misteriosa intenzionalità collettiva, di cui Searle6 non è mai riuscito a dare una spiegazione convincente. Vediamo in che senso questa formula può essere applicata alla spiegazione dell’oggetto confine. Searle adopera l’esempio del muro e del confine come argomento per spiegare il passaggio dal fisico al sociale. Immagina una tribù primitiva che innalzi un muro intorno al suo territorio. Il muro di cinta è un esempio di una funzione sociale imposta in virtù della pura fisica: il muro, già solo perché esiste, perché è fatto di pietre, o anche fosse una palizzata di legno, tiene fuori gli intrusi. «Supponiamo che il muro gradualmente si evolva dall’essere una barriera fisica per diventare una barriera simbolica»7. Immaginiamo che pian piano del muro non resti che una fila di pietre, ma che gli abitanti della comunità e i loro vicini continuino a riconoscere la fila di pietre come ciò che demarca i confini e a comportarsi di conseguenza. La funzione sociale di confine non è più svolta in virtù della pura fisica del muro, ma, dice Searle, in virtù dell’intenzionalità collettiva. Un insieme di oggetti fisici ora svolge la funzione di indicare qualcosa al di là di se stesso, cioè i limiti del territorio. Lo status di demarcatore di confini assegnato collettivamente permette alla fila di pietre di svolgere la medesima funzione di una barriera fisica. Per Searle, dunque, l’oggetto fisico «fila di pietre» può svolgere la funzione di confine, ovvero contare come confine, nel contesto geografico e storico di riferimento, grazie all’intenzionalità collettiva. Ciò che fa del processo di imposizione di funzioni qualcosa di tipicamente umano è proprio il fatto che la funzione possa essere del tutto slegata da ogni caratteristica fisica dell’oggetto X che si troverà a contare come Y; livello di astrazione a cui per lo più gli animali, dice Searle, non pervengono. Bisogna capire se abbia senso sostenere che il muro di cinta conti come confine sacro, nella Roma antica. Abbiamo visto che l’artificio retorico di 6

7

Così come non vi era riuscito il filosofo finlandese Raimo TUOMELA, che aveva introdotto per primo il concetto, in Id., The Importance of Us: A Philosophical Study of Basic Social Notions, Stanford U.P., Stanford, CA 1995. Salvo emendare la tesi proposta in Documentalità per sostituire questo concetto, condividiamo in buona sostanza le critiche ad esso rivolte in M. FERRARIS, Dove sei? Ontologia del telefonino, Bompiani, Milano 2005, pp. 214-225. J. SEARLE, The Construction of Social Reality, 1995, trad. it., La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino 2006, p. 49.

Imitazione e iscrizione

41

Searle consiste nel far emergere la funzione simbolica dall’astrazione della funzione fisica, per via dell’indebolimento della componente fisica. Una volta costruito il muro, anche riducendone la tenuta fisica, l’intenzionalità collettiva garantirà lo svolgimento della funzione di confine. Nel nostro caso, la relazione tra le parti pare per così dire invertita. Se in origine era plausibile che il pomerio coincidesse con le mura di Romolo ed era quasi vero che coincidesse con le mura di Servio Tullio, ad un certo punto la relazione ha cambiato natura, ma non tanto da smentire la tesi di Searle. Con il passare degli anni l’estensione del pomerio arriverà a essere manifestamente slegata da ogni relazione con le mura vere e proprie, ma non con oggetti fisici. Quando Giulio Cesare passò il Rubicone, nel 49 a.C., valicò il pomerio, il confine sacro che era assolutamente vietato attraversare in armi: a quell’epoca la funzione simbolica, ovvero dividere il territorio urbano dal resto del mondo, era (parzialmente) svolta da un confine naturale. Il fiume Rubicone conta come pomerio nella Roma del 49 a.C. Il problema della tesi di Searle emerge qualora si verifichi il fatto che, così come le mura serviane non coincidevano che parzialmente con il pomerio (che come abbiamo visto lasciava fuori l’Aventino, sede della tomba di Remo, ma non il campus sceleraturs, sede delle tombe segrete delle vestali), ovviamente il Rubicone non rappresentava che una minima parte del confine sacro. Parrebbe legittimo, sempre tenendo in conto le considerazioni etimologiche, ribaltare la prospettiva di Searle. La funzione di confine è garantita dallo status di demarcazione, a prescindere dalla pura fisica. Inoltre, un altro argomento contro la tesi muraria è quello con il quale introduciamo in modo forse ancora oscuro uno dei capisaldi della teoria mimetica, ovvero l’essenza endogena del pericolo: la tesi di Searle si fonda su un presupposto di senso comune implicito secondo cui il pericolo viene essenzialmente da fuori. È la stessa prospettiva che nutriva certi ateismi ingenui che vedevano nella religione e nelle divinità arcaiche delle risposte consolatorie per far fronte alla paura dei fulmini o dei terremoti o di chissà quale altra catastrofe naturale. La teoria di Girard sconfessa decisamente questo assunto e libera il campo da questo tipo di confutazioni superficiali chiarendo che l’origine della violenza è interna alla comunità. Il confine non serve in prima istanza per tenere lontani gli altri ma per dare una struttura differenziale ai propri, per segnare i punti di riferimento e di contenimento. La funzione fisica è irrilevante, o comunque secondaria. Il solco tracciato da Romolo non opponeva nessuna resistenza fisica – tant’è che Remo poté valicarlo d’un salto –, ma opponeva una cruciale resistenza simbolica e Remo fu il primo a farne le spese. Per certi versi, se Remo aveva ucciso la prima dif-

42

La mimesi e la traccia

ferenza, Giulio Cesare, varcando in armi il confine sacro, imbocca la stessa strada. La tesi documentale di Ferraris risulta più consonante. Insomma, il confine, vale a dire in ultima istanza il «divieto di ingresso», non nasce come ostacolo fisico, ma come ostacolo sociale, nasce come traccia, la cui essenza è debolmente fisica e fortemente sociale. Così ci siamo trovati a sostenere la tesi di Ferraris, il cui problema principale emergerà solo dopo un più approfondito confronto con un tratto specifico della teoria della documentalità, ovvero la relazione tra registrazione, imitazione e documento. In buona sostanza, il problema della tesi documentale, per come emerge dal confronto con il mito della fondazione di Roma, non è cosa da poco: di che atto sociale, iscritto, stiamo parlando8? Siamo poi sicuri che «la situazione normale è che prima si firma un documento»9? 2.3. Ragionamenti fallaci La teoria della documentalità si fonda su una legge costitutiva degli oggetti sociali, così brevemente enunciata: Oggetto sociale = Atto iscritto, articolata in undici tesi fondamentali10. Dal momento che l’autore ha fatto lo sforzo di sintetizzare la sua teoria, procederemo alla discussione dettagliata degli aspetti che ci interessano a partire dalle sue indicazioni. Lasciando da parte la funzione catalogatrice dell’ontologia e la distinzione tra oggetti naturali, ideali e sociali, ciò che ci preme iniziare a discutere è uno degli argomenti fondamentali del percorso filosofico di Ferraris, ovvero la tesi per cui «l’ontologia è distinta dall’epistemologia». Per quanto lodevole possa essere l’esercizio teoretico alla base di questo argomento, ci pare che esso poggi su un malinteso e su una strana scelta terminologica. In prima istanza, la scelta terminologica: Ferraris considera ontologia «ciò che si riferisce a quello che c’è, indipendentemente da come lo conosciamo, o dal fatto che lo conosciamo o meno», mentre chiama epistemologia «la conoscenza di ciò che c’è, o più precisamente ciò che siamo giustificati a credere in un dato contesto». A suo avviso, la filosofia di matrice kantiana, avreb8

9 10

Ferraris introduce la distinzione tra archetipi e ectipi (cfr. M. FERRARIS, Documentalità, cit., pp. 43-56). Il confine e la tomba sono gli archetipi di tutti gli oggetti sociali e, sotto di loro, c’è un tipo di atto molto strano. Non si può dimenticarlo, o meglio, dimenticarlo vuol dire perdere la possibilità di capire gli effetti di ciò che nella terza parte chiameremo microfisica della secolarizzazione e con essa la storia del nichilismo. M. FERRARIS, Documentalità, cit., p. 171, corsivi nostri. Ivi, pp. 358 e sgg.

Imitazione e iscrizione

43

be spesso e volentieri confuso questi due piani fondamentalmente distinti. Questa confusione è ciò che Ferraris definisce «fallacia trascendentale» e si risolve ripristinando la distinzione tra ciò che c’è, inemendabile, e ciò che sappiamo di ciò che c’è, eminentemente emendabile. Ferraris ritiene che gli orrori del post-moderno, dal pensiero debole di Gianni Vattimo ai vari testualismi francesi, da Derrida a Foucault, possano essere superati correggendo questa fallacia originale, il loro punto di scaturigine. La prima considerazione deve dunque prendere in conto la scelta terminologica. Epistemologia non significa «ciò che sappiamo di ciò che c’è»11, ma piuttosto, per variare sul tema, «ciò che sappiamo a proposito di come sappiamo ciò che c’è»12. Allo stesso modo, difficilmente si potrebbe dire che l’ontologia sia «ciò che c’è», altra formula retorica, essendo invece piuttosto «ciò che sappiamo di ciò che c’è». Riprendendo i risultati controversi di un lavoro precedente13, Ferraris poggia molta della sua argomentazione sulla connessione, questa meno discutibile, tra la tesi kantiana «le intuizioni senza concetto sono cieche» e il motto postmoderno, «non ci sono fatti, solo interpretazioni». Quello che ci pare essere un malinteso emerge proprio dal confronto tra l’interpretazione della filosofia kantiana e l’uso della terminologia qui discussa. Ferraris vuol far credere che «le intuizioni senza concetto ci vedono benissimo»14 e per dimostrarlo usa una serie di espressioni che vanno analizzate nel dettaglio. Innanzitutto, la presentazione dell’obiettivo della filosofia kantiana che, abbastanza sorprendentemente, Ferraris riassume così: «si fa avanti la proposta di Kant: invece di fondare la scienza sull’esperienza, si tratta di capovolgere la prospettiva, e di fondare l’esperienza attraverso la scienza, e in particolare la fisica»15. Una tale prospettiva, come detto, è sorprendente, giacché l’obiettivo di Kant resta quello di fondare la scienza, in particolare la fisica. Da questo strano malinteso sorge inequivocabilmente il seguente: quando Kant dice che le intuizioni senza concetto sono cieche, il termine vago non è tanto o non solo «concetto», sul quale si concentra 11 12

13 14 15

Ferraris usa abitualmente questa formula, riportata anche da un interprete autorevole come Salvatore Veca; cfr. S. VECA, “Molto rumore per nulla”, in «ParadoXa», VI, 3, luglio/sett. 2012, pp. 20-33, p. 21. Fermo restando che una definizione enciclopedica del lemma ‘epistemologia’ suona più o meno così: «Nell’uso che ricalca l’inglese epistemology, il termine indica la teoria filosofica della conoscenza in generale, è cioè sinonimo di gnoseologia. In un altro senso, attualmente più diffuso, il termine è sinonimo di filosofia della scienza», cfr. Enciclopedia della filosofia, Garzanti, Milano 1993, p. 319. M. FERRARIS, Goodbye Kant!, Bompiani, Milano 2004. M. FERRARIS, Documentalità, cit., p. 73. Ivi, p. 67.

44

La mimesi e la traccia

Ferraris16, quanto «cieche». Il fatto che intuizioni del mondo si diano anche senza concetto non fa nessun problema per Kant, né per nessun altro. Di queste intuizioni senza concetto, come dei sensi in generale, si potrebbe anche dire, per sineddoche, che ci vedano benissimo. Il punto, l’unica pretesa del kantismo, è che da queste intuizioni non si possa trarre conoscenza. Da questo non segue affatto che in Kant il conigliopapero debba fare problema. Oltre al fatto che almeno le categorie di spazio e tempo restano necessarie ad ogni intuizione, resta altrettanto vero, anche per Ferraris, che senza i concetti di coniglio e di papero, la figura celebre sarebbe perfettamente intuita dall’occhio, ma non ri-conosciuta17. Ovvero, per restare agli esempi di Ferraris, è senz’altro vero che «posso sapere o non sapere che l’acqua è H2O, ma mi bagnerà comunque, e non potrò asciugarmi semplicemente pensando che l’idrogeno e l’ossigeno in quanto tali non sono bagnati»18: ma bagnarsi non è esattamente ciò che Kant chiamerebbe un’intuizione cieca? Ancora, sulla stessa falsa riga: «se si può tranquillamente sbattere in uno sgabello e provare dolore anche in assenza di qualsiasi concetto, non c’è dubbio che in assenza di concetti non potremo mai capire di trovarci a lezione, o a una esecuzione capitale, o a una incoronazione»19. Non è affatto casuale che Ferraris cambi registro e pretese nelle due situazioni. Sbattere contro uno sgabello è un’intuizione cieca, non richiede nessun concetto e, senza memoria né schemi concettuali, rimarrebbe un’esperienza puntuale del tutto priva di qualsiasi valore conoscitivo (e allora fino a che punto sarebbe ancora opportuno parlare di esperienza e non piuttosto di semplice percezione?). Ma ecco che parlando di un evento sociale, quale una lezione o un concerto, Ferraris cambia surrettiziamente registro. Un castoro potrebbe trovarsi in un concerto esattamente come uno spettatore, così come un uomo del Settecento potrebbe viaggiare su una metropolitana, senza capire niente di ciò che gli sta succedendo, vale a dire avendone un’intuizione cieca. Soprattutto, dall’argomentazione di Ferraris non deriva che secondo Kant ciò di cui non si ha concetto non esista o ancora che concetti diversi possano emendare la realtà. Ancora, il fatto che l’Io penso 16 17

18 19

Ivi, p. 70. D’altro canto è lo stesso Ferraris a preparare, inesorabilmente verrebbe da dire, il campo per questo tipo di critiche: «avere visioni molto complesse senza riconoscere», «ottenere visioni complesse senza capire» (cfr. ivi, p. 70 e p. 73, corsivo nostro). Ad ogni modo, torneremo a riflettere su questi temi quando ci confronteremo con il lavoro di un altro allievo di Derrida, Bernard Stiegler sul problema dell’anamnesi, cfr. infra capitolo 5. M. FERRARIS, Documentalità, cit., p. 60, corsivo nostro. Ivi, p. 144, corsivo nostro.

Imitazione e iscrizione

45

debba accompagnare le mie rappresentazioni non mette in dubbio persistenza e inemendabilità degli oggetti fisici, semplicemente fissa una delle condizioni di possibilità della loro conoscibilità. Insomma, quando Ferraris dice «ci vuole un bel coraggio, in altri termini, per far collassare l’ontologia e l’epistemologia, perché questo tradisce i caratteri dell’ontologia, le strutture che incontriamo nel mondo, e quelli dell’epistemologia, che nella sua essenza è opinione vera accompagnata da ragione», dice almeno due cose sorprendenti. In primo luogo, come abbiamo già visto, per difendere un immaginario collasso di epistemologia e ontologia, fa collassare epistemologia e conoscenza (questa sì essenzialmente opinione vera accompagnata da ragione), ma soprattutto attribuisce a Kant un errore che solo una versione di paglia del padre della filosofia critica potrebbe accollarsi: il post-moderno ha dato i natali a formulazioni iperboliche criticate spesso con iperbolica sagacia in Documentalità, ma questo è un altro discorso. Una volta ammesso che il progetto critico riguardi una fondazione della conoscenza scientifica – nella fattispecie la fisica –, tale categorizzazione del testualismo potrebbe allora essere rovesciata. Ferraris parla di testualismo in riferimento agli sviluppi novecenteschi della filosofia trascendentale di matrice kantiana. L’etichetta nasce dal confronto con quella che Ferraris considera la radicalizzazione derridiana della fallacia kantiana, per cui «nulla esiste fuori dal testo»20. Si può distinguere allora tra un testualismo forte, quello derridiano e post-moderno, ed un testualismo debole, quello formulato nel saggio in questione. Il primo viene brutalmente riassunto nella formula per cui «tutti gli oggetti sono socialmente costruiti»21, il secondo si basa su una piccola emendazione, «nulla di sociale esiste fuori dal testo». In che senso si potrebbe allora rovesciare questa formula? Se ammettiamo che la filosofia critica non miri a fondare l’esperienza, ma la scienza, ovvero l’espressione di opinioni vere accompagnate da ragione, si potrebbe ricondurre ad una lettura più legittima di Kant questa operazione per altri versi meritevole, riconoscendo un testualismo debole, adatto alle scienze in generale e dure in particolare, per cui l’esistenza degli oggetti non è messa in dubbio dal trascendentalismo, mentre lo è il predicato di esistenza: senza schemi concettuali e senza memoria – della cui relazione torneremo a parlare con il sostegno di Bernard Stiegler (cfr. capitolo 5) –, come per altro vede anche Ferraris, «ci 20

21

Che potrebbe anche essere tradotto come «Non c’è fuori-testo», J. DERRIDA, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967, trad. it. a cura di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A. C. Loaldi, Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1969, pp. 219-220. M. FERRARIS, Documentalità, cit., p. 158.

46

La mimesi e la traccia

sarebbe solo una successione di flash irrelati»22, non solo del gioco degli scacchi23, ma anche del mondo. Senza schemi concettuali non ci sarebbe conoscenza e quindi nessuno potrebbe attribuire legittimamente alcun predicato di esistenza. Il contributo di Ferraris, alleggerito dal tentativo estrinseco di liquidare il post-moderno, trova tutta la sua forza nel vero oggetto dello sforzo teoretico, nell’ontologia degli oggetti sociali. Qui, ci pare il caso di dirlo, si può parlare di testualismo forte: in questa come in tutte le altre regioni, gli schemi concettuali presiedono alla conoscenza degli oggetti, cioè all’attribuzione legittima di predicati di esistenza (e di altri predicati), ma, come in nessun’altra, partecipano allo stesso tempo alla costituzione degli oggetti medesimi, cioè determinano sia la conoscenza dell’essere (l’ontologia) sia l’essere. 2.4. Registrazione Liberato il campo da malintesi le cui conseguenze vedremo in seguito, possiamo proseguire il ragionamento e indagare il ruolo della registrazione nella costituzione degli oggetti sociali. Il cuore della tesi della documentalità è composto dall’articolazione della teoria degli enunciati performativi24 di Austin con la grammatologia di Derrida, al di là di quanto lo stesso Derrida avesse preso in considerazione nella propria querelle con Searle. Gli esempi inseriti nel catalogo degli oggetti sociali sono oggetti del tipo promesse, debiti, confini, contratti e lauree. Tutti questi oggetti condividono sostanzialmente due caratteristiche, la prima è quella di essere il prodotto di atti sociali, ovvero atti, non necessariamente linguistici, ma necessariamente performativi, che intercorrono tra due o più persone. Fare una promessa, contrarre un debito, tracciare un confine, stipulare un contratto e conferire una laurea, pur essendo atti descritti da verbi precisi e diversi tra loro, corrispondono in buona sostanza 22 23

24

Ivi, p. 175. Di cui Ferraris sta parlando, discutendo B. SMITH, “Un’aporia nella costruzione della realtà sociale. Naturalismo e realismo in John R. Searle”, in Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive, a cura di P. DI LUCIA, Quodlibet, Macerata 2003, pp. 137-152. Si definisce performativo, in opposizione a constativo, l’enunciato che non descrive né constata alcunché, ma la cui emissione comporta o si identifica con il compimento di un’azione, cfr. J. AUSTIN, How to Do Things with Words: The William James Lectures delivered at Harvard University in 1955, J.O. Urmson (ed.), Clarendon, Oxford 1962, trad. it. Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987.

Imitazione e iscrizione

47

ad atti performativi. Ora, osserva Ferraris, ciò che caratterizza una promessa, un debito, un confine, un contratto e una laurea, non è solo l’atto performativo che li ha fatti esistere. Immaginiamo un mondo senza alcuna forma di memoria: l’esperienza del mondo si ridurrebbe ad una successione di flash irrelati, ma le lauree e i debiti sparirebbero immediatamente dopo il conferimento o la contrazione. Se intendiamo la realtà non già come Realität, ma come Wirklichkeit, cosa ne sarebbe della realtà senza registrazioni, ovvero senza gli effetti che tali atti producono? Ma soprattutto, se (come vedremo nel capitolo 7) gli archetipi di tali atti fossero oggetto di un processo di svelamento, cosa succederebbe degli effetti che siamo abituati ad attribuire loro? Per ora concentriamoci sul primo corno della domanda. Perché un oggetto sociale come quelli elencati possa esistere, a prescindere dal fatto di essere conosciuto scientificamente, è necessario che esista una forma più o meno evoluta di registrazione. Ecco allora che, per quanto riguarda l’ontologia degli oggetti sociali, ovvero ciò che pensiamo di poter dire a proposito della loro natura, l’iscrizione nella memoria dei soggetti coinvolti o su un qualche supporto fisico, è una condizione di possibilità necessaria, anche se non sufficiente. In questo senso, traendo spunto dalle analisi formulate da Derrida nell’Introduzione a Husserl. L’origine della geometria25, si può notare che la materialità del supporto su cui verrà conservata l’iscrizione determina in modo non secondario l’ontologia dell’oggetto sociale in questione. Scrivere su un pezzo di carta, o incidere un bastone, permette a debitore e creditore di ricordare l’ammontare preciso del debito contratto e garantirà l’esistenza del debito anche dopo la morte eventuale di uno dei contraenti; tuttavia, la memoria dei soggetti coinvolti può bastare a costituire e sancire l’esistenza dell’oggetto sociale debito, almeno durante la loro vita, il che, se è vero che «nel lungo termine siamo tutti morti», è quanto basta. Così si spiega e articola la legge fondamentale dell’ontologia sociale di Ferraris: Oggetto = Atto iscritto. In tal senso, il pomerio, confine sacro di Roma, è un oggetto sociale in quanto atto sociale iscritto su un supporto materiale, vale a dire un atto intercorso tra due o più persone – Romolo, Remo e le rispettive schiere –, registrato nel solco rituale, una forma elementare di traccia ovvero la «modificazione di una superficie che rinvia (ricordandolo) a qualcosa di

25

J. DERRIDA, Introduction à ‘L’origine de la géometrie’ de Husserl, P.U.F., Paris 1962, trad. it. a cura di Carmine Di Martino, Introduzione a Husserl. L’origine della geometria, Jaca Book, Milano 1987.

48

La mimesi e la traccia

non presente»26. La registrazione, la possibilità di tener traccia, è la condizione di possibilità fondamentale dell’esistenza di una società. In tal senso, è legittimo affermare, come fa Ferraris, che la nostra è una società della registrazione piuttosto che della comunicazione, senza per questo voler negare l’importanza della comunicazione. Infatti, la comunicazione ha la sua rilevanza ontologica: perché un atto possa essere performativo, oltre che sociale, deve comunque essere espresso. Senza comunicare la mia adesione ad un contratto, la registrazione non basterebbe a fare di me né un debitore né un marito. Questo non toglie che senza nessuna forma di registrazione, memoria compresa, io non potrei né dirmi, né soprattutto essere, un marito o un debitore. Una volta vista nei suoi dettagli elementari e costitutivi la relazione tra comunicazione, registrazione e costituzione degli oggetti sociali, ci resta da valutare la seconda gamba su cui si regge l’edificio. Oltre ad essere la seconda colonna, o forse addirittura la chiave di volta dell’ontologia sociale documentale, l’imitazione si imporrà come secondo polo del ragionamento che stiamo seguendo. Poiché la sua importanza è appena intravista da Ferraris, l’analisi di questo elemento ci terrà occupati più a lungo di quanto non basti per valutarne il ruolo nella teoria della documentalità. 2.5. Imitazione Seguiamo Ferraris nei suoi accessi carenti alla teoria dell’imitazione, così da poter poi iniziare a vedere in quali molteplici modi questi limiti si ripercuotano sull’intero edificio teorico. Una volta discusso il ruolo costitutivo della registrazione, per abbandonare definitivamente la teoria di Searle resta da superare l’impasse dell’intenzionalità collettiva. Partiamo dall’esempio discusso da Ferraris, un atto sociale idealtipico: la resa di un reparto militare27. Alla determinazione a resistere fino alla fine, apparente espressione di intenzionalità collettiva, dopo un momento di esitazione, segue come d’improvviso la resa. Il fatto che il reparto si arrenda, pur con qualche eccezione – alcuni ufficiali potrebbero scegliere di suicidarsi – può essere spiegato applicando il fumoso concetto di intenzionalità collettiva? O per meglio dire, può essere spiegato altrimenti che applicando il fumoso concetto di intenzionalità collettiva?

26 27

M. FERRARIS, Documentalità, cit., p. 200. Ivi, pp. 210-211.

Imitazione e iscrizione

49

Seguendo la tesi di Searle, dovremmo interpretare la resa come il risultato di una we intention, di un «noi intendiamo», formata sulla base di quella predisposizione biologicamente primitiva che presiede ad ogni «fatto sociale»28, l’intenzionalità collettiva. La soluzione proposta da Ferraris si incammina su una strada promettente pur rimanendo ad un livello troppo superficiale. Ad un’analisi un po’ più precisa di un atto sociale come la resa, si vedrà che, in effetti, se è pur vero che tutti si arrendono e che, da un certo momento in avanti i singoli soldati avranno potuto formulare un’intenzione collettiva «noi ci arrendiamo», il primo soldato a lasciar cadere l’arma ha probabilmente pensato «io mi arrendo». Cosa spiega il fatto che uno ad uno all’inizio e poi tutti insieme, o quasi, facciano altrettanto? Forse non è necessario postulare l’esistenza di un fenomeno biologicamente primitivo complicato come l’intenzionalità collettiva, oppure, detto altrimenti, si può trovare un fenomeno biologicamente primitivo che possa svolgere tutte le funzioni dell’intenzionalità collettiva senza essere tanto misterioso. La tesi proposta da Ferraris è che il miglior candidato a sostituire l’intenzionalità collettiva sia l’imitazione. L’imitazione da sola può spiegare la coordinazione di intenzionalità collettive in atti sociali come la resa militare dell’esempio, ma solo articolandola con la registrazione può spiegare oggetti sociali come la pace – oggetto che comunque neanche l’intenzionalità collettiva potrebbe spiegare. Il primo soldato si è arreso, formando la sua intenzione individuale, «gli altri lo hanno visto e lo hanno imitato»29. Saranno poi le iscrizioni in senso tecnico, come per esempio la firma di un trattato, a sancire la pace. È dunque l’imitazione il tramite che lega le intenzioni individuali tra di loro ed in generale connette le iscrizioni, dentro la testa delle persone e nei testi. L’imitazione inoltre rende evidente la necessità di limitare ad un contesto specifico l’esistenza del tale o tal altro oggetto sociale: i soggetti mantengono vive le funzioni sociali attribuite alle tracce solo in una catena di imitazioni ininterrotta30. Vediamo in che senso questo è possibile, cercando di fare lo sforzo necessario a fissare con chiarezza i limiti dell’ipotesi discussa da Ferraris.

28 29 30

J. SEARLE, op. cit., pp. 33-36. M. FERRARIS, Documentalità, cit., p. 211. A quanto detto andrebbe aggiunta un’adeguata analisi del ruolo dell’ermeneutica, per esempio della filologia che ha proprio il compito di riattivare tracce il cui senso e la cui funzione sociale si siano cancellati a seguito di un’interruzione nella catena imitativa.

50

La mimesi e la traccia

2.6. La vita è segno L’imitazione è stata esplicitamente considerata una caratteristica fondamentale della natura umana almeno a partire da Platone e Aristotele. Le esagerazioni del primo, che ne faceva addirittura il tramite tra il mondo sensibile e il mondo delle idee, bilanciate dall’asciutto realismo del secondo, sono confluite, grazie anche alle intuizioni di Sant’Agostino e Gabriel Tarde, in una teoria dell’imitazione più impegnativa di quanto non risulti a Ferraris. Il primo vantaggio della mimesi rispetto all’intenzionalità collettiva è di essere un comportamento palese e banale che può essere osservato facilmente nelle interazioni umane, dalla moda alla pubblicità. Senza cadere vittima delle affrettate associazioni tra imitazione e neuroni specchio31, si può prendere in considerazione il ruolo della mimesi nella cosiddetta «cognizione sociale», ovvero nella comprensione del comportamento altrui sulla base dell’attribuzione di stati mentali ed eventualmente nella condivisioni degli stessi. Se è opportuna la notazione di Ferraris che invita a diffidare dello sviluppo inflattivo delle tesi sul ruolo dell’imitazione, «ovunque c’è mimesi»32, meno lo è l’attribuzione di una forma di superficiale ingenuità ai teorici della mimesi – la tesi inflattiva porterebbe a «concludere che tutti imitano, e che dunque tutti fanno la stessa cosa, tranne uno, forse, che sta all’origine della catena imitativa. Uno alza un braccio, tutti alzano il braccio…»33 – critica formulata per esempio da Dan Sperber34. Ferraris mostra di non aver tenuto conto dei risvolti più interessanti della teoria dell’imitazione proponendo una carrellata di considerazioni che andrebbero tenute scrupolosamente distinte. Ovviamente la morale, il diritto e il senso comune suppongono che noi – e non un imperscrutabile Primo Imitato – siamo responsabili delle nostre azioni. È cosa nota che il conformismo sia oggetto di giudizi negativi e che la tensione tra imitazione e originalità getti i soggetti in un terribile double bind; infine, altrettanto banale è sostenere

31

32 33 34

Sui limiti dell’associazione affrettata tra neuroni specchio e imitazione, cfr. J.-P. DUPUY, Naturalizing Mimetic Theory, in S. GARRELS, Mimesis and Science. Empirical Research on Imitation and the Mimetic Theory of Culture and Religion, Michigan State U.P., East Lansing, MI 2011, pp. 193-215. M. FERRARIS, Documentalità, cit., p. 213. Ibidem. In D. SPERBER, La contagion des idées. Théorie naturaliste de la culture, Odile Jacob, Paris 1996, trad. it. di Gloria Origgi, Il contagio delle idee. Teoria naturalistica della cultura, Feltrinelli, Milano 1999. Il capitolo 3, nella fattispecie 3.5 e il capitolo 4, specialmente 4.2, affronteranno una discussione di questa obiezione.

Imitazione e iscrizione

51

che pur restando l’imitazione la base del legame sociale, su questa base poggiano soggettività con un grado variabile di autonomia. Le associazioni e gli accostamenti argomentativi di questa sezione mostrano, o meglio, al termine della ricognizione sulle teorie dell’imitazione mostreranno tutta la loro debolezza teorica. «In tutti gli esempi di pervasività della mimesi si possono trovare fenomeni di originalità: la lotta di classe ha leader carismatici, la moda premia (almeno in apparenza) l’originalità, e nella borsa c’è chi riesce a lucrare nel panico generale»35. Nel dettaglio più specifico, è desolante osservare, poco dopo, il limite dell’approccio mimetico allo studio delle convenzioni. «L’imitazione […] è la causa della convenzione, poiché è all’origine della realtà sociale nel suo insieme»36. È deleterio poi perseverare nell’errore di considerare i fenomeni mimetici come arcaismi o atavismi. Ridurre l’imitazione a fenomeni come mettere le mani conserte, grattarsi il naso, strizzare l’occhio, tossire (ai concerti, alle conferenza) se qualcun altro lo fa, cadere nel fou rire, avere l’acquolina in bocca vedendo uno che mangia, fa calare un velo impenetrabile sulle potenzialità euristiche della mimesi. «Le consuetudini, i modelli di comportamento […] si trasmettono attraverso riti, galatei, film, giornali, racconti di famiglia, biblioteche, ossia per il tramite di iscrizioni»37, ovvero l’imitazione trasmette le iscrizioni che, a loro volta, permettono l’imitazione. Ma che cosa comporta il fatto che l’imitazione sia mediata da iscrizioni e registrazioni esterne e non da iscrizioni interne, ovvero da artefatti e memorie esternalizzate piuttosto che da persone in carne ed ossa? Soprattutto, come si creano i riti e i galatei? Che cosa nascondono le iscrizioni? E in che senso l’imitazione è causa delle convenzioni? La tesi che sosterremo a partire dal prossimo capitolo è che i limiti dell’approccio di Ferraris al problema della mimesi, ancorché individuata come elemento fondamentale della sua ontologia sociale, sia alla base del rifiuto affrettato del post-moderno che appesantisce le pagine della teoria della documentalità. Soprattutto, i limiti dell’approccio alla teoria dell’imitazione riducono l’ontologia sociale di Ferraris ad una descrizione statica di un oggetto invece per definizione dinamico. Formulare una tesi che sappia articolare coerentemente e compiutamente i contributi relativi alla teoria dell’imitazione e quelli relativi alla teoria della traccia è l’obiettivo di questo lavoro; tale tesi non può prescindere dal confronto serrato con ciò che Girard e Derrida hanno seminato e che altri hanno raccolto. Grazie 35 36 37

M. FERRARIS, Documentalità, cit., p. 214. Ibidem. Ivi, p. 215.

52

La mimesi e la traccia

ad un lungo detour attraverso i lavori di due teorici dell’imitazione – JeanPierre Dupuy e Paul Dumouchel – ispiratisi al lavoro di René Girard potremo ridare vita alla teoria della traccia, mossi dall’ambizione di formulare un contributo alla realizzazione di quell’ontologia dell’attualità che prima Foucault e poi Vattimo38 si erano ripromessi di costruire e che la tesi di Ferraris, ulteriormente corroborata dalle riflessioni di un altro allievo di Derrida – Bernard Stiegler – potrebbe candidarsi a realizzare.

38

Cfr. G. CHIURAZZI, “Ontologia dell’inattualità”, in «Kainos», n. 10, 2010: «Foucault ha usato l’espressione “ontologia dell’attualità”, sembra per la prima volta, in un corso tenuto al Collège de France nel 1983, di cui venne in seguito pubblicata una parte con il titolo Qu’est-ce que les Lumières?. In questo scritto Foucault distingue l’”ontologia dell’attualità” dall’”analitica della verità”: mentre questa si occupa del problema delle condizioni entro cui è possibile una conoscenza vera, la prima si chiede “qual è il campo attuale dell’esperienza possibile” (cfr. M. FOUCAULT, Che cos’è l’illuminismo? [1983], in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. Tomo 3. 1978-1985, trad. it. di S. Loriga, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 253-261, p. 261)», http://www.kainos-portale.com/ index.php/lultimo-numero-di-kainos/47-ricerche10/96-ontologia-dellinattualita. L’impresa di Vattimo ha una sua autonomia rispetto alle intenzioni di Foucault, nascendo infatti più che altro dal confronto con Heidegger. Vattimo formula il proprio progetto di un’ontologia dell’attualità essenzialmente come il tentativo di praticare la ricerca filosofica nell’epoca della fine della metafisica (G. VATTIMO, “Ontologia dell’attualità”, in Filosofia ’87, a cura di G. Vattimo, Laterza, RomaBari 1988, pp. 201-223. p. 201).

53

3. LA TEORIA MIMETICA

Bruto non sa quello che vuole, ma lo vuole fortemente. Plutarco, Vita di Bruto1 Un agire ben umano! È la verità: guardare gli altri ma non te stesso. Platone, Lachete, 200ab

3.1. Il desiderio triangolare Le riflessioni dei due teorici dell’imitazione a cui faremo riferimento per sviluppare l’anima del nostro argomento, Jean-Pierre Dupuy e Paul Dumouchel, non potrebbero in alcun modo essere comprese nella loro originalità e importanza senza introdurre i concetti fondamentali del pensiero di René Girard. Per parte sua, nessuna presentazione, pur sommaria, del pensiero di Girard può prescindere da un’analisi della teoria del desiderio mimetico. L’intuizione da cui sono scaturite tutte le riflessioni di Girard viene formulata e presentata in un volume che, pur non riuscendo ad imporsi come modello interpretativo2, riscosse un discreto successo3. Mensonge 1

2

3

Questa formula, attribuita a Cesare, è divenuta celebre anche al di là delle intenzioni di Plutarco che in effetti si esprime altrimenti: «Si dice che Cesare, la prima volta che udì Bruto parlare in pubblico, disse agli amici: “Non so cosa vuole questo giovane, ma tutto quello che vuole, lo vuole con grande intensità”», cfr. PLUTARCO, Vite parallele. Bruto, 6, 7, trad. it. di Pierangiolo Fabrini, Rizzoli, Milano 200, p. 437. Per quanto Girard abbia nel tempo formato una piccola scuola di riferimento, che ha esteso l’applicazione della critica letteraria di matrice mimetica a testi e tradizioni diverse da quelle trattate dal capofila, l’opzione interpretativa formulata forse con eccessiva perentorietà, in un contesto disciplinare e culturale quanto mai avverso, non ha mai davvero preso piede. Alcuni risultati di questo esercizio si possono trovare in S. GOODHART, Sacrificing Commentary: Reading the End of Literature, Johns Hopkins U.P., Baltimore, MD 1996; C. BANDERA, The Sacred Game: The Role of the Sacred in the Genesis of Modern Literary Fiction, Penn State U.P., Philadelphia, PA 1994; W.A. JOHNSEN, Violence and Modernism: Ibsen, Joyce and Woolf, U.P. of Florida, Gainesville, FL 2003. Anche grazie all’interpretazione forse riduttiva di Lucien Goldmann, cfr. L. GOLDMANN, Marx, Lukács, Girard et la sociologie du roman, in «Médiations», 2,

54

La mimesi e la traccia

romantique et vérité romanesque viene pubblicato in piena vague strutturalista, nel 1961, e proprio il contesto culturale con cui si trova a confrontarsi ne determina inesorabilmente la precomprensione4. Per quanto una certa convergenza con l’analisi di stampo strutturalista sia evidente, soprattutto nell’esplicito approccio riduttivistico volto ad isolare le strutture del desiderio, l’intento di questo saggio presenta sin da subito istanze molto diverse da quelle proprie allo spirito del tempo. È proprio il ruolo della temporalità e della storia a tracciare un solco destinato a crescere nel tempo tra René Girard e il padre dello strutturalismo, Lévi-Strauss. In piena consonanza con esigenze che molti altri autori nutrivano nei confronti dello strutturalismo, già in questo primo lavoro Girard cerca di fuggire allo stesso tempo alla sincronia strutturalista5 e alla deriva ipertestualista che stavano deteriorando il clima intellettuale e culturale francese. Con un gesto teorico ambizioso e forse sfrontato, Girard cerca di indicare per accenni gli snodi di una storia, di un’evoluzione diacronica – in buona sostanza di una filosofia della storia – elaborata a partire dall’analisi delle interazioni tra la modernità, i processi di democratizzazione e le rappresentazioni del desiderio fornite dai classici del canone letterario occidentale. Gli eccessi stilistici, ispirati da una spiccata vis polemica nei confronti dei conformismi e delle mode interpretative deteriori, la scarsa considerazione per gli aspetti formali ed estetici, la monomaniaca ossessione per

4

5

1961, pp. 143-53 e ovviamente Id., Per una sociologia del romanzo, Bompiani, Milano 1967, nella fattispecie, pp. 11-32. D’altro canto, specialmente in Italia, la vera notorietà dell’autore e anche di tale primo saggio dovrà attendere la ripubblicazione nel 1981, con il titolo originale, a seguito dell’impatto di La violenza e il sacro. Al punto che la prima edizione della traduzione italiana esce con un titolo rimaneggiato con il chiaro intento di fare l’occhiolino alla moda strutturalista in piena espansione, Struttura e personaggi del romanzo moderno, poi ricondotto alla traduzione originale nella seconda edizione, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita. Si pensi per esempio alla tesi di dottorato di Jacques DERRIDA, Id., Le problème de la genèse dans la philosophie de Husserl, P.U.F., Paris 1990, trad. it. a cura di Vincenzo Costa, Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, Jaca Book, Milano 1992, pubblicata solo nel 1990, ma scritta alla fine degli anni ‘50 e alla base di gran parte delle riflessioni formulate nei saggi degli anni ‘60. Per un’analisi più approfondita delle analogie e complementarietà tra i lavori di Derrida e Girard, proprio a partire da questa comune esigenza, ci permettiamo di rimandare a E. ANTONELLI, La creatività degli eventi, cit. 25-122.

La teoria mimetica

55

il «polo referenziale»6 a discapito di ogni altra considerazione critica, la metodologia in netto contrasto con i dettami più diffusi tra i suoi contemporanei, forse soprattutto la grande attenzione dedicata a fattori ed elementi extra-testuali e socio-biografici7, hanno reso inviso a molti il lavoro di René Girard, eppure, forse proprio in questi tempi di riflusso, l’ostinato e per certi versi paradossale anti-conformismo, il realismo conservatore e ovviamente la convinzione del ruolo fondamentale del religioso negli affari umani rendono la prospettiva di Girard più interessante che mai. «Don Chisciotte ha rinunciato, in favore di Amadigi, alla fondamentale prerogativa dell’individuo: egli non sceglie più gli oggetti del suo desiderio, è Amadigi che deve scegliere per lui»8. Il primo capitolo del volume si apre, dopo una lunga citazione da Cervantes, con questo commento nel quale, tenendo presente il fulminante esergo della pagina precedente – «L’uomo ha o un Dio o un idolo»9 – si possono cogliere in nuce i principali interessi che guideranno la riflessione ormai più che quarantennale di René Girard, a cavallo tra critica letteraria, antropologia, filosofia, teologia. I grandi romanzi del canone letterario occidentale condividono un tratto saliente, per lo più negletto dalla critica, ovvero l’intuizione che il desiderio è sempre mediato da un terzo. Il soggetto, per esempio Don Chisciotte, non sceglie da sé gli oggetti del proprio desiderio, ma demanda sempre ad un modello l’elezione di ciò che merita di essere desiderato. Così si intuisce la struttura triangolare del desiderio: il soggetto desidera l’oggetto secondo la mediazione di un modello. Il soggetto desidera secondo l’altro – piuttosto che desiderare il desiderio dell’altro10. In effetti, 6 7 8 9 10

P. ANTONELLO, G. FORNARI, Introduzione, in P. ANTONELLO, G. FORNARI (a cura di), Identità e desiderio. La teoria mimetica e la letteratura italiana, Transeuropa, Massa 2009, p. XI. A tal proposito si vedano le considerazioni preziose svolte da Wolfgang Palaver in René Girard’s Mimetic Theory, Michigan State University Press, East Lansing, MI, 2013, pp. 1-3. R. GIRARD, Menzogna romantica e verità romanzesca, cit., p. 7. Ivi, p. 6, tratto da M. Scheler, «Ogni spirito finito crede o a Dio o a un idolo», M. SCHELER, Vom Ewigen im Menschen, Reinhold, Leipzig 1921, trad. it. di Ubaldo Pellegrino, L’eterno nell’uomo, Logos, Roma 1991, p. 277. La figura hegeliana, resa nota in Francia dai celebri corsi di Kojève a cui Girard non aveva partecipato, ma che in qualche modo aveva assorbito tramite la lettura di Sartre, può essere interpretata come un momento della vicenda morfogenetica delle strutture relazionali umane. Almeno questa è la lettura che ne proponiamo in E. ANTONELLI, “Imitazione e riconoscimento. Fenomenologia mimetica della genesi dell’autocoscienza, in E. ANTONELLI (a cura di), «Trópos. Rivista di ermeneutica e critica filosofica», VI, 1, 2013, pp. 79-96, volume dal titolo Mimesis e

56

La mimesi e la traccia

il desiderio, in Girard, non ha un oggetto privilegiato: in senso stretto, non ha oggetto, perché il desiderio non è oggettuale, ma mimetico. «Si tratta sempre di imitazione di un altro desiderio, desiderio dello stesso oggetto. È sempre desiderio di ciò che desidera un altro»11. Girard cerca di ribaltare completamente le prospettive. L’errore risiede nell’assumere la dialettica soggetto-oggetto come prius ontologico. Di là dall’oggetto, è il modello – che nei termini girardiani è detto mediatore – che attira; in particolare, a certi stadi di intensità, il soggetto ambisce direttamente all’essere del modello. Per questa ragione René Girard parla di desiderio ontologico o metafisico: non si tratta di un semplice bisogno o appetito, perché «ogni desiderio è desiderio d’essere»12, è aspirazione, brama di una pienezza ontologica attribuita al mediatore. La configurazione triangolare che così otteniamo è una formula generativa capace di orientare e organizzare tutti i nostri bisogni, da quelli di origine biologica a quelli più complessi, culturali. Questa tesi è, purtroppo, fonte di numerosi e quanto mai sorprendenti fraintendimenti13 da cui vorremmo cercare di sgomberare il campo. Il fatto che un desiderio sia mediato – e la distinzione tra mediazione interna e mediazione esterna mira a tenere conto di influenze di genere molto vario e molto più ampio rispetto a quanto la nozione comune di imitazione potrebbe far credere – non significa affatto che esso sia falso, anzi, come si intuisce dal titolo del saggio, se c’è qualcosa di falso è solo la convinzione che il desiderio nasca spontaneamente da un qualche sé autentico14. L’obiettivo di Girard non è di-

11 12

13

14

Anerkennung. La teoria mimetica in lotta per il riconoscimento interamente dedicato al confronto tra le teorie del riconoscimento, di ispirazione hegeliana e non, e la teoria mimetica. Palaver insiste nel sottolineare la differenza tra un desiderio del desiderio dell’altro e un desiderio secondo il desiderio dell’altro per indicare l’irriducibilità della teoria mimetica all’atmosfera della Hegel Renaissance francese, cfr. W. PALAVER, René Girard’s Mimetic Theory, cit., p. 119. P. DUMOUCHEL, “L’ambivalance de la rareté”, in P. DUMOUCHEL, J.-P. DUPUY, L’enfer des choses, cit., pp. 137-254, p. 168. R. GIRARD, Quand ces choses commenceront. Entretiens avec Michel Treguer, Arlea, Paris 1994, p. 31, trad. it. a cura di Alberto Beretta Anguissola, Quando queste cose cominceranno. Conversazioni con Michel Treguer, Bulzoni Editore, Roma 2005, p. 28. Per esempio, da parte del collega – di René Girard – Joshua LANDY, in occasione del convegno celebrativo per i cinquant’anni di Mensonge romantique et vérité romanesque, tenutosi a Stanford il 14 aprile 2011 e nell’intervista condotta da Remo CESERANI su Il Manifesto del 22.05.2011. Uno dei punti di scaturigine di tali prospettive, oltre naturalmente al semplice senso comune, è senz’altro Rousseau, le cui tesi in merito all’etica e all’impulso all’autenticità sono messe in discussione con una certa sensibilità mimetica da B.

La teoria mimetica

57

scutere la profondità degli affetti o la realtà dell’amore. Sentimenti ed emozioni non sono indagati nella loro essenza, ma nella dinamica che li genera. Per pensare che un desiderio mediato sia falso bisogna credere nell’esistenza di un desiderio originale, spontaneo ed autentico, ma allora bisognerebbe essere in grado di spiegare da dove esso possa scaturire. La tesi di Girard non mira a sbugiardare l’intensità del desiderio mediato – anzi, il più intenso tra i desideri è quello che esplode quando la mediazione interna scatena la rivalità tra modello e soggetto –, ma a leggere nei grandi romanzi della tradizione occidentale una giustificazione teorica ad un problema tutt’altro che banale, come invece vorrebbero farci credere alcuni critici avventati, come Joshua Landy o René Pommier15: cosa potrebbe presiedere alla genesi spontanea e originale del desiderio di un cavaliere in ritardo con i tempi, di una smorfiosa, di un ambizioso e di uno snob convertito16? La tesi mimetica si propone di spiegare la variazione degli oggetti del desiderio senza dover postulare assurdità come la diffusione di «nature invidiose e temperamenti gelosi» nel XIX secolo né l’esistenza di spiriti cavallereschi o essenze smorfiose, l’inesorabile conclusione di qualsiasi ragionamento che voglia sostenere l’esistenza di qualcosa come un desiderio autentico. È per sfuggire a questo genere di aporie che Girard prova a rovesciare la relazione tra i poli della relazione volitiva, in primo luogo, come visto, aggiungendo il terzo apice. In questo modo, attraverso una serie di desideri triangolari riferiti a modelli che appartengono alla famiglia e alla società, un po’ alla volta si forma ciò che chiamiamo individuo. Come ricorda Giuseppe Fornari nell’Introduzione alla raccolta di testi girardiani La vittima e la folla: «Non è il desiderio a dipendere dalle libere scelte dell’individuo, quanto piuttosto l’individuo a dipendere dal desiderio»17. Lo stesso si può dire per l’oggetto. Sfuggendo al rischio di cadere in qualche forma di costruttivismo estremo grazie all’esplicito realismo, Girard sostiene che l’oggetto stesso sia prodotto dalla convergenza degli interessi del soggetto e del modello. «Il desiderio non è orientato da un attrattore che gli preesiste, è lui che

15 16 17

CARNEVALI, Romanticismo e riconoscimento. Figure della coscienza in Rousseau, Il Mulino, Bologna 2004. R. POMMIER, René Girard, un allumé qui se prend pour un phare, Kimé, Paris 2010. Rispettivamente i desideri di Don Chisciotte, Madame Bovary, Jules Sorel e Marcel. G. FORNARI, Apologia della Bibbia come apologia della vittima, Introduzione a R. GIRARD, La vittima e la folla. Violenza del mito e cristianesimo, Santi Quaranta, Treviso 1998.

58

La mimesi e la traccia

fa emergere l’attrattore. L’oggetto è un’autentica creazione del desiderio mimetico, è la composizione delle codeterminazioni mimetiche che lo fa scaturire dal nulla: né creazione di pura libertà, né punto focale di un cieco determinismo»18. In questa prima fase, per quanto la parola imitazione compaia sei volte solo nella prima pagina del libro, Girard pone l’attenzione sulla struttura della relazione volitiva. Ed è proprio lo studio di questa struttura, nell’analisi diacronica delle opere selezionate, a far emergere in modo germinale la filosofia della storia che poi farà da sfondo a tanta parte della riflessione di Girard. Paragonando le vicende di Don Chisciotte e Madame Bovary da una parte e di Julien Sorel, Marcel e dei fratelli Karamazov19 dall’altra, Girard formula la distinzione, fondamentale per i nostri interessi, tra mediazione esterna e mediazione interna. Qual è dunque la differenza strutturale che permette a Girard di stabilire una distinzione categoriale tra le opere romanzesche in analisi? La vicenda di Don Chisciotte, come già accennato, è segnata da un’adorazione nei confronti di Amadigi di Gaula, «uno dei più perfetti cavalieri erranti. Ma che dico, uno dei più perfetti? Bisogna dire il solo, il primo, l’unico, il maestro e il signore di tutti quelli che vi furono sulla terra. […] Amadigi fu il nord, la stella, il sole dei prodi e amorosi cavalieri, e noi dobbiamo imitarlo»20. Tutto ciò che Don Chisciotte fa, desidera e crede è guidato da un’imitazione scrupolosa della vita di Amadigi, il cui tratto caratteristico, nonostante la perfezione che gli viene attribuita, è quello di non esistere, di essere un personaggio di finzione, una creazione fantastica dei romanzi di cavalleria. Allo stesso modo, Madame Bovary desidera ardentemente vivere una relazione amorosa degna delle eroine romantiche che popolavano le sue letture. Il tratto saliente di questo paragone emerge nel momento in cui si mettono in relazione questi personaggi con la china su cui accelerano in sequenza le vicende dei personaggi degli altri romanzi. La vicenda di Julien Sorel, che mostrerà tutto il suo rilievo in un secondo momento della nostra analisi, lo vede collocarsi nella posizione dell’oggetto del desiderio. Il giovanetto di campagna con l’adorazione per Napoleone si trova d’improvviso coinvolto in un gioco delle parti che per puro caso si configura attorno a lui. Stendhal, appassionato studioso degli ultimi sussulti dell’ancien régime, costruisce lo sfondo da cui prenderà pie18 19 20

R. GIRARD, Des choses cachées depuis la fondation du monde, Grasset & Fasquelle, Paris 1978, trad. it. a cura di R. Damiani, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983, p. 24. Rispettivamente protagonisti dei capolavori – spesso omonimi – di Cervantes e Flaubert, de Il rosso e il nero di Stendhal, di Marcel Proust e di Dostoevskij. Citato in R. GIRARD, Menzogna romantica e verità romanzesca, cit., p. 7.

La teoria mimetica

59

de la drammatica traiettoria di Julien ordendo la trama del conflitto tra il bourgeois gentilhomme Monsieur de Valenod e il gentilhomme bourgeois Monsieur de Rênal21. Con una sensibilità che Girard farà propria, Stendhal mette in scena il noto assioma: «minori le differenze sociali, maggiore l’affettazione generata», forte di una malcelata e sorprendente consonanza con le osservazioni di Alexis de Tocqueville, per cui gli uomini che hanno rifiutato la monarchia e l’aristocrazia «hanno distrutto gli incomodi privilegi di qualche loro simile, ma hanno aperto le porte alla concorrenza universale»22. Il ricco borghese Valenod e l’industriale e sindaco della cittadina de Rênal vivono una fase storica di improvvisa accelerazione dei processi di indebolimento delle gerarchie sociali: il borghese Valenod è l’uomo più ricco e potente di Verrières dopo, subito dopo, lo stesso Monsieur de Rênal. Quest’ultimo non pare mosso da premura paterna né da amor di sapienza23 quando comunica alla candida moglie il desiderio di fare di Julien Sorel il precettore dei suoi figli. Il suo desiderio non è spontaneo e la conversazione tra i due sposi ce ne rivela il meccanismo. La prudenza mostrata all’inizio lascia il posto alla decisione perentoria e frettolosa non appena la moglie insinua che Valenod potrebbe sottrar loro il giovane seminarista. Non è solo la scelta del ragazzo ad essere stimolata dalla figura fantasmatica di Valenod; la definizione dell’onorario, condotta con scaltrezza dal padre di Julien, segue le stesse linee. È solo facendo credere a Monsieur de Rênal che anche Valenod potesse essere interessato a Julien che prima la moglie e poi Sorel padre spingono il sindaco della città a decidersi. Da questa vicenda emergono due concetti fondamentali, la doppia mediazione24 e la mediazione interna. Del primo concetto parleremo in seguito, per concentrarci adesso sulla caratteristica del triangolo che vede legati i destini di Julien, Valenod e de Rênal. Essendo un personaggio letterario (anche nell’opera di Cervantes), Amadigi di Gaula non può rivaleggiare con Don 21 22

23 24

J.-P. DUPUY, “Paradoxes de l’erreur créatrice: prophéties auto-réalisatrices”, in L’Erreur, Actes du Colloque de l’Université de Lyon I, P.U.L., Lyon 1982. A. de TOCQUEVILLE, De la démocratie en Amerique, 1835, trad. it. a cura di Giorgio Candeloro, La democrazia in America, Rizzoli, Milano 2005, p. 551. All’analisi del rapporto biografico e intellettuale tra Stendhal e Tocqueville R. GIRARD ha dedicato il saggio Id., “Tocqueville and Stendhal”, in The American Magazine of the French Legion of Honor, 31, 2, 1960, pp. 73-83, trad. it. di Alexandre Calvanese, “Individualismo e democrazia: Stendhal e Tocqueville”, in Il pensiero rivale. Dialoghi su letteratura, filosofia e antropologia, a cura di Pierpaolo Antonello, Transeuropa, Massa 2006, pp. 3-14. STENDHAL, Il rosso e il nero, Einaudi, Torino 1993, p. 18: «“Ah, mio Dio! Come le prendi in fretta, le tue decisioni!”». R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 89.

60

La mimesi e la traccia

Chisciotte nella tutela delle orfanelle, Valenod può invece sottrarre il precettore a de Rênal. Girard parla di mediazione esterna quando la distanza tra le regioni di possibilità, tra i mondi, che ruotano attorno al mediatore e al soggetto, è tale da non permetterne il contatto. La relazione tra Numitore e i gemelli Romolo e Remo potrebbe essere considerata nei termini della mediazione esterna. Si parla di mediazione interna quando questa stessa distanza sia abbastanza ridotta da lasciare che le due sfere si compenetrino più o meno profondamente25. Tipicamente, la relazione tra Romolo e Remo, ovvero tra i gemelli, è ascrivibile alla logica della mediazione interna. La distanza tra il mediatore e il soggetto ha una caratteristica pratica ed una per così dire ontologica. L’aspetto a cui Girard dedica la sua attenzione è per lo più l’aspetto pratico: una mediazione interna costituisce un rapporto instabile e inesorabilmente schismogenetico. Se il mio desiderio è mediato dal desiderio di una persona attorno a cui gravito, si presenta la possibilità che l’oggetto investito dalla nostra comune volizione, se scarso26, ovvero indivisibile, scateni la concorrenza per ottenerlo. La questione che ci terrà tanto occupati è che alla sensazione che l’oggetto sia la causa 25

26

Ivi, p. 13. Si trova in natura un fenomeno molto affascinante che condivide con la tesi della mediazione interna la sorpresa rispetto al senso comune e offre in più uno spunto affascinante per riflettere sull’essenza del desiderio: si tratta del comportamento ben noto ma in realtà per lo più méconnu delle falene. Sulla base dell’esperienza si tende a pensare, in generale, che le falene siano attratte dalla luce artificiale della lampade, per spiegarne così il comportamento ossessivo che è invece il risultato di una vera e propria trappola evolutiva. Il loro sistema di volo è basato sulla presenza di fonti di luce naturali, come il sole e la luna, rispetto alle quali la falena tende a volare mantenendo un’angolazione di riferimento di novanta gradi. La caratteristica principale del sole, o della luna, è, almeno in relazione al sistema di orientamento sviluppato dalle falene, di essere fonti di luce infinitamente distanti: orientandosi su tali fonti di luce, l’angolazione costante di novanta gradi garantisce alla falena un volo sostanzialmente rettilineo; nel momento in cui invece la falena individui una fonte di luce collocata ad una distanza finita, ne risulterà un volo a spirale (logaritmica) che incastrerà l’insetto nelle sue spire. La falena si orienta rispetto ad un modello che le indica la direzione, ma la natura di tale mediazione, qualora la distanza non sia opportuna, cioè infinita, porta l’insetto a scontrarsi ossessivamente contro il modello, che assume così le fattezze dell’ostacolo. Si potrebbe sfruttare questo analogia – o omologia? – per riflettere sull’etimologia della parola desiderio, la quale indica la scomparsa, la privazione (de) delle stelle. Insomma, il desiderio è ciò che nasce quando alla relazione di mediazione esterna si sostituisce una mediazione interna. Cfr. J. HIMMELMAN, Discovering Moths: Nighttime Jewels in Your Own Backyard, Down East Books, Camden, ME 2002, p. 63. Il tema della scarsità tornerà ad interessarci in funzione dell’interesse relativo che a questa nozione attribuisce Paul Dumouchel, a partire dal lavoro seminale

La teoria mimetica

61

del conflitto dovremo sostituire lentamente la consapevolezza che esso non è altro che un interesse, ovvero, in prima istanza, un inter-esse, qualcosa che si frappone tra noi e che in quanto tale ci divide, ci tiene lontani e quindi impedisce o almeno differisce il conflitto; solo in seconda battuta esso può diventare la scaturigine di una contesa. La caratteristica ontologica della distanza tra modello e soggetto emerge nel momento in cui si realizzi che la mediazione tra Amadigi e Don Chisciotte e tra Don Chisciotte e Sancho Panza è sempre esterna, a prescindere dal fatto che l’uno abiti il mondo della metafinzione e l’altro il medesimo: come abbiamo visto nel capitolo precente, che si tratti di un libro oppure di una struttura sociale, la distanza necessaria a rendere esterna la mediazione è costituita da una differenza scritturale. Il paragone tra il mondo descritto da Cervantes e quello descritto da Stendhal non fa che accennare la rilevanza dei fenomeni in corso e la potenza euristica della categorizzazione sviluppata da Girard. La distanza tra mediatore e soggetto, incolmabile nel caso di Cervantes, decresce molto rapidamente subendo una brutale accelerazione nel corso del XIX secolo. Sebbene Proust sia, in termini storici, l’autore più lontano da Cervantes, il polo estremo della tensione individuata dalle due categorie della mediazione è Dostoevskij. La storia narrata da Girard vede la distanza, spirituale, scritturale, massima tra i personaggi di Cervantes ridursi violentemente nei personaggi di Dostoevskij dove si osserva, nei fratelli Karamazov per esempio, in seno alla medesima famiglia una mediazione interna che lega e rovina il vecchio padre Fëdor Pavlovi , il passionale figlio Dimitrij e la bellissima e rancorosa Grušenka. Le distanze spirituali, sociali, morali, di prestigio che permettevano di incanalare i desideri limitandone il potenziale conflittuale vengono meno lasciando libero gioco all’esplosione di quelle emozioni che già Stendhal aveva individuato come tipicamente moderne, ovvero «l’invidia, la gelosia, l’odio impotente». Emozioni che Scheler ritrovava alla base della più moderna delle passioni, il risentimento27. Girard ha così individuato una categoria che gli permette di classificare le opere letterarie secondo una sorta di topologia del desiderio. È grazie a quest’analisi geometrica che Girard può dare una spiegazione della diffu-

27

“L’ambivalence de la rareté”, in P. DUMOUCHEL, J.-P. DUPUY, L’enfer des choses, cit., pp. 137-254. Cfr. M. SCHELER, “Das Ressentiment im Aufbau der Morale”, 1912, in Vom Umsturz der Werte. Abhandlungen und Aufsätze, Gesammelte Werke, Francke, Bern 1955, vol. III, trad. it. a cura di A. Pupi, Il risentimento nella edificazione delle morali, Vita e Pensiero, Milano 1975 e S. TOMELLERI, La società del risentimento, Meltemi, Roma 2004.

62

La mimesi e la traccia

sione dei sentimenti moderni, contestando la tesi romanticamente mendace di Stendhal che li voleva frutto della vanità universale (ovvero di desideri succedanei) – contrapposta alla vera passione dei pochi (in cui tipicamente si immedesimano lo stesso Stendhal e il lettore…). Invidia, gelosia e odio impotente sono tre sentimenti triangolari e in quanto tali sono associati spontaneamente «a quell’imperioso bisogno di imitazione che pervade, a detta dei romanzieri, tutto il XIX secolo»28. A differenza di Nietzsche e Scheler, Stendhal cerca la fonte del veleno spirituale che si diffonde tra gli uomini moderni proprio nell’imitazione appassionata di individui che non sono altro che nostri pari e il cui prestigio accecante deve essere del tutto riconsiderato. Il contributo di Girard alle analisi socio-romanzesche di Stendhal consiste nel ricondurre l’eccezionale fioritura dei sentimenti moderni non tanto all’improvvisa esplosione demografica di nature invidiose e temperamenti gelosi, bensì al trionfo della mediazione interna resa dominante dal progressivo indebolimento delle strutture differenziali. Girard non sta ovviamente cadendo vittima di una sorta di fallacia dell’età dell’oro: non si tratta della comparsa, inaudita, della mediazione interna, già da sempre presente29, quanto della progressiva scomparsa dei modelli di mediazione esterna, ovvero della dissoluzione inesorabile di ogni forma di trascendenza. Di tutto ciò dovremo tornare a parlare nella terza parte di questo lavoro, quando, dopo aver chiarito la natura dei processi morfogenetici (nella seconda parte), potremo dare ragione della dissoluzione dei risultati dei medesimi. 3.2. La verità romanzesca e lo pseudo-narcisismo Il secondo asse su cui si muove la ricerca di Girard e da cui il libro prende il titolo, è la distinzione tra la verità romanzesca e la menzogna romantica. Questa distinzione costituisce la base del metodo di René Girard, insieme all’opzione ermeneutica fondamentale, ovvero il rispetto e l’amore

28 29

R. GIRARD, Menzogna romantica e verità romanzesca, cit., p. 17. Non a caso il sottotitolo del capolavoro di Stendhal è “cronique du XIXe siècle”. Sempre rimanendo nel contesto disciplinare della critica letteraria si veda il pur molto più recente R. GIRARD, “Love and Hate in Chrétien de Troyes’ Yvain”, (1990) in R. GIRARD, Mimesis & Theory. Essays on Literature and Criticism, 1953-2005, Robert DORAN (ed.), Stanford U.P., Stanford, CA 2008, pp. 214-229, in cui i tornei della mediazione interna sono individuati alla radice delle vicissitudini degli eroi cortesi di Chrétien de Troyes, autore del XII secolo.

La teoria mimetica

63

per i grandi libri, a prescindere dall’appartenenza disciplinare30, e la pretesa metodologica di prendere sul serio i testi, senza farne macchiette né idoli. I grandi romanzieri, secondo Girard, sono anche ed anzi in primo luogo dei grandi teorici e dei fini conoscitori delle cose umane. Dostoevskij non è un teologo, né un filosofo, così come Proust e Stendhal non sono dei sociologi né Cervantes uno psicologo eppure le strutture di interazione che questi autori sono stati in grado di individuare, permettono al lettore, meglio di qualsiasi altro trattato, di comprendere «il sistema in cui [gli autori] sono stati per primi intrappolati assieme ai loro contemporanei» e in cui noi lettori continuiamo ad agitarci31. La distinzione critica tra menzogna romantica e verità romanzesca emerge dal confronto tra quei testi intrisi dell’ossessione romantica (ancora oggi più che mai diffusa) per l’eccezionalità e per l’originalità e i grandi romanzi del canone letterario, nei quali invece la relazione mimetica tra i personaggi viene messa in evidenza, garantendo inoltre una resa migliore delle vicende narrate. Tra i tanti luoghi in cui Girard riesce a far emergere la distinzione tra la verità romanzesca e la menzogna romantica, è senz’altro il confronto tra i due romanzi di Marcel Proust a meritare la palma d’oro dell’esercizio critico più brillante: il confronto tra due scene molto simili eppure fondamentalmente diverse tratte da Jean Santeuil e da La Recherche du Temps Perdu. In quest’analisi Girard non solo mette a frutto la distinzione tra verità romanzesca e menzogna romantica per distinguere e mettere in prospettiva le due opere di Proust, ma intravvede anche la possibilità di assestare un colpo decisivo ad uno dei concetti fondamentali della psicanalisi, il narcisismo. Le due scene si svolgono a teatro ed in entrambe il centro dell’attenzione e l’oggetto principale dell’interesse del narratore non è il palcoscenico, ma un palco nel quale siedono aristocratici ed altre personalità prestigiose. In Jean Santeuil32, il protagonista, l’eroe di quel romanzo che molti critici avevano salutato come più sano, Jean è con «la bella gente», comodamente seduto. La scena assomma alcuni tratti grotteschi di adulazione e celebra30 31

32

Atteggiamento che riverbera senza dubbio l’eccentrico percorso formativo e accademico di Girard, laureatosi presso la scuola per archivisti, l’Ecole Nationale des Chartes. R. GIRARD, Deceit, Desire and the Novel: Self and Other in Literary Structure, trad. ingl. di Y. Freccero, Johns Hopkins U.P., Baltimore, MD 1965, p. 3. Questa frase si può leggere solo nell’edizione anglofona e non nell’originale francese né nella traduzione italiana. Citato in P. ANTONELLO, G. FORNARI, Introduzione, cit., p. XXI. M. PROUST, Jean Santeuil, 3 voll., Gallimard, Paris 1952.

64

La mimesi e la traccia

zione del soggetto compiutamente auto-sufficiente: ad un certo punto si vede addirittura un ex-re accostarsi al raggiante Jean, attorniato da donne che lo fissano sognanti, per accomodargli la cravatta. Ne Alla ricerca del tempo perduto, il narratore è seduto tra la folla, su un seggiolino scomodo, in mezzo alla gente e fissa con disperato desiderio la Duchessa di Guermantes, nel palco, lontana anni luce. Nel romanzo «più sano», Proust colloca il protagonista al centro del mondo, nel grande capolavoro il narratore, cioè lui stesso, è nella posizione dell’invidioso, di colui che si sente escluso, umiliato, come un rifiuto. La verità romanzesca emerge in un capolavoro scritto da un autore capace di ammettere l’umiliazione e l’esclusione, ma soprattutto la mediazione. Marcel desidera ardentemente essere con il suo idolo, la Duchessa di Guermantes; a ben vedere egli desidera poter partecipare dell’apparente pienezza e auto-sufficienza del mondo al quale ogni accesso gli è negato. Jean, per parte sua, non mostra alcuna mediazione, egli è il proprio idolo ed anzi, o meglio di conseguenza, è l’idolo di duchesse ammiranti e perfino di un re33. Le due scene, strutturalmente omologhe, descrivono la stessa situazione con un radicale cambio di prospettiva che permette a Girard di far emergere la differenza fondamentale tra la menzogna romantica, ovvero la convinzione che esistano desideri spontanei, originali, autentici – tra i quali il narcisismo, la condizione di coloro che spontaneamente desiderano se stessi – e la verità romanzesca, ovvero la consapevolezza che ogni desiderio è mediato e modellato secondo le indicazioni di un altro, compreso il narcisismo – in realtà pseudo-narcisismo, nient’altro che una strategia di interazione interdividuale. La menzogna romantica è credere che il soggetto possa essere causa del proprio desiderio, causa sui; è credere all’autosufficienza del soggetto: essa si può dare nel romanzo che faccia sfoggio di una tale autonomia in prima persona, come nel caso di Jean Santeuil, e nella vita, attribuendo ai propri inconfessati mediatori un’analoga pienezza. L’inferiorità teorica e letteraria di Jean Santeuil rispetto alla Ricerca del tempo perduto è rivelata proprio dall’incapacità dell’autore di capire che la beata autonomia, la compiuta autosufficienza di cui viene dotato Jean non esistono, sono un’attribuzione ingenua da parte del soggetto proiettata vuoi sul mediatore, vuoi sull’oggetto desiderato. Ciò che impedisce al primo Proust di creare già con Jean Santeuil un capolavoro è, secondo Girard, molto simile se non identico alla convinzione che spinge Freud ad immaginare la categoria psicanalitica del narcisismo. Se ancora i pronunciamenti teorici maturi del romanziere 33

Cfr. R. GIRARD, “Narcissism: The Freudian Mith Demythified by Proust”, (1978), in R. GIRARD, Mimesis & Theory, cit., p. 184.

La teoria mimetica

65

potrebbero a loro volta confermare le tesi contenute nel saggio di Freud, Introduzione al narcisismo34, un risultato del tutto diverso si ottiene dalla lettura della Recherche. Il narcisismo, secondo Freud, definisce l’atteggiamento di colui che tratta se stesso come oggetto di amore sessuale. In quanto tale, è, almeno in prima istanza, considerato come una fase intermedia tra l’autoerotismo infantile e il compiuto alloerotismo, ovvero l’amore oggettuale. Una delle caratteristiche fondamentali di questa nozione, agli occhi di Girard, emerge dall’analisi dell’idraulica libidica. Il narcisista non diminuisce né impoverisce la propria carica libidica disperdendola in investimenti pulsionali verso l’esterno, ma piuttosto la mette, «per così dire, in circolo»35, conservandola intatta. Ora, se il narcisismo – che poi verrà detto primario – è normale per il bambino, esso diventa problematico qualora resti intatto anche nella vita adulta. Per Freud le donne, gli artisti e i gatti [sic!] sono particolarmente proni agli eccessi del narcisismo. Secondo Girard, il primo Proust non fa altro che condividere l’ideologia individualistica e narcisistica ancora pienamente in voga tra gli intellettuali e gli artisti del tempo. Il desiderio d’oggetto è una forma matura dell’evoluzione psicologica del soggetto, ma comporta inevitabilmente un impoverimento libidinale. Si potrebbe dire che la frase che scatena le intuizioni di Girard sia la seguente: «A rigore queste donne amano, con intensità paragonabile a quella con cui sono amate dagli uomini, soltanto se stesse»36. A ben vedere, secondo Girard, l’analogia qui va letta in termini di causalità. La donna narcisistica, la coquette, che come tutti gli esseri umani desidera imitando un mediatore, non fa che imitare il desiderio degli uomini che la circondano. A rigore, queste donne amano se stesse esattamente con la stessa intensità con cui sono amate dagli uomini, perché sono amate dagli uomini e a partire dal loro desiderio, per imitazione. La causa diventa un effetto. È proprio questa intuizione, ancora germinale nel saggio del 1961 a fondare uno dei modelli teorici più importanti dell’intero edificio girardiano, destinato poi a svilupparsi in molteplici modi sia nei lavori successivi dello stesso Girard sia, soprattutto – almeno per i nostri interessi – nella ricerca di Jean-Pierre Dupuy.

