La memoria
 8815232575, 9788815232571

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La memoria

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

ISBN

978-88-15-23257-1

Edizione originale: Memory, Hove, Psychology Press, 2009. Copyright © 2009 by Psychology Press. All Rights Reserved. Authorised translation from the English language edition published by Psychology Press, a member of the Taylor & Francis group. Copyright © 2011 by Società editrice il Mulino, Bologna. Traduzione di Maurizio Riccucci. Edizione italiana a cura di Cesare Cornoldi.

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, ripro­ dotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

p.

Prefazione

L

Che cos’è la memoria?

1. 2. 3, 4. 5. 6, 7. 8. 9. IL

La memoria a breve termine 1. 2. 3. 4. 5. 6, 7.

IIL

Perché abbiamo bisogno della memoria? La memoria: una o molte? Teorie, mappe e modelli Quanti tipi di memoria ci sono? Memoria sensoriale Memoria a breve termine e di lavoro Memoria a lungo termine Memoria quotidiana Sommario

Memoria a breve termine e memoria di lavoro: qual è la differenza? Lo span di memoria Due tipi di memoria? Modelli della memoria a breve termine verbale Teorie alternative della memoria a breve termine verbale Memoria a breve termine visuo-spaziale Sommario

La memoria di lavoro 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Il modello multicomponenziale Immagini visive e taccuino visuo-spaziale L’esecutivo centrale Il buffer episodico Differenze individuali nella memoria di lavoro Teorie della memoria di lavoro

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13

13 14 15 18 19 23 23 26 30 33 33 34 37 42 48 50 58

61 64 71 76 79 82 84

6

INDICE

7. 8.

IV.

L’apprendimento 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13.

V

Significato e memoria Apprendimento e predicibilità Livelli di elaborazione I limiti dei livelli «Transfer-appropriate processing» Perché una codifica più profonda è migliore? Organizzazione e apprendimento La memoria e il cervello La memoria episodica e il cervello negli individui sani Sommario

La memoria semantica e l’immagazzinamento della conoscenza 1. 2. 3. 4. 5. 6.

VII.

Velocità di apprendimento Pratica distribuita Recupero a intervalli crescenti L’importanza della fase di test L’importanza dell’informazione di feedback La motivazione ad apprendere Ripetizione e apprendimento Apprendimento implicito Apprendimento e coscienza Come spiegare la memoria implicita L’apprendimento e il cervello Apprendimento implicito nel cervello Sommario

Memoria episodica: organizzazione e ricordo

1. 2. 3. 4, 5. 6. 7. 8. 9. 10. VI.

La neuroscienza della memoria di lavoro Sommario

Memoria semantica e memoria episodica L’immagazzinamento di concetti semplici L’organizzazione della memoria semantica nel cervello L’apprendimento di nuovi concetti Schemi Sommario

p.

88 93 95

96 98 100 101 103 104 105 108 117 118 118 121 123

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130 132 132 134 135 136 138 142 143 146 149 150 152 159 164 167 174

La memoria autobiografica

177

1. Perché abbiamo bisogno di una memoria autobiografica? 2. Metodi di studio 3. Una teoria della memoria autobiografica 4. Amnesia psicogena 5. Deficit di memoria autobiografica su base organica 6. La memoria autobiografica e il cervello 7. Sommario

177 178 185 198 201 201 205

INDICE

Vili.

Il recupero

«Sulla punta della lìngua» Il processo dì recupero: principi generali Fattori che determinano la riuscita del recupero Suggerimenti contestuali Compiti di recupero L’importanza del contesto incidentale nel recupero di ricordi episodici 7. Memoria di riconoscimento 8. Il monitoraggio della fonte 9. Sommario

p.

208 209 211 218 219

1. 2. 3. 4. 5. 6.

IX.

L’oblio incidentale 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

X.

Una memoria fuori del comune Un dato fondamentale sull’oblio Sulla natura dell’oblio Fattori che ostacolano l’oblio Fattori che facilitano l’oblio incidentale Una visione funzionale dell’oblio incidentale Sommario

229 235 236 239

240 241 244 245 247 266 266 269

La vita è bella (o così la ricordiamo) La ricerca sull’oblio motivato: problemi terminologici Fattori alla base dell’oblio motivato Fattori alla base del recupero dei ricordi perduti Recuperare il ricordo perduto di untrauma: un caso di oblio motivato? 6. Sommario

270 271 273 284

L’amnesia

303

293 300

Lo studio dell’amnesia Terminologia Amnesia anterograda Teorie dell’amnesia Amnesia retrograda Sommario

304 305 306 309 315 325

La memoria nell’infanzia

327

1. 2. 3. 4. 5. 6.

XIL

222

L’oblio motivato 1. 2. 3. 4. 5.

XL

207

1. 2. 3. 4. 5.

La memoria nella prima infanzia Lo sviluppo della memoria durante l’infanzia Memoria autobiografica e amnesia infantile I bambini come testimoni Sommario

328 335 344 350 356

7

8

INDICE

XIII.

Memoria e invecchiamento 1. 2. 3. 4. 5. 6.

XIV

2. 3. 4. 5.

I principali fattori che influenzano l’accuratezza dei testimoni oculari Il ricordo di facce Procedure adottate dalla polizia con i testimoni oculari Dal laboratorio all’aula di tribunale Sommario

La memoria prospettica

1. 2. 3. 4. 5. 6. XVI.

Memoria di lavoro e invecchiamento Invecchiamento e memoria a lungotermine Teorie dell’invecchiamento L’invecchiamento del cervello La malattia di Alzheimer Sommario

La valutazione della memoria prospettica Quali sono le cause degli incidenti aerei? Tipi di memoria prospettica Invecchiamento e memoria prospettica Prospettive teoriche Sommario

Come migliorare la nostra memoria 1. 2. 3,

Tecniche per migliorare la memoria Prepararsi agli esami Sommario

359 363 365 374 376 379 385

La testimonianza oculare 1.

XV

p.

387

388 400 408 411 416

419 421 423 426 428 430 434

437 438 452 463

Riferimenti bibliografici

467

Indice analitico

517

Anni fa, Alan Baddeley accettò l’invito a scrivere un libro sulla memoria per il pubblico dei non specialisti. Il risultato, La memoria. Come funziona e come usarla (Roma-Bari, Laterza, 2001), aveva la struttura di un corso introduttivo sulla memoria, ma illustrava le sue tesi con osservazioni personali e con i risultati degli studi sulla memoria quotidiana. Pur non essendo stato concepito come un manua­ le, il libro fu adottato in più di un corso universitario sulla memoria, sia nella sua versione iniziale sia in una versione leggermente modificata, riscuotendo il favore degli studenti, che ne apprezzavano l’approccio informale. Negli anni successivi lo studio della memoria ha fatto registrare importanti sviluppi; in particolare, è oggi disponibile un esteso corpo di ricerche sulla memoria quotidiana. Di qui l’idea di un nuovo libro che, mantenendo le caratteristiche dell’originale, offrisse tuttavia una trattazione più ampia e aggiornata della memoria umana, in forma di libro di testo. Decidemmo di affrontare assieme questa impresa. Per mantenere il tono per­ sonale del libro, stabilimmo che ciascuno avrebbe scritto un gruppo di capitoli in base ai suoi interessi, senza attenersi necessariamente a uno stile comune. Ciascun capitolo, perciò, porta chiara la firma di uno dei tre autori. Chi voglia scrivere un libro sulla memoria si trova di fronte il problema di come strutturarlo. Dopo averci pensato su un bel po’, abbiamo scelto, secondo tradizio­ ne, di seguire il cammino dell’informazione nel sistema nervoso, partendo dalla memoria sensoriale e proseguendo con la memoria a breve termine e di lavoro, fino a giungere, passando per la memoria episodica, alla memoria semantica e all’accu­ mulazione delle conoscenze. Naturalmente sono molte e importanti le ricerche che, sulla base di questo impianto, affrontano temi come la memoria autobiografica, la memoria prospettica, lo sviluppo della memoria, gli effetti dell’invecchiamento e l’amnesia, e problemi applicativi come la testimonianza oculare e il miglioramento della memoria. Abbiamo deciso di trattare questi temi in capitoli separati, ma in modo non esclusivo. Ciò significa che un certo argomento potrà essere trattato più di una volta, spesso da più di un autore. La si può considerare una sorta di «pratica distribuita»: un pregio piuttosto che un difetto. Un problema più serio è dato dalle limitazioni della semplice struttura del flusso dell’informazione. E ormai chiaro che l’informazione fluisce in entrambe le direzioni, e che la memoria è il risultato di un’alleanza fra diversi sistemi inte-

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PREFAZIONE

fattivi. Ad esempio, la memoria di lavoro ha un ruolo importante nell’apprendi­ mento a lungo termine, ma è a sua volta influenzata dalle conoscenze preesistenti. Cercheremo di rendere conto di questo stato di cose, ma senza complicarlo più del necessario. Un secondo problema concerne i differenti livelli di sviluppo della ricerca e della teoria nei vari settori. Cercheremo di affrontare ciascun argomento da una prospettiva storica, sia per l’influenza dei primi studi sugli sviluppi più recenti, sia perché di solito i primi studi sono concettualmente più semplici e possono servire da introduzione a quelli successivi, teoricamente più complessi. Tuttavia, benché questa impostazione possa funzionare bene all'interno dei singoli capitoli, non sempre è applicabile a un livello strutturale superiore. I capitoli sulla memoria a breve termine e sulla memoria di lavoro, ad esempio, descrivono un’area che ha avuto un enorme sviluppo a partire dagli anni Sessanta: le teorie sono diventate più profonde e più complesse, la relazione con la neuropsicologia e le tecniche di neuroimaging è divenuta più stretta, il campo di applicazione si è ampliato. Altre aree non meno importanti sono più facili da comprendere. Ad esempio, i fenomeni e i principi fondamentali relativi all’organizzazione dell’apprendimento a lungo termine sono stati chiariti già in quegli anni, e vi è poco spazio per nuovi sviluppi. Molte applicazioni più recenti, come gli studi sulla memoria autobiografica e sulla memoria prospettica, si trovano in uno stadio di sviluppo teorico relativamente iniziale e, di conseguenza, i capitoli su questi argomenti presentano probabilmente minori difficoltà. Abbiamo cercato di strutturare il libro in modo che i lettori, sulla base dei propri interessi, possano scegliere percorsi di lettura differenti. Nel ventunesimo secolo, nessun libro sulla memoria che trascuri i più recenti sviluppi della neuroscienza può considerarsi completo. Michael Anderson e Alan Baddeley sono attualmente impegnati in studi di neuroimaging, Michael Eysenck e lo stesso Baddeley in studi su pazienti con disturbi neuropsicologici o emozionali. Tuttavia, anche se di questi sviluppi occorre tenere debitamente conto, quel che più ci interessa è la psicologia della memoria umana, qualcosa che, crediamo, può alimentare ulteriori sviluppi nella neuroscienza della memoria, ma anche continuare a offrire un solido fondamento per applicare le conoscenze acquisite in laboratorio ai molti problemi legati all’uso della memoria nella vita quotidiana.

PREFAZIONE

Non sarebbe stato possibile realizzare questo libro senza la pazienza, l’aiuto e il sostegno che abbiamo trovato alla Psychology Press; ringraziamo in particolare Lucy Kennedy, che ha avuto un ruolo importante nella progettazione del libro, e Rebekah Edmondson, Veronica Lyons e Tara Stebnicky, grazie alle quali le nostre idee hanno potuto tradursi in realtà, Siamo grati inoltre a Michael Forster, che ha proposto il libro e ne ha seguito la lunga gestazione con un entusiasmo che non è mai venuto meno. In particolare, io (Alan Baddeley) ho un grande debito di ri conoscenza verso Lindsey Bowes, che non solo ha messo per iscritto il mio confuso dettato, ma ha anche dato un prezioso aiuto per trovare riferimenti bibliografici e per superare i mille ostacoli tecnologici che affliggono chi, come me, ha una memoria semantica risalente a quando i computer erano ancora di là da venire. Sono grato a mia moglie Hilary per avermi sostenuto e per aver chiuso un occhio di fronte alle mie scuse per sfuggire ai lavori domestici di competenza maritale, qualche anno fa perché ero alle prese con un libro sulla memoria di lavoro, più recentemente perché ho cominciato a scrivere questo libro. Beh, è giunto il momento di tornare ai lavori di casa! Quanto a Michael Anderson, è profondamente grato a Elke Geraerts, che ha fornito preziosi commenti sulle stesure precedenti del libro e lo ha aiutato moltissimo nella prepa­ razione dei suoi capitoli. Le è molto riconoscente per le gustose baguette farcite fornitegli regolarmente a pranzo e per tutti quegli ovetti Kinder con la sorpresa dentro. Nulla come un ovetto di cioccolato assicura fluidità alla scrittura. Michael Anderson è molto grato anche a Justin Hurlbert, che ha fornito utili commenti sui suoi capitoli e ha preparato tutte le figure e le didascalie, i documenti integrativi PowerPoint e le biografie, il tutto con impareggiabile efficienza. Anche Michael Eysenck è estremamente grato alla moglie Christine per il suo costante sostegno. E da un quarto di secolo, dice, che sua moglie lo vede quasi ininterrottamente alle prese con libri da scrivere, e ormai ci si è abituata. Aggiunge di non avere nessuno da ringraziare per aver messo in bella copia i suoi capitoli, perché il lavoro di videoscrittura (non saprebbe dire quanto saggiamente) l’ha sempre sbrigato da sé.