34

35 36

S. FREUD, “Zur Einführung des Narzißmus”, 1914, in «Jahrbuch der Psychoanalyse», trad. it. di Renata Colorni, Introduzione al narcisismo, 1914, in Opere di Sigmund Freud, a cura di C. L. Musatti, Boringhieri, Torino 1976-1980, vol. VII, pp. 439-472. Cfr. R. GIRARD, “Narcissism: The Freudian Mith Demythified by Proust”, cit., p. 175. S. FREUD, Introduzione al narcisismo, cit., p. 459.

66

La mimesi e la traccia

Se Freud non si è avveduto della trappola pseudo-narcisistica, la sensibilità artistica di Proust, che consciamente non avrebbe forse dissentito da Freud, gli permette di descrivere con una precisione fenomenologica insuperabile la dinamica di questa trappola interdividuale. In Proust «la “beata autonomia” e “l’autosufficienza” dell’oggetto desiderato non sono reali. Nessuno ne fa mai esperienza. Non sono altro che un miraggio del desiderio, che le proietta erroneamente sull’oggetto desiderato»37. Di questo Proust ci dà testimonianza esplicita: non appena riesce a fare amicizia con le ragazze della petite bande à part, la cui autosufficienza e pienezza aveva intensamente ammirate e desiderate in occasione del primo violento incontro, Marcel vede evaporare il prestigio sovraumano che aveva loro attribuito. E lo stesso, ovviamente, succederà in seguito all’ingresso nell’agognato salotto dei Guermantes. Se questo risultato non si verifica nella relazione con Albertine è solo perché essa dà a sospettare per mille e una ragione della sua infedeltà. In altre parole, non c’è niente che assomigli al narcisismo in Proust; il narcisismo è una proiezione del desiderio mimetico. Un dettaglio che emerge da questa ricostruzione della dinamica della mimesi ci porta ad una considerazione rilevante, come sempre guidata dall’esigenza di assumere molteplici prospettive. Il narcisismo intatto non esiste, esso è sempre uno pseudo-narcisismo, una proiezione del desiderio degli individui coinvolti nelle triangolazioni della mimesi. Eppure questa proiezione agisce nel mondo, determinando le stesse configurazioni triangolari di cui è il risultato. La donna non è intrinsecamente narcisistica, ma la posizione in cui può venire a trovarsi, per così dire, lo è al posto suo. L’aspetto straordinario è che, per quanto non esista un sé originariamente narcisistico, per quanto, come ci mostra Proust, nessuno ne faccia esperienza diretta, la topologia delle relazioni mimetiche spinge ciascuno a cercare di acquisirlo, di conquistare quel «sé sostanziale» da cui lo stesso Freud pare essere affascinato. La figura logica che si nasconde nell’illusione dello pseudo-narcisismo è la medesima a cui prima ci siamo riferiti con l’espressione doppia mediazione. 3.3. Edipo e il meccanismo vittimario Lo spiccato spirito riduttivistico dell’ermeneutica girardiana, spinta dall’ambizione di formulare considerazioni di portata psicologica, sociale e storica, trova una maggiore definizione e un più ampio respiro nelle 37

R. GIRARD, “Narcissism: The Freudian Mith Demythified by Proust”, cit., p. 181.

La teoria mimetica

67

opere successive a Menzogna romantica e verità romanzesca, nelle quali la svolta storico-antropologica si compie definitivamente. Nel corso dei dieci anni che vanno da La violenza e il sacro38 e Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo fino a Il capro espiatorio39, Girard completa il proprio edificio teorico. L’opzione ermeneutica fondamentale è ancora valida ed anzi più viva che mai. Dopo aver dedicato la sua passione e attenzione al mondo della letteratura romanzesca della modernità, Girard, anche in questo senz’altro influenzato dal contesto culturale dominante negli anni ’60, inizia a estendere i suoi interessi ad altre categorie di testi quali miti e tragedie classiche, sempre più convinto a prenderli sul serio. È in questo contesto che prende vita la seconda intuizione fondamentale della ormai nascente teoria mimetica, la tesi del meccanismo vittimario. Il modo migliore per comprendere i concetti principali di questa tesi è cercare di farli emergere da un’analisi dei testi di cui Girard si è occupato. Il caso senz’altro più chiaro40 è l’interpretazione della vicenda di Edipo, su cui Girard ha lavorato praticamente senza sosta sin dall’inizio degli anni ‘6041. Anche a tal proposito si potrebbe dire che il contesto culturale sia stato se non altro di ispirazione: ancora una volta, infatti, è in spirito polemico nei confronti della psicanalisi che Girard sviluppa le sue folgoranti intuizioni sul tema edipico42. Edipo è l’eroe di uno dei miti più celebri della letteratura greca e proprio per la fama imperitura di queste vicende il contributo interpretativo di Girard, nella 38 39 40

41

42

R. GIRARD, La violence et le sacré, Grasset, Paris 1972, trad. it. a cura di O. Fatica e E. Czerkl, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980. R. GIRARD, Le bouc emissaire, Grasset & Fasquelle, Paris 1982, trad. it. a cura di Ch. Leverd e F. Bovoli, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987. Pur non volendo farne un mito eccezionale, per ragioni che qualora non emergessero nel semplice accenno verrano chiarite in seguito, Girard indica proprio nelle analisi dell’Edipo Re il luogo in cui la potenza strutturale del meccanismo vittimario riesce a spiegarsi appieno. Cfr. “An interview with René Girard”, in To Double Business Bound: Essays on Literature, Mimesis and Anthropology, Johns Hopkins U.P., Baltimore, MD 1978, p. 223. Come emerge dalla collige di saggi, R. GIRARD, Oedipus Unbound. Selected Writings on Rivalry and Desire, Mark R. Anspach (ed.), Stanford U.P., Stanford, CA 2004, trad. it. di Eliana Crestani, Edipo liberato. Saggi su rivalità e desiderio, Transeuropa, Massa 2009, la cui introduzione a firma di Mark Anspach vale come riferimento insuperabile sia per la fattispecie edipica sia in generale per la teoria mimetica. Uno dei testi più brillanti e vibranti di polemica è il saggio di commento dedicato all’Anti-Edipo di Deleuze-Guattari, un compendio delle intuizioni fondamentali della teoria mimetica aggiornata al 1976, “Système du délire” in R. GIRARD, Critique dans un souterrain, L’Age de l’homme, Lausanne 1976.

68

La mimesi e la traccia

sua novità, è tanto sorprendente. Nella sua esemplarità, l’interpretazione della vicenda raccoglie in compendio le principali tesi di questa seconda fase dello sviluppo della teoria mimetico-vittimaria. Come per Proust e per Tito Livio, sarà opportuno partire da una breve presentazione del materiale mitico, rifacendoci alla versione seguita e resa immortale da Sofocle. Edipo nasce segnato da una maledizione pronunciata da un oracolo: il figlio portato da Giocasta avrebbe ucciso suo padre. Per evitare che l’oracolo si compisse, Laio espone il bambino appena nato, non prima di avergli forato le caviglie per farvi passare una cinghia – interpolazione euristica basata sull’etimologia mitica del nome Edipo, «Piede Gonfio». Nella versione seguita da Sofocle, è il servitore di Laio, al quale il re aveva affidato l’incarico di esporre il bambino, a consegnarlo direttamente ai pastori stranieri e da questi a Polibo, re di Corinto; in altre versioni il bimbo viene trovato sul monte Citerone, ove era stato esposto, o in una cesta abbandonata ai flutti43. Durante l’infanzia e l’adolescenza, Edipo rimane alla corte di Polibo, convinto di esserne figlio. Per ragioni diverse a seconda delle tradizioni, lascia poi Corinto per recarsi a Delfi. Tornando dall’oracolo, che gli aveva predetto che avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre e deciso per tanto ad esiliarsi volontariamente da Corinto, si indirizza verso Tebe e, lungo la strada, incorre in un alterco con un uomo e finisce per ucciderlo. Giunto a Tebe, incontra la Sfinge che terrorizzava Tebe e risolve gli indovinelli da questa proposti. Il mostro, indispettito per il successo di Edipo, «si precipita dall’alto della roccia sulla quale era appollaiato»44. Uccidendo la Sfinge e liberando i Tebani dal mostro, Edipo si guadagna il favore di tutta la città che, riconoscente, gli offre in sposa la vedova di Laio e lo fa re. Ben presto però l’idillio tra Tebe e il suo nuovo re viene turbato da una peste che devasta la città. Edipo invia Creonte a chiedere all’oracolo di Delfi la ragione del flagello: la peste cesserà soltanto se la morte di Laio verrà vendicata. Edipo pronuncia allora contro l’autore di quel delitto una maledizione che finirà per rivolgersi contro lui stesso. La tragedia di Sofocle è costruita attorno al procedimento attraverso il quale lo stesso Edipo sarà riconosciuto colpevole. Il processo che vede Edipo, Tiresia e Creonte scambiarsi reciprocamente accuse e brutali infamie si chiude 43

44

Il tratto comune e rilevante è la pratica seguita per liberarsi del neonato: l’esposizione così come l’abbandono nei flutti condividono il fatto di condannare a morte certa – o quasi a quanto dimostra il mito – il soggetto, senza che nessuno compia direttamente l’omicidio. Il materiale mitico è preso da C. CORDIÉ (a cura di), Enciclopedia dei miti, cit., voce Edipo, p. 183.

La teoria mimetica

69

attorno al racconto della morte di Laio, ucciso a un crocicchio, da briganti. Edipo, alla menzione di un «crocicchio», memore della lite menata prima di arrivare a Tebe, si fa descrivere Laio e il carro che lo trasportava oltre al luogo in cui il delitto aveva avuto luogo e viene assalito da un terribile dubbio. A testimonianza dei fatti viene richiamato dalla campagna uno dei servitori che avevano accompagnato Laio, il medesimo servitore che era stato incaricato di esporre il neonato. Nel frattempo giunge da Corinto un messaggero ad annunciare la morte di Polibo e a chiedergli di fare ritorno per regnare sulla città. Temendo di non aver ancora allontanato del tutto la minaccia dell’oracolo delfico che l’aveva indotto all’esilio, Edipo viene informato dall’inviato corinzio ch’egli è un trovatello e che Polibo non era suo padre. Il racconto fatto del ritrovamento del bambino non lascia alcun dubbio a Giocasta che fugge all’interno del palazzo e si uccide. Così si chiude la rete su Edipo, il quale si arrende all’evidenza: per punire la propria cecità davanti alle verità che lo avevano travolto, si trafigge gli occhi con una spilla della moglie e madre. La tragica vicenda dell’eroe dai piedi gonfi è stata oggetto d’interesse di critici e amatori, da Sofocle a Freud a Deleuze, e non sarebbe possibile ripercorrere le tesi in merito. Ciò che ci interessa è invece raccogliere alcune delle intuizioni che Girard ha saputo formulare nei suoi testi, «dall’esperienza romanzesca, al mito di Edipo»45, e assistere alla definizione delle idee che desideriamo sviluppare nel corso del nostro argomento. Come ripetuto in precedenza, un po’ con e un po’ contro la moda strutturalista e post-strutturalista che si stava nel frattempo affermando nei dipartimenti di scienze umane di metà Occidente, Girard ha la pretesa di prendere sul serio i testi, senza idolatrarli46. La leggenda di Edipo racconta una vicenda la cui struttura elementare si potrebbe riassumere in due fasi: una comunità in preda ad una crisi si lancia alla disperata ricerca di una soluzione, trovandola per almeno due volte nell’espulsione di una figura eccezionale47. In un 45 46

47

R. GIRARD, “De l’expérience romanesque au mythe oedipien”, in «Critique», 222, 1965, pp. 899-924, trad. it. in R. GIRARD, Edipo liberato, cit., pp. 3-30. Da questo punto di vista Girard ha imparato molto bene la lezione di Durkheim: i miti non sono semplicemente falsi, così come le religioni non sono semplicemente degli errori. Cfr. E. DURKHEIM, Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie, P.U.F., Paris 1912, trad. it. a cura di Massimo Rosati, Le forme elementari della vita religiosa. Il sistemo totemico in Australia, Meltemi, Roma 2005, p. 52. La caratteristica comune di queste due figure, la Sfinge ed Edipo, è di essere, almeno nello svolgimento lineare dei miti, stranieri. Come Girard aveva mostrato in merito all’analisi del mito Tikopia già ricordata in R. GIRARD, Delle cose nascoste

70

La mimesi e la traccia

primo momento si tratta di salvare Tebe dal mostro metà leone e metà donna, in un secondo dalla peste. Ancora una volta, partiamo dalla fine. Edipo concentra alcune caratteristiche di grandissima importanza: in primo luogo è zoppo. In secondo luogo, è uno straniero ma al tempo stesso un figlio di Tebe. In ultima istanza, il responso dell’oracolo destinato a trasformarsi in accusa ne fa un parricida incestuoso. In tutti e tre i casi abbiamo a che fare con una relazione molto particolare con la struttura differenziale. Prima di assumere qualsiasi significato simbolico48, la zoppia è un’occorrenza della differenza. In una folla di persone normali, la zoppia – come la deambulazione infantile e senile a cui accenna l’enigma della sfinge – è straordinaria e salta all’occhio in maniera autoevidente come eccezione per così dire nella natura delle cose. Edipo è differente dagli altri in primo luogo e a prescindere da qualsiasi considerazione culturale perché zoppo.

48

sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 140, la tesi di Lévi-Strauss in merito alla lettura astratta dei delitti mitici come sottrazione e creazione della tessera bianca necessaria a rendere discreto il continuum del pensiero mostra con chiarezza tutti i propri limiti. Come sostenere la tesi per cui il delitto, l’eliminazione radicale di una parte della sovrabbondanza originaria possa creare una discontinuità se la parte espulsa è già da sempre un supplemento? Cfr. C. LÉVI-STRAUSS, Le cru et le cuit, Plon, Paris 1964, trad. it., Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano 1974, pp. 80-81. Cfr. anche R. GIRARD, “Violence and Representation in the Mythical Text”, in Id., To Double Business Bound, cit., pp. 178-198. Carlo Ginzburg, come la maggior parte degli studiosi che esprimono critiche superficiali a proposito dell’opera di Girard, fa mostra di una lettura affrettata delle tesi fondamentali della teoria mimetica, cfr. C. GINZBURG, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 2008. Cercando di argomentare una ricostruzione filogenetica della figura dello zoppo nelle tradizioni millenarie considerate nelle analisi della storia della stregoneria, rifiuta di prendere sul serio la tesi di Girard di cui mostra però di non cogliere la logica. Tra altre numerose ragioni, questo limite teorico lo guida a proporre una tesi che a nostro avviso giustamente R. Bartlett, etichetta come un «flirt con lo junghianesimo». Malgrado l’esplicito disconoscimento di Jung, è difficile non vedere nel convincimento che i miti agiscano ad un livello sovra-individuale e che la loro diffusione transculturale abbia veicoli etnici, una spiegazione resa superflua dalle tesi girardiane frettolosamente scartate, cfr. R. BARTLETT, “Witch Hunting. A Review of Ecstasies: Deciphering the Witches’ Sabbath, by Carlo Ginzburg” in «New York Review of Books», June 13, 1991. Nella teoria mimetica, la zoppia non assume un significato simbolico autonomo perché viene ricondotta nell’alveo indeterminato dei tratti differenziali. Non ha senso quindi il commento di Ginzburg che causticamente, ma suo malgrado, considera l’interpretazione girardiana un «superficiale anacronismo» (p. 254). In quanto occorrenza della logica dell’eccezione, la zoppia è essa stessa una delle condizioni di possibilità di ogni ulteriore simbolizzazione, mentre l’analisi proposta da Ginzburg da un punto di vista teoretico non aggiunge niente, se non manifestare una certa leggerezza da parte del suo autore.

La teoria mimetica

71

Lasciamo per un attimo da parte la questione dell’appartenenza alla comunità tebana e proviamo a prendere sul serio l’infamante accusa ripetuta e data per buona da almeno venticinque secoli: il mito, la tragedia e non da ultimo Freud fanno di Edipo un parricida ed un incestuoso, ovvero un reo, confesso, della violazione delle uniche due regole culturali universali, i tabù del parricidio e dell’incesto. La caratteristica comune a queste due norme è di tracciare la differenza generazionale. In entrambi i casi, chi viola il tabù distrugge la struttura cronografica di una comunità. Uccidere il padre, così come generare dei figli con la propria madre, nega le generazioni, confonde le distinzioni su cui si basa l’ordine sociale, è «un’offesa alle leggi che governano un certo tipo di discendenza»49: l’incesto trasforma i membri di una famiglia in doppi gli uni degli altri, trasforma Edipo da padre in fratello dei propri figli50, dà vita a generazioni miste, «una stirpe intollerabile ad ogni gente». Insomma, l’incesto non è una trasgressione sessuale, sovrapposizione pruriginosa da boudoir del XIX secolo, ma un assassinio delle differenze. Che cosa c’è in comune tra l’accusa infamante subita da Edipo e le condizioni critiche in cui versa la città di Tebe? L’accusa infamante subita da Edipo, oltre ad essere l’accusa mitica per eccellenza, proprio perché volta ad identificare la violazione dei due ordini fondamentali, fa dell’eroe della tragedia l’assassino delle differenze, un operatore di indifferenziazione. Uccidendo il padre e giacendo con la madre Edipo ha dissolto le strutture differenziali elementari. Cosa resta dell’ordine? La sorpresa inizia appena a presentarsi. La peste, mitologema diffuso51 a livello transculturale, ha una caratteristica in comune con l’incesto. La peste non fa distinzioni, uccide senza criterio. Padri e figli, re e schiavi, ricchi e poveri cadono senz’ordine, sotto i colpi dell’epidemia: la peste è un nome dell’indifferenziazione. Tutto ciò che ci resta da capire è la relazione tra la peste come luogo dell’indifferenziazione e Edipo come operatore dell’indifferenziazione.

49 50

51

M. DARAKI, Dyonisos, Arthaud, Paris 1985, p. 135. Cfr. J.-P. VERNANT, “Ambiguïté et renversement. Sur la structure énigmatique d’Œdipe-Roi”, in Echanges et communications. Mélanges offerts à Claude LéviStrauss, Mouton, Paris 1970, t. II, pp. 1253-1279, trad. it. di Mario Rettori, “Ambiguità e rovesciamento”, in J.-P. VERNANT, P. VIDAL-NAQUET, Mito e tragedia nell’Antica Grecia. La tragedia come fenomeno sociale, estetico e psicologico, Einaudi, Torino 19764, p. 64-87. Cfr. R. GIRARD, “The Plague in Literature and Myth”, in Id., To Double Business Bound, cit., pp. 136-155.

72

La mimesi e la traccia

Prima di arrivare a considerare questa strana relazione, riprendiamo l’indagine sulla vicenda di Edipo, dalla fine. Dopo una lunga discussione tra Edipo e Tiresia, con la comparsa del vecchio servitore di Laio e del misterioso messaggero corinzio, la ricerca del colpevole subisce una vistosa e improvvisa accelerazione. Tutto pare trovare posto in una narrazione coerente e unitaria che le reazioni tragiche di Giocasta prima e dello stesso Edipo poi sembrano confermare inesorabilmente. Giocasta ha riconosciuto nella storia raccontata dal corinzio la vicenda del suo povero figlioletto e non ha potuto fare a meno di vedere nei piedi gonfi di Edipo il risultato della violenza di Laio. Edipo, riconoscendo nella reazione di Giocasta la conferma dei suoi peggiori incubi in merito all’infame destino predettogli dall’oracolo, assume, secondo un ragionamento quanto meno affrettato, che essendosi verificata l’una parte dell’oracolo anche l’altra debba essere vera: non solo incestuoso ma anche parricida52. Parrebbe la conclusione perfetta di un’incredibile serie di sventure ed è così che svariati secoli di critica hanno interpretato la storia di Edipo, la soluzione del crimine attesa da tutti coloro che hanno seguito con trepidante attesa lo sviluppo delle indagini: il colpevole è stato identificato, il caso è chiuso – che destino beffardo. Eppure qualcosa non torna. Ci sono almeno due dati che dovrebbero far sospettare il lettore attento – e non lo spettatore coinvolto nello sviluppo della trama, incalzante e catartica. Edipo aveva raccontato con ogni certezza possibile di aver ucciso un anziano e tutti i suoi compagni di viaggio, tutti lo ricordano, per primi Giocasta e il coro. Inoltre, Edipo aveva fin dall’inizio detto di essere stato lui solo a sbaragliare la compagine avversaria che accompagnava il superbo anziano. Il servo di Laio ha raccontato una storia molto diversa. È Creonte stesso a prendersi la responsabilità di riportare la versione dell’unico sopravvissuto del gruppo di persone che accompagnava Laio al momento dell’assalto. Ebbene, questi «disse che in lui ladroni s’imbatterono, e l’uccisero non uno, anzi una turba» (Sofocle, Edipo Re, 122-123, corsivo nostro). Edipo subito si accorge dell’inconciliabile differenza tra le due versioni dei fatti: «uno solo non può essere una turba» (645) e «tutti» non è uguale a «tutti meno uno». Ma davanti alle allusioni del messo corinzio, di Tiresia, dell’anziano servo di Laio, tutto traballa e null’altro resta presente alla mente di Edipo se non la sciagurata profezia che aveva spinto Laio a

52

Cfr. W.C. GREENE, “The Murderers of Laius”, in «Transactions of the American Philological Association», 60, 1929, p. 81. Come fa notare Anspach, op. cit., p. LXIII, Greene, pur avvedendosi della natura spuria di questo ragionamento, assume che Edipo sia colpevole di entrambi i crimini.

La teoria mimetica

73

esporre la propria discendenza ed Edipo a lasciare Corinto. È evidente che non è stato Edipo ad uccidere Laio, quindi anche dell’incesto non esiste prova né può sussistere alcun ragionamento spurio che deduca mitologicamente piuttosto che logicamente l’una colpa dalla verifica dell’altra. Ma c’era davvero bisogno di lanciarsi in questa indagine? È mai possibile che i greci illuminati dell’epoca classica potessero ancora credere al potere magico del sangue53? È davvero realistico pensare che qualcuno tra gli spettatori di Sofocle potesse farsi convincere dall’ipotesi tanto strampalata che la peste si fosse diffusa per colpa di un omicidio e di un incesto? Ma soprattutto, credere che qualcuno ci abbia creduto è una buona ragione per credere a nostra volta a tali accuse? René Girard si è laureato all’Ecole Nationale des Chartes e, in quanto medievista, ha sempre avuto una certa familiarità con i testi di persecuzione medievali54. Streghe ed ebrei erano comunemente oggetto di accuse infamanti ed assurde, non diverse da quelle che macchiano indelebilmente il nome di Edipo. «Spesso, nel corso della storia dell’Occidente e soprattutto in epoche caratterizzate da grandi disastri come pestilenze o carestie, molte persone inermi sono state fatte oggetto di una doppia accusa: di perversione morale […] e simultaneamente di essere la causa del disastro generale. Due accuse connesse tra loro dalla stessa logica irrazionale che connette le accuse a Edipo nel mito»55. La tesi ermeneutica di Girard si riduce a questa semplice opzione di buon senso e al tempo stesso di irriducibile originalità. Tra il mito di Edipo e i testi di persecuzione medievali non c’è nessuna differenza. In entrambi 53

54

55

D’altro canto Eraclito, appena una generazione prima di Sofocle, lascia un frammento che sembra indicare la permanenza di tali credenze: «Si purificano insozzandosi con altro sangue, come se uno, cacciatosi nella melma, si detergesse con la melma. Se qualcuno lo vedesse far questo, lo riterrebbe folle. E rivolgono preghiere a queste statue, come se uno si mettesse a conversare con le mura delle case, non sapendo chi sono gli dei né gli eroi», Frammento 5, in Eraclito, Sulla natura, in H. DIELS, W. KRANZ (eds.), I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di Angelo Pasquinelli, Einaudi, Torino 1976. Anche in questo caso è ingiustamente riduttivo il commento di Carlo Ginzburg all’analisi del testo di Guillaume de Machaut Jugement du Roy de Navarre, centrale nell’argomentazione de Il capro espiatorio di cui chiaramente Ginzburg non ha capito la rilevanza nella definizione della fondamentale distinzione tra testi in cui il capro espiatorio appare come tema e quelli in cui appare come struttura (e quindi, per evidenti ragioni logiche inerenti al concetto stesso di capro espiatorio – vedi sotto, capitolo sesto –, non come tema), cfr. C. GINZBURG, op. cit., p. 57. R. GIRARD, “Il mito di Edipo, la realtà di Giuseppe”, in R. GIRARD, Edipo liberato, cit., p. 122.

74

La mimesi e la traccia

i casi, il lettore assiste ad una caccia all’uomo, un linciaggio giustificato a posteriori attraverso accuse assurde connesse da una logica irrazionale. In tempi di grandi disastri le folle arrabbiate ed irrazionali scaricano la propria violenza su vittime arbitrarie riuscendo a dimenticare, magari solo per poco, la propria vulnerabilità di fronte a eventi di cui non possono avere controllo. La storia di Edipo ha avuto origine da un episodio di violenza collettiva; non ha importanza che non ce ne sia prova storica. La potenza euristica di questa ipotesi è straordinaria e, sola, permette di fare ordine: tutti i temi inclusi nel mito acquistano senso e le tessere del puzzle si sistemano, dando vita ad un’immagine coerente. Ora possiamo ripartire da capo e leggere il mito di Edipo come il risultato – e non il soggetto – del processo sommario che Sofocle mette in scena. Edipo è la vittima di una folla inferocita, scelta arbitrariamente a causa della salienza56 delle sue caratteristiche: un re zoppo per di più straniero, il compendio della differenza. La sorprendente verità del mito di Edipo – un mito esemplare ma strutturalmente analogo a migliaia di altri miti perfettamente indipendenti gli uni da altri, con buona pace di Carlo Ginzburg – non è l’unico risultato57 ottenuto dall’ermeneutica di Girard. Siamo solo all’inizio della storia. 3.4. La differenza La tesi vittimaria si presenta all’attenzione di Girard da due parti, contemporaneamente. Da un lato, il confronto con i testi di persecuzione

56

57

Elaborata in via indipendente, anche la teoria della catastrofi di René Thom mostra che la salienza è la forma più primitiva e più generale della significazione, cfr. R. THOM, Esquisse d’une sémiophysique. Physique aristotélicienne et théorie des catastrophes, InterEditions, Paris 1988. Non solo la conclusione della caccia all’uomo di cui Edipo è tragicamente l’iniziatore oltre che la vittima arbitraria si presta ad una lettura in termini vittimari; l’esposizione iniziale sul monte Citerone assomiglia troppo ai riti espiatori della tipologia pharmakos per non essere presa in considerazione sotto questa luce. Allo stesso modo, la morte del re Laio, ad opera non di uno, ma di una turba e ancora la morte della Sfinge, essa stessa figura mostruosa dell’indifferenziazione, precipitata giù da una roccia - ma il mostro si è precipitato spontaneamente già dal dirupo o è stato indotto a gettarsi da una massa informe che lo rincorreva? E sarà poi davvero stato un mostro? La vicenda di Edipo, come quella di Romolo, non è altro che una sequenza vertiginosa di sacrifici e linciaggi spontanei. A proposito dell’interpretazione della mostruosità arcaica, si veda W. PALAVER, René Girard’s Mimetic Theory, cit., pp. 144-145.

La teoria mimetica

75

medievali guidato dalla metodologia anti-intellettualisticamente un po’ naïve fa risaltare i tratti comuni, le analogie strutturali che abbiamo passato in veloce rassegna: per così dire, la via dall’alto. Dall’altro, le intuizioni sul ruolo dell’imitazione fanno emergere, per così dire dal basso, la comune logica che presiede agli eventi di tipo espiatorio di cui abbiamo visto essere intessuta la storia di Edipo – e che Girard ed i vari studiosi che si son lasciati persuadere dalle tesi della teoria mimetica hanno riscontrato in numerosi altri miti e leggende58. La tragedia di Sofocle non è la drammatizzazione di un rituale né la mise en scène di un mito. Sofocle non mostra Edipo sconfiggere la Sfinge né l’uccisione di Laio come non mostra l’esposizione infantile sul monte Citerone. A ben vedere, la tragedia di Sofocle non mette in scena nessuno degli eventi salienti della trama del mito e non lo fa perché il senso della sua tragedia è completamente diverso. Il grande tragediografo greco mette in scena il processo ad Edipo ed il modo in cui «durante una crisi, tutti arrivano a credere che Edipo abbia davvero ucciso suo padre e sposato sua madre»59: la tragedia di Sofocle è «una pièce sulla genesi di un mito»60. Nei paragrafi precedenti abbiamo indicato per sommi capi il nucleo fondamentale dell’intuizione mimetica: il soggetto non desidera secondo un investimento volitivo lineare diretto, suscitato dalle caratteristiche intrinseche dell’oggetto o dalla propria spontanea e autonoma potenza desideran58

59 60

Tra i saggi in assoluto più convincenti, cfr. le analisi di C. BANDERA, “From Mythical Bees to Medieval Antisemitism”, in AA.VV, To Honor René Girard. Presented on the occasion of his sixtieth birthday by colleagues, students, friends, ANMA Libri, Stanford, CA 1986, pp. 29-50. M. R. ANSPACH, “Edipo imitato”, in R. Girard, Edipo liberato, cit., p. xxx. F.F. AHL, Sophocles’ Oedipus: Evidence and Self-Conviction, Cornell U.P., Ithaca, NY 1991, p. 264. È impossibile alla fine dei conti stabilire se Sofocle fosse perfettamente consapevole della posta in gioco: così la pensa Sandor GOODHART, uno dei primi allievi di Girard, in Id., “Lêistas Ephaske: Oedipus and Laius’ Many Murderers”, in «Diacritics», 8, 1, Marzo 1978, dello stesso avviso Stéphane VINOLO, in Id., René Girard: épistémologie du sacré. «En vérité, je vous le dis», L’Harmattan, Paris 2007. Allo stesso tempo, per quanto Girard non sia convinto del controllo esercitato da Sofocle sul materiale mitopoietico elaborato nell’Edipo Re, senz’altro vede nella tragedia un primo esercizio di disvelamento del meccanismo mimetico-vittimario e non già una semplice pratica rituale, distinguendosi così nettamente dai Cambridge Ritualists che avevano già stabilito, come altri ancora (per esempio M. DELCOURT, Légendes et cultes de héros en Grèce, P.U.F., Paris 1942 e Id., Œdipe ou la légende du conquérant, avec C. Stein, Éd. Fac.Phil. Lett., Liège 1944, nuova edizione presso Gallimard, Paris 1981), la connessione tra la vicenda di Edipo e la figura rituale ateniese del pharmakos. Cfr. R. GIRARD, La violenza e il sacro, cit., p. 141.

76

La mimesi e la traccia

te, ma secondo il desiderio dell’altro. Il contributo decisivo di Girard alle teorie dell’imitazione è proprio quello di mettere in primo piano il tratto acquisitivo della mediazione mimetica61; la conseguenza di questa intuizione emerge nel momento in cui si faccia caso alle potenzialità schismogenetiche di una tale relazione. Nonostante la centralità di questa osservazione, si possono trarre altre considerazioni a partire dalla mimesis e Sofocle ci dà l’opportunità di assistere direttamente agli sviluppi di un’interazione condotta su base mimetica. Il dialogo tra Edipo e Tiresia, in cui la tragedia inizia a subire una prima accelerazione, si svolge con una serie di accuse rimpallate da una parte all’altra, sotto gli occhi sbarrati del coro. Edipo è chiamato a fare i conti con il suo destino; la natura di tale incombenza è tanto gravosa e mostruosa che il veggente Tiresia si rifiuta di rivelare quanto sa in proposito. Edipo, esasperato dalla reticenza di Tiresia lo accusa di aver tramato l’omicidio di Laio. L’accusa è stata appena scagliata che la prima accelerazione si verifica; il veggente risponde e rilancia l’accusa di omicidio al mittente. Edipo allora sfida il veggente a ripetere l’accusa e questi, non potendo limitarsi a ripetere piattamente quanto già detto, aggiunge un’insinuazione incredibile in merito alla madre di Edipo. Tiresia conosce la profezia e, con lo stesso ragionamento spurio che poi sarà di Edipo, per provare l’un corno dell’oracolo accusa Edipo dell’altro. Se non fossimo trattenuti istintivamente dal rispetto e dalla venerazione per questo testo, se non avessimo tutti un’ampia e precisa precomprensione della posta in gioco e dell’inesorabile conclusione a cui questa discussione porterà, faremmo fatica a non trattenere un sorriso di scherno. Questi due personaggi si stanno insultando come due fratellini. Chi è stato?, chiede il padre, davanti al latte versato. «È stato lui» risponderebbe il più svelto. Ma senza quasi lasciargli il tempo di finire la frase, il fratello correrebbe ai ripari, «non è vero, è stato lui». «Dai, ripetilo se hai il coraggio» griderebbe minaccioso il primo. Il secondo, per non perdere la faccia, sarebbe costretto non solo a ripetere l’accusa ma a rilanciare, grottescamente: «sì, sei stato tu, brutto bastardo». In men che non si dica il dialogo degenererebbe in una baruffa costringendo il padre ad intervenire per sedare gli animi. Davanti ad Edipo e Tiresia però non c’è un padre. Edipo è re, 61

Diversamente da quanto avevano fatto per parte loro Platone, nel Timeo, nel Crizia, nel Politico, nel Fedro e ovviamente nella Repubblica, Aristotele, Le Bon ne La psicologia delle folle (1895) e Gabriel Tarde ne Les lois de l’imitation (1895). Per quanto riguarda Platone, si veda lo studio W.B. TYRRELL, The Sacrifice of Socrates. Athens, Plato, Girard, Michigan State U.P., East Lansing, MI 2010, pp. 23-24 et passim.

La teoria mimetica

77

ma Tiresia è il veggente. Il re ha più potere del veggente ma questo ha più sapere. La gerarchia tra i due personaggi, nella rapida degenerazione della crisi, si disfa62. La differenza tra le parole dell’uno e dell’altro si assottiglia fino a sparire: «le sue parole e le tue, Edipo, ci sembrano dettate dalla rabbia (404-405)» dice il coro; e che cosa c’è di più simile ad un uomo arrabbiato di un altro uomo arrabbiato? Tiresia ed Edipo si sono fatti risucchiare dalle loro scaramucce perdendo completamente di vista l’oggetto a cui dovrebbero dedicare la loro attenzione e i loro talenti, la peste che soffoca Tebe: l’oggetto è scomparso63. Che cos’è la peste? Abbiamo detto che la peste è un nome dell’indifferenziazione. L’intuizione di Girard entra in gioco nel momento in cui, sulla scia del saggio di Mark Anspach a cui ci stiamo appoggiando, ci ricordiamo che per definire il flagello che attanaglia Tebe, Sofocle usa la parola nosos. Questa parola è usata sia da Tucidide nella descrizione della peste ateniese sia da Platone, (in Repubblica 544c), per descrivere un altro tipo di malattia contratta dalla Grecia e dalle poleis, la guerra civile. In tal caso si potrebbe considerare la coincidenza storica della Guerra del Peloponneso e poi delle guerre civili ateniesi con la peste microbica, oppure considerare la peste tebana come metafora della crisi sociale e politica ispirata agli sfortunati eventi a cui Sofocle aveva assistito in prima persona e che aveva riassunto grazie alle possibilità espressive della poesia. In entrambi i casi, l’interpretazione di Girard riesce a far emergere con chiarezza il contesto in cui prende piede la vicenda di Edipo. La violenza si propaga per contagio, si contrae come una malattia, senza criteri, senza distinzioni, per imitazione. «Tiresia contrae l’odio di Edipo così come si contrae una malattia infettiva»64. La violenza fa qualcosa di più: come la peste non solo si diffonde senza criteri, ma distrugge le differenze e le distinzioni. Poco a poco gli insulti tra due litiganti chiamano in causa altri presenti, qualcuno si sente coinvolto e partecipa al litigio, presto si viene alle mani e il morbo della violenza si diffonde. Nessuno ricorda più quale fosse l’oggetto della disputa, l’unica cosa che conta è scambiarsi colpi, sempre più violenti, sempre più indisciplinati, sempre più letali. Padri, figli, amici, nemici, gio62

63 64

In questo caso si tratta della domanda mitica per eccellenza: «chi è stato? Chi ha cominciato?», tra Romolo e Remo invece si doveva rispondere alla domanda «chi sarà?, chi avrà il diritto di cominciare?»: che si guardi in avanti o indietro, il problema è sempre lo stesso. Cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., pp. 382 e sgg. M. ANSPACH, op. cit., p. XIII, da R. GIRARD, Edipo analizzato, in Id., Edipo liberato, cit.

78

La mimesi e la traccia

vani e vecchi prendono parte al conflitto: ecco ciò che Girard chiama «crisi di indifferenziazione» o, per motivi che diventeranno ovvi in seguito, «crisi sacrificale»65. L’imitazione, il contagio della violenza, ha dissolto ogni differenza sociale, anagrafica, politica. Nessun punto di riferimento rimane in piedi. Ogni individuo è totalmente assorbito dal proprio conflitto, ciascuno convinto di essere nel giusto, ciascuno schiacciato nella brutalità dall’incapacità di far emergere alcuna differenza che possa giustificare il proprio comportamento. Se non sapessimo già come andrà a finire, che differenza potremmo mai vedere tra Tiresia ed Edipo66? L’imitazione tende a generare rivalità e la rivalità a sua volta diffonde l’imitazione, in una montée aux extrêmes catastrofica. Per descrivere questa condizione di indifferenziazione, Girard introduce il concetto del doppio67. Gli individui, colti nella crisi di indifferenziazione, mano a mano che il dialogo degenera in conflitto, si trasformano in doppi gli uni degli altri68: la vendetta è «il parossismo e la perfezione della mimesi. [Essa] riduce gli uomini alla ripetizione monotona dello stesso gesto assassino»69. I gemelli o fratelli nemici diventano un simbolo eccezio65 66

67 68

69

R. GIRARD, La violenza e il sacro, cit., pp. 63 e sgg. In fondo, l’identità dei due personaggi, che ne fa, nei termini di Girard, due doppi, va al di là dello scontro sulla scena sofoclea. I tratti salienti delle vicende dei due personaggi sono, in effetti, molto significativi. Che si voglia seguire la versione pruriginosa o la lettura in termini differenziali proposta da Girard, la cecità dei due personaggi ha le medesime cause. Nell’un caso, all’incesto e alla corruzione morale di Edipo, a cui farà seguito l’auto-accecamento, corrisponde l’impudenza di Tiresia, accecato da Atena per averla vista nuda mentre faceva il bagno. Nell’altro, all’assassinio delle differenze generazionali di cui viene accusato Edipo fa eco la negazione delle differenze di genere vissuta da Tiresia, l’unico ad essere stato sia uomo che donna. In questa versione della leggenda, Tiresia viene accecato da Era per aver rivelato i segreti dei piaceri sessuali femminili a Zeus. Infine, è inutile notare che alla facoltà di prevedere il futuro donatagli da Zeus per ricompensarlo del danno subito corrispondono l’intuito e l’intelligenza di Edipo, che gli permettono di riuscire laddove persino il veggente, ma non indovino Tiresia aveva fallito, salvare la città dalla Sfinge. Già introdotto nel saggio del 1972 (p. 116), il concetto di doppio viene esplorato in tutta la sua fecondità in “Psicologia interdividuale”, terzo libro di R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit. Per un approfondimento sul rapporto tra l’uso girardiano del termine e l’uso psicanalitico imposto da Rank e diffuso da Freud, ci permettiamo di rimandare a E. ANTONELLI, “Considerazioni mimetiche su Il perturbante (Das Unheimliche)”, in «Enthymema. Rivista internazionale di critica, teoria e filosofia della letteratura», n° 2, 2010, pp. 154-170. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 28 e Id., La violenza e il sacro, cit., pp. 26-45.

La teoria mimetica

79

nale. Una coppia di gemelli vale a simbolo dell’intera comunità indifferenziata dalla violenza. Così, nel paradosso, i gemelli riescono a simbolizzare l’assenza o la distruzione di ogni altro simbolismo. Ciascuno imita il suo avversario, in una concorrenza che pare senza limite e senza fine70. È il meccanismo mimetico-vittimario a proporsi come soluzione naturale ma non deterministica a questa situazione di conflitto. L’avviso di Girard, mosso dall’ambizione di creare non solo una teoria unificata del religioso ma una scienza dell’uomo che si potesse porre a complemento culturale della teoria dell’evoluzione71, è che a questo stato di natura hobbesiano di un vero e proprio «tutti contro tutti» possa far seguito non già una soluzione contrattualistica, ma una catastrofe. Per spiegare la logica di questa sorte di fulmen in clausola antropologico, Girard formula una nuova decisiva distinzione concettuale, tra mimesi di appropriazione72 e mimesi dell’antagonista73. La mimesi di appropriazione spinge gli individui a desiderare i medesimi oggetti, inducendoli inesorabilmente al conflitto. Ancora la mimesi farà esplodere e diffonderà la violenza. È la reciprocità dei colpi, la vendetta, la faida. Ognuno credendo di essere nel giusto, ognuno credendo di commettere una violenza differente da quella subita, estende progressivamente il campo d’azione della propria rivalsa. Tutti vengono chiamati in causa, contribuendo «alla distruzione dell’ordine che pretendono di consolidare»74. 70 71

72

73 74

Questa tesi risolve buona parte dei misteri che ancora nel 2012 oscurano l’operazione meritoria, ma teoreticamente insufficiente di A. PIONTELLI, Gemelli nel mondo. Leggende e realtà, Raffaello Cortina, Milano 2012. Ambizione secondo alcuni pienamente realizzata: basti pensare al discorso di accoglienza letto da Michel Serres in occasione dell’elezione di Girard a Immortel dell’Académie française in cui lo storico e filosofo della scienza francese lo definì «il Darwin delle scienze umane», cfr. M. SERRES, “Réponse de M. Michel Serres au discours de M. René Girard. Réception à l’Académie française de René Girard”, in M.R. ANSPACH (ed.), René Girard, Cahiers de l’Herne, Paris 2008, pp. 13-21. Con l’espressione mimesi di appropriazione Girard si riferisce al tipo di mediazione mimetica che abbiamo prima definito acquisitiva e che ha come possibile risultato la rivalità che viene ad esplodere nel caso in cui prevalga la mediazione interna a proposito di oggetti scarsi o indivisibili. Questo tipo di mimesi divide le comunità e porta ad una diffusione della rivalità tra tutti gli individui. È il contributo di Menzogna romantica e verità romanzesca. Cfr. R. GIRARD, La violenza e il sacro, cit., pp. 116 e sgg. e Id., Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 44. R. GIRARD, La violenza e il sacro, cit., p. 77, cfr. anche p. 50, «tutte le differenze sono come il sacrificio, che va a ingrossare il torrente della violenza quando non riesce più ad arginarla».

80

La mimesi e la traccia

Ogni colpo, pur con la pretesa di rimettere le cose a posto, di tracciare nuovamente la differenza tra il torto e la ragione, non fa che aumentare lo spazio in cui diventa di volta in volta legittimo ricorrere alla violenza. «Chi ha cominciato?» Questa è la domanda mitica per eccellenza. Che ovviamente può essere tradotta in un più prosaico «di chi è la colpa?», ovvero, in ultima istanza, «dov’è l’origine?». Girard non è ingenuo come molti vorrebbero credere: non ha mai pensato di trovare l’origine determinata ed unica75. Percorrendo la via dall’alto, Girard crede di poter spiegare la natura dei fatti apparentemente fantastici narrati nei miti e messi in scena dai riti. Percorrendo la via dal basso, egli intuisce la logica di questi medesimi fatti. Nel momento in cui tutti sono doppi della violenza, gemelli gli uni degli altri, ossessionati e scandalizzati dall’unica ragion d’essere che rimane loro – vendicarsi, ottenere soddisfazione, fare giustizia –, la comunità in questione raggiunge il bordo del precipizio, da cui nulla più la trattiene. Girard fa riferimento all’opera etnografica di Jules Henry, Jungle People,

75

Anche in questo senso si può ritrovare nel lavoro di Girard una certa fedeltà all’opera di Durkheim, incontestabilmente fondamentale nello sviluppo della teoria mimetica. Come Durkheim nell’Introduzione alle Forme elementari della vita religiosa, Girard si propone di tornare a porre la domanda sull’origine della religione, abbandonata dopo i tentativi di Freud e Hocart, senza alcuna tentazione di individuare il fatto puntuale, ma piuttosto le cause e la logica dei fenomeni comunemente definiti come religiosi. A tali riflessioni, si potrebbe dire, Girard, meno irenico di Durkheim, si perita di aggiungere semplicemente le proprie considerazioni sul ruolo della violenza nella genesi e nella funzione delle forme elementari della vita religiosa. Come vedremo nel corso di questo lavoro, secondo Girard, la religione nasce nella violenza, dalla violenza e per la violenza (cfr. R. GIRARD, “The Plague in Literature and Myth”, cit., p. 142). In questo senso, Girard da un lato pare condividere il pathos che anima Durkheim nell’analisi del progressivo dissolvimento del religioso, dall’altro, oltre a formulare una tesi che, come vedremo nel capitolo 4 è passibile di un’astrazione notevole, fornisce le chiavi per intuire il capovolgimento che sta alla base di tale dissolvimento. In secondo luogo, resta che la differenza tra le due prospettive non è irrilevante. Girard riesce ad individuare una logica laddove, almeno secondo un fine conoscitore di entrambi i paradigmi, Durkheim finisce per sostenere due prospettive: «First, by the fact that we are the products of our culture, institutions, language, etc.: they make us, we do not make them. Second, by the fact that in a group ‘in effervescence’ – during Carnival, for instance – the individual disappears and fuses with the crowd. First the transcendence of the collective is brough about by social order, then by social disorder and chaos». Cfr. J.-P. DUPUY, “Panic and the Paradoxes of the Social Order”, in Passions in Economy, Politics, and the Media: In Discussion with Christian Theology, W. PALAVER, P. Steinmair-Pösel (eds.), Beiträge zur mimetischen Theorie 17, LIT, Münster 2005, pp. 215-233, p. 227.

La teoria mimetica

81

dedicata agli indios Kaingang dello Stato di Santa Katarina, in Brasile76, nella quale una tale situazione viene descritta proprio tramite l’immagine della peste: «La vendetta si estendeva, sezionando la società come una terribile scure, decimandola come farebbe un’epidemia di peste»77; è lo stesso antropologo americano ad usare, per descrivere l’esito di questa epidemia di violenze e vendette, l’espressione «suicidio sociale». L’ossessione della vendetta, della reciprocità violenta, è localmente razionale ma globalmente assurda. Ognuno persegue il proprio disegno criminale ritenendo di avere il diritto di ottenere soddisfazione ma così facendo non fa che imitare il proprio nemico. Se non sopraggiunge il suicidio sociale, la crisi dei doppi, la crisi delle differenze, può dare luogo ad una tipologia di evento straordinaria. A presiedere a questa sorpresa è la mimesi dell’antagonista, la cui logica è il vero oggetto del nostro interesse. 3.5. Imitazione e doppia mediazione Se tutti gli uomini sono nel frattempo diventati l’uno il doppio dell’altro, se tutti i doppi sono uguali, chiunque tra loro può divenire, in qualunque momento, il doppio di tutti gli altri. Un solo nemico può sostituirsi ai singoli nemici di tutti gli altri membri della comunità. Nella totale indifferenziazione, alla domanda mitica «chi è stato? Chi ha cominciato?» può improvvisamente sorgere una risposta. L’indizio più irrisorio, il tratto più insignificante può indirizzare i sospetti di ognuno contro ogni altro nella convinzione di tutti contro uno solo. Ciascuno legge negli occhi del vicino la conferma del proprio sospetto e, quasi in un istante, la convinzione soggettiva diventa unanimità, l’unica verifica necessaria e possibile. Al culmine del disordine, quando ogni riferimento differenziale è venuto meno, quando ogni struttura è crollata, quando la diffusione dei doppi ha distrutto ogni possibile categoria, di colpo si riproduce una differenza, una distinzione binaria elementare. Dal tutti contro tutti, irriducibile dall’interno del sistema a qualsiasi concetto, al tutti contro uno. La distinzione amico-nemico è ricostituita, senza alcuna ragione se non la procedura che ha condotto le attenzioni parcellizzate a convergere su di un dettaglio, una

76 77

J. HENRY, Jungle People, New York 1941, riedito da Vintage Books, Random House, New York 1964. Cit. in R. GIRARD, La violenza e il sacro, cit., p. 81, da J. HENRY, op. cit., p. 81.

82

La mimesi e la traccia

differenza. Basta zoppicare78, essere orbo79 o essere albino perché l’eccezione nella natura delle cose emerga come prima differenza, primo simbolo80, o meglio ancora e letteralmente, come prima metonimia – la parte per il tutto. La mimesi d’antagonista presiede a questo fenomeno improvviso. Se nel primo paragrafo di questo capitolo abbiamo concentrato le nostre attenzioni sull’imitazione del desiderio, possiamo ora renderci conto che la mimesi ha un campo di applicazione più vasto, una natura più essenziale. È l’intenzionalità81 ad essere mimetica. Come nel desiderio, così nell’attenzione, la mimesi dirige il fascio intenzionale. Che si tratti di un desiderio oggettuale, di odio, di amore, il doppio – nel caso idealtipico della crisi di indifferenziazione senza neanche porsi il problema, in generale tenendola in considerazione come strategia razionale82 – non sapendo dove guardare, cosa desiderare, chi incolpare, imita il vicino. «Al contrario di quanto si potrebbe pensare a priori, e di quanto molti autori hanno effettivamente pensato, l’imitazione generalizzata produce qualcosa piuttosto che niente»83. In questo caso, l’imitazione generalizzata produce84 un colpevole, un’eccezione, una differenza: una vittimimizzazione. Il senso di questo fenomeno, ancora tutto da esplorare, non va ridotto all’essenza moralmente riprovevole a cui in generale si pensa nel momento in cui ci

78 79 80 81 82 83

84

Non solo Edipo, ma già Tikarau, nel mito commentato nel primo capitolo, tratto da LÉVI-STRAUSS, Il totemismo oggi, cit. Nel mito Ojibwa, commentato da Girard in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 135. Sviluppiamo l’intuizione del significante trascendentale in merito alle condizioni di possibilità della significazione in E. ANTONELLI, La creatività degli eventi, cit., pp. 65-69. Come nel linguaggio fenomenologico ispirato a Brentano. Della prossimità tra la mimesi di cui parla Girard e l’imitazione come strategia razionale, di cui parla Dupuy, ci occuperemo nei capitoli successivi. J.-P. DUPUY, Intersubjectivity and Embodiment, paper presented at the Third Annual Symposium on the Foundations of the Behavioral Sciences – entitled “Dewey, Hayek and Embodied Cognition: Experience, Beliefs and Rules” – sponsored by the Behavioral Research Council of the American Institute of Economic Research, Great Barrington, MA, July 18–20, 2003, p. 17. Se si è seguito il ragionamento si noterà che non stiamo qui cadendo vittima di eccessi postmoderni o costruttivisti. La doppia imitazione produce un colpevole in tutti i sensi della parola. Da un lato, lo porta avanti, davanti a tutti, ma dall’altro, ben più interessante, lo crea dal nulla; nessuno infatti era colpevole prima che la procedura pura della doppia imitazione generasse la convergenza mimetica.

La teoria mimetica

83

si trovi a confrontarsi con i casi di linciaggi85. È la logica del fenomeno a dover attirare la nostra attenzione. Che cosa vuol dire, nel gergo girardiano, crisi di indifferenziazione? Uno dei modi di interpretare questa situazione è immaginare una comunità in cui non esistono più legami e categorie di alcun genere: non esistono legami familiari, relazioni di potere, distinzioni di status, non esistono più quelle strutture differenziali a cui lo strutturalismo ci ha insegnato a ridurre la cultura, in effetti non esistono più oggetti sociali riconosciuti. Una crisi di indifferenziazione coincide con l’assenza di rappresentazioni condivise. L’opinione di Girard, Guy Lefort e Jean-Michel Oughourlian86 è che sia sbagliato ricondurre la crisi di indifferenziazione ad una sorta di disordine pre-culturale, volendo con questo intendere che all’ordine differenziale culturale, nella crisi delle differenze, si sostituisce un ordine basato sulla simmetria. Se eliminiamo le opposizioni e le asimmetrie che lo strutturalismo ha individuato come trama della cultura, se eliminiamo le differenze su cui si basa l’ontologia sociale e quindi in generale la cultura, rimangono le simmetrie tra i doppi, tra i gemelli. D’altro canto, ogni possibile definizione di ordine dipende da punti di riferimento: si potrebbe dire che un sistema è tanto più ordinato quanto è più corta la stringa di informazioni necessaria per descriverlo. Una comunità travolta da una crisi delle differenze, per coloro che la abitano – e non per coloro che la osservino per così dire dall’alto – è irriducibile a qualsiasi descrizione che non sia l’elenco completo dei membri e degli stati di cose, tutti irriducibili gli uni agli altri. Un sistema in crisi, da questo punto di vista, è un sistema disordinato. Da ogni altro punto di vista, esso è ovviamente nient’altro che una forma di ordine alternativo. Il contributo della risoluzione vittimaria, il contributo fondamentale del linciaggio è quello di ricreare una distinzione a partire dalla quale tutte le altre possono trovare fondamento. È ciò a cui assistiamo nella vicenda di Edipo. La tragedia mette in scena il processo sommario, vale a dire la progressiva convergenza mimetica di accuse e sospetti simboleggiata, nell’interazione elementare tra i personaggi tragici, progressivamente ridotti a doppi gli uni degli altri, dall’autoaccusa di Edipo; è il suo stesso coinvolgimento mimetico87 a trasformare la prospettiva dei persecutori, de85 86 87

Naturalmente è invece questo uno dei punti principali della Teoria Mimetica, a cui è dedicata la terza fase delle ricerche di Girard, dal terzo libro di Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, in avanti. Cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, pp. 383 e sgg. Che risuona nelle confessioni delle streghe e degli eretici vittime delle persecuzioni medievali così come nelle autoaccuse con cui si chiudevano i processi-

84

La mimesi e la traccia

gli accusatori in verità indiscutibile e a trasmettere il senso della mimesi d’antagonista88. Con una bella formula Paul Dumouchel riassume così: «è perché tutti scaricano simultaneamente la propria violenza sulla vittima che tutti credono che sia colpevole»89. Edipo entra a far parte dell’unanimità che lo accusa e vede in lui la causa e la colpa scatenante della peste, della crisi delle differenze. È così che tutta la vicenda scompare, la procedura mimetica che ha prodotto la meta dell’indagine scompare nell’oblio coperta dalla verità unanime, semplice, auto-assolutoria e lascia il posto al racconto proto-poliziesco della ricerca di un criminale travolto da un insolito destino. L’accusa di incesto e parricidio, accettata e riconosciuta come vera – anche se attraverso la serie di ragionamenti spuri, errori e prove false che abbiamo già elencato – fa di Edipo l’assassino delle differenze e allo stesso tempo il portatore di differenza. La colpa che si accolla è infatti così spregevole, così grave, così caricaturale da porlo a distanza da tutti gli altri membri della comunità. Assistiamo ad una scena già abbozzata in precedenza: Edipo rimane solo, fermo e trascinato a prendere parte alla catarsi autoassolutoria a cui tutti gli altri possono lasciarsi andare. Ma attorno a lui si crea uno spazio, tutti indietreggiano, chi gli era vicino si allontana per paura di essere contagiato da tale mostruosa impurità. Tutti insieme iniziano ad additare Piedegonfio il Tiranno90, un cerchio si forma e al centro, a distanza di sicurezza da tutti gli altri, sta l’assassino delle differenze e in quanto tale nuova differenza. Si tratta qui della ricostituzione dello spazio e del tempo del sacro, né troppo lontano né troppo vicino ad Edipo, tra la violenza dell’operatore dell’indifferenziazione e il caos delle simmetrie.

88

89 90

spettacolo dello stalinismo, cfr. R. GIRARD, Il capro espiatorio, cit., pp. 107-108. Intendiamoci, in questo caso si parla di mimesi per spiegare un atteggiamento irrazionale – le prove a sua discolpa erano solide – o semplicemente irriflesso, ma come abbiamo visto e torneremo a vedere la mimesi in quanto tale può essere veicolo di decisioni al limite perfettamente razionali. «Il grande filosofo Emmanuel Levinas citava sempre una frase del Talmud che è molto vicina allo spirito di quanto vado dicendo, una frase umoristica, tipica di quella tradizione: se sono tutti d’accordo nell’accusare qualcuno, rilasciatelo – vuol dire che costui è innocente. L’unanimità accusatrice è sospetta in quanto tale! Essa suggerisce l’innocenza dell’accusato», S. BENVENUTO, “Differenza, identità, violenza. Conversazione con René Girard”, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia» 5, 2003, http://mondodomani.org/dialegesthai/sb02.htm. P. DUMOUCHEL, “De la méconnaissance”, in «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», n. 1, 2011, pp. 93-106, p. 100. Cfr. M.R. ANSPACH, Edipo imitato, cit., p. xix.

La teoria mimetica

85

Se nella versione mitica, la sua autoesclusione purgherà la comunità da ogni impurità, nella realtà essa ricrea il fondamento binario dell’ordine. Da tutti nemici di tutti a tutti nemici di Edipo, e quindi tutti amici, secondo la logica elementare e ben nota per cui i nemici del mio nemico sono miei amici91. Il mito, per parte sua, rappresenta tutto ciò con una potenza metaforica straordinaria. Se la peste simboleggia la crisi delle differenze, Edipo, in quanto assassino delle differenze si pone in una relazione supplementare nei confronti della comunità. La crisi d’indifferenziazione si risolve con l’espulsione dell’operatore di indifferenziazione. Un’ultima violenza cura la crisi violenta. La logica di questa violenza si basa sulla convergenza mimetica, l’efficacia è determinata dal fatto che avendo ricreato l’unanimità attorno a sé, la violenza contro la vittima del linciaggio non chiamerà nessuno alla vendetta né pretenderà altro spargimento di sangue. È grazie alla procedura con cui si verifica che questa violenza può essere ultima e in quanto tale differente92; è per questa ragione che si può parlare di quest’ul91 92

Cfr. F. HEIDER, The psychology of interpersonal relations, John Wiley & Sons, New York 1958, trad. it., Psicologia delle relazioni interpersonali, Il Mulino, Bologna 2000. Dovremmo forse scrivere differante per mettere in evidenza la coerenza dell’impianto teorico derridiano con questa tipologia di problematica. La violenza vittimaria è differente perché ultima e in quanto tale risulta infine anche differenziatrice e differente, ovvero capace di differire ogni ulteriore violenza, cfr. J. DERRIDA, La différance, conferenza pronunciata alla Società francese di filosofia, il 27 gennaio 1968, pubblicata simultaneamente nel «Bulletin de la société française de philosophie» (luglio-settembre 1968) e in Théorie d’ensemble, Paris 1968. Oggi in J. DERRIDA, Marges – de la philosophie, Minuit, Paris 1972, trad. it. a cura di M. Iofrida, Margini – della filosofia, Einaudi, Torino 1997, pp. 27-57. Per i fini di questa ricerca tornerà utile riflettere sin da subito sul fatto che il linciaggio spontaneo è una soluzione curativa di cui il sacrificio diventerà la riproduzione tecnica preventiva. A tal proposito possiamo quindi sottolineare un punto fondamentale su cui Girard pare sottrarsi all’eterna e sterile diatriba che ha contrapposto coloro che vedevano nel rito o nel mito il fattore principale della religione. Da questo punto di vista quindi Girard si allontana anche da Durkheim: avendo individuato la logica sociale che presiede a questo tipo di fenomeni, Girard descrive una dinamica – all’occorrenza poi distinta in due logiche contrapposte – che anima la società e la religione. Il «circolo logico» di cui parla Durkheim (cfr. M. ROSATI, “Abitare una terra di nessuno. Durkheim e la modernità”, in E. DURKHEIM, Le forme elementari della vita religiosa, cit., p. 38) viene in qualche modo esteso ad un momento, ad un movimento, che precede sia il rito sia il mito, sia la pratica sia la credenza, senza per questo, come già ripetuto numerose volte, cadere in qualche freudismo ingenuo.

86

La mimesi e la traccia

tima violenza come di un supplemento. Essa è al tempo stesso nient’altro che un’ennesima ripetizione del medesimo che va ad aggiungersi alla serie ostinatamente iterativa e al tempo stesso ciò che si sostituisce alla serie e ne prende in carico la rappresentazione. La procedura mimetica pura emette un giudizio che, quando corroborato dall’unanimità riuscita, assume i tratti del giudizio divino, l’ordalia. L’accusatore e l’accusato sono i due ruoli, le due posizioni coinvolte nell’ordalia, il giudizio divino stabilisce chi sarà il condannato e chi l’assolto. A prescindere da ogni riferimento ad una irraggiungibile verità, l’uno sarà sommerso e l’altro sollevato. Chi è il colpevole dell’uccisione di Laio? Ovvero, chi è il responsabile della sozzura e dell’impurità che hanno contagiato il corpo di Tebe? All’inizio della tragedia Edipo accusa Tiresia e Tiresia accusa Edipo. Due specchi a cui presto si aggiungerà Creonte. Tre specchi sono sufficienti per far emergere un percorso, una pista accusatoria della quale l’unanimità che ne è causa potrà presentarsi come prova. Ci si mette d’accordo sulla verità o la verità è ciò che ci permette di metterci d’accordo93? Tutti o tutti meno uno? Edipo non è la risposta, egli è la decisione. Fatto anch’esso di imitazione e registrazione, il linciaggio è un atto sociale che traccia una differenza, registrata in un certo modo nella memoria dei partecipanti e poi nei loro racconti. 3.6. Riti e istituzioni Una componente essenziale della teoria del meccanismo vittimario è l’anima riduzionista che la muove. Così come per l’ermeneutica dei miti, la cui potenza euristica abbiamo visto all’opera nella decostruzione del mito di Edipo a testo di persecuzione inavvertitamente ma colpevolmente tramandato nei secoli come testo accusatorio di una vittima espiatoria, Girard 93

È la riflessione proposta in G. VATTIMO, Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009. A tal proposito è importante la notazione di G. CHIURAZZI, “Mimesi ed emancipazione,” in «aut aut», 347, 2010, pp. 193-205, p. 205, nella quale secondo uno spirito della mediazione e della medietà, si fa notare che non si può propendere univocamente né per la verità né per Platone (secondo l’adagio amicus Plato sed magis amica veritas invertito da Vattimo in amica veritas sed magis amicus Plato). In entrambi i casi si rischia di venire meno alle istanze fondamentali che muovono il pensiero di Vattimo, anche al di là della sua consapevolezza. Il capro espiatorio è eminentemente ciò che mette d’accordo; da definizione, anzi, è un accordo di cui nessuno si accorge, un accordo che appare naturale, nel senso di nella natura della cose, e quindi l’oggetto principale a cui applicare la decostruzione.

La teoria mimetica

87

offre un medesimo esercizio analitico e decostruttivo per quanto riguarda l’essenza e l’origine del religioso in generale. Seguendo la via dal basso prima indicata potremo allora vedere quale possa essere lo scheletro della riflessione girardiana. Una volta individuata la potenza schismogenetica della mimesi d’appropriazione non potrà che risultare ovvio il fatto che i tabù non vadano interpretati altrimenti che come proibizioni del mimetico, in tutte le sue forme. I divieti che vertono su fenomeni imitativi – e che spesso potrebbero apparire assurdi alla mentalità moderna – vanno tenuti insieme a quelli più evidenti e comprensibili ancora oggi contro la violenza o le rivalità passionali. Come queste ultime, la mimesi – si pensi ancora una volta alla magia imitativa – ha un rapporto diretto con la violenza: «non c’è divieto che non si riduca al conflitto mimetico»94. Lo stesso discorso vale, mutatis mutandis, per il rito. Uno dei problemi classici rispetto alla relazione apparentemente contraddittoria tra divieti e riti viene così brillantemente risolto da Girard. Se i divieti impediscono il conflitto mimetico, i riti, imponendo di compiere tutti i gesti e di adottare tutti i comportamenti tabù conducono, in un contesto controllato, la comunità verso una rappresentazione il più realistica e fedele possibile della crisi di indifferenziazione che aveva dato luogo alla risoluzione vittimaria. I rituali si concludono in linea di massima con l’immolazione di una vittima animale o umana, oppure con versioni simboliche equivalenti. Il sacrificio, inteso da Girard come forma essenziale del religioso95, è dunque da intendersi come ripetizione della convergenza mimetica espiatoria originale. L’essenza del sacrificio è la doppia sostituzione, per la quale una vittima sacrificale è al tempo stesso una sostituzione della vittima originaria del linciaggio spontaneo e della comunità, al cui posto soffre le pene della crisi di indifferenziazione, o sacrificale. Tra i vari tratti rilevanti analizzati da Girard ricordiamo un elemento cruciale: lo statuto di appartenenza della vittima sacrificale, al tempo stesso interna ed esterna, membro della comunità e straniero96, determinante per evitare che il transfert catartico possa tornare a scatenare un nuovo ciclo di vendette. Il sacrificio si pone rispetto 94 95 96

R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 33. In sostanziale accordo uno dei più recenti punti di riferimento della scienza delle religioni francese, C. TAROT, Le symbolique et le sacré: théories de la religion, La Découverte, Paris 2008. Uno dei casi più interessanti, più che altro in termini di Wirkungsgeschichte, è quello dei riti sacrificali cannibali dei Tupinanba. Per un’analisi della questione ci permettiamo di rimandare a E. ANTONELLI, “Estraneità senza pharmaka. Riflessioni a partire da René Girard”, in «Trickster – Rivista del Ma-

88

La mimesi e la traccia

al linciaggio spontaneo nei termini di una ripetizione méconnaissante, vale a dire della ripetizione cieca davanti all’innocenza delle vittime – sia quella originaria, a cui, come testimonia il mito, viene attribuita ogni colpevolezza in una grande catarsi autoassolutoria, sia quella sacrificale. In secondo luogo, esso appare una versione preventiva del medesimo principio farmacologico, scoperto, in occasione del linciaggio spontaneo, nelle sue facoltà curative. Riti e divieti mirano allo stesso obiettivo, conservare l’ordine e la pace della comunità, gli uni riproducendo piccole crisi, per così dire in laboratorio, per riottenere con procedure più o meno controllate – anche se essenzialmente méconnues – i medesimi effetti raccontati dai miti; gli altri cercando di evitare ogni possibile rischio. Non stiamo qui facendo una presentazione accurata della teoria del meccanismo vittimario, ma è comunque opportuno mettere in chiaro la differenza fondamentale che Girard ha saputo frapporre tra la propria teoria e le tesi, verso le quali non ha mai nascosto il grande debito, di Freud. Il sacrificio rituale, inteso come archetipo di tutti i riti, è la ripetizione progressivamente ritualizzata, ovvero tecnicizzata e grammatizzata97, di una serie potenzialmente infinita di linciaggi spontanei. Non si tratta di un singolo omicidio occorso una volta per tutte nella storia dell’umanità e tanto meno si tratta di un parricidio. I linciaggi spontanei da cui derivano miti e riti sono infiniti e, come abbiamo messo in luce in precedenza, occorrono nelle fasi di crisi – sociale, politica, militare, economica, igienica – delle quali la crisi di indifferenziazione è per così dire il trascendentale. Ogni crisi rilevante tende inesorabilmente a indebolire le strutture differenziali, comprese quelle forse più antiche della famiglia. In tal senso emerge autonomamente la seconda fondamentale differenza rispetto a Freud, ovvero l’interpretazione più fluida e universalizzabile del cosiddetto complesso di Edipo. Una volta decostruito il mito, di cui Freud è invece da considerarsi a tutti gli effetti un complice estensore, ci rendiamo conto, grazie alle basi della teoria mimetica, che il triangolo edipico non è che una delle possibili occorrenze di un triangolo mimetico. Il bambino imita il desiderio del padre, l’unico modello disponibile, nei confronti della madre e, vista l’indivisibilità della madre, rischia di rimanere per così dire intrappolato in questa identificazione e quindi coinvolto in una relazione di rivalità nei confronti del modello-ostacolo: è solo un caso di quelli previsti dal modello della mediazione interna già descritto.

97

ster in Studi Interculturali», n° 10, 2011, http://trickster.lettere.unipd.it/doku. php?id=violenza_straniero:estraneita. Usiamo questo gergo di ispirazione derridiana per definire il processo infinitamente variabile di segmentazione e discretizzazione della memoria degli eventi spontanei di riferimento. Torneremo a concentrarci su questi problemi in 5.2.

La teoria mimetica

89

Tra i tanti campi in cui la teoria mimetica mostra la sua straordinaria potenza euristica, l’aspetto forse più interessante per i nostri argomenti non è tanto la teoria generale del religioso quanto il contributo di sistematizzazione per una morfogenesi delle istituzioni. Articolando le intuizioni formulate ne La violenza e il sacro a proposito dell’ormai noto meccanismo vittimario con la successiva scoperta dell’opera di Maurice Arthur Hocart, René Girard fornisce un quadro interpretativo dal quale emerge una conferma98 dell’ipotesi sull’origine sacrificale della monarchia, per certi versi l’idealtipo di ogni altra istituzione. Dall’analisi posizionale che abbiamo abbozzato nel commento alla fine tragica di Edipo possiamo recuperare l’immagine della definizione spaziale prodotta dal meccanismo vittimario. Nel momento in cui il cerchio accusatore si è formato la spregevole impurità attribuita ad Edipo, e come a lui a infinite altre vittime, ne fa immediatamente un essere incredibilmente potente, il cui contatto potrebbe rivelarsi contagioso, letale. L’individuo che occupa lo spazio della vittima assume su di sé un potere improvviso: è il potere di far entrare in crisi un’intera comunità, di distruggere il mondo, di abbattere le colonne portanti dell’ordine culturale. È lo stesso potere che, una volta morta, farà della vittima una figura onnipotente. Se il dio è una vittima già linciata, già lapidata, già precipitata, il re, per così dire, è un dio ancora in vita, una vittima in differita, una vittima in attesa di assumere il carico farmaceutico – da pharmakos, il capro espiatorio ateniese. Edipo, insomma, è uno straordinario compendio morfogenetico: egli è al tempo stesso, anche se in un ordine cronologico confuso, un re e un capro espiatorio99, vale a dire un re sacro. Ogni altra istituzione condivide con la monarchia sacra, e con il meccanismo vittimario che nella tesi di Girard ne è la matrice morfogenetica, una caratteristica elementare: la facoltà discriminativa100. Con riferimenti 98

Lucien Scubla ha dedicato numerose pubblicazioni all’argomento. Nella fattispecie rimandiamo alla prefazione all’edizione francese di M.A. HOCART, Socials Origins, 1954, trad. fr. par Jean Lassègue avec la collaboration de Mark R. Anspach, Au commencement était le rite. De l’origine des sociétés humaines, La Découverte, Paris 2005, pp. 12-53 e L. SCUBLA, “Roi sacré, victime sacrificielle et victime émissaire”, in «Revue du MAUSS», 2003/2, n. 22, pp. 197-221. 99 Cfr. J.-P. VERNANT, “Ambiguità e rovesciamento”, cit. 100 Con queste considerazioni elementari e ben oliate ci pare si possa fare a meno della voluta oscurità che offusca le analisi di G. AGAMBEN, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995. La sovranità e la nuda vita sono posizionalmente e strutturalmente omologhe, nel senso che entrambe possono essere ricondotte al medesimo meccanismo. La teoria mimetica permette di giungere alle stesse considerazioni di Agamben garantendo inoltre un’opportuna fenomenologia del sacro. Forse, ciò che in ultima istanza rimane oscuro ad Agamben e

90

La mimesi e la traccia

per altro molto simili e con un convincente esercizio archeologico, Antoine Garapon, in un testo importante, Del giudicare, estende tale ragionamento all’istituzione giudiziaria101 ritrovando proprio nella «possibilità di separare il bene dal male»102 la facoltà essenziale del sistema giudiziario. Altrettanto fa Xavier Devictor rintracciando le origini vittimarie di uno degli oggetti sociali essenziali, il giuramento. Anch’esso esiste in funzione della necessità di discriminare tra il vero e il falso, tra il giusto e l’ingiusto, nel passato, «giurando di aver detto la verità», e nel futuro, «giurando di decidere e giudicare secondo verità», rispettivamente nei cosiddetti giuramenti assertori e istituzionali103. Per ottemperare a tale essenziale e delicata funzione di differenziazione il giuratore deve sottoporsi al rischio farmacologico rappresentato dalla cerimonia del giuramento - l’aspetto essenziale della quale non è stabilire come sono davvero andate le cose, ma ripristinare la pace e la condivisione della struttura differenziale di riferimento per la comunità: ovvero decidere quale sarà di lì in poi la verità riconosciuta.

che lo conduce fuori strada è proprio il potere morfogenetico della convergenza mimetica. Il sacro non è una volta per tutte, né i sacrifici sono tutti uguali, se non dal punto di vista della logica messa a fuoco da Girard. L’homo sacer è solo una delle tante occasioni della differenza. 101 In consonanza con i principi della nostra ricerca, Girard notava in La violenza e il sacro che «come tutti i progressi tecnici, [il sistema giudiziario] costituisce un’arma a doppio taglio, sia d’oppressione sia di liberazione», ivi, p. 41. 102 A. GARAPON, Bien juger: Essai sur le rituel judiciaire, Odile Jacob, Paris 1997, trad. it. di Daniela Bifulco, Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, Raffaello Cortina, Milano 2007, p. 13. 103 Cfr. X. DEVICTOR, “Sacramentum: une étude du serment”, in «Les Cahiers du CREA» n. 16, Epistémologie et anthropologie. Autoréférence, identité et alterité, sous la direction de Lucien SCUBLA, dicembre 1993, pp. 161-200. Come si potrà intuire dal curatore del numero oltre che dalla sede editoriale, il saggio di Devictor è solidale alle intenzioni della nostra ricerca. Lucien Scubla è uno dei membri del CREA più devoti alle ragioni dello girardismo, insieme al fondatore e ancien polytechnicien Jean-Pierre Dupuy, al cofondatore Paul Dumouchel e a uno dei primi allievi della seconda generazione, Mark R. Anspach. CREA sta per Centre de Recherches en Epistemologie et en autonomie. A partire dal 1987, divenne il Centre de recherche en epistemologie appliquée; già ospitato nello splendido edificio storico dell’Ecole Polytechnique in 1, rue Descartes, 75005 Paris, è poi stato trasferito nelle sedi dell’ENSTA, in 32, bd. Victor, 75015 Paris. Si vedano anche le pagine dedicate da Wolfgang Palaver al Contratto sociale e ai contratti in genere, in cui, a partire dalle note considerazioni di Hobbes (Leviatano, capitolo XIV) un’analisi analoga dell’origine vittimaria del giuramento è formulata con indubitabile chiarezza; cfr. W. PALAVER, René Girard’s Mimetic Theory, cit., pp. 167-170.

La teoria mimetica

91

Dietro a oggetti sociali diversi come il confine, il giuramento e le istituzioni in genere abbiamo scoperto la terribile verità del meccanismo vittimario: la registrazione resta il fattore costitutivo degli oggetti sociali, ma uno studio più approfondito delle dinamiche della mimesi ci ha permesso di valutare con chiarezza in che modo l’imitazione presieda a questa costituzione. Ogni oggetto sociale, conformemente alla legge fondamentale della documentalità discussa nel secondo capitolo, è il frutto di un atto sociale iscritto, ovvero di una traccia; ogni istituzione vive nell’espressione della propria essenza, ovvero il lasciar tracce, il tracciare differenze, il discriminare. Ogni istituzione si fonda sulla capacità di esercitare la facoltà discriminativa. Il meccanismo mimetico vittimario ne è l’origine e la logica fondamentale104. Resta ancora da capire come possa riflettersi su quanto detto sin qui la svolta detta apologetica della teoria mimetica, di cui torneremo ad occuparci nella parte terza.

104 Un autore elegante come Giorgio Agamben individua nel performativo la migliore spiegazione di ogni tesi magica o religiosa, cfr. G. AGAMBEN, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 52, ma sorprendentemente non accenna minimamente al fatto che l’essenza del religioso, per quando esso si consolidi e si manifesti nel gioco del performativo e della registrazione, è quella di ridurre i rischi schismogenetici insiti nella relazione mimetica. Ogni rito, come per esempio il matrimonio, e in generale, come abbiamo accennato, ogni oggetto sociale, è fatto da un performativo registrato, ma la sua funzione principale e la sua origine è quella di discriminare, di tracciare una differenza durevole, per esempio, almeno «finché morte non vi separi».

PARTE SECONDA

95

4. AUTOTRASCENDENZA E AUTONOMIA

¿Para qué llamar caminos a los surcos del azar? Todo el que camina anda, como Jesús, sobre la mar. Caminante, son tus huellas el camino y nada más; Caminante, no hay camino, se hace camino al andar. Antonio Machado, Proverbios y cantares

4.1. Convenzioni e arbitrio Ci eravamo chiesti che cosa possa nascondere il ruolo dell’imitazione per quanto riguarda le convenzioni1 ed ora, dopo aver risposto alle domande precedenti in merito all’origine dei riti e di vari oggetti sociali come il confine, in particolare, ma il sistema giudiziario o il giuramento per sommi capi, possiamo affrontare questo problema. La figura logica che ha tenuto occupato Jean-Pierre Dupuy2 per buona parte della sua vita costituirà il punto di riferimento di questo capitolo: essa si trova al centro di una serie 1 2

Vale appena ricordare, anche se non ce ne occuperemo in tal senso, che in genere si considera che convenzione traduca il greco nomos, legge. Jean-Pierre Dupuy (1941) è un filosofo ed epistemologo francese, ancien polytechnicien, già professore di Filosofia sociale e politica presso l’Ecole Polytechnique di Parigi, è oggi professore di Francese e per cortesia di Filosofia sociale e politica presso l’Università di Stanford. La biografia intellettuale di questo autore eccentrico è straordinariamente ricca e ne fa una delle figure più interessanti delle sciences de l’homme à la française. Al tempo stesso matematico, logico, economista e filosofo, Dupuy ha avuto modo di nutrire la propria riflessione con relazioni dirette con alcune delle più grandi menti del Novecento, da Ivan Illich a Heinz von Foerster, da Henri Atlan a Francisco Varela, a René Girard.

96

La mimesi e la traccia

ragguardevole di fenomeni e fornisce una spiegazione di grande eleganza ai problemi di cui ci stiamo occupando3. Il punto di riferimento imprescindibile per affrontare il problema delle convenzioni4 è il classico Convention5, di David K. Lewis, nel quale l’autore si dedica all’ambizioso progetto di ridurre l’opacità e l’esteriorità di un oggetto collettivo come il linguaggio. Non un inconscio collettivo, né una struttura simbolica autonoma che parla gli uomini (ça parle diceva Lacan) ma piuttosto una convenzione. Almeno a partire dal Cratilo, al linguaggio è attribuita una natura essenzialmente convenzionale: il rapporto tra significanti e significati è arbitrario. Il problema è che esso non potrebbe in alcun modo derivare da un accordo esplicito, se non altro perché qualsivoglia contratto sociale esplicito presupporrebbe a sua volta una forma di linguaggio; l’ipotesi di Lewis è di considerare la possibilità che il linguaggio sia invece il prodotto di una convenzione tacita. A sua volta, questo studio filosofico si ispira a The Strategy of Conflict6 di Thomas C. Schelling, dal quale Lewis trae l’intuizione di considerare la convenzione come la soluzione di un gioco di coordinazione7 il cui equilibrio sia determinato dalla storia del gioco, ovvero sia in qualche misura path dependent. La convenzione, secondo Lewis, è la soluzione ad un problema di questo tipo che, essendo riuscita ad imporsi, tende a riprodursi con regolarità. Cerchiamo di capire qual è il fascino inerente a questo tipo di gioco. Prendiamo in analisi un gioco di coordinazione puro:

3

4 5 6 7

In quanto segue presenteremo le intuzioni fondamentali di Dupuy, formulate in articoli come Id., “Convention et Common Knowledge”, in «Revue économique», n° 2, mars 1989, p. 361-400 e riprese nella collige di saggi Id., Introduction aux sciences sociales. Logique des phénomènes collectives, Ellipses, Paris 1992. La Rivista di Estetica ha dedicato un numero monografico al tema, a cui il lettore italiano potrà fare riferimento, E. CASETTA, A. VARZI (eds.), «Rivista di Estetica», 41, 2009. D.K. LEWIS, Convention: A Philosophical Study, Harvard U.P., Cambridge, MA 1969, trad. it., La convenzione: studio filosofico, Bompiani, Milano 1974. T. C. SCHELLING, The Strategy of Conflict, Harvard U.P., Cambridge, MA 1960. Si parla di giochi di coordinazione nei casi in cui due giocatori si trovino a dover far fronte ad un problema la cui soluzione dipende dalla loro capacità di coordinare le loro azioni (il gioco si fa più complicato, evidentemente, nel caso in cui sia “non cooperativo” – con il che non si allude ad una mancanza di cooperazione intenzionale quanto all’impossibilità di comunicare).

Autotrascendenza e autonomia

97 Giocatore 2 a

b

10

0

A 10

0

Giocatore 1

0

10

B 0

10

In questo gioco il problema nasce dal fatto che ci sono due equilibri di coordinazione (Aa e Bb)8. L’indeterminazione prodotta dalla molteplicità di equilibri (che è ovviamente parte integrante della natura di una convenzione) può precipitare i giocatori nei casi disastrosi Ab e Ba. Per risolvere questa situazione i due giocatori non possono, anzi soprattutto non devono, cercare di prevedere ciò che l’altro giocatore farà: non si tratta infatti di un semplice problema di previsione oggettiva. Ciò che G2 farà dipende dalla sua previsione di ciò che G1 deciderà di fare, essendo perfettamente cosciente del fatto che a sua volta G1 sta percorrendo il medesimo labirinto. Questo tipo di giochi di coordinazione può perdersi in una specularità senza limiti la cui soluzione non può dipendere esclusivamente dalla razionalità dei giocatori. Già Schelling aveva intuito che, in generale, nella vita vera e non nell’astrazione matematica o logica, la soluzione si impone sulla base di fattori esterni alla pura razionalità del gioco: la specularità potenzialmente illimitata di questa situazione tenderà a convergere su un tratto saliente. Ognuno dei giocatori cercherà di individuare dei riferimenti che potrebbe pensare condivisi, traendo ispirazione dal senso comune o dalla storia9. La specularità infinita si arresta e converge sul fattore saliente facendolo emergere come punto di riferimento per le soluzioni successive. Naturalmente il tratto saliente in questione non riduce l’arbitrarietà dell’equilibrio. Nel caso di un gioco di coordinazione puro i due equilibri sono equivalenti (nel nostro caso in entrambi gli equilibri di Nash i due giocatori raccolgono 10 punti a testa, 8

9

In entrambi i casi si tratta di equilibri di Nash. Una coppia di strategie costituisce un equilibrio di Nash se ogni giocatore massimizza la sua utilità a comportamento dell’altro fisso, ovvero per cui ogni giocatore, a comportamento fissato, ha interesse a che l’altro giocatore non giochi diversamente. Cfr. F. GUALA, “Esistono le convenzioni di Lewis?”, in E. CASETTA, A. VARZI (eds.) «Rivista di Estetica», 41, 2009, pp. 141-159.

98

La mimesi e la traccia

negli altri entrambi ottengono 0 punti), pertanto la soluzione emergente dalla storia del gioco può serenamente essere confermata anche una volta che se ne conosca l’origine arbitraria. In tal caso tutti i giocatori continueranno a conformarsi a tale regolarità. Il fatto che tale arbitrarietà sia conoscenza comune10 non è destabilizzante. Anzi, in effetti, secondo Lewis, essa è addirittura stabilizzante: sapere che l’equilibrio è frutto del caso, condurrà i giocatori ad attenersi alla convenzione emersa, consapevoli che ogni deviazione potrebbe sì riconfigurare arbitrariamente un nuovo equilibrio di Nash, ma potrebbe altrettanto facilmente cadere su soluzioni meno efficaci. Ci sono altri casi in cui questa medesima specularità può produrre risultati disastrosi11 o non produrre alcunché. In effetti, come per altro abbiamo lasciato intendere, la soluzione convenzionale può emergere solo grazie alla presenza di tratti salienti, notevoli, resi tali dalla condivisione di un minimo di conoscenze comuni: il gioco di coordinazione, aveva già intuito Schelling, si risolve, ovvero si decide, solo nella pratica effettiva di giocatori che vivano in un mondo condiviso e comune. La salienza, l’originalità o semplicemente la precedenza del punto di riferimento emerge come operatore di coordinamento solo se già inserita in una struttura di rimandi noti. In buona sostanza, una convenzione potrebbe esistere secondo il modello di Lewis solo in un mondo in qualche misura già ordinato.

10

11

Il contributo fondamentale dello studio filosofico di D.K. Lewis è forse, piuttosto che non l’ipotesi sulle convenzioni, il concetto di Common Knowledge, con il quale si intende definire una forma di specularità infinita per cui data una certa proposizione P vera, ogni giocatore o individuo non solo sa P, ma sa anche che tutti gli altri sanno P e sanno che tutti sanno… e così via all’infinito. Nel nostro caso sarebbe conoscenza comune la convenzionalità del linguaggio se potessimo dire – con il limite intrinseco ad ogni pretesa di infinità – che tutti sanno che tutti sanno che tutti sanno… che (è vero che) il linguaggio è convenzionale, ovvero che le parole hanno un legame arbitrario con il loro significato e che quindi potrebbero essere sostituite con altre parole. Sono i giochi noti in letteratura, ma ormai anche al grande pubblico come dilemma del prigioniero: è la specularità, la capacità di mettersi nei panni dell’altro, a generare il sospetto che inesorabilmente porterà i prigionieri a preferire una razionalità di tipo precauzionale a quella di tipo utilitaristico, ovvero a preferire una minimizzazione delle perdite (potenzialmente massime nei giochi in cui il prigioniero tradito rischi la morte) ad una massimizzazione dell’utilità, cfr. J.-P. DUPUY, “Common Knowledge et sens commun”, in «Les Cahiers du CREA», n. 11, aprile 1988, pp. 11-51, ripreso in «La Revue de MAUSS», n. 2, 4o trimestre 1988, pp. 30-54; J.-P. DUPUY, Introduction aux sciences sociales, cit., pp. 91-95.

Autotrascendenza e autonomia

99

Il talento di Jean-Pierre Dupuy ci permette di trovare in John Maynard Keynes uno dei primi autori ad aver proposto o almeno intravisto12 una soluzione ad un problema ben più interessante e complesso, vale a dire la nascita di convenzioni in condizioni di caos, disordine o crisi, ovvero in quei casi in cui proprio il senso comune e un mondo di riferimenti, sensibilità, conoscenze o semplicemente un passato non siano condivisi. In assenza di un mondo comune si realizza la condizione formale pura di cui già Schelling aveva intuito la condizione di indecidibilità. L’ipotesi di Keynes (dedicata allo studio delle previsioni a lungo termine, nel capitolo XIII della Teoria Generale) si presenta anch’essa – è lo stile anglosassone d’altronde – sotto forma di un gioco, nella fattispecie di un concorso di bellezza organizzato con una regola eccentrica. Nel celeberrimo beauty contest, il premio verrà aggiudicato a chi sarà in grado di indovinare quale ragazza vincerà il concorso di bellezza votato dagli stessi partecipanti al gioco a premi, «cosicché ciascun concorrente deve scegliere non quei volti che egli ritenga più graziosi, ma quelli che ritiene più probabile attirino i gusti degli altri concorrenti», tutti naturalmente consapevoli di questa regola. Keynes formula così un esercizio in cui «la nostra intelligenza è rivolta ad indovinare come l’opinione media immagina che sia fatta l’opinione media medesima»13. In questo gioco, così come nella speculazione finanziaria, vince chi saprà indovinare meglio della folla ciò che la folla farà. Ribadiamo che nel gioco immaginato da Keynes il vincitore non è colui le cui preferenze risultino più vicine ad un canone fissato a priori, dall’esterno, ma colui le cui preferenze siano più vicine alla media delle preferenze espresse dall’insieme dei concorrenti14. Il merito dell’esempio di Keynes è di mettere in luce il fatto che una tale condizione ipotetica può condurre ad una situazione di indecidibilità radicale: la specularità messa in campo in questo esempio è potenzialmente illimitata perché prescinde da ogni riferimento oggettivo. Keynes mette in scena una situazione che Dupuy definisce “fuori equilibrio” – il che vale 12

13

14

Dupuy ha condiviso parte degli sforzi per produrre tale esplicitazione dell’intuizione di Keynes con André Orléan e con la cosiddetta école des conventions, cfr. A. ORLÉAN, “Mimétisme et anticipations rationelles: une perspective keynésienne”, in «Recherches économiques de Louvain», n. 1, marzo 1986, Id., “Contagion mimétique et bulles spéculatives”, in J. Cartelier (ed.), La formation des grandeurs économiques, Nouvelle Encyclopédie Diderot, P.U.F., Paris 1990. J.M. KEYNES, The General Theory of Employment, Interest and Money, Palgrave Macmillan, Basingstoke, UK 1936, trad. it. a cura di Terenzio Cozzi, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, UTET, Torino 2006, pp. 339-344. Cfr. J.-P. DUPUY, Introduction aux sciences sociales, cit, p. 72.

100

La mimesi e la traccia

sia in riferimento alla teoria dell’equilibrio economico generale sia alla teoria dei giochi. Una condizione in cui, senza punti di orientamento comuni sufficienti a coordinare le proprie azioni, i giocatori rischiano di perdersi nel gioco di rimandi. «La specularità illimitata prende dunque un senso completamente differente a seconda che si appoggi su un ordine, un senso comune già costituito o invece manifesti l’assenza di un tale ordine. Nel primo caso essa partecipa al carattere auto-rinforzante dell’ordine istituito, nel secondo traduce il disordine della crisi»15. Dupuy e Orléan, in una suggestiva collaborazione, mostrano come già Keynes avesse intuito che se la specularità illimitata in tempi di crisi non produce alcunché, un tipo molto particolare di specularità potrebbe invece essere istitutrice di un nuovo ordine convenzionale. Dupuy definisce la specularità come la capacità di un agente di mettersi nei panni dell’altro. Essa può prendere la forma, limite, della conoscenza comune (la Common Knowledge di Lewis) nel qual caso si dirà che un agente A sa P e sa che l’agente B sa P, a sua volta l’agente B sa P, sa che A sa P e che A sa che B sa che…, e viceversa, all’infinito. Nel caso in cui l’agente A non sappia ciò che sa B, potrebbe comunque fare ciò che fa B, sperando di partecipare attraverso tale comportamento del sapere di B. In tal caso si può dire che A imita B. Secondo Keynes l’imitazione è il comportamento che meglio descrive la speculazione finanziaria nei tempi di crisi. In una situazione di incertezza radicale, nei casi in cui non esistano riferimenti comuni, il solo comportamento razionale da parte degli agenti – in questo caso degli speculatori, ma poco importa – è proprio quello di imitare gli altri. In primo luogo, come si diceva, perché se un agente non sa niente, è razionale imitare gli altri sperando che essi siano più informati. Questo tipo di specularità ha una caratteristica molto particolare, essa, infatti, si basa sulla radicale opacità. Al contrario di quanto si diceva in merito alle convenzioni di Lewis, in questo caso è l’opacità, ovvero il fatto di non sapere, almeno non esplicitamente, che neanche gli altri sanno niente, che può incitare l’agente ad imitarli. Il tratto caratteristico di questo atteggiamento, aveva intuito Keynes, è che esso permette alla speculazione di produrre una realtà, nella fattispecie una convenzione. Vediamo in che modo. Nell’analisi del testo di Keynes, Dupuy si appoggia al modello formulato da Orléan ma l’idea fondamentale si regge sulla tesi della doppia imitazione elaborata da Girard: immaginiamo una situazione di radicale indeterminatezza – per esempio il panico finanziario, o il panico tout court. Nessuno sa cosa fare, su cosa investire, dove fuggire per trovare la via 15

Ivi, pp. 72-73.

Autotrascendenza e autonomia

101

d’uscita. Due agenti, A e B, reciprocamente all’oscuro delle rispettive condizioni di ignoranza e incertezza, hanno a disposizione una sola strategia razionale: imitare l’altro. Può darsi il caso, paradossale ad un osservatore esterno, che A e B si imitino a vicenda, senza saperlo. Tale comportamento potrebbe dare luogo ad un fenomeno autorinforzante (self-reinforcing) così costituito: immaginiamo che un rumore, un qualsiasi accidente, faccia pensare ad A che B desideri un oggetto X. In condizioni di radicale incertezza, tale impressione sarà sufficiente perché A, per imitazione, assuma il medesimo oggetto di interesse – l’esempio vale sia per un titolo azionario, sia per una particolare direzione di fuga, sia per qualsiasi altro possibile polo intenzionale. Il risvolto affascinante ci si para davanti agli occhi non appena ci si renda conto che, se mai anche B fosse nelle stesse condizioni di totale incertezza, l’improvvisa impressione di A gli si presenterebbe come un’indicazione da imitare. Per quanto implausibile potesse essere la rappresentazione di A, l’interesse di B gli fornirebbe una prova della desiderabilità dell’oggetto in questione. L’oggetto degli interessi di A e B apparirebbe ad entrambi come frutto della conoscenza altrui, meta prestabilita e oggettiva essendo invece l’emergenza di un’esteriorità prodotta dalla chiusura su se stesso di un sistema di agenti che si imitano l’un l’altro16. L’apparente oggettività si presterebbe ad acquisire una solidità crescente a seconda della quantità di agenti coinvolti in questo meccanismo. Le voci più assurde possono condurre una folla unanime, in cui tutti tendono a copiarsi l’un l’altro, a convergere sugli oggetti più improbabili, trovando nella stessa unanimità la conferma della bontà dell’accordo. Vale appena notare che il fatto che la folla trovi poi la porta o invece vada a chiudersi in un vicolo cieco è ciò che con il senno di poi renderà razionale o irrazionale quel comportamento. La cosa più interessante però è che se in certi contesti la configurazione della realtà esterna è effettivamente determinante – come nel caso della via d’uscita – sia per la sopravvivenza della folla sia per stabilire la razionalità della procedura, in altri no. Gli oggetti del desiderio infatti sono tali solo perché desiderati da altri. Se poi accettiamo l’ipotesi per cui in generale le crisi sono endogene, esse non posso trovare la loro soluzione nella realtà esterna alla comunità.

16

Dupuy rifletterà ancora a lungo su questa tipologia di fenomeni, formulando diverse metafore, per esempio l’apologo dei due professori, cfr. J.-P. DUPUY, “The Self-Deconstruction of Convention,” in «SubStance», vol. II, 23, no. 74, pp. 8698, 1994, trad. it. di A. Thornton, “Sulla (auto)decostruzione delle convenzioni”, in L. Preta, La narrazione delle origini, Laterza, Roma-Bari 1991.

102

La mimesi e la traccia

Questo meccanismo produttore di giudizi convenzionali17, di soluzioni, si articola in due momenti: il primo è quello in cui il gioco speculare e speculativo genera la meta del proprio percorso, il secondo è la stabilizzazione dell’oggetto emergente, attraverso l’oblio o semplicemente l’ignoranza dell’arbitrio inerente alle condizioni della sua genesi, ma, ovviamente, non l’oblio dell’accordo stesso – attraverso una qualsiasi traccia mnestica che, come abbiamo visto nel secondo capitolo, ne costituisce e garantisce l’esistenza. Se nello spazio e nel tempo puri della logica questo meccanismo imitativo conduce all’indecidibilità, ovvero apre all’indeterminatezza, nel tempo effettivo di un processo reale si richiude per così dire attorno alla contingenza, attorno al rumore – alla stessa maniera di una perla creata dall’ostrica attorno ad un frammento di impurità. «Questa dualità traduce il fatto che il medesimo meccanismo è all’opera sia dietro la crisi sia dietro la sua risoluzione. L’oggetto emergente non è determinato per deduzione a partire dalla struttura formale del gioco, è la storia reale degli avvenimenti, con le sue contingenze, che lo fa accadere. Adottando un concetto della filosofia morale, si potrebbe dire che sia una determinazione per procedura pura»18. 17

18

Dupuy fa riferimento all’articolo di J. M. KEYNES, “The General Theory of Employment”, in «Quarterly Journal of Economics», 51, 1937, pp. 209-223. Anche questa intuizione è in buona misura già chiara a Girard, cfr. Id., Shakespeare. Il teatro dell’invidia, cit., p. 266: «Ordine e disordine utilizzano gli stessi canali e operano nella stessa maniera. È un’illusione pensare che esistano veramente due tipi di imitazione: ogni differenza ha origine solo nel Degree, e l’imitazione è “buona” fintanto che è conforme alle regole del Degree e rispetta la separazione dei gradi e il carattere distintivo di ciascuno di essi». J.-P. DUPUY, Introduction aux sciences sociales, cit., p. 74. Dupuy discute abbondantemente il concetto di giustizia procedurale pura nella Teoria della giustizia di John Rawls, in J.-P. DUPUY, Il sacrificio e l’invidia, cit. Fa altrettanto in J.-P. DUPUY, Pour un catastrophisme éclairé, Seuil, Paris 2002, trad. it. a cura di P. Heritier, Per un catastrofismo illuminato, Medusa, Milano 2011, nel quale, come si potrà intuire da queste considerazioni, contrasta la progressiva diffusione dell’idea che «la razionalità collettiva non [possa] che essere pensata nel modo procedurale […]. Dire che la razionalità è procedurale è dire che una volta l’accordo realizzato con giuste e buone procedure, quel che esse produrranno sarà ipso facto, per proprietà in qualche modo ereditate, giusto e buono. È dunque rinunciare a cercare, indipendentemente da e anteriormente a ogni procedura, i criteri del giusto e del bene – o piuttosto, come vedremo, del male e dell’inaccettabile», ivi, p. 22. Dupuy non nega il valore relativo della razionalità procedurale, a patto che non si sostituisca alla razionalità sostanziale: a patto che, insomma, non abdichi all’alea della procedura collettiva che, oltre ad essere una forma di rinuncia al progetto liberale della modernità e una mesta ricaduta nella dipendenza dalla trascendenza, è anche una modalità di gestione delle cose umane eminentemente sacrificale.

Autotrascendenza e autonomia

103

Nel momento stesso in cui una convenzione si stabilisca – per esempio una via di fuga o un equilibrio dei prezzi – essa stessa si impone come punto di riferimento condiviso interrompendo contestualmente e temporaneamente il gioco di rimandi mimetici tra gli agenti, ovvero rendendo superflua la specularità e proiettando il sistema in una condizione favorevole all’analisi di Lewis: in altri termini, essa si pone come mediazione, come terzo, dando ai soggetti coinvolti l’impressione di desiderare autonomamente. Nel momento in cui il terzo sia istituito nell’oblio, ognuno degli attori potrà avere l’impressione di giudicare da sé, potendosi appoggiare al polo referenziale creato e disinteressandosi dell’altro: per esempio prenderà autonomamente la via d’uscita, o riempirà il proprio paniere di beni sulla base della propria analisi costi/benefici. Dunque anche delle convenzioni si può dire ciò che Girard dice del sacro e Dupuy dell’economia, ovvero che esse contengono la violenza19. Dupuy, pur avendo come ambizione di fornire «uno statuto alla nozione di “oggetto collettivo”»20, non si avvede del ruolo della traccia nella costituzione della classe di oggetti in analisi. Nella forma della traccia mnestica o dell’iscrizione documentale di cui già si è detto, l’oggetto collettivo «convenzione» contiene l’arbitrio, nei due sensi della parola contenere. Lo porta dentro di sé, coperto dall’opacità intrinseca alla traccia, come propria ragione sufficiente, ma al tempo stesso lo tiene sotto controllo, evitando che la specularità infinita che si scatenerebbe in sua assenza lasci tutti in balia della contingenza, ovvero dell’arbitrio. 4.2. Il capo e il punto fisso endogeno Il luogo in cui Dupuy ha individuato con maggiore evidenza la presenza del modello logico che ci ha già tenuti a lungo occupati è la Psicologia delle masse e analisi dell’io, di Sigmund Freud, saggio che diventerà centrale per la nostra riflessione. Il contributo di Dupuy si fonda ancora una volta sulla teoria mimetica e fornisce un’interpretazione analoga a quelle che abbiamo trovato nello studio delle figure della doppia mediazione e dello pseudo-narcisismo ma anche alla base della genesi delle convenzioni. L’aspetto più interessante di questo esercizio teorico è però quello di salvaguardare la logica dei fenomeni collettivi individuata da Girard nelle risoluzioni vittimarie, liberandone la dinamica dal ruolo preponderante 19 20

R. GIRARD, La violenza e il sacro, cit., e J.-P. DUPUY, “La crise et le sacré”, in «Etudes», 2009/3, 410, p. 341-352. J.-P. DUPUY, Introduction aux sciences sociales, cit., p. 21.

104

La mimesi e la traccia

della violenza. Il punto fisso endogeno, il centro di convergenza mimetica, emerge, infatti, a prescindere dalla tonalità emotiva implicata. La decostruzione della teoria della folla di Freud21 ci permette inoltre di introdurre il concetto principe della riflessione di Jean-Pierre Dupuy, ovvero il punto fisso endogeno. Freud attribuisce alle folle tre tratti caratteristici; in primo luogo, un principio di coesione che stravolge la normale psicologia individuale: la libido. «La massa viene evidentemente tenuta insieme da qualche forza. A quale forza potremmo attribuire meglio questa funzione se non a Eros, che tiene unite tutte le cose del mondo?»22. L’aspetto principale di questo legame è la capacità di limitare la naturale disposizione egoistica e a(nti)sociale delle pulsioni fondamentali. «In base alle nostre concezioni teoriche, tale limitazione del narcisismo può essere il prodotto di un solo fattore: il legame libidico con gli altri. L’amore per se stessi trova un limite solo nell’amore esterno, nell’amore volto agli oggetti»23. Rifiutando le ipotesi avanzate da Le Bon e McDougall24, Freud cerca di spiegare il comportamento della massa a partire dal legame affettivo che si stabilisce tra i singoli individui e, nel caso delle masse organizzate (o artificiali, in primo luogo esercito e chiesa, il rosso e il nero), del legame che gli individui intrattengono con il capo. Il secondo tratto caratteristico è precisamente la figura del capo. «Una tale massa è costituita da un certo numero di individui che hanno messo un unico medesimo oggetto al posto del loro Ideale dell’Io e che pertanto si sono identificati gli uni negli altri nel proprio Io»25, in altre parole, «il singolo rinuncia all’ideale dell’Io e lo sostituisce con l’ideale collettivo incar21

22

23 24 25

Ma anche di Le Bon, Tarde, ovviamente Elias Canetti e, ancora, di Moscovici e Edelman, cfr. S. MOSCOVICI, L’age des foules, Fayard, Paris 1981; B. EDELMAN, L’homme des foules, Petite Bibliothèque Payot, Paris 1981. Dupuy fa lo stesso anche in riferimento alle riflessioni di Durkheim in merito al rapporto contraddittorio tra folla e oratore, cfr. J.-P. DUPUY, L’avenir de l’économie, cit., p. 149. S. FREUD, Massenpsychologie und Ich-Analyse. Die Zukunft einer Illusion, 1921, trad. it. Psicologia delle masse e analisi dell’io, in Opere di Sigmund Freud, a cura di C. L. Musatti, Boringhieri, Torino 1976-1980, vol. IX, pp. 257-330, (passo citato a p. 282). Ivi, p. 291. W. MCDOUGALL, The Group Mind, 1920. S. FREUD, Psicologia delle masse e analisi dell’io, cit., pp. 303-304. A questa considerazione, segue poco dopo un richiamo al precedente Totem e Tabù, «l’uomo […] è piuttosto un animale che vive in orda, un essere singolo appartenente ad

Autotrascendenza e autonomia

105

nato dal capo»26. Una breve considerazione sul tema dell’identificazione si impone: nel momento in cui si leggano affermazioni come la seguente, per cui l’individuo «tende a configurare il proprio Io alla stregua dell’Io della persona assunta come modello»27, non ci si può esimere dal ricondurre il concetto di identificazione a quello ben più efficace di imitazione. A tal proposito, pochi studi hanno fatto luce sulle ragioni teoriche per cui la psicanalisi ha ostracizzato ogni approfondimento sul potenziale euristico della mimesi28 mancando così l’occasione di percorrere la strada indicata da un saggio seminale di Eugenio Gaddini29. Per quanto, come avevano già notato Le Bon e Tarde, esistano masse senza capo, l’interesse principale di Freud è rivolto alle masse artificiali, costruite attorno e dal capo. Infine, il terzo tratto caratteristico, il fenomeno forse più straordinario: il contagio. Freud cita un passo di Le Bon in cui si dice che «in una folla, ogni sentimento, ogni atto è contagioso, e contagioso a tal punto che l’individuo sacrifica molto facilmente il suo interesse personale all’interesse collettivo. È questa un’attitudine contraria alla sua natura, e di cui l’uomo non diventa affatto capace se non allorquando fa parte di una folla»30. È proprio il contagio a dare alla massa i suoi tratti più distintivi: esagerazione dell’affettività, esacerbamento delle passioni, ciclotimia, irrazionalità. È il contagio che rende i membri della folla sempre più simili gli uni agli altri, ed è sempre il contagio a fondare la stabilità della folla e in certi casi a «galvanizzarla e totalizzarla sino al totalitarismo»31. Non già la suggestione ipnotica di cui parlava Le Bon, ma la dialettica di libido e identificazione,

26 27 28

29

30 31

un’orda guidata da un capo supremo», (p. 309), rispetto al quale il saggio del ‘21 è chiaramente strutturato come controcanto e conferma. Ivi, p. 316. Ivi, p. 294. Cfr. F. BELLOTTI, “Imitazione: una parola scomoda per la psicanalisi,” in «Aperture», n. 11/12, Mimesi. Imitazione, finzione, menzogna, Anno 2002, pp. 75-79, «La ragione di tale ostracismo per l’imitazione è ovviamente teorica, e riguarda la motivazione sulla quale la psicoanalisi fonda l’agire umano: la teoria degli istinti e i suoi rappresentanti pulsionali. Se si assegna infatti all’imitazione una struttura originaria e permanente, inevitabilmente si sostituisce la spinta pulsionale quale fondamento dei concetti di identificazione e di proiezione». E. GADDINI, “Sull’imitazione”, in «Rivista ufficiale della Società Psicoanalitica Italiana», 3, 1968, 235-260, e Id., Imitation, P.U.F., Paris 2001. Lo stesso Freud aveva in realtà intuito il potenziale della mimesi, salvo poi considerarla un disturbo dell’identificazione e scartarla, cfr. S. FREUD, Progetto di una Psicologia, 1985. G. LE BON, op. cit., p. 50. Cfr. J.-P. DUPUY, “De l’économie considérée comme théorie de la foule”, in «Stanford French Review», summer 1983, pp. 245-263, p. 248.

106

La mimesi e la traccia

desiderio e mimesi, vale a dire, il desiderio mimetico. In questo modo Dupuy, sulla scia di Girard, ottiene il primo importante risultato di ridurre una distinzione superflua nel pensiero di Freud, sostituendovi un unico principio morfogenetico. Da questa prima intuizione segue l’applicazione del modello della doppia imitazione alla soluzione di una seconda distinzione freudiana (comune agli altri teorici delle folle) che lo stesso Freud aveva già indicato come paradossale nei suoi tratti costitutivi: la distinzione tra masse artificiali e panico32. Come detto, la chiave di volta delle masse artificiali è la persona del capo, vera e propria singolarità. Il capo è, secondo Freud, l’unico elemento all’interno della folla a non aver rinunciato al proprio narcisismo, al proprio amore di sé. Tutti, nella massa, amano il capo, il quale, per parte sua, non ama nessuno all’in fuori di se stesso. La lucidità logica di Dupuy individua in questa figura la medesima struttura centrata nel non-centro che Derrida aveva formulato nella sua critica allo strutturalismo33: «la chiave di volta della massa è paradossalmente un individuo antisociale; […] il centro è al tempo stesso interno ed esterno alla struttura, la comanda benché sfugga alla strutturalità»34. Qual è la relazione tra questa tipologia di masse e il panico? Cosa succede quando la massa perde il suo conduttore e si trasforma in panico? Cosa succede ad una struttura centrata quando essa perde il suo centro? Secondo Freud il principio di coesione libidico si rompe comportando un ritorno del narcisismo e delle pulsioni egoistiche. La folla in preda al panico ha perso due dei tre tratti caratteristici delle masse artificiali, il principio di coesione e la figura del capo. Eppure lo stesso Freud riconosce che è proprio in quel momento che si realizza il fenomeno di folla con le sue proprietà più caratteristiche, le stesse che, secondo Durkheim, gli uomini attribuiscono alla divinità: esteriorità, trascendenza, imprevedibilità, inaccessibilità. In effetti, nota Dupuy, c’è ancora di più: non solo due dei 32 33

34

Vedi anche J.-P. DUPUY, La panique, cit. J. DERRIDA, “La structure, le signe et le jeu dans le discours des sciences humaines”, in Id., L’écriture et la différence, Seuil Paris 1967, trad. it. a cura di G. Pozzi, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971. In questo saggio Derrida per certi versi inaugura la stagione post-strutturalista denunciando l’intrinseca contraddizione inerente a tale concezione della struttura. Si tenga presente che tale saggio venne presentato per la prima volta in occasione del convegno “The Languages of Criticism and the Sciences of Man” organizzato a Baltimora, presso la Johns Hopkins Univeristy, proprio da René Girard tra gli altri, nell’ottobre del 1966. J.-P. DUPUY, “L’autonomie du social. De la contribution de la pensée sistémique à la théorie de la société”, Encyclopédie Philosophique Universelle, Tomo I: “L’universe philosophique”, P.U.F., Paris 1989, pp. 254-265, p. 260.

Autotrascendenza e autonomia

107

tre tratti caratteristici vengono a mancare, ma allo stesso tempo il terzo, il contagio, diventa improvvisamente inspiegabile. Dove potrebbe passare, infatti, il fluido se non attraverso i legami affettivi nel frattempo rotti? La soluzione di Dupuy si basa su un approccio sistemico alla teoria mimetica. «Bisogna rinunciare alla separazione netta tra folle spontanee e masse artificiali, tra masse anarchiche e masse costruite attorno al loro conduttore. Bisogna uscire dal paradigma del punto fisso esogeno, […] e prendere in considerazione il paradigma del punto fisso endogeno (o “comportamento proprio emergente”, o “effetto di sistema”, [Eigenbehaviour]35), prodotto dalla folla mentre questa s’immagina essere prodotta da lui»36. Vediamo nel dettaglio cosa possa significare questa tesi: l’impostazione di Freud, analogamente alle analisi della figura del narcisismo, decostruito da Girard in Menzogna romantica e verità romanzesca, parte dal presupposto che la figura del capo abbia qualità intrinseche eccezionali – che si parli di narcisismo o delle varie teorie del carisma. È una fenomenologia ingenua dei fenomeni interdividuali37 che non vede meglio degli stessi membri della massa, ai quali però Freud, così come Le Bon, concede le attenuanti degli effetti regressivi prodotti dal coinvolgimento. In altri termini, è una descrizione che riflette le dinamiche del desiderio mimetico, ma non le rivela38. L’intuizione mimetica rende questo meccanismo molto più fluido ed elementare, riducendo contestualmente il paradosso freudiano ad un semplice cambiamento di fase. La singolarità della condizione del capo non dipende dalle sue caratteristiche intrinseche, soprattutto perché esse stesse non sono in prima istanza cause ma effetti di sistema dell’interazione di massa. Il capo desidera mimeticamente esattamente come tutti gli altri membri del sistema, con la sola differenza che imitando il desiderio degli altri, ed essendo al tempo stesso l’oggetto del loro desiderio, finirà per desiderare se 35

36 37 38

Il pastiche anglo-tedesco con cui le scienze della complessità indicano il comportamento emergente di un sistema richiama alla mente la definizione weberiana dell’idealtipo dell’autorità, o dominio tradizionale formulato in Economia e società, che il sociologo tedesco riconduce alla caratteristica specifica del signore, alla sua Eigenwürde, dignità intrinseca. J.-P. DUPUY, Introduction aux sciences sociales, cit., p. 36. Vedi anche J.-P. DUPUY, “Points fixes et autoréférence”, in «Les Cahiers du CREA», n. 11, 1988, pp. 257268, segnatamente p. 266. È la nozione fondamentale della psicologia mimetica, messa a punto nel terzo libro di Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo. Cfr. W. PALAVER, René Girard’s Mimetic Theory, cit., p. 96.

108

La mimesi e la traccia

stesso. L’impressione di autosufficienza e indipendenza su cui il desiderio di tutti inciampa39 è in primo luogo un effetto del desiderio altrui; egli può dare l’impressione di non avere bisogno dell’amore altrui solo perché l’ha già conquistato. Il concetto di punto fisso endogeno si distingue dal concetto di punto fisso esogeno per la sua genesi40. Esso è un effetto e non una causa dell’organizzazione del sistema: la singolarità è prodotta dal sistema e non presiede alla sua chiusura operazionale. Soprattutto, è parte integrante del sistema anche se è percepito come esterno. In altri termini, il leader è in realtà il primo dei followers. Questa intuizione permette la definitiva soluzione della paradossale relazione tra masse artificiali e panico. Una volta compreso il meccanismo del punto fisso endogeno, chiave di volta e punto di riferimento autoemergente, Dupuy può dare conto del panico come semplice sostituzione del punto fisso endogeno: non più la persona del capo, che ha un effetto stabilizzante, ma il sistema stesso. Il rappresentante della collettività non è più il conduttore a cui si demanda ogni responsabilità, ma il movimento collettivo stesso. Siamo di fronte al meccanismo che abbiamo definito nel contesto antropologico girardiano come mimesi antagonista: il gioco di specchi che si viene a creare tra i vari individui può sia convergere su un individuo sia semplicemente su un oggetto o ancora su una direzione che emerge come meta imprescindibile del movimento collettivo. Il tratto caratteristico di instabilità del panico dipende dall’autoreferenza. «La forma del panico, tipicamente sistemica, è dunque quella di una comunicazione

39

40

La riflessione di Girard potrebbe essere presentata attraverso una panoramica dei significati del termine evangelico skandalon, uno dei quali è proprio pietra d’inciampo: è quanto tentiamo di fare in E. ANTONELLI, “La nozione di Skandalon nell’opera di René Girard”, in E. ANTONELLI, M. ROTILI (eds.), Sensibilia 2012 – Vergogna/Shame, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 37-50. Tale distinzione ricalca quella messa a punto dalla teorie «neo-cibernetiche dell’auto-organizzazione […]: è la distinzione tra due principi morfogenetici, ordine a partire dal rumore e complessità a partire dal rumore»: nella fattispecie, l’ordine a partire dal rumore corrisponde al principio del punto fisso esogeno, per cui la dinamica del sistema tende a configurarsi attorno ad un attrattore preesistente (è il caso dell’esperimento dell’ago di Buffon); la complessità a partire dal disordine invece indica quel meccanismo che stiamo qui cercando di presentare e che tende a generare attrattori attorno ai quali il sistema poi si configura, attrattori che però non preesistono alla dinamica che li ha generati (è il caso del problema matematico noto come urna di Polya, dal matematico che l’ha concepito). Cfr. J.-P. DUPUY, L’avenir de l’économie, cit., pp. 121-127.

Autotrascendenza e autonomia

109

tra elementi di una totalità attraverso l’intermediazione della totalità stessa considerata come trascendente, quando è invece un’emergenza: […] l’autotrascendenza»41. Dupuy formalizza così la capacità di tutti i gruppi in “effervescenza” di proiettarsi fuori di sé e la propensione dei medesimi a prendere per punti di riferimento esterni le proiezioni interne. La caratteristica fondamentale di questa riflessione è il fenomeno proiettivo generato dal meccanismo: un elemento indistinguibile da tutti gli altri viene proiettato nella trascendenza del sistema assumendo le caratteristiche che Derrida aveva individuato con la nozione di non-centro. L’esteriorità del capo è prodotta dall’interazione interdividuale. Come abbiamo già visto in diversi campi, è il meccanismo a generare la differenza che renderà il capo trascendente, esterno, per così dire estrinsecamente differente. Come per il caso della coquette è in effetti la posizione occupata dal capo ad essere trascendente, proiezione, effetto di sistema. La differenza è di grado e non di qualità in questo caso: la coquette può diventare il simbolo di un salotto, il capo diventa l’operatore di totalizzazione della massa, il capro espiatorio diventa il dio. Come aveva già intuito Freud, pur cadendo nella trappola tesagli dal fenomeno della proiezione, la dialettica tra la folla e la figura del capo, punto fisso endogeno, rappresenta l’archetipo di ogni formazione sociale durevole. I punti di riferimento endogeni proiettati nella trascendenza come operatori di totalizzazione del collettivo possono essere diversi, non solo capi, ma anche vittime e idee. Perché questa intuizione genetica possa essere completa, ovvero perché la massa artificiale possa essere considerata l’archetipo di ogni formazione sociale durevole, non resta che aggiungere il complemento costitutivo della traccia, ovvero il tratto stabilizzante che Derrida ha individuato a partire dall’Introduzione a Husserl. “L’origine della geometria”. Non è la vittima a stabilizzare la formazione sociale ma il suo corpo42 o la tomba, non il capo ma la statua, non l’idea ma i testi. In questo modo Dupuy fornisce una spiegazione dinamica e genetica all’intuizione già formulata da Durkheim. Il punto fisso endogeno, una volta stabilizzato sotto forma di registrazione (mnestica o segnica), diventa il simbolo mediante il quale il sociale può rappresentare se stesso. 41

42

J.-P. DUPUY, Introduction aux sciences sociales, cit., p. 37. Il problema principale del panico è che, pur essendo un sistema autotrascendente esso non è in grado di autolimitarsi, di autocontenersi. Come una valanga, esso ingloba tutto ciò che gli si pari davanti ad ostacolo. Cfr. J.-P. DUPUY, L’avenir de l’économie, cit., p. 61. A tal proposito ci permettiamo di rimandare a E. ANTONELLI, La creatività degli eventi, cit., pp. 123-174.

110

La mimesi e la traccia

4.3. Il quasi-oggetto Prendendo spunto da alcuni dei suoi maestri e dei suoi compagni di viaggio, Dupuy si è spesso esercitato nell’interpretazione di testi letterari, nei quali, condividendo in questo l’opzione metodologica di Girard, riconosce veri e propri classici delle sciences de l’homme. Il caso a cui vorremmo rifarci, per continuare la nostra riflessione, è un’analisi di alcune pièces teatrali di Corneille e Molière dalle quali Dupuy trae l’occasione per discutere e riformulare il concetto di quasi-oggetto43, il nome scelto da Michel Serres per descrivere l’operatore di sostituzione delle strutture segniche o di scambio; il quasi-oggetto deve il suo prefisso all’esigenza di descrivere al tempo stesso l’oggetto simbolico responsabile del funzionamento della struttura e la sua determinazione nella modalità della mancanza, dell’assenza. Ciascuna a proprio modo, le grandi figure dello strutturalismo e del post-strutturalismo francese erano pervenute al medesimo risultato, a partire dal «manque» di Lévi-Strauss, per arrivare a Deleuze – che parlava di «case vide», lo spazio vuoto del gioco del quindici (o Taquin) –, a Foucault – che molto opportunamente parlava di «place du Roi» –, ovviamente a Derrida – che per parte sua parlava di traccia e altrove di non-centro – e infine allo stesso Michel Serres che ne ha parlato in termini diversi, da joker, a parassita, a, precisamente, quasi-oggetto. Michel Serres è poi chiamato in causa una seconda volta, costituendo per così dire lo spunto polemico del testo di Dupuy, articolato in qualche misura come controcanto al saggio sul Dom Juan contenuto nel primo volume della serie dedicata ad Hermès44. L’avviso di Dupuy è che le caratteristiche più enigmatiche che lo strutturalismo attribuiva al quasi-oggetto siano perfettamente reperibili in una serie di pièces del grande teatro francese, da La Place Royale di Corneille, al Dom Juan di Molière. In effetti è Lacan il vero punto di riferimento polemico di Dupuy: nella fattispecie è a partire dall’idea della legge della reciprocità intesa come struttura «toujours déjà 43

44

J.-P. DUPUY, “Quasi-objet et échange symbolique. De l’Alidor de Corneille au Don Juan de Molière”, in «Les Cahiers du CREA», n. 12, dicembre 1988, pp. 11-56, ripreso in «MLN», vol. 104, n. 4, settembre 1989, pp. 757-786 e in Id., Introduction aux sciences sociales, cit., pp. 263-284. M. SERRES, “Le don de Dom Juan ou la naissance de la comédie”, in Hermès I: la communication, Minuit, Paris 1969. Oltre al saggio di Serres e quello di Dupuy a cui stiamo facendo riferimento, il dipartimento di Francese dell’Università di Stanford ha visto occuparsi di Don Juan anche Jean-Marie APOSTOLIDÈS, “L’or et le feu: une lecture du Dom Juan de Molière”, in Actes de New Orleans. Papers on French 17th Century Literature, F. Lawrence (ed.), Biblio 17, Paris, pp. 249-268, ripreso in P. Ronzeaud, Molière, Dom Juan, Klincksieck, Paris 1993.

Autotrascendenza e autonomia

111

là»45 da cui il desiderio prende piede che Dupuy si confronta con lo strutturalismo, allo stesso tempo accogliendone e rovesciandone la tesi. Lo sforzo di Dupuy è volto a formalizzare il contributo genetico offerto dalla teoria del meccanismo vittimario di Girard, in modo da uscire dalla temporalità asfittica del toujours déjà là strutturalista e mettere in luce le dinamiche che presiedono alla genesi e al crollo di queste medesime strutture. Corneille, assistendo allo sfaldamento della civiltà cavalleresca in cui si muoverà a suo modo il Don Juan di Molière46, si dedica ad un esercizio scientifico, un vero e proprio «esperimento mentale»47, offrendo a Dupuy l’opportunità di scorgere dietro alla fenomenologia del quasi-oggetto i meccanismi rigorosi del desiderio umano. Per esempio, Alidor, dalla Place Royale, è un esperimento del desiderio liberato nel vuoto sociale; riuscire a decifrarne il comportamento renderà più facile comprendere quello di Don Juan. A proposito di quest’ultimo, Claudio Risé fa notare che egli «anticipa e personifica le spinte di violenza che si sarebbero verificate […] nel Settecento [e] annuncia l’imminente fascinazione, anche culturale e di costume, per la mistica sadica schiavo-padrone, che avrebbe fatto, nel secolo successivo, da sottofondo alla retorica rivoluzionaria di liberté, egalité, fraternité»48. Altri autori hanno intravisto nella trama del Don Giovanni non solo un cambiamento della costituzione economica o politica di riferimento, ma addirittura della costellazione metafisica49. Non può stupire che Dupuy abbia trovato in questa sequenza di testi teatrali un’occasione per mettere alla prova le proprie riflessioni. Alidor cede Angélique all’amico; pare una rinuncia spontanea all’oggetto del proprio desiderio, un atto di generosità. Come Risé per Don Giovanni, Doubrovsky50 ritiene che nel caso di Alidor, secondo un’interpretazione hegelo-sartriana, si possa avere a che fare con un “progetto di dominio” offuscato dalla malafede. Una ricerca dell’autonomia, del trionfo sulla natura: Alidor, l’eroe della volontà e della ragione contro la schiavitù delle passioni. Una tale interpretazione regge solo fintanto che si legga

45 46

47 48 49 50

J.-P. DUPUY, Introduction aux sciences sociales, cit., p. 263. C. RISÉ, Don Giovanni, l’ingannatore, Frassinelli-Sperling & Kupfer, Milano 2006, pp. 61 e sgg., cit. in T. VANNUCCI, “Il mito di Don Juan in Ortega y Gasset: Simbolo di Rinascita dalla crisi della società moderna”, in «Metabasis. Filosofia e comunicazione», vol. 1, n. 2, pp. 1-15, 2006, p. 5. J.-P. DUPUY, Introduction aux sciences sociales, cit., p. 263. C. RISÉ, Don Giovanni, l’ingannatore, cit., p. 62. Cfr. T. VANNUCCI, “Il mito di Don Juan in Ortega y Gasset”, cit., p. 5. S. DOUBROVSKY, Corneille et la dialectique du héros, Gallimard, Paris 1963, p. 78.

112

La mimesi e la traccia

«nel discorso del desiderio la verità del desiderio»51; altra cosa è andare a decostruire questo discorso, svelare ciò che esso riflette. Alidor soffre di una patologia del desiderio: immagina di sentirsi soffocare dalla fedeltà all’amore per Angélique, ma in realtà soffre per la mancanza di ostacoli, soffre perché si muove nel vuoto. Le commedie di Corneille mettono in scena una fenomenologia del desiderio svincolato nella quale Dupuy ritrova i medesimi meccanismi e le proprietà di ciò che le sciences de l’homme ascrivevano alle dinamiche del quasi-oggetto. i. Il desiderio svincolato La proposizione fondamentale dell’esercizio ermeneutico di Dupuy è la seguente: «in regime di desiderio svincolato, la reciprocità è impossibile»52. Il desiderio, infatti, nel momento in cui si prenda in considerazione la teoria mimetica nella sua formalizzazione già considerata, non può che generare dinamiche di polarizzazione. Se A desidera B, B non potrà che desiderare B; è la logica della doppia imitazione che abbiamo visto generare l’effetto dello pseudo-narcisismo. Il dettaglio fondamentale in questa riflessione è naturalmente la premessa. Nel contesto di mediazione interna, il desiderio svincolato da ogni configurazione strutturale che lo possa guidare, tende inesorabilmente a convergere su punti fissi endogeni. Nel caso della Place Royale, nel momento stesso in cui Angélique (A) si concede ad Alidor, quest’ultimo (B) perde ogni interesse in lei. Alidor non ha progetti di dominio sulla natura, non è una figura prometeica, non desidera altro che desiderare ma trovandosi nella posizione narcisistica finisce per essere insoddisfatto. In questo mostra di essere ben al di là della logica sadica del servopadrone che, in quanto tale, non è altro che una delle tante configurazioni possibili della doppia-mediazione, ovvero un trappola del desiderio svincolato. «Il gioco del desiderio è una guerra nella quale l’obiettivo è far coincidere con se stessi il punto focale di convergenza dei desideri. Tutto accade come se esistesse un oggetto fittizio (chiamiamolo “quasi-oggetto”) del quale ci si contendesse il possesso»53. Possedere questo oggetto significa mettersi nelle condizioni di approfittare delle dinamiche auto-rinforzanti del meccanismo mimetico. Nota Dupuy che il nome “quasi-oggetto” non fa che alludere a ciò che altre 51 52 53

J.-P. DUPUY, Introduction aux sciences sociales, cit., p. 264. Ivi, p. 265. Ivi, p. 266.

Autotrascendenza e autonomia

113

culture hanno chiamato kudos (i greci, i quali non a caso ne facevano la manifestazione di una grazia divina), piuttosto che mana (i polinesiani), o hau (i neo-zelandesi di Mauss). I romani, e con loro anche l’Occidente, parlavano di prestigio. Dupuy ritrova in Corneille una doppia intuizione. In primo luogo la constatazione della tendenza diffusa se non universale a reificare e considerare in termini oggettuali una caratteristica delle relazioni interdividuali; la seconda è l’intuizione che il valore del quasi-oggetto dipende in modo determinante dalle condizioni di possesso. Possedere il quasi-oggetto equivale infatti a farne svanire, ai propri occhi ovviamente, la desiderabilità. È per questo d’altronde che solo gli dei greci potevano conservare il kudos in permanenza. Agli uomini, come ad Alidor, è concesso di partecipare solo occasionalmente all’andirivieni del desiderio e del riconoscimento. Gli dei infatti sono una proiezione di coloro che guardano al modello, ma colui che riesca a trovarsi in possesso del quasi-oggetto presto si rende conto che esso non è niente. ii. La circolazione e lo scambio La soluzione di Alidor alle dinamiche polarizzanti del desiderio svincolato è di far circolare il quasi-oggetto (in questo caso Angélique), tra sé e l’amico, per tenere vivo il proprio desiderio e allo stesso tempo goderne. Ne La Place Royale assistiamo così alle vicende del proteiforme desiderio svincolato e all’impossibilità della reciprocità e quindi dello stesso scambio che gli strutturalisti postulavano come struttura trascendentale e categoria a priori dell’intelletto umano. Non è questo il caso, ma ciò non toglie che la reciprocità possa darsi. L’analisi trascendentale deve quindi rivolgersi alle condizioni di possibilità di tale tipologia di interazione. Corneille mostra, grazie al suo esperimento mentale, quali siano le dinamiche del meccanismo mimetico svincolato nel vuoto sociale dello sfaldamento delle coordinate della società cavalleresca. In altri testi, non a caso nelle commedie, Corneille mette in scena l’azione della trascendenza o della gerarchia sociale, mediante l’intervento di figure genitoriali rispettate. Solo all’interno di una struttura sociale ben definita si può dare la reciprocità positiva dello scambio. «Ogni scambio reciproco si fa sotto la protezione di una trascendenza “verticale”, che designa la subordinazione individuale rispetto ad una totalità sociale»54. Riprendendo la formalizzazione elementare già utilizzata, l’unico modo per cui si possa dare reciprocità è che questa sia per così dire nascosta dalla mediazione. In tal caso 54

Ivi, p. 267.

114

La mimesi e la traccia

avremo allora che A ama B grazie alla mediazione di C e B ama A grazie alla mediazione di C o qualsiasi altra lettera. La trascendenza verticale è però a sua volta il frutto della reificazione e dell’iscrizione in una traccia, ovvero della sedimentazione, delle relazioni interdividuali generate dal meccanismo mimetico. Solo all’interno di una struttura sociale consolidata si può dare la circolazione e lo scambio reciproco. Non può stupire che da queste indagini emerga con evidenza l’essenziale ambivalenza del desiderio. È dalla sedimentazione e dall’iscrizione dei risultati di interazioni mimetiche che si possono generare trascendenze verticali, quali per esempio il consolidamento della figura del leader, o del padrone, o ancora del dio – e ovviamente del padre. Sono però le stesse dinamiche del desiderio a presiedere allo sfaldamento delle strutture sociali. Nel momento in cui se ne percepisca la contingenza, ovvero nel momento stesso in cui una differenza mostri in trasparenza il proprio contenuto di arbitrio, sarà la dinamica autorinforzante ma in questo caso distruttiva del desiderio mimetico a portarne a termine la corrosione. Nel suo esperimento, Molière mette in scena l’opera di demistificazione e demolizione delle trascendenze, religiose e sociali, operata da un Don Juan spinto dall’esacerbamento del desiderio metafisico. Come detto in precedenza, ogni desiderio è desiderio d’essere, ovvero innanzitutto ed essenzialmente desiderio di autonomia e pienezza. L’ossessione di Don Juan, in cui la tradizione ha da sempre visto la tensione verso la trascendenza pervertita in una ricerca del cattivo infinito matematico (mille e tre solo in Ispagna), non è altro che la ricerca di un quasioggetto soddisfacente55. Dupuy interpreta la vicenda di Don Juan come la ricerca di «una totalità chiusa ed autonoma che lo esclude, in quanto lo esclude»56, ovvero di un quasi-oggetto che non perda valore nel momento in cui lo possiede. La tragedia di questa ricerca è che la natura stessa del quasi-oggetto è al tempo stesso incompleta, perché frutto di una proiezione (si pensi sempre allo pseudo-narcisismo, ovvero all’aura posizionale prodotta dalla convergenza mimetica), e eminentemente arbitraria. Se il 55

56

La stessa per altro a cui si dedicano tutti i personaggi dei testi analizzati da Girard, anche quelli impropriamente considerati masochisti, come potrebbe sembrare lo stesso Alidor e, perché no?, il nipotino di Freud, reso immortale dalla scena del fort/da, oltre ovviamente all’Eterno marito dell’omonimo racconto di Dostoevskij, cfr. R. GIRARD, Dostoevskij du double à l’unité, Plon, Paris 1963; trad. it. a cura di R. Rossi, Dostoevskij dal doppio all’unità, SE Studio Editoriale, Milano 1987. J.-P. DUPUY, Introduction aux sciences sociales, cit., p. 271.

Autotrascendenza e autonomia

115

quasi-oggetto può costituire un succedaneo del prestigio, è in prima istanza perché ne contiene il medesimo quantitativo di arbitrio. L’unico codice sociale che Don Juan non cerchi sistematicamente di decostruire o demistificare è il codice dell’onore a cui spontaneamente si adegua, salvando Don Carlos dall’aggressione. Il conflitto, il duello, la reciprocità negativa, nel risultato del quale il codice d’onore vede una debole57 stabilizzazione delle dinamiche del desiderio, offre una parvenza di struttura fondata sulla differenza tra vincitore e vinto, ma, come la meritocrazia su cui si fonda l’ideologia borghese ancora oggi in voga, non fa che svelare e demistificare l’illegittimità delle strutture sociali tradizionali per proporne una fondata sulla medesima arbitrarietà, meno stabile e più conflittuale, ma per certi versi più trasparente. iii. Convergenze Torniamo per un attimo a riflettere sulla costituzione del quasi-oggetto in trascendenza. Come dichiarato in precedenza, il concetto di quasi-oggetto è stato formulato da Michel Serres, il quale ne fa grande uso anche nel già ampiamente commentato Roma. Il libro delle fondazioni. Concordemente, almeno per quanto ci interessa, la tesi di Dupuy si appoggia sull’interpretazione di Serres del quasi-oggetto come sedimentazione e reificazione delle relazioni interdividuali. A questa considerazione Dupuy aggiunge un’osservazione che ambisce a fare del quasi-oggetto una nozione universale. In questi termini, essa supera per chiarezza e fertilità l’interpretazione superficialmente riduttivistica che Lévi-Strauss aveva fornito della nozione di mana nell’introduzione all’opera di Marcel Mauss58. Secondo il padre dello strutturalismo il significato di mana andrebbe tradotto con machin, truc, ovvero andrebbe liberato di ogni misterioso riferimento al sacro per farne invece una mancanza di determinazione del linguaggio; e di precisione degli studiosi aggiunge per parte sua

57

58

Come ci ricorda Benjamin, «l’onore è, secondo la definizione di Hegel, “l’assolutamente violabile”», cfr. W. BENJAMIN, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Rowohlt, Berlin 1928, trad. it. di Flavio Cuniberto, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, p. 62. La citazione hegeliana è tratta da G.W.F. HEGEL, Werke, vol. II, Vorlesungen über di Ästhetik, H.G. Hotho (ed.), Berlin 1837, p. 176, trad. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Estetica, Feltrinelli, Milano 1963, p. 739. C. LÉVI-STRAUSS, Introduction à l’oeuvre de M. Mauss, in M. MAUSS, Sociologie et anthropologie, P.U.F., Paris 1950, p. XLIV.

116

La mimesi e la traccia

Giorgio Agamben59. L’interpretazione di matrice mimetica invece chiarisce non solo la nozione maussiana ma anche la confusione introdotta da Lévi-Strauss. Mana esattamente come truc e il generico cosa italiano non fa che mostrare con la propria indeterminazione la totale indifferenza all’essenza dell’oggetto che si presta ad essere l’involucro, supporto, supplemento, della reificazione delle relazioni umane. Che si tratti dello scettro di Agamennone, di un machin, di un truc o di una cosa qualsiasi, il mana non è altro che l’indicazione della presenza negletta da LéviStrauss ma non da Mauss, del sacro, ovvero dell’effetto di convergenza mimetica. Il sacro si fissa sulle cose, per contagio, ma nessuna di queste cose è di per sé più rilevante di un truc qualsiasi60. È per veicolare, per tradurre tale indeterminazione, che il linguaggio è dunque, a sua volta, precisamente indeterminato. Questa medesima intuizione è alla base di un’estensione ulteriore del ragionamento, inaugurata da Michel Serres. Una volta osservato il fatto che il quasi-oggetto non è altro che la reificazione in un involucro qualsiasi – che nella misura in cui ogni oggetto è innanzitutto una raccolta di iscrizioni, ha le fattezze generali della traccia – della convergenza mimetica, possiamo renderci conto della relazione biunivoca che lega il collettivo, all’interno della quale si scatena il meccanismo mimetico, e l’oggetto. Così Serres: «Non può esistere un collettivo umano senza oggetto. Non c’è oggetto senza collettivo, non c’è collettivo senza oggetto»61. Grazie alle riflessioni di Dupuy, la prima proposizione è ormai evidente. L’oggetto, involucro della reificazione dell’interazione mimetica, stabilizza la molteplicità umana, la turba, e costituisce il collettivo. Leggiamo una lunga citazione da Serres:

59 60

61

G. AGAMBEN, Il sacramento del linguaggio, cit., p. 21. La stessa sensibilità all’indifferenza e indeterminazione dell’essenza ontologica del quasi-oggetto può essere ritrovata nell’interpretazione mimetica del Decimo comandamento. Laddove si legge: «Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo» (Dt 5, 21), Girard vede la scaturigine dell’intuizione mimetica. L’autore inizia ad elencare le cose più vicine, che più facilmente possono diventare skandalon, oggetto di rivalità tra i vicini, salvo rendersi conto che nessun elenco può essere esaustivo perché la mimesi, essendo una questione relazionale (ricordiamo la tesi fondamentale della teoria mimetica per cui «ogni desiderio è desiderio d’essere»), può andare a fissarsi su qualsiasi cosa, su qualsiasi truc. M. SERRES, Roma. Il libro delle fondazioni, cit., p. 110.

Autotrascendenza e autonomia

117

Il quasi-oggetto risolve il problema della totalità senza sommatoria: non è attraverso la loro somma che i Padri producono il Senato o l’insieme dei Padri. A farlo è la traccia di sangue sul rovescio della loro toga. Il corpo del re [...] è un elemento tracciante, fa vedere il reticolo delle relazioni che non si possono osservare nella scatola nera. Ora, colui che è stato scoperto può vedere tutti i suoi quasi-gemelli avventarsi su di lui per accusarlo o linciarlo; sarà dunque gettato sotto di loro, soggetto, Cesare, Cesare al Senato, sotto i Padri congiurati. Il quasi-oggetto, partizione totalizzatrice, o elemento tracciante, è un integratore. [...] Esso è la condizione primaria che fa nascere una forma elementare di società. Questa condizione non è da ricercare in un contratto che preceda la storia. Non è contenuta in un concetto astratto né in una volontà generale, della quale non si è mai saputo di chi fosse la volontà. Non è né in una idea né in una persona, in un essere o in un soggetto, in uno scritto o in uno stato a monte. È in un oggetto. [...] Quel quasi-oggetto è un incisore di relazioni; senza di lui le relazioni svaniscono e si perdono. Fluttuano nell’immediato.62

Serres non sviluppa la possibile estensione del concetto di scrittura e decide invece di parlare di incisione, ma ovviamente l’oggetto non è altro che una somma di scritture; inoltre nota che senza quell’incisione «le relazioni svaniscono e si perdono», esattamente come gli oggetti sociali. Non può esistere un collettivo, stabile senza un oggetto che concentri le caratteristiche del quasi-oggetto, ovvero si ponga a registrazione della convergenza intenzionale generata dalla mimesi. A differenza di Ferraris però, Serres ha ben chiaro che all’inizio non c’è un contratto, un documento da firmare. Per tornare sui temi affrontati nel secondo capitolo, il quasi-oggetto di Serres («ho denominato quasi-oggetto ciò che circola in seno a un gruppo e, attraverso la propria circolazione, lo istituisce. […] Il collettivo non arriva a prendere forma senza che attraverso di lui circoli quell’elemento che ho denominato un quasi-oggetto, il pallone nella squadra, il calumet della pace tra i nemici pervenuti allo stremo all’accordo, la coppa comune nei festini in cui si beve, nelle cene di concordia, o gli spiccioli al mercato. È necessaria questa circolazione perché il multiplo, sparpagliato, si formi in collettivo»63) non fa che porsi a punto fisso delle convergenze intenzionali dettate dalla mimesi: così si può riempire quel concetto vuoto che è l’intenzionalità collettiva (cfr. 2.2). La relazione di dipendenza individuata da Serres, per cui «il quasi-oggetto è una condizione primaria che fa nascere una forma elementare di società […]; senza di lui le relazioni svaniscono e si perdono», può essere 62 63

Ivi, p. 111, corsivi nostri. Ibidem, corsivo nostro.

118

La mimesi e la traccia

rovesciata rimanendo valida. Se non può esistere un collettivo – che non fluttui nell’immediato – senza oggetto a porsi come reificazione e trascendenza, ovvero a garantire quella struttura verticale all’interno della quale può instaurarsi una relazione di reciprocità positiva, di scambio, Serres intuisce che non può esistere un oggetto senza collettivo. Questa proposizione vale come fondamento di una teoria della conoscenza (e non di un’ontologia!) che non sia una «vana utopia»; «non ho mai, da solo, rapporto con un oggetto. La mia attenzione, la mia percezione, la mia conoscenza sono immerse in un insieme sociale e culturale. Una teoria del conoscere in cui il soggetto, monade, ha relazione a un oggetto, passivo o attivo, è una vana utopia. L’oggetto si costituisce dentro e mediante le relazioni del gruppo»64. Lo sforzo teoretico di Serres è ancora più ambizioso: scrivendo in tempi di strutturalismo imperante, Serres partecipa al progetto diffuso, anche nella cibernetica, di formulare una filosofia trascendentale senza soggetto trascendentale. Non solo la fondazione della filosofia non deve essere cercata nel soggetto trascendentale, arretrandola, per così dire, nel linguaggio, come proponevano gli strutturalisti. Come Dupuy e prima di lui, Serres cerca di fare un passo ulteriore e liberarsi di questa idea di una struttura toujours déjà là, per intuirne invece la genesi: «il soggetto, di per sé, solo, non è alle fondamenta della conoscenza, e il trascendentale non è in lui. La conoscenza non è nulla senza un collettivo che la fondi. Il collettivo non è niente senza la circolazione del quasi-oggetto»65. Ricapitolando, se il collettivo non può esistere senza un oggetto che ne stabilizzi le relazioni fluttuanti e in qualche misura ne costituisca la temporalità di riferimento – «[l’oggetto] è la condizione, la fondazione del gruppo; è come il fondo del suo tempo primo»66 –, al tempo stesso l’oggetto non può essere oggetto né di conoscenza né di percezione senza un collettivo di riferimento. È questo il passaggio fondamentale per sostenere il seguito del nostro ragionamento. A partire dall’intuizione di Serres, possiamo provare ad estendere l’analisi. Abbiamo visto che l’imitazione, qualora dia luogo a situazioni di doppia-mediazione si vede riconosciuta da autori come Girard e Dupuy uno

64 65 66

Ivi, p. 108. Ivi, p. 110. Ivi, p. 112.

Autotrascendenza e autonomia

119

straordinario potere morfogenetico67. Visti i malintesi che questo tipo di formulazioni dal sapore costruttivista riescono a generare in certi interpreti scarsamente dotati di carità ermeneutica, è bene chiarire immediatamente l’ambivalenza di questo potere. Ritorniamo alla vicenda di Julien Sorel: nel suo caso è ovvio che non si tratti di una costituzione dell’oggetto “Julien Sorel”, in carne ed ossa. Nessun autore della galassia mimetica potrebbe mai sostenere niente del genere (ma qualcuno ha mai davvero sostenuto che «non ci sono gatti, solo interpretazioni»?). In prima istanza quindi, la doppia-mediazione non crea la persona fisica di Julien Sorel, ma costituisce l’oggetto di interesse: la doppia-mediazione costituisce il polo intenzionale Julien Sorel. Nel caso del confine, invece, la linea tracciata è frutto e prodotto della convergenza mimetica, nel senso di un testualismo forte. Prendendo spunto da un testo di Freud, Un disturbo della memoria sull’Acropoli68 e sulla scia dell’intuizione di Serres, potremmo estendere la portata di questa tesi. In questo breve scritto Freud racconta a Romain Rolland una serie di strani episodi occorsigli durante un viaggio di piacere tra Corfù e Atene. Dopo una serie di peripezie giunge, accompagnato dal fratello minore, all’Acropoli. Il nucleo della lettera è la descrizione della «sensazione di “estraniamento” (Entfremdungsgefühl)»69 vissuta da Freud in cima all’Acropoli, il quale racconta di aver pensato: “Ciò che vedo qui non è reale”. La conclusione della riflessione condotta da Freud a partire dal pensiero ricorrente in merito a quella sensazione è del massimo interesse per i nostri ragionamenti. Al termine del breve scritto, Freud giunge a considerare l’ipotesi che il disagio generatogli da tale esperienza possa essere ascritto ad un senso di colpa prodotto da un processo inconscio ai limiti culturali paterni. Freud ammette che la modesta formazione del padre non gli avrebbe mai permesso di apprezzare la magnificenza dell’Acropoli. «Dev’essere che un 67

68 69

J.-P. DUPUY, Ethique et philosophie de l’action, Ellipses, Paris 1999, p. 242: «L’imitation généralisée a le pouvoir de créer des mondes parfaitement déconnectés du réel: à la fois ordonnés, stables, et totalement illusoires. C’est cette capacité “mythopoiétique” qui la rend si fascinante». Dupuy, referenzialista anch’egli, postula così che esista un réel autonomo e indipendente che faccia da sfondo alle creazioni della mimesi. Riprendendo la distinzione tra testualismo debole e testualismo forte formulata in 2.3 questo vale per il mondo indagato dalle scienze dure, ma non vale più per il mondo oggetto delle scienze sociali. S. FREUD, “Un disturbo della memoria sull’Acropoli” (1936), in «Rivista di Psicoanalisi», 12, 1966, pp. 61-67. Ivi, p. 65.