Attribuzioni-. Alan Baddeley, capp. 1-5, 7, 11 e 13; Michael W. Eysenck, capp. 6, 12 e 14-16; Michael C. Anderson, capp. 8-10.

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Che cos’è la memoria?

La memoria è qualcosa di cui siamo soliti lamentarci. Perché? E perché fac­ ciamo tranquillamente affermazioni come «Ho una pessima memoria», ma non dichiariamo altrettanto serenamente «Sono incredibilmente stupido»? Che ci di­ mentichiamo delle cose è un fatto: a volte ci scordiamo di un appuntamento o non riconosciamo qualcuno che abbiamo già incontrato da qualche parte (o, più spesso, ne dimentichiamo il nome). Non ci accade spesso, invece, di dimenticare le cose importanti: se il promesso sposo non si presenta alla cerimonia di nozze e afferma poi di essersene dimenticato, chi sarà disposto a credergli? Analogamente, se incontriamo un vecchio conoscente ma non riusciamo a ricordare esattamente chi sia, forse dipende dal fatto che quella persona non è granché importante per noi. Dare la colpa alla nostra pessima memoria non è che una scusa. Nei capitoli che seguono cercheremo di dimostrare che la nostra memoria è in realtà più che buona, e tuttavia fallibile. Schacter [2001], dopo aver descritto quelli che chiama i «sette vizi della memoria», afferma che essi non sono altro che la conseguenza necessaria delle virtù che rendono la nostra memoria tanto ricca e flessibile. Siamo d'accordo. La nostra memoria potrà essere meno affidabile di quella di un normale computer, ma è altrettanto vasta, molto più flessibile e ben più maneggevole. Consideriamo, per cominciare, lo sfortunato caso di Clive Wearing, la cui capacità di memoria è stata in buona parte distrutta da una malattia [Wilson, Baddeley e Kapur 1995].

1. Perché abbiamo bisogno della memoria? Clive è un musicista di raro talento. Esperto di musica antica, era direttore di un importante coro londinese, e cantava egli stesso; aveva avuto l'onore di esibirsi di fronte a Giovanni Paolo II in occasione di una visita papale a Londra. Nel 1985, contrasse un'infezione cerebrale da herpes simplex, un virus presente in buona parte della popolazione, che in genere non provoca nulla più che un herpes facciale, ma qualche volta - molto di rado - attraversa la barriera emato-encefalica e provoca un'encefalite, un'infiammazione del cervello che può risultare fatale. Negli ultimi anni il trattamento è migliorato e i pazienti hanno più probabilità di sopravvivere;

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CAPITOLO 1

in molti casi però subiscono estesi danni cerebrali, di solito nelle aree deputate alla memoria. Quando si riebbe, Clive era gravemente amnesico e non riusciva a tenere a mente un’informazione per più di qualche secondo. Interpretava la sua condizio­ ne supponendo di avere appena riacquistato la coscienza, una cosa di cui subito informava i visitatori e che registrava ogni volta su un quadernetto, ogni volta cancellando la riga precedente e scrivendo «Ho appena riacquistato la coscienza» o «Adesso la coscienza è finalmente ritornata»; andò avanti così per anni e anni. Clive sapeva chi era ed era in grado di rievocare a grandi linee la sua vita pas­ sata, ma ne ricordava ben pochi dettagli. Sapeva di avere frequentato per quattro anni l’Università di Cambridge, ma non era in grado di riconoscere la fotografia del suo college. Ricordava, sia pure vagamente, gli avvenimenti principali della sua vita; sapeva di avere diretto la prima rappresentazione moderna del Messiah di Hàndel, e di aver usato strumenti originali nel contesto di un’accurata ricostruzione d’epoca, ed era in grado di parlare con cognizione dello sviluppo storico del ruolo del direttore musicale. Anche queste poche conoscenze erano però superficiali; aveva scritto un libro su un musicista rinascimentale, Orlande de Lassus, ma ne aveva dimenticato il contenuto. Quando gli fu chiesto chi aveva scritto Romeo e Giulietta^ non seppe rispondere. Si era risposato, ma non se ne ricordava. Tuttavia, salutava con grande trasporto la nuova moglie ogni volta che la vedeva, anche se era uscita dalla stanza pochi minuti prima, e ogni volta le diceva di avere appena riacquistato la coscienza. L’amnesia aveva reso Clive completamente inabile. Non era in grado di leg­ gere un libro o di seguire un programma televisivo, perché dimenticava subito la pagina o la scena precedenti. Se fosse uscito dalla stanza d’ospedale si sarebbe immediatamente perso. Era incatenato in un eterno presente, una condizione che descriveva come un «inferno in terra». «E come essere morti, morti in ogni male­ detto momento!». Esisteva però una parte della memoria di Clive che sembrava essere stata ri­ sparmiata: quella concernente la musica. Quando i membri del suo coro gli fecero visita, scoprì di essere ancora in grado di dirigerli. Sapeva leggere lo spartito di una canzone e cantare accompagnandosi al piano. Per qualche momento allora sembrava rientrare nel suo vecchio sé, per poi ripiombare nello sconforto non ap­ pena smetteva di suonare. Oggi, oltre vent’anni dopo, Clive è ancora gravemente amnesico, ma sembra essere venuto a patti con la sua terribile condizione: è più sereno e meno sofferente.

2. La memoria: una o molte?

Il caso di Clive mostra che la memoria è essenziale per la vita quotidiana, ma non ci dice granché sulla sua natura. Clive ha subito danni in diverse aree cerebrali, e i suoi problemi non si limitano all’amnesia. Inoltre, il fatto che la memoria e l’abilità musicale di Clive siano rimaste intatte fa pensare che la memoria non sia un sistema semplice e unitario. Altri studi hanno mostrato che i pazienti gravemente amnesici sono in grado di ripetere un numero telefonico - la qual cosa indica che la loro memoria immediata è integra - e possono apprendere abilità motorie a velocità normale. In realtà, i pazienti amnesici sono capaci di diversi tipi di apprendimen-

CHE COS’È LA MEMORIA?

to, come si può arguire dal miglioramento della prestazione, anche se non hanno memoria dell’esperienza di apprendimento e anche se di solito affermano di non essersi mai trovati prima nella stessa situazione. Tutto ciò fa pensare che non vi sia un singolo sistema di memoria globale, ma che il quadro sia più complesso. I primi capitoli del presente libro cercheranno di chiarire, almeno in parte, questo quadro, ponendo le basi per i capitoli successivi, concernenti l’importanza dei si­ stemi di memoria per la nostra vita, il modo in cui la memoria cambia nel cammino dall’infanzia all’età adulta e alla vecchiaia, e che cosa accade quando i sistemi di memoria si guastano. Nella nostra trattazione presenteremo ovviamente svariate teorie psicologiche. Le teorie si sviluppano e cambiano; persone diverse possono usare teorie diverse per spiegare gli stessi dati. Questo vale anche per la memoria: basta dare un’occhiata a qualunque rivista specializzata per averne conferma. Per fortuna, vi sono molte cose su cui gli studiosi di psicologia della memoria sono d’accordo, nonostante la tendenza a impiegare terminologie un po’ differenti. A questo punto, ci sembra il caso di spiegare brevemente che cosa intendiamo qui per teoria.

3. Teorie, mappe e modelli

Come dovrebbero essere fatte le teorie psicologiche? Negli scorsi anni Cin­ quanta, molti pensavano che dovessero somigliare alle teorie fisiche. Clark Hull studiò il comportamento di apprendimento dei ratti di laboratorio e cercò di co­ struire un’ambiziosa teoria generale che permettesse di predire il comportamento di apprendimento degli uomini non meno che dei ratti alla luce di una serie di postulati ed equazioni il cui modello esplicito erano le equazioni della meccanica newtoniana [Hull 1943]. Il grande rivale di Hull era Edward Tolman [1948], secondo il quale i ratti costruiscono «mappe cognitive», rappresentazioni interne dell’ambiente acquisite nell’attività di esplorazione. La controversia si protrasse dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, dopo di che cadde nel dimenticatoio. Entrambe le parti avevano scoperto che era necessario postulare rappresentazioni che andassero oltre la semplice associazione fra gli stimoli incontrati dal ratto e il suo comportamento appreso, ma nessuno sembrava in grado di risolvere il problema di come studiare tali rappresentazioni. Una teoria è qualcosa di simile a una mappa. Le teorie sintetizzano le nostre conoscenze in una forma semplice e strutturata che ci aiuta a comprendere ciò che sappiamo. Una buona teoria ci aiuta a porre nuove domande, e queste, a loro volta, ci aiutano a conoscere meglio ciò che stiamo studiando. La natura della teo­ ria dipende dalle domande cui vogliamo rispondere. Si pensi alla mappa di una città. Una mappa per viaggiare in metropolitana a Londra o a New York è molto diversa dal tipo di mappa che ci servirebbe per girare la città a piedi, ma nessuna delle due è una rappresentazione diretta di ciò che vedremmo con i nostri occhi se ci trovassimo in un certo luogo. Ciò naturalmente non significa che le mappe in questione siano mal costruite; al contrario: il fatto è che ogni mappa serve a uno scopo differente. Nel caso delle teorie psicologiche, teorie differenti adottano livelli di spiega­ zione differenti e hanno prospettive differenti. Un litigio fra un negoziante e un

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CAPITOLO 1

cliente, ad esempio, sarebbe spiegato in modo molto diverso da un sociologo (che potrebbe mettere l’accento sulle pressioni economiche e sociali), uno psicologo sociale (più attento alle relazioni interpersonali), uno psicologo cognitivo (inte­ ressato al linguaggio) e uno psicofisiologo (che potrebbe considerare le risposte emozionali dei due litiganti e a che cosa queste corrispondano nel cervello). Tutte queste spiegazioni sono istruttive e, in linea di principio, possono essere collegate Puna all’altra, ma nessuna di esse è l’interpretazione «corretta». Questa concezione è in contrasto con quello che è chiamato riduzionismo, se­ condo il quale l’obiettivo della scienza è ridurre ogni spiegazione al livello inferiore: la psicologia sociale dovrebbe essere ricondotta alla psicologia cognitiva; questa alla fisiologia; la fisiologia alla biochimica e, in ultima analisi, alla fisica. Essere in grado di spiegare i fenomeni a livelli differenti ma al tempo stesso connessi è indubbiamente utile, ma, in definitiva, è un po’ come se un fisico pretendesse che la progettazione dei ponti si basasse sulla meccanica delle particelle subatomiche anziché sulla meccanica newtoniana. L’obiettivo del presente libro è descrivere ciò che sappiamo sulla psicologia della memoria. Siamo convinti che una spiegazione a livello psicologico possa far luce sulle spiegazioni del comportamento umano a livello interpersonale e sociale, e possa avere un ruolo importante nella comprensione delle basi neurobiologiche dei diversi tipi di memoria. Riteniamo che la psicologia della memoria sia suffi­ cientemente sviluppata per cominciare ad affrontare fruttuosamente i problemi che si presentano a entrambi questi livelli, e cercheremo di dimostrarlo nei prossimi capitoli. Negli scorsi anni Sessanta, in un arco di tempo sorprendentemente breve, il centro di gravità dello studio dell’apprendimento e della memoria si spostò dall’analisi dell’apprendimento negli animali allo studio della memoria nell’uomo. Un orientamento che si affermò in quegli anni rifletteva una concezione della me­ moria che aveva le sue radici nell’opera di Hermann Ebbinghaus, filosofo tedesco del diciannovesimo secolo che per primo aveva dimostrato come fosse possibile studiare sperimentalmente la memoria. La tradizione di ricerca di Ebbinghaus era stata continuata e approfondita negli Stati Uniti, con particolare attenzione per i fattori e le condizioni che spie­ gano il modo in cui le nuove conoscenze interagiscono con quelle già possedute. I risultati erano interpretati in termini di associazioni fra stimolo e risposta, e veniva usata una limitata varietà di metodi, che di solito richiedevano la memorizzazione di liste di parole e non-parole [McGeoch e Irion 1952]. E questo l’approccio dell’apprendimento verbale. Esso si sviluppò fra gli anni Trenta e Sessanta del secolo scorso negli Stati Uniti, soprattutto nelle università del Midwest, e poneva l’accento sull’accurata mappatura dei fenomeni anziché sull’ambiziosa costruzio­ ne di grandi edifici teorici, come quello di Clark Hull. É quando le grandi teorie apparvero crollare, questo approccio noioso e antiquato, tacciato dai suoi critici di «arido empirismo», cominciò ad attrarre parecchi ricercatori interessati all’ap­ prendimento e alla memoria. Ne seguì la fondazione di una nuova rivista, «The Journal of Verbal Learning and Verbal Behavior», che poi, quando l’espressione «apprendimento verbale» passò di moda, divenne «The Journal of Memory and Language». In questo periodo si sviluppò un secondo orientamento, le cui radici affon­ davano sia in Europa sia nel Nord America. Negli anni Trenta, in Germania, la