120

La mimesi e la traccia

senso di colpa era legato alla soddisfazione di aver fatto tanta strada: c’era qualcosa di sbagliato in tutto ciò, qualcosa che era proibito già fin dai tempi più remoti, qualcosa che aveva a che fare con una critica del bambino nei riguardi del padre, con la svalutazione che si era sostituita alla ipervalutazione della prima infanzia. Sembra che l’essenza del successo sia il superare il proprio padre, come se l’eccellere nei riguardi di questi sia ancora cosa proibita»70. Freud aggiunge ancora un dettaglio alla sua ricostruzione del disagio provato in occasione di quel viaggio, riconducendolo infine ad un senso di pietà nei confronti di un padre che non avrebbe potuto «fare tanta strada». Il dettaglio su cui vogliamo concentrarci71 è la sensazione di derealizzazione con cui emerge in prima istanza il conflitto con l’ideale dell’Io: a Freud pare impossibile vedere l’Acropoli, pur avendola lì, davanti a sé. In qualche misura, se l’analogia è corretta, si potrebbe leggere in questa riflessione – molto importante per l’autore dal momento che fu stesa nel 1936, quando Freud aveva ormai ottant’anni, ben trentadue anni dopo i fatti narrati – una conferma ed una preziosa estensione del ragionamento inaugurato con il commento a Michel Serres. Freud non può vedere ciò che il padre non ha visto. È abbastanza evidente che questo senso di derealizzazione corrisponde in tutto e per tutto al surrealismo delle avventure di Don Chisciotte, capace per parte sua, ma secondo le stesse dinamiche mimetiche, di scambiare i proverbiali mulini per giganti72. Per quanto banale possa sembrare da punto di vista logico, se «ciò che non è a misura di padre non esiste»73, allora solo ciò che è a misura di padre, o di modello, esiste. iv. Mimesi, traccia e genesi Abbiamo visto che alla convergenza intenzionale mimetica definita nel paragrafo precedente può essere ascritta non solo la creazione di poli d’interesse – come nel caso esemplificato dalla figura di Julien Sorel – ma, nel campo dell’ontologia sociale, anche la creazione, mediante registrazione 70 71 72 73

Ivi, p. 66. È evidente infatti l’aspetto di elementare competizione mimetica e il conseguente senso di delusione per cui superare il padre, l’essenza del successo, più che una cosa proibita, risulta alla fine una cosa superflua. W. Palaver presentando la nozione di “trasformazione metafisica dell’oggetto”, chiama in causa la nozione marxiana di feticismo delle merci, cfr. W. PALAVER, René Girard’s Mimetic Theory, cit., p. 125. Devo questa formula al tempo stesso suggestiva ed efficace ad una conversazione privata con Alessandra DIAZZI.

Autotrascendenza e autonomia

121

dell’emergente, di oggetti sociali come il pomoerium. Serres estende, anche se solo a livello per così dire di dichiarazione, la portata e l’effettività della convergenza mimetica anche al campo dell’epistemologia: non si può dare conoscenza di alcunché al soggetto isolato. Riferendoci al testo di Freud abbiamo potuto formulare una tesi analoga: ciò che non è indicato dal padre, anche solo mediante iscrizione, non esiste, nel senso che non è percepibile se non accompagnato da una sensazione di derealizzazione. Analogamente, come ci ha mostrato Cervantes, almeno in certi casi di particolare sensibilità agli effetti della mimesi, qualsiasi cosa esista ci si dà in una percezione che è sempre mediata. Per apprezzare a fondo la potenzialità di questa intuizione è necessario fare una deviazione e tornare all’origine della questione della registrazione e della traccia, ovvero al tentativo condotto da Derrida di risolvere in Husserl il medesimo problema che Girard, Serres e Dupuy si sono posti in merito allo strutturalismo, ovvero il problema della relazione tra genesi e struttura74. L’aporia fondamentale a cui neanche Derrida riesce in ultima istanza a sottrarsi resta quella della dialettica inesauribile tra il ruolo fondamentale accordato da Husserl a sintesi passiva e sintesi attiva. Per dirlo con le parole di Derrida, Husserl «era costretto […] a lasciare che si scoprisse una intenzionalità concreta, ma non empirica, una “esperienza trascendentale” che fosse “costituente”, vale a dire nello stesso tempo, come ogni intenzionalità, produttrice e rivelativa, attiva e passiva»75. Accordare un tale ruolo alla sintesi passiva significa riconoscere che la coscienza non costituisce né crea (sempre) il suo oggetto, ma riceve e svela un déjà là, già sempre costituito, la cui genesi ovviamente rimane aporetica. Alla scaturigine di questa inesauribile dialettica, Derrida – che accusa Husserl di rifiutarla semplicemente come tale76 – ritrova il principio dei principi della fenomenologia, ovvero l’evidenza e la presenza della cosa stessa in persona, secondo lui, eminentemente metafisico77. Questo nodo problematico resta presente alla mente di Derrida per tutta la vita, dando in effetti lo slancio principale alla decostruzione, in prima istanza intesa pro74

75 76 77

A cui Derrida ha dedicato sin dal Mémoire, Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, cit., le sue ininterrotte attenzioni, così come il saggio J. DERRIDA, “«Genèse et structure» et la phénomènologie” (1959), in Gandillac, L. Glomann, J. Piaget (eds.), Genèse et structure, Mouton, Paris 1964, trad. it. di G. Pozzi, “«Genesi e struttura» e la fenomenologia”, in Id., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 19713, pp. 199-218. J. DERRIDA, “«Genesi e struttura» e la fenomenologia”, cit., p. 204. Ivi, p. 199. Ivi, p. 212.

122

La mimesi e la traccia

prio come decostruzione dell’origine. L’origine non può essere presente, né mondana, né a tutti gli effetti può in alcun modo esistere: per usare un linguaggio che Derrida adotta da Lévinas, l’origine è e non può che essere completamente altra78. Essa, per essere trascendentale non può essere mondana, esistente; allo stesso tempo deve tuttavia darsi in qualche modo. Non può in alcun modo apparire in quanto tale eppure deve apparire in qualche modo. A questo paradosso, Derrida troverà in seguito la risposta da cui a ben vedere siamo partiti: l’origine non può darsi che nella forma della traccia, del rimando ad una presenza nell’assenza, e viceversa, ad un’assenza nella presenza. Questo tentativo di andare al cuore della questione derridiana era necessario per mettere in prospettiva un problema a cui sia lo stesso Derrida sia gli allievi che in questo lavoro abbiamo deciso di prendere in considerazione, finiscono per dare una risposta naturalista (mai per altro chiaramente esplicita): ovvero, in buona sostanza, quale possa essere la spiegazione della facoltà che permette alla coscienza di ricevere la traccia in quanto dispositivo differenziale eminentemente non naturale. Ferraris, l’unico ad esprimersi chiaramente al proposito79, propone una lettura naturalista fondata sulle ricerche di Stanislas Dehaene80. Il problema qui non è contestare i risultati di Dehaene, ma metterli in prospettiva con la tipologia di spiegazione fornita, ovvero il problema di ogni naturalismo. Inoltre, come mette bene in evidenza Boris Cyrulnik81, per quanto le nostre potenzialità percettive determinino i limiti della nostra esperienza, esse non bastano a spiegarla. Come dire che se Husserl partiva dall’assunto82 che il fatto che percepiamo ciò che percepiamo non può essere sottoposto a dubbio, resta però un mistero il fatto stesso che percepiamo ciò che percepiamo.

78 79 80 81

82

Cfr. L. LAWLOR, Derrida and Husserl: The Basic Problem of Phenomenology, Indiana U.P., Bloomington, IN 2002, p. 22. Per quanto valga, Bernard Stiegler ha riconosciuto il problema nel corso di una conversazione privata. Cfr. S. DEHAENE, Les neurones de la lecture, Odile Jacob, Paris 2007; M. FERRARIS, Documentalità, cit., pp. 224-225. Così si esprime Boris CYRULNIK nell’intervista inclusa nel numero hors-série dedicato dalla rivista Philosophie Magazine a René Girard, nel novembre 2011 (p. 15), confermando le tesi formulate al convegno organizzato dall’Association Recherches Mimétiques, «Théorie mimétique et neurones-miroirs: les neurosciences au service de la psychiatrie», tenutosi nell’ottobre 2007 presso l’Hôpital Américain de Neuilly. Cfr. V. COSTA, Husserl, Carocci, Milano 2009, p. 26.

Autotrascendenza e autonomia

123

L’oggetto saliente o preferenziale del nostro interesse è naturalmente inserito all’interno della regione di possibilità della nostra esperienza, ma esso non diverrà polo intenzionale che una volta inserito in una trama di rimandi intersoggettivi. La traccia insomma, anche solo a livello dell’apprendimento della lettura, non potrebbe essere percepita nell’isolamento, a prescindere dal ruolo dei neuroni della lettura che ne rendono effettivamente possibile la percezione. Trattandosi di capire al tempo stesso come sia possibile spiegare l’accesso del singolo soggetto alla scrittura e dell’umanità alla traccia e avendo visto quale singolare ambivalenza caratterizzi l’imitazione, possiamo quindi formulare la tesi seguente. Ammesso che l’intenzionalità possa essere condotta e guidata dalla mimesi, ovvero che per così dire essa sia strabica, cioè già sempre coinvolta in un rimando interdividuale, possiamo vedere a che punto un’intenzionalità mimetica possa realizzare la pretesa di Husserl ed essere «nello stesso tempo, produttrice e rivelativa, attiva e passiva». Un’intenzionalità mimetica fornisce la possibilità di intendere in modo coerente con la fenomenologia il senso di una sintesi allo stesso tempo passiva e attiva, tenendo in conto anche il ruolo di quello che Derrida chiama traccia e Bernard Stiegler – a cui ci dedicheremo nel prossimo capitolo – chiama déjà là. In poche parole, in quella che Derrida chiama «una soggettività in generale: in generale, ma concreta»83 possiamo ritrovare ciò che Serres chiama il collettivo, ovvero l’alternativa al soggetto isolato per una filosofia trascendentale senza soggettività. Un’intenzionalità mimetica è per così dire una tensione che unisce non due ma tre poli, uno dei quali è occupato dall’oggetto già costituito, dal déjà là, apparentemente pronto ad offrirsi alla sintesi passiva, ma la cui costituzione è invece frutto della sintesi attiva dell’altro, e viceversa. Per Valenod, Julien Sorel è un déjà là, la cui costituzione è attribuita a de Rênal, e (ma!) viceversa; per i persecutori della vittima linciata, il polo emergente è già da sempre autoevidente, perché indicato dagli occhi dell’altro. L’origine è presente solo nell’assenza, detto altrimenti si dà solo come traccia di un passato che non è mai stato presente. Come si è già avuto modo di riferire, «l’imitazione generalizzata produce qualcosa piuttosto che niente»84, l’origine insomma, non è tanto completamente altra quanto nella relazione con l’altro. 83

84

J. DERRIDA, La scrittura e la differenza, cit., p. 204, «Husserl vuole conservare nello stesso tempo l’autonomia normativa dell’idealità logica o matematica nei confronti di ogni coscienza fattuale e la sua dipendenza originiaria di una soggettività in generale: in generale, ma concreta». J.-P. DUPUY, Intersubjectivity and Embodiment, cit., p. 17.

124

La mimesi e la traccia

Da un lato l’imitazione è la facoltà che presiede all’apprendimento, per cui, un po’ come nel testo di Freud, solo ciò che è mostrato dal modello può essere visto e percepito come reale (si potrebbero considerare in tal senso anche le riflessioni di Proust sull’incapacità del piccolo Marcel di apprezzare qualcosa che non fosse già stato criticato – e quindi contestualmente indicato – da parte di Bergotte), dall’altra essa presiede, attraverso il fenomeno della doppia mediazione alla creazione dell’oggetto stesso. Il tratto più interessante di questa ipotesi è la sua versatilità euristica: la tesi dell’intenzionalità mimetica permette di fornire una spiegazione coerente e interna alle pretese fenomenologiche senza cadere in naturalismi di sorta e si presta a risolvere le aporie che Derrida aveva finito per ritrovare al termine delle proprie riflessioni sull’origine. La teoria del meccanismo vittimario permette, segnatamente per quanto riguarda l’ipotesi del significante trascendentale formulata da Girard in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo85, di dare un senso meno oscuro alle considerazioni di Derrida. La traccia, per esempio nel caso della tomba, è effettivamente e realmente un «passato che non è mai stato presente»: nella matrice temporale generata dal meccanismo mimetico-vittimario si vede che il corpo della vittima, il significante trascendentale secondo Girard, è un passato che non è mai stato presente nel senso che il corpo della vittima per così dire è della vittima solo una volta che da corpo vivo è stato ridotto a cadavere. Prima che la procedura autoreferenziale della mimesi dell’antagonista, ovvero della convergenza mimetica, generi l’effetto di sistema la vittima è solo uno dei doppi indifferenziati della comunità. Solo una volta eletta, cioè distrutta, la vittima può essere l’origine. Da un certo punto di vista quindi le pretese assurde di Derrida sono corrette: l’origine non può essere presente, essa può darsi solo nell’assenza. Jean-Pierre Dupuy per parte sua ha intravisto un piano ulteriore di convergenza con la riflessione di Derrida, specialmente a partire dai concetti di non-centro e di origine per come li abbiamo sommariamente richiamati e su cui ora possiamo tornare. È a partire da questo confronto che potrà infine emergere il contributo fondamentale della riflessione di Dupuy per una diagnosi filosofica della contemporaneità. 85

Cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, pp. 127-133. A tal proposito si veda anche A.J., MCKENNA, Violence and Difference. Girard, Derrida, and Deconstruction, University of Illinois Press, Urbana-Chicago, IL 1992, specialmente pp. 69-94. Il testo di McKenna, che ha detto quasi tutto quello c’era da dire sul rapporto tra i due autori, resta fedele alla centralità che la violenza ha nel discorso di Girard e non apre la questione dell’ontologia, a cui invece ci stiamo qui dedicando. Per questa ragione abbiamo dovuto riprendere molti problemi ivi ben analizzati.

Autotrascendenza e autonomia

125

4.4. Ordine e decostruzione Dupuy ha dedicato almeno due saggi alla discussione esplicita della decostruzione86 nei quali riconosce all’impresa di Derrida il merito di aver rintracciato nell’edificio filosofico della cosiddetta metafisica occidentale una figura logica di fondamentale importanza, la gerarchia aggrovigliata resa poi nota da Douglas Hofstadter87. A partire dalle analisi del Fedro platonico88, Derrida estende l’esercizio della decostruzione delle gerarchie mostrandone l’aggrovigliamento inerente. La filosofia pretende di essere indipendente ed autonoma rispetto alla scrittura salvo scoprirsi costretta sia ad utilizzarla come metafora per descrivere l’essenza stessa della conoscenza sia in ultima analisi a riconoscerla come propria condizione di possibilità. Le analisi di Derrida non mirano semplicemente a capovolgere questa relazione gerarchica, ma a mettere in luce l’indecidibilità89 che emerge nel momento in cui si realizzi la particolare costituzione di queste strutture gerarchiche. La gerarchia aggrovigliata è la struttura che la decostruzione riesce a rintracciare qui e là ed in ogni dove90. Più o meno negli stessi anni, Louis Dumont individuava la medesima relazione alla base delle strutture tradizionali della società indiana: olista per metodologia, Dumont definisce la relazione che rende stabile la 86

87 88 89

90

J.-P., DUPUY, “Deconstructing Deconstruction: Self-Reference in Philosophy, Anthropology and Critical Theory”, in «Comparative Criticism» n. 12, 1990, pp. 105-123; J.-P. DUPUY, “The Self-Deconstruction of the Liberal Order”, in «Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture», vol. 2, pp. 1–16, 1995. Cfr. D. HOFSTADTER, Gödel, Escher, Bach, Basic Books, New York 1979, trad. it. di Barbara Veit, Giuseppe Longo, Giuseppe Trautteur, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, Adelphi, Milano 1984. Sviluppate in J. DERRIDA, La pharmacie de Platon, compresa in La dissémination, Seuil, Paris 1972, trad. it. a cura di R. Balzarotti, La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano 1985. Possiamo ora capire perché se da un lato è certamente vero che «prima o poi bisogna prendere una decisione» (cfr. M. FERRARIS, Documentalità, cit., p. 77), dall’altro non si può passare sotto silenzio il fatto che proprio prendere una decisione ha rappresentato l’occasione di infinite stragi, cantate dalla voce inascoltata della realtà (cfr. R. GIRARD, La voix méconnue du réel, Grasset, Paris 2002, trad. it. a cura di G. Fornari, La voce inascoltata della realtà, Adelphi, Milano 2006). Girard, che aveva sin da La Violenza e il sacro, cit., pp. 416-418, riconosciuto la bontà dell’intuizione di Derrida, ritiene che le medesime logiche aporetiche si ritrovino in abbondanza nei miti, come abbiamo mostrato in merito all’analisi del mito della fondazione di Roma, e in generale all’origine dell’ordine culturale, ma individua nella rivelazione biblica la sorgente di tale svelamento: insomma, Derrida non avrebbe dovuto fermarsi ai pre-socratici, come aveva fatto Heidegger, ma tornare ancora più indietro; cfr. W. PALAVER, René Girard’s Mimetic Theory, cit., p 262.

126

La mimesi e la traccia

struttura sociale indiana tra Re e Brahmano come gerarchia, intendendo questo termine non nel senso lineare militaresco, ma piuttosto secondo la sua etimologia di principio, o ordine sacro. La relazione tra il Re e il Brahmano è descritta da un’inversione della gerarchia all’interno della gerarchia stessa: il Brahmano è rappresentante del sacro, vale a dire un livello superiore al potere temporale del Re, ma ingloba al proprio interno una struttura gerarchica all’interno della quale il Re gli è superiore. Resta, come scrive Dupuy, che «il Brahmano è al di sopra del re perché è solo ad un livello inferiore che il re è superiore al Brahmano»91. Dumont parla di questa struttura come una relazione che si può succintamente definire inglobamento del contrario. Il fatto sorprendente messo in luce da Dupuy è che, pur avendo a che fare con la medesima struttura logica, pur scrivendo a pochi anni di distanza l’uno dall’altro, Derrida e Dumont interpretano questa figura in termini esattamente opposti. Per Dumont la gerarchia aggrovigliata, ovvero l’inversione della gerarchia all’interno di se stessa, indica la preminenza di una totalità sociale già da sempre costituita, in sostanza indica l’autonomia della struttura. Per Derrida, al contrario, la medesima inversione indica l’impossibilità di raggiungere o realizzare qualsiasi forma di totalità autonoma92. La stessa logica del supplemento non è che un’applicazione delle analisi della gerarchia aggrovigliata, e proprio in questo caso si mostra l’opposizione tra le due prospettive. Per Derrida è nel ruolo del supplemento che si mette in evidenza l’impossibilità di un’origine presente ed autonoma. Dumont ha ragione di vedere nella gerarchia aggrovigliata la struttura di una società stabile salvo doverla postulare come qualcosa di già sempre costituito. Derrida, per parte sua, coglie in questa struttura la conclusione illegittima dello scambio violento, il momento in cui l’indecidibilità della gerarchia viene nascosta (e contenuta) dalla traccia, dal supplemento. Proviamo ad immaginare il Re e il Brahmano contendersi il potere, all’interno di una struttura non ancora costituita, non ancora stabilita. Essi si comporteranno esattamente come all’inizio di questa ricerca abbiamo visto comportarsi Romolo e Remo o Tiresia ed Edipo. I due doppi, indistinguibili e indifferenziati, si scambiano parole, insulti e colpi come le due mani di Escher che ad ogni momento dato vedono rovesciarsi la gerarchia di dominio. Conta di più aver visto sei uccelli per primo o dodici per secondo? Conta di più il potere del re o il sapere del veggente? 91 92

Cfr. J.-P. DUPUY, Introduction aux sciences sociale, cit., p. 286. Cfr. anche J.-P. DUPUY, “Violence et passion dans l’ordre libéral”, in «Rue Descartes», II, 12, 1995, p. 146.

Autotrascendenza e autonomia

127

Da questo punto di vista il mito della fondazione di Roma rappresenta un compendio di queste riflessioni. Esso mette in mostra il desiderio mimetico, la regni cupido che getta i due gemelli indifferenziati nella mischia destinata ad estendersi mimeticamente a tutta la moltitudine. Remo cade nella folla, la gerarchia è ristabilita. Ma Tito Livio, decostruzionista avant la lettre, non si accontenta di raccontare le cose in questo modo. L’ambiguità della fondazione su cui ci siamo intrattenuti nel primo capitolo mostra adesso tutta la sua potenza metaforica. Da un lato Tito Livio inserisce a mo’ di zeppa un supplemento narrativo, una versione alternativa, perfettamente dispensabile – perché l’altra versione poteva bastare – e allo stesso tempo indispensabile per giustificare la struttura gerarchica instauratasi sulla copertura dell’indecidibilità. Allo stesso tempo, all’interno della narrazione supplementare, in una vera e propria mise en abîme dell’origine, Tito Livio inserisce una seconda inversione gerarchica di cui Dupuy ha ritrovato la struttura logica all’interno di ogni discorso dell’origine93. Come si faceva notare nel primo capitolo, il tratto forse più significativo nell’ermeneutica della mitologia fondativa analizzata da Girard è proprio la presenza di una gerarchia aggrovigliata nella temporalità della narrazione. Così come Tikarau fonda un ordine culturale essendo linciato per averlo rubato, il corpo morto di Remo traccia il confine sacro di Roma per avere oltrepassato il quale era stato ucciso da Romolo, nel corso di una discussione sorta proprio per stabilire chi avesse il diritto di tracciarlo: l’origine insomma deve già sempre essere stata, essa non si dà mai in praesentia ma solo sotto forma di traccia, di supplemento. Secondo Dupuy, Derrida non coglie una fondamentale verità di questo discorso, invece perfettamente chiaro a Girard e ormai reso evidente attraverso la lettura della teoria del panico di Dupuy condotta nei paragrafi precedenti, ovvero il fatto che i meccanismi dell’autocostituzione di una totalità sociale sono gli stessi della sua decomposizione. Derrida «distrugge senza vedere la prossimità tra autocostituzione (autopoiesi dicono i teorici dei sistemi autonomi) e distruzione»94. Derrida non si accorgerebbe del fatto che la struttura della gerarchia aggrovigliata, ovvero la logica del supplemento, è la «forma dell’“autoesteriorizzazione” (o “bootstrapping”)»95, cioè, in accordo con i teorici del-

93 94 95

Cfr. J.-P. DUPUY, F. VARELA (eds.), Understanding Origins. Contemporary Ideas on the Origin of Life, Mind and Society, Kluwer, Boston 1992. J.-P. DUPUY, Introduction aux sciences sociales, cit., p. 291. Ibidem.

128

La mimesi e la traccia

la complessità e i loro illuminati antenati teorici della cibernetica, la forma dell’autonomia. Questa intuizione ci permette di stabilire con precisione l’argomento di Dupuy: per pretestuoso che possa sembrare, è suggestivo che Ferraris utilizzi la vicenda del Barone di Münchausen – da cui l’espressione degli informatici “bootstrapping”, ovvero “tirarsi su dalle stringhe degli scarponi” – per spiegare il ragionamento di Derrida96. Ferraris nota che Derrida non si risolve a vedere in tale meccanismo, il bootstrapping, una sintesi finale – l’autoesteriorizzazione che Hegel chiamava Entäusserung –, ma piuttosto un’aporia. Pur di non accettare il rischio dell’aliénation/Entfremdung rinuncia o forse non vede la rinuncia contestuale all’Entäusserung hegeliana, ovvero l’autoesteriorizzazione, che come notava Ricoeur, si dice sempre aliénation, alienazione97. La figura del non-centro si colloca al centro della struttura come naturale conseguenza del processo di autopoiesi del sistema, così come a questa stessa dinamica va attribuito il potere differenziale della différance – ovvero la capacità di creare differenze, a partire dalla prima fondativa tra il punto fisso e il resto degli elementi. Nello stesso modo ci possiamo accorgere che, così come il sacro contiene la violenza nei due sensi del verbo contenere, così come la convenzione contiene l’arbitrio, l’Entäusserung contiene l’Entfremdung98. Questa frase potrebbe suonare come uno dei paradossi dumontiani: l’ordine contiene il disordine, ingloba il suo contrario. Ciò che la dinamica del punto fisso endogeno ha mostrato è che se a livello statico pare che sia l’ordine a contenere il disordine, nella dinamica genetica è il disordine stesso a contenersi, a porsi un limite nella differenza. Così l’alienazione contiene l’alienazione, il disordine contiene il disordine, creando le condizioni di possibilità per affermare il proprio contrario. È contenendo se stesso che il disordine può fare spazio all’ordine. Contenendo se stessa

96 97

98

Cfr. M. FERRARIS, Introduzione a Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 39. P. RICOEUR, voce “Aliénation”, Encyclopædia Universalis, vol. 1, 1968, p. 825; lo stesso vale per l’italiano. In inglese la questione è più complicata e varia a seconda delle tradizioni, cfr. l’appendice di C.J. ARTHUR, Dialectics of Labour: Marx and His Relation to Hegel, Basil Blackwell, Oxford 1986 (disponibile su http://chrisarthur.net/dialectics-of-labour/appendix.html). Anche se si concentra sulla logica hegeliana in particolare, a tal proposito è molto interessante il tentativo, condotto in modo eccellente da parte di Franco Chierenghin, di ritrovare nella filosofia hegeliana le nozioni, categorie e concetti fondamentali del pensiero della complessità, auto-organizzazione compresa, cfr. F. CHIERENGHIN, Rileggere la Scienza della logica di Hegel, Carocci, Roma 2011.

Autotrascendenza e autonomia

129

(l’Entfremdung), l’alienazione può creare una struttura autonoma99 (l’Entäusserung), all’interno della quale, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, si daranno le condizioni di possibilità – ovvero le variegate forme della trascendenza verticale – perché si diano relazioni non alienanti. Riassumendo, ciò che Dupuy ha messo in luce è che la dinamica che presiede alla genesi della struttura spiega la procedura della decisione nelle condizioni di indecidibilità e al tempo stesso il ruolo paradossale della singolarità endogena attorno alla quale la struttura si configura. Nonostante questo limite, proprio la sensibilità decostruttiva permette a Derrida e ai suoi allievi di sostenere una teoria della genesi (di cui Dupuy intuisce solo la dinamica) fondata sul ruolo del supplemento, nella fattispecie della materialità del supporto su cui viene registrata la traccia. Per tentare un accordo tra questi due straordinari rappresentanti delle sciences de l’homme à la française e combinare il contributo genetico delle riflessioni di Derrida con lo sforzo teorico di Dupuy potrebbe bastare una piccola modifica alla frase con cui il secondo apre quello che per molti aspetti potrebbe essere considerato un anticipo del suo testamento filosofico, La marque du sacré. «Se guardassimo alla storia dell’umanità da una prospettiva cavaliera, una verità apparirebbe con chiarezza: i collettivi umani sono delle macchine per fabbricare dei»100. Basterebbe dire che i collettivi umani sono delle macchine per fabbricare differenze. Il dio101, così come il leader, è, infatti, il prodotto della différance, termine che possiamo sostituire con il meccanismo di proiezione che, con una chiarezza cristallina senz’altro mai raggiunta da Derrida, Dupuy ha svelato identificando la logica del punto fisso endogeno. La combinazione della sensibilità decostruttiva per il ruolo costitutivo della traccia – ovvero dell’iscrizione – con le proteiformi evoluzioni della 99

Per un sondaggio nella filologia hegeliana in merito a tale problema specifico, cfr. M. D’ABBIERO, «Alienzazione» in Hegel. Usi e significati di Entäusserung, Entfremdung, Veräusserung, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1970, pp. 68-69, specialmente nota 65, e pp. 82-84. 100 J.-P. DUPUY, La marque du sacré, Carnets Nord, Paris 2008, p. 7. 101 Proprio in questa logica sociale morfogenetica risiede la differenza tra la teoria mimetica del religioso e ogni altra forma di evemerismo. Il dio non è un uomo eccezionale, non è una singolarità, ma l’effetto di sistema generato dalla convergenza mimetica.

130

La mimesi e la traccia

mimesi messe in luce dal genio logico di Dupuy ci ha sin qui permesso di chiarire le dinamiche dei processi di costituzione delle strutture sociali e, proprio grazie all’ambivalenza inerente alla mimesi, ci permetterà, una volta introdotta la terza anima della teoria mimetica, di valutare attentamente le conseguenze e la legittimità non tanto della decostruzione quanto del post-moderno e del nichilismo ad esso intimamente connesso.

131

5. RITENZIONI E PROLETARIZZAZIONE

Education is neither a right nor a privilege: it is a necessity. Heinz von Foerster, Observing Systems

5.1. La ritenzione terziaria Per testimoniare della legittimità del complemento convocato ad attualizzare compiutamente il contributo diagnostico di Jean-Pierre Dupuy potrebbe essere sufficiente commentare gli eserghi scelti da Bernard Stiegler per aprire uno dei pamphlet più caustici della sua vastissima produzione letteraria, La télécratie contre la démocratie1, nei quali possiamo individuarne il codice genetico. Troviamo un passo tratto dal già abbondantemente commentato Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in cui Freud sostiene che: «La contrapposizione tra psicologia individuale e psicologia sociale o delle masse perde, con una considerazione più attenta, parte della sua rigidità»2. Il secondo esergo, da Gilbert Simondon, stabilisce un ulteriore tratto di convergenza e di dialogo tra questi due autori, non più a partire da un riferimento bibliografico comune, ma dalla condivisione di uno stile di ragionamento e di un tema di interesse: «Questo stato di metastabilità è comparabile ad uno stato di conflitto nel quale l’istante della più alta incertezza è precisamente l’istante più decisivo, fonte dei determinismi e delle sequenze genetiche che vi trovano la propria origine assoluta»3. Psicologia delle masse e cambiamenti di fase.

1 2 3

B. STIEGLER, La télécratie contre la démocratie. Lettre ouverte aux représentants politiques, Flammarion, Paris 20082. Ivi, p. IIX, S. FREUD, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, cit., p. 261. Ivi, p. IIX, G. SIMONDON, L’individuation à la lumière des notions de forme et d’information, Millon, Grenoble 2005, p. 234, corsivo nostro, (si segnala la traduzione a cura di Giovanni Carrozzini, L’individuazione. Alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, Mimesis, Milano 2012).

132

La mimesi e la traccia

Nel secondo capitolo di questa indagine abbiamo visto quale possa essere il ruolo della traccia, ovvero dell’iscrizione, nella costituzione degli oggetti sociali. Abbiamo scoperto che solo mediante una forma più o meno evoluta di registrazione oggetti eminentemente sociali come le promesse, i giuramenti, le convenzioni, i riti e le istituzioni possono esistere, cioè rendersi iterabili e trasmissibili. Abbiamo anche visto che la logica del supplemento individuata da Derrida all’origine della genesi o alla genesi dell’origine può essere reinterpretata e confermata, alla luce delle riflessioni formulate dai teorici dell’imitazione considerati nei capitoli tre e quattro, come cristallizzazione di una presenza già da sempre assente, ovvero come sedimentazione di un effetto di sistema inspiegabile mediante analisi fondate sulla causalità lineare. Recuperando la riflessione di Derrida abbiamo riscoperto il ruolo del supplemento icnografico nella genesi del linguaggio e quindi del pensiero. La gerarchia tradizionale e di buon senso che vedeva la scrittura come supporto del linguaggio, a sua volta manifestazione del pensiero, va, almeno in sede di analisi trascendentale, invertita: l’(archi) scrittura è condizione di possibilità del linguaggio e a sua volta del pensiero; il che dimostra che la metafora già platonica che faceva della mente una tavoletta di cera su cui la conoscenza veniva iscritta non è solo una figura retorica ma la descrizione del processo genetico del pensiero. È proprio la scrittura, ovvero la produzione di tracce mnestiche esteriorizzate, a rendere possibili il pensiero, il linguaggio4 e la trascendenza. Bernard Stiegler, anch’egli allievo di Derrida, ripercorrendone il cammino e andando a rintracciare nella fenomenologia husserliana la scaturigine della riflessione sui problemi della genesi, ha saputo valorizzare il contributo teoretico fornito alla repubblica delle lettere da parte del filosofo franco-algerino attraverso un serrato confronto con l’archeo-antropologia di Leroi-Gourhan e con le già ricordate psicanalisi e filosofia di Gilbert Simondon. Se il concetto di traccia può considerarsi una metonimia della decostruzione, lo stesso si può dire del concetto di ritenzione terziaria in rapporto all’organologia farmacologica che Bernard Stiegler si è sforzato di formulare negli ultimi vent’anni di ricerche, condotte, per così dire, sulla spinta di un furor filosofico. Il concetto di ritenzione terziaria è una ritraduzione in termini fenomenologici del concetto di traccia, ma non è che uno dei nomi possibili per descrivere ciò che in altri contesti e con alcune variazioni che vedremo nel corso di questo capitolo, Stiegler definisce hypomnematon, protesi, memoria epifilogenetica o semplicemente oggetto tecnico. 4

Cfr. M. FERRARIS, Documentalità, cit., cap. V.

Ritenzioni e proletarizzazione

133

Il modo più chiaro per introdurre il concetto di ritenzione terziaria è farlo a partire dall’esempio su cui già Husserl si era concentrato, ovvero a partire dall’analisi di un oggetto temporale5 – quel tipo di oggetto che oltre ad essere un’unità nel tempo, contiene anche in sé l’estensione temporale6. Come notava Paul Ricoeur, «le due grandi scoperte della fenomenologia husserliana del tempo [sono] la descrizione del fenomeno di ritenzione – e del suo simmetrico, la protenzione –, e la distinzione tra ritenzione (o ricordo primario) e rimemorazione (o ricordo secondario)»7. Quando ci poniamo di fronte all’analisi di un oggetto peculiare come l’oggetto temporale, per esempio una melodia, ci rendiamo conto che esso non ci si dà come successione di suoni irrelati; inoltre, ne traiamo la consapevolezza che un Si suonato dopo un Do suona irrimediabilmente diverso da un Si suonato dopo un La. Il problema così posto è quello della durata, ovvero il fatto che l’ora non si contrae in un istante puntuale, ma comporta quella che Husserl chiama intenzionalità longitudinale8; la soluzione di questo problema è proprio il concetto di ritenzione. Per restare all’esempio della melodia, la ritenzione primaria è il non appena passato ancora presente nella percezione dell’ora, è precisamente ciò che ci permette di legare le note l’una all’altra in una melodia e non in una successione senza relazione, «una successione di flash irrelati» e così di poter spiegare come mai ogni suono sia modificato dal precedente. La ritenzione secondaria (si noterà che il gergo di Stiegler è leggermente diverso da quello di Husserl, che parla di ritenzione come ricordo primario e di rimemorazione come ricordo secondario) è il ricordo vero e proprio. Se la ritenzione primaria è ciò che la coscienza ritiene del flusso in cui essa stessa consiste, la ritenzione secondaria è una ritenzione primaria ritenuta 5

6

7 8

Cfr. A. PENNA, La costituzione temporale nella fenomenologia husserliana (1917/18 – 1929/34), Il Mulino, Bologna 2007; F. DELL’ORTO, “Quando comincia l’uomo. La genesi del tempo come genesi del desiderio”, in AA. VV., Essere del tempo e metafora dell’umano, L’Harmattan Italia, Torino 2010. Cfr. E. HUSSERL, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins (1893-1917), a cura di R. Boehm, Husserliana X, Nijhoff, Den Haag 1966, p. 34; trad. it. di A. Marini, Sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo, Angeli, Milano 1985, p. 59. P. RICOEUR, Temps et récit. Tome III: Le temps raconté, Seuil, Paris 1985, trad. it. di G. Grampa, Tempo e racconto. Tomo III: Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano 1988, p. 42. Come spiega Ricoeur, l’intenzionalità longitudinale si oppone all’intenzionalità trascendente che, nella percezione, mette l’accento sull’unità dell’oggetto. Nell’intenzionalità longitudinale l’ora è ad un tempo se stesso, la ritenzione dell’appena e la protenzione del non ancora. Cfr. P. RICOEUR, Tempo e racconto. Tomo III, p. 43.

134

La mimesi e la traccia

(e pertanto selezionata) dalla coscienza. Se torniamo all’esempio della melodia, la rilevanza di quest’analisi emerge nel momento in cui ci si renda conto che ad ogni ascolto la melodia verrà apprezzata in modo via via più approfondito, dettagliato, e soprattutto di volta in volta diverso. La ritenzione primaria appartiene al presente della percezione, costituendone per così dire un’estensione nel non appena, la ritenzione secondaria invece costituisce il passato della mia coscienza e in quanto tale non appartiene più all’ordine della percezione. È attraverso un esercizio di immaginazione che posso riascoltare la melodia che avevo sentito ieri. È proprio su questo dettaglio che Stiegler mette in discussione la riflessione di Husserl: quest’ultimo attribuendo la ritenzione secondaria all’ordine dell’immaginazione rifiuta di concederle qualunque potere di influenza sulla ritenzione primaria, negando l’evidenza del fatto che ad ogni ascolto la nostra coscienza ritiene dettagli nuovi e diversi. Secondo Stiegler, Husserl non vuole accettare, rifiutandosi di ammettere una sovradeterminazione delle ritenzioni primarie da parte di quelle secondarie, che la percezione risulti già sempre abitata per non dire infestata dall’immaginazione, e quindi dalla finzione – la cui radice fingere, ovvero plasmare, modellare, non fa che confermare l’intuizione messa in campo da Derrida e ripresa da Stiegler. La ritenzione primaria insomma non solo è abitata dall’immaginazione, ma soprattutto dall’immagine esterna, dall’oggetto. È necessario liberare il campo da un possibile malinteso che per altro trova nelle considerazioni estetologiche di Ferraris già in parte commentate un buon esempio: un’analisi di questo tipo non intende discutere della precisione percettiva. Non si tratta di sostenere per esempio che gli eschimesi vedano più tonalità di bianco degli italiani, o che i musicisti sentano più note degli amatori. Le capacità percettive fisiologiche non sono in questione. L’analisi messa qui in campo punta a mostrare che la possibilità di rendere salienti, cioè significativi, i dettagli forniti dal nostro apparato percettivo è modificata dall’esperienza. Ascoltare più volte una medesima melodia ci permetterà di apprezzare di volta in volta diversamente la musica. Ad ogni ascolto le ritenzioni secondarie saranno diverse e a loro volta reagiranno sulle ritenzioni primarie modificando i futuri ascolti e rendendoli diversi l’uno dall’altro, oltre ovviamente a combinarsi con altri vissuti contestuali. La grande intuizione di Stiegler è di rendersi conto che questo stesso discorso dipende in qualche misura da una terza tipologia di ritenzione: il disco su cui è incisa la melodia e che, per la prima volta nella storia dell’uomo grosso modo ai tempi in cui Husserl rifletteva sugli Zei-

Ritenzioni e proletarizzazione

135

tobjekte, rende possibile ascoltare due volte di fila la stessa identica melodia9. È grazie alla possibilità offerta dal disco che ci possiamo rendere conto che l’infinita varietà delle interpretazioni, ovvero degli ascolti di una melodia, si dà non solo in occasione delle diverse interpretazioni che di quella melodia possono essere fornite dal musicista, ma anche in rapporto alla ripetizione dell’oggetto identico e, per certi versi, malgrado l’identità dell’oggetto. L’esperienza offerta dal fonografo permette di provare per via sperimentale che la ripetizione dell’identico produce comunque sempre una differenza. Questa memoria esteriorizzata è ciò che Stiegler, spiegando per altro così la modifica terminologica rispetto ad Husserl, chiama ritenzione terziaria10. È una ritenzione terziaria ogni tipo di memoria esteriorizzata, ovvero, al massimo grado di estensione, ogni tipo di iscrizione o di traccia. C’è un altro modo di classificare questa serie di tipologie oggettuali ed è farlo a partire dal concetto di tecnica: è possibile considerare una memoria esterna

9 10

L’effetto prodotto dalla scrittura alfabetica nella Grecia del IV secolo è analogo. Per la prima volta si può rileggere una stessa frase o uno stesso poema due volte di fila senza alcuna modifica terminologica o sintattica. Come fa notare Jean-Hugues BARTHÉLÉMY, in Id., De la finitude retentionnelle. Sur La Technique et le temps de Bernard Stiegler, in P.-E. SCHMIT, P.-A. CHARDEL (eds.) Phénoménologie(s) et techniques(s), Le Cercle Hermenéutique, Argenteuil 2008, il concetto di ritenzione terziaria è una riconfigurazione del problema già husserliano della «coscienza d’immagine»: nome che Husserl dà alla traccia del passato non vissuto dalla coscienza e che quindi, secondo il privilegio concesso al «presente vivente», è escluso dalla sfera originaria e costitutiva. Stiegler è debitore di Heidegger per la rottura con questo privilegio grazie alla quale l’autore di Essere e Tempo può riconoscere al passato ereditato e quindi non vissuto direttamente dal Dasein «un carattere esistenziale della sua temporalità originaria (essenziale alla sua esistenza)», cfr. B. STIEGLER, La technique et le temps. Tome II, cit., p. 12. Tuttavia lo stesso Heidegger «priva questi enti del valore originario – non sono costitutivi della temporalità originaria, e l’analisi esistenziale non rende conto delle loro specificità epocali: scartando questi fenomeni per ciò che hanno d’irriducibilmente empirico, Essere e tempo resta nella metafisica come discorso trascendentale», ivi, p. 13. Stiegler, inaugurando così quella che più tardi chiamerà una filosofia a-trascendentale (cfr. E. ANTONELLI, “De la pharmacologie. Entretien avec Bernard Stiegler”, in «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», n° 1, 2011, pp. 66-83, p. 79), supera la distinzione tra empirico e trascendentale: senza il sostrato degli enti utilizzabili già da sempre tecnici, il soggetto trascendentale costituente non sarebbe a sua volta costituito; «[il soggetto trascendentale] non si costituisce che nell’après-coup, e dunque è sempre colto nel problema della sua propria ri-costituzione: egli è originariamente un soggetto ricostituito, sintetico», B. STIEGLER, La technique et le temps. Tome III: Le temps du cinéma et la question du mal-être, Galilée, Paris 2001, p. 128-129.

136

La mimesi e la traccia

come una forma di iscrizione, ma allo stesso tempo e più legittimamente, si può vedere nella stessa iscrizione ed in generale nella scrittura una tecnica. 5.2. La tecnica e l’epifilogenesi Se il disco è in qualche modo la condizione di possibilità del discorso di Husserl, che senza questo supporto non avrebbe forse mai potuto rendersi conto della retroattività delle ritenzioni secondarie sulle ritenzioni primarie, è anche vero, come aveva intuito Derrida, che la ritenzione terziaria sovradetermina le ritenzioni primaria e secondaria. Ripetiamo: con questo Stiegler non vuole dire che prima dei dischi nessun uomo avesse mai sentito la musica, ma piuttosto dire che senza ritenzioni terziarie in generale nessuno sarebbe mai diventato umano11 e quindi, a fortiori, nessuno avrebbe mai sentito alcuna musica. La tesi di Stiegler – a suo modo occupato in una teoria dell’ominizzazione la cui complementarietà con la teoria mimetica cercheremo di valutare –, si fonda sull’osservazione di Leroi-Gourhan il quale aveva notato che tra l’australopiteco e l’uomo di Neanderthal si produce una differenziazione della corteccia celebrale, l’apertura del ventaglio corticale12. A parti11

12

Cfr. B. STIEGLER, La technique et le temps. Tome I: La faute d’Epiméthée, Galilée, Paris 1994, p. 183, ove si dice che il cervello umano, nel senso di cervello dell’homo sapiens sapiens, è una conseguenza organica dell’organizzazione dell’inorganico e non una causa del medesimo processo. Con il che Stiegler compie l’operazione di sintesi tra Leroi-Gourhan e Simondon: organico e inorganico sono due poli di una relazione trasduttiva che, per definizione, è quel tipo di relazione ontologicamente primaria rispetto ai poli, i quali, per parte loro, sono costituiti dalla relazione medesima. Forte delle ricerche di Leroi-Gourhan, Stiegler mostra, infatti, la progressiva differenziazione congiunta, d’un même mouvement si legge (ivi, p. 184), di corteccia cerebrale e strumenti. In effetti in Italia, dopo le sensazionali scoperte dei primi fossili australopitechi, negli anni settanta, il giornale fondato da Amedeo Bordiga aveva recuperato tali risultati al fine di una riattualizzazione di considerazioni che già Engels aveva mosso in tal senso: «l’evoluzione della tecnica e quella, parallela, della struttura del cervello, sono concepibili soltanto all’interno di uno stesso processo dialettico che si svolge in questo modo: il lavoro si ripercuote sulla funzione cerebrale, la quale, affinandosi, dà luogo a una tecnicità più elaborata e complessa che comporta una vita di relazioni più ricca, causa a sua volta di una differenziazione dell’encefalo, e così via, fino al raggiungimento dell’attuale profilo d’equilibrio cerebrale medio», “Su Il caso e la necessità. Come il signor Monod distruggerebbe la dialettica”, in «Programme Communiste», n. 58, 1973. Tuttavia, il contributo, indipendente, di Stiegler pone l’attenzione non tanto sulla tecnica in quanto tale, ma sugli strumenti, cioè sugli oggetti tecnici.

Ritenzioni e proletarizzazione

137

re dall’uomo di Neanderthal il sistema corticale non evolve quasi più. Lo stesso, con ogni evidenza, non si può dire della tecnica la cui evoluzione non può quindi che essere slegata dall’evoluzione biologica. Per questa ragione Stiegler parla dell’ominizzazione come di un processo di esteriorizzazione: lo spazio di differenziazione si produce fuori dallo spazio strettamente biologico13. Michel Serres aveva affrontato il medesimo tema usando una formula al tempo stesso suggestiva ed efficace, descrivendo l’essere umano come un animale che perde le proprie funzioni14. Questa definizione si comprende solamente riflettendo sulla polisemia del verbo ‘perdere’ che nel discorso di Serres assume al tempo stesso il senso di smarrire ma anche di lasciare cadere, depositare, come un tubo che perde. In tal senso Serres poteva parlare dell’evoluzione tecnologica dicendo che, in generale, l’uomo perde la memoria: la perde soggettivamente e al tempo stesso la esternalizza oggettivamente. Lo sforzo di Stiegler è dedicato precisamente ad articolare e comprendere questa complicata relazione. L’uomo perde la memoria, nel senso del depositare, esternalizzandola in supporti materiali e al tempo stesso è proprio grazie a questi supporti che, come ha mostrato Leroi-Gourhan, la memoria e l’intero sistema corticale, hanno potuto svilupparsi nella loro forma attuale. Inoltre, solo una volta esteriorizzata su supporti e oggetti tecnici, la memoria può effettivamente essere conservata e la tecnica in generale esistere, ovvero rendersi iterabile. D’altro canto, come notava Thamus nel mito platonico analizzato da Derrida ne La farmacia di Platone, nell’appoggiarsi alla memoria esternalizzata, il soggetto umano rischia anche sempre di perdere la propria memoria viva. Così come l’origine non può darsi che cancellandosi, così come la presenza non può darsi che come ripetizione di una traccia della propria assenza, allo stesso modo la coscienza non può darsi a se stessa, cioè divenire autocoscienza, che esteriorizzandosi. In questo senso, Stiegler può parlare di una necessità della mancanza d’origine15: senza questa capacità di esteriorizzazione originaria l’uomo non sarebbe mai divenuto tale. La tesi 13 14 15

B. STIEGLER, Philosopher par accident. Entretiens avec Elie During, Galilée, Paris 2004, p. 47. Si era così espresso in una conferenza dal titolo «Les nouvelles technologies: révolution culturelle et cognitive», tenutasi l’11 dicembre 2007, in occasione dei quarant’anni dell’INRIA. Stiegler parla allo stesso tempo di un défaut d’origine, ovvero della mancanza d’origine, e di un défaut originaire, ovvero di una mancanza all’origine. La critica

138

La mimesi e la traccia

dell’esteriorizzazione nell’oggetto, nella traccia, nella materia, come condizione di possibilità di ogni vitalità spirituale, cioè di ogni autocoscienza, porta Stiegler a definirsi come un «materialista atipico», un «materialista spiritualista»16. Stiegler fornisce una tesi d’ispirazione per così dire mitologica che potrebbe senz’altro tradursi come elaborazione della questione neotenica. La tecnica, e con essa la capacità di esteriorizzarsi, è il dono che Prometeo offre all’umanità per cercare di risolvere il guaio prodotto dalla fretta del fratello Epimeteo17. Questo stesso dono, ricevuto a parziale risarcimento del torto subito, della dimenticanza originaria, fa degli uomini degli esseri essenzialmente privi di origine, in questo senso protesici, ovvero destinati a cercare «il proprio essere non all’interno di se stessi ma in mezzo alle protesi che fabbricano, che inventano: ciò significa che essi sono liberi e al tempo stesso votati all’erranza, ciò che ho chiamato il disorientamento originario. Devono inventare il loro esserci, la loro esistenza»18. Come detto, a questa versione mitologica corrisponde una tesi paleo-antropologica ispirata ai lavori di Leroi-Gourhan oltre che alle teorie formulate in prima istanza da Lodewijk Louis Bolk. A partire dalle ricerche condotte

16 17

18

infine atrascendendale, intesa come superamento della critica kantiana, lo porterà a sostenere la necessità di questa mancanza – un défaut qu’il faut; Cfr. B. STIEGLER, Philosopher par accident. Entretien avec Elie During, Galilée, Paris 2004, p. 39. La faute d’Epiméthée è il titolo del primo tomo de La technique et le temps e fa riferimento al mito prometeico riportato nel Protagora da Platone, nel quale si racconta di come, ricevuto da Zeus l’incarico di distribuire le dynameis agli esseri non-immortali e ottenuto dal più riflessivo fratello Prometeo il permesso di procedere a svolgere tale compito, Epimeteo spartisce tutte le qualità o potenze ricevute da Zeus, per poi rendersi conto di aver dimenticato gli uomini: non ci sono più dynameis con cui mettere in forma gli uomini. All’errore (o colpa) di Epimeteo, Prometeo cercherà di rimediare commettendo una seconda colpa (o errore?), rubando ad Efesto ed Atena le tecniche con le quali colmare il défaut d’origine causato dalla dimenticanza di Epimeteo. È così che gli uomini sono essenzialmente protesici e senza qualità: cfr. B. STIEGLER, La technique et le temps. Tome I, cit., p. 200-201: «La pro-thèse est ce qui est posé devant, c’est-à-dire ce qui est dehors, au-dehors de ce devant quoi cela est posé. Mais si ce qui est dehors constitue l’être même de ce au-dehors de quoi cela se trouve, alors cet être est hors de lui. L’être de l’homme est (d’être) hors de lui. Pour suppléer à la faute d’Epiméthée, Prométhée fait à l’homme le cadeau, ou le don, de le mettre hors de lui». B. STIEGLER, Philosopher par accident, cit., p. 45. In francese si legge «au milieu des prothèses», il che è di difficile traduzione, ma non senza importanza visto il ruolo che il milieu, ovvero l’ambiente, il contesto, tecnico svolgerà nel confronto condotto da Stiegler con la filosofia di Simondon e su cui ci concentreremo nel prossimo paragrafo, 5.3.

Ritenzioni e proletarizzazione

139

sui fossili di Zinjantropo19, e dai ritrovamenti di vari strumenti in prossimità dei resti, Leroi-Gourhan identifica ciò che fa l’umanità dell’uomo nel processo di esteriorizzazione tecnica del vivente. L’aspetto decisivo di tale ricerca, a cui per altro Stiegler era maggiormente sensibile sin dall’inizio delle sue ricerche, è il fatto che Leroi-Gourhan si rende conto che la tecnica è anche e sempre un vettore di memoria. L’oggetto tecnico è infatti al tempo stesso il supporto della memoria e la condizione di possibilità della catena di operazioni che lo producono, ma anche ciò che conserva la traccia degli eventi epigenetici passati e accumulatisi come lezioni da trasmettere. È per questa ragione che Stiegler fa coincidere il processo di esteriorizzazione dell’evoluzione – che, avendo creato uno spazio di differenziazione esterno, non si gioca più all’interno dell’organismo – e il processo di costituzione di una terza memoria. A fianco della memoria della specie, il cosiddetto genoma, condivisa con tutti gli esseri viventi sessuati e della memoria somatica o individuale, condivisa con tutti gli animali dotati di un sistema nervoso centrale, l’uomo ha una terza memoria: con l’oggetto tecnico si crea per la prima volta nella storia della vita la possibilità di trasmettere un sapere acquisito individualmente per una via non biologica. Grazie alla tecnica, l’essere umano può trasmettere di generazione in generazione le esperienze individuali, secondo una sorta di lamarckismo. Stiegler definisce questa terza memoria «epifilogenetica», facendo una crasi delle due memorie naturali, quella epigenetica, ovvero la memoria dell’esperienza individuale, e quella filogenetica, il phylum intergenerazionale. In quanto memoria epifilogenetica, esteriorizzata e riattivabile, la tecnica è il milieu, l’ambiente, all’interno del quale la coscienza umana si sviluppa, in primo luogo nella facoltà di accesso al logos, di cui Stiegler, sulla scia di Derrida, nota la contemporaneità alla techne: né l’uno condizione di possibilità dell’altra, né viceversa, ma piuttosto due modalità dell’essere-fuori-di-sé (l’être hors-de-soi20) che è l’uomo. Il logos, come aveva notato Derrida21, è legato all’empirico da una relazione per lo più denegata e repressa. Infatti, sulla scia di quanto notava sempre Derrida22, 19

20 21 22

Zinjantropo è il nome con cui Mary e Louis Leakey chiamarono la specie di ominide di cui avevano rinvenuto un esemplare nell’Africa del Sud, nel 1959, poi detto Paranthropus boisei, la cui caratteristica principale comune alle altre famiglie di ominidi è la posizione del foro occipitale, perfettamente perpendicolare rispetto alla sommità del cranio. Questo dettaglio anatomico testimonia della posizione eretta e quindi della natura bipede di questo lontano antenato dell’uomo. Cfr. ivi, p. 201. Cfr. J. DERRIDA, Della grammatologia, cit. e La farmacia di Platone, cit. Cfr. J. DERRIDA, Introduzione a “L’origine della geometria”, cit.

140

La mimesi e la traccia

se è vero che non ha importanza che il protogeometra kantiano sia stato Talete o chi per lui, non solo è invece fondamentale che questo protogeometra sia esistito in un modo e in un tempo, ma soprattutto è necessario che egli abbia scritto e quindi esteriorizzato le considerazioni sortegli a seguito dell’evidenza apodittica dei primi ragionamenti geometrici della storia dell’umanità. Non solo per renderli iterabili e trasmissibili, garantendone l’esistenza, ma anche e soprattutto, e anzi innanzitutto, perché tale evidenza apodittica gli fosse possibile. La coscienza ha infatti la caratteristica eminente di fluire ovvero di essere instabile, costantemente distratta – dal fluire degli eventi e del tempo in cui è immersa, ma anche dalla tensione mimetica - e, con ogni evidenza, ritenzionalmente finita. Per condurre il proprio ragionamento su una figura, il geometra ha bisogno di poterlo fissare nella lettera. Il flusso di coscienza essendo essenzialmente mobile, l’unico modo per concentrarlo e stabilizzarlo è di fissarlo su di una traccia, iterabile e trasmissibile. Alla ricerca di questa funzione della traccia nella Critica della ragion pura di Kant è dedicata parte del terzo tomo de La technique et le temps23, argomento che riprenderemo solo per la parte essenziale a questa fase del ragionamento. Oltre a concentrare e stabilizzare il flusso di coscienza, vale a dire la dialettica delle ritenzioni primarie e secondarie, la ritenzione terziaria, – quindi qualsiasi oggetto tecnico, ma in maniera più rilevante un oggetto composto da iscrizioni (cioè una memoria esterna ortotetica24) – rende compatibili tra di loro le ritenzioni primarie e secondarie che tessono la stoffa di una coscienza. La terza ritenzione è ciò che permette di comporre le altre due in un solo e medesimo flusso temporale. In tal senso, il flusso di coscienza di Kant, che Kant medesimo 23 24

B. STIEGLER, La technique et le temps. Tome III: Le temps du cinéma et la question du mal-être, Galilée, Paris 2001. Una memoria esterna, o per la precisione una mnemotecnica, è detta ortotetica quando è in grado di rendere in maniera esatta il flusso di coscienza, ovvero di ripetere correttamente (orthotes) una posizione, un passato, una tesi, (thesis). In tal senso, uno scritto è ortotetico rispetto al pensiero che riporta. La distinzione è rilevante per il seguente motivo: esiste una differenza tra oggetti tecnici in generale e oggetti mnemotecnici, vale a dire esplicitamente concepiti al fine di conservare la memoria. All’interno di questa categoria esistono a loro volta differenze di grado nella precisione della resa: una cosa è leggere un testo composto di glifi cuneiformi, un’altra è leggere un testo steso con una scrittura alfabetica, la prima vera mnemotecnica ortotetica. Ciò che manca al testo scritto verrà poi aggiunto, in un’approssimazione crescente, dal fonografo e poi dal cinema (cfr. B. STIEGLER, Philosopher par accident, cit., pp. 64-65, e Id., La technique et le temps. Tome III, cit.). È altresì vero che una mnemotecnica ortotetica comporta per l’attività di sintesi del flusso della coscienza dei rischi direttamente proporzionali alle sue potenzialità ritenzionali, cfr. 5.4 e 5.5.

Ritenzioni e proletarizzazione

141

prende ad oggetto di analisi, gli si mostra e al tempo stesso si costituisce nella sua unità coerente e compatibile solo attraverso e durante il lavoro di scrittura dei libri dello stesso Kant, prima fra tutti, e lo dimostrano le due edizioni del 1781 e del 1787, la Critica della ragione pura. La cecità di Kant davanti a questa condizione di possibilità del suo stesso ragionamento è ancora più vistosa se seguiamo la critica che Stiegler gli rivolge sulla scia di Derrida. Il numero come la figura geometrica suppongono per essere pensate una capacità di ritenzione terziaria. Kant non si avvede, questo l’avviso di Stiegler, che per pensare il numero mille (1000) è stata necessaria una lunghissima storia delle capacità tecniche, prima della quale il numero mille era letteralmente inconcepibile; Kant stesso non può pensare il numero mille se non perché dispone di un sistema tecnico di notazione materializzato in simboli. Non c’è calcolo mentale che non risulti dall’interiorizzazione di un calcolo manuale – in prima istanza nel senso letterale del termine. Ancora più convincente la critica dedicata alle considerazioni sulla geometria. Così come Derrida notava che la filosofia finisce per essere costretta a utilizzare metaforicamente la scrittura per descrivere la conoscenza e il pensiero, Stiegler nota che il protogeometra non potrebbe in alcun modo tirare la linea con cui costruisce mentalmente la figura su cui esercita la propria ragione senza aver prima compiuto il medesimo gesto nello spazio e con la sua mano. Non potrebbe tirare una linea mentalmente se non l’avesse già fatto manualmente e, in secondo luogo, a causa di quella che Stiegler definisce finitudine ritenzionale25, se non avesse una figura davanti agli occhi, non potrebbe far altro che perdere lentamente la prima parte della linea e con essa le considerazioni che si imponessero con evidenza apodittica. Strumenti, tecnica, figure, simboli, linguaggio fanno tutti parte e sono tutti il prodotto del medesimo processo di esteriorizzazione (a cui poi si sommano processi di discretizzazione, grammatizzazione26 e ortotetizzazione). Come notava già Leroi-Gourhan, e come ricordavamo commentando alcune delle intuizioni fondamentali di Derrida per cui non c’è prima un pensiero, poi un linguaggio ed infine una scrittura, questa esteriorizzazione non è proceduta da un’interiorità. Essa dà invece luogo ad un processo di interiorizzazione. Ovvero, senza il sostegno della ritenzione terziaria, nessuno, neanche Talete, avrebbe potuto divenire geometra, ma una volta scritta, chiunque può interiorizzare quanto Talete aveva esteriorizzato, a partire da Talete stesso. Il momento dell’interiorizzazione 25 26

Cfr. B. STIEGLER, La technique et le temps. Tome II: La désorientation, Galilée, Paris 1996, pp. 83-87 e cap. IV. Cfr. infra 5.5.

142

La mimesi e la traccia

trascendentale è il più facile da dimenticare perché, a ben vedere, all’estremo di questo ragionamento è evidente che prima del movimento che è al tempo stesso un’esteriorizzazione e un’interiorizzazione, non c’era una coscienza che potesse assistere al cambiamento. Kant, in qualche misura, sembra credere che il numero cinque e il numero mille siano, allo stesso titolo, dei concetti ai quali si può accedere a priori, dimenticando la storia tecno-logica necessaria a far sì che lo diventassero27. Il secondo aspetto fondamentale della scrittura come mnemotecnica, ovvero come produzione di artefatti e tracce mnestiche iterabili, trasmissibili e riattivabili, è di essere la condizione tecnica di possibilità della costituzione di quel noi trascendentale che è la comunità di geometri, il cui dialogo anima e a ben vedere costituisce la disciplina nota come geometria e lo stesso ovviamente vale per qualsiasi disciplina. A cominciare dal geometra isolato, che solo grazie all’esteriorizzazione della memoria può dialogare con se stesso e sottoporre le proprie ritenzioni secondarie a un’infinita revisione e così unificare il proprio flusso di coscienza in un’unità coerente sino a comprendere in tale flusso unitario tutti i geometri capaci di riattivare le intuizioni originarie alla base delle evidenze apodittiche che fondano la disciplina. 5.3. Il processo di individuazione psichica e collettiva Il processo di individuazione psichica e collettiva è un filosofema che Stiegler riprende da Gilbert Simondon28 salvo estenderlo e rivederlo in mi27

28

Detto che il ragionamento di Stiegler lo porta a criticare per queste stesse ragioni qualsiasi metafisica spontaneista, a partire dalla teoria dell’anamnesi platonica ricondotta al processo di riattivazione degli hypomnemata ereditati piuttosto che alla visita dell’Iperuranio, sino all’a-priorismo kantiano e alla «metafisica cognitivista» di Fodor e Chomsky (cfr. B. STIEGLER, Philosopher par accident, cit., p. 57) è quanto meno interessante, anche per i nostri scopi, notare che Jean-Pierre Dupuy accusa le scienze cognitive secondo una medesima logica, ovvero sulla base dell’oblio del ruolo giocato dai modelli cibernetici e quindi delle implicazioni neglette di quella che nel titolo di un suo importante saggio viene definita the mechanization of the mind, cfr. J.-P. DUPUY, Aux origines des sciences cognitives, La Découverte, Paris 1994 e Id., The Mechanization of the Mind. On the Origins of Cognitive Science, Princeton U.P., Princeton, NJ 2000. G. SIMONDON, Du mode d’existence des objets techniques, Aubier, Paris 1969; Id., L’individuation psychique et collective, Aubier, Paris 1989: è bene chiarire sin da subito che il concetto di individuazione è ontologico e non epistemologico, si tratta di definire il processo attraverso il quale un individuo diviene tale e non il processo attraverso il quale una coscienza può giungere ad individuare un individuo tra gli altri.

Ritenzioni e proletarizzazione

143

sura significativa29. A partire dall’intuizione fondamentale di Simondon in merito al concetto di trasduzione30, termine con il quale si definisce una relazione dinamica che presiede alla costituzione dei due termini e poli della relazione medesima, Stiegler cerca di portarne a compimento le intuizioni originarie, per così dire complicandole con le considerazioni sul concetto di ritenzione terziaria. «Simondon avanza una concezione del sociale al tempo stesso molto originale e convincente, attraverso l’uso del concetto di trasduzione, e deludente, nella misura in cui l’oggetto tecnico, magistralmente analizzato altrove, non pare giocare alcun ruolo costitutivo nel processo di individuazione collettiva, né in effetti trovarvi una collocazione»31. Per seguire il filo del nostro ragionamento ci concentreremo sui processi di individuazione psicosociale tenendo in considerazione il ruolo che l’oggetto tecnico ricopre in tale processo, ma lasciando da parte la matrice meccanologica dello studio di Simondon, dedicata all’individuazione dell’oggetto tecnico. Pur riprendendo da Simondon le considerazioni sul ruolo del preindividuale nei processi di individuazione, tecnica, biologica o psicosociale32, Stiegler mostra che nel caso dell’individuazione psichica e collettiva il problema è proprio l’accesso alla preindividualità, ovvero il ruolo della e nella relazione trasduttiva tra l’individuazione psichica e l’individuazione sociale all’interno della quale la prima può avere luogo. La relazione di costituzione 29

30

31 32

Per un confronto puntuale su questo argomento, cfr. J.-H. BARTHÉLÉMY, Penser l’individuation, L’Harmattan, Paris 2005, pp. 224-232, oltre a B. STIEGLER, “Temps et individuations technique, psychique et collective dans l’œuvre de Simondon”, in «Intellectica», n. 26-27, 1998, pp. 241-56; Id., “Chute et élévation. L’apolitique de Simondon”, in «Revue philosophique de la France et de l’étranger», n°3/2006, pp. 325-41; Id., “Le théâtre de l’individuation. Déphasage et résolution chez Simondon et Heidegger”, in J.-M. VAYSSE (éd.), Technique, monde, individuation: Heidegger, Simondon, Deleuze, Olms, Hildesheim-Zurich-NewYork 2006, pp. 57-73 e Id., “L’inquiétante étrangeté de la pensée et la métaphysique de Pénélope”, Préface, in G. SIMONDON, L’individuation psychique et collective, Aubier, Paris 2007, pp. I-XVI. Il concetto di trasduzione è il luogo in cui meglio emerge il pensiero simondoniano della composizione in quanto tentativo di superamento dell’opposizione (per esempio dello schema ilemorfico) e non può stupire quindi che un allievo di Derrida vi abbia trovato il milieu più opportuno per portare avanti la propria riflessione. Allo stesso modo non stupisce che uno dei pochi autori ad aver contribuito a salvare Simondon dall’oblio in cui pareva essere piombato sia stato Gilles Deleuze. B. STIEGLER, “Temps et individuations technique, psychique et collective dans l’œuvre de Simondon,” cit., p. 242. Cfr. G. SIMONDON, L’individu et sa genèse physico-biologique, P.U.F., Paris 1964, p. 11.

144

La mimesi e la traccia

trasduttiva dell’io e del noi è mediata dall’accesso al preindividuale. Resta da porsi il problema di quale forma abbia questo preinviduale. Per quanto riguarda l’animale per esempio, quindi l’individuazione biologica, si potrebbe dire che l’individuo è già sempre iscritto in un processo di individuazione più vasto di lui, l’individuazione della specie (trattandosi qui di processi, Stiegler spiega la preferenza verso l’uso del concetto di individuazione rispetto a quello di individuo: il carattere essenziale dell’individuazione essendo la sua intrinseca e interminanbile dinamicità). Per l’essere umano, l’individuazione più vasta all’interno della quale si colloca il processo di individuazione psichica e collettiva, ovvero dell’io e del noi, è dublice, contando infatti la specie ma anche e soprattutto la storia, o forse le storie. La tesi di Stiegler nasce come risposta alla domanda sulla conservazione della preindividualità (che più tardi chiamerà transindividuale): il preindividuale dell’individuazione psichica e collettiva è fuori degli individui, ai quali esso si presenta come un déjà-là protesico, ovvero instanziato negli oggetti tecnici costitutivi del mondo, del suo mondo33: essi si presentano come supporti di una tradizione e di un sapere. Il punto messo in luce da Stiegler è proprio che in Simondon, autore della prima tesi sul modo di esistenza dell’oggetto tecnico, il ruolo dell’oggetto tecnico nel processo di individuazione psichica e collettiva resta completamente ignorato: ovvero, Simondon non considera la funzione di trasmissione delle sedimentazioni prodotte dalle individuazioni anteriori svolta dagli oggetti tecnici. In buona sostanza, riproponendo un errore che abbiamo già visto in Kant, Simondon non si accorge che il processo di individuazione psichica e collettiva è sempre mediato da ritenzioni terziarie, frutto a loro volta di individuazioni passate; per poter leggere la Critica della ragione pura, e partecipare così all’individuazione collettiva della comunità dei filosofi kantiani se non dell’umanità matura, dobbiamo ovviamente disporre di una copia di tale libro, il quale a sua volta è il deposito del processo di individuazione di Kant medesimo. Con l’ingresso sulla scena della memoria epifilogenetica o tecnica la relazione trasduttiva di individuazione non è più tra l’individuo e la specie, ovvero tra la memoria e la biologia (che come sostenuto da Leroi-Gourhan si è grosso modo stabilizzata ai tempi dell’uomo di Neanderthal) ma tra il tecnico e il sociale, vale a dire tra il tecnico e l’etnico34. L’individuazione 33 34

Cfr. B. STIEGLER, “Temps et individuations technique, psychique et collective dans l’œuvre de Simondon,” cit., p. 250. Cfr. B. STIEGLER, La technique et le temps. Tome I, cit. e A. LEROI-GOURHAN, Le geste et la parole. Tome II: La mémoire et les rhytmes, Albin Michel, Paris 1965, trad. it. di F. Zannino, Il gesto e la parola. Tecnica e linguaggio. La memoria e i ritmi, Einaudi, Torino 1977.

Ritenzioni e proletarizzazione

145

psichica si inserisce come terzo pendant in questo processo: perché l’individuazione – che è il processo di differenziazione di cui ogni individuo vive – possa proseguire, cioè essere, l’individuo psichico deve assumere l’eredità tecnica e tecnicamente trasmessa dal proprio ethnos e a sua volta parteciparvi. Perché la filosofia continui ad essere il progetto infinito che è, gli uomini devono assumere l’eredità testuale tramandata dall’individuazione più vasta – quelle che Stiegler chiamerà i circuiti (di transindividuazione) infinitamente lunghi 35, ovvero le discipline – e riattivarla attraverso il flusso di coscienza che sono, ponendosi in risonanza con essa36. Il soggetto non precede il collettivo né viceversa, ma entrambi sono preceduti, già da sempre, dall’oggetto tecnico e in generale dalla ritenzione terziaria. A nostro avviso, ciò che Stiegler non prende assolutamente in considerazione è quanto abbiamo visto emergere dal confronto con le teorie dell’imitazione nella riflessione di Dupuy. L’oggetto tecnico, per quanto si possa discutere del ruolo più o meno attivo della materia nel condurre il processo di individuazione (Stiegler in questo caso usa Simondon contro LeroiGourhan, il quale aveva decisamente sovrastimato la libertà dell’operatore nella concretizzazione dell’oggetto tecnico, dimenticando le leggi inerenti alla materia), resta comunque inequivocabilmente il risultato di un processo che necessita del contributo anticipante e progettuale dell’uomo – il quale a sua volta si trova ad essere in una relazione trasduttiva con l’oggetto tecnico medesimo secondo il rapporto speculare che lega le ritenzioni alle protenzioni. Il punto di cui Stiegler pare non avvedersi37 è che, almeno stando alle convincenti considerazioni di Girard e Dupuy, il transindividuale – ovvero la somma delle individuazioni psichiche e collettive passate e confluite nel preindividuale di ogni generazione38 – è almeno in parte

35 36

37 38

Cfr. B. STIEGLER, Ce qui fait que la vie vaut la peine d’être vécue. De la pharmacologie, Flammarion, Paris 2011. Simondon parlava di un principio di risonanza interna per descrivere il gioco di convergenza con e adattamento all’ambiente (il milieu) attraverso il quale l’oggetto tecnico può evolvere, cfr. G. SIMONDON, Du mode d’existence des objets techniques, Aubier, Paris 1969. Lo spirito di questa osservazione non è di rinfacciare a Stiegler i limiti della sua riflessione, ma di indicare una linea di ricerca che permetta di estenderne la portata ad esercizi complementari. Da questo punto di vista Stiegler pare senz’altro accordarsi ad un’interpretazione heideggeriana del kantismo prima ancora che della fenomenologia, secondo la quale, nelle parole di Gianni Vattimo «l’a priori kantiano è diventato, in Heidegger, eredità di mortali ad altri mortali», cfr. G. VATTIMO, Della realtà. Fini della filosofia, Garzanti, Milano 2012, p. 59.