CHE COS’È LA MEMORIA?

scuola della psicologia della Gestalt aveva cominciato ad applicare alla memoria umana un insieme di idee sviluppate nello studio della percezione. Diversamente dai comportamentisti, gli psicologi della Gestalt tendevano a dare più importanza alle rappresentazioni interne che non agli stimoli e alle rispóste osservabili, e a sottolineare il ruolo attivo della persona che ricorda. Molti psicologi gestaltisti subirono le conseguenze delle persecuzioni naziste, ma diversi di essi emigrarono nel Nord America, dove gettarono i semi di un approccio alternativo all’apprendi­ mento verbale, un approccio che dava molta più importanza al ruolo attivo della persona che apprende nell’organizzare il materiale. Questo fu l’orientamento di due importanti ricercatori nati in Europa ma formatisi in Nord America: George Mandler e Endel Tulving. In Gran Bretagna si sviluppò un terzo approccio alla memòria, illustrato da Frederic Bartlett nel suo Remembering [1932]. Bartlett negava che l’apprendimen­ to di materiale senza significato permettesse di studiare utilmente la memoria, e impiegava invece materiali complessi (ad esempio favole tratte da altre tradizioni culturali), sottolineando il ruolo dell’effort after meaning, lo sfòrzo per cogliere il significato compiuto dalla persona che ricorda. Questo approccio dava grande importanza allo studio degli errori di memoria che commettiamo normalmente, spiegandoli nei termini delle nostre assunzioni culturali sul mondo. Bartlett faceva dipendere tali assunzioni da rappresentazioni interne che egli chiamava schemi. Il suo approccio, basato com’era su compiti abbastanza complessi, differiva radical­ mente dalla tradizione di Ebbinghaus; tuttavia, come gli eredi ai Tolman e Hull, Bartlett aveva ancora il problema di trovare il modo di studiare queste elusive rappresentazioni interne del mondo. Una possibile soluzione cominciò a prendere forma negli anni della Seconda guerra mondiale grazie allo sviluppo dei computer. Matematici come Wiener [1950] negli Stati Uniti e fisiologi come Gray Walter [1953] nel Regno Unito descrissero macchine che davano prova di un tipo di controllo simile al comportamento fina­ listico. Negli anni Quaranta, Kenneth Craik [1943], uno psicologo scozzese che lavorava con Bartlett a Cambridge, scrisse un breve ma influente libro dal titolo Phe Nature of Explanation, nel quale proponeva di rappresentare le teorie come modelli e di usare i computer per sviluppare tali modelli. Egli realizzò quelli che probabilmente furono i primi esperimenti psicologici basati su qùesta idea, serven­ dosi di computer analogici (i computer digitali non erano stati ancora inventati) e applicando il suo modello teorico al problema pratico del puntamento dei cannoni dei carri armati. Purtroppo Craik morì prematuramente in un incidente stradale nel 1945. Il nuovo approccio alla psicologia basato sulla metafora del computer fu adotta­ to da parecchi giovani ricercatori, e dopo la guerra l’idea dell’elaborazione dell’in­ formazione divenne sempre più influente. Due libri furono particolarmente impor­ tanti. Donald Broadbent [1958], nel suo Perception and Communication, sviluppò e applicò le idee fondamentali di Craik in un serie di ricerche condotte presso la Medicai Research Council Applied Psychology Unit di Cambridge, in Inghilterra; molte di esse derivavano da problemi pratici presentatisi durante la guerra. Nove anni dopo, queste ricerche trovarono una brillante sintesi in Un libro di Ulric Neisser [1967], il cui titolo diede il nome al nuovo campo: Cognitive Psychology. In analogia con il computer digitale, possiamo dire che la memoria umana com­ prende uno o più sistemi di immagazzinamento. Qualunque sistema di memoria

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- fisico, elettronico o umano - richiede tre cose: la capacità di codificare, ovvero di immettere l’informazione nel sistema; la capacità di immagazzinare tale infor­ mazione; e, successivamente, la capacità di trovarla e recuperarla. Benché queste tre fasi abbiano funzioni differenti, esse interagiscono: il metodo di registrazione o di codifica del materiale determina quali informazioni siano immagazzinate e in che modo, e ciò, a sua volta, pone limiti a quel che potrà essere recuperato successivamente. Si consideri un semplice dispositivo di memoria fisica: una lista della spesa. Se deve servire allo scopo, dovrà essere scritta in modo leggibile in un linguaggio comprensibile per il destinatario. Se la lista dovesse bagnarsi, l’inchio­ stro sbaverebbe (immagazzinamento danneggiato) e la lista diventerebbe meno chiara e più difficile da leggere (recupero). Il recupero sarebbe più difficile se la grafia fosse cattiva (interazione codifica-recupero) o se lo scritto si macchiasse (interazione immagazzinamento-recupero). Le cose sono ulteriormente complicate dal fatto che i nostri ricordi implicano non uno solo ma diversi sistemi di memoria interconnessi.

4. Quanti tipi di memoria ci sono? Con l’accrescersi dell’influenza dell’approccio cognitivo, l’idea di un singolo sistema di memoria basato su associazioni stimolo-risposta fu lasciata cadere in favore dell’idea che fossero all’opera due, tre o forse più sistemi di memo­ ria. La figura 1.1 illustra il quadro generalmente accettato negli anni Sessanta. L’informazione proviene dall’ambiente ed è elaborata dapprima da una serie di sistemi di memoria sensoriale, che si possono concepire come un’interfaccia fra la percezione e la memoria. Da qui l’informazione passa in un sistema tempo­ raneo di memoria a breve termine, e poi viene registrata nella memoria a lungo termine. Un esempio particolarmente influente di questo modello fu descritto da Atkinson e Shiffrin [1968]. Fu denominato modello modale (nel senso di «vicino alla moda statistica»), poiché era rappresentativo di buona parte dei modelli del funzionamento della memoria umana in voga in quegli anni. Come vedremo, diverse assunzioni alla base di questo modello furono poi messe in dubbio, ed esso fu rielaborato. Quanti tipi di memoria vi siano resta una questione controversa. Alcuni obiettano all’idea stessa di un magazzino di memoria perché è qualcosa di trop­ po statico, e sostengono che dovremmo occuparci piuttosto di processi [Nairne 1990; 2002; Neath e Surprenant 2003]. Questi studiosi mettono l’accento sulle somiglianze che si possono osservare in compiti di memoria molto differenti, e sostengono che tali compiti sono basati su processi condivisi, e perciò su un sistema di memoria unitario. La nostra posizione è che si debba tener conto sia delle strutture (quali i magazzini di memoria) sia dei processi che operano su di esse, proprio come un’analisi del cervello richiede sia la descrizione delle caratte­ ristiche anatomiche statiche sia una più dinamica considerazione della fisiologia, E certamente utile cercare le somiglianze nel modo in cui questi sistemi operano in domini differenti, ma le caratteristiche comuni non dovrebbero farci ignorare le differenze. Per fortuna, che si dia maggior peso alle somiglianze o alle differenze, il quadro generale resta lo stesso. In questo libro useremo la classificazione dei diversi tipi

CHE COS ’È LA MEMORIA?