146

La mimesi e la traccia

costituito dalla sedimentazione di tracce39 di eventi del tipo vittimario – per esempio la tomba, l’omphalos, la piramide40 –; vale a dire che parte delle ritenzioni terziarie che hanno reso possibile per esempio le individuazioni sociali ed etniche hanno questa caratteristica peculiare, ovvero di essere un passato che non è stato mai presente per nessuna generazione, per nessun processo di individuazione collettiva, precisamente in quanto frutto, come vedremo nei capitoli successivi, di una mancanza di individuazione, o forse piuttosto e già da sempre di un fallimento dei processi di individuazione. 5.4. Il double-redoublement épokhale Il tema sul quale Stiegler si è per lo più concentrato, al punto da assurgere a simbolo della sua intera riflessione, e su cui ora possiamo infine soffermarci, è l’analisi dell’essenza ambivalente della tecnica per quanto riguarda 39

40

Cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 22: «non c’è nulla o quasi, nei comportamenti umani, che non sia appreso, e ogni apprendimento si riduce all’imitazione. Se gli uomini, a un tratto, cessassero di imitare, tutte le forme culturali svanirebbero». Girard non ha sentore del fatto che le forme culturali vengono conservate da dispositivi che hanno la natura della traccia e che gli uomini possono imitarsi direttamente, immediatamente, oppure proprio attraverso forme documentali. La mediazione esterna non è altro che l’imitazione mediata, differita, dalla traccia. Cfr. R. GIRARD, La violenza e il sacro, cit., p. 427, dove, rifacendosi ai lavori di Louis Gernet sulla Grecia antica, si nota come i punti centrali o luoghi simbolici dell’unità collettiva «designano il luogo esatto in cui la vittima emissaria è morta o si ritiene sia morta». In Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, pp. 108-109, ancora più significativo: «è sempre come tomba che si elabora la cultura. La tomba non è altro che il primo monumento umano eretto intorno alla vittima espiatoria, la culla primigenia delle significazioni, quella più elementare e fondamentale. Non c’è cultura senza tomba, non c’è tomba senza cultura; la tomba è al limite il primo e l’unico simbolo culturale». Ancora più impressionanti e convincenti, in questo paradigma interpretativo, le tesi sostenute dal gruppo di archeologi coinvolti nelle ricerche attorno al sito di Göbekli Tepe, in Turchia, per cui rimandiamo ai primi lavori pubblicati da Klaus Schmidt, del German Archaeological Institute: K. SCHMIDT, Zuerst kam der Tempel, dann die Stadt. Bericht zu den Grabungen am Gürcütepe und am Göbekli Tepe 1996-1999, Istanbuler Mitteilungen 50, 2000, 5-40; ders., Göbekli Tepe, Southeastern Turkey. A Preliminary Report on the 1995-1999 Excavations, Paléorient 26.1, 2001, 45-54; K. SCHMIDT, Sie bauten den ersten Tempel. Das rätselhafte Heiligtum der Steinzeitjäger. Die archäologische Entdeckung am Göbekli Tepe, C.H. Beck, München 2006; Badisches Landesmuseum Karlsruhe (Hrsg.), Vor 12.000 Jahren in Anatolien. Die ältesten Monumente der Menschheit, Theiss, Stuttgart 2007. La tesi è riassunta con chiarezza ed evidenza dal titolo del primo studio citato, Prima il tempio, poi la città.

Ritenzioni e proletarizzazione

147

i processi di individuazione, ovvero la natura farmacologica delle ritenzioni terziarie. La costellazione semantica di riferimento è vistosamente derridiana e la problematica affrontata è in prima istanza platonica. Sulla scia del seminale La farmacia di Platone, e avvalendosi del contributo di Eric Dodds41, Stiegler prende ad oggetto e al tempo stesso a modello della riflessione filosofica la condizione di possibilità in cui la filosofia è per la prima volta sorta: la crisi42 della civiltà greca, causa e al tempo stesso effetto del conflitto sorgivo tra filosofia e sofistica, appare sotto tale rispetto come la sospensione dell’individuazione etnica tradizionale generata dall’espansione dell’uso della scrittura ortografica (e in quanto tale più avanzata sulla linea evolutiva dell’ortoteticità) e dalla diffusione di altre tipologie di ritenzione terziaria, segnatamente la moneta. Double-redoublement épokhale è il nome con cui, da La désorientation43 in avanti, Stiegler definisce il complicato processo al cui termine si dovrebbe poter parlare di convergenza e adattamento dell’individuo al suo ambiente tecnico. Egli sviluppa, dal caso greco, una diagnostica che diventerà poi il modello delle analisi critiche della società dell’industria culturale formulate ne Le temps du cinéma et la question du mal-être44, a partire dall’essenza farmacologica dell’oggetto tecnico, ovvero dalla possibilità inclusa nella sua apparizione che esso diventi veleno o rimedio, ma più generalmente l’una e l’altra cosa al tempo stesso. Con double redoublement épokhale Stiegler mette in campo la descrizione di due fasi del processo, necessarie al salto quantico di individuazione45 ma non deterministiche, né hegelianamente dialettiche. Tornando al 41 42 43 44

45

E. DODDS, The Greeks and the Irrational, University of California Press, Berkley, CA 1959, trad. it. di Virginia Vacca De Bosis, I Greci e l’irrazionale, BUR, Milano 20093. William Blake Tyrrell presenta in modo assolutamente convincente la crisi ateniese come una crisi di indifferenziazione mimetica, cfr. W.B. TYRRELL, op. cit., pp. 1-40. Cfr. B. STIEGLER, La technique et le temps. Tome II, cit., pp. 74-75. Cfr. Id., La technique et le temps. Tome III, cit. Se è vero, come sostiene di recente Hartmut Rosa, che proprio nell’indagine su cosa possa essere oggi considerata una vita buona e su quali siano gli ostacoli che impediscono di realizzarla, consista l’anima e l’essenza della Scuola di Francoforte, (cfr. H. ROSA, Alienation and Acceleration: Towards a Critical Theory of Late-Modern Temporality, Nordic Summer U.P., Aarhus, DK 2010, trad. fr. consultata di Thomas Chaumont, Accéleration et aliénation. Vers une théorie critique de la modernité tardive, La Découverte, Paris 2012) troviamo proprio in questa istanza comune, oltre che nella condivisione dell’interesse per le industrie culturali, una buona ragione per ascrivere Stiegler, pur senza ridurvelo, alla Teoria critica. Cfr. B. STIEGLER, Etats de choc. Bêtise et savoir au XXI siècle, Mille et une nuits, Paris 2012, p. 51.

148

La mimesi e la traccia

caso greco, si può vedere nella crisi di civiltà che caratterizza l’Atene del IV secolo a.C. niente di più che l’effetto dell’anticipo inerente della tecnica sulla cultura, già sempre costituita nel ritardo, nell’après-coup che costituisce il tempo differito. L’oggetto tecnico nella sua apparizione cortocircuita le pratiche e le discipline che nella generazione, non necessariamente anagrafica, precedente avevano preso in cura l’individuazione di ogni io all’interno del noi condiviso. In tal senso, come aveva intravisto Derrida, la scrittura non è altro che un pharmakon, uno strumento di sostegno alla memoria che, essendo ontologicamente omologo della memoria stessa, rischia sempre di sostituirvisi facendo naufragare l’individuazione psichica e quindi quella collettiva. L’apparizione dell’oggetto tecnico produce in via generale una prima sospensione del programma di cura stabilito, generando un effetto di dipendenza dal pharmakon (come aveva ben intuito Thamus) che rischia sempre di mettere per così dire fuori corso il milieu associato, ovvero l’insieme di oggetti, tecniche e tecnici che garantiva la metastabilità del processo di individuazione in corso. Platone in qualche modo fonda la filosofia come disciplina necessaria a formulare una cura contro l’impatto della scrittura sul processo di individuazione etnico tradizionale nel passaggio alla cittadinanza. Nell’après-coup, Platone usa già la scrittura come ritenzione terziaria costitutiva della propria individuazione psichica, dimenticando o rimanendo cieco davanti a tale ruolo, anche all’interno del processo di individuazione collettiva locale condotto nell’Accademia. Eppure l’Accademia si pone proprio come disciplina o pratica di cura, ovvero come tecnica del sé, in ultima istanza come terapia46. Stiegler parla di un double redoublement épokhale, uno sdoppiamento e un doppiaggio47, per scandire le due fasi in cui si articola tale disposizione (agencement) dell’innovazione48: in primo luogo si assiste ad una frattura per cui l’oggetto tecnico farmacologico produce, o si produce in, un’infe-

46 47

48

Cfr. B. STIEGLER, Prendre soin. De la jeunesse et des générations, Flammarion, Paris 2008, cap. VII. Qu’est-ce que la philosophie? e cap. IX. Disciplines et pharmacologies du savoir. ‘Redoublement’ significa letteralmente raddoppiamento, ma il senso precipuo di quest’espressione chiama in causa non solo lo sdoppiamento destinale coinvolto nell’apparizione farmacologica, ma anche l’idea del superamento di una difficoltà, che in italiano ci pare si possa rendere bene e rispettando l’omonimia rifacendosi all’espressione marinaresca per cui si dice doppiare un capo, volendo così dire superare la sporgenza di una costa. Cfr. B. STIEGLER, Ce qui fait que la vie vaut la peine d’être vécue, cit., § 16.

Ritenzioni e proletarizzazione

149

deltà all’ambiente, al milieu, una sospensione, un’epochè. È tale sospensione primaria a cortocircuitare i programmi – il pro-gramma, ovvero lo scritto antecedente con cui si impartivano le regole di disciplina e di cura – e a costituire una patologia che Stiegler chiama disindividuazione e su cui torneremo nel prossimo paragrafo. La seconda fase costituisce il vero e proprio doppiaggio, il superamento, e apre un’epoca nel senso proprio del termine, nella quale, se vi si riesce, si fornisce una nuova tecnica del sé e degli altri, una normatività che permetta, sotto forma di terapia, di stabilire e istituire un processo di adozione consapevole necessario per lottare contro i modelli di disindividuazione proposti dalla prima fase di sdoppiamento. In altre parole, il double redoublement épokhale è quel processo per cui l’apparizione di un oggetto tecnico viene riconosciuta come farmacologica, ovvero sottoposta ad un’analisi che ne mette in luce l’ambivalenza inerente, sdoppiandolo in quanto veleno e rimedio per poi ricomporlo come elemento di un nuovo milieu associato, quindi come strumento consapevolmente utilizzato per rimediare al dilagare del pharmakon, in un certo senso contenendone il potenziale venefico. Platone svolge questo compito, ritrovando suo malgrado nella scrittura un rimedio contro la sofistica, vale a dire contro la scrittura: è a questa interpretazione dello sforzo platonico come contenimento degli effetti distruttivi dell’ipomnesi attraverso l’anamnesi, ovvero una riattivazione consapevole delle ritenzioni terziarie di cui si compone il mondo, che punta l’esercizio di Stiegler, sempre tenendo in mente il fatto che l’ipomnesi, lungi dall’essere il contrario dell’anamnesi ne è la condizione di possibilità. Questo non toglie che l’ipomnesi in quanto tale sia ambigua, ovvero possa impedire di condurre a buon termine l’individuazione. La natura farmacologica delle ritenzioni terziarie fa sì che l’anamnesi si possa considerare «la buona maniera di praticare l’ipomnesi»49. A sua volta, la scrittura diventerà lo strumento fondante del nuovo milieu associato, ovvero la città costruita sulla scolarizzazione50. 49

50

B. STIEGLER, Philosopher par accident, cit., p. 66. Tale interpretazione della relazione tra anamnesi e ipomnesi pare debitrice del pensiero della rimemorazione, l’Andenken, di Heidegger (cfr. G. VATTIMO, Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 1980). Nonostante questo, Stiegler porta oltre la riflessione di Heidegger superando la rimozione o il fallimento della posizione del problema della tecnica. Se si accetta l’analogia tra la diffusione della scrittura e la diffusione della stampa, tale processo di cura e tecnica del sé, impartito o somministrato dalla società a se stessa si ripropone per esempio con la scolarizzazione obbligatoria universale nel corso del XIX e XX secolo; in questo caso la stampa può essere considerata una nuova epoca dell’epifilogenesi, piuttosto che una nuova fase ortotetica, come si tratterà invece nel corso del XIX secolo con le mnemotecniche sonore e visive.

150

La mimesi e la traccia

Stiegler, una volta individuata questa diagnostica, si propone di riattivare l’intenzione originaria della filosofia, grazie alla lettura incrociata di Platone, Kant e Husserl, per farne una terapeutica farmacologica del presente, tempo che a questo punto possiamo comprendere come gravemente esposto ai rischi contenuti nelle nuove nootecniche51, in primo luogo a causa dell’uso fattone da parte delle industrie culturali e in seconda istanza a causa dell’incapacità di compiere il doppiaggio epocale. 5.5. Proletarizzazione e neo-gregarismo La lezione principale che Stiegler ha appreso da Simondon è la reciproca dipendenza, ovvero la relazione trasduttiva, che lega i processi di individuazione psichica e collettiva: l’una non si può dare senza l’altra. Questo vuol dire che un oggetto tecnico non può esistere al di fuori di un processo di individuazione tecnica, né, evidentemente può accadere il contrario. Un esempio che rende evidente questa relazione è quello che lega i processi di individuazione di un popolo e degli individui che lo compongono alla lingua che essi parlano: la lingua è un milieu simbolico associato fin tanto che permette la costituzione e l’espressione di singolarità, ovvero di individui irripetibili. La lingua non è che un insieme di ritenzioni terziarie trasmesse e riattivabili localmente ed è localmente che potrà istituire un vero e proprio milieu che si dirà associato fintanto che permetterà, grazie alle disposizioni opportune, la costituzione degli individui in processi di individuazione. È solo nel dialogo che tale milieu si può realizzare in quanto associato, perché solo nel dialogo ogni individuo può essere al tempo stesso destinatario e locutore, passivo e attivo, e solo nel momento in cui prende la parola egli può parlare «come nessun altro potrebbe fare al suo posto»52. Parlando come nessun altro potrebbe fare, e non quindi leggendo i discorsi che qualche logografo ha scritto né ripetendo clichés, ogni individuo prende parte attiva alla vita della lingua, essenzialmente facendo

51

52

Cfr. B. STIEGLER, Réenchanter le monde. La valeur esprit contre le populisme industriel, Flammarion, Paris 2006, § 8. Nootecnica è un neologismo coniato da Stiegler per descrivere le tecniche dello spirito ( in greco), ovvero quelle tecniche che, come la scrittura, sono direttamente coinvolte ed anzi destinate alla protesicità dello spirito, ovvero all’esteriorizzazione della memoria. In tal senso gli artefatti, che pure sono vettori di memoria, non esplicitamente concepiti come supporti di memoria, non sono considerate nootecniche. B. STIEGLER, La télécratie contre la démocratie, cit., p. 30.

Ritenzioni e proletarizzazione

151

delle differenze e partecipando così al processo di différance del noi di cui fa parte, cioè rendendo possibile i due processi simultanei. La lingua è un potenziale di individuazione e costituisce per i parlanti il fondo preindividuale istanziato in ritenzioni terziarie (se è vero che la lingua è l’insieme dei libri scritti, delle concrezioni delle individuazioni passate). Per la natura stessa della lingua, quel dialogo dentro cui da sempre siamo, solo colui che prende parte attiva all’interlocuzione si può costituire come soggetto, cioè diventare un processo di individuazione psichica. Secondo Stiegler il processo di individuazione è in prima istanza un processo di sublimazione, cioè di trasformazione delle pulsioni o meglio un contenimento delle pulsioni attraverso la costituzione di un super-Io. Ora possiamo iniziare a renderci conto di quale sia la conseguenza di ciò che alla fine del paragrafo 5.3 abbiamo individuato come zona d’ombra nella riflessione di Stiegler. La tesi di quest’ultimo, radicata in un freudismo tradotto nei termini simondoniani, è che i processi di transindividuazione, cioè la produzione o piuttosto l’animazione di milieux tecnici associati istanziati in ritenzioni terziarie domesticate, siano la condizione di possibilità di ogni sublimazione. In altre parole, solo all’interno della relazione trasduttiva che lega i processi di individuazione psichica e collettiva si può contribuire alla trasformazione e all’associazione del milieu, e quindi alla produzione di oggetti (tecnici, artistici o ideali) sui quali far convergere le pulsioni. Stiegler nota però che, a loro volta, le agenzie che dovrebbero occuparsi di gestire la somministrazione farmacologica delle ritenzioni terziarie sono in rovina, a partire da scuole, licei e università. La tesi critica e politica che Stiegler può a questo punto formulare è la seguente: «la nostra epoca è esposta allo stesso pericolo rappresentato dalla sofistica per la città greca (che conobbe la guerra civile), ma questo pericolo è, ai nostri giorni, esteso a livello mondiale»53. Grazie all’intuizione di matrice derridiana sulla natura essenzialmente farmacologica dell’oggetto tecnico – in quanto ritenzione terziaria – Stiegler ha potuto continuare a porre la domanda sulle condizioni di possibilità della democrazia al tempo dei mass-media sottraendosi alle stantie opposizioni del dibattito ridottosi ad un contrasto retrivo tra apocalittici e integrati. L’innovazione tecnologica in quanto processo di individuazione è infinita (inachevable direbbe Stiegler, essendo l’unico termine di ogni processo di individuazione la morte, che ne è anche la negazione); il sistema tecnico, ovvero scritturale, è per tanto metastabile.

53

Ivi, p. 34.

152

La mimesi e la traccia

Come abbiamo visto, l’impatto dell’innovazione può dividere tra apocalittici e integrati solo nella prima fase di adattamento, quella che abbiamo chiamata fase dello sdoppiamento, nella quale il pharmakon viene analizzato nella sua essenziale ambivalenza di veleno e rimedio. A questa fase, pur necessaria, oltre che inevitabile, deve seguire, in un senso non dialettico ma farmacologico, la fase del doppiaggio, a termine della quale il sistema tecnico si trova riconfigurato attorno a nuove modalità di gestione, ovvero nuove tecniche del sé. Dopo aver chiarito la logica della diagnosi, Stiegler, a partire dal terzo tomo de La technique et le temps, si è potuto concentrare sull’effetto prodotto nel corso del XX dalle innovazioni nel campo delle nootecniche ortotetiche, ovvero da quelle tecniche che come il cinema, la radio e la televisione permettono una terziarizzazione del flusso di coscienza sempre più precisa. La rivoluzione digitale permette, secondo lo Stiegler di saggi come Pour une nouvelle critique de l’économie politique54, di nutrire una speranza nella socializzazione degli strumenti tecnici che hanno costituito le industrie culturali novecentesche, offrendo la possibilità di mettere in piedi un nuovo milieu associato in cui i fruitori, i consumatori di prodotti culturali, possano a loro volta diventare produttori, ricostituendo la relazione trasduttiva necessaria. Resta vero che il ritmo dell’innovazione tecnologica non lascia il tempo necessario a condurre a buon termine il double redoublement épokhale. È ora di capire quali siano le conseguenze di tale limite temporale e valutare in che misura la tesi di Stiegler sia sufficiente a formulare una diagnosi filosofica del nostro tempo. Abbiamo visto che il processo di individuazione psichica non può prescindere né dal suo pendant collettivo, né dall’accesso al fondo preindividuale istanziato nelle ritenzioni terziarie ereditate. Già ne La faute d’Epyméthée, volume dedicato in gran parte al confronto con Heidegger, Stiegler metteva in luce il fatto che di tale lascito si può fallire l’assunzione, ereditandolo inautenticamente55. Questa eventualità coincide con quella che altrove, confrontandosi con Rousseau – e ripercorrendo quindi in buona parte le considerazioni che il suo maestro 54

55

B. STIEGLER, Pour une nouvelle critique de l’économie politique, Galilée, Paris 2009, nella quale Stiegler fonda il progetto teorico di un’economia della contribuzione che possa al tempo stesso essere un’economia delle merci e dei prodotti, ma anche un’economia libidinale, ovvero un sostegno sociale alla socializzazione delle pulsioni. B. STIEGLER, La technique et le temps. Tomo I, cit., p. 254.

Ritenzioni e proletarizzazione

153

aveva formulato nella Grammatologia –, Stiegler aveva definito denaturazione, indicando con tale espressione «l’esteriorizzazione di sé, il diveniredipendente del sé, l’alienazione del sé, dell’originario, dell’autentico, nel fattizio, il tecnico, l’artificiale morto che costituisce la mediatezza di un mondo sociale e differenziato di oggetti, e dunque di soggetti, poiché in tal modo, non è che attraverso i suoi oggetti (attraverso gli oggetti che possiede) che il sé si definisce, e così non è più sé»56. Stiegler riprende la tradizione critica hegelo-marxiana della nozione di alienazione, facendone un momento di una dialettica necessaria anche se non necessariamente rivolta ad una sintesi finale. L’alienazione non è quindi una denaturazione nel senso di una compromissione di uno stato originario di purezza e spontaneità naturali, ma il fallimento di una relazione necessaria al processo di individuazione. È anzi proprio a partire da questa diffusa rimozione57 del ruolo della tecnica che Stiegler può condurre un analogo esercizio critico a proposito del concetto marxiano di proletariato. Egli si allontana dall’interpretazione più diffusa del marxismo, negando alla questione di classe la priorità sulla questione della proletarizzazione, che viene invece riletta come la conseguenza della perdita di sapere58. L’italiano ha adottato un’espressione francese – nella quale si cela uno degli snodi della riflessione stiegleriana – per la quale di una persona che abbia uno «stile di comportamento caratterizzato da cortesia, tatto e affabilità» si può dire che ha un certo savoir-faire. La proletarizzazione di un soggetto è ciò che si ottiene nel momento in cui tale soggetto sia privato di un sapere. Questa definizione fa in primo luogo economia di ogni riferimento alla classe operaria, se non in quanto prima classe (anche se dopo la gioventù ateniese del V secolo) ad essere toccata dal fenomeno della proletarizzazione. La classe operaia viene privata della possibilità di acquisire un sapere partecipando attivamente all’animazione di un milieu associato – per esempio la bottega – e quindi indotta a fallire il proprio processo di individuazione, oltre a non poter fornire il proprio contributo al processo di individuazione collettiva. Come avviene tale fenomeno distruttivo? In primo luogo, vale la pena sottolineare ancora una volta che così definita la proletarizzazione è un altro modo per rendere esplicito il fatto che i processi di esteriorizzazione e di interiorizzazione coincidono. Non esiste

56 57 58

Ivi, p. 125. Cfr. la lunga nota 35 nel § 4 di B. STIEGLER, Etats de choc, cit. Ivi, specialmente il cap. VI, Relire Le Capital. Par delà deux malentendus marxistes et post-structuralistes.

154

La mimesi e la traccia

prima un’autenticità, un’interiorità, una purezza, aggredita e compromessa. Esiste invece un processo, costituito di relazioni trasduttive, nel quale un soggetto si soggettivizza assoggettandosi alla relazione con un ambiente ed un sistema tecnico e scritturale nei confronti del quale ha diritto di parola. Ciò che i membri della classe operaia studiata da Marx perdono, né per primi né per ultimi né in esclusiva, è la possibilità di condurre i propri processi di individuazione psichica all’interno di e trasduttivamente a un processo di individuazione collettiva come quello che si dava all’interno di una bottega e che si può e deve dare all’interno di qualsiasi milieu ritenzionale. Ogni pratica umana è appresa per imitazione ma perché essa possa dare luogo ad un processo di individuazione è richiesta una partecipazione attiva, nell’interlocuzione, nella quale ne va della propria soggettività autentica, come in qualsiasi altra interazione, sempre trasduttiva. Il proletario marxiano è solo la prima vittima di una sottrazione di sapere da parte delle macchine nelle quali viene istanziata tutta la serie di movimenti che, dall’attività protoartigianale del Paranthropus boisei sino alla rivoluzione industriale, costituiva il processo di disposizione ritenzionale con cui ogni soggettività manuale si poteva costituire. Il savoir-faire non è che una della tipologie di sapere che il singolo individuo può apprendere nel corso della propria vita, insieme, per esempio, al savoir-vivre oltre ovviamente a quello che, stavolta in inglese, viene detto know-how per non dire del sapere proposizionale, del saper pensare, del saper argomentare, e via dicendo. Stiegler segue la critica di Simondon a Marx, nella quale già si notava che la macchina grammatizza e automatizza il sapere manuale dell’artigiano. Lo grammatizza, come l’alfabeto fonetico aveva grammatizzato la lingua greca imponendo la koiné ionica, e lo automatizza, in misura molto più grave di quanto i logografi sofistici avessero automatizzato la produzione di discorsi. Lo sforzo teorico e critico di Stiegler consiste nell’estendere tale osservazione al fatto che nel corso del XIX secolo il medesimo processo di grammatizzazione e automatizzazione si è diffuso a tutti i saperi, il primo, per estensione e gravità, essendo il savoir-vivre59. La conseguenza di tali 59

Stiegler ha qui in mente una critica che, si spera di averlo chiarito a sufficienza, non è affatto apocalittica, della grammatizzazione e esternalizzazione dei servizi. Imprese di catering, baby-sitter, case di cura, psicoterapie comportamentiste hanno in comune la sistematizzazione, grammatizzazione e automatizzazione di tutta una serie di discipline, pratiche e attività della cura le cui esternalità positive sui processi di individuazione psichica oltre che sulla socializzazione vengono completamente perse: il soggetto è per così dire sollevato da tali incombenze e con esse della propria soggettivazione: un dono avvelenato.

Ritenzioni e proletarizzazione

155

processi di proletarizzazione, ovvero di disindividuazione, è quello che Stiegler chiama neo-gregarismo e di cui possiamo intuire facilmente la fenomenologia. Nel momento in cui il singolo individuo non riesca ad interagire con il proprio milieu60, il proprio processo di individuazione, che è un processo di singolarizzazione61, fallisce schiacciando l’individuo sul fondo preindividuale ritenzionale. Se teniamo conto, come visto in 5.1, che la riattivazione o assunzione delle ritenzioni terziarie sovradetermina il flusso di coscienza interagendo con le ritenzioni primarie e secondarie, possiamo capire perché la proletarizzazione possa condurre a forme di neo-gregarismo, ovvero ad una regressione degli individui psichici a folle mimetiche. Se questo è vero per le tecniche in generale, come nel caso dell’operaio e del care-giver62, gli effetti potenzialmente distruttivi prodotti dalle tecniche dello spirito, nel frattempo evolute in nootecnologie possono avere conseguenze ancora più rilevanti. Lo sforzo più recente di Stiegler è cercare di capire quale possa essere l’effetto degli oggetti temporali tecnologici di cui il XX ha progressivamente riempito le nostre vite. Ricordavamo che la caratteristica essenziale dell’oggetto temporale è di scorrere insieme al flusso di coscienza che noi siamo: tale scorrimento è omotetico allo scorrimento di ciascun flusso di coscienza. Quando si ascolta una melodia o una trasmissione radiofonica o televisiva il flusso di coscienza coincide nel tempo con lo scorrimento dell’emissione. Se le ritenzioni terziarie sovradeterminano le ritenzioni primarie e secondarie, nel momento in cui la medesima ritenzione terziaria sia diffusa mediante una nootecnologia ad una massa di coscienze, tale massa di individui esperirà una sovradeterminazione comune delle proprie esperienze ed una sincronizzazione generale delle coscienze. «La società degli oggetti temporali industriali trasforma le nostre esistenze in serie prefabbricate di stereotipi messi uno in fila all’altro. […] Vi aderiamo così 60

61

62

Il termine milieu, che potrebbe tradursi con ambiente, assume in certi contesti un’accezione che pare contenere l’indicazione per cui tale ambiente è anche un sistema. Per questa ragione abbiamo preferito, salvo i casi in cui la traduzione sia inequivocabile, mantenerlo nell’originale. La singolarizzazione è un processo di individuazione irripetibile che niente ha a che fare con la particolarizzazione (cfr. B. STIEGLER, Philosopher par accident, p. 102). La differenza va ravvisata ex parte subjecti: la singolarizzazione è una differenziazione a cui il soggetto prende parte attiva, la particolarizzazione è una differenziazione condotta dal milieu; la particolarizzazione è una singolarizzazione pervertita che però permette l’efficientamento delle risorse (per esempio lo user profiling dei giganti dell’informatica e del marketing digitale). Cfr. B. STIEGLER, Prendre soin. De la jeunesse et des générations, cit.

156

La mimesi e la traccia

intimamente che finiscono per sostituirsi alle temporalità proprie delle nostre coscienze»63. Cerchiamo di capire cosa vuol dire precisamente sincronizzazione delle coscienze e quali sono gli effetti più gravi che essa può produrre. Il lettore era essenzialmente anche uno scrittore e si può dire che per lunghissimo tempo l’identità delle due figure sia stata un fatto: per imparare a leggere non si poteva non imparare contestualmente a scrivere. La scolarizzazione di massa imposta tra il XIX e il XX secolo ha modificato la fattualità statistica di questa relazione, ma essa è rimasta vera almeno in potenza. La rivoluzione tecnologica del XX secolo ha invece prodotto una condizione nuova. Nel corso della sintesi letterale, era l’individuo a compiere la codifica e la decodifica del messaggio; nel nuovo corso della rivoluzione delle industrie culturali sono le macchine – il fonografo, la telecamera, la fotocamera, il computer – ad occuparsi di tale compito, rendendo così possibile e anzi sostanzialmente normale poter essere spettatori, o in generale fruitori (o consumatori), senza avere la minima idea di come diventare registi o in generale produttori. L’apparizione delle nootecnologie priva lo spettatore della possibilità di interagire attivamente con il milieu tecnico in cui si trova, riproducendo a tutti gli effetti il fenomeno della proletarizzazione. Privando ogni individuo della sua singolarità, ovvero della sua diacronicità rispetto all’ambiente, le nootecnologie producono una sincronizzazione che non può che riprodurre i tratti della totalizzazione. Proprio nella modalità del «può» e non del «non può che» sta l’intuizione fondamentale della farmacologia stiegleriana. La sincronizzazione, come la standardizzazione e l’uniformizzazione – che sono nomi simili per processi analoghi – non sono di per sé cattive. Stiegler non è un catastrofista né un reazionario vittima di qualche fallacia dell’età dell’oro. È un critico delle condizioni di possibilità dei processi di individuazione e della sincronizzazione, così come della standardizzazione, vede i pericoli e i costi ma anche le potenzialità. Se la standardizzazione è di per sé fonte di un radicale sfrondamento delle diversità, è anche vettore di economie di scala dello spirito. È la koiné ionica a permettere la nuova individuazione collettiva greca. Lo stesso dicasi della sincronizzazione. Nel caso della lingua per esempio, la singolarizzazione è diacronica ma nei limiti di una comunicabilità sincronica. Se due interlocutori

63

Id., Philosopher par accident, cit., pp. 85-86. Se ne ricordiamo l’originario significato appartenente al campo della tipografia, l’uso del termine stereotipo, come dell’equivalente francese comune anche in italiano clichés, in questo contesto è quanto mai appropriato.

Ritenzioni e proletarizzazione

157

individuassero all’eccesso le proprie idiomaticità non riuscirebbero più a parlarsi. D’altro canto, se si schiacciassero completamente sul fondo preindividuale, ovvero sugli stereotipi della lingua condivisa, non si direbbero niente. La sincronizzazione in tal senso, come dovrebbe essere ormai chiaro visto il generale pensare per verbi e non per nomi di Stiegler, è ciò che permette la condivisione e diventa un problema solo nel momento in cui si cristallizzi in sincronia, cioè in equilibrio statico (vale a dire non in quel tipo di equilibrio dinamico che è la metastabilità). La preoccupazione di Stiegler diverge qui dalla nostra. Egli si interessa più che altro agli effetti a livello individuale64 dell’estensione crescente della regione di possibilità che separa i poli ambivalenti della farmacologia65: qualora i processi di riattivazione e adozione degli oggetti tecnici e delle ritenzioni terziarie tecnologiche non siano opportunamente condotti, la morte che la ritenzione terziaria in primo luogo è si installa nella vita, la infesta, la colonizza. Come si notava a proposito della scrittura, la grammatizzazione fa parte integrante dei processi di innovazione tecnica, ma al tempo stesso crea le condizioni di possibilità perché i saperi che vengono così sistematizzati, e che rappresentavano risposte in buona sostanza empiriche a problemi di individuazione adeguate ai milieux associati precedenti, perdano la loro funzione curativa a vantaggio degli effetti disindividuanti del pharmakon. Per questa ragione Stiegler invoca uno sforzo creativo che possa mettere in piedi una farmacologia dello spirito, ovvero un sistema di cura. La domanda che ci dobbiamo porre è chi possa prendersi cura, chi possa assumersi la responsabilità di somministrare tale farmacologia66? Ovvero, quale istituzione potrà continuare a fare la differenza? Soprattutto, dovremo capire se e come tale agenzia possa interagire con le conseguenze sistemiche di ogni gregarismo che la teoria dell’imitazione affrontata dei capitoli 3 e 4 ha messo in luce.

64

65 66

Non è comunque irrilevante notare il fatto che Stiegler individui nel gregarismo, ovvero nella privazione «d’individualità», nella produzione di «troupeaux d’êtres» la causa di un malessere che, in assenza di un leader, o di un punto fisso endogeno che ne canalizzi l’energia, li induce, come già notava Freud ne Il disagio della civiltà, a diventare vieppiù furiosi. Cfr. B. STIEGLER, “Le désir asphyxié, ou comment l’industrie culturelle détruit l’individu”, in «Le monde diplomatique», juin 2004. A tale riflessione sono dedicate la serie in tre tomi B. STIEGLER, Mécreance et discredit, Galilée, Paris 2004, 2006, 2006 e quella in due tomi Id., De la misère symbolique, Galilée, Paris 2005, 2005. Cfr. E. ANTONELLI, “De la pharmacologie. Entretien avec B. Stiegler”, cit., pp. 70 e sgg.

158

La mimesi e la traccia

5.6. Pharmakon vs. Pharmakos Come abbiamo visto nel corso dei capitoli 3 e 4, la teoria mimetica accosta alla tesi del desiderio mimetico, inteso come mimesi d’acquisizione, una sorta di pendant sistemico che Girard definisce mimesi d’antagonista e che Jean-Pierre Dupuy ha formalizzato come logica del punto fisso endogeno. La prima occorrenza di tale effetto di sistema è la vittimizzazione espiatoria poi grammatizzata e istituzionalizzata nel mito e nel rito. Essa produce una ritenzione terziaria, per esempio il corpo della vittima o il cumulo di pietre sotto cui la lapidazione l’ha sepolta. La tomba della vittima è una ritenzione terziaria, è un oggetto scritturale prodotto da una tecnica che Girard ha definito meccanismo mimetico-vittimario, il cui effetto disindividuante non occore mettere in luce. Consideriamo l’esempio ateniese del pharmakos, la vittima di scorta, il sostituto: a ogni nuova celebrazione rituale la comunità potrà sperimentare una nuova sincronizzazione, ovvero una nuova pace che può essere interpretata in termini aristotelici, come frutto di una catarsi, oppure in termini diciamo computazionali, come frutto di una nuova differenza, una nuova distinzione, ovvero come una différance. La traccia della vittimizzazione, l’omphalos per esempio, è un déjà-là comune sia nell’iscrizione sia nella riattivazione che offre alla comunità lo spazio trascendentale che essa andrà di lì in avanti ad abitare. In un certo modo, come per altro raccontano numerosi miti, la comunità si trova ad abitare dentro la vittima67, vale a dire nella struttura differenziale dei divieti, rituali e miti che costituisce la cultura e che farmacologicamente fornirà un percorso di individuazione psichica e collettiva. La piramide è una traccia già da sempre sincronizzata che apre la condizione di possibilità di un’interazione diacronica, all’interno della quale poi inserire le variegate tipologie di relazioni trasduttive che i membri della comunità possono intrattenere gli uni con gli altri e con e attraverso gli oggetti tecnici propri ad ogni tempo e ad ogni milieu. Il fondo preindividuale in questo caso non è però costituito solo dalle sedimentazioni di individuazioni psichiche passate; la stessa adesione al passo freudiano citato in esergo alla Télécratie contre la démocratie testimonia del fatto che Stiegler non ha tenuto nella dovuta considerazione le dinamiche del gregarismo. Non si capisce sulla base di cosa il je dell’in-

67

Si veda, tra i tanti esempi possibili, il mito vedico del gigante Purusha, Rgveda Samhita, trad. ing. Svami Satya Prakash Saravasvati and Satyakam Vidyalankar, vol. XIII, PratishthanaVeda, New Delhi 1987, p. 4487 (book 10, hymn 90, lines 9-14).

Ritenzioni e proletarizzazione

159

dividuazione psichica potrebbe mai combinarsi con il nous dell’individuazione collettiva in prima istanza, se non a seguito dell’effetto di sistema che nei primi capitoli abbiamo delineato a partire dalla mimesi d’antagonista e dalla doppia-mediazione. Il già da sempre, il déjà-là, è proprio il limite a cui Girard, Serres e Dupuy – ma anche Derrida a suo modo – hanno cercato di porre rimedio. La morfogenesi mimetica è la risposta a questo problema68: la prima sedimentazione è la cristallizzazione di un processo collettivo come può essere il meccanismo vittimario, il cui tratto costitutivo è proprio lo svolgimento meccanico, non spirituale. La condizione di possibilità di ogni relazione è un fondo sincronico che rende poi efficaci le istituzioni che su di esso possono poggiare, nella rimozione più assoluta della natura di tale riferimento. Vien da porsi una domanda: nello spirito della Crisi delle scienze europee di Husserl, la riattivazione comune della traccia della vittimizzazione, almeno tenendo conto dell’interpretazione girardiana del mito come versione complice della persecuzione, potrebbe dirsi già da sempre fallita; o meglio, il mito e il rito riattivano un’intuizione originaria falsa e partecipano alla rimozione di quella vera. Il problema che stiamo seguendo si ripropone sotto una nuova veste: ci sono ritenzioni terziarie che se riattivate secondo l’intenzione originaria vengono distrutte, ritenzioni costitutivamente opache, come le tombe, che possono fondare solo se rimosse. Secondo la teoria mimetica è grazie alla méconnaissance di tale rimozione che le strutture sorte dalle tracce del meccanismo vittimario possono continuare ad esistere, ovvero possono continuare a fare la differenza. Le istituzioni, come abbiamo visto in 3.6, sono il frutto della ripetizione di ritualità vittimarie e proprio nell’esercizio della facoltà di discriminazione possiamo riscontrare tale genealogia69. La tesi politica di Stiegler mira a riaccordare al cittadino, mediante i sistemi di rappresentanza politica, il diritto e la responsabilità di mantenere le istituzioni che dovrebbero occuparsi della disposizione del double 68

69

Per un’approfondita analisi epistemologica di cosa la logica del punto fisso endogeno, ovvero la morfogenesi mimetica, possa portare alla metodologia delle scienze sociali si vedano le riflessioni di D. Chavalarias a proposito dell’individualismo metodologico complesso che Dupuy ha sviluppato, D. CHAVALARIAS, “Désir mimétique et imitation rationnelle. Vers un individualisme méthodologique complexe”, in J.-P. DUPUY, Dans l’œil du cyclone. Colloque de Cerisy, Carnets Nord, Paris 2008, pp. 247-264. Se non ci portasse troppo lontano dalla nostra riflessione, si potrebbe sostenere che se in Foucault la disciplina diventa dominio e biopolitica è perché le istituzioni che si dovrebbero ancora oggi occupare di somministrarla vengono riconosciute nella loro illegittimità.

160

La mimesi e la traccia

redoublement épokhale e al tempo stesso prendersi cura dei processi di individuazione psichica e collettiva. Il rischio intravisto da Stiegler è che i pharmaka nootecnologici possano intromettersi e cortocircuitare tali sistemi di rappresentanza e con essi la politica e la res publica in generale70. Stiegler considera la nascita della città democratica come soluzione e disposizione del pharmakon scritturale e in tal senso interpreta l’intenzione originaria e l’essenza della filosofia come critica farmacologica della tecnica al fine di trovare sempre nuove soluzioni, nuove terapie per gestire il processo di individuazione collettiva che era la polis e che poi è stata la nazione. La diagnosi proposta da Stiegler si scontra qui con quella costruita a partire dalle fondamenta della teoria mimetica. Le agenzie di gestione dei dispositivi ritenzionali che oggi parrebbero in difetto sono oggetto di un cortocircuito prodotto dagli stessi pharmaka di cui avrebbero dovuto prendersi cura attraverso la critica, oppure è possibile stabilire l’esistenza di un secondo binario? La teoria mimetica è costituita di un terzo pilastro di cui non abbiamo ancora parlato e che a questo punto del nostro ragionamento diventa fondamentale. A partire dal saggio del 1978, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, alle tesi del desiderio mimetico e del meccanismo vittimario Girard aggiunge i fondamenti di un’ermeneutica biblica che fa del testo giudeo-cristiano il vettore dello svelamento del meccanismo mimetico-vittimario. Interpretando tale testo in senso eminentemente antidiscriminatorio, Girard sostiene, come vedremo nel prossimo capitolo, che la diffusione progressiva del testo biblico abbia indebolito il velo della méconnaissance che sola permetteva al meccanismo mimetico di condursi a termine. Tale tesi, se presa sul serio, mette in discussione la possibilità che i prodotti del meccanismo vittimario, in altre parole, come abbiamo visto, le istituzioni, possano essere a loro volta indeboliti da tale rivelazione ovvero vedere indebolita la propria capacità di discriminare, di fare la differenza con tutto ciò che ne consegue, anche per le disposizioni terapeutiche. Ci resta da capire quale possa essere la conseguenza di tale indebolimento sull’esigenza di prendersi cura dei pharmaka che l’evoluzione tecnologica rende disponibili a ritmi crescenti.

70

Cfr. E. ANTONELLI, “De la pharmacologie”, cit., p. 71.

PARTE TERZA

163

6. MICROFISICA DELLA SECOLARIZZAZIONE

Le premier homme qui est mort a dû être drôlement surpris. Georges Wolinski

6.1. Lo svelamento e la conversione Girard ha inaugurato la sua svolta antropologica a partire da un’intuizione che con il tempo si rivelerà rivoluzionaria e al tempo stesso tenacemente conservatrice. Come si intuisce dal titolo del saggio del 1972, La violenza e il sacro, Girard stabilisce una relazione di identità tra i due membri dell’endiadi, tanto che si potrebbe leggere il titolo anche sostituendo la copula alla congiunzione: la violenza è il sacro1. Il punto di svolta della sua riflessione consiste nel comprendere il processo di differenziazione interno alla violenza che permette ad una violenza uguale a tutte le altre di porsi come supplemento. Non la violenza tout court allora, ma la violenza supplementare è il sacro. Il sacro è il frutto dell’autotrascendenza del sociale, della proiezione del gruppo nel punto fisso endogeno, costituito all’occorrenza dalla vittima espiatoria. Tutti i grandi miti di fondazione e con loro buona parte dei rituali condividono questo medesimo esercizio, ovvero – riprendendo la definizione di istituzione fornita nel capitolo terzo – creare la distinzione tra la violenza cattiva, la violenza che getta la comunità nel cattivo infinito della reciprocità, e la violenza supplementare, la violenza buona che pone fine all’effervescenza. Il terzo pilastro della teoria mimetico-vittimaria, è frutto di un lungo studio comparativo tra le mitologie e le ritualità arcaiche e pagane e il solco della tradizione a cui l’Occidente appartiene: non solo Atene e Roma quindi, ma anche Gerusalemme.

1

R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 50.

164

La mimesi e la traccia

Guidato su questi passi dall’intuizione di Nietzsche, nel quale riconosce il più grande teologo dai tempi di San Paolo2, Girard pone a confronto la scena vittimaria individuata nei vari miti analizzati e la Passione di Gesù Cristo, centro di scaturigine di un fenomeno di cui possiamo ora iniziare ad indagare le conseguenze – almeno secondo le interpretazioni convergenti di René Girard, di Paul Dumouchel e di Gianni Vattimo. Il Vangelo racconta e mette in scena, da quattro prospettive diverse, un evento in cui Girard riconosce alcuni tratti salienti comuni a molti dei testi oggetto delle sue indagini antropologiche: «la crocifissione è il risultato della collaborazione […] di una vera e propria folla che, improvvisamente e “senza causa precisa”, diventa ostile a Gesù»3. Lo stesso si potrebbe dire di moltissimi altri episodi e drammi spettacolari del Vecchio Testamento, dal servo sofferente, in Isaia, a Giobbe, a Giuseppe: si tratta sempre di esempi di violenza collettiva in cui individui soffrono e vengono uccisi per mano di folle ostili, si tratta sempre di episodi di linciaggi. Lo stesso tema emerge dall’analisi ispirata alla metodologia mimetica di tanti altri miti, specialmente di quelli più arcaici: al centro sorgivo di ogni mitologia si pone un linciaggio. La differenza fondamentale, secondo Girard, va ricercata nella prospettiva, ovvero nell’interpretazione che di tali eventi viene fornita dal testo. A tal proposito viene stabilita una differenza metodologica tra i testi in cui il capro espiatorio, l’episodio vittimario, appare come tema e quelli in cui si cela nella struttura. Il capro espiatorio è un oggetto di studio dotato di una caratteristica molto speciale: è un oggetto la cui esistenza dipende in maniera inversamente proporzionale dalla conoscenza che se ne ha. Il capro espiatorio perfetto è quello di cui nessuno si è accorto. Nel momento stesso in cui qualcuno si accorge della vittimizzazione che sta producendo un capro espiatorio, venendo denunciato in quanto tale, esso scompare. È per questa ragione che certi testi sono strutturati attorno alla rimozione, o piuttosto al mancato svelamento del capro espiatorio, ovvero dell’innocenza della vittima. Il Vangelo, in modo ancora più esplicito di quanto non facesse il Vecchio Testamento, mette in scena e disvela il processo che dà luogo questo tipo di eventi: in prima istanza, nota Girard a partire da Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo – versetto biblico che dà il titolo al saggio del 1978 in cui si assiste alla terza svolta del pensiero girardiano – i Vangeli mostrano che non solo i nemici vengono coinvolti 2 3

Cfr. R. GIRARD, G. VATTIMO, Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, a cura di P. Antonello, Transeuropa, Massa 2006, p. 51. Ivi, p. 83.

Microfisica della secolarizzazione

165

nell’impulso violento, ma anche gli amici e seguaci, compreso lo stesso Pietro. Il contagio della violenza, ciò che abbiamo imparato a conoscere come mimesi d’antagonista, non risparmia neppure coloro che condividono la sofferenza di Gesù, crocifissi al suo fianco. A differenza dei miti pagani – e di certi testi veterotestamentari – i Vangeli non suggeriscono che tale violenza collettiva sia di origine divina e mostrano anzi che la vittima sulla quale essa si riversa è innocente. L’osservazione di Girard si giova dell’uso che la tradizione occidentale cristiana fa dell’espressione ‘capro espiatorio’, sondandone l’intrinseca ambiguità e trovandosi a constatare l’intraducibilità in lingue non esposte alla storia degli effetti della Bibbia4. Per descrivere questo tipo di episodi, a cui l’uomo occidentale è più o meno avvezzo, noi usiamo in genere senza contezza un’espressione, capro espiatorio, che in origine designava la vittima di un rituale ebraico descritto in Levitico 16, fondato, come tanti altri – e come il rituale di uccisione delle Vestali analizzato in 1.3 – sulla funzione catartica e apotropaica dell’espulsione di un individuo sul quale venivano concentrate le impurità della comunità. L’uso che la nostra cultura fa dell’espressione capro espiatorio non ha però niente a che fare con una ritualità catartica e descrive invece una tipologia di eventi o di episodi caratterizzata non già dalla ripetizione metodica, ma dalla spontaneità. La tesi di Girard, dunque, è che la narrazione della morte di Gesù vada interpretata come la prima esplicita denuncia, una sorta di primo j’accuse, di un linciaggio perpetrato da parte di una folla inferocita ai danni di una vittima innocente. La differenza con i miti arcaici e pagani non è quindi nell’evento, ma nella prospettiva che i relatori assumono nel raccontarlo. Se la vittima dei miti, ammesso che sia riconosciuta come tale, è sempre colpevole – al più non intenzionalmente, come nel caso di Edipo – la vittima dei testi biblici è sempre innocente. Il mito consiste in un racconto ingannevole di una persecuzione a proposito della quale gli stessi autori s’ingannano5. Come abbiamo visto analizzando il 4

5

Nel 1982 Girard pubblica Le bouc émissaire la cui traduzione giapponese provocò con certo gradito stupore grandissimi problemi, non esistendo nella lingua giapponese alcun significante adeguato a rendere tale significato a fronte di una certa abbondanza di riti caratterizzati da tale struttura oltre che, come ebbe poi a notare Paul Dumouchel, numerosi casi di cronaca quotidiana perfettamente coerenti con tale logica, cfr. Id., “Ijime”, in «Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture», 6, Spring 1999, pp. 77-84. In questo senso il mito per Girard è qualcosa di molto simile all’ideologia, salvo il fatto che tale produzione non è tesa a legittimare gli interessi di una classe contro

166

La mimesi e la traccia

fenomeno della doppia mediazione, pur risultandone poi a sua volta, è in qualche misura la convinzione della colpevolezza della vittima a generare l’effetto di risonanza che permette a tutti gli occhi di convergere, con il sostegno reciproco, nella specularità dell’imitazione (razionale o irrazionale) sull’oggetto della comune riprovazione6. I mitografi, ovvero l’esercizio di individuazione psichica e collettiva che dà luogo a narrazioni condivise e partecipate, non mentono intenzionalmente, né cercano di trarci in inganno, magari per lavarsi la coscienza davanti ad improbabili tribunali posteri. I testi biblici rifiutano invece le credenze delle folle violente e le denunciano prendendo sistematicamente la difesa delle vittime. Come detto, il capro espiatorio è un oggetto paradossale che può esistere solo fintanto che non se ne abbia conoscenza. In effetti in questo caso l’epistemologia distrugge l’ontologia, o piuttosto la dipendenza dell’ontologia dall’epistemologia è rovesciata. Il capro espiatorio è un oggetto che esiste solo fintanto che nessuno se n’è accorto, o a partire dal momento in cui tutti se ne dimenticano, o meglio tutti ce ne dimentichiamo7. Vista la natura della relazione tra ontologia ed epistemologia del capro espiatorio, Girard ne desume una sorta di prova della divinità di Cristo: «il ricorso al capro espiatorio è un fenomeno assolutamente paradossale e invisibile, la

6

7

l’altra: il tratto fondamentale di tale differenza è insomma l’unanimità. È questa causalità circolare che sfugge alla maggior parte di coloro che hanno riflettuto sul tema delle persecuzioni, per esempio I. BERLIN, En toutes libertés : entretiens avec Ramin Jahanbegloo, Félin, Paris 1990, trad. it. di E. Antonelli, In libertà. Conversazioni con Ramin Jahanbegloo, Armando, Roma 2012, p. 76. Già Durkheim aveva notato tale strana condizione epistemologica di una disciplina come la scienza delle religioni, pur senza avvedersi che – come viene messo bene in luce da P. DUMOUCHEL, “De la méconnaissace”, in «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», 1, 2011, pp. 93-106 – esistono almeno due modi in cui una religione, un mito, una narrazione, possono essere detti falsi, erronei. Tale intuizione è alla base della nozione girardiana di méconnaissance. Di conseguenza, non solo l’animismo o il naturismo patiscono gli effetti del sapere prodotto dalla scienza delle religioni, cfr. E. DURKHEIM, Le forme elementari della vita religiosa, cit., p. 121. In effetti, anche la tesi di Pierre Bourdieu a proposito dello storico problema delle sciences de l’homme françaises sulla natura e lo spirito del dono – inaugurato da Mauss e approfondito da Lévi-Strauss – fa riferimento a tale medesimo problema: secondo Bourdieu, infatti, il dono è mosso dalla logica dell’interesse (e non dallo hau né dall’a priori della reciprocità), ma tale principio deve essere oscurato perché lo scambio possa avere luogo. Cfr. P. BOURDIEU, Esquisse d’une théorie de la pratique, Droz, Ginevra 1972, p. 222, trad. it. Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila, Raffaello Cortina, Milano 2003. Infine, secondo Dupuy, tale statuto paradossale caratterizza tout court la relazione tra la sociologia critica e il suo oggetto, il sociale, cfr. J.-P. DUPUY, Avions-nous oublié le mal?, cit., pp. 28-29.

Microfisica della secolarizzazione

167

cui delucidazione è umanamente impossibile»8. In effetti gli stessi Vangeli raccontano la partecipazione involontaria di Pietro al linciaggio di Gesù; una minoranza della folla riceverà però, dopo la Resurrezione, il sostegno dello Spirito Santo, del Paracleto – che significativamente, ma ormai oscuramente, significa «avvocato difensore» – grazie al quale i discepoli saranno capaci di rendersi conto di ciò che nessuno è capace di fare senza il suo aiuto e che nessuno aveva mai fatto prima, ovvero percepire la propria personale anche se per lo più eteromatica partecipazione al meccanismo persecutorio. A partire da tale osservazione, nei paragrafi e nel capitolo seguente potremo mettere in luce in che modo la teoria dell’imitazione permetta di comprendere l’essenza della tesi sul nichilismo di Gianni Vattimo e così trarre gli strumenti per fornire un contributo per un’ontologia dell’attualità. Pur senza voler entrare in un argomento al di fuori della portata di questo e forse di qualsiasi altro testo, possiamo notare che nell’analisi delle cosiddette conversioni romanzesche formulate al termine di Menzogna romantica e verità romanzesca, Girard attribuisce a tale momento la medesima caratteristica introspettiva. Se i discepoli del Cristo possono rendersi conto della propria personale partecipazione alla persecuzione di Gesù, il romanziere che abbia vissuto sino al termine il viaggio della conversione, riesce a rendersi conto del proprio coinvolgimento nelle spire della mimesi. Il romanziere – Girard già nel 1961 sottolinea l’uso di figure, metafore e percorsi largamente ispirati alla tradizione religiosa cristiana – si rende conto della propria partecipazione alle figure proteiformi del desiderio mimetico e solo grazie a tale conversione, che assomiglia molto alla Verwindung heideggeriana e vattimiana9, può iniziare un percorso di convalescenza e di guarigione da una malattia dello spirito che ha tutte le caratteristiche della metafisica, a partire dalla distinzione mendace tra il desiderio vero ed uno finto, ovvero tra il mondo vero e la favola. Ciò che Girard tuttavia non prende in considerazione, né in un caso né nell’altro, ritrovandosi a dover ricorrere all’ipotesi divina, è il ruolo che la scrittura come tecnica e come ritenzione terziaria ha in entrambe le vicende. È proprio la scrittura a permettere di condensare gli eventi di cui le mitografie raccontano. L’(archi)scrittura, anche solo mnestica, permette di fissare le vicende e dare luogo a quella storia degli effetti della Bibbia di cui la Bibbia 8 9

R. GIRARD, G. VATTIMO, Verità o fede debole?, cit., p. 88. A tal proposito si veda l’ultimo capitolo di G. VATTIMO, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985.

168

La mimesi e la traccia

stessa, in quanto biblos, è il primo risultato. Allo stesso modo, analogamente e inversamente a quanto notava Tyler Graham discutendo della parabola personale di Sant’Agostino come di una conversione romanzesca10, Girard non nota mai che i romanzieri di cui parla sono in primo luogo autori di libri11, ovvero di ritenzioni terziarie attraverso le quali essi possono lavorare sul proprio flusso di coscienza. Se Stiegler osserva questa condizione di possibilità in merito a Kant, un nome che indica in primo luogo l’autore di quel flusso di coscienza terziarizzato, grammatizzato e coerentizzato che sono le opere di Kant, Girard si dimentica di rilevare che Cervantes, Shakespeare, Stendhal, Dostoevskij, e ovviamente in massima misura Proust, sono in primo luogo scrittori. La svolta di cui abbiamo riassunto i cardini tra il Proust di Jean Santeuil e il Proust de La Recherche è una conversione romanzesca, ma anche e soprattutto il frutto della rilettura critica che Proust può fare di se stesso attraverso l’analisi – che Girard considera metodologicamente fondamentale – del romanzo come riflesso non necessariamente pedissequo ma evidente della propria personale esperienza. Pare insomma che la conversione romanzesca sia in prima istanza un salto quantico di individuazione generato da un appropriato agencement, da un’appropriata interazione trasduttiva con la ritenzione terziaria e con la tecnica che è la scrittura. Ovviamente tutto il problema di una tale affermazione sta in quell’aggettivo, appropriata, di cui dovremmo poter discutere le condizioni di possibilità generali, al di là del genio o dell’occasione singolare. È proprio quest’aspetto che Stiegler non prende in considerazione e che ci pare qui fondamentale se non altro mettere in luce e problematizzare adeguatamente. Prima di poter analizzare tale questione dovremmo però cercare di capire quali siano le conseguenze dello svelamento del meccanismo vittimario operato dai Vangeli, ovvero quale possa essere la lunga storia degli effetti derivata da quel punto di scaturigine che è il racconto della Passione. 6.2. La sovranità e il rito funebre Il sacro è un meccanismo di controllo metastabile della violenza intestina dei gruppi, a sua volta frutto avvelenato della mimesi: questa la tesi fondamentale della teoria mimetica. Il sacro è un trasferimento unanime 10 11

T. GRAHAM, “St. Augustine’s Novelistic Conversion,” in «Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture», vol. 5, 1998, pp. 135-154. D’altro canto pare sospettarlo quando nota che: «Il testo stampato possiede una virtù di suggerimento magico di cui il romanziere non si stanca di fornirci esempi», R. GIRARD, Menzogna romantica e verità romanzesca, cit., p. 30.

Microfisica della secolarizzazione

169

che mette in forma la violenza, rendendola legittima, ovvero distinguendo la buona violenza, che costruisce la pace, dalla cattiva violenza che genera il disordine. Appoggiandoci al lavoro di Lucien Scubla in merito al complemento offerto dalla teoria mimetica al lavoro di Hocart, abbiamo già visto da un punto di vista genealogico quale possa essere la relazione tra il sacro per come questo viene descritto da Girard e la monarchia, in quanto archetipo di ogni istituzione. Usando le categorie derridiane, si potrebbe dire che così come il trascendentale è un empirico differito12, il Dio è un capro espiatorio differito, e il re è un capro espiatorio in differita, ovvero un capro espiatorio ancora in vita. Paul Dumouchel ha affrontato tale questione da un punto di vista analitico, tenendo in considerazione la storia degli effetti del testo biblico, interessandosi al problema della sovranità nel Leviatano di Hobbes13, come modello teorico puro della monarchia. Nel 1983, in occasione della celebrazione per i sessant’anni di René Girard, Dumouchel presentava a Stanford un articolo dal titolo Hobbes: La course à la souveraineté14, in cui, tenendo conto dei principi di universalità e assolutezza che guidano la tesi di Hobbes, pone in analisi il processo di selezione15 del Sovrano. Hobbes non poteva indicare caratteristiche specifiche del Sovrano senza mettere in dubbio – per il solo fatto di caratterizzarlo in un modo piuttosto che un altro – l’assolutezza del potere di cui tale sovrano sarebbe stato investito e – limitandone a certe contingenze l’applicabilità – ridurre le pretese universaliste di tale proposta. Il fatto di dire, come fa Hobbes, che la scelta è irrilevante, arbitraria, che chiunque potrebbe occupare tale posizione, pur-

12 13 14 15

Ci permettiamo di rimandare al paragrafo III, 4 di E. ANTONELLI, La creatività degli eventi, cit. pp. 93-100, in cui tale parallelo è approfondito e legittimato. Si veda anche a tal proposito W. PALAVER, “Mimesis and Scapegoating in the works of Hobbes, Rousseau, and Kant” in «Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture», n. 10, 2003, pp. 126-148. P. DUMOUCHEL, “Hobbes: La course à la souveraineté”, in To Honor René Girard. Presented on the occasion of his sixtieth birthday by colleagues, students, friends, ANMA Libri, Stanford, CA 1986, pp. 152-176. Il problema della selezione ci accompagna sin dall’inizio della nostra ricerca e per certi versi, ricordando alla vicenda edipica, si potrebbe dire che accompagna l’Occidente sin dall’inizio. Nell’antichità si ricorreva all’interrogazione oracolare, per differire l’arbitrio inerente e farne ricadere la responsabilità su di un punto fisso esogeno. Tuttavia in genere anche gli oracoli, come Hobbes, evitavano di eccedere in precisione nel fornire il proprio responso; cfr. W.B. TYRRELL, op. cit., p. 65.

170

La mimesi e la traccia

ché qualcuno la occupi, non risolve il problema di come, nella finzione logica proposta, tale selezione venga effettivamente condotta. Dumouchel ricorda che in Hobbes la scelta di cedere i propri diritti alla violenza ad un unico sovrano vorrebbe essere guidata dalla pura razionalità, ovvero dalla consapevolezza che l’unico modo per non dover vivere nello stato di natura è attribuire ad un solo soggetto la potenza a cui tutti rinunciano: in altri termini, il sovrano deve detenere il monopolio della violenza legittima perché possa regnare la pace. Tenendo in considerazione l’antropologia mimetica girardiana, Dumouchel nota subito che la posizione del sovrano non può che diventare immediatamente oggetto di un conflitto mimetico tra gli individui i quali tutti, secondo lo stesso Hobbes, possono legittimamente e razionalmente aspirare ad occuparla. Giocando con la teoria dei giochi e della scelta razionale, Dumouchel ottiene un risultato ormai non sorprendente. Se ammettiamo che gli attori di tale finzione siano perfettamente razionali, lo stato di guerra in cui versano si pone come conseguenza non-intenzionale di tale situazione. Come uscirne? In prima istanza è necessario indagare la costituzione dello stato di natura, a partire dal fatto che esso è un ordine – che Dumouchel in opposizione alla nozione di ordine irrazionale (il sacro girardiano), e a quella di ordine ragionato (il Leviatano), definisce come razionale perché indifferente alla conoscenza che i membri del sistema hanno delle logiche che sostengono il sistema medesimo. L’ordine di natura è razionale perché è un equilibrio stabile che non necessariamente cambia in funzione della conoscenza che di esso si diffonde – condizione che invece caratterizza come abbiamo visto il sacro girardiano –, ma non la richiede, come invece è richiesta da un ordine ragionato come quello proposto da Hobbes, nel quale è necessario che gli individui sappiano che l’esistenza del Sovrano è loro necessaria ma che a sua volta necessita del loro accordo. La prima caratteristica di tale ordine è il fatto di essere costituito da attori uguali tra loro, in primo luogo perché ugualmente uccidibili e in secondo luogo perché caratterizzati in modo tale che solo il conflitto, cioè essenzialmente la contingenza, può dirimere e giustificare qualsiasi differenza tra di essi16. Basta tale incertezza per garantire la razionalità e legittimità della paura di essere uccisi. La paura a sua volta induce alla prevenzione, cioè all’attacco – che, come nota l’adagio, è la miglior difesa. Come avevamo già visto occupandoci delle tesi di Dupuy, l’incertezza sottoposta ad analisi razionale rende il probabile – l’uccidibilità di ciascuno e quindi 16

Si ripresenta la condizione liminale accettata dal Don Juan, ovvero il codice dell’onore come differimento chissà quanto trasparente della contingenza.

Microfisica della secolarizzazione

171

la rivalità – una certezza, ovvero lo stato di guerra costante. L’altro tratto caratteristico dello stato di guerra, che ne fa un ordine (meta)stabile, è che ad ogni eventuale allontanamento dallo stato di equilibrio, ovvero di uccidibilità generalizzata, l’invidia o la paura razionale indurranno gli attori ridotti a minor potenza ad unirsi per distruggere coloro che si fossero nel frattempo impossessati di un potere eccessivo. Allo stesso tempo, coloro i quali non facessero costantemente mostra di orgoglio rispondendo sempre ad ogni offesa17 si esporrebbero al rischio di essere percepiti come deboli e quindi facili oggetti di conquista e sottomissione, il che inesorabilmente, spiega Dumouchel, conduce ogni gruppo a resistere solo temporaneamente, in generale fintanto che l’obiettivo contingente è stato raggiunto, cioè in genere finché il nemico non è stato sconfitto. Da questa analisi emerge l’equivalenza tra il comportamento dell’invidioso intemperante e del pauroso razionale, sempre l’aggressione. Tale ordine è razionale perché non c’è conoscenza che possa modificarlo: agli attori non basta sapere di essere tutti uguali, tutti razionali per poter scansare l’eventualità del conflitto e dunque della propria uccidibilità – e in tal caso, visto l’immenso costo di tale eventuale equilibrio negativo, nessuno accetterà di smettere le armi, ovvero di rinunciare ad essere responsabile della propria sicurezza18. Ciò non toglie che qualcosa possa condurre tutti gli attori ad un sistema migliore, che ne aumenti le possibilità di sopravvivenza, un ordine ragionato. La soluzione proposta da Hobbes, quel qualcosa che potrebbe condurre tutti gli attori a mettere in piedi un sistema migliore, è il contratto; perché si possa cedere a qualcuno il proprio diritto ad autogovernarsi, a patto che anche tutti gli altri facciano lo stesso, sono però necessarie due cose, l’universalità di tale patto, o almeno l’unanimità meno uno – il sovrano – e la preesistenza del soggetto, individuo o gruppo, incaricato di assumere la sovranità assoluta, ovvero di occupare la posizione del sovrano19. È razionale per gli attori sottomettersi a tale contratto? Una volta ammesso che 17

18 19

«Ogni uomo infatti bada che il suo compagno lo valuti allo stesso grado in cui egli innalza se stesso; e ad ogni segno di disprezzo o di scarsa valutazione, naturalmente si sforza, per quanto osa (e ciò tra coloro che non hanno alcun potere comune che li tenga quieti, è di gran lunga sufficiente a far sì che si distruggano l’un l’altro) di estorcere una valutazione più grande, da quelli che lo disprezzano arrecando loro danno e dagli altri con l’esempio», T. HOBBES, Leviathan, 1651, trad. it. di G. Micheli, Leviatano, La Nuova Italia, Firenze 1987, p. 119. Cfr. E. PULCINI, “Il Sé mimetico e il falso riconoscimento”, in M. Calloni, A. Ferrara, S. Petrucciani (a cura di), Pensare la società, Carocci, Roma 2001, pp. 105-125, p. 109. Cfr. ivi, pp. 166-167. A questa tipologia di contratto unanime segue, poche pagine dopo, sempre all’interno del capitolo XVI, una proposta diversa nella quale l’unanimità è richiesta

172

La mimesi e la traccia

tutti gli attori sono razionali, non invidiosi, né vanitosi, né cattivi, sottomettersi ad un Sovrano qualsiasi aumenta la sicurezza e la garanzia di sopravvivenza. Dumouchel mostra che aderire al contratto è razionale anche qualora, considerando conoscenza comune le condizioni del contratto, si debba procedere ciascuno individualmente a tale adesione. Votare a favore è la scelta razionale, perché non è controproduttiva nel caso in cui ci si trovi in minoranza20. Resta il problema di chi debba occupare la posizione del sovrano, infatti ogni attore ha interesse a sottomettersi al contratto ma non a qualunque condizione. Esiste una configurazione del gioco alla quale l’attore non può razionalmente acconsentire: nello stato di natura che precede nella finzione l’eventuale accesso al contratto, la guerra di tutti contro tutti si realizza in relazioni conflittuali di rivalità non universali. Per quanto ciascuno possa essere in guerra contro tutti sarà in realtà in guerra solo con alcuni, in una rete complessa di interconnessioni sostanzialmente inestricabile. È evidente che ciascuno preferirà restare nello stato di natura, ovvero mantenere il proprio diritto all’autogoverno e alla violenza in ogni caso in cui a occupare la posizione del sovrano venga indicato uno dei nemici con cui tale attore intrattiene una relazione di rivalità almeno potenziale, per esempio da cui teme un’eventuale vendetta. D’altro canto, nota Dumouchel, niente impedisce all’attore razionale di temere che il Sovrano, quand’anche non fosse già coinvolto in una relazione rivalitaria, possa dimostrarsi in effetti esattamente come tutti gli altri uomini, cioè un lupo. Assumiamo in ogni caso che il problema principale sia evitare che qualcuno dei propri nemici possa occupare la posizione di sovrano, accordando a tutti i contraenti un diritto di veto. Risulta evidente che se lo stato di natura è una guerra di tutti contro tutti, tutti, per almeno una relazione rivalitaria, saranno in conflitto con qualcun altro e quindi tutti saranno passibili di veto. Dumouchel propone una soluzione paradossale ma non sorprendente. L’unico attore che possa essere scelto come Sovrano è colui che sia oggetto dei veti di tutti gli altri attori. Il Sovrano deve essere nemico di tutti. Hobbes lo presenta come un Dio mortale, il che per altro, vista l’analisi fin qui condotta, rende molto efficace il famoso frontespizio del Leviatano, nel quale l’illustratore ha avuto la fortuna o il genio di rappresentare gli attori, ogni singolo individuo, rivolti verso il Leviatano che pare crescere nutrendosi proprio di quell’attenzione condivisa. Hobbes ci dice anche che egli resta al di fuori del contratto. Dal momento che che Hobbes non ammette, ci ricorda Dumouchel, che il Sovrano possa essere ucciso da chiunque sen-

20

solo all’interno di una maggioranza e solo per stabilire il consenso a sottomettersi al sovrano, che sarà poi a sua volta scelto su base maggioritaria. Cfr. ivi, p. 170.

Microfisica della secolarizzazione

173

za ingiustizia, l’unica soluzione possibile è che il Sovrano, nemico di tutti ma non per questo uccidibile, sia già morto. La sottomissione al contratto, come aveva ben intuito Hocart, è quindi un rito funebre. 6.3. Lo spazio della vendetta Dumouchel, essenzialmente un filosofo politico oltre che un epistemologo delle scienze sociali, ha ravvisato la possibilità di applicare ed estendere la teoria mimetica in altri campi della sua riflessione, utili a sviluppare il nostro ragionamento. Tenendo sempre presente la genealogia morfogenetica delle istituzioni accennata da Girard, Dumouchel ha condotto un’analisi sulla struttura dello spazio politico, del territorio, a partire dall’istituzione dello stato, secondo un’analisi comparata che tiene in considerazione le società senza potere centrale – come quelle indagate da Raymond Verdier –, lo stato assolutista e le nazioni moderne21. Portata a termine l’analisi logica con la quale ha dimostrato la bontà della genealogia girardiana della monarchia, Dumouchel prosegue il suo sforzo con un’analisi storica delle condizioni di possibilità della sovranità in quanto «monopolio della violenza legittima». Verdier aveva stabilito la natura per così dire striata dello spazio delle società segmentarie, caratterizzate dalla fusione di ciò che in seguito si sarebbe distinto in sacro e politico: in tali società lo spazio sociale è tripartito, o meglio ha una struttura a tre cerchi concentrici il cui centro è occupato dal soggetto. Il cerchio più interno è quello dell’identità clanica, all’interno del quale la violenza è assolutamente vietata, qualsiasi trasgressione deve essere sanzionata con una purificazione rituale e regna una solidarietà assoluta. La solidarietà ha un rovescio della medaglia, rappresentato dall’obbligo di vendetta, ovvero il dovere di vendicare i torti subiti da chiunque occupi quel medesimo spazio. Il secondo cerchio è quello dell’avversità, nel quale regna il calcolo razionale e la vendetta hammurabica, il cui principio, vale la pena ricordarlo, non è imporre la vendetta, ma porle dei limiti: nel momento in cui si stabilisca la lex talionis si dice un occhio per un occhio, e non entrambi. In tale cerchio regna l’obbligo della reciprocità, sia dal punto 21

P. DUMOUCHEL, “Le territoire comme figure de l’espace politique”, in Spazio sacrificale, spazio politico: Saggi di Antropologia Fondativa, a cura di Maria Stella BARBERI, Transeuropa, Massa 2008. Leggo questo saggio nella versione originale francese, http://www.arsvi.com/2000/08dpf3.pdf. Cfr. R. VERDIER et al. (éd.) La Vengeance. Études d’ethnologie d’histoire et de philosophie, 4 Tomes, (Paris: Cujas, 1980-1984); per un confronto preciso con le tesi girardiane, si veda G. MORMINO, op. cit., pp. 156-167.