Ambiente

Memoria sensoriale

Memoria a breve termine

Memoria a lungo termine

Fig. 1.1. La memoria secondo l’approccio dell’elaborazione dell’informazione. L’informazione che proviene

dall’ambiente passa per il magazzino sensoriale e il magazzino a breve termine fino a raggiungere la memoria a lungo termine.

di memoria per organizzare e strutturare ciò che sappiamo della memoria umana. Assumiamo che vi siano sistemi di memoria distinti di tipo sensoriale, a breve termine e a lungo termine, ciascuno dei quali può essere suddiviso in componenti separate. Non assumiamo però che vi sia un semplice flusso dell’informazione dall’ambiente alla memoria a lungo termine, come fa pensare la figura 1.1: è ab­ bondantemente provato che il flusso dell’informazione procede in entrambe le direzioni. Ad esempio, la conoscenza del mondo, immagazzinata nella memoria a lungo termine, può influenzare la focalizzazione dell’attenzione, che determina a sua volta ciò che entra nei sistemi di memoria sensoriale, il modo in cui viene elaborato, e se sarà ricordato. Cominceremo con una breve trattazione della memoria sensoriale. Essa, che fu molto studiata negli scorsi anni Sessanta, offre una buona illustrazione dei principi generali di codifica, immagazzinamento e recupero. Tuttavia, dato che la memoria sensoriale ha a che fare con la percezione piuttosto che con la memoria, non vi torneremo nel resto del libro. La nostra panoramica prosegue con una trattazione introduttiva della memoria a breve termine e di lavoro, per poi passare a una illu­ strazione sommaria della memoria a lungo termine.

5. Memoria sensoriale Siete in una stanza buia e avete in mano una candelina scintillante di quelle che si usano a Capodanno. Se muovete rapidamente la candelina, essa lascerà dietro di sé una scia che poco dopo svanisce. Il fatto che l’immagine persista abbastanza a lungo da generare una scia visibile sta a indicare che l’immagine, in qualche modo, è stata mantenuta in memoria, e il fatto che la scia svanisca implica una semplice forma di oblio. Questo fenomeno è alla base del cinematografo; viene presentata rapidamente una sequenza di immagini statiche, inframmezzate da intervalli vuoti, ma quel che percepiamo è un’immagine continua in movimento. Ciò avviene perché il sistema percettivo conserva l’informazione visiva abbastanza a lungo da riempire le lacune fra le immagini statiche, integrando ciascuna immagine con la successiva, quasi uguale alla precedente. Nei primi anni Sessanta, negli Stati Uniti, alcuni ricercatori dei Bell Laboratori­ es adottarono l’approccio dell’elaborazione dell’informazione per analizzare questo sistema temporaneo di memoria visiva [Sperling 1960; 1963; Averbach e Sperling 1961], che ricevette poi il nome di memoria iconica. Sperling [1960] presentava per breve tempo una matrice di dodici lettere (tre righe di quattro lettere ciascu­ na), e poi chiedeva ai soggetti di rievocarla (fig. 1.2). I soggetti di solito erano in grado di ricordare correttamente quattro o cinque lettere. Sevi cimentate in questo

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compito, tuttavia, avrete la sensazione di vederne più di quattro o cinque, di cui però perdete il ricordo prima di poterle nomi­ nare, Per sfuggire al problema del?oblio delle lettere nel momento in cui dovevano essere nominate, una possibilità è presen­ tare la stessa matrice riducendo il nume­ ro di lettere da riportare ma senza dire in anticipo ai soggetti quali lettere dovranno rievocare. Sperling richiedeva ai soggetti di riportare le lettere di una sola delle tre righe. Per indicare la riga da rievocare, si FlG. 1.2, Configurazione di stimolo usata da serviva di un segnale acustico: un suono Sperling, Venivano presentate 12 lettere, ma i alto per la riga superiore, un suono medio soggetti dovevano ricordare solo la riga indicata per la riga di mezzo, un suono basso per la da un segnale acustico (alto, medio o basso). riga inferiore. Siccome lo sperimentatore non diceva in anticipo ai soggetti quale ri i sarebbe stata segnalata, il risultato ottenuto poteva essere considerato rappresentativo dell’intera matrice; bastava moltiplicare il punteggio per tre per ottenere una stima del numero totale di lettere mantenute in memoria. Come si vede nella figura 1.3, il risultato è influenzato dal momento in cui è presentato il segnale. Quando la rievocazione è immediata, il risultato rappresenta una stima della capacità massima del magazzino di memo­ ria; il peggioramento della prestazione quando il segnale acustico viene ritardato rappresenta la perdita di informazione. Si noti che nella figura 1.3 appaiono due curve. Una è il risultato della presentazione di un campo visivo luminoso prima e dopo le lettere, l’altra rappresenta il caso in cui le lettere sono precedute e seguite da un campo visivo buio. Un esperimento successivo [Sperling 1963] ha mostrato che quanto più luminoso è il campo, tanto peggiore è il risultato; ciò fa pensare che la luce interferisca in qualche modo con la traccia mnestica (mascheramento). In effetti, sopo state osservate due forme distinte di interferenza, solo una delle quali sembra dipendere dall’energia luminosa della maschera interferente. Se la maschera possiede contorni visivi vi è un secondo effetto di interferenza. La luminosità del campo ha effetto solo quando le lettere e il flash di luce sono presentati allo stesso occhio; ciò indica che l’interferenza precede la combinazione delle informazioni provenienti dai due occhi. L’effetto di mascheramento dovuto ai contorni ha Iqogo anche quando lo stimolo e la maschera sono presentati a occhi differenti} ciò indica che l’interferenza ha luogo dopo la combinazione delle informazioni provenienti dai due occhi [Turvey 1973]. Ci si può chiedere se la richiesta di rievocare quattro lettere non possa provo­ care un’interferepza che fa sottostimare la capacità di immagazzinamento visivo. Si direbbe di no, visto che si ottengono risultati simili con una singola lettera, indicata da una barra posta in corrispondenza della sua posizione. La natura vi­ siva del magazzino è testimoniata dal fatto che per indicare gli item da rievocare è possibile utilizzare una varietà di attributi visivi, come il colore, le dimensioni o la forma: ad esempio, è possibile richiedere di rievocare le lettere rosse [Turvey e Kravetz 1970; yon Wright 1968]; non è possibile invece utilizzare un attributo non fisico, ad esempio non è possibile richiedere le cifre di un insieme di lettere e cifre [Sperling I960].

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CHE COS’È LA MEMORIA?

Fig. 13. Numero stimato di lettere disponibili in funzione dell’intervallo di rievocazione (metodo di reso­

conto parziale).

Fonte: Sperling [1963].

Sperling interpretava i suoi risultati supponendo che le lettere fossero tra­ sferite da un magazzino visivo periferico, a una velocità di circa una lettera ogni 10 millisecondi, in un magazzino di memoria più duraturo, che chiamò buffer di riconoscimento {recognition buffer). Questo magazzino è in grado di mantenere l’informazione in una forma che permette ai soggetti di riportarla, un processo che, suggeriva Sperling, opera a una velocità molto più bassa delle 100 lettere al secondo trasferite dal magazzino visivo periferico. Nella sua successiva analisi di questo lavoro, Neisser [1967] diede a questo magazzino di memoria visiva a brevissimo termine il nome di memoria iconica. Tale magazzino ha un analogo uditivo, cui Neisser diede il nome di memoria ecoica. Se dovete ricordare un numero telefonico, farete errori di tipo differente a seconda che quel numero l’abbiate udito o letto. In una presentazione visiva, la probabilità di errore aumenta sistematicamente dall’inizio alla fine della sequenza; invece, come si vede nella figura 1.4, in una presentazione uditiva l’ultima o le ultime due cifre hanno più probabilità di essere corrette rispetto agli item in po­ sizione centrale [Murdock 1967]. Questo effetto di recenza può essere eliminato frapponendo un altro stimolo verbale tra presentazione e rievocazione, anche se lo stimolo non richiede di essere elaborato ed è sempre uguale (ad esempio,

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Fig. 1.4. Rievocazione seriale di una lista di nove item seguita da un item aggiuntivo, il suffisso, che poteva

essere la parola zero o il suono di un cicalino.

Fonte'. Crowder [1972].

viene prodotto premendo un tasto) [Conrad I960]. In una serie di esperimenti, Crowder e Morton [1969; Crowder e Raeburn 1970; Crowder 1971] hanno mo­ strato che la natura di questo suffisso è critica. Un suffisso visivo o un suffisso uditivo non linguistico, come un cicalino, non peggiorano la prestazione, come invece fa un suffisso verbale, indipendentemente dal suo significato. Alla base del?effetto di recenza uditivo, secondo Crowder e Morton, vi è quel­ lo che essi chiamano «magazzino precategoriale acustico». Tuttavia, la questione se il processo responsabile del?effetto di recenza uditivo abbia a che fare con la memoria o con la percezione resta controversa [Jones, Hughes e Macken 2007; cfr. anche Baddeley e Larsen 2007]. Interpretazioni a parte, l’effetto di recenza uditivo è sufficientemente forte e «robusto» da giocare un ruolo potenzialmente importante negli studi sulla memoria verbale a breve termine, ed è stato anche proposto come un modo alternativo di spiegare le prestazioni nei compiti di memoria verbale a breve termine [Jones, Hughes e Macken 2007]. Torneremo su questo punto quando parleremo della memoria a breve termine. Per il momento, ci limitiamo a osservare che sembra probabile che una spiegazione adeguata della memoria ecoica dovrà essere integrata in una teoria più generale della percezione del linguaggio.

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6. Memoria a breve termine e di lavoro

Poiché questo argomento, insieme con la memoria a lungo termine, occupa una parte importante del libro, ci limiteremo qui a una trattazione molto sommaria. Use­ remo ? espressione memoria a breve termine (MBT) in modo teoricamente neutro, per riferirci all’immagazzinamento temporaneo di piccole quantità di informazione per brevi intervalli di tempo. Ciò lascia impregiudicata la questione di come avvenga tale immagazzinamento. Nella maggior parte dei casi, se non in tutti, è probabile che la prestazione sia influenzata dalla memoria a lungo termine, e di questa influenza occorre tener conto nello studio dei sistemi in cui l’immagazzinamento dell’in­ formazione è meno duraturo. Molte delle ricerche in questo campo hanno usato materiale verbale, e non vi è dubbio che anche quando gli stimoli non sono verbali la ripetizione verbale ci permetta di tenere fermo il livello della prestazione per un breve intervallo di tempo (cfr. cap. 2). E tuttavia importante tenere a mente che la MBT non riguarda solo il materiale verbale, e che essa è stata estesamente studiata in relazione all’informazione spaziale e visiva (non però in relazione all’olfatto e altatto). Il concetto di memoria dì lavoro poggia sull’assunto che vi sia un sistema per la ritenzione e la manipolazione temporanea dell’informazione, e che esso ci aiuti a svolgere molti compiti complessi. Sono stati proposti molti modelli differenti della memoria di lavoro, la natura di ciascuno dei quali dipende dagli interessi e dalla prospettiva teorica di chi lo propone. La maggior parte degli studiosi, comunque, assume che la memoria di lavoro sia una sorta di spazio di lavoro mentale che offre una base al pensiero. Molti ritengono che essa sia associata all’attenzione e abbia la possibilità di attingere ad altre risorse nella memoria a breve e a lungo termine [Miyake e Shah 1999a]. Non tutti gli approcci pongono l’accento sulla memoria più che sull’attenzione. Un esempio è il modello multicomponenziale proposto da Baddeley e Hitch nel 1974 per mettere in relazione gli studi sulla psicologia e la neuropsicologia della MBT con le funzioni che essa svolge in importanti attività cognitive come il ragionamento, la comprensione e l’apprendimento. Questo ap­ proccio continua a dimostrarsi produttivo da oltre trent’anni [Baddeley 2007] ed è al centro del terzo capitolo, che riguarda la memoria di lavoro.

7. Memoria a lungo termine

Adotteremo qui la classificazione della memoria a lungo termine (MLT) pro­ posta da Squire [1992a]. Come si vede nella figura 1.5, questa classificazione traccia una prima distinzione fra la memoria esplicita o dichiarativa e la memoria implicita o non dichiarativa. La memoria esplicita si riferisce alle situazioni nelle quali normalmente pensiamo sia in gioco la memoria: il ricordo di eventi particolari, ad esempio l’avere incontrato per caso un amico l’estate scorsa al mare, ma anche il ricordo di fatti o conoscenze sul mondo, ad esempio il significato della parola testimonianza o il colore di una banana matura. La memoria implicita si riferisce alle situazioni in cui vi è stato apprendimento, ma un apprendimento che influenza la prestazione senza tradursi in ricordi espliciti: ad esempio, andare in bicicletta o leggere la scrittura a mano di un amico più facilmente perché la si è vista spesso in passato. Di seguito illustreremo brevemente questi tipi di memoria, rimandando ai capitoli successivi per una trattazione più approfondita.