174

La mimesi e la traccia

di vista della violenza sia dal punto di vista delle relazioni di donazione22. Il terzo cerchio è infine quello dell’ostilità, nella quale non esistono limiti di sorta alla violenza né alcun principio di reciprocità. In questo cerchio si trovano le persone alle quali non dobbiamo alcunché e con le quali possiamo stabilire relazioni commerciali. Dumouchel nota che, essendo il territorio definito esclusivamente sulla base delle relazioni sociali accennate ed essendo le strutture tripartite centrate sull’ego, su ciascun ego, inesorabilmente esse non saranno circoncentriche. Inoltre, tali relazioni non sono necessariamente stabili pertanto i confini che separano i cerchi sono sfocati e porosi. La definizione di questo spazio è inoltre evidentemente astratta e non corrisponde ad alcun territorio. Nonostante questa tesi, tratta dalle ricerche di Verdier e di Simon Simonse23, non si soffermi su tale omologia, lo spazio tripartito e concentrico dei sistemi segmentari ricalca la struttura elementare del sacro, nella quale a un centro inattingibile e inavvicinabile, in cui ogni violenza è rigorosamente interdetta, succede uno spazio abitabile nel quale vige un equilibrio reciproco, la soglia di cui parliamo nel primo capitolo, collocato alla giusta distanza dal sacro, né troppo vicino né troppo lontano. La terza cerchia è lo spazio della radicale alterità e della violenza incontrollata e indifferente. Altrove24 abbiamo svolto un’analisi della figura hegeliana del servopadrone della Fenomenologia dello Spirito dalla quale emergeva un rovesciamento della tesi classica, per la quale – analogamente al paradossale rovesciamento risultato dall’analisi condotta da Dumouchel sul processo di selezione del sovrano hobbesiano – il primo soggetto a costituirsi in quanto autocoscienza sperimentando una forma inattesa di riconoscimento è la vittima della persecuzione, colui che nella lotta per la vita trova la morte25. 22 23

24 25

Cfr. M.R. ANSPACH, À charge de revanche. Figures élémentaires de la réciprocité, Seuil, Paris 2002, trad. it. di Chiara Fontanile, A buon rendere. La reciprocità nella vendetta, nel dono e nel mercato, Bollati Boringhieri, Torino 2007. Per quanto riguarda le ricerche di Raymond Verdier si veda il classico e monumentale lavoro sui sistemi vindicatori già citato. Per quanto riguarda Simon Simonse, antropologo olandese tra i primi ad aver condotto ricerche sul campo a partire dalla teoria mimetica, si veda soprattutto S. SIMONSE, Kings of Disaster: dualism, centralism, and the scapegoat king in southern Sudan, Brill, Leyden 1992. E. ANTONELLI, “Imitazione e riconoscimento. Fenomenologia mimetica della genesi dell’autocoscienza”, cit. Per esempio il re per un istante, così come le Vestali le quali, si ricorderà, guadagnavano dalla procedura di liberazione tratti che Dumézil aveva indicato come maschili, come l’emancipazione oltre ai vari diritti e privilegi che mostrano con chiarezza il percorso del riconoscimento. Una volta liberata dalla spada di Damocle dell’incarico farmaceutico, una volta immunizzata (cfr. R. ESPOSITO, Commu-

Microfisica della secolarizzazione

175

Ricordando anche la tesi di Michel Serres che, giocando con le etimologie, sostiene che il soggetto sia in prima istanza colui che è soggetto alla lapidazione26, non stupisce che le due tipologie di strutturazione dello spazio sociale e del territorio tendano a coincidere. La svolta nella costituzione dello spazio sociale in spazio politico viene accordata alla fondazione degli stati assolutisti – e vista l’analisi della fondazione dello stato hobbesiano l’analogia risulta evidente –, nel corso della quale i confini porosi e instabili che dividono i territori mobili di ciascun ego vengono progressivamente resi a loro volta concentrici e stabili. La relazione di dipendenza viene così rovesciata, non è più il territorio ad adeguarsi alle strutture sociali e relazionali, ma queste a quello. La tipologia delle relazioni viene quindi modificata e semplificata. Alla struttura tripartita se ne sostituisce una binaria, guidata dal criterio del politico individuato da Carl Schmitt. Le forme di avversità e di ostilità vengono ricondotte alla condizione di inimicizia, lo spazio interno è pacificato, derubricando i conflitti anche mortali che vi possono avere luogo. All’interno dello spazio politico pubblico la vendetta è vietata, assunta dall’unico monopolista legittimo della violenza, il sovrano. Lo spazio dell’avversitàostilità semplificato potrebbe ritrovare la sua complessità introducendo le considerazioni già di Schmitt in merito alle «guerre morali», oppure considerando la distinzione di von Clausewitz tra «guerre d’osservazione» e «guerre di sterminio»27, oppure ancora, tenendo in considerazione i lavori successivi di Dumouchel, soprattutto Le sacrifice inutile28, tra guerre europee e guerre coloniali29. D’altro canto, rovesciando il ragionamento, si potrebbe ravvisare in istituti quali i crimini di lesa maestà, o di alto tradimento, una riproposizione delle punizioni rituali comminate a chi intro-

26 27 28 29

nitas. Origine e destino delle comunità, Einaudi, Torino 2006, p. xx), la Vestale assomiglia molto ad un soggetto del XX secolo, libero, indipendente, capace di disporre del proprio corpo e delle proprie sostanze. Cfr. M. SERRES, Roma, cit. Cfr. P. DUMOUCHEL, “Le territoire comme figure de l’espace politique”, cit., p. 8. P. DUMOUCHEL, Le sacrifice inutile. Essai sur la violence politique, Flammarion, Paris 2011. A tal proposito si veda anche la notazione di Dan Diner a proposito della storia maledetta della mitragliatrice, apparsa nella Guerra Civile americana e bandita dalle guerre europee per l’inaudita violenza, indifferenziante al massimo grado, a lungo utilizzata nei conflitti coloniali e poi infine riportata in Europa in occasione della Prima Guerra Mondiale, cfr. D. DINER, Das Jahrhundert verstehen. Eine universalhistorische Deutung, Luchterhand Literaturverlag, Münich 1999, trad. it. di Franz Reinders, Raccontare il novecento. Una storia politica, Garzanti, Milano 2001.

176

La mimesi e la traccia

duca la violenza nel primo cerchio, nella città proibita. All’interno dello spazio definito dalle frontiere dell’Europa delle nazioni e proprio grazie all’esistenza di tali striature, la violenza pare poter rimanere sotto controllo ed essere così esportata nelle sue forme più estreme nello spazio liscio e indefinito delle colonie. È prezioso notare sin da subito che la distinzione clausewitziana è ispirata alla differenza tra le guerre pre-rivoluzionarie e quelle napoleoniche, nella quale Girard, in Achever Clausewitz30, ritiene di poter ravvisare una prova della sua terza tesi fondamentale. Definendo la performatività31 dello svelamento evangelico del meccanismo vittimario come indebolimento e progressiva decostruzione delle strutture forti del sociale, ovvero di qualsiasi istituzione differenziale di matrice sacrale, l’evoluzione dalle cosiddette guerres en dentelles alle guerre napoleoniche, specialmente per quanto riguarda la coscrizione obbligatoria universale, oltre che naturalmente per l’esondazione della guerra dai campi di battaglia – processo di cui le guerre del XIX e soprattutto del XX secolo costituiranno l’estremo – rappresenta un chiaro esempio di tale Wirkungsgeschichte. A sua volta, l’estrema avanguardia di tale storia degli effetti è la progressiva destabilizzazione della stessa differenza tra i due tipi di guerra indicati da Clausewitz32. L’attenzione di Dumouchel si concentra anche sull’altra faccia della medaglia che Verdier ha insegnato a considerare, ovvero la relazione di identità tra gli spazi della vendetta e gli spazi della solidarietà. Non lo stato assolutista, ancora strutturato su base feudale e quindi personalistica, ma lo stato nazione post-rivoluzionario che eliminando anche la struttura gerarchica delle relazioni interne rende possibile ciò che mancava all’ancien régime, ovvero l’uguaglianza dei cittadini. Così la Rivoluzione riesce ad offrire il complemento di semplificazione e omogeneizzazione dello spazio interno corrispondente a quanto lo stato assolutista aveva ottenuto per l’esterno, fornendo un principio di solidarietà generale. L’effetto di tale operazione è però quello di frantumare le relazioni personali di solidarietà,

30 31 32

R. GIRARD, Achever Clausewitz, Carnets Nord, Paris 2007, trad. it. a cura di G. Fornari, Portando Clausewitz all’estremo. Conversazione con Benoît Chantre, Adelphi, Milano 2008, pp. 52-60. Che, ricordiamo, Girard definisce «immenso lavoro della rivelazione», cfr. Id., Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 339. Cfr. P. DUMOUCHEL, Le sacrifice inutile, cit., p. 28. La tesi, già di Schmitt in qualche misura (Il Nomos della terra), è che proprio l’esistenza di uno spazio liscio radicalmente altro potesse permettere l’espressione di quella violenza indifferenziata che per un lungo tempo le nazioni europee erano riuscite a tenere lontana dai confini continentali.

Microfisica della secolarizzazione

177

fondate almeno in parte sull’obbligo di prendere parte alle vendette. Ogni cittadino è ora solidale all’altro per mediazione dello stato: il territorio e i confini si sostituiscono definitivamente alle relazioni personali nella definizione dello spazio sociale. Il male è fatto. Voglio dire che così, la struttura dei legami di solidarietà e d’inimicizia e dunque lo spazio dell’ostilità tradizionale è stato distrutto e rimpiazzato da ciò che ne L’enfer des choses ho descritto come “esteriorità dei terzi”. Vale a dire, attraverso un contratto d’indifferenza reciproca nel quale la solidarietà piuttosto che esercitarsi direttamente tra gli agenti passa per un centro rappresentante la sorgente trascendente del potere alla quale tutti si identificano.33

Una solidarietà anonima e universale la cui responsabilità grava sul centro e non più sugli individui, d’ora in poi inseriti in una struttura a trascendenza verticale ma isolati. 6.4. La solidarietà e l’indifferenza La filosofia della storia implicita nella riflessione di Dumouchel34 cerca di ricostruire la ragione che ha permesso alle comunità di gestire la violenza intestina generata sulla base del contrasto mimetico nel passaggio dalle società non centralizzate allo stato assolutista e allo stato moderno, tenendo come polo negativo di tale tensione evolutiva il fallimento della relazione tra politica e violenza negli stati che nel XX e XXI secolo hanno tradito la missione fondamentale di proteggere i propri cittadini dalla violenza interna35. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, tale riflessione si nutre abbondantemente della tesi mimetica, a partire dal riconoscimento, nel doppio fondo dello stato assolutista, di una dinamica vittimaria che dà 33

34 35

Cfr. P. DUMOUCHEL, J.-P. DUPUY, L’enfer des choses, cit. e P. DUMOUCHEL, “Le contrat d’indifférence réciproque”, in Victimes, violences et vengeances, P. Dumouchel, (éd.), Presses de l’Université Laval/L’Harmattan, Québec/Paris 2000, pp. 207-225. Si veda anche P. DUMOUCHEL, “Indifference and Envy in Modern Economy”, in «Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture», n. 10, 2003, pp. 149160. La tesi del saggio Le sacrifice inutile è che la violenza politica non è più capace oggi di dare luogo a ordini stabili, da cui l’inutilità dei sacrifici, categoria alla quale Dumouchel riconduce i crimini contro l’umanità e i genocidi di cui il XX secolo è stato più volte palcoscenico, per esempio nel caso di studio sugli eventi di cui la Cambogia o il Rwanda sono stati teatro.

178

La mimesi e la traccia

ragione della genealogia di Hocart. In secondo luogo Dumouchel descrive il passaggio dalla struttura tripartita dello spazio delle società segmentarie alla bipartizione elementare realizzata a cavallo tra l’ancien régime, lo stato assolutista e lo stato post-rivoluzionario come risultato di un particolare fenomeno sociale: il motore evolutivo di questo passaggio viene riscontrato nello smantellamento degli obblighi tradizionali di solidarietà e vendetta. Se in un primo momento egli pare attribuire questi risultati agli sviluppi della struttura statale, in Le sacrifice inutile, modifica la propria impostazione, rovesciandola. Per ottenere tale risultato Dumouchel si allontana dall’interpretazione in termini cognitivi36 della performatività del cristianesimo concentrandosi invece su una lettura basata sulle pratiche diffuse dalla religione cristiana. Non è tanto un nuovo sapere a modificare le strutture sacrificali quanto un nuovo fare. Se per Girard i passaggi fondamentali del Vangelo andavano ritrovati nella Passione ovviamente, ma anche in passi chiaramente disponibili ad una lettura in termini di svelamento del meccanismo sacrificale come per esempio la vicenda del demone di Gerasa (Mc 5,1-20; Mt 8,28-34; Lc 8,26-39) o ancora della decollazione del Battista37 oltre ovviamente all’episodio dell’adultera, Dumouchel si concentra invece sulla parabola del Buon Samaritano. Se gli obblighi tradizionali imponevano, ma allo stesso tempo limitavano, il dovere di solidarietà all’interno del cerchio dell’identità clanica, la parabola del Buon Samaritano introduce l’estensione universale della carità. Gli obblighi tradizionali imponevano di aiutare il proprio vicino e solo quello, la virtù della carità indica come esemplare il comportamento di colui che è caritatevole senza discriminazioni. Allo stesso tempo il perdono permette all’individuo di liberarsi dall’obbligo della vendetta. Fare del perdono un esempio di virtù offre agli individui la scelta di evitare, almeno – tenendo così al minimo le pretese di tale teoria – nei casi in cui sia contrario al proprio vantaggio, di partecipare alla violenza. Carità e perdono sono due motori di una storia degli effetti che ha come prima conseguenza la diffusione di quel fenomeno sociale 36

37

A tal proposito Dumouchel pare ravvisare un eccesso di freudismo, ovvero la convinzione a suo dire ingenua – in parziale accordo con Henri ATLAN, “Violence fondatrice et référent divin”, in P. DUMOUCHEL (éd.), Violence et vérité, Grasset, Paris 1985, 434-449 – che basti rivelare un trauma per guarirne. A nostro avviso la questione non è così semplice. Lo svelamento dell’innocenza della vittima verosimilmente non basta ad evitare i linciaggi, ma è sufficiente perché retrospettivamente questi episodi vengano individuati come tali e non come miti fondativi o peggio ancora come legittime punizioni. Se la teoria gadameriana della Wirkungsgeschichte ha un senso è proprio su questo tema che essa può trovare la sua applicazione, non a caso essendo l’ermeneutica originariamente dedicata alla lettura dei testi sacri. Cfr. R. GIRARD, Il capro espiatorio, cit.

Microfisica della secolarizzazione

179

che Dumouchel chiama indifferenza. Nel quadro di un’analisi mimetica, l’indifferenza, come tutte le cose di cui abbiamo parlato in questa sede, partecipa dei fenomeni sistemici in una modalità ambigua e farmacologica. Se da un lato, ridottisi i vincoli di solidarietà, lascia i deboli in balia degli eventi e della violenza locale38, dall’altro impedisce o piuttosto non favorisce il contagio della violenza come invece fa l’obbligo della vendetta. Naturalmente, all’interno del modello morfogenetico girardiano quelli che Dumouchel chiama vincoli o obblighi tradizionali sono già essi stessi frutto del meccanismo vittimario e funzionano in ragione del fatto che riescono a evitare che la violenza esploda; al di là di un certo livello di contenimento portano invece il fuoco della violenza a consumare l’intera comunità. L’intuizione di Dumouchel trova in questa microfisica della secolarizzazione la condizione di possibilità dell’emergenza di un’autorità politica capace, a differenza di quanto non succedesse nelle società non centralizzate, di assumere il monopolio della violenza legittima, ovvero di assumere l’autorità necessaria per stabilire la differenza tra la violenza buona che crea ordine e pace e la violenza cattiva che genera disordine. La tesi di Dumouchel è che una tale autorità possa mettersi in piedi solo nel momento in cui la secolarizzazione abbia indebolito le condizioni di possibilità dell’effervescenza mimetica generale, ovvero abbia distrutto le condizioni di contagio che, nel modello del sacro girardiano, rendono possibile l’unanimità violenta, e al tempo stesso abbia eliminato progressivamente tutte le agenzie di autorità morale disseminate nelle strutture sociali precedenti. Al meccanismo autoregolatore della violenza che è il sacro si può quindi sostituire un agente incaricato di decidere di ciò che il sacro avrebbe in altri tempi deciso autonomamente39. D’altro canto, tenendo in conto le 38

39

Questo è un tema che, a partire dalle osservazioni seminali di Karoly Polany (La grande trasformazione), Dumouchel aveva già abbondantemente sviluppato in “L’ambivalence de la rareté”, cit. Nelle società tradizionali non esiste scarsità per il singolo individuo, sempre iscritto in una rete di relazioni sociali di solidarietà. La scarsità non è un fattore naturale della vita dell’uomo, ma un risultato dell’indebolimento dei vincoli tradizionali. A tal proposito Dumouchel parla di una nuova categoria di vittime, «vittime di nessuno, a cui nessuno ha arrecato alcuna offesa» (Id., Le sacrifice inutile, cit., p. 255). Quando le maglie della solidarietà si sfilacciano, qualcuno cade inesorabilmente nelle crepe. Vittime di nessuno, ma al tempo stesso di tutti, vittime dell’indifferenza istituzionalizzata. «Dans l’univers du sacré nul ne détient jamais ce monopole, car le lieu où s’engendrent les règles qui disent la différence entre la bonne et la mauvaise violence est une place vide, celle de la victime morte», cfr. P. DUMOUCHEL, Le sacrifice inutile, cit., p. 17. Sottolineiamo place per mettere in evidenza la legittimità di una lettura posizionale e quindi a sua volta scritturale come quella accennata in merito

180

La mimesi e la traccia

considerazioni sulla costituzione a oggetto sociale dell’effetto posizionale generato dalla convergenza mimetica appare inequivocabile il fatto che l’autorità politica di cui parla Dumouchel sia inesorabilmente connessa al sacro40. Proprio nell’insistere sulla funzione di discriminazione della violenza legittima, ovvero della violenza supplementare, ritrova al cuore della modernità la logica del sacro. Allo stesso modo, la definizione della violenza politica come di quella violenza che si legittima da sé ritrova la medesima autoreferenzialità che abbiamo imparato, con il sostegno di Dupuy, a riconoscere come marque du sacré. La modernità trova la propria ragion d’essere e la propria essenza in questo esercizio: liberarsi dell’illusione della trascendenza41 generata dai fenomeni del sacro arcaico e assumere la responsabilità di definire in autonomia la differenza tra violenza buona e violenza cattiva42. La forza della lettura di Dumouchel risiede nel rendere più esplicito un contenuto impicito nella tesi girardiana per cui sono i comportamenti degli attori coinvolti nella crisi mimetica a generare le credenze e non viceversa, a partire dal fatto che l’effervescenza panica del sacro si costituisce per definizione in assenza di spirito, meccanicamente, eteromaticamente. È il fenomeno mimetico generato dall’insieme delle interazioni a definire la colpevolezza della vittima almeno se non più di quanto non sia la credenza della colpevolezza della vittima a condurre il meccanismo vittimario alla chiusura operazionale sulla vittima. L’operazione concettuale di Dumouchel, invitando a concentrarsi sulle pratiche piuttosto che sulle credenze religiose, permette di svolgere una microfisica della secolarizzazione, ma pare altrettanto importante mantenere viva l’attenzione sulle conseguenze che un’analisi più fedele alla tesi di Girard può mettere in luce.

40

41 42

alla coquette nella discussione del potere morfogenetico della doppia mediazione, cfr. supra 3.2. Cogliamo l’occasione per fugare una possibile fonte di confusione. Wolfgang Palaver, tra i tanti, ritiene che Girard vada considerato, con qualche ragione, un autore avverso alle retoriche della secolarizzazione, cfr. W. PALAVER, René Girard’s Mimetic Theory, op. cit., pp. 19 e sgg. A nostro avviso però, come si chiarirà ulteriormente in seguito, l’immenso lavoro della rivelazione è un principio secolarizzante perché partecipa alla decostruzione del sacro arcaico. Questo naturalmente non toglie che possa così al tempo stesso creare lo spazio per la recrudescenza di fenomeni caratterizzati dalla marque du sacré, che però non andrebbero più considerati religiosi, ma individualisticamente complessi. Questa in certa misura è anche la tesi del classico M. GAUCHET, Il Disincanto del mondo. Storia politica della religione, cit., che Dumouchel ha senz’altro presente, come d’altro canto il suo sodale Jean-Pierre Dupuy a cui Le sacrifice inutile è dedicato. Cfr. P. DUMOUCHEL, Le sacrifice inutile, cit., p. 18.

Microfisica della secolarizzazione

181

Dumouchel ritiene che lo stato moderno funzioni sulla base di uno spostamento della violenza legittima su vittime accettabili, per esempio quelle collocate nello spazio dell’inimicizia o meglio ancora nello spazio della radicale ostilità, attribuendo quindi un ruolo fondamentale allo sfogo offerto dalle guerre coloniali. In tal senso pare che legga la logica del meccanismo vittimario concentrandosi sulla funzione catartica dell’espulsione della violenza all’esterno di uno spazio che in tal modo si tiene pacificato. Questa lettura rischia, al contrario di quanto detto in merito all’attenzione dedicata alla pratiche della secolarizzazione, di esaltare un aspetto regressivo della tesi di Girard, ovvero il residuo di freudismo da cui la teoria mimetica trae la teoria idraulica della violenza. In questo saggio stiamo invece cercando di liberarci definitivamente di questa logica per rovesciare la prospettiva e concentrarci sull’essenza del meccanismo vittimario, descritto sin qui come un meccanismo produttore di differenze, discriminazioni, decisioni. In tal senso allora la crisi del politico tematizzata da Dumouchel ed esemplificata dalla tesi della trasformazione o regressione recente dello spazio politico isotropo del territorio nazionale a uno spazio sociale dei santuari43, ovvero a una spazializzazione puntuata, non dovrebbe essere intesa come conseguenza della scomparsa dello sfogo della violenza indifferenziata e radicale garantito dalle colonie, ma dalla decostruzione di ciò che all’inizio di questo lavoro abbiamo individuato come primo sedimento del sacro, ovvero il pomoerium – archetipo di tutti i confini. In altre parole, non è l’impossibilità di spostare la violenza interna all’esterno dei confini a far crollare il politico moderno, ma il crollo dei confini a rendere impossibile spostare la violenza all’esterno, per l’ottima ragione che tale distinzione e con essa i concetti moderni del politico non riescono più a legittimarsi autoreferenzialmente. È nell’indifferenziato che emerge la violenza, dando luogo a un movimento autorinforzante di montée aux extrêmes della stessa violenza44, destinato inesorabilmente a riproporre con proteiforme costanza tentativi di differenziazione che spiegano, per esempio, la ricomparsa nevrotica della paura del nemico interno. 6.5. La kén sis o il punto fisso endogeno Il modo per salvare al nostro ragionamento quella che Dumouchel chiama lettura cognitiva della performatività del cristianesimo è rappresentato dal richiamo alla fruttuosa convergenza instauratasi tra René Girard e Gianni Vatti43 44

Ivi, pp. 298 e sgg. Così deve essere letto R. GIRARD, Portando Clausewitz all’estremo, cit.

182

La mimesi e la traccia

mo, almeno a partire dal 1996 – anno di pubblicazione di Credere di credere, primo esplicito riconoscimento45 del ruolo determinante giocato dall’interpretazione mimetica e vittimaria della Bibbia nel percorso del pensiero debole. Il tema su cui si articola tale sodalizio46 è il concetto paolino di kén sis, ( )47, fulcro di quella sorta di «svolta teologica» che il pensiero debole ha attraversato negli anni novanta e che Vattimo descrive come: «la messa fuori gioco di tutti quei caratteri trascendenti, incomprensibili, misteriosi e credo anche bizzarri che invece commuovono tanto i teorici del salto nella fede»48. Vattimo ritiene di poter riconoscere negli attributi che Girard ascrive alle divinità del sacro violento, segnatamente l’onnipotenza, l’assolutezza, l’eternità e la trascendenza, le stesse proprietà che la metafisica classica attribuiva al Dio cristiano, l’«ipsum esse subsistens»49. Se Nietzsche nel famoso passo del Crepuscolo degli idoli su «Come il mondo vero finì per diventare favola» ripercorre le tappe di una storia della cultura che dall’Iperuranio platonico ci ha condotti sino alla demitizzazione della stessa pretesa demitizzante, Heidegger fa di questa storia del nichilismo la storia della metafisica, giunta ormai a termine. Vattimo sottolinea spesso, ancora in Della realtà. Fini della filosofia, che le ragioni per cui Heidegger ritiene di dover e poter rifiutare la metafisica non sono teoriche – ovvero non partono dal presupposto di poter svelare l’errore della prospettiva che tende ad identificare l’essere con l’ente – quanto piuttosto etico-politiche: si tratta in altre parole di rifiutare le condizioni di possibilità di quella che Adorno chiamava «organizzazione totale». Ricordando che il senso originario dell’espressione «pensiero debole» mirava ad indicare l’oggetto di tale riflessione, ovvero una teoria dell’indebolimento come ca-

45

46

47 48 49

G. VATTIMO, Credere di credere, Garzanti, Milano 1999. A tale riconoscimento ne seguiranno altri: A. CODACCI-PISANELLI, “Il Girard pensiero/Guida d’autore. Un capro espiatorio ci salverà. Colloquio con Gianni Vattimo,” in «L’Espresso», 5 feb. 1998, 97–98, G. VATTIMO, R. RORTY, Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, S. Zabala (ed.) Garzanti, Milano 2005, R. GIRARD, G. VATTIMO, Verità o fede debole?, cit. A tal proposito si vedano G. VANHEESWIJCK, “The Place of René Girard in Contemporary Philosophy”, in «Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture», n. 10, 2003, pp. 95-110, §1.2.2., pp. 104 e sgg., F. CASINI, P. ANTONELLO, “The Reception of René Girard’s Thought in Italy: 1965-Present”, in «Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture», n. 17, 2012, pp. 139-174, pp. 145-146 oltre al contributo forse più lucido e interessante: G. CHIURAZZI, “Mimesi ed emancipazione,” in «aut aut», 347, 2010, pp. 193-205. Da PAOLO, Lettera ai Filippesi, 2, 7. Id., Credere di credere, cit., pp. 50-51, Vattimo ha qui in mente Karl Barth. Cfr. ivi, p. 30.

Microfisica della secolarizzazione

183

rattere costitutivo dell’essere nell’epoca della fine della metafisica – non si può sostituire all’interpretazione metafisica dell’essere identificato con e appiattito sull’ente un’interpretazione più vera, più corretta – dobbiamo ammettere che la storia del nichilismo non possa essere a sua volta interpretata come la storia di un errore del pensiero; una tale interpretazione postulerebbe infatti l’esistenza di un essere che se ne sta al di là di tutti gli errori umani, nella sua oggettiva indipendenza: per non cadere in questa trappola bisogna pensare alla storia della metafisica come a una storia dell’essere e non solo degli errori umani. È a partire dalla lettura di Girard, iniziata con Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, che Vattimo si rende conto del fatto che «la lettura debolista di Heidegger e l’idea che la storia dell’essere avesse come suo filo conduttore l’indebolimento delle strutture forti, della pretesa perentorietà del reale dato “là fuori” come un muro contro il quale si va a sbattere e che così si fa riconoscere come effettivamente reale […] non fossero altro che la trascrizione della dottrina cristiana dell’incarnazione del figlio di Dio»50. Ciò che Vattimo ritiene centrale nell’argomentazione di Girard – che possiamo salvare anche al netto dei ripensamenti sull’interpretazione sacrificale del cattolicesimo che Girard aveva in qualche modo lasciato intendere nel saggio del ’78 e che verrà poi rinnegata nei saggi seguenti, anche grazie al fruttuoso confronto con il teologo Raymund Schwager51 – è «l’idea dell’incarnazione come dissoluzione del sacro in quanto violento»52. Vattimo estende il concetto principalmente antropologico di violenza che in Girard ha molto a che fare con la vittimizzazione, a quei caratteri del Dio della metafisica che riassume in sé in forma eminente tutti i tratti dell’essere oggettivo. La dissoluzione della metafisica è anche la fine di questa immagine di Dio. In tal senso Vattimo può scrivere che Girard lo ha «aiutato a “completare” Heidegger»53, permettendogli di ricongiungere l’Heidegger post-metafisico alla tradizione giudeo-cristiana da cui, dopo i primi anni, il filosofo tedesco pareva essersi allontanato – fino addirittura a farne una trascrizione del messaggio evangelico. In poche parole, la secolarizzazione54 come fatto positivo «non va intesa come un venir meno o un 50 51 52 53 54

Ivi, p. 27. Autore di Brauchen wir einen Sündenbock? Gewalt und Erlösung in den biblischen Schriften, Kösel, München 1986. G. VATTIMO, Credere di credere, cit., p. 30. G. VATTIMO, “Girard e Heidegger. Kénosis e fine della metafisica”, in R. GIRARD, G. VATTIMO, Verità o fede debole?, cit., p. 63. Questa tesi in qualche modo già implicita in Nietzsche è certamente resa classica da Max Weber e ripopolarizzata, seppur su basi differenti, da Marcel Gauchet,

184

La mimesi e la traccia

congedo del cristianesimo ma come la piena realizzazione della sua verità che è, ricordiamolo, la kén sis, l’abbassamento di Dio, la smentita dei tratti “naturali” della divinità»55. Il termine kén sis in generale rimanda a significati appartenenti alla costellazione semantica dello svuotamento, della spoliazione – così nel topos originario, la Lettera ai Filippesi, in cui Paolo scrive che «Cristo spogliò se stesso»56 – della vacuità, ma la traduzione interpretativa di Gianni Vattimo ci permette di chiudere una parte importante del nostro argomento. L’interpretazione della Passione nei termini di un abbassamento chenotico di Cristo nel quale possiamo leggere la spoliazione da ogni attributo di trascendenza, lo svuotarsi di ogni pienezza d’essere, è la migliore esplicitazione possibile del fatto che i Vangeli svelando il meccanismo vittimario rendono evidente il fatto che, come abbiamo lungamente spiegato facendo i conti con la riflessione di Dupuy, il punto fisso non è esogeno, cioè trascendente, ma endogeno, e in quanto tale non gode di nessuna particolare pienezza d’essere o almeno, qualora ne goda, è effetto della posizione che occupa e non causa, in altri termini, non è causa sui. Grazie alla formalizzazione della teoria mimetica operata da Dupuy possiamo anche rendere più chiaro che cosa si debba intendere quando Vattimo asserisce che la secolarizzazione è un processo infinito, che la metafisica non sarà mai finita o superata definitivamente. Il punto fisso endogeno è ciò che la Passione ci insegna a vedere al centro di ogni fenomeno collettivo e in quanto tale è il veicolo esemplare di un progressivo indebolimento di quelle differenze che sulla cecità del e al meccanismo si fondano. Kén sis è il migliore dei nomi che la filosofia possa ritrovare nella tradizione per definire la comparsa di una nuova logica dei fenomeni collettivi – che Girard aveva chiamato logos giovanneo57, in opposizione al logos eracliteo – fondata sul rifiuto di ogni forma di sussunzione del particolare nell’universale, ovvero di ogni forma di discriminazione dell’individuo basata sul riferimento a categorie estrinseche, a presunte strutture forti dell’essere, a leggi di natura, essenze o volontà trascendenti.

55 56 57

per il quale il cristianesimo è «la religione dell’uscita dalla religione», cfr. M. GAUCHET, Il Disincanto del mondo, cit. G. VATTIMO, Credere di credere, cit., pp. 40-41. Così traducono l’edizione C.E.I. e la Nuova Riveduta, altrove si può leggere «svuotò se stesso». Cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit. In questo testo, l’ultimo capitolo del secondo dei tre libri di cui si compone il saggio, Girard sta facendo i conti con Heidegger.

Microfisica della secolarizzazione

185

A fianco di quello individuato da Dumouchel nel ruolo giocato da carità, su cui insiste anche Vattimo58, e perdono, è possibile ravvisare nella secolarizzazione il risultato di un altro motivo microfisico: l’esempio, la mimesi mediata da quella sorta di Ur-ritenzione terziaria universalizzata che è la narrazione della Passione come evento discriminatorio per eccellenza, ovvero il gioco della mimesi e della traccia. L’interpretazione cognitiva della microfisica della secolarizzazione mira allora a esplicitare come sia proprio la narrazione della Passione a rendere ogni punto di riferimento su cui operare una discriminazione una fonte di potere violenta e illegittima, o meglio a rendere direttamente ogni discriminazione ingiustificabile (non negheremo che la storia degli effetti pare aver spesso incontrato solide resistenze a tale processo). Se si accetta la definizione di istituzione fornita in precedenza e si riconosce alle strutture la loro evidente natura discriminatoria, ciò che Vattimo sulla base della tradizione ermeneutica chiama kén sis non può che avere come conseguenza un progressivo indebolimento delle strutture forti dell’essere, minate ad ogni singolo istante, a livello locale e individuale, dall’esempio antidiscriminatorio del Vangelo. Le due analisi microfisiche della secolarizzazione, l’una basata sulla diffusione delle pratiche della carità e del perdono, l’altra sulla diffusione di un ideale e di un esempio antidiscriminatori, vettori di un sapere della detrascendentizzazione, ovvero dell’abbassamento all’immanenza di quei punti che la logica dei fenomeni collettivi proietta nella trascendenza, offrono una spiegazione analitica di ciò che Girard vede come primo motore della modernità, vale a dire la progressiva riduzione della distanza della mediazione. Per Girard la modernità è l’era in cui esplode la mediazione interna, è l’era delle molte crisi sacrificali, dei molti inizi e dell’assenza di fini – valga l’ambiguità del termine, per cui al tempo stesso ai molti inizi non corrispondono molte fini ma soprattutto, rimasti senza mediatori esterni, senza modelli, vengono anche a mancare i fini59. 9.6. Il perturbante o la fine del moderno Se l’indebolimento delle strutture forti dell’essere è frutto della kén sis, ovvero della secolarizzazione, non si può non riconoscere nell’annuncio 58 59

Cfr. per esempio G. VATTIMO, Credere di credere, cit., pp. 36-40. Cfr. R. PIPPIN, Modernism as a Philosophical Problem. On the Dissatisfactions of European High Culture, Basil Blackwell, Oxford 1991.

186

La mimesi e la traccia

di Nietzsche uno dei momenti più significativi in questa lunga storia degli effetti che stiamo cercando di dipanare, riaccostando l’indagine di matrice mimetica all’ermeneutica debolista e all’ontologia di matrice derridiana sviluppate nei capitoli precedenti. Per valutare tale ipotesi vorremmo provare a fare un détour lungo l’analisi di un concetto come quello di Unheimlich reso celebre da Freud in un saggio omonimo60, seguendo la tesi per cui proprio in tale sensazione si possa ravvisare uno degli araldi della fine della modernità. Esistono due elementi che a nostro avviso possono far pendere la bilancia a favore di una riorganizzazione in seno al paradigma mimetico delle questioni legate al tema del perturbante, il primo dei quali è di natura etimologica. La lista di autori, commentatori e traduttori che hanno lamentato, a partire dallo stesso Freud, l’assenza di un termine italiano adeguato a rendere la complessità semantica posseduta dall’originale tedesco è pressoché infinita. In realtà il termine ‘perturbante’, pur non possedendo queste virtù, può fornire un apporto determinante alla comprensione della nozione in generale. L’avvertenza editoriale dell’opera omnia Boringhieri recita: «come Freud stesso dice a p. 83, l’aggettivo tedesco unheimlich non ha una parola che gli corrisponda perfettamente nella lingua italiana»61; osservazione ripresa una prima volta con piglio neutrale da parte di Graziella Berto, autrice di uno studio di riferimento sul tema: «le sue possibili traduzioni lasciano sempre cadere il riferimento alla sfera semantica della casa – il che è innegabile – e in nessuna delle lingue straniere, antiche e moderne, che Freud prende in considerazione, esiste una parola che ricalchi la pregnanza del termine tedesco»62. Nella nota 3 alla stessa pagina però il giudizio della Berto, sempre unilaterale, si fa ancora più duro, laddove afferma che «la traduzione di Unheimlich con ‘perturbante’ impoverisce di molto la pregnanza del termine tedesco»63. 60 61 62

63

S. FREUD, “Das Unheimliche”, in Gesammelte Werke, XII, 1940-1950, pp. 227268; trad. it. di Silvano Daniele, “Il perturbante”, in Opere di Sigmund Freud, a cura di C. L. MUSATTI, Boringhieri, Torino 1976-1980, vol. IX, pp. 81-114. Cfr. Opere di Sigmund Freud, cit., IX, p. 79. G. BERTO, Freud, Heidegger. Lo spaesamento, Bompiani, Milano 1999, p. 18. Per la bibliografia di riferimento ci permettiamo di rimandare a E. ANTONELLI, “Considerazioni mimetiche su Il perturbante (Das Unheimliche)”, in «Enthymema. Rivista internazionale di critica, teoria e filosofia della letteratura», n° 2, 2010, pp. 154-170, in cui le riflessioni qui riassunte sono argomentate più estesamente. Nella nota 2 a p. 2, Berto osservava che pur essendo ormai invalsa la traduzione ‘perturbante’, che lei giudica insufficiente da molti punti di vista, preferisce la traduzione proveniente dalle traduzioni del gergo heideggeriano piuttosto che

Microfisica della secolarizzazione

187

Il termine ‘perturbante’, la cui scelta si riconosce generalmente al traduttore freudiano Silvano Daniele, offre una feconda apertura oltre ad essere ampiamente coerente con l’uso che ne fa Freud in altri saggi – per esempio in Totem und Tabu64 e soprattutto a in Massenpsychologie und IchAnalyse dove parla del «carattere perturbante, costrittivo, della formazione collettiva», riferendolo ai «fenomeni di suggestione», riconducibili all’«orda primordiale»65 – merita per questo di essere approfondito. Un’analisi etimologica del termine fornirà ulteriore precisione a questo passaggio. Il Devoto66, piuttosto scarno di riferimenti, suggerisce: perturbante: dal latino Perturbare, composto di per- intensivo e turbare: verbo denominale da turba [Turba: ‘folla’, dal latino turba]. Il più datato e ricco Pianigiani67 recita invece: Perturbare: latino perturbare da per-, che dà intensità all’idea e turbare: ‘disordinare’, ‘scompigliare’ (v. Turba). Per Turba: prov. e a.fr. Torba, torbe, mod. fr. Tourbe, sp. Turba; port. Torva; lat, Turba, che confronta con il gr. Tyrbe, ‘trambusto’, ‘disordine rumoroso di una moltitudine’ e per metonimia ‘moltitudine disordinata’, ‘calca’, ‘turba’, ‘folla’, a cui si annoda turbàzein ‘perturbare’, ‘confondersi’, ‘darsi molto da fare’: da una radice Tur- = tvar con senso originario di ‘rapido movimento’, che trovasi nel sanscrito Tvar-ê, tur-âmi ‘affretto’, tur-as ‘rapido’, tvarâ ‘fretta’; sinonimo di ‘Calca’, ‘Folla’68. Il termine ‘perturbante’ offre la possibilità, se non la prova, di completare l’edificio interpretativo in cui inserire la categoria dell’Unheimlich laddove richiama indirettamente le riflessioni, per altro in gran parte coeve, sulle esperienze della folla. Ma prima di valutare questa possibilità, sarà

64 65 66 67 68

freudiano, ‘spaesamento’ che ha, se non altro, il merito di richiamare l’originale tedesco nella prossimità tra paese e Heim «pur non potendo renderne la pregnanza di sfumature». Sarebbe interessante seguire i dibattiti che hanno animato la cultura francese a proposito del medesimo problema di traduzione, per i quali si rimanda a R. GALLIANI, “La faccia dell’estraneo, il volto dello straniero”, in «Psicoterapia psicoanalitica», anno XVI, n. 2, 2009, pp. 13-27 e J. ALTOUNIAN, L’écriture de Freud: Traversée traumatique et traduction, P.U.F., Paris 2003. S. FREUD, Totem und Tabu (1912-1913, Gesammelte Werke, IX, trad. it. Totem e Tabù, in Opere di Sigmund Freud, cit., VII). Cfr. Gesammelte Werke, XIII, p. 142, Opere di Sigmund Freud, cit., IX, p. 315. G. DEVOTO, Avviamento alla etimologia italiana. Dizionario etimologico, Le Monnier, Firenze 1967. O. PIANIGIANI, Vocabolario etimologico della lingua italiana, SEDA, Roma-Milano 1907. Cfr. anche TURBINE: ciò che si muove impetuosamente in giro. TURBOLENTO: pieno di disordine, di scompiglio.

188

La mimesi e la traccia

necessario considerare un’altra variabile, vale a dire, la temporalità. Questa è introdotta da Freud in rapporto al problema della coazione a ripetere, il cui carattere perturbante è dovuto «alla percezione di un non dominio su di sé, di uno sfuggire delle proprie azioni all’intenzione che le ha prodotte, quasi esse si iscrivessero in una dimensione di senso che non comprendiamo, se non addirittura in un insensato automatismo»69. È quindi l’elemento di passività, la rivelazione della perdita di autonomia che, anche in questo caso, guida la pervasiva esperienza di imprigionamento, di inevitabilità, di costrizione, di orrore. «Freud constata che il problema dei doppi e quello della ripetizione sono collegati, e forse fa anche a questo proposito un’allusione – oh quanto pertinente – all’Eterno Ritorno di Nietzsche»70; o come ricorda Graziella Berto, «l’attribuzione di un carattere unheimlich alla coazione a ripetere rappresenta in realtà la conclusione di un percorso tortuoso e denso di riferimenti, a cui Freud ci introduce attraverso il tema del sosia»71. Il sosia si ripresenta, una volta associato al problema della temporalità, come una ripetizione di sé su cui l’io non ha alcun potere. Freud tuttavia non si accontenta di spiegare il carattere inquietante del sosia attraverso un generico rimando alla destabilizzazione e allo sfaldamento dell’identità72. Piuttosto si tratterebbe di una ripetizione che stravolge il significato originario del ripetendo. Appoggiandosi alle ricerche di Rank, Freud ritiene di poter confermare l’originaria condizione di amichevolezza, di familiarità del sosia, «assicurazione di sopravvivenza»73, e attribuire il segreto del carattere unheimlich del doppio al mutamento di significato subito che ne ha fatto un «perturbante presentimento di morte»74. L’esperienza del sosia sarebbe perturbante in quanto «ripresentarsi di ciò da cui il tempo avrebbe dovuto allontanarci, consumandolo, riducendolo a nulla. Nella comparsa del sosia si può leggere uno scomparire del tempo, o almeno della sua linearità»75. In questa prospettiva, sia la coazione a ripetere, l’Eterno Ritorno dell’Uguale, sia la stessa apparizione del sosia, in qualche modo simbolica e metonimica, risulterebbero spaesanti in quanto latori di «un improvviso sfaldarsi del tempo, dell’ordi69 70 71 72 73 74 75

Cfr. G. BERTO, op. cit., p. 63, corsivo nostro. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 461. G. BERTO, op. cit., p. 60. Cfr. ivi, pp. 63-64. Cfr. O. RANK, “Der Doppelgänger”, in «Imago», vol. 3, Vienna-Lipsia 1914, trad. it. di Maria Grazia Cocconi Poli, Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, Sugarco, Varese 1994, pp. 69-76. Cfr. S. FREUD, Il perturbante, cit., p. 96. G. BERTO, Freud, Heidegger. Lo spaesamento, op. cit., p. 65.

Microfisica della secolarizzazione

189

ne in cui avevamo disposto e imbrigliato la nostra storia»76. Insomma, pare che l’Unheimlich costituisca una percezione complessa, strettamente connessa alla temporalità: un’esperienza che sembra negare il corso normale e ragionevole del tempo, scardinandone il fluire e scoordinando il prima e il dopo. L’esperienza dell’Unheimlich ha da fare con un tumultuoso scompiglio delle coordinate temporali e spaziali: l’Unheimlich confonde il prima e il dopo, l’interno e l’esterno77. Eppure, non a torto secondo noi, Freud rifiuta di attribuire l’Unheimlichkeit alla semplice «incertezza intellettuale». Per approfondire ulteriormente e finalmente chiarire l’impasse in cui Freud si trova è necessario chiarire, almeno per accenni, due problemi. In primo luogo, va chiarita la concezione della temporalità in gioco. In secondo luogo, ci si pone un problema di natura sostanzialmente metafisica, in merito all’emergere, nell’analisi freudiana, di un surrettizio realismo di fondo. Per quanto riguarda il primo punto, è necessario fare i conti con la dimensione genetica scaturita dalla fenomenologia freudiana. A nostro avviso è corretta l’insoddisfazione testimoniata da Freud nei confronti dell’ipotesi di Jentsch, il quale riduce la categoria del perturbante ad una connotazione statica e descrittiva. Il perturbante non deriva da una sensazione di «incertezza intellettuale» e certamente non è solo una sensazione di incertezza. L’aspetto più profondamente inquietante ed angoscioso dell’esperienza del perturbante non è semplicemente la sua ambiguità e contraddittorietà, quanto il fatto che questi caratteri toccano «il luogo stesso in base al quale è possibile stabilire la contraddizione»78. Il tratto perturbante è assicurato più che da una negazione di caratteristiche proprie alla casa, come parrebbe indicare il lemma tedesco, dall’impossibilità di definire cosa sia casa e cosa no, cosa sia interno e cosa sia esterno, dove si ponga la soglia di delimitazione e a ben vedere cosa distingua l’uno dall’altro. Il perturbante descrive allora la sensazione del disfacimento delle coordinate sulla base delle quali si potrebbe poi nutrire una forma di incertezza intellettuale79. L’Unheimlich svela la fondamentale assenza di fondamento, 76 77

78 79

Ivi, p. 66. A tal proposito si veda S. SIMONSE, Kings of Disaster: dualism, centralism, and the scapegoat king in southern Sudan, cit., una delle prime e più lucide applicazioni del paradigma mimetico ad una ricerca antropologica sul campo, concentrata sul ruolo fondativo del meccanismo mimetico nella determinazione delle coordinate spaziali e temporali fondamentali. G. BERTO, op. cit., pp. 142-143. Cfr. F. RELLA, Il silenzio e le parole. Il pensiero nel tempo della crisi, Feltrinelli, Milano 1981, p. 104: «Infatti non è la novità che suscita il perturbante, e l’incertezza intellettuale, che a esso è spesso connessa, ne è un effetto, non la causa».

190

La mimesi e la traccia

ovvero rappresenta un momento di estrema lucidità, un istante in cui «tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, è invece affiorato»80. Introducendo la dimensione della temporalità e quindi contribuendo alla determinazione della categoria dell’Unheimlich attraverso un’analisi genetica, la traduzione italiana permette di collocare l’esperienza in un edificio di senso perfettamente coerente. Il rimando etimologico alla turba, all’orda primitiva non è né peregrino né insignificante né tanto meno privo di pregnanza. Ci pare anzi che l’enantiosemica complessità81 del lemma tedesco, che descrive uno stato di avanzata decomposizione, venga completata ed anzi spiegata dal lemma italiano, il quale ne fornisce la radice genetica. È l’evento collettivo, la costrizione della calca impazzita, che apre la vista su ciò che avrebbe dovuto restare nascosto. È l’evento collettivo che svela l’orrore della prossimità82 e l’inquietante natura della familiarità. È ancora l’evento collettivo il momento in cui

80

81

82

Di altro avviso U. CURI, Straniero, cit., p. 52, il quale ritiene che «non è affatto un’incertezza intellettuale (come aveva sostenuto Jentsch) che suscita il senso del perturbante, bensì, proprio al contrario, è la pur relativa certezza dell’intrinseca e ineliminabile duplicità di cose, persone, situazioni e avvenimenti a suscitare il turbamento». Ci pare evidente come l’avviso di Rella, laddove riesce a cogliere la relazione genetica in gioco, sia da preferirsi. F.W.J. v. SCHELLING, Philosophie der Mythologie, 1857, trad. it. di Lidia Procesi, Filosofia della mitologia, Mursia, Milano 1990, p. 390: «Alles, was im Geheimnis, im Verborgenen... bleiben sollte und hervorgetreten ist». Schelling riferisce questa parola al principio oscuro che stava alla base delle religioni orientali, e che, in epoca omerica, era stato assorbito e nascosto nei misteri, permettendo così il puro cielo della mitologia greca, G. Berto, G. BERTO, op. cit., p. 23, nota 7. Nota Berto, commentando le indicazioni del vocabolario di Daniel Sanders (Lipsia 1860): «Freud mette in rilievo una strana ambiguità del termine heimlich: accanto al significato più ovvio, tenendo conto della sua derivazione da Heim, che si riferisce a qualcosa di familiare, domestico, fidato, intimo, confortevole e così via, esiste un secondo significato, più inatteso, che indica qualcosa di nascosto, tenuto celato agli altri, che ha a che fare con trame oscure, maligne, e riguarda un’arte ambigua e inquietante come la magia», cfr. G. BERTO, op. cit., p. 7 e p. 19. Cfr. ivi, p. 25. Non ci pare fuori tema ricordare la sensibilità mitica ed arcaica per la giusta distanza, specialmente nei confronti del sacro. Si pensi all’interpretazione che vorrebbe fare dei rituali sacrificali uno strumento per tenere a giusta distanza gli dei. È altrettanto importante valutare le riflessioni di Girard sull’«inquietante prossimità, al limite dell’identità, tra amicizia e odio mimetici», cfr. R. GIRARD, Shakespeare. Les feux de l’envie, Grasset, Paris 1990, trad. it. di Giovanni Luciani, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Adelphi, Milano 1998, p. 42.

Microfisica della secolarizzazione

191

il tempo accelera presentandosi come destino83 e le soglie si confondono84. Il fatto poi che nella teoria mimetica dietro ogni doppio o gemello o semplicemente fratello si possa leggere una crisi di indifferenziazione sacrificale contribuisce a collegare in modo inesorabile l’espressione letteraria o l’allucinazione del sosia con la costellazione semantica del sacro. Nella calca impazzita della crisi sacrificale tutti gli individui sono doppi perciò non ha rilevanza quante persone siano presenti. L’esperienza del perturbante descrive la sensazione di sfaldamento dei riferimenti differenziali fondamentali, lo scompiglio delle coordinate spaziali e l’accelerazione o la corruzione del tempo, le cui conseguenze sono di natura unheimlich, ovvero spaesante, perché testimoniano dell’assenza di fondamento di qualsiasi assiologia e di ogni metafisica, anche della soglia di casa. Resta ancora un passo da compiere, «è necessario […] attraversare il tempo della caducità, le macerie, il lutto. Tutta l’opera di Freud si muove in questa direzione, per trovare la sua formulazione più compiuta e articolata nei saggi che definiscono una nuova logica, la logica dello “spaesamento”, la logica dell’Unheimlich»85. Un Unheimlich che neanche Rella vuole leggere come perturbante, ma come spaesamento rispetto alla logica classica86, senza rendersi conto di come le due cose siano in realtà inseparabili. Il contributo che può però portare il saggio di Rella, concentrato sulla temporalità, è di collocare il saggio freudiano e la sensibilità del suo autore in un tempo profondamente caratterizzato, un tempo la cui trama è intessuta della morte dell’Io come principio ordinatore unitario del mondo, di cui il doppio, il sosia, la ripetizione, non sono che manifestazioni secondarie. Rella si dirige dove tutti si aspetterebbero, andando a ravvisare nella morte di Dio annunciata da Nietzsche pochi lustri prima della pubblica83

84 85

86

Un destino che priva l’Io di qualsiasi autonomia, cfr. M.R. ANSPACH, Pourquoi la guerre de Troie aura-t-elle lieu? Du mythe grec à Giraudoux, enquête sur un conflit mimétique, http://www.arm.asso.fr/offres/file_inline_src/57/57_P_3235_1. pdf, 2006. Cfr. supra, capitolo 1. F. RELLA, Il silenzio e le parole. Il pensiero nel tempo della crisi, cit., p. 73. In questa pagina Rella propone un riferimento centrale per la nostra argomentazione, il cui approfondimento ci porterebbe troppo lontano, ma che ci pare importante riportare: «Benjamin, nell’Origine del dramma barocco individua proprio nel “crollo della cultura tedesca” l’attualità del dramma barocco, come tentativo tipico dell’espressionismo di trovare in esso uno stile “all’altezza del tumulto degli eventi del mondo”». Cfr. W. BENJAMIN, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Rowohlt, Berlin 1928, trad. it. di Flavio Cuniberto, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999, pp. 39-40. F. RELLA, Il silenzio e le parole, cit., p. 74.

192

La mimesi e la traccia

zione del saggio di Freud, la sorgente da cui scaturiscono effetti teorici e pratici, «una logica nuova, che stabilisce una diversa immagine del mondo e del soggetto in esso»87. È chiamando a supporto queste parole che ci permettiamo di sostenere che Freud mostra una forma di realismo ingenuo, non rendendosi conto che la psicologia che sta mettendo a punto, che le osservazioni che con tutta la sua intuitiva sensibilità sta ordinando, che la stessa teoria del perturbante, non sono essenziali. Il perturbante è una categoria dello spirito occidentale corrispondente ad un particolare e preciso stato di cose, la crisi di indifferenziazione sacrificale ripresentatasi alla fine della modernità come effetto del progressivo indebolimento delle strutture forti dell’essere, minate dall’intimo lavorio del cristianesimo. Così come Girard rimprovera Freud di non essersi reso conto che solo un’epoca di progressiva corrosione della figura paterna poteva dare luogo all’impressione che esistesse un complesso di Edipo, il quale, per quanto discutibile, deve comunque riconoscere i limiti storici ben precisi ai quali appartiene, l’esperienza del perturbante, l’Unheimlichkeit, è un’esperienza datata. A differenza di quanto si potrebbe dire del complesso di Edipo, destinato a rifluire nei binari del risentimento mimetico88 con la definitiva liquefazione della paternità, il perturbante, vista la performativa e progressiva crisi dei sistemi differenziali, potrebbe avere tutt’altro destino.

87 88

Ivi, p. 105. L’avviso di Girard è che il complesso di Edipo – oltre ad essere complice con la vittimizzazione di Edipo – sia comunque solo una configurazione particolare del triangolo mimetico elementare. Il tratto distintivo di ogni riflessione su tale problema è piuttosto da ravvisare nel progressivo disfacimento della differenza tra padre e figlio, ovvero del suo potere discriminatorio. A tal proposito resta esemplare l’analisi della vicenda de I fratelli Karamazov a cui abbiamo accennato nel capitolo terzo.

193

7. PER UN’ONTOLOGIA DELL’ATTUALITÀ

“To rule forever,” continues the Chinaman, later, “it is necessary only to create, among the people one would rule, what we call... Bad History. Nothing will produce Bad History more directly nor brutally, than drawing a Line, in particular a Right Line, the very Shape of Contempt, through the midst of a People, – to create thus a Distinction betwixt ‘em, – ‘tis the first stroke. – All else will follow as if predestin’d, unto War and Devastation”. Thomas Pynchon, Mason & Dixon Gottes Transzendenz ist gefallen. Aber er ist nicht tot, er ist ins Menschenschicksal einbezogen. Walter Benjamin, Kapitalismus als Religion

7.1. Legittimità del post-moderno La progettualità di questa ricerca traduce il desiderio di prendere sul serio la teoria mimetica cercando di lavorare all’interno del paradigma che essa offre e al tempo stesso di valutarne divergenze e compatibilità con alcuni degli autori che Girard ha incontrato sul proprio cammino. Il nostro argomento si è diviso in due anime, la prima della quali è dedicata all’approfondimento e consolidamento degli aspetti costitutivi e morfogenetici della teoria mimetica: attraverso questo percorso ci siamo resi conto, trattando il caso esemplare del confine, in che misura la logica del sacro individuata da Girard e formalizzata da Jean-Pierre Dupuy possa essere ritrovata a fondamento del processo di costituzione degli oggetti sociali, con e oltre l’ontologia sociale edificata su basi derridiane da Maurizio Ferraris. Il confronto con un altro allievo di Derrida, Bernard Stiegler, ci ha permesso di capire sino a che punto il ruolo farmacologico della traccia, la ritenzione terziaria, sia determinante non solo nella costituzione del mondo degli oggetti sociali ma anche nei processi di individuazione psichica e collettiva, ovvero di costituzione degli individui e dei gruppi. Mettendo in

194

La mimesi e la traccia

luce le ragioni della complementarietà tra il lavoro di Jean-Pierre Dupuy e Bernard Stiegler ci siamo resi conto che se il primo, sulla scia di Girard, non considera con sufficiente attenzione i processi psicogenetici, il secondo non tiene nella debita considerazione gli effetti di sistema generati dall’interazione banale (vedi sotto § 7.5) degli individui. In questo modo abbiamo fornito i tratti essenziali di un’ontologia dinamica dei processi di costituzione del mondo umano. La seconda anima dell’argomento si nutre dell’ermeneutica biblica di Girard e verte sull’analisi delle conseguenze indebolenti dello svelamento del meccanismo vittimario. Per ragioni testuali e concettuali tale argomento è stato sviluppato, sin qui, in armonia con la riflessione di Gianni Vattimo sulle ragioni del nichilismo: abbiamo infatti riconosciuto nella storia degli effetti della kén sis il processo di svuotamento, o abbassamento, dei caratteri trascendenti del punto fisso endogeno, ovvero la negazione delle conseguenze mitopoietiche e teogoniche della logica dei fenomeni collettivi. Grazie a questa operazione abbiamo potuto mettere in luce, adeguando la terminologia farmacologica elaborata da Stiegler, le dinamiche e le logiche che presiedono ai processi di costituzione e di decostruzione degli oggetti sociali. Così facendo abbiamo esplicitato e consolidato l’implicita filosofia della storia della teoria mimetica. Essa si articola sul contrasto di due logiche sociali1: innanzitutto il logos di Eraclito che Dupuy ci ha insegnato a comprendere come un fenomeno naturale di tipo autopoietico – e autoreferenziale – basato sull’elezione procedurale di un punto fisso endogeno su cui il sistema articola la propria chiusura operazionale. Il meccanismo vittimario è una logica del sacro la cui performatività è garantita dalla legittimazione méconnaissante a posteriori dei risultati procedurali, ovvero da quella che con felice espressione Andrew McKenna ha definito retrogenesi2. La seconda, il logos giovanneo, rappresenta il rifiuto della disponibilità a sussumere o ridurre il particolare nell’universale: una logica che si oppone a ogni forma di discriminazione, sia statica che genetica.

1

2

Con questa espressione cerchiamo di riunire in un solo concetto le riflessioni contenute in Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo in merito ai logoi di Eraclito e di Giovanni (ivi, pp. 328-351) con l’esercizio di formalizzazione condotto da Dupuy confluito nell’identificazione della logica dei fenomeni collettivi, cfr. Id., Introduction aux sciences sociales. Logique des phénomènes collectifs, cit. A.J., MCKENNA, Violence and Difference. Girard, cit., p. 16.

Per un’ontologia dell’attualità

195

Il lavoro di Vattimo sul tema della kén sis come inizio della storia del nichilismo ha aperto questa linea di ricerca. Avendo riconosciuto alla base della costituzione degli oggetti sociali il logos eracliteo, segue che dalla negazione, o meglio dal contrasto costante di tale logica non possa che derivare un progressivo indebolimento delle strutture forti dell’Essere – che lo stesso Vattimo ha spesso identificato con lo Spirito Oggettivo hegeliano3. In altre parole, se l’ordine – ovvero la somma delle regole, delle strutture, degli oggetti sociali – di una comunità è il frutto del lavoro della differenza reso possibile dalle tracce di episodi in ultima istanza vittimari (perché condotti dalla logica del punto fisso endogeno) coperti dalla méconnaissance, lo svelamento inaugurato dal Vangelo rende evidente che l’ordine costruito su di una discriminazione arbitraria è violento e quindi illegittimo. Che tale effetto sia prodotto dalla consapevolezza che al fondo dell’ordine giace la violenza, dalla sensibilità antidiscriminatoria che la ritenzione terziaria biblica opportunamente disposta dovrebbe indurre, che esso sia frutto della storia dell’Essere come storia del nichilismo o ancora sia il risultato della progressiva diffusione delle pratiche della carità e del perdono, resta il fatto che contro una logica sociale morfogenetica di matrice sacrale sempre attiva, la storia ha progressivamente visto levarsi l’opposizione di una forza antidiscriminatoria, il cui risultato, secondo quanto emerso dalle analisi condotte nel nostro argomento, non può che essere nichilistico. Da un lato infatti tale logica tende ad opporsi ad ogni nuovo evento vittimario, non già ostacolando il ripetersi di episodi guidati dalla logica del punto fisso endogeno – che come vedremo nei prossimi paragrafi sono invece frequenti – ma dissolvendone gli effetti mitopoietici e teogonici4. Riprendendo la terminologia stiegleriana, si potrebbe dire che lo svelamento del meccanismo vittimario, pharmakon automatico, dissolvendo gli effetti contenitivi della logica del sacro, ne ha inibito la funzione curativa ma non quella venefica: in forme progressivamente sempre più evidenti, ha reso infatti possibile che l’arbitrio e la violenza sepolte sotto ogni istitu-

3

4

Così intendiamo un passaggio come il seguente: «ognuno di noi è solo un mortale che eredita e trasforma le tracce di altri mortali – e l’Essere è solo la cristallizzazione di questo ereditare-interpretare-trasformare-tramandare», G. VATTIMO, Della realtà. Fini della filosofia, Garzanti, Milano 2012, p. 206. Si pensi all’esclamazione sconcertata di NIETZSCHE «Quasi due millenni e non un solo nuovo Dio», cfr. Id., Der Antichrist. Fluch auf das Christentum, trad. it. di F. Masini, L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, Adelphi, Milano 1970, § 19, a cui fa eco Durkheim, «gli antichi dèi invecchiano o muoiono, e di nuovi non ne sono ancora nati», E. DURKHEIM, Le forme elementari della vita religiosa, cit., p. 491.

196

La mimesi e la traccia

zione consolidata emergessero, inducendo una progressiva riduzione della violenza delle strutture politiche, sociali, giudiziarie, e in generale culturali, ma non ha impedito che fenomeni caratterizzati dalla marque du sacré tornassero all’ordine del giorno, aspetto che come vedremo caratterizza in modo distintivo il nostro tempo5. 7.2. Democrazia di confine Sulla base di quanto detto, pur consapevoli che tale procedimento possa apparire pretestuoso, vorremmo procedere alla discussione del destino dell’oggetto sociale confine a partire da un testo la cui sola presenza rappresenta un argomento a favore della tesi dell’indebolimento. Uno dei lasciti più preziosi dell’ermeneutica novecentesca è la possibilità di pensare la realtà come effettività, Wirklichkeit, come somma degli effetti di una narrazione, di un testo, di una traccia, di una ritenzione. Questa tesi deve comportare un’attenzione particolare alla comparsa dei testi e all’analisi delle condizioni di possibilità di certe domande. Il fascino forse più grande della riflessione di René Girard risiede nell’essere stato in grado di realizzare al massimo grado un progetto di compiuta coerenza tra il contenuto della propria risposta e l’apertura del proprio domandare. La teoria mimetica, une structure en escargot6, approfondisce a misura del proprio argomentare le condizioni di possibilità della propria domanda. Tenendo a mente tali considerazioni, mi riferirò alla riflessione disseminata in vari articoli di Arash Abizadeh7, filosofo della politica canadese, attento analista della questione della legittimità democratica dei confini. Porsi la domanda sulle condizioni di possibilità della propria domanda, ovvero porre in questione le ragioni per cui il proprio argomento fa problema, è esattamente ciò che Abizadeh non fa: il fatto però che tale domanda sia posta, e soprattutto che 5 6 7

Parlare di legittimità del post-moderno, il titolo del paragrafo, richiama inesorabilmente l’uso di questa espressione fatto da parte di Hans Blumemberg, ma non ha con esso alcuna correlazione. R. GIRARD, Celui par qui le scandale arrive, Hachette, Paris 2001, trad. it. di G. Fornari, La pietra dello scandalo, intervista con Maria Stella Barberi, Adelphi, Milano 2004, p. 85; la definizione è di Barberi. A. ABIZADEH, “Democratic Theory and Border Coercion: No Right to Unilaterally Control Your Own Borders”, in «Political Theory» 36.1, 2008, pp. 37-65, ma soprattutto il working paper discusso il 6.05.2011 al seminario diretto da Josh Cohen “Global Justice Research Workshop” presso la Stanford University: “On the Demos and its Kin: Nationalisms and Democratic Legitimacy”, http://papers. ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1805088.

Per un’ontologia dell’attualità

197

le ragioni di tale domanda vengano individuate nella natura intrinsecamente violenta e arbitraria del confine, offre una testimonianza indiretta della performatività dello svelamento del meccanismo mimetico-vittimario, la cui essenza anti-teogonica si compone, come abbiamo lungamente dimostrato, con una potenza decostruttiva microfisica. Il testo di Abizadeh mostra, infatti, che la domanda sulla legittimità dei confini delle nazioni democratiche si pone nel momento in cui ci si chieda come possa essere democraticamente legittimato un oggetto, ovvero un potere, la cui esistenza e il cui esercizio comportano inesorabilmente un «problema di esternalità»; come abbiamo visto nel primo capitolo indagando la storia di Roma dalla sua fondazione, il confine crea i due spazi sui quali insiste, istituendo un interno – che per i nazionalismi (etnico e culturale nella discussione di Abizadeh) e la teoria democratica definisce il popolo davanti al quale il potere, la sovranità, la politica sono chiamati a rispondere – e un esterno su cui esso esercita un potere non legittimabile8. In questo esercizio filosofico possiamo riconoscere non solo il paradosso politico di Rousseau9, ma in generale i paradossi affrontati da Walter Benjamin e Jacques Derrida, rispettivamente in Per una critica della violenza e in Forza di legge. Il cuore dell’argomento di Abizadeh consiste nel rilevare il fatto che «la costituzione, la regolazione e l’imposizione simbolica e coercitiva delle frontiere rappresenta una delle principali modalità attraverso le quali il potere politico è esercitato sugli esseri umani»10 salvo non essere democraticamente legittimabile perché esercitato anche su esseri umani che, per definizione del potere in questione, non potrebbero in alcun modo partecipare alle procedure che ne sanciscono la determinazione. Da questo argomento Abizadeh deduce che un potere politico compiutamente democratico implica un demos illimitato, non confinato. Abizadeh non tiene nella dovuta considerazione la condizione di possibilità della propria domanda, ovvero non si accorge che il peso e il valore 8

9 10

U. BECK, Die Neuvermessung der Ungleichheit unter den Menschen: Soziologische Aufklärung im 21. Jahrhundert, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2008, trad. it. di C. Sandrelli, Disuguaglianza senza confini, Laterza, Roma-Bari 2012, pone la questione simile delle «frontiere della disuguaglianza». Un regime di disuguaglianze può reggere finché esso trova in qualche modo un principio che lo legittimi, rendendolo «tollerabile»: all’interno di un paese sono il sistema economico e la struttura sociale a «legittimare» la disuguaglianza nazionale. B. HONIG, “Between Decision and Deliberation: Political Paradox in Democratic Theory”, in «The American Political Science Review», vol. 101, n. 1, 2007, pp. 1-17. Cfr. J.J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, II, 7. A. ABIZADEH, “On the Demos and its Kin: Nationalisms and Democratic Legitimacy”, cit., p. 18 del draft indicato.

198

La mimesi e la traccia

dell’arbitrio (Dove viene tracciato il confine? Chi viene escluso e chi incluso? Quando viene stabilita la matrice generazionale a partire dalla quale far valere lo jus sanguinis? Come giustificare la lotteria della nascita, al di qua o al di là del confine?11) sta cambiando radicalmente nella storia. La convergenza che stiamo cercando di impostare con la teoria mimetica deve tenere conto del fatto che se l’arbitrio è stato considerato in passato come una delle modalità attraverso cui si esprime la volontà divina, oggi viene associato alla totale assenza di senso12. Paradossalmente è proprio ciò che non vede un autore raffinato come Henri Atlan quando contesta l’importanza della méconnaissance nella teoria mimetica adducendo a prova il caso originario del rituale del capro espiatorio (rituale nel quale il capro destinato al deserto veniva sorteggiato) non avvedendosi che là dove una volta si sarebbe vista l’espressione del divino – lo stesso vale per esempio per l’ordalia13 – oggi si vede solo arbitraria, assurda e illegittima violenza. Il valore principale della riflessione di Vattimo sul tema della violenza, ridefinita negli ultimi lavori come «ciò che impedisce ogni ulteriore domandare»14, è proprio quello di rendere evidente il processo con cui 11 12

13

14

A. SHACHAR, The Birthright Lottery: Citizenship and Global Inequality, Harvard U.P., Cambridge, MA 2009. Già nel 1937 Edward Evans-Pritchard aveva mostrato che la stregoneria non nasce dall’ignoranza delle cause ultime di un evento nefasto, ma dal fatto che pone domande che vanno al di là di esse. Gli indigeni africani Azande sanno che quell’uomo è morto perché, andando a caccia, si è ferito una gamba, ma il problema è: «Perché lui e non un altro? perché adesso?». La magia è un tentativo di rispondere alla domanda dell’arbitrio inerente alla selezione. Cfr. E. EVANSPRITCHARD, Witchcraft, Oracles and Magic Among the Azande, Oxford University Press, Oxford 19762, trad. it. di R. Malighetti, Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Cortina, Milano 2002. A tal proposito e ancora in merito a tutti i giochi legati alla sorte si rimanda alle considerazioni di Girard sulle riflessioni ludiche di J. Huizinga e sul tema dell’emergenza dell’eccezione, cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., pp. 129 e sgg. G. VATTIMO, Addio alla verità, cit., p. 103. Se, come dice Ferraris, è evidente che «prima o poi bisogna prendere una decisione» (M. FERRARIS, Documentalità, cit., p. 77), il punto è che il sapere che ci impedisce di commettere violenze, nella forma più estesa di questo concetto (secondo la definizione di Vattimo) ci impedisce proprio di prendere una decisione in quelle situazioni in cui la decisione in quanto interruzione non solo del domandare ma soprattutto della specularità infinita generata dalle condizioni di incertezza (cfr. supra 4.1 e J.-P. DUPUY, L’avenir de l’économie, cit., p. 102 e 127) è responsabile dell’emergenza di un punto fisso endogeno. Insomma, come direbbe Ferraris, la massa ha bisogno di una direzione, prima o poi bisogna prendere una decisione: ma nel momento in cui l’arbitrio inerente a tale decisione emerge, essa diventa improvvisamente impossibile. Non

Per un’ontologia dell’attualità

199

l’arbitrio, ovvero ciò che è per definizione irriducibile, sia la forma originaria ed essenziale della violenza. Allo stesso modo, seguendo la teoria mimetica, ci possiamo rendere conto che il testo di Abizadeh non fa che partecipare a quell’opera di decostruzione che accade15, che si dà, ovvero l’erosione e l’indebolimento delle differenze e dei differimenti che coprendo l’arbitrio originario e la violenza ad esso connessa contengono l’arbitrio. Questa relazione gerarchica rischia di trasformare l’ontologia sociale elaborata da Ferraris in una sorta di contributo per ogni nuovo dogmatismo, così evidente nei suoi limiti almeno etico-politici quando afferma senza tema che «quello che propongo è un passaggio dal relativismo ermeneutico a un oggettivismo realistico: oggettività e realtà, considerate dall’ermeneutica radicale come princìpi di violenza e di sopraffazione, sono di fatto la sola tutela nei confronti dell’arbitrio»16. Ogni tentativo di contenere l’arbitrio contiene l’arbitrio, ovvero un elemento di violenza illegittima resa ormai manifesta e inoccultabile e quindi alla lunga indebolente. La periodizzazione del post-moderno ci pare trovare in questo sapere la sua legittimità: dopo Auschwitz ogni tentativo di giustificare e legittimare attraverso il ricorso a forme di arbitrio differito la differenziazione tra una violenza cattiva ed una buona, ovvero il differimento dell’arbitrio, è diventato inaccettabile.