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Fig. 1,5. Componenti della memoria a lungo termine secondo Squire [1992a].

7.1. Memoria esplicita Come si vede nella figura 1.5, vi sono due tipi di memoria esplicita: la memoria semantica e la memoria episodica. Negli scorsi anni Sessanta, gli scienziati che si cimentarono nell’impresa del?elaborazione automatica del linguaggio scoprirono che i loro programmi di computer dovevano includere una qualche forma di co­ noscenza del mondo, una conoscenza che potesse rappresentare il significato delle parole in via di elaborazione. Ciò spinse gli psicologi a studiare il modo in cui gli esseri umani immagazzinano l’informazione semantica. In un convegno organiz­ zato per discutere di questi nuovi sviluppi, lo psicologo canadese Endel Tulving [1972] propose una distinzione che fu immediatamente adottata e che da allora è stata largamente utilizzata, quella fra memoria semantica e memoria episodica. La memoria semantica concerne la conoscenza del mondo. Essa va oltre la semplice conoscenza del significato delle parole e abbraccia gli attributi sensoriali, come il colore di un limone o il gusto di una mela. La memoria semantica comprende anche la conoscenza generale del modo in cui la nostra società funziona, ad esempio che cosa fare quando si va al ristorante o come prenotare un posto a teatro. E una co­ noscenza di carattere generale, benché, in linea di principio, possa essere acquisita in un sol colpo. Se qualcuno vi dice che un vostro vecchio amico è morto, questa notizia probabilmente entrerà a far parte delle vostre conoscenze generali su quella persona, e perciò della vostra memoria semantica, anche se potete benissimo finire con il dimenticare dove o quando Pavere acquisita. Se poi ricordate dove, quando e in quale occasione avete appreso la triste no­ tizia, avete fatto ricorso alla memoria episodica, il tipo di memoria che è alla base della nostra capacità di ricordare episodi o eventi particolari. Di conseguenza, uno stesso evento può essere registrato in tutti e due i tipi di memoria. Tulving [2002] limita Fuso dell’espressione «memoria episodica» alle situazioni in cui riaffiora in noi qualche aspetto dell’esperienza originale, ad esempio quando ricordate quanto

CHE COS’È LA MEMORIA?

vi avesse sorpreso il fatto che quel tizio conoscesse il vostro vecchio amico. Tulving parla a questo proposito di viaggio mentale nel tempo e sottolinea la sua utilità, sia perché ci permette di rievocare e «rivivere» particolari eventi, sia perché possiamo usare questa informazione per pianificare un’azione futura, ad esempio inviare un biglietto di condoglianze a qualcuno. E questa capacità di acquisire e recuperare il ricordo di eventi particolari che tende a venir meno nei pazienti amnesici, ed è la sua mancanza che ha reso la vita di Clive Wearing difficile fino all’intollerabile. Che relazione c’è fra la memoria semantica e quella episodica? Una possibilità è che la memoria semantica sia semplicemente il precipitato di una pluralità di episodi. Ad esempio, io so che Madrid è la capitale della Spagna non solo perché me l’hanno insegnato a scuola, ma anche perché ho incontrato questo dato in in­ numerevoli notizie di stampa e l’ho visto confermato quando sono stato a Madrid. A conferma del ruolo della memoria episodica nella formazione della memoria semantica, i pazienti amnesici generalmente hanno difficoltà a costruire nuove conoscenze semantiche. Spesso non sanno il nome dell’attuale presidente degli Stati Uniti, o in quale anno siamo, o quale squadra è in testa al campionato del loro sport preferito. In conclusione, se è vero che la memoria semantica e quella episodica possono essere basate su sistemi separati, è vero anche che esse intera­ giscono [ibidem}.

7.2. Memoria implicita

Nei pazienti amnesici si osserva non solo un grave deterioramento della memo­ ria episodica, ma anche una forte riduzione della capacità di immagazzinare nuove conoscenze sul mondo. Vi sono tuttavia alcune situazioni in cui l’apprendimento sembra procedere in modo normale, e lo studio delle capacità che restano intatte nei pazienti amnesici ha avuto una importante influenza sullo sviluppo del concetto di memoria implicita o non dichiarativa. Alcune di queste capacità sono elencate nella figura 1,5. Un tipo di apprendimento che resta intatto è il semplice condizionamento classico. Se un suono è seguito da un breve soffio d’aria indirizzato in un occhio, i pazienti amnesici imparano ad ammiccare in anticipo con quell’occhio [Weiskrantz e Warrington 1979]. L’apprendimento avviene normalmente, ma essi non ricordano l’esperienza e non sanno dire che funzione abbia l’ugello che emette il soffio d’aria. I pazienti amnesici possono anche apprendere abilità motorie e, con l’esercizio, possono migliorare la capacità di mantenere l’estremità di una bacchetta a contatto con un punto luminoso in movimento [Brooks e Baddeley 1976]. Warrington e Weiskrantz [1968] hanno mostrato che nei pazienti gravemente amnesici, in certe condizioni, la capacità di apprendimento di parole è risparmiata. Essi presentavano ai pazienti una lista di parole non correlate e poi saggiavano la ritenzione di queste parole in una varietà di modi. Quando i pazienti dovevano rievocare le parole o riconoscere in una lista di parole quelle presentate in precedenza, i risultati erano pessimi. Ma quando il tipo di compito cambiava, e diventava quello di «indovinare» una parola a partire dalle prime lettere, sia i pazienti sia i soggetti normali avevano più probabilità di «indovinare» le parole già incontrate (ad esempio, dopo avere visto la parola gatto, indovinare una parola che cominci con go,—'). I pazienti erano in grado di mettere a frutto l’esperienza passata, pur non ricordando di aver visto

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alcuna parola in precedenza, a dimostrazione che qualcosa era stato immagazzinato. Questo fenomeno, noto come priming, si presenta in una varietà di compiti per­ cettivi, visivi e uditivi, e può manifestarsi anche nel?apprendimento di attività più complesse, ad esempio leggere un testo riflesso in uno specchio [Cohen e Squire 1980] o ricomporre un puzzle [Brooks e Baddeley 1976]. Visto che tutti questi sono esempi di apprendimento e memoria impliciti, si può concludere che essi siano basati su uno stesso sistema di memoria? Anche se vi è chi continua a cercare di spiegarli nei termini