15

16

è una questione di scelta: nel momento in cui sia chiaro che i vari possibili punti fissi endogeni, in quanto frutto del caso, non hanno alcuna legittimità intrinseca, l’unica cosa che li rendeva efficienti e quindi a posteriori «buoni», ovvero la condivisione più o meno unanime, diventa impossibile. J. DERRIDA, Lettre à un ami japonais, in Id., Psyché. Inventions de l’autre, Galilée, Paris 1987, pp. 387- 393, p. 390, trad. it. di Rodolfo Balzarotti, “Lettera a un amico giapponese”, in Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. II, Jaca Book, Milano 2009, pp. 7-13, p.11. Cfr. M. FERRARIS, Documentalità, cit., p. 86. D’altronde già in Kurt LATTE, Heiliges Recht. Untersuchungen zur Geschichte des sakralen Rechtsformen in Griechenland, Tübingen 1920, pp. 2 e sgg, (citato in W. BENJAMIN, L’origine del dramma barocco tedesco, cit., p. 91) si legge che «la legislazione e la prassi giuridica si svilupparono in Grecia dalla lotta contro la faida e la giustizia sommaria. Là dove l’inclinazione all’arbitrio spariva, o lo stato riusciva ad arginarla, il processo non appariva, tuttavia, almeno all’inizio, come la ricerca di una decisione giudiziaria, ma come un atto di espiazione». Ogni istituzione ed infine ogni oggetto sociale ha come medesima ed unica ragion d’essere il contenimento dell’arbitrio. Ciò che emerge inesorabilmente, implacabilmente, nel post-moderno è che tale contenimento dell’arbitrio, con buona pace di Latte e Ferraris, è amministrato attraverso un uso differito e differente del medesimo principio, l’arbitrio. Questo sapere invade nello stesso periodo anche le cosidette scienze dure, senza comportare però le medesime conseguenze, dal momento che il contributo della scintilla del caso nell’ebollizione dell’acqua non potrebbe fare problema per nessuno.

200

La mimesi e la traccia

Proveremo ora a riflettere sulla possibilità che, a differenza di quanto sostiene Abizadeh, non ci sia contraddizione tra democrazia e confini ma piuttosto tra democrazia cristiana e limiti. 7.3. La logica dell’autoimmunità17 In Voyous18 Jacques Derrida aggiorna la formulazione della legge generale del processo autoimmunitario e la sua applicazione all’analisi dei fatti sociali precedentemente argomentata in Foi et savoir. In questo paragrafo, attraverso l’analisi del linguaggio e dell’uso del vocabolario dell’immunologia adoperato, come dimostreremo, in modo impreciso da Derrida, cercheremo di formulare alcuni corollari al ragionamento di Abizadeh affrontato nel paragrafo precedente. Mostrando in che modo Derrida confonde i termini dell’immunologia, si chiarirà quali affrettate considerazioni nascondano un’intuizione invece rilevante. Un uso confuso e fuorviante di concetti e nozioni come «suicidio autoimmunitario» e un certo malinteso sulla logica e la dinamica dell’auto-immunità conducono Derrida a confondere idee, funzioni e concetti che andrebbero tenuti rigorosamente distinti e che le nozioni di teoria mimetica sin qui recuperate ci permetteranno di districare. Jacques Derrida propone, come introduzione al tema di cui si occuperà nello svolgimento del saggio, un caso di studio esemplare. Si tratta della sospensione delle normali procedure democratiche registratasi in Algeria, nel 1992, «quando lo Stato e il partito dominante hanno interrotto un processo elettorale democratico»19 per evitare che il normale decorso portasse, democraticamente, alla fine della democrazia. Il processo elettorale in corso rischiava infatti di dare il potere a una maggioranza essenzialmente islamica e islamista alla quale si attribuiva l’intenzione di cambiare la costituzione e di abolire il funzionamento regolare della democrazia o l’effettività di una democratizzazione in corso. Secondo Derrida, il governo algerino e una parte importante del popolo algerino hanno preferito mettere fine, «sospendere, almeno provvisoriamente, la democrazia per il suo bene e per prendersene cura, per renderla immune rispetto alla peggiore e più probabi17 18 19

Questo paragrafo è una versione leggermente modificata di E. ANTONELLI, “Transparency and the logic of auto-immunity” in «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», 1, 2011, pp. 127-139. J. DERRIDA, Voyous. Deux essais sur la raison, Galilée, Paris 2003, trad. it. a cura di Laura Odello, Stati canaglia, Raffaello Cortina, Milano 2003. Ivi, p. 55.

Per un’ontologia dell’attualità

201

le aggressione»20. L’ipotesi, ci dice Derrida, è quella di un potere sottratto o rimesso a un popolo che, nella sua maggioranza elettorale e secondo procedure democratiche, non avrebbe evitato la distruzione della democrazia, «un certo suicidio della democrazia», un «suicidio autoimmunitario»21. Questo esempio non è che un’occorrenza determinata di un processo paradigmatico: «i totalitarismi fascista e nazista sono arrivati al potere, hanno preso il potere nel corso di dinamiche elettorali considerate, da un punto di vista formale, normali e democratiche»22. Derrida amplia il campo di osservazione prendendo in considerazione i fatti precedenti agli eventi del 1992: «una serie di esempi a catena di una pervertibilità autoimmunitaria della democrazia»23. L’Algeria, per immunizzarsi contro l’aggressore interno – la maggioranza islamista determinata a distruggere, democraticamente, la democrazia – e contro l’aggressore esterno – la potenza coloniale francese che aveva imposto con la violenza una cultura e una lingua politica democratiche – restava in balia dell’illusione di una scelta tra l’omicidio e il suicidio. In sostanza, la democrazia algerina, aggredita dall’esterno con una violenta imposizione della democrazia reagiva scatenando una guerra di indipendenza; aggredita dall’interno, sospendeva anti-democraticamente la democrazia per evitare che essa fosse distrutta democraticamente. Derrida considera queste due reazioni come protezioni immunitarie24 contro il rischio del suicidio autoimmunitario. Prima di tornare ad occuparci di Voyous, seguiamo Derrida nel rimando alla formulazione della legge generale del processo autoimmunitario fornita in Fede e sapere25. Il sottotitolo di questo saggio è di grande importanza per iniziare a mettere a fuoco la problematica: Le due fonti della «religione» ai limiti della semplice ragione. La legge generale del processo autoimmunitario viene formulata per cercare di determinare una delle due fonti della religione: «la pulsione dell’indenne, di ciò che resta allergico alla contaminazione, salvo da se stesso,

20 21 22 23 24 25

Ivi, p. 59. Ivi, pp. 59-60. Ibidem. Ibidem. Ibidem. J. DERRIDA, “Foi et savoir”, in J. DERRIDA, G. VATTIMO, La religion. Séminaire de Capri, Seuil, Paris 1996, trad. it. di Alessandro Arbo, “Fede e sapere”, in La religione, Laterza, Roma-Bari 1995.

202

La mimesi e la traccia

auto-immunemente»26. Derrida usa indifferentemente i termini immune e auto-immune, e occasionalmente sovraccarica il testo di altre espressioni che fanno parte del campo semantico dell’immunologia, come quelle che troviamo, accostate non sempre con armonia, nella frase appena riportata. L’allergia per esempio non è una reazione auto-immunitaria, bensì un reazione di ipersensibilità, una risposta abnorme del sistema immunitario rispetto alla natura degli antigeni, gli allergeni. Il testo presenta altre affermazioni che fanno dubitare della comprensione della logica immunitaria che pure Derrida sta cercando di formulare. È il caso delle considerazioni che seguono la nota etimologica al lemma immune, che designa ciò o colui che «è affrancato da incarico, servizio, imposta, obbligo (munus, radice del comune, della comunità)» 27. In questa nota Derrida chiarisce l’origine e traccia una breve storia degli usi del campo semantico dell’immunità, liberando il campo da qualsiasi malinteso biologistico o riduzionista28: è soprattutto nel campo della biologia che il lessico dell’immunità ha sviluppato la sua autorità, ma non prima di aver trovato ampia diffusione nei campi del diritto costituzionale, internazionale e del diritto canonico. Nel campo della biologia – che per altro fa uso abbondante di metafore e ter26 27 28

Ivi, p. 29. L’altra fonte, l’altra esperienza religiosa è, secondo Derrida, la credenza (cfr. ivi, p. 36). Ivi, p. 48n. A questo proposito sono molto importanti le osservazioni formulate in R. ESPOSITO, Communitas, cit., p. XIII, testo che curiosamente non fa alcun riferimento al saggio, precedente, di Derrida. A tal proposito è ancora più chiara l’operazione condotta nella stessa direzione, in J. DERRIDA, Stati canaglia, cit., p. 179. È bene notare sin da subito che oltre alla radice munus, su cui ha molto lavorato Esposito, buona parte del restante armamentario terminologico dell’immunologia biologica è preso in prestito dalle scienze umane, dall’insulto, al self, alla tolleranza. Per questa ragione, anche se storicamente questo tipo di analogia ha prodotto risultati deleteri – si veda ancora R. ESPOSITO, Immunitas, cit. —, il lavoro di Derrida ambisce ad avere una «portata senza limiti», cfr. J. DERRIDA, Stati canaglia, cit., p. 179. Nel caso non bastassero queste premesse, si tenga sempre in considerazione che, almeno a partire dai lavori fondamentali di Varela e Maturana, nel momento in cui si tenti di lavorare con il paradigma della complessità, l’immunologia si trova ad essere piuttosto una specie che non un genere, ovvero un’altra disciplina che si articola a partire dalla medesima logica – che qui abbiamo definito eraclitea, ma che in definitiva coincide con le logiche autopoietiche del paradigma della complessità. Al fine di valutare i limiti e le potenzialità di tali accostamenti, Dupuy e Dumouchel avevano organizzato un importante Colloque de Cerisy, nei primi anni ottanta, che aveva visto tra gli altri la partecipazione di eminenti pensatori del politico e del sociale, da René Girard a Cornelius Castoriadis a, ovviamente, Edgar Morin. Cfr. P. DUMOUCHEL, J.-P. DUPUY, L’auto-organisation. De la physique au politique, Seuil, Paris 1983.

Per un’ontologia dell’attualità

203

minologie che non le sono proprie29 –, «la reazione immunitaria protegge l’indennità del corpo proprio producendo degli anticorpi contro gli antigeni estranei»30. A questa affermazione corretta segue una considerazione improvvida: «quanto al processo di autoimmunizzazione che qui ci interessa in particolare, come è noto esso consiste, per un organismo vivente nel proteggersi dalla propria autoprotezione distruggendo le proprie difese immunitarie»31. Quest’affermazione è sorprendente, i processi di autoimmunizzazione infatti non proteggono «dalla propria autoprotezione» e soprattutto non distruggono le difese immunitarie. Dello spettro delle patologie del sistema immunitario, questa descrizione sembra rifarsi non tanto all’autoimmunizzazione quanto alle immunodeficienze. Proprio in questo slittamento si potrà trovare lo spazio di manovra per rivedere l’impianto argomentativo di Derrida. La confusione nell’argomentazione non è interessante in quanto tale, né è nostro obiettivo sindacare sulla corretta applicazione di concetti la cui determinazione precisa appartiene in effetti ad altri campi e altre discipline. La rilevanza di queste strane oscillazioni va riscontrata nell’uso che Derrida farà della legge generale del processo autoimmunitario in Stati canaglia, ovvero dell’applicazione di quella che si potrebbe chiamare semplicemente logica immunitaria alla discussione sulle sorti e sull’essenza della democrazia. In questo testo si possono leggere, dopo le pagine dedicate al caso algerino, alcune considerazioni dedicate alla reazione degli Stati Uniti dopo gli attacchi terroristici alle Torri Gemelle, agli «effetti di ciò che viene chiamato l’”11 settembre”»32. Secondo Derrida il fatto che l’amministrazione americana, «pretendendo di fare la guerra contro l’”asse del male”, contro i nemici della libertà e contro gli assassini della democrazia nel mondo, [abbia dovuto] inevitabilmente e innegabilmente restringere, all’interno del suo stesso paese, le libertà cosiddette democratiche o l’esercizio del diritto», è un processo «chiaramente autoimmunitario»33. In sostanza, Derrida considera la reazione antidemocratica della democrazia un attacco autoimmunitario al self, all’io, all’autos immune, ovvero

29 30 31 32 33

Cfr. A.I. TAUBER, The Immune Self: Theory or Metaphor?, Cambridge U.P., Cambridge 1994. J. DERRIDA, “Fede e sapere”, cit., p. 48, in nota. Ibidem. Ivi, p. 67. Ibidem.

204

La mimesi e la traccia

la democrazia. Eppure la logica immunitaria sembrerebbe condurre a sostenere altre considerazioni. Lo spirito che guida le considerazioni sul caso algerino e sul caso americano è lo stesso: la democrazia per difendersi dall’aggressore, da un’offesa, dall’insulto, reagisce con mezzi che paiono negare la democrazia stessa. Ma prendiamo il caso elementare della vaccinazione, l’immunità artificiale attiva. Per difendere un organismo da una possibile aggressione, si inocula una minima quantità del medesimo agente patogeno in modo tale da aiutare il sistema immunitario a sviluppare le difese opportune, in questo caso gli anticorpi della democrazia. Il caso dell’Algeria, che sospende «almeno provvisoriamente»34 la democrazia per salvare la democrazia appare allora simile a una normale vaccinazione, cioè a una normale pratica immunitaria. Perché in un caso Derrida considera la sospensione temporanea delle normali procedure democratiche per difendere la democrazia algerina una pratica immunitaria, mentre giudica l’operazione dell’amministrazione americana, ascrivibile alla medesima logica – contenere il male con il male –, un processo autoimmunitario? In secondo luogo, perché ritiene che l’Algeria abbia corso il rischio di un suicidio autoimmunitario? Il caso algerino non è il rovescio speculare di una pratica vaccinatoria – curare il male con il male –: non si tratta della democrazia che aggredisce la democrazia, quanto piuttosto dell’incapacità della democrazia di difendersi da un tipo particolare di aggressione, condotta secondo le regole democratiche. La vicenda algerina, la reazione contro l’aggressore interno, rappresenta un caso di immunità artificiale attiva di fronte ad una minaccia interna a cui il sistema non può opporre la propria immunità congenita. Inizia ad emergere il nucleo del problema e nelle considerazioni esposte in Fede e sapere e prima riportate per sommi capi si può rintracciare l’origine di questa strana confusione. La tesi di Derrida, esposta in un saggio disseminato di termini su cui René Girard si è concentrato lungo la sua intera carriera – quali méconnaissance, risentimento, sacrificio (umano), comunità —, risuona felicemente con le analisi delle comunità arcaiche e sulla logica del sacro. La logica immunitaria appare come formulazione moderna del procedimento sacrificale messo a fuoco nel corso di La violenza e il sacro: l’intervento medico consiste nell’inoculare ‘un po’’ della malattia, esattamente come nei riti che iniettano “un po’’ di violenza nel corpo sociale per metterlo in grado di resistere alla violenza. Le analogie, per numero e precisio-

34

J. DERRIDA, Stati canaglia, cit., p. 59.

Per un’ontologia dell’attualità

205

ne, danno il capogiro. Le “iniezioni di richiamo’ corrispondono alla ripetizione dei sacrifici e, come in tutte le modalità di protezione “sacrificale’, si ritrovano naturalmente le possibilità d’inversione catastrofica: un vaccino troppo virulento, un pharmakon troppo potente, può diffondere il contagio che si trattava di stroncare.35

Girard ravvisa nella logica immunitaria la dinamica fondamentale della costituzione e conservazione dell’integrità della comunità: possiamo aggiungere a tal proposito ancora un dettaglio. Esistono due tipi di pratiche di vaccinazione, la vaccinoprofilassi e la vaccinoterapia. Nel primo caso si tratta di una pratica di protezione preventiva il cui scopo è quello di creare uno stato immunitario nei confronti del rischio di contrarre determinate malattie. La vaccinoterapia, invece, è una pratica effettuata a scopo terapeutico contro una malattia già in atto, allo scopo di potenziare gli anticorpi dell’organismo. Le analogie con la teoria mimetico-vittimaria sono effettivamente sorprendenti. Come si ricorderà, la tesi fondamentale di René Girard sostiene che il momento fondativo del sacro sia una vittimizzazione violenta, un fenomeno di capro espiatorio grazie al quale una comunità, in preda ad una crisi di indifferenziazione, in altre parole una crisi di rivalità violenta e di vendetta, (ri)trova la propria unità e integrità alle spese di una singola vittima la cui espulsione o uccisione riappacifica il resto della comunità, secondo una logica binaria elementare. Il capro espiatorio, che in quanto tale, se tale, rimane ignoto, méconnu, a tutti i membri della comunità, assume su di sé le responsabilità della crisi e il merito della rinnovata armonia. Una dose di violenza supplementare pone fine al dilagare della violenza intestina. Come si può intuire, l’evento fondativo ricalca i tratti della vaccinoterapia, l’iniezione a scopo terapeutico per curare una malattia, la crisi violenta, già in atto. I sacrifici, sono «iniezioni di richiamo», e in generale vaccinoprofilassi, pratiche preventive. La malattia autoimmune, che vedremo essere cosa diversa dalla reazione autoimmune, non è, come invece afferma Derrida, «questa strana logica illogica per la quale un vivente può spontaneamente distruggere, in modo autonomo, ciò stesso che, in lui, è destinato a proteggerlo contro l’altro, a immunizzarlo contro l’intrusione aggressiva dell’altro»36. La malattia autoimmune è una patologia in cui il sistema immunitario si attiva nei con35 36

Ivi, p. 402. J. DERRIDA, Stati canaglia, cit., p. 178 e, con altre parole, ma sulla stessa linea argomentativa, J. DERRIDA, Fede e sapere, cit., p. 48.

206

La mimesi e la traccia

fronti del self, distruggendolo. La questione è in realtà molto più delicata di quanto sin qui sia stato possibile chiarire: la malattia autoimmune non attacca ciò «che, in lui [nell’organismo] è destinato a proteggerlo contro l’altro», né «distrugge le proprie [dell’organismo] difese immunitarie». Dietro questa confusione non può che celarsi un malinteso che ha per altro tenuto acceso il dibattito scientifico sul funzionamento del sistema immunitario almeno a partire dall’acceso scontro tra Me nikov e Ehrlich37, rappresentanti di due scuole di pensiero confrontatesi agli inizi del XIX secolo (rispettivamente cellularisti e umoralisti)38: nella continua interazione con l’esterno – e con l’interno – il sistema immunitario, una vera e propria soglia, si limita a proteggere l’integrità del sé o partecipa attivamente alla continua e progressiva determinazione dell’identità? Sono due i gesti retorici che fanno sospettare che Derrida usi in modo approssimativo i concetti connessi alla logica immunitaria. In primo luogo, come abbiamo appena detto, la confusione riguardo alla vittima dell’aggressione autoimmunitaria: la difesa immunitaria e non invece il sé, l’integrità dell’io – ad onor del vero ci sono passi in cui le due cose sono accostate, cosa che comunque non riduce, ma anzi aumenta la sensazione di confusione. In secondo luogo, colpisce il fatto che Derrida non accenni alla differenza fondamentale tra la malattia autoimmune e la reazione autoimmune. La reazione autoimmune è in effetti un fenomeno biologico estremamente frequente e anzi necessario per il normale svolgimento delle funzioni di difesa assolte dal sistema immunitario. La malattia autoimmune è invece determinata dall’incapacità del sistema immunitario di interrompere i processi diretti contro l’organismo, contro il sé, al termine di una risposta fisiologica. Il sistema immunitario si fonda quindi anche sulla reazione auto-immune che prende parte attiva nell’operazione costante di discriminazione tra self e non-self, la quale, come si sarà capito, non è diretta esclusivamente contro minacce provenienti dall’esterno. È proprio questa continua operazione di discriminazione che contribuisce a costituire il self, frutto oltre che origine della discriminazione immunitaria – «the self is self-defining»39. La difesa dell’organismo, del sé, è in realtà piuttosto l’operazione costitutiva dell’organismo stesso40. Con una certa carità ermeneutica si potrebbe anche pensa37 38 39 40

Il’ja Il’i Me nikov, biologo russo stabilitosi a Parigi presso l’Institut Pasteur e Paul Ehrlich vinsero il Nobel per la medicina nel 1908, per la scoperta del meccanismo della fagocitosi. A.I. TAUBER, The Immune Self: Theory or Metaphor?, cit., pp. 6, 26 e 38. Ivi, p. 144. Cfr. ivi, pp. 136 e sgg.

Per un’ontologia dell’attualità

207

re che sia questo il fenomeno a cui Derrida fa riferimento quando dice che «l’autoimmunità [è] un principio di autodistruzione sacrificale che danneggia il principio di protezione di sé (del mantenimento dell’integrità intatta di sé)»41, ma l’affermazione non sarebbe che parzialmente corretta: il principio di protezione del sé coincide solo in parte con il processo di mantenimento dell’integrità del sé, ma non è l’autoimmunità a sfidare questa dinamica. C’è tuttavia una possibilità per salvare l’intuizione di Derrida e riconferire armonia e coerenza alla sua strategia argomentativa e consiste nel prendere sul serio la teoria mimetica. Le dinamiche vittimarie e sacrificali vengono associate secondo analogia e persino identità alla vaccinazione, una pratica che permette all’organismo di guadagnare una immunità artificiale attiva. Esiste un’altra possibile analogia tra la logica immunitaria e la logica sacrificale messa in luce da Girard, ed ha da fare con i processi di discriminazione. Me nikov sosteneva con insistenza che la lotta dei fagociti con gli intrusi fosse solo un effetto secondario della loro normale attività. La difesa dell’organismo dagli attacchi dei parassiti era solo una delle numerose funzioni dei fagociti, tra le quali la riparazione dei tessuti danneggiati e la sorveglianza delle cellule maligne o vecchie. Così, i fagociti (il sistema immunitario in generale), nel sistema di Me nikov, definiva l’identità dell’organismo; vale a dire, determinava ciò che andava e ciò che non andava distrutto o mangiato, che fosse nativo o estraneo.42

L’organismo, pur con «ovvie restrizioni genetiche», è «definito immunologicamente dal processo dinamico e mutevole della selezione immunitaria»43, che, come si è appena visto, agisce discriminando ciò che va conservato e protetto e ciò che va mangiato o distrutto, a prescindere dal fattto che sia nativo o estraneo, che provenga dall’interno o dall’esterno. Stiamo insistendo molto su questo tratto perché ci consente di mettere a fuoco una seconda analogia – o identità – tra la logica sacrale e le dinamiche immunitarie; un’analogia che permetterà di ritrovare e riconfigurare il discorso di Derrida. Nel novero dei testi di riferimento di Derrida, ne esiste uno a cui sono dedicate pagine molto interessanti de La farmacia di Platone e di Chora44, la cui assenza in Stati canaglia è più rumorosa della sua presenza altrove. Il saggio in questione è Ambiguïté et renversement. Sur la structure 41 42 43 44

J. DERRIDA, Fede e sapere, cit., p. 57. A.I. TAUBER, op. cit., p. 19. Ivi, p. 159. J. DERRIDA, Khôra, Galilée, Paris 1993, trad. it. di F. Garritano in Id., Il segreto del nome. Chora, Passioni, Salvo il nome, Jaca Book, Milano 1997/2005.

208

La mimesi e la traccia

énigmatique d’Œdipe-Roi, nel quale Vernant propone di considerare come fenomeni speculari istituzioni, la cui origine è vistosamente rituale, quali quelle del pharmakos e dell’ostrakos. La considerazione fondamentale per il nostro argomento è la seguente: Quando [la città] fonda l’ostracismo, essa crea un’istituzione il cui ruolo è simmetrico e inverso al rituale delle Targelie. Nella persona dell’ostracizzato, la Città espelle ciò che in essa è troppo elevato e incarna il male che potrebbe venirle dall’alto. In quella del pharmakos, espelle ciò che di più vile essa contiene e che incarna il male che la minaccia dal basso. Attraverso questo rigetto doppio e complementare, essa si delimita da sé in rapporto ad un al-di-la e ad un al-di-qua. Prende le misure proprie dell’umano in opposizione da un lato al divino e all’eroico, dall’altro al bestiale e al mostruoso.45

Questo passo conferma con ogni evidenza la doppia analogia tra sistema immunitario e logica sacrale proposta poco sopra – «il sé immune sorge dall’attività immunitaria»46. Il rito violento, l’espulsione dell’ostrakos e il sacrificio (espulsione o uccisione, a seconda dei casi) del pharmakos sono al tempo stesso una pratica vaccinoprofilattica – o vaccinoterapica a seconda della gravità della crisi a cui vengono a porre rimedio (pharmakon) – e un’attività discriminatoria, un rigetto doppio e complementare, grazie alla quale la polis si delimita e si costituisce. Questo riferimento è necessario e interessante perché dà l’occasione di mettere in luce una stranissima cesura nell’argomentazione di Derrida, il quale chiama in causa la Politica di Aristotele per commentare il ruolo e la topologia dell’eccezione, della canaglia, del fuorilegge. Ebbene, Derrida considera il passo (Politica, 1284a) in cui Aristotele commenta la possibilità di un uomo che sia «come un dio tra gli uomini» (Politica, 1284a), «che abbia una virtù o una capacità politica incomparabili, incommensurabili, diverse da quelle degli altri»47: sottometterli all’isonomia tradirebbe la giustizia, per questi uomini non c’è legge, non c’è nomos, perché essi sono la legge (autoi gar eisi nomos). Ciò che ha attirato la nostra attenzione in questa riflessione non è tanto «la favola della sovranità e la ragione del più forte, che – dice Derrida – questa conferenza sta evitando»48 ma il fatto che Derrida interrompa la citazione e il commento del testo aristotelico

45 46 47 48

Ivi, pp. 83-84. A. I. TAUBER, op. cit., p. 225. J. DERRIDA, Stati canaglia, cit., pp. 116-117. Ibidem.

Per un’ontologia dell’attualità

209

sulla frase «E sarebbe ridicolo chi cercasse di redigere una legislazione per loro. Forse, essi potrebbero dire quel che, secondo Antistene, dissero i leoni quando le lepri parlarono all’assemblea degli animali e proposero che ci fosse uguaglianza tra tutti»49 e tagli la frase seguente, la frase che regge tutta la riflessione aristotelica e ne fa una spiegazione della pratica dell’ostracismo: «Per questa ragione gli stati democratici hanno istituito l’ostracismo» (Politica, 1284a, 19, corsivo nostro). La democrazia ateniese, come ricorda Vernant e come conferma Aristotele, mantiene, difende e soprattutto costituisce l’integrità del proprio self, la propria indennità, grazie a pratiche di origine incontestabilmente rituali50, fondate su meccanismi di discriminazione immunitaria. Come già ricordato, la terza anima della teoria mimetica – dopo la teoria del desiderio mimetico e la teoria del meccanismo vittimario – sostiene che proprio le pratiche rituali di discriminazione, arbitraria, siano oggetto di un indebolimento, di un’erosione performativa preparata dall’Antico Testamento e scatenata dalla Rivelazione evangelica. Prendere sul serio questa tesi, come qui stiamo cercando di fare, significa riconsiderare l’abolizione delle pratiche discriminatorie come, per restare nell’analogia già giustificata contro ogni accusa di biologismo – e cercando di evitare ogni assiologia implicita51 —, una sorta di immunodeficienza acquisita. Il Cristianesimo, estendendo la tesi di René Girard, ha ridotto le difese immunitarie della democrazia, ne ha fatto – e ne fa, in un processo sempre in atto, effettivo, performativo contro il quale ogni reazione non potrebbe che oscillare tra l’impotente e l’abnorme – un autos immunodeficiente52. Se si ammette questo slittamento, l’intuizione e la strategia di Derrida tornano ad essere coerenti. La democrazia, «l’autos dell’autodelimitazione decostruttiva» è un regime essenzialmente privo di essenza perché si fonda sulla ne49 50 51

52

Ibidem. Cfr. J.-P. VERNANT, “Ambiguità e rovesciamento”, cit., pp. 66-67. A tal proposito non nuocerà insistere sul fatto che una riflessione di questo genere sulla logica immunitaria, proprio nel momento in cui insiste sul ruolo della discriminazione, si mette al riparo da ogni rischiosa valutazione o classificazione dei discriminandi: come a dire che il pharmakon di per sé non è né rimedio né veleno. In questo ci sentiamo di aderire completamente a quanto dice A.J. MCKENNA, The Ends of Violence: Girard and Derrida, in «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», n° 1, 2011, pp. 107-121: «Deconstruction is not a solution to the crisis, but its symptomatology». La decostruzione è una descrizione degli effetti di progressivo indebolimento delle difese immunitarie di cui Girard ci fornisce la spiegazione genetica.

210

La mimesi e la traccia

gazione del processo di discriminazione che quell’essenza dovrebbe costituire. Questa caratteristica è però a sua volta intrinsecamente storica e anzi determina la «storicità intrinseca che essa [la democrazia] non condivide con nessun altro regime»53 e quindi contraddice l’argomento con cui Derrida sostiene che nella sua autoimmunità costitutiva, nella sua vocazione all’ospitalità […], la democrazia ha sempre voluto, di volta in volta e contemporaneamente, due cose incompatibili: essa ha voluto, da una parte, accogliere solo uomini, e a condizione che fossero cittadini, fratelli e simili, escludendo gli altri, in particolare i cattivi cittadini e ogni sorta di altro, dissimile, irriconoscibili, e, dall’altra, contemporaneamente o di volta in volta, essa ha voluto aprirsi, offrire un’ospitalità a tutti questi esclusi.54

La democrazia, come ci insegnano Aristotele e Vernant, non ha sempre voluto due cose incompatibili e quindi non è un regime costitutivamente auto-immune: è invece un regime storicamente sottoposto ad un trattamento immunosoppressore. Il rischio opposto è quello affrontato da Paul Dumouchel in Le sacrifice inutile, saggio nel quale si tratta il problema dell’uso abnorme della violenza politica di certi stati nei confronti dei propri cittadini, ovvero casi in cui i processi di discriminazione non riescono più a limitare l’espulsione o la distruzione agli elementi ascrivibili al non-self e si rivoltano contro il self, distruggendo progressivamente l’intero organismo, quelle che potremmo definire le catastrofi autoimmunitarie55. Derrida fa collassare due osservazioni o due intuizioni diverse nella medesima argomentazione. L’autoimmunità non attacca le difese immunitarie; essa è un processo di discriminazione che, nella selezione di ciò che va protetto e ciò che va distrutto, costituisce il self dell’organismo. La malattia autoimmune, a cui Derrida pare ispirarsi, è la degenerazione patologica di questo processo discriminatorio, che conduce il sistema immunitario a rivolgersi contro le cellule del self e distruggerle. L’intuizione di Derrida è in realtà quella di osservare che la democrazia rischia di autodistruggersi per eccesso di democrazia; per confermare questa considerazione è stato necessario compiere un détour nella teoria mimetica. In questo modo ci siamo resi conto che la democrazia ateniese aveva sistemi di discriminazione costitutiva fondati sull’opacità delle pratiche 53 54 55

J. DERRIDA, Stati canaglia, cit., p. 110. Ivi, p. 99, corsivi dell’autore, tranne «sempre», nostro. P. DUMOUCHEL, Le sacrifice inutile, cit., pp. 191-214, in cui l’autore tratta dell’immane tragedia cambogiana.

Per un’ontologia dell’attualità

211

rituali, sulla méconnaissance che proteggeva gli istituti speculari e complementari del pharmakos e dell’ostrakos, la festa delle Targelie e l’ostracismo. Forse è proprio la sovrapposizione (di cui per altro Derrida pare non essersi accorto) delle due funzioni immunitarie – la reazione autoimmune, discriminatoria, delimitante e costitutiva dei due rituali e la loro funzione vaccinoprofilattica contro eventuali crisi violente – a confondere i termini della questione. Accettando la tesi girardiana, ci si accorge che vedendo svelata la caratteristica violenta della discriminazione56 – che nel caso dell’ostracismo già Aristotele, per altre ragioni, coglieva – il regime democratico perde la fondamentale funzione costitutiva svolta dal sistema auto-immune, ovvero, vede effettivamente indebolite le proprie difese immunitarie. Possiamo allora riformulare l’intuizione di Derrida: se la democrazia ateniese viveva grazie all’esercizio di un sistema immunitario di origine sacrale, basato su regolari discriminazioni costitutive e vaccinazioni contro la violenza intestina, la democrazia moderna e liberale, una volta disarticolato il meccanismo autocostitutivo, è costretta a vivere nella soglia che separa la distruzione per immunodeficienza (acquisita o forzata mediante immunosoppressori) e la catastrofe autoimmunitaria, difendendosi come può dalla sensazione pervasiva del rischio di contagio. Abizadeh si dibatte nel paradosso dell’origine individuato da Derrida. Il punto su cui insiste il suo argomento è ovviamente il paradosso dell’autoreferenzialità: il popolo dovrebbe essere il soggetto dell’operazione con cui si delimita57, che suona tanto come il paradosso della prima cibernetica che sognava di programmare un programma che si programmasse da sé, ovvero il sogno originario della filosofia moderna di essere causa di un ente causa sui. Il problema di Abizadeh insomma non è diverso dal problema in cui abbiamo 56

57

Non può non essere fonte di interesse, da questo punto di vista, il fatto che il termine «discriminare» abbia ormai sostanzialmente perso la sua accezione neutra e sia usato solo per descrivere operazioni di separazione o divisione illegittime, arbitrarie, violente. A tal proposito è molto interessante Deborah HELLMAN, When is discrimination wrong?, Harvard University Press, Cambridgne, MA 2008. Hellman risponde alla domanda con cui ha intitolato il suo saggio che discriminare è (moralmente) sbagliato quando i soggetti che ne vengono influenzati abbiano ragioni oggettive di sentirsi sviliti (demeaned) (ivi, p. 169). In questo testo, come nel lavoro di Abizadeh, stona il totale disinteresse verso le ragioni e la storicità della domanda, ovvero l’assenza di una considerazione del perché la discriminazione ha fatto e fa problema e perché certe soluzione sono sembrate opportune nel passato e invece oggi paiono spurie. Il problema è stato definito boundary problem da F.G. WHELAN, “Prologue: Democratic Theory and the Boundary Problem”, in «Nomos», 25: Liberal Democracy, J. R. PENNOCK, J.W. CHAPMAN (eds.), New York U.P., New York 1983, pp. 22-40.

212

La mimesi e la traccia

visto impegnato Dupuy, del quale possiamo riprendere la considerazione per cui il sacro è quel «buco nero in cui tutte le differenze si aboliscono e dove, forse, si generano per auto-trascendenza le società umane»58. Il sacro è quel buco nero in cui le distinzioni si confondono e da cui escono le differenze. Come nel caso del capro espiatorio, oggetto la cui conoscenza ne corrode l’esistenza, l’unica autentica decisione, l’unica vera discriminazione, è quella di cui nessuno si accorge59. Come il capro espiatorio, essa è essenzialmente una differenza, un taglio, una decisione, una strage, ed è frutto dell’arbitrio. In tal senso, la lettura girardiana del problema dell’origine conferma il tema nietzschiano per cui a mano a mano che ci si avvicina, l’origine diventa insignificante, ma al tempo stesso, scoprendo il meccanismo che rende morfogenetico il dettaglio insignificante, rende evidente non tanto l’insignificanza del dettaglio, ma la violenza del meccanismo che presiede a tale origine. Come ci ha insegnato Stiegler, l’uomo è un essere essenzialmente en défaut: Abizadeh non fa che rendersi conto che le comunità, il demos e ogni altra forma di identità, sotto questo rispetto non sono diversi. Il fatto di essere en défaut implica l’esigenza di un supplemento d’origine, di un supplemento all’origine, di una traccia materiale, una ritenzione terziaria su cui fare perno per dare luogo ad un processo di costituzione dell’individuo, della soggettività, dell’identità. Tali tracce sono però a loro volta frutto dell’arbitrio. La modernità è quell’epoca in cui si dipanano un progetto di immanenza e un sogno di compiuta autonomia al fondo del quale si scopre, con un fremito lungo la schiena, la radicale e irriducibile presenza della trascendenza, nella forma dell’arbitrio. Il post-moderno è l’epoca segnata dal rifiuto di ogni violenza e di ogni arbitrio e al tempo stesso dalla consapevolezza inesorabile che solo la violenza contiene la violenza, che solo l’arbitrio contiene l’arbitrio. L’ispirazione girardiana di questo lavoro, nel confronto con la prospettiva di Derrida, ci fa propendere per la tesi vattimiana per cui tale problema non è un paradosso democratico, ma un frutto avvelenato del cristianesimo che informa di sé il post-moderno. Questa strategia espositiva non può esimerci dal fare i conti con le differenze tra la prospettiva di Vattimo e in generale le ragioni del post-moderno da una parte e le prese di posizione risolutamente anti-postmoderniste di Girard. 58 59

J.-P. DUPUY, La marque du sacré, cit., p. 23. Si ritrova con ogni evidenza in questo esercizio logico oltre che retorico una certa analogia con le riflessioni sul tema dell’impossibilità del dono in J. DERRIDA, Donner le temps, Galilée, Paris 1991, trad. it. di G. Berto, Donare il tempo. La moneta falsa, Raffaello Cortina, Milano 1996, pp. 14-20 et passim.

Per un’ontologia dell’attualità

213

7.4. Anamnesi e sintomatologie Altrove60 si era cercato di fornire una breve panoramica di alcune rilevanti diagnosi della post-modernità selezionate sulla base delle categorie utilizzate per dare ragione dei fenomeni in corso. Filosofi e sociologi come Roberto Esposito, Peter Sloterdijk, Richard Sennett, Marc Augé, Hartmut Rosa sviluppano analisi fondate su nozioni che hanno ricoperto un ruolo centrale nella nostra ricerca. Le riflessioni di Esposito61 e Sloterdijk62 fanno perno sulla nozione di contagio e sulla costellazione semantica di riferimento in cui rientra il concetto di immunità. Richard Sennett descrive come corrosive le conseguenze distopiche della soddisfazione delle pretese di flessibilità e di libertà dei padri che hanno trasformato l’esperienza di vita dei figli ai tempi del «nuovo capitalismo» in una sequenza irrelata di episodi e frammenti che si susseguono a velocità crescente63. Marc Augé64 e di Hartmut Rosa65

60 61

62 63

64 65

E. ANTONELLI, “Lo spazio sociale come spazio del contagio”, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», anno 12, 2010, disponibile all’indirizzo http:// mondodomani.org/dialegesthai/ea01.htm. Oltre al già citato Communitas, Esposito ha poi pubblicato il secondo volume della sua trilogia biopolitica, dal titolo R. ESPOSITO, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002, secondo il quale la modernizzazione, come processo di immunizzazione, finisce per realizzarsi in una sorta di catastrofe immunitaria. Centrale nello sviluppo della trilogia Sphären è la nozione di immunizzazione, cfr. per esempio P. SLOTERDIJK, L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Carocci, Roma 2002, pp. 169-175. R. SENNETT, The Corrosion of Character. The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, Norton&Co., London/New York 1999, trad. it. di M. Tavosanis, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999. In questo volume si pone l’attenzione sul ruolo essenziale di ciò che abbiamo imparato a conoscere come transindividuale nel processo di individuazione psichica e collettiva: Sennett rileva come l’incapacità, seguita al desiderio di libertà, di sottomettersi a relazioni con l’altro che possano essere percepite come alienanti finisca per frantumare la continuità dell’esperienza di ciascun soggetto, sempre più in difficoltà a trovare punti di riferimento costanti sui quali articolare «un’autonarrazione di identità e una storia della propria vita», ivi, p. 24. M. AUGÉ, Où est passé l’avenir?, Seuil, Paris 2008, trad. it. di G. Magomarsino, Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, Eleuthera, Milano 2009. H. ROSA, Alienation and Acceleration, cit. Cfr. anche H. ROSA, Beschleunigung. Die Veränderung der Zeitstrukturen in der Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2005.

214

La mimesi e la traccia

ritrovano il tratto caratteristico rispettivamente della surmodernità e della modernità tardiva nell’esperienza dell’accelerazione66. Un aspetto rilevante di queste anamnesi è quello di concentrarsi su nozioni caratterizzate da un tratto comune, ovvero essenzialmente, il senso di spossessamento o di aggressione, di cui si potrebbe trovare espressione antonomastica nella fenomenologia del vischioso elaborata da Jean-Paul Sartre67. Il vischioso è la condizione in cui l’oggetto sopraffà la coscienza e la ingloba, ovvero essenzialmente una condizione di privazione dell’integrità e dell’indennità dell’autos: così il contagio, in cui l’altro aggredisce e sfalda i propri confini, la frammentazione dell’esperienza, in cui i contorni temporali della coscienza paiono sfrangiarsi, e ovviamente l’accelerazione, in cui il tempo si trasforma in un destino ineluttabile. Il tratto più interessante di questa sintomatologia è però quello di raccogliere in prima istanza esperienze. Se noi provassimo a reinterpretare ciò che resta delle filosofie postmoderne come la descrizione di un vissuto e non solo come una pretesa gnoseologica potremmo riconoscere nello smarrimento di ogni referenzialità uno dei tratti caratteristici di un’esperienza di cui ci stiamo occupando sin dall’inizio di questa ricerca. Il contagio mimetico, la frantumazione dell’identità nei mille frammenti di uno specchio rotto, l’accelerazione del tempo – che andrebbe interpretata non come aumento positivo di velocità, 66

67

In “Girard and Postmodernity. Ontology of a panic-stricken age”, presentato al convegno Politics, Violence and the Sacred: Exploring René Girard’s thought in Security and International Studies, presso la University of Central Lancashire, Preston, UK, il 23.05.2013 (di prossima pubblicazione in un volume a cura di Antonio CERELLA), analizziamo più estesamente le caratteristiche critiche della temporalità post-moderna nei termini dell’accelerazione a partire da un passo di Jean Giraudoux, tratto da La guerre de Troie n’aura pas lieu, nel quale Cassandra propone questa definizione sorprendente: «Le destin, […] c’est simplement la forme accélérée du temps», J. GIRAUDOUX, La guerre de Troie n’aura pas lieu [1935], Paris, 1991, p. 56; M. R. ANSPACH, Pourquoi la guerre de Troie aura-t-elle lieu?, cit., p. 3, corsivo nostro. J.-P. SARTRE, L’Être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris 1943, trad. it. di G. Del Bo, L’ essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 689: il vischioso dà, in prima istanza, «l’impressione di un essere che si può possedere», è un’impressione invitante, amichevole, di un essere che si presta al progetto; diversamente dall’acqua, «incomprimibile» e inesorabilmente distante, fredda, il vischioso pare disporsi all’uso, «il vischioso è docile», ma, dice Sartre: «solamente, nel momento stesso in cui credo di possederlo, ecco che per un curioso rovesciamento, è lui che mi possiede, […] è il per-sé che assorbe l’in-sé. […] Il vischioso è la rivincita dell’insé», ivi, p. 690.

Per un’ontologia dell’attualità

215

ma come inceppamento dei dispositivi differenziali di differimento68 (rallentamento), e al tempo stesso come esito della disindividuazione, ovvero del corto-circuito temporale delle singole coscienze –, forse anche l’ostinata apparizione di mostri e nemici interni, ma soprattutto lo smarrimento di ogni punto di riferimento sono i tratti essenziali dell’esperienza di una crisi di indifferenziazione. Se allora provassimo a considerare gli aspetti più parossistici delle filosofie postmoderne come tentativi analitici di dare un senso teorico, pratico e financo politico all’agire di un soggetto interdividuale gettato in una crisi di indifferenziazione potremmo trovare proprio nella teoria mimetica argomenti sufficienti per superare le apparenti divergenze tra René Girard e autori come Gianni Vattimo, ma soprattutto Jacques Derrida. Il rapporto della teoria mimetica con ermeneutica e decostruzione non è certo riconducibile al conflitto, tant’è che è del tutto legittimo parlare di un’ermeneutica e di una decostruzione girardiane; questo non toglie che ci sia un profondo disaccordo fondato su due argomenti. Contro il pensiero debole, Girard ritiene di avere ragioni sufficienti per affermare una verità «assoluta, intransigente e perentoria»69; contro la decostruzione e in generale molto pensiero (post-)strutturalista, è invece convinto di poter ripristinare una sana fiducia nella referenzialità dei testi70. Uno degli aspetti forse più discutibili della teoria mimetica è quello di porsi da un punto di osservazione esterno alla storia analizzata; pur considerandosi erede di una lunghissima tradizione e avendo dedicato molte energie a svelare il coinvolgimento di ciascuno nei fenomeni mimetici, Girard tende infatti a volgere il suo sguardo al passato o al futuro ma difficilmente si cala nel presente. Quando Vattimo rifiuta le ragioni della verità e dei fatti a favore delle potenzialità emancipatorie dell’interpretazione, quando insomma attualizza, cioè rende attuale ma anche in atto, in pratica, il principio nieztschiano, non si sta preoccupando di negare la possibilità di accertare fatti passati o di condividere verità fattuali, ma sta cercando di evitare che, nel marasma della crisi di indifferenziazione mimetica che è il presente, un’accusa, ovvero un’interpretazione, venga fatta passare come fatto. Come ricordavamo analizzando per esempio l’accusa infamante che 68 69 70

A proposito della relazione tra différance e accelerazione, si veda anche C. BANDERA, “Notes on Derrida, Tombstones, and the Representational Game”, in «Stanford French Review» 6, 2-3, 1982, pp. 311-325, p. 322. Cfr. R. GIRARD, Je vois Satan tomber comme l’eclair, Grasset & Fasquelle, Paris 1999, trad. it. a cura di G. Fornari, Vedo Satana cadere come la folgore, Adelphi, Milano 2001, p. 192; W. PALAVER, René Girard’s Mimetic Theory, cit., p. 270. Cfr. R. GIRARD, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit., p. 82.

216

La mimesi e la traccia

ha macchiato per più di venticinque secoli il nome di Edipo e per ventisette il nome di Remo, Girard riconosce l’efficacia dell’accusa mitica proprio nell’essere presentata come un fatto incontestabile. La diffidenza di Vattimo nei confronti della verità andrebbe dunque interpretata innanzitutto come contestazione di una versione dei fatti che si vuole proporre come assoluta; è un principio di precauzione, da far valere contro l’accusa, non contro la difesa. In seconda istanza, la verità incondizionata che Girard ritiene di poter enunciare è in realtà una negazione determinata: dichiarare l’innocenza della vittima significa contraddire la versione dei persecutori, è dunque la correzione o falsificazione di un’accusa infondata, una verità secondaria. La verità di cui il postmoderno ha iniziato a dubitare è invece quella della risposta alla domanda fondamentale dei persecutori, di cui in questa ricerca abbiamo valutato diverse formulazioni: «Chi ha cominciato? Dov’è l’origine? Qual è la causa? Di chi è la colpa?» Davanti a questo tipo di problema diventa rilevante la posizione anti-referenzialista di Derrida riassunta nel già citato e famoso passo «nulla esiste fuori dal testo». Se proviamo a fare lo sforzo di immedesimazione necessario a collocarci in una crisi di indifferenziazione, o se provassimo a renderci conto di esserci attualmente dentro, troveremmo proprio nelle categorie fondamentali della teoria mimetica la prova della bontà della tesi derridiana. Girard si concentra in genere su testi che si presentano come resoconti di fatti passati: il mito di Edipo, per esempio, viene interpretato nei diversi passi ad esso dedicati come la narrazione degli eventi che hanno portato all’espulsione dello sfortunato eroe. La fiducia referenzialista permette a Girard di ottenere un risultato che non abbiamo timore di definire straordinario, ovvero, in buona sostanza, di ricelebrare il processo sommario condotto dai tebani: facendo le veci della vittima ormai scomparsa, la decostruzione mimetica guida un ricorso in corte d’appello per smentire il giudizio emesso dai persecutori. Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile se Girard non fosse stato mosso da un’intima preoccupazione per le vittime ma soprattutto da una fiducia nella referenzialità dei testi, garantitagli dalla prospettiva assunta, esterna ai fatti narrati, a cose fatte. Tuttavia, per descrivere da una prospettiva interna la condizione dei doppi mimetici Girard cambia registro e assume una retorica che ha tutti i tratti anti-referenzialisti, o piuttosto auto-referenzialisti. Quando si trova a sostenere che nulla esista fuori dal testo, Derrida sta formulando una tesi sulla condizione di smarrimento in cui ci getta l’autoreferenzialità della mimesi: il libero gioco dei rimandi descrive con assoluta precisio-

Per un’ontologia dell’attualità

217

ne la condizione di rispecchiamento reciproco in cui si trovano gettati gli interdividui, quando «l’oggetto scompare». Negare che la testualità abbia un ancoraggio extra-testuale potrebbe sembrare assurdo solo fintanto che non si provi a entrare nelle spire della mimesi. Come abbiamo già accennato in precedenza, interpretando in tutta la sua estensione la nozione di testo, ovvero ritrovando celata in esso la nozione di traccia, ci possiamo rendere conto che le oscure pretese di Derrida in merito al problema dell’origine sono perfettamente coerenti con la teoria mimetica. All’origine della testualità di riferimento per una comunità in preda a una crisi di indifferenziazione non si pone la referenzialità, ma la traccia di un passato che non è mai stato presente. Girard individua nel cadavere della vittima il significante trascendentale, ma Derrida non si accontenta di quel fondamento perché dietro di esso scopre, esattamente come fa Girard, l’insensato gioco dell’autoreferenza e non la presenza di un’origine esterna ai rimandi mimetici: la vittima non è scelta sulla base di riferimenti alla realtà, ovvero sulla base di una tesi che vanti una qualsivoglia adequatio rei et intellectus, ma sulla base di un fenomeno autoreferenziale. All’interno di una determinata crisi di indifferenziazione, cioè calati nella presenza, la testualità di riferimento trova il proprio fondamento nell’autoreferenzialità della mimesi celata dalla traccia: è in questo senso che è legittimo negare che ci sia un’origine del testo al di fuori del testo; il cadavere della vittima è già un testo, è già un’interpretazione (falsa), formulata nel disperato tentativo di capire di chi sia la colpa. Infine, l’ultimo argomento a favore della convergenza tra la teoria mimetica e certe filosofie postmoderne può essere riscontrato nell’analisi delle condizioni di possibilità di ogni verità e nelle pericolose relazioni che esse intessono con il meccanismo vittimario. Per quanto realisti, referenzialisti e anti-postmodernisti si voglia essere, è impossibile negare che la verità dipende da certe condizioni pragmatiche. In prima istanza, la condizione di possibilità della verità, riconosciuta anche nel mondo della scienza a cui Girard ritiene di poter ascrivere la proprie ipotesi, è l’accordo dei pari. Perché un’interpretazione possa dirsi vera, e comunque solo fino a prova contraria, essa deve raccogliere un consenso. Se tale accordo può essere persino facilmente ottenuto in merito a fatti passati o lontani, che non coinvolgano direttamente l’interlocutore – è per esempio il caso del nostro accordo in merito alla decostruzione girardiana del mito di Edipo e in generale delle accuse vittimarie – tutt’altra questione è ottenere un accordo veritativo nella situazione. Inoltre, tale condizione pragmatica di possibilità reagisce in modo pericoloso con i fondamenti del-

218

La mimesi e la traccia

la teoria mimetica: il capro espiatorio e in genere il punto fisso endogeno sono in modo eminente ciò che mette d’accordo71, ma non sono la verità. In seconda istanza, la verità, per poter essere tale, deve essere formulata, sulla base di un’interpretazione, ed espressa da parte di un individuo determinato, gettato in un presente specifico e non spacciata come frutto di un’analisi sub specie aeternitatis. Considerare le filosofie postmoderne in questione come interpretazioni di un soggetto calato in una crisi di indifferenziazione permette di legittimarne le tesi più impegnative72. D’altro canto, Girard ha delle pretese ancora più significative. La negazione determinata che cerca di affermare come verità incondizionata non è la principale ambizione scientifica della teoria mimetica; essa non si limita infatti a sostenere la verità della vittima, ovvero a contraddire e falsificare la tesi dei 71

72

Questo punto mette in evidenza un problema molto complesso: avevamo individuato nel corpo della vittima il significante trascendentale, ovvero la traccia il cui differimento creerà le condizioni di possibilità di un’interazione non alienata. In altri termini, il differimento dell’accordo macchinico genera il trascendentale, la condizione di possibilità di ogni accordo seguente, anche di quello veritativo. Nella tradizione kantiana la nozione di trascendentale si riferisce al problema della conoscenza, cioè opinione vera, di un qualche stato del mondo; le forme a priori dell’intelletto non sono però sufficienti, a meno di non postulare una convenzione comune trascendente, una pretesa implicita di accordo dei pari, quale è la ragione kantiana. Si può sostituire tale prerequisito impegnativo con un accordo per così dire di massima, all’interno del quale ci si muove inconsapevolmente. Esso è generato dal differimento di un punto fisso endogeno: la vittima rappresenta il caso archetipico ma, come abbiamo cercato di mostrare, non necessariamente l’unico; il re o il vincolo monetario esterno vanno altrettanto bene. Le procedure dell’accordo, condizione almeno pragmatica di possibilità della verità, rappresentano una nuova mise-en-abime: il mettersi d’accordo esplicitamente è possibilità, sempre minacciata dal rischio di ricadere nella convergenza mimetica, offerta dal fatto di condividere il riferimento agli esiti di un accordo precedente, dentro il quale si abita. Il post-moderno si trova ad affrontare la sfida non ancora risolta di creare le condizioni di un accordo che non riposi su episodi vittimari, ovvero e soprattutto automatici, eteronomici: non sorprendentemente, la via indicata da Girard, Vattimo e altri è la caritas cristiana. In merito alle condizioni interdividuali dell’accordo si veda P. DUMOUCHEL, Emotions. Essai sur le corps et le social, Les Empêcheurs de penser en rond, Paris 1995, trad. it. Emozioni. Saggio sul corpo e sul sociale, Medusa, Milano 2008, in particolare il cap. V. La razionalità situata. Ci permettiamo di rimandare anche a E. ANTONELLI, “Dalla bilancia alla spirale. La contaminazione del trascendentale e la rivoluzione della complessità”, in A. Bruzzone, P. Vignola, Margini della filosofia contemporanea, Orthotes, Napoli-Salerno 2013, pp. 83-96. Per evitare ogni equivoco, è bene ricordare che non solo non siamo cretesi, ma a ben vedere non stiamo neanche facendo una filosofia postmoderna, quanto piuttosto una filosofia del post-moderno.

Per un’ontologia dell’attualità

219

persecutori, ma contesta anche la formulazione della stessa domanda originale. In questo senso condivide a suo modo la lezione fondamentale delle filosofie che pure avversa, perché si è reso conto che non ha senso cercare un’origine determinata, ovvero non ha senso cercare una causa specifica, né un colpevole. Una volta riformulata la domanda, Girard fornisce una risposta, descrivendo a livello metareferenziale un’origine logica. Per farlo però, proprio mentre gli altri provano a fare i conti con la condizione di panico generata dall’assenza di riferimenti in cui ci ha gettati la crisi di indifferenziazione che stiamo animando e che lui stesso ha diagnosticato, assume quella posizione en surplomb da cui guarda all’origine dei miti anche per guardare al nostro (e suo) tempo, confidando in una verità che giudica d’origine divina. Non potendo accettare di ricorrere ad una prospettiva così impegnativa, che Girard paga con una pericolosa rassegnazione alla sterilità politica, il nostro contributo a un’ontologia dell’attualità si deve chiudere aporeticamente con una serie di domande. 7.5. Proletarizzazione e catastrofe: in guisa di conclusione Bernard Stiegler formula una critica simile a quella che altrove73 abbiamo indirizzato al pensiero della soggettività non conciliata di Vattimo, andando a sottolineare i rischi esistenziali connessi al fallimento sempre più diffuso dei processi di individuazione: le nozioni messe in campo a tale proposito variano da frustrazione74 a disaffezione75, da disorienta-

73

74 75

E. ANTONELLI, “Nichilismo emancipativo. Pensiero debole, pensiero dei forti”, in «Trópos. Rivista di ermeneutica e critica filosofica», III, 1, 2010, pp. 153-166; vi proponiamo una discussione delle condizioni di possibilità della soggettività debole auspicata da Vattimo. Per usare un’immagine presa dalla storia dell’architettura, ci si chiede come si possa passare dall’edilizia fondata sulla tecnica dell’architrave, a quella fondata sull’arco – ovvero sulla chiave di volta – alle più moderne tensostrutture senza preoccuparsi di individuare i componenti di tali edifici. Può una società fondata su un’ontologia debole, emancipativa, a rete, sopravvivere, scaricando tutto il peso del problema dell’ordine sui nodi, sugli individui che si volevano emancipati? Chi avrà la forza per assumersi un tale fardello? E soprattutto, come verranno costituiti i nodi? In altre parole, chi è il soggetto, chi è l’individuo che si emancipa nel nichilismo cristiano, ermeneutico, post-moderno? B. STIEGLER, Philosopher par accident, cit., p. 102. B. STIEGLER, Mécréance et Discrédit. Tome II: Les sociétés incontrôlables d’individus désaffectés, Galilée, Paris 2006.

220

La mimesi e la traccia

mento76 a malessere77. Il punto comune a queste riflessioni è il tema della disposizione delle ritenzioni terziarie. A tal proposito si può rintracciare nel percorso di Vattimo una sorta di svolta epocale nella quale l’essenziale ostilità alle tecnologie manifestata dai maestri novecenteschi della questione della tecnica, da Adorno a Heidegger, è stata rovesciata sulla base di una promessa emancipatoria78. Già intuito ai tempi della pubblicazione del volume Il pensiero debole e poi articolato ne La società trasparente, il tema della società di massa nell’epoca del dominio dell’immagine così caro ai grandi teorici critici, diventa una sorta di cavallo di battaglia con cui Vattimo si oppone alla koiné pessimista, o apocalittica: se invece di creare un vuoto fantasma il mondo dei media avesse finalmente aperto la possibilità di realizzare il sogno liberale e illuminista di un pluralismo decentrato, ove tutte le individualità avrebbero potuto essere contemplate e riconosciute nella loro particolarità? Le molte televisioni avrebbero reso evidente che il mondo della verità unica era ormai tramontato. La tesi della pluralità di televisioni corrisponde alla chance intravvista da Stiegler nella diffusione crescente di dispositivi di produzione e ricezione di contenuti i quali, a differenza delle televisioni a cui pensava Vattimo, permettono almeno in linea teorica, di ristabilire la partecipazione al processo di individuazione collettiva, ovvero alla transindividuazione del milieu tecnico che le televisioni (media essenzialmente autoritari) impedivano. Né pessimista né ottimista, né apocalittico né integrato, Stiegler ha recuperato alla riflessione filosofica un atteggiamento di critica farmacologica, ma non ha ancora fatto i conti con un problema forse fondamentale. A Vattimo ci era sembrato necessario chiedere chi fosse il soggetto moderato e non conciliato che avrebbe potuto godere delle chances emancipative del post-moderno senza rimanere disindividuato e invischiato nelle logiche e nelle topologie emozionali del risentimento79; a Girard abbiamo dovuto chiedere da quale punto fisso possa effettivamente guardare al nostro tempo. A Stiegler dobbiamo porre una domanda analoga: chi potrà, nella post-modernità, occuparsi della Bildung farmacologica che invoca? Se l’essenza dell’umano è il défaut originario, chi può accettare o permettersi 76 77 78 79

B. STIEGLER, La technique et le temps. Tome II: La désorientation, cit. B. STIEGLER, La technique et le temps. Tome III: Le temps du cinéma et la question du mal-être, cit. Cfr. G. VATTIMO, Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, Garzanti, Milano 2003, pp. 25-29. Cfr. E. ANTONELLI, “Nichilismo emancipativo”, cit.; P. DUMOUCHEL, Emozioni, cit.

Per un’ontologia dell’attualità

221

di costituire l’umano nella relazione trasduttiva con l’arbitrio inerente alla ritenzione? Chi può somministrare a sé e agli altri dosi di arbitrio nella compiuta contezza del fatto che proprio tali scintille di arbitrio forniranno il supporto e il supplemento alla propria e altrui individuazione? L’unica cosa che possiamo fare è valutare con attenzione quali possano essere le conseguenze che si verificherebbero qualora questi problemi non trovassero soluzione: fornire una diagnosi filosofica della contemporaneità, un contributo ad un’ontologia dell’attualità80. Ricordavamo in precedenza che il luogo in cui si può trovare la complementarietà tra le riflessioni di Stiegler e Dupuy è la Psicologia delle folle e analisi dell’Io di Sigmund Freud. Nello studio di questo saggio abbiamo potuto vedere all’opera la dinamica di quella che Dupuy ha battezzato logica del punto fisso endogeno. Il fondamento di tale intuizione si trova nell’opera di quell’ispiratore socratico degli spiriti liberi che fondarono la 80

Vale la pena spendere due parole su questo concetto foucaultiano. Tale prospettiva si propone di indagare le condizioni contingenti e mutevoli dell’esperienza, si tratta dunque di «un’indagine storica attraverso gli eventi che ci hanno condotto a costituirci e a riconoscerci come soggetti di ciò che facciamo, pensiamo e diciamo» (M. FOUCAULT, Che cos’è l’illuminismo?, cit., p. 228; cit. in G. CHIURAZZI, “Ontologia dell’inattualità”, cit.), volta all’analisi della condizione di possibilità del mondo attuale. L’insistenza sulla questione procedurale in Dupuy ci ha permesso di renderci conto che la performatività del cristianesimo – o dello svelamento dell’arbitrarietà di ogni struttura solida del reale, di ogni ontologia sociale – è un percorso storico, una storia degli effetti della diffusione cognitiva e pratica di un particolare modello, di un particolare mediatore il cui effetto principale è l’indebolimento. In questo senso, nell’insistere sulla dimensione effettuale, wirklich, ci sembra di aver evitato il rischio di cadere in quella che Gaetano Chiurazzi, sulla scia di Vincents Descombes, chiamava philosophy of current events – la degenerazione dell’ontologia dell’attualità e di ogni filosofia che ecceda nel percorrere quella china che secondo lo stesso Vattimo tende ad avvicinare la filosofia della postmodernità alla sociologia. La storia che abbiamo cercato di articolare non si snoda in una sequenza di pure fattualità. Con Heidegger, Chiurazzi distingue «ciò che è wirklich da ciò che è aktuell: il primo è l’effettuale, ciò che ha una Wirkung, anche se solo implicita; il secondo è l’attuale nel senso di ciò che è in atto, e quindi presente, già realizzato» (Ibidem). Abbiamo salvato l’espressione ontologia dell’attualità per mantenere la relazione con la testualità foucaultiana e vattimiana, ma tenendo in considerazione la distinzione di Chiurazzi – che vorrebbe preferire l’espressione ontologia dell’inattualità –, ovvero andando a ricercare le condizioni di possibilità del mondo attuale in ciò che è wirklich, in ciò che ha effetto e che quindi non è solo attuale. Il nostro sforzo, volto a descrivere «una realtà che comprenda in sé anche l’inattuale, il passato e il futuro» (Ibidem) non può prescindere dal valutare quali possano essere gli effetti venefici della trama che abbiamo sin qui individuato.

222

La mimesi e la traccia

cibernetica che fu Heinz von Foerster, a partire dal quale potremmo ora chiudere il nostro lungo argomento. Il concetto cruciale di cui ci serviremo, prima di introdurre la cosiddetta congettura di von Foerster81, scaturigine delle riflessioni di Dupuy, è la nozione di macchina banale. Una macchina banale è caratterizzata da una relazione uno a uno tra il suo input (stimolo, causa) e il suo output (risposta, effetto). Questa relazione invariabile costituisce “la macchina”. Se tale relazione è determinata una volta per tutta, si ha a che fare con un sistema deterministico; siccome l’output osservato una volta per un certo input rimarrà sempre uguale, si tratta anche di un sistema prevedibile, banale. Le macchine non banali, invece, sono creature del tutto diverse: la relazione input-output non è invariante ma viene determinata dall’output che la macchina ha precedentemente fornito. In altre parole, la relazione attuale è determinata dai passi precedenti, è path-dependent. Osservando che la società dell’organizzazione totale generava apatia, sfiducia, violenza, distacco, impotenza e alienazione, von Foerster notava, anticipando Stiegler, che tali sintomi erano il frutto della crisi partecipativa imposta dai mass-media che funzionano in un senso solo: «essi parlano ma nessuno può loro rispondere»82. Il tratto più interessante delle riflessioni di von Foerster emerge però in riferimento al problema dell’educazione alla complessità e in generale della Bildung. Von Foerster notava che nelle scienze tutti i nostri sforzi sono indirizzati verso un unico scopo, quello di creare macchine banali o, se ci imbattiamo in macchine non-banali, di trasformarle in macchine banali. La scoperta dell’agricoltura è la scoperta del fatto che certi aspetti della natura possono essere banalizzati. […] Sebbene in un certo dominio la nostra pre-occupazione di banalizzare l’ambiente possa essere utile e costruttiva, in un altro essa diviene inutile e distruttrice. La banalizzazione diventa una panacea pericolosa quando l’uomo l’applica a se stesso.83

81

82 83

Per la prima formulazione pubblica dell’analisi: J.-P. DUPUY, J. ROBERT, La Trahison de l’opulence, P.U.F., Paris 1976, per una dimostrazione formale: J.-P. DUPUY, M. KOPEL, H. ATLAN, “Complexité et aliénation. Formalisation de la conjecture de v. Foerster”, in F. FOGELMAN-SOULIÉ (ed.), Les théories de la Complexité, Seuil, Paris 1991, pp. 410-421. H. VON FOERSTER, Observing Systems, Intersystems Publications, Seaside, CA 19842, trad. it. di B. Draghi, Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma 1987, p. 213. Ivi, p. 129.

Per un’ontologia dell’attualità

223

In buona sostanza la banalizzazione, altro nome per ciò che Stiegler chiama grammatizzazione o tecnicizzazione, è un pharmakon, una panacea che in certi casi è utile e costruttiva, in altri inutile e distruttrice, rimedio e veleno. Il caso che von Foerster prende in analisi per esemplificare la banalizzazione dell’uomo sull’uomo è il sistema educativo. Al momento in cui lo studente fa il suo ingresso nel sistema scolastico, egli è un’imprevedibile “macchina non-banale”. Non sappiamo quale risposta darà a una certa domanda. Se però alla fine ottiene i risultati che il sistema si aspetta da lui, le risposte che darà alle nostre domande dovranno essere note in anticipo. […] I test scolastici sono un mezzo per misurare il grado di banalizzazione.84

Von Foerster non considera il ruolo terapeutico che Stiegler ritrova alla base dell’istituzione scolastica in generale85, quindi le sue considerazioni andrebbero confinate agli effetti proletarizzanti e venefici di un’educazione condotta secondo uno spirito che in sintonia con le riflessioni di Stiegler potremmo definire sofistico. Una volta stabilita tale limitazione, possiamo comprendere il valore della congettura per la nostra riflessione. Se a livello individuale il processo di banalizzazione coincide con quella che Stiegler ha definito proletarizzazione, a livello collettivo ha un altro effetto, che von Foerster definisce «instabilità» e che spiega attraverso una banalizzazione di secondo livello: la banalizzazione delle relazioni interpersonali. Questo concetto, introdotto nel contesto della teoria degli automi, definisce il livello di rigidità delle connessioni tra gli elementi di un sistema. Una connessione tra due elementi è banale se lo stato dell’uno è perfettamente determinato dallo stato dell’altro, e reciprocamente. In teoria dell’informazione si parlerebbe di ridondanza: se si conosce lo stato di un elemento, la conoscenza dello stato dell’altro non apporta alcuna informazione supplementare. Ora, più gli elementi di un sistema sono banalmente accoppiati, maggiore è la possibilità che questo sistema sia instabile e, soprattutto, minore è la possibilità che l’agitazione che manifesta sia controllabile dai singoli elementi; questi infatti non fanno che reagire alle reazioni dei loro vicini. Essi sono incapaci di rendersi conto del fatto che i fenomeni collettivi e convulsi da cui vengono travolti sono prodotti dal loro stesso comportamento.

84 85

Ivi, pp. 129-130. B. STIEGLER, Prendre soin. De la jeunesse et des générations, cit.

224

La mimesi e la traccia

Von Foerster descrive come banalizzazione dell’individuo ciò che abbiamo imparato a comprendere più propriamente come fallimento del processo di individuazione psichica. Secondo l’antropologia fondamentale introdotta dalla teoria mimetica e indipendendemente confermata da Stiegler infatti, l’essere umano non è in prima istanza e per essenza non-banale, ovvero non viene pervertito da un sistema tecnico; esso può invece fallire il proprio percorso di individuazione nell’interazione con un ambiente tecnico che non gli conceda adeguate opportunità di interazione. Il risultato di questo fallimento tecnico è una più ampia disponibilità all’influsso del preindividuale mimetico, ovvero, una disponibilità al neo-gregarismo. Considerando che sia il neo-gregarismo prodotto dalla proletarizzazione sia il mimetismo non sono altro che nomi per descrivere connessioni di tipo banale tra macchine banali, possiamo allora in prima istanza riconoscere nei fenomeni di capro espiatorio individuati da René Girard all’origine delle culture e delle comunità umane il risultato di un automa collettivo richiusosi su un punto fisso endogeno che si pone, una volta costituito come traccia, memoria collettiva, monumento, come una sorta di Ur-retention86, di fondo preindivivuale già da sempre comune. L’aspetto decisivo di questa determinazione è quella che abbiamo imparato a conoscere come potenzialità morfogenetica dell’interazione di mimesi e traccia. L’automa collettivo animato ha generato una forma, una differenza, un limite, una ritenzione comune che potrà disporsi al ruolo di supplemento delle individuazioni collettive, cioè etniche, e poi individuali87. Cosa succede però quando, come abbiamo visto, la ritenzione comune frutto dell’effetto di sistema, non possa essere consolidata perché immediatamente squadernata come frutto illegittimo di una procedura condotta dall’arbitrio?

86

87

Ci pare che Benoît Chantre voglia ritrovare qualcosa del genere nel campanile di Combray per la definizione dello spazio sociale, delle mediazioni e delle ritenzioni comuni del mondo proustiano, in B. CHANTRE, “Le clocher de Combray: René Girard ou la dernière loi”, in René Girard. La théorie mimétique: de l’apprentissage à l’apocalypse, C. RAMOND (éd.), P.U.F., Paris 2010, pp. 147-202. Si potrebbero ricondurre a questa logica i cosiddetti pattern di dominanza grazie ai quali certi gruppi animali stabiliscono una forma gerarchica specifica di interazione. Rimando a P. DUMOUCHEL, Emozioni, cit., pp. 165-166 e in generale al capitolo VI, in cui il tema è affrontato in modo suggestivo: i pattern di dominanza rappresenterebbero il caso in cui l’accordo interdividuale presente, analizzato nei termini di un giudizio estetico kantiano, senza concetto, venga invece trattato come un giudizio categorico. I tratti caratteristici di queste forme sono le stesse del mito, a partire dalla pretesa di annullare la storicità delle differenze, di classe per esempio.

Per un’ontologia dell’attualità

225

Il teorema di von Foerster ha due corollari: in primo luogo, una connessione banale è instabile, ovvero cambia continuamente i punti fissi (endogeni) sui quali si chiude. In seconda istanza, più gli elementi di un sistema sono banalmente connessi, più banale e prevedibile il comportamento globale del sistema apparirà per un osservatore esterno, ma invece controintuitivo e incontrollabile per gli osservatori e attori interni al sistema: l’automa collettivo appare dotato di una completa autonomia rispetto agli individui che lo compongono. La soluzione elaborata da von Foerster al problema emerso dalla sua congettura, ovvero alla «dimostrata instabilità […] del sistema globale chiamato ‘umanità’» è quello di chiuderlo, in modo «da ottenere una popolazione stabile, un’economia stabile e risorse stabili»88. La proposta di Von Foerster pare problematica per due ragioni: in primo luogo poiché il problema individuato, ovvero la corruptio modi, la corrosione dei limiti, non è un fattore esogeno, ma, come abbiamo visto, il prodotto di un lungo percorso di indebolimento di cui il post-moderno è anche etimologicamente chiamato a rappresentare la caratteristica essenziale; in secondo luogo, in quanto chiama in causa il principio logico del sacro, ovvero la differenziazione ed è pertanto inapplicabile nel nostro sistema culturale. Chiudere il sistema come chiede von Foerster non è più possibile perché, nello stato avanzato di secolarizzazione in cui almeno l’Occidente versa, richiederebbe pratiche ormai vistosamente arbitrarie, discriminatorie e illegittime; le stesse istituzioni democratiche che potrebbero forse affrontare la questione ereditano dalla comune origine vittimaria il medesimo problema. La congettura di von Foerster ci aiuta comunque a capire un elemento fondamentale: la condizione specifica del post-moderno, la corrosione del modus, si manifesta in questo caso come abbassamento del punto fisso esogeno, ovvero come cancellazione della differenza. Nel caso degli automi collettivi a cui ci siamo dedicati, tale decostruzione ha un effetto molto particolare ma non sorprendente: la kén sis abbassa il fattore di mediazione, corrode ad ogni nuovo momento i limiti di autocontenimento e stabilizzazione prodotti dall’interazione banale, generando immediatezza, autoreferenzialità e quindi precarietà. In altri termini, nel momento in cui al leader si sostituisca la rappresentazione autoreferenziale della massa, ovvero una sequenza accelerata di nuove proiezioni e nuovi abbassamenti89, il fenomeno collettivo sperimenta un cambiamento di fase. 88 89

H.v. FOERSTER, Sistemi che osservano, cit., pp. 213-214. Il gergo che stiamo utilizzando ambisce ad una purezza che rischia di occultare le applicazioni o gli epifenomeni della logica in esame. Per dire altrimenti la stessa

226

La mimesi e la traccia

Proletarizzazione, disindividuazione e ritorno della mimesi, effetti della medesima causa, hanno così un esito determinato che caratterizza in modo specifico la condizione post-moderna. La congettura di von Foerster si presta, al termine del ragionamento condotto in questo lavoro, a descrivere il nostro tempo come un’epoca in preda al panico e incidentalmente a confermare la bontà e anzi la necessità della prospettiva assunta dalle filosofie postmoderne. La violenza, su cui si concentrano in genere gli autori che si ispirano a Girard, non è il fattore centrale; essa è un effetto collaterale degli sbandamenti improvvisi e dell’apparente autonomia della macchina che eteronomicamente animiamo nel caos dell’autoreferenzialità e che, se in effetti rischia sempre di produrre nuove vittime, potrebbe soprattutto condurci letteralmente ovunque, anche giù dalla rupe Tarpea. Il meccanismo vittimario è una modalità di gestione della violenza mediante la violenza, di contenimento dell’arbitrio mediante l’arbitrio e in quanto tale è un naturale sistema metastabile. La pretesa implicita ma inequivocabile nelle riflessioni fin qui affrontate è che il cristianesimo (almeno se accettiamo le tesi di Girard, ma anche di Vattimo o Marcel Gauchet) o semplicemente il sapere antidiscriminatorio che ne è nato, sia l’unica vera forma di opposizione alla natura che si sia data nella storia. Come è evidente, se i meccanismi descritti in questo lavoro funzionano secondo dinamiche metastabili, l’opposizione a tali sistemi non sfugge a tali logiche, trasformando però la forza della metastabilità nella debolezza di una responsabilità infinita.

cosa potremmo tornare a concentrarci sul tema della decisione e della legittimità della decisione, ritrovando ancora una volta riferimento nelle tesi di Walter Benjamin in merito all’essenza del dramma barocco tedesco: «Si tratta dell’incapacità decisionale del tiranno», il quale, non a caso, nel Barocco, è una delle due «modalità estreme, e necessarie, dell’essenza regale», l’altra essendo il martire (W. BENJAMIN, Il dramma barocco tedesco, cit., pp. 44-45). Se preferiamo comunque parlare di post-moderno e non di età neobarocca, pur condividendo la gran parte delle osservazioni di Omar Calabrese sulla prossimità della «forma interna specifica» (O. CALABRESE, L’età Neobarocca, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 17) di molti fenomeni del nostro tempo e di quelli del barocco, è perché crediamo che il Barocco sia stato superato storicamente ricorrendo, sia pur in modo originale, al principio e alla logica del sacro, ovvero ricreando un punto di riferimento esterno intangibile che altrove abbiamo identificato nella creazione passata quasi inosservata del gold standard (cfr. E. ANTONELLI, “Dalla bilancia alla spirale”, cit.). Superare il post-moderno, che è caratterizzato dalla perfetta consapevolezza che non esiste esterno, non sarà altrettanto facile.

Per un’ontologia dell’attualità

227

Da un lato, la critica di cui in queste pagine abbiamo abbozzato un paradigma di riferimento, dovrà occuparsi dell’ondata di proletarizzazioni e disindividuazioni prodotte dall’impossibilità di salvaguardare istituzioni che possano mettere in campo una pratica terapeutica farmacologica, ovvero mettere in piedi nuove istituzioni che sappiano gestire l’arbitrio senza fare uso dell’arbitrio medesimo, per prendersi cura della gioventù90 e far fronte all’«apatia, mancanza di fiducia, violenza, distacco, impotenza, alienazione» che straziano gli individui. Dall’altro, assumendo senza fraintendimenti ciò che resta delle filosofie postmoderne, dovrà rendere manifeste, per quanto sia possibile farlo rimanendo all’interno del sistema, le connessioni banali tra soggetti disindividuati. Superare il post-moderno significa trovare una via d’uscita dal panico senza ricorrere né abbandonarci alla violenza; significa assumerci la responsabilità delle conseguenze solo apparentemente inesorabili dell’autonoma collettivo91 che stiamo tutti insieme animando ed evitare così di ridurre la nostra libertà alla scelta tra compatire le vittime dell’arbitrio o le vittime dell’indifferenza.

90 91

Cfr. B. STIEGLER, Prendre soin. De la jeunesse et des générations, cit. Il fatto di rinnovare l’uso di categorie analitiche tratte dalle retoriche del religioso non deve, a nostro avviso, dare adito a tentativi, ormai piuttosto comuni, di revocare in dubbio il fenomeno generale della secolarizzazione (come, per esempio, in W. PALAVER, René Girard’s Mimetic Theory, cit., pp. 16-17). Quanto detto sin qui dovrebbe chiarire che il ritorno di fenomeni che hanno una logica formale analoga a quella del sacro, ovvero che mostrano la marque du sacré e che molti scambiano per un ritorno del religioso, sono semplicemente fenomeni di auto-organizzazione e auto-trascendenza del sociale che guadagnano spazio proprio dal processo di indebolimento che si suppone la secolarizzazione stia portando avanti.

Human history becomes more and more a race between education and catastrophe. Herbert G. Wells, Outline of History

231

RINGRAZIAMENTI

Questo saggio è il frutto della ricerca condotta nel corso del dottorato svolto all’Università di Roma “Tor Vergata”; Tonino Griffero, il mio tutor, Alessandro Ferrara, il direttore della scuola, Virginio Marzocchi e Pietro Montani, i membri della commissione davanti alla quale ho sostenuto per la prima volta pubblicamente le tesi qui formulate, hanno letto in parte o nella totalità il manoscritto: li ringrazio per avermi reso note opinioni, critiche e domande senza le quali questo lavoro sarebbe molto più imperfetto di quanto non sia oggi. In particolare ringrazio Roberto Salizzoni che, pur condividendo solo tangenzialmente i miei interessi, ha accompagnato con generosità d’animo e di consigli l’eccentrico percorso formativo che ha portato a questi risultati e Paolo Heritier, direttore della collana in cui appare il volume, per aver creduto nella bontà del mio lavoro e per avermi aiutato a migliorarlo. Durante questi anni ho avuto modo di trascorrere alcuni periodi di ricerca all’estero che hanno giovato in maniera non quantificabile alla mia riflessione: Jean-Pierre Dupuy, con il sostegno della Fondazione Imitatio, mi ha generosamente invitato a trascorrere, in qualità di Teaching Assistant, il trimestre di primavera 2011 presso la Stanford University dedicandomi il tempo necessario a discutere gli argomenti qui presentati, offrendomi la possibilità di assaporare la vita dei grandi college americani e presentandomi di persona uno dei miei modelli, René Girard. Bernard e Caroline Stiegler mi hanno ospitato in quel luogo dello spirito che è il Moulin di Épineuil-le-Fleuriel: li ringrazio per avermi offerto nutrimento per il corpo e per la mente. Paul Dumouchel e Benoît Chantre, ciascuno a suo modo, mi hanno introdotto nella rete internazionale degli girardiani, facendomi sentire sin da subito parte di quell’allegra compagnia. Mi preme ringraziare Luigi Mattirolo e Federico Bianchi per l’ospitalità, il sostegno morale e la genuina curiosità intellettuale con cui hanno reso infinitamente più gradevoli le mie trasferte romane. Infine, ringrazio Massimo Durante, Davide Gallo Lassere e Claudia Matteini con i quali ho discusso, per un tempo che alle volte potrà essere

232

La mimesi e la traccia

parso loro infinito, i temi che ho qui sviluppato e Francesca Dell’Orto, per avermi assistito con il suo impareggiabile talento teoretico. Sono grato ai miei genitori, Cristiano Antonelli e Anna Rissone, per avermi sostenuto in tutti i modi possibili nell’ostinato tentativo di realizzare i miei progetti.

233

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

AA. VV., Dictionnaire de la mythologie grecque et romaine, P.U.F., Paris 1979, trad. it. di P.A. Borgheggiani, a cura di C. CORDIÉ, Enciclopedia dei miti, Garzanti, Brescia 1987. AA. VV., Enciclopedia della filosofia, Garzanti, Milano 1993. ABIZADEH, A., “Democratic Theory and Border Coercion: No Right to Unilaterally Control Your Own Borders”, in «Political Theory» 36.1, 2008, pp. 37-65. ABIZADEH, A., “On the Demos and its Kin: Nationalisms and Democratic Legitimacy”, working paper discusso il 6.05.2011 al seminario di Josh Cohen “Global Justice Research Workshop” presso la Stanford University: http://papers.ssrn. com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1805088. AGAMBEN, G., Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995. AGOSTINO, Le confessioni, trad. it. di A. Masini, Salani, Firenze 1963. AHL, F.F., Sophocles’ Oedipus: Evidence and Self-Conviction, Cornell U.P., Ithaca 1991. ALTOUNIAN, J., L’écriture de Freud: Traversée traumatique et traduction, P.U.F., Paris 2003. ANSPACH, M.R., Pourquoi la guerre de Troie aura-t-elle lieu? Du mythe grec à Giraudoux, enquête sur un conflit mimétique, http://www.arm.asso.fr/offres/ file_inline_src/57/57_P_3235_1.pdf, 2006. ANSPACH, M.R., À charge de revanche. Figures élémentaires de la réciprocité, Seuil, Paris 2002, trad. it. di Chiara Fontanile, A buon rendere. La reciprocità nella vendetta, nel dono e nel mercato, Bollati Boringhieri, Torino 2007. ANSPACH, M.R. (ed.), René Girard, Cahiers de l’Herne, Paris 2008. ANTAYA, R., “The Etymology of Pomerium”, in «American Journal of Philology», 101, vol. 2, Summer, 1980, pp. 184-189. ANTONELLI, “Lo spazio sociale come spazio del contagio”, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», anno 12, 2010, http://mondodomani.org/dialegesthai/ ea01.htm. ANTONELLI, E., “Considerazioni mimetiche su Il perturbante (Das Unheimliche)”, in «Enthymema. Rivista internazionale di critica, teoria e filosofia della letteratura», n° 2, 2010, pp. 154-170. ANTONELLI, E., “De la pharmacologie. Entretien avec Bernard Stiegler”, in «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», n° 1, 2011, pp. 66-83.

234

La mimesi e la traccia

ANTONELLI, “Transparency and the logic of auto-immunity” in «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», 1, 2011, pp. 127-139. ANTONELLI, E., “Estraneità senza pharmaka. Riflessioni a partire da René Girard”, in «Trickster – Rivista del Master in Studi Interculturali», n° 10, 2011, http:// trickster.lettere.unipd.it/doku.php?id=violenza_straniero:antonelli_estraneita. ANTONELLI, E., La creatività degli eventi. René Girard e Jacques Derrida, L’Harmattan Italia, Torino 2011. ANTONELLI, E., “La nozione di Skandalon nell’opera di René Girard”, in E. ANTONELLI, M. ROTILI (eds.) Sensibilia 2012, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 37-50. ANTONELLI, E., “The Child of Fortune. Envy and the Constitution of the Social Space”, in «Contagion. Journal of Violence, Mimesis, and Culture», Vol. 20, No. 1, 2013, pp. 117–140. ANTONELLI, E., “Imitazione e riconoscimento. Fenomenologia mimetica della genesi dell’autocoscienza, in E. ANTONELLI (a cura di), «Trópos. Rivista di ermeneutica e critica filosofica», VI, 1, 2013, pp. 79-96. ANTONELLI, E., “Dalla bilancia alla spirale. La contaminazione del trascendentale e la rivoluzione della complessità”, in A. Bruzzone, P. Vignola (a cura di), Margini della filosofia contemporanea, Orthotes, Napoli-Salerno 2013, pp. 83-96. ANTONELLO, P., FORNARI, G., (a cura di), Identità e desiderio. La teoria mimetica e la letteratura italiana, Transeuropa, Massa 2009. APOSTOLIDÈS, J.-M., “L’or et le feu: une lecture du Dom Juan de Molière”, in Actes de New Orleans. Papers on French 17th Century Literature, F. Lawrence (ed.), Biblio 17, Paris, pp. 249-268, ripreso in P. Ronzeaud, Molière, Dom Juan, Klincksieck, Paris 1993. ARENDT, H., The Human Condition, University of Chicago, Chicago IL, 1958, trad. it. di Sergio Finzi, Vita Activa. La condizione umana, Bombiani, Milano 19882. ARISTOTELE, Politica, in Opere, vol IX, trad. it. di Renato Laurenti, Laterza, RomaBari 1986. ARTHUR, B.W., The Nature of Technology: What it Is and How it Evolves, The Free Press and Penguin Books, New York, NY 2009, trad. it. La Natura della tecnologia. Che cos’è e come evolve, Codice, Torino 2011. ARTHUR, C.J., Dialectics of Labour: Marx and His Relation to Hegel, Basil Blackwell, Oxford 1986. ATLAN, H., “Violence fondatrice et référent divin”, in P. DUMOUCHEL (ed.), Violence et vérité, Grasset, Paris 1985, pp. 434-449. AUGÉ, M., Où est passé l’avenir?, Seuil, Paris 2008, trad. it. di G. Magomarsino, Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, Eleuthera, Milano 2009. AUSTIN, J., How to Do Things with Words: The William James Lectures delivered at Harvard University in 1955, J.O. Urmson (ed.), Clarendon, Oxford 1962, trad. it. Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987. BANDERA, C., “Notes on Derrida, Tombstones, and the Representational Game”, in «Stanford French Review» 6, 2-3, 1982, pp. 311-325. BANDERA, C., “From Mythical Bees to Medieval Antisemitism”, in AA.VV, To Honor René Girard. Presented on the occasion of his sixtieth birthday by colleagues, students, friends, ANMA Libri, Stanford, CA 1986, pp. 29-50.

Riferimenti Bibliografici

235

BANDERA, C., The Sacred Game: The Role of the Sacred in the Genesis of Modern Literary Fiction, Penn State U.P., Philadelphia, PA 1994. BARTHÉLÉMY, J.-H., Penser l’individuation, L’Harmattan, Paris 2005. BARTHÉLÉMY, J.-H., De la finitude retentionnelle. Sur La Technique et le temps de Bernard Stiegler, in P.-E. SCHMIT, P.-A. CHARDEL (éds.) Phénoménologie(s) et techniques(s), Le Cercle Hermenéutique, Argenteuil 2008. BARTLETT, R., “Witch Hunting. A Review of Ecstasies: Deciphering the Witches’ Sabbath, by Carlo Ginzburg” in «New York Review of Books», June 13, 1991. BEARD, M., “Re-reading (Vestal) Viriginity”, in Women in Antiquity: New Assessments, R. HAWLEY, B. LEVICK (ed.), Routledge, New York-London 1995, pp. 166-177. BECK, U., Die Neuvermessung der Ungleichheit unter den Menschen: Soziologische Aufklärung im 21. Jahrhundert, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2008, trad. it. di C. Sandrelli, Disuguaglianza senza confini, Laterza, Roma-Bari 2012. BELLOTTI, F., “Imitazione: una parola scomoda per la psicanalisi,” in «Aperture», n. 11/12, Mimesi. Imitazione, finzione, menzogna, Anno 2002, pp. 75-79. BENJAMIN, W., Ursprung des deutschen Trauerspiels, Rowohlt, Berlin 1928, trad. it. di Flavio Cuniberto, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999. BENVENISTE, E., Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Minuit, Paris 1969. BENVENUTO, S., “Differenza, identità, violenza. Conversazione con René Girard”, in «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», 5, 2003, http://mondodomani. org/dialegesthai/sb02.htm. BERLIN, I., En toutes libertés: entretiens avec Ramin Jahanbegloo, Félin, Paris 1990, trad. it. di E. Antonelli, In libertà. Conversazioni con Ramin Jahanbegloo, Armando, Roma 2012. BERTO, G., Freud, Heidegger. Lo spaesamento, Bompiani, Milano 1999. BORDIGA, A., “Su Il caso e la necessità. Come il signor Monod distruggerebbe la dialettica”, in «Programme Communiste», n. 58, 1973. BOUCHET, D., “The ambiguity of the modern conception of autonomy and the paradox of culture”, in «Thesis Eleven», n°88, 2007, pp. 31-54, p. 31. BOURDIEU, P., Esquisse d’une théorie de la pratique, Droz, Ginevra 1972, trad. it., Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila, Raffaello Cortina, Milano 2003. BURN, R., Rome and the Campagna, Londra 1876. CARNEVALI, B., Romanticismo e riconoscimento. Figure della coscienza in Rousseau, Il Mulino, Bologna 2004. CASETTA, E., VARZI, A. (eds.), «Rivista di Estetica», 41, 2009. CASINI, F., ANTONELLO, P., “The Reception of René Girard’s Thought in Italy: 1965-Present”, in «Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture», n. 17, 2012, pp. 139-174. CESERANI, R., “Intervista a J. LANDY”, in «Il Manifesto», 22 Maggio 2011. CHANTRE, B., ”Le clocher de Combray: René Girard ou la dernière loi”, in René Girard, la théorie mimétique. De l’apprentissage à l’apocalypse, C. RAMOND (éd.), P.U.F., Paris 2010, pp. 147-202.

236

La mimesi e la traccia

CHAVALARIAS, D., “Désir mimétique et imitation rationnelle. Vers un individualisme méthodologique complexe”, in DUPUY, J.-P., Dans l’œil du cyclone. Colloque de Cerisy, Carnets Nord, Paris 2008, pp. 247-264. CHIERENGHIN, F., Rileggere la Scienza della logica di Hegel, Carocci, Roma 2011. CHIURAZZI, G., “Mimesi ed emancipazione,” in «aut aut», 347, 2010, pp. 193-205. CHIURAZZI, G., “Ontologia dell’inattualità”, in «Kainos», n. 10, 2010, http://www. kainos-portale.com/index.php/lultimo-numero-di-kainos/47-ricerche10/96-ontologia-dellinattualita. CICERONE, De divinatione. CICERONE, De natura deorum. CODACCI-PISANELLI, A., “Il Girard pensiero/Guida d’autore. Un capro espiatorio ci salverà. Colloquio con Gianni Vattimo,” in «L’Espresso», 5 febbraio 1998, pp. 97–98. COSTA, V. Husserl, Carocci, Milano 2009. CURI, U., Straniero, Cortina, Milano 2010. CYRULNIK, B., “Entretiens” in «Philosophie Magazine», Hors-série, novembre 2011. D’ABBIERO, M., «Alienzazione» in Hegel. Usi e significati di Entäusserung, Entfremdung, Veräusserung, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1970. DARAKI, M., Dyonisos, Arthaud, Paris 1985. DE LUNA, M., La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli, Milano 2011. DEHAENE, S., Les neurones de la lecture, Odile Jacob, Paris 2007. DELCOURT, M., Légendes et cultes de héros en Grèce, P.U.F., Paris 1942. DELCOURT, M., Œdipe ou la légende du conquérant, avec C. Stein, Éd. Fac.Phil. Lett., Liège, 1944, nuova edizione presso Éd. Gallimard, Paris, 1981. DELL’ORTO, F., “Quando comincia l’uomo. La genesi del tempo come genesi del desiderio”, in A.A. V.V., Essere del tempo e metafora dell’umano, L’Harmattan Italia, Torino 2010. DERRIDA, J., “«Genèse et structure» et la phénomènologie” (1959), in Gandillac, L. Glomann, J. Piaget (eds.), Genèse et structure, Mouton, Paris 1964, trad. it. di G. Pozzi, DERRIDA, J., “«Genesi e struttura» e la fenomenologia», in Id., La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 19713, pp. 199-218. DERRIDA, J., Introduction à ‘L’origine de la géometrie’ de Husserl, P.U.F., Paris 1962, trad. it. a cura di Carmine Di Martino, Introduzione a Husserl. L’origine della geometria, Jaca Book, Milano 1987. DERRIDA, J., “La structure, le signe et le jeu dans le discours des sciences humaines”, in Id., L’écriture et la différence, Seuil, Paris 1967, trad. it. a cura di G. Pozzi, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971. DERRIDA, J., De la grammatologie, Ed. de Minuit, Paris 1967, trad. it. a cura di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dal masso, A. C. Loaldi, Della grammatologia, Jaca Book, Milano 1969. DERRIDA, J., La différance, in Id., Marges – de la philosophie, Minuit, Paris 1972, trad. it. a cura di M. Iofrida, Margini – della filosofia, Einaudi, Torino 1997, pp. 27-57.

Riferimenti Bibliografici

237

DERRIDA, J., Marges – de la philosophie, Minuit, Paris 1972, trad. it. a cura di M. Iofrida, Margini – della filosofia, Einaudi, Torino 1997. DERRIDA, J., La pharmacie de Platon, compresa in La dissémination, Seuil, Paris 1972, trad. it. a cura di R. Balzarotti, La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano 1985. DERRIDA, J., La dissémination, Seuil, Paris 1972, trad. it. La disseminazione, Jaca Book, Milano 1989. DERRIDA, Lettre à un ami japonais, in Id., Psyché. Inventions de l’autre, Galilée, Paris 1987, pp. 387- 393, trad. it. di Rodolfo Balzarotti, “Lettera a un amico giapponese”, in Psyché. Invenzioni dell’altro, vol. II, Jaca Book, Milano 2009, pp. 7-13. DERRIDA, J., Le problème de la genèse dans la philosophie de Husserl, P.U.F., Paris 1990, trad. it. a cura di Vincenzo Costa, Il problema della genesi nella filosofia di Husserl, Jaca Book, Milano 1992. DERRIDA, J., Donner le temps, Galilée, Paris 1991, trad. it. di G. Berto, Donare il tempo. La moneta falsa, Raffaello Cortina, Milano 1996. DERRIDA, J., Khôra, Galilée, Paris 1993, trad. it. di F. Garritano in Id., Il segreto del nome. Chora, Passioni, Salvo il nome, Jaca Book, Milano 1997/2005. DERRIDA, J., “Foi et savoir”, in DERRIDA, J., VATTIMO, G., La religion. Séminaire de Capri, Le Seuil, Paris 1996, trad. it. di Alessandro Arbo, “Fede e sapere”, in La religione, Laterza, Roma-Bari 1995. DERRIDA, J., Voyous. Deux essais sur la raison, Paris, Galilée, 2003, trad. it. a cura di Laura Odello, Stati canaglia, Raffaello Cortina, Milano 2003. DEVICTOR, X., “Sacramentum: une étude du serment”, in «Les Cahiers du CREA» n. 16, Epistémologie et anthropologie. Autoréférence, identité et alterité, sous la direction de Lucien SCUBLA, dicembre 1993, pp. 161-200. DEVOTO, G., Avviamento alla etimologia italiana. Dizionario etimologico, Le Monnier, Firenze 1967. DIELS, H., KRANZ, W. (eds.), I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di Angelo Pasquinelli, Einaudi, Torino 1976. DINER, D., Das Jahrhundert verstehen. Eine universalhistorische Deutung, Luchterhand Literaturverlag, Münich 1999, trad. it. di Franz Reinders, Raccontare il novecento. Una storia politica, Garzanti, Milano 2001. DIONIGI DI ALICARNASSO, Antichità romane. DODDS, E., The Greeks and the Irrational, University of California Press, Berkley 1959, trad. it. di Virginia Vacca De Bosis, I Greci e l’irrazionale, BUR, Milano 20093. DONALD, M., “Imitation and Mimesis”, in Perspectives on Imitation. From Neuroscience to Social Science – Volume 2, S. HURLEY, N. CHATER (eds.), Vol. 2, Massachussets Institute of Technology Press, Cambridge, MA 2005, pp. 283-300. DUMAS-CHAMPION, F., “L’appel aux dieux. La parole juratoire chez les Masa du Tchad”, in R. VERDIER (ed.), op. cit., vol. II. DUMÉZIL, G., La religion romaine archaïque, avec un appendice sur la religion des Étrusques, Payot, Paris 1964, trad. it., La religione romana arcaica, Rizzoli, Milano 1977, v. 2. DUMÉZIL, G., Mythe et Epopée, t. 1, Gallimard, Paris 1968.

238

La mimesi e la traccia

DUMOUCHEL, P. (ed.), Violence et vérité, Grasset, Paris 1985. DUMOUCHEL, P., L’ambivalance de la rareté, in DUMOUCHEL, P., DUPUY, J.-P., L’enfer des choses, René Girard et la logique de l’économie, Seuil, Paris 1979. DUMOUCHEL, P., DUPUY, J.-P., L’auto-organisation. De la physique au politique. Colloque de Cerisy, Seuil, Paris 1983. DUMOUCHEL, P., “Hobbes: La course à la souveraineté”, in To Honor René Girard. Presented on the occasion of his sixtieth birthday by colleagues, students, friends, ANMA Libri, Stanford, CA 1986, pp. 152-176. DUMOUCHEL, P., Emotions. Essai sur le corps et le social, Les Empêcheurs de penser en rond, Paris 1995, trad. it., Emozioni. Saggio sul corpo e sul sociale, Medusa, Milano 2008. DUMOUCHEL, P., “Ijime”, in «Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture», 6, Spring 1999, pp. 77-84. DUMOUCHEL, P., “Le contrat d’indifférence réciproque”, in Victimes, violences et vengeances (DUMOUCHEL, P., éd.), Presses de l’Université Laval/L’Harmattan, Québec/Paris 2000, pp. 207-225. DUMOUCHEL, P., “Indifference and Envy in Modern Economy”, in «Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture», n. 10, 2003, pp. 149-160. DUMOUCHEL, P., “Le territoire comme figure de l’espace politique”, in Spazio sacrificale, spazio politico: Saggi di Antropologia Fondativa, a cura di Maria-Stella Barberi, Transeuropa, Massa 2008, ed. cons. nell’originale francese, disponibile su http://www.arsvi.com/2000/08dpf3.pdf. DUMOUCHEL, P., Le sacrifice inutile. Essai sur la violence politique, Flammarion, Paris 2011. DUMOUCHEL, P., “De la méconnaissace”, in «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», 1, 2011, pp. 93-106. DUPUY, J.-P., J. ROBERT, La Trahison de l’opulence, P.U.F., Paris 1976. DUPUY, J.-P., “Le Signe et l’Envie” in P. DUMOUCHEL e J.-P. DUPUY, L’Enfer des Choses, op. cit. DUPUY, J.-P., “Paradoxes de l’erreur créatrice: prophéties auto-réalisatrices”, in L’Erreur, Actes du Colloque de l’Université de Lyon I, P.U.L., Lyon 1982. DUPUY, J.-P., Ordres et désordres. Enquêtes sur un nouveau paradigme, Seuil, Paris 1982, trad. it. a cura di A. Ciapetti, Ordini e disordini. Inchiesta su un nuovo paradigma, Hopefulmonster, Firenze 1986. DUPUY, J.-P., “De l’économie considérée comme théorie de la foule”, in «Stanford French Review», estate 1983, pp. 245-263. DUPUY, J.-P., “Common Knowledge et sens commun”, in «Les Cahiers du CREA», n. 11, aprile 1988, pp. 11-51, ripreso in «La Revue de MAUSS», n. 2, 4o trimestre 1988, pp. 30-54. DUPUY, J.-P., “Points fixes et autoréférence”, in «Les Cahiers du CREA», n. 11, 1988, pp. 257-268. DUPUY, J.-P., “Quasi-objet et échange symbolique. De l’Alidor de Corneille au Don Juan de Molière”, in «Les Cahiers du CREA», n. 12, dicembre 1988, pp. 11-56, ripreso in «MLN», vol. 104, n. 4, settembre 1989, pp. 757-786.

Riferimenti Bibliografici

239

DUPUY, J.-P., “L’autonomie du social. De la contribution de la pensée sistémique à la théorie de la société”, Encyclopédie Philosophique Universelle, Tomo I: “L’universe philosophique”, P.U.F., Paris 1989, pp. 254-265. DUPUY, J.-P., “Deconstructing Deconstruction: Self-Reference in Philosophy, Anthropology and Critical Theory”, in «Comparative Criticism» n. 12, 1990, pp. 105-123. DUPUY, J.-P., M. KOPEL, H. ATLAN, “Complexité et aliénation. Formalisation de la conjecture de v. Foerster”, in F. FOGELMAN-SOULIÉ (ed.), Les théories de la Complexité, Seuil, Paris 1991, p. 410-421. DUPUY, J.-P., F. VARELA (eds.), Understanding Origins. Contemporary Ideas on the Origin of Life, Mind and Society, Kluwer, Boston 1992. DUPUY, J.-P., Introduction aux sciences sociales. Logique des phénomènes collectifs, Ellipses, Paris 1992. DUPUY, J.-P., Le sacrifice et l’envie. Le libéralisme aux prises avec la justice sociale, Calman-Lévy, Paris 1992, trad. it. di E. Nebiolo Repetti, Il sacrificio e l’invidia. Liberalismo e giustizia sociale, ECIG, Genova 1997, versione francese ripubblicata sotto il titolo Libéralisme et justice sociale. Le sacrifice et l’envie, Hachette, Paris 2009. DUPUY, J.-P., “The Self-Deconstruction of Convention,” in «SubStance», vol. 2 & 23, no. 74, pp. 86-98, 1994, trad. it. di A. Thornton, “Sulla (auto)decostruzione delle convenzioni”, in L. Preta, La narrazione delle origini, Laterza, Roma-Bari 1991. DUPUY, J.-P., Aux origines des sciences cognitives, La Découverte, Paris 1994. DUPUY, J.-P., “The Self-Deconstruction of the Liberal Order”, in «Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture», vol. 2, pp. 1–16, 1995. DUPUY, J.-P., “Violence et passion dans l’ordre libéral”, in «Rue Descartes», II, 12, 1995. DUPUY, J.-P., Ethique et philosophie de l’action, Ellipses, Paris 1999. DUPUY, J.-P., The Mechanization of the Mind. On the Origins of Cognitive Science, Princeton U.P., Princeton, NJ 2000. DUPUY, J.-P., Pour un catastrophisme éclairé, Seuil, Paris 2002, trad. it. a cura di P. Heritier, Per un catastrofismo illuminato, Medusa, Milano 2011. DUPUY, J.-P., Avions-nous oublié le mal? Penser la politique après le 11 septembre, Bayard, Paris 2002, pp. 28-29, trad. it. di Elisa Scattolini, Avevamo dimenticato il male? Pensare la politica dopo l’11 settembre, Giappichelli, Torino 2010. DUPUY, J.-P., Intersubjectivity and Embodiment, paper presented at the Third Annual Symposium on the Foundations of the Behavioral Sciences – entitled “Dewey, Hayek and Embodied Cognition: Experience, Beliefs and Rules” – sponsored by the Behavioral Research Council of the American Institute of Economic Research, Great Barrington (Mass.), July 18–20, 2003. DUPUY, J.-P., La panique, Les Empecheurs de penser en rond, Paris 2003. DUPUY, J.-P., “Panic and the Paradoxes of the Social Order”, in Passions in Economy, Politics, and the Media: In Discussion with Christian Theology, W. Palaver, P. Steinmair-Pösel (eds.), Beiträge zur mimetischen Theorie 17, LIT, Münster 2005, pp. 215-233. DUPUY, J.-P., Dans l’œil du cyclone. Colloque de Cerisy, Carnets Nord, Paris 2008.

240

La mimesi e la traccia

DUPUY, J.-P., La marque du sacré, Carnets Nord, Paris 2008. DUPUY, J.-P., “La crise et le sacré”, in « Etudes», 2009/3, Tomo 410, p. 341-352. DUPUY, J.-P., Naturalizing Mimetic Theory, in S. GARRELS, Mimesis and Science. Empirical Research on Imitation and the Mimetic Theory of Culture and Religion, Michigan State U.P., East Lansing, MI 2011. DUPUY, J.-P., L’avenir de l’économie. Sortir de l’économystification, Flammarion, Paris 2012. DURKHEIM, E., Les formes élémentaires de la vie religieuse. Le système totémique en Australie, P.U.F., Paris 1912, trad. it. a cura di Massimo Rosati, Le forme elementari della vita religiosa. Il sistemo totemico in Australia, Meltemi, Roma 2005. DURKHEIM, E., “Le droit contractuel, cours de morale civique”, in Leçons de sociologie, P.U.F., Paris 1950. EDELMAN, B., L’homme des foules, Petite Bibliothèque Payot, Paris 1981. ESPOSITO, R., Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 2006. ESPOSITO, R., Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002. EVANS-PRITCHARD, E., Witchcraft, Oracles and Magic Among the Azande, Oxford University Press, Oxford 19762, trad. it. di R. Malighetti, Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Cortina, Milano 2002. FERRARA, A., Autenticità riflessiva, Feltrinelli, Milano 1999. FERRARA, A., Forza dell’esempio, Feltrinelli, Milano 2008. FERRARIS, M., Dove sei? Ontologia del telefonino, Bompiani, Milano 2005. FERRARIS, M., Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, RomaBari 2009. FOUCAULT, M., Che cos’è l’illuminismo? [1983], in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. Tomo 3. 1978-1985, trad. it. di S. Loriga, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 253-261. v. FOERSTER, H., Observing Systems, Intersystems Publications, Seaside, CA 19842, trad. it. di B. Draghi, Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma 1987. FORNARI, G., Apologia della Bibbia come apologia della vittima, in GIRARD, R., La vittima e la folla. Violenza del mito e cristianesimo, Santi Quaranta, Treviso 1998. FRAZER, G., The Golden Bough, Macmillan, London 1911, trad. it., Il ramo d’oro, Newton&Compton, Roma 1992. FREUD, S., “Über den Gegensinn der Urworte”, in «Jahrbuch fuer Psychoanalytische und Psychopathologische Forschungen», Band II, part i, 1884, trad. it. di Ezio Luserna, “Significato opposto delle parole primordiali”, in Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 2004. FREUD, S., “Zur Einführung des Narzißmus”, 1914, in «Jahrbuch der Psychoanalyse», trad. it. di Renata Colorni, Introduzione al narcisismo, 1914, in C. L. MUSATTI (a cura di), Opere di Sigmund Freud, Boringhieri, Torino 1976-1980, vol VII, pp. 439-472. FREUD, S., Totem und Tabu, 1912-1913, GW IX, trad. it., Totem e Tabù, in C. L. MUSATTI (a cura di), Opere di Sigmund Freud, Boringhieri, Torino 1976-1980, vol. VII, pp. 3-165.

Riferimenti Bibliografici

241

FREUD, S., “Das Unheimliche”, in Gesammelte Werke, XII, 1940-1950, pp. 227268; trad. it. di Silvano Daniele, “Il perturbante”, in C. L. MUSATTI (a cura di), Opere di Sigmund Freud, Boringhieri, Torino 1976-1980, vol IX, pp. 81-114. FREUD, S., Massenpsychologie und Ich-Analyse. Die Zukunft einer Illusion, 1921, trad. it., Psicologia delle masse e analisi dell’io, in C. L. MUSATTI (a cura di), Opere di Sigmund Freud, Boringhieri, Torino 1976-1980, vol. IX, pp. 257-330. FREUD, S., “Un disturbo della memoria sull’Acropoli” (1936), in «Rivista di Psicoanalisi», 12, 1966, pp. 61-67. GADDINI, E., “Sull’imitazione”, in «Rivista ufficiale della Società Psicoanalitica Italiana», 3, 1968, 235-260. GADDINI, E., Imitation, P.U.F., Paris 2001. GALLIANI, R., “La faccia dell’estraneo, il volto dello straniero”, in «Psicoterapia psicoanalitica», anno XVI, n. 2, 2009. GANS, E., “Window of opportunity”, in «Chronicles of Love and Resentment», 20.10.2001, http://www.anthropoetics.ucla.edu/views/vw248.htm GARAPON, A., Bien juger: Essai sur le rituel judiciaire, Odile Jacob, Paris 1997, trad. it. di Daniela Bifulco, Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, Raffaello Cortina, Milano 2007. GARRELS, S., Mimesis and Science. Empirical Research on Imitation and the Mimetic Theory of Culture and Religion, Michigan State U.P., East Lansing, MI 2011. GAUCHET, M., Le désenchantement du monde. Une histoire politique de la religion, Gallimard, Paris 1985, trad. it., Il Disincanto del mondo. Storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992. GAUCHET, M., La religion dans la démocratie: Parcours de la laïcité, Gallimard, Paris 1998, trad. it. di D. Frontini, La religione nella democrazia, Dedalo, Bari 2009. GINZBURG, C., Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Einaudi, Torino 2008. GIRARD, R., “Tocqueville and Stendhal”, in The American Magazine of the French Legion of Honor, 31, 2, 1960, pp. 73-83, trad. it. di Alexandre Calvanese, “Individualismo e democrazia: Stendhal e Tocqueville”, in Il pensiero rivale. Dialoghi su letteratura, filosofia e antropologia, a cura di P. Antonello, Transeuropa, Massa 2006, pp. 3-14. GIRARD, R., Mensonge romantique et vérité romanesque, Grasset, Paris 1961, trad. it. a cura di Leonardo Verdi-Vighetti, Menzogna romantica e verità romanzesca, Bompiani, Milano 1965. GIRARD, R., Dostoevskij du double à l’unité, Plon, Paris 1963; trad. it. a cura di R. Rossi, Dostoevskij dal doppio all’unità, SE Studio Editoriale, Milano 1987. GIRARD, R., “De l’expérience romanesque au mythe oedipien”, in «Critique», 222, 1965, pp. 899-924, trad. it. in GIRARD, R., Edipo liberato, cit., pp. 3-30. GIRARD, R., Deceit, Desire and the Novel: Self and Other in Literary Structure, trad. ingl. di Y. Freccero, Johns Hopkins U.P., Baltimore, MD 1965. GIRARD, R., “The Plague in Literature and Myth”, in Id., To Double Business Bound. Essays on Literature, Mimesis and Anthropology, The Johns Hopskins U.P., Baltimore, MD 1978, pp. 136-155.

242

La mimesi e la traccia

GIRARD, R., La violence et le sacré, Grasset, Paris 1972, trad. it. a cura di O. Fatica e E. Czerkl, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980. GIRARD, R., “Discussion avec René Girard”, in «Esprit», nov. 1973, pp. 538-540. GIRARD, R., Critique dans un souterrain, L’Age de l’homme, Lausanne 1976. GIRARD, R., Des choses cachées depuis la fondation du monde, Grasset & Fasquelle, Paris 1978, trad. it. a cura di R. Damiani, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983. GIRARD, R., To Double Business Bound: Essays on Literature, Mimesis and Anthropology, Johns Hopkins U.P., Baltimore, MD 1978. GIRARD, R., “Narcissism: The Freudian Mith Demythified by Proust”, (1978), in Id., Mimesis & Theory. Essays on Literature and Criticism, 1953-2005, Robert DORAN (ed.), Stanford U.P., Stanford, CA 2008, pp. 214-229. GIRARD, R., Le bouc emissaire, Grasset & Fasquelle, Paris 1982, trad. it. a cura di Ch. Leverd e F. Bovoli, Il capro espiatorio, Adelphi, Milano 1987. GIRARD, R., La route antique des hommes pervers, Grasset, Paris 1985, trad. it. di C. Giardino, L’antica via degli empi, Adelphi, Milano 1994. GIRARD, R., “Love and Hate in Chrétien de Troyes’ Yvain”, (1990) in Id., Mimesis & Theory. Essays on Literature and Criticism, 1953-2005, Robert DORAN (ed.), Stanford U.P., Stanford, CA 2008, pp. 214-229. GIRARD, R., Shakespeare. Les feux de l’envie, Grasset, Paris 1990, trad. it. di Giovanni Luciani, Shakespeare. Il teatro dell’invidia, Adelphi, Milano 1998. GIRARD, R., Quand ces choses commenceront. Entretiens avec Michel Treguer, Arlea, Paris 1994, trad. it. a cura di Alberto Beretta Anguissola, Quando queste cose cominceranno. Conversazioni con Michel Treguer, Bulzoni Editore, Roma 2005. GIRARD, R., Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo, Raffaello Cortina, Milano 1999. GIRARD, R., Celui par qui le scandale arrive, Hachette, Paris 2001, trad. it. di G. Fornari, La pietra dello scandalo, intervista con Maria Stella Barberi, Adelphi, Milano 2004. GIRARD, R., La voix méconnue du réel, Grasset, Paris 2002, trad. it. a cura di G. Fornari, La voce inascoltata della realtà, Adelphi, Milano 2006. GIRARD, R., Oedipus Unbound. Selected Writings on Rivalry and Desire, Mark R. Anspach (ed.), Stanford U.P., Stanford, CA, 2004, trad. it. di Eliana Crestani, Edipo liberato. Saggi su rivalità e desiderio, Transeuropa, Massa 2009. GIRARD, R., VATTIMO, G., Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, a cura di P. Antonello, Transeuropa, Massa 2006. GIRARD, R., Achever Clausewitz, Carnets Nord, Paris 2007, trad. it. a cura di G. Fornari, Portando Clausewitz all’estremo. Conversazione con Benoît Chantre, Adelphi, Milano 2008. GIRARD, R., Mimesis & Theory. Essays on Literature and Criticism, 1953-2005, Robert DORAN (ed.), Stanford U.P., Stanford, CA 2008, pp. 214-229. GIRAUDOUX, J., La guerre de Troie n’aura pas lieu [1935], Larousse, Paris 1991. GOLDMANN, L., Marx, Lukács, Girard et la sociologie du roman, in «Médiations», 2, 1961, pp. 1943-53.

Riferimenti Bibliografici

243

GOLDMANN, L., Pour une sociologie du roman, Gallimard, Paris 1964, trad. it., Per una sociologia del romanzo, Bompiani, Milano 1967. GOODHART, S., “Lêistas Ephaske: Oedipus and Laius’ Many Murderers”, in «Diacritics», 8, 1, Marzo 1978. GOODHART, S., Sacrificing Commentary: Reading the End of Literature, Johns Hopkins U.P., Baltimore, MD 1996. GRAHAM, T., “St. Augustine’s Novelistic Conversion,” in «Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture», vol. 5, pp. 135-154, 1998. GREENE, W.C. “The Murderers of Laius”, in «Transactions of the American Philological Association», 60, 1929. GUALA, F., “Esistono le convenzioni di Lewis?”, in E. CASETTA, A. VARZI (eds.) «Rivista di Estetica», 41, 2009, pp. 141-159. HARTMANN, F., KROLL, W., “Italische Sprachen und lateinische Grammatik” in «Glotta» 9 (1918), pp. 245-282. HEGEL, G. W. F., Filosofia dello spirito jenese, Laterza, Bari 1971. HEIDEGGER, M., Sein und Zeit, Max Niemeyer, Tübingen 1927, trad. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, Utet, Torino 1969. HELLMAN, D., When is discrimination wrong?, Harvard University Press, Cambridge, MA 2008. HENRY, J., Jungle People, New York, NY 1941, riedito da Vintage Books, Random House, New York, NY 1964. HIMMELMAN, J., Discovering Moths: Nighttime Jewels in Your Own Backyard, Down East Books, Camden, ME 2002. HIRZEL, R., Der Eid. Ein Beitrag zu seiner Geschichte, Leipzig 1902. HOBBES, T., Leviathan, 1651, trad. it. di G. Micheli, Leviatano, La Nuova Italia, Firenze 1987. HOCART, M.A., Socials Origins, 1954, trad. fr. par Jean Lassègue avec la collaboration de Mark R. Anspach, Au commencement était le rite. De l’origine des sociétés humaines, La Découverte, Paris 2005. HOCART, A.M., Kings and Councillors, U.P. of Chicago, Chicago, IL 1970. HOFSTADTER, D., Gödel, Escher, Bach, Basic Books, New York, NY 1979, trad. it. di Barbara Veit, Giuseppe Longo, Giuseppe Trautteur, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, Adelphi, Milano 1984. HONIG, B., “Between Decision and Deliberation: Political Paradox in Democratic Theory”, in «The American Political Science Review», vol. 101, n. 1, 2007, pp. 1-17. HONNETH, A., Kampf um Anerkennung. Grammatik sozialer Konflikte, Suhrkamp, Frankfurt 1992, trad. it. di Carlo Sandrelli, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Milano, Il Saggiatore 2002. HUSSERL, E., Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewußtseins (1893-1917), a cura di R. Boehm, Husserliana X, Nijhoff, Den Haag 1966, trad. it. di A. Marini, Sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo, Angeli, Milano 1985. JOHNSEN, W.A., Violence and Modernism: Ibsen, Joyce and Woolf, UP of Florida, Gainesville 2003. KAUFFMAN, S., Reinventing the sacred. A New View of Science, Reason and Religion, Basic Books, New York 2008, trad. it. di S. Ferraresi, Reinventare il sacro.

244

La mimesi e la traccia

Una nuova concezione della scienza, della ragione e della religione, Codice, Torino 2010. KENT, R.G., “The Etymological Meaning of Pomerium”, in «Transactions and Proceedings of the American Philological Association», Vol. 44, 1913, pp. 19-24. KEYNES, J.M., The General Theory of Employment, Interest and Money, Palgrave Macmillan, Basingstoke, UK 1936, trad. it. a cura di Terenzio Cozzi, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino, UTET 2006. KEYNES, J.M., “The General Theory of Employment”, in «Quaterly Journal of Economics», 51, 1937, pp. 209-223. KOJÈVE, A., Introduction à la lecture de Hegel, Leçons sur la Phénoménologie de l’Esprit professées de 1933 à 1939 à l’Ecole des Hautes Etudes réunies et publiées par Raymond Quenueau, Paris, Gallimard 1947, trad. it. a cura di Gian Franco Frigo Introduzione alla lettura di Hegel. Lezioni sulla «Fenomenologia delo Spirito» tenute dal 1933 al 1939 all’Ecole Pratique des Hautes Etudes raccolte e pubblicate da Raymond Queneau, Adelphi, Milano 1996. LAWLOR, L., Derrida and Husserl: The Basic Problem of Phenomenology, Indiana U.P., Bloomington, IN 2002. LAZZERI, C. “Désir mimétique et reconnaissance”, in René Girard. La théorie mimétique: de l’apprentissage à l’apocalypse, C. RAMOND (éd.), P.U.F., Paris 2010, pp. 15-57. LE GOFF, J.P., La démocratie post-totalitaire, La Découverte, Paris 2002. LEROI-GOURHAN, A., Le geste et la parole. Tome II: La mémoire et les rhytmes, Albin Michel, Paris 1965, trad. it. di F. Zannino, Il gesto e la parola. Tecnica e linguaggio. La memoria e i ritmi, Einaudi, Torino 1977. LÉVI-STRAUSS, C., Introduction à l’oeuvre de M. Mauss, in M. MAUSS, Sociologie et anthropologie, P.U.F., Paris 1950. LÉVI-STRAUSS, C., Le totémisme aujourd’hui, P.U.F., Paris 1962, trad. it. di D. Montaldi, Il totemismo oggi, Feltrinelli, Milano 1964. LÉVI-STRAUSS, C., Le cru et le cuit, Plon, Paris 1964, trad. it. Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano 1974. LEWIS, D.K., Convention: A Philosophical Study, Harvard U.P., Cambridge, MA 1969, trad. it. La convenzione: studio filosofico, Bompiani, Milano 1974. MANENT, P., Histoire intellectuelle du libéralisme, Hachette, Paris 1987. MANTOVANI, A., FLORIANELLO, M., I guardiani della vita. Come funziona il sistema immunitario e il suo ruole nella medicina del futuro, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2011. MCDOUGALL, W., The Group Mind, Cambrdige U.P., Cambridge, UK 1920. MCKENNA, A.J,, Violence and Difference. Girard, Derrida, and Deconstruction, University of Illinois Press (UIP), Urbana-Chicago, IL 1992. MCKENNA, A.J., The Ends of Violence: Girard and Derrida, in «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», n° 1, 2011. MORMINO, G., René Girard. Il confronto con l’altro, Carocci, Roma 2012. MOSCOVICI, S., L’age des foules, Fayard, Paris 1981. NANCY, J.-L., Être singulier pluriel, Galilée, Paris 1996, trad. it., Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2001. NAPOLEONI, C., Il pensiero economico del ’900, Einaudi, Torino 1963.

Riferimenti Bibliografici

245

NÄSSTRÖM, S., “The Legitimacy of the People,” in «Political Theory», 35, 5, 2007, pp. 624-658. NIETZSCHE, F., Der Antichrist. Fluch auf das Christentum, trad. it. di F. Masini, L’anticristo. Maledizione del cristianesimo, Adelphi, Milano 1970. NIETZSCHE, F., Il nichilismo europeo, in Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, Walter de Gruyter, Berlin-New York 1967 sgg. trad. it., Opere Complete di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 sgg. ORAZIO, Odi. ORLÉAN, A., “Mimétisme et anticipations rationelles: une perspective keynésienne”, in «Recherches économiques de Louvain», n. 1, marzo 1986. ORLÉAN, A., “Contagion mimétique et bulles spéculatives”, in J. Cartelier (ed.), La formation des grandeurs économiques, Nouvelle Encyclopédie Diderot, P.U.F., Paris 1990. PALAVER, W., “Mimesis and Scapegoating in the works of Hobbes, Rousseau, and Kant” in «Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture», n. 10, 2003, pp. 126-148. PALAVER, W., René Girard’s Mimetic Theory, Michigan State University Press, East Lansing, MI, 2013. PAOLO, Lettera ai Filippesi. PARKER, H.N., “Why Were the Vestals Virgins? On the Chastity of Women and the Safety of the Roman State”, in «The American Journal of Philology» 125.4, 2004, pp. 563-601. PENNA, A., La costituzione temporale nella fenomenologia husserliana (1917/18 – 1929/34), Il Mulino, Bologna 2007. PIANIGIANI, O., Vocabolario etimologico della lingua italiana, SEDA, Roma-Milano 1907. PIONTELLI, A., Gemelli nel mondo. Leggende e realtà, Raffaello Cortina, Milano 2012. PIPPIN, R., Modernism as a Philosophical Problem. On the Dissatisfactions of European High Culture, Basil Blackwell, Oxford 1991. PLATONE, Opere Complete. PLUTARCO, Vita di Romolo, trad. it. a cura di Carlo Carena, Plutarco, Vite parallele, 2 voll., Einaudi, Torino 1958. POMMIER, R., René Girard, un allumé qui se prend pour un phare, Kimé, Paris 2010. PROUST, M., Jean Santeuil, 3 voll., Gallimard, Paris 1952. PULCINI, E., “Il Sé mimetico e il falso riconoscimento”, in M. Calloni, A. Ferrara, S. Petrucciani (a cura di), Pensare la società, Carocci, Roma 2001, pp. 105-125. RAMOND, C. (éd.), René Girard, la théorie mimétique. De l’apprentissage à l’apocalypse, P.U.F., Paris 2010. RANK, O., “Der Doppelgänger”, in «Imago», vol. 3, Vienna-Lipsia 1914, trad. it. di Maria Grazia Cocconi Poli, Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, Sugarco, Varese 1994. RELLA, F. (ed.), La critica freudiana, Feltrinelli, Milano 1977.

246

La mimesi e la traccia

RELLA, F., Il silenzio e le parole. Il pensiero nel tempo della crisi, Feltrinelli, Milano 1981. Rgveda Samhita, trad. ing. Svami Satya Prakash Saravasvati and Satyakam Vidyalankar, vol. XIII, Pratishthana Veda, New Delhi 1987. RICOEUR, P., De l’interprétation. Essai sur Sigmund Freud, Seuil, Paris 1965, trad. it. di E. Renzi, Della interpretazione. Saggio su Freud, II Saggiatore, Milano 1967. RICOEUR, P., “Aliénation”, in Encyclopædia Universalis, vol. 1, 1968, p. 825. RICOEUR, P., Temps et récit. Tome III: Le temps raconté, Seuil, Paris 1985, trad. it. di G. Grampa, Tempo e racconto. Tomo III: Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano 1988. RISÉ, C., Don Giovanni, l’ingannatore, Frassinelli-Sperling & Kupfer, Milano 2006. ROSA, H., Beschleunigung. Die Veränderung der Zeitstrukturen in der Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2005. ROSA, H., Alienation and Acceleration: Towards a Critical Theory of Late-Modern Temporality, Nordic Summer U.P., Svanesund 2010, trad. fr. di Thomas Chaumont, Aliénation et accélération. Vers une théorie critique de la modernité tardive, La Découverte, Paris 2012. ROSATI, M., “Abitare una terra di nessuno. Durkheim e la modernità”, in E. DURKHEIM, Le forme elementari della vita religiosa, cit., pp. 17-51. SARTRE, J.-P., L’Être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris 1943, trad. it. di G. Del Bo, L’ essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, Il Saggiatore, Milano 2008. SCHELER, M., “Das Ressentiment im Aufbau der Morale”, 1912, in Vom Umsturz der Werte – Abhandlungen und Aufsätze Gesammelte Verke, Francke Verlag, Bern 1955, vol. III, trad. it. a cura di A. Pupi, Il risentimento nella edificazione delle morali, Vita e Pensiero, Milano 1975. SCHELER, M., Vom Ewigen im Menschen, Reinhold, Leipzig 1921, trad. it. di Ubaldo Pellegrino, L’eterno nell’uomo, Logos, Roma 1991. SCHELLING, F.W.J. v., Philosophie der Mythologie, 1857, trad. it. di Lidia Procesi, Filosofia della mitologia, Mursia, Milano 1990. SCHELLING, T.C., The Strategy of Conflict, Harvard U.P., Cambridge, MA 1960. SCHMIDT, K., Zuerst kam der Tempel, dann die Stadt. Bericht zu den Grabungen am Gürcütepe und am Göbekli Tepe 1996-1999, Istanbuler Mitteilungen 50, 2000, pp. 5-40. SCHMIDT, K., Göbekli Tepe, Southeastern Turkey. A Preliminary Report on the 1995-1999 Excavations, Paléorient 26.1, 2001, pp. 45-54. SCHMIDT, K., Sie bauten den ersten Tempel. Das rätselhafte Heiligtum der Steinzeitjäger. Die archäologische Entdeckung am Göbekli Tepe, C.H. Beck, München 2006. SCHMIDT, K., Vor 12.000 Jahren in Anatolien. Die ältesten Monumente der Menschheit, Badisches Landesmuseum Karlsruhe (Hrsg.), Theiss, Stuttgart 2007. SCHWAGER, R., Brauchen wir einen Sündenbock? Gewalt und Erlösung in den biblischen Schriften, Kösel-Verlag, München 1986, trad. cons., Avions-nous besoin d’un bouc émissaire?, Flammarion, Paris 2011.

Riferimenti Bibliografici

247

SCUBLA, L., “Est-il possible de mettre la loi au-dessus de l’homme ? Sur la philosophie politique de Jean-Jacques Rousseau”, in J.-P. DUPUY, Introduction aux sciences sociales. Logique des phénomènes collectifs, Ellipses, Paris 1992, pp. 105-143. SCUBLA, L., “Les hommes peuvent-ils se passer de toute religion? Coup d’œil sur les tribulations du religieux en Occident depuis trois siècles”, in Revue du MAUSS, 22, 2003/2, pp. 90-117. SCUBLA, L., “Roi sacré, victime sacrificielle et victime émissaire”, in «Revue du MAUSS», 2003/2, n. 22, pp. 197-221. SEARLE, J., The Construction of Social Reality, 1995, trad. it., La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino 2006. SENNETT, R., The Corrosion of Character. The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, Norton&Co., London/New York 1999, trad. it. di M. Tavosanis, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999. SERRES, M., “Le don de Dom Juan ou la naissance de la comédie”, in Hermès I: la communication, Minuit, Paris 1969. SERRES, M., Rome. Le livre des fondations, Grasset et Fasquelle, Paris 1983, trad. it. a cura di Roberto Berardi, Roma. Il libro delle fondazioni, Hopefulmonster, Firenze 1991. SERRES, M., “Réponse de M. Michel Serres au discours de M. René Girard. Réception à l’Académie française de René Girard”, in M.R. ANSPACH (ed.) René Girard, Cahiers de l’Herne, Paris 2008, pp. 13-21. SHACHAR, A., The Birthright Lottery: Citizenship and Global Inequality, Harvard U.P., Cambridge, MA 2009. SIMONDON, G., L’individu et sa genèse physico-biologique, P.U.F., Paris 1964. SIMONDON, G., Du mode d’existence des objets techniques, Aubier, Paris 1969. SIMONDON, G., L’individuation psychique et collective, Aubier, Paris 1989. SIMONDON, G., L’individuation à la lumière des notions de forme et d’information, Millon, Grenoble 2005, trad. it. a cura di Giovanni Carrozzini, L’individuazione. Alla luce delle nozioni di forma e d’informazione, Mimesis, Milano 2012. SIMONSE, S., Kings of Disaster: dualism, centralism, and the scapegoat king in southern Sudan, Brill, Leyden 1992. SLOTERDIJK, P., L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Carocci, Roma 2002. SMITH, B., “Un’aporia nella costruzione della realtà sociale. Naturalismo e realismo in John R. Searle”, in Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive, a cura di P. DI LUCIA, Quodlibet, Macerata 2003, pp. 137-152. SPERBER, D., La contagion des idées. Théorie naturaliste de la culture, Odile Jacob, Paris 1996, trad. it. di Gloria Origgi, Il contagio delle idee. Teoria naturalistica della cultura, Feltrinelli, Milano 1999. STAPLES, A., From Good Goddess to Vestal Virgins: Sex and Category in Roman Religion, Routledge, New York-London 1998. STENDHAL, Il rosso e il nero, Einaudi, Torino 1993. STIEGLER, B., “Temps et individuations technique, psychique et collective dans l’œuvre de Simondon”, in «Intellectica», n. 26-27, 1998, pp. 241-56.

248

La mimesi e la traccia

STIEGLER, B., La technique et le temps. Tome I: La Faute d’Épiméthée, Galilée, Paris 1994. STIEGLER, B., La technique et le temps. Tome II: La désorientation, Galilée, Paris 1996. STIEGLER, B., La technique et le temps. Tome III: Le temps du cinéma et la question du mal-être, Galilée, Paris 2001. STIEGLER, B., Mécreance et discredit. Tome I: La décadence des démocraties industrielles, Galilée, Paris 2004. STIEGLER, B., Philosopher par accident. Entretiens avec Elie During, Galilée, Paris 2004. STIEGLER, B., “Le désir asphyxié, ou comment l’industrie culturelle détruit l’individu”, in «Le monde diplomatique», juin 2004. STIEGLER, B., De la misère symbolique. Tome I: L’époque hyperindustrielle, Galilée, Paris 2006. STIEGLER, B., De la misère symbolique. Tome II: La Catastrophe du sensible, Galilée, Paris 2006. STIEGLER, B., Mécreance et discredit. Tome II: Les sociétés incontrolables d’individus désaffectés, Galilée, Paris 2006. STIEGLER, B., Mécréance et Discrédit. Tome III: L’esprit perdu du capitalisme, Galilée, Paris 2006. STIEGLER, B., Réenchanter le monde. La valeur esprit contre le populisme industriel, Flammarion, Paris 2006. STIEGLER, B., “Chute et élévation. L’apolitique de Simondon”, in «Revue philosophique de la France et de l’étranger», n°3/2006, pp. 325-41. STIEGLER, B., “Le théâtre de l’individuation. Déphasage et résolution chez Simondon et Heidegger”, in J.-M. VAYSSE (éd.), Technique, monde, individuation: Heidegger, Simondon, Deleuze, Olms, Hildesheim-Zurich-NewYork 2006, pp. 57-73. STIEGLER, B., “L’inquiétante étrangeté de la pensée et la métaphysique de Pénélope”, Préface, in SIMONDON, G., L’individuation psychique et collective, Aubier, Paris 2007, pp. I-XVI. STIEGLER, B., La télécratie contre la démocratie. Lettre ouverte aux représentants politiques, Flammarion, Paris 20082. STIEGLER, B., Prendre soin. De la jeunesse et des générations, Flammarion, Paris 2008. STIEGLER, B., Pour une nouvelle critique de l’économie politique, Galilée, Paris 2009. STIEGLER, B., Ce qui fait que la vie vaut la peine d’être vécue. De la pharmacologie, Flammarion, Paris 2011. STIEGLER, B., Etats de choc. Bêtise et savoir au XXI siècle, Mille et une nuits, Paris 2012. TAROT, C., Le symbolique et le sacré: théories de la religion, La Découverte, Paris 2008. TAUBER, A.I., The Immune Self: Theory or Metaphor?, Cambridge U.P., Cambridge 1994.

Riferimenti Bibliografici

249

THOM, R., Esquisse d’une sémiophysique. Physique aristotélicienne et théorie des catastrophes, InterEditions, Paris 1988. TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, trad. it. di Mario Scandola, a cura di Claudio Moreschini, Storia di Roma dalla sua fondazione, BUR, Milano 1994. TOMELLERI, S., “Risentimento e pensiero debole”, in «La soscietà degli individui», n. 9, anno III, 2000/3, pp. 75-87. TOMELLERI, S., La società del risentimento, Meltemi, Roma 2004. de TOCQUEVILLE, A., De la démocratie en Amerique, 1835, trad. it. a cura di Giorgio Candeloro, La democrazia in America, Rizzoli, Milano 2005. TUOMELA, R., The Importance of Us: A Philosophical Study of Basic Social Notions, Stanford University Press, Stanford, CA 1995. TYRRELL, W.B., The Sacrifice of Socrates. Athens, Plato, Girard, Michigan State UP, East Lansing, MI 2010. VANHEESWIJCK, G., “The Place of René Girard in Contemprary Philosophy”, in «Contagion: Journal of Violence, Mimesis, and Culture», n. 10, 2003, pp. 95110. VANICEK, A., Etymologisches Wörterbuch der Lateinischen Sprache, Leipzig 1881. VANNUCCI, T., “Il mito di Don Juan in Ortega y Gasset: Simbolo di Rinascita dalla crisi della società moderna,” in «Metabasis. Filosofia e comunicazione», vol. 1, n. 2, pp. 1-15, 2006. VARRONE, De lingua latina. VATTIMO, G., Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 1980. VATTIMO, G., “Ontologia dell’attualità”, in Id. (a cura di), Filosofia ’87, Laterza, Roma-Bari, 1988, pp. 201-223. VATTIMO, G., La fine della modernità, Garzanti, Milano 1991. VATTIMO, G., Credere di credere, Garzanti, Milano 1999. VATTIMO, G., Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, Garzanti, Milano 2003. VATTIMO, G., R. RORTY, Il futuro della religione. Solidarietà, carità, ironia, S. Zabala (ed.) Garzanti, Milano 2005. VATTIMO, G., “Girard e Heidegger. Kénosis e fine della metafisica” (2006), in GIRARD, R., VATTIMO, G., Verità o fede debole?, cit. VATTIMO, G., Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009. VATTIMO, G., Della realtà. Fini della filosofia, Garzanti, Milano 2012. VECA, S., “Molto rumore per nulla”, in «ParadoXa», VI, 3, luglio/sett. 2012, pp. 20-33. VERDIER, R. et al. (éd.) La Vengeance. Études d’ethnologie d’histoire et de philosophie, 4 Tomes, (Paris: Cujas, 1980-1984).

VERDIER, R. (éd.), Le Serment, 2 voll., Editions du CNRS, Paris 1991, vol. II. VERNANT, J.-P., “Ambiguïté et renversement. Sur la structure énigmatique d’ŒdipeRoi”, in Echanges et communications. Mélanges offerts à Claude Lévi-Strauss, Mouton, Paris 1970, t. II, pp. 1253-1279, trad. it. di Mario Rettori, “Ambiguità e rovesciamento”, in J.-P. VERNANT, P. VIDAL-NAQUET, Mito e tragedia nell’Antica Grecia. La tragedia come fenomeno sociale, estetico e psicologico, Einaudi, Torino 19764, pp. 64-87.

250

La mimesi e la traccia

VINOLO, S., René Girard: épistémologie du sacré. «En vérité, je vous le dis», L’Harmattan, Paris 2007. VIRGILIO, Eneide. WELLS, H. G., Outline of History, MacMillan, New York, NY1920. WHELAN, F.G., “Prologue: Democratic Theory and the Boundary Problem”, in «Nomos» 25: Liberal Democracy, J. R. PENNOCK, J.W. CHAPMAN (eds.), New York U.P., New York, NY 1983, pp. 22-40.

251

INDICE DEI NOMI

Abizadeh 196, 197, 199, 200, 211, 212 Agamben 89n, 91n, 116 Agostino 50, 168 Ahl 75n Altounian 187n Anspach 67n, 72n, 75n, 77, 79n, 84n, 90n, 174n, 191n, 214n Antaya 29, 30n, 39 Antonello 55n, 59n, 63n, 164n, 182n Apostolidès 110n Arendt 38n Aristotele 50, 76n, 208, 209, 210 Arthur 128n Atlan 19n, 95n, 178n, 198, 222n Augé 213 Austin 46 Bandera 53n, 75n Barthélémy 135n, 143n Bartlett 70n Beck 197n Bellotti 105n Benjamin 115n, 191n, 193, 199n, 226 Benvenuto 84n Berlin 166n Berto 186, 188, 189n, 190n Bordiga 136n Bourdieu 166n Burn 30n Carnevali 57n Casini 182n Ceserani 56n Chantre 224n Chavalarias 159n

Chierenghin 128n Chiurazzi 52n, 86n, 182n, 221n Codacci-Pisanelli 182n Costa 122n Curi 190n Cyrulnik 122n Daraki 71n Dehaene 122 Delcourt 75n Derrida 9, 10, 11, 13, 43, 45n, 46, 47, 51, 52, 54n, 85n, 106, 109, 110, 121, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 132, 134, 136, 137, 139, 141, 143n, 148, 159, 193, 197, 199n, 200, 201, 202, 203, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 211, 212, 215, 216, 217, 231, 238 Devictor 90 Diazzi 120n Diels, Kranz 73n Diner 175n Dodds 147 Dumézil 32n, 174n Dumouchel 11, 12n, 15n, 52, 56n, 60n, 61n, 84, 90n, 164, 165n 166n, 169, 170, 171, 172, 173, 174, 175, 176, 177, 178, 179, 190, 191, 185, 202n, 210, 218n, 224n Dupuy 10, 12, 13n, 14, 15, 17n, 19, 50n, 52, 53, 56n, 59n, 61n, 65, 80n, 82n, 90n, 95, 96n, 98n, 99, 100, 101n, 102n, 103, 104, 105n, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 116, 118, 119n, 121, 123n, 124, 125,

252

126, 127, 128, 129, 130, 131, 142n, 145, 158, 159, 166n, 170, 177n, 180, 184, 193, 194, 198n, 202n, 212, 221, 222 Durkheim 69n, 80n, 85n, 104n, 106, 109, 166n, 195n Edelman 104n Esposito 174n, 202n, 213 Ferrara 12n Ferraris 10n, 39, 40n, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 117, 122, 125n, 128, 132n, 134, 193, 198n, 199 Fornari 55n, 57, 63n Foucault 43, 52, 110, 159n, 221n Foerster v. 19n, 95n, 131, 222, 223, 224, 225, 226 Freud 9, 64, 65, 66, 69, 71, 78n, 80n, 88, 103, 104, 105, 106, 107, 109, 114n, 119, 120, 121, 124, 131, 151, 157n, 158, 178n, 181, 186, 187, 188, 189, 190n 191, 192, 221 Gaddini 105 Galliani 187n Garapon 90 Gauchet 13n, 180n, 183n, 184n, 226 Ginzburg 70n, 73n, 74 Girard 9, 10, 11, 13, 14, 15, 18, 25, 26, 27, 28, 32, 36n, 41, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 66n, 67, 68, 69, 70n, 71n, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82n, 83, 84n, 85n, 86, 87, 89, 90n, 95n, 100, 102n, 103, 106, 107, 108n, 110, 111, 114n, 116n, 118, 121, 124, 125n, 127, 145, 146n, 158, 159, 160, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 173, 176, 178, 180, 181, 182, 183, 184n, 185, 188n, 190n, 192, 193, 194, 196, 198n, 202n, 204, 205, 207, 209, 211, 212, 215, 216, 217, 218, 219, 220, 224, 226 Giraudoux 214n

La mimesi e la traccia

Goldmann 53n Goodhart 53n, 75n Graham 168n Greene 72n Guala 97n Hartmann 29n Hegel 12n, 55n, 56, 11, 115n, 128, 129n, 147, 153, 174 Heidegger 52n, 125n, 125n, 143n, 145n, 149n, 152, 182, 183, 184n, 220, 221n Hellman 221n Henry 81 Himmelman 60n Hobbes 35, 90n, 169, 170, 171, 172 Hocart 36n, 80n, 89, 169, 173, 178 Hofstadter 125 Honig 197n Husserl 121, 122, 123, 133, 134, 135, 136, 150, 159 Johnsen 53n Kant 12n, 43, 44, 45, 140, 141, 142, 144, 150, 168 Kent 29n Keynes 99, 100, 102n Lawlor 122n Leroi-Gourhan 132, 136, 137, 138, 139, 141, 144, 145 Lévi-Strauss 26n, 28n, 54, 70n, 82n, 110, 115, 116, 166n Lewis 96, 98, 100, 103 McDougall 104 McKenna 194, 209n Mormino 18n, 173n Moscovici 104n Nietzsche 9, 62, 164, 182, 183n, 186, 188, 191, 195n Orléan 99

Indice dei nomi

Palaver 55n, 56n, 74n, 80n, 90n, 107n, 120n, 125n, 169n, 180n, 215n Penna 133n Pianigiani 187 Piontelli 79n Pippin 185n Platone 50, 53, 76n, 77, 86n, 138n, 148, 149, 150 Plutarco 26, 30, 31, 33, 34, 38, 39, 53 Pommier 57 Proust 58n, 61, 63, 64, 65, 66, 68, 124, 168 Pulcini 171n Rank 78n, 188, Rella 189n, 190n, 191 Ricoeur 9, 128, 133 Risé 111 Rosa 147n, 213 Rosati 85n Rousseau 56n, 152, 197 Sartre 55n, 214 Schelling, T.C. 96, 97, 98, 99 Schelling, F.W.J. 190n Schmidt 146n Schmitt 175, 176n Schwager 183n Scubla 16n, 89, 90, 166 Searle 30, 39, 40, 41, 46, 48, 49 Sennett 213 Senofonte 23 Serres 25, 35, 79n, 119, 115, 116, 117, 118, 119, 120, 121, 123, 137, 159 Shachar 198n Simondon 131, 132, 136n, 138n, 142, 143, 144, 145, 150, 154 Simonse 174n, 189n

253

Sloterdijk 213 Smith 46n Sperber 50n Stendhal 58, 59, 61, 62, 63, 168 Stiegler 11, 17, 18, 19, 44n, 45, 52, 122n, 123, 131, 133, 134, 135, 136, 137, 138, 139, 140n, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 148, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 159, 160, 168, 193, 194, 195, 212, 219, 220, 221, 222, 223, 224, 227n Tarot 87n Tauber 203n, 206n, 207n, 208n Tito Livio 23, 24, 25, 26, 27, 28, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 68, 127 Tocqueville de 18, 59 Tomelleri 61n Tuomela 40n Tyrrell 9, 76n, 147n, 169n Vanheeswijck 182n Vanicek 29, 30n, 39 Vannucci 111n Varrone 29, 30 Vattimo 11, 12n, 13n, 14, 43, 52, 86n, 145n, 149n, 164, 167n, 183, 184, 185, 195, 198, 212, 215, 216, 218n, 219, 220, 221n, 226 Veca 43n Verdier 173, 174, 176 Vernant 71n, 89n, 208, 209, 210 Vinolo 75n Wells 229 Whelan 211n

Finito di stampare ottobre 2013 da Digital Team - Fano (PU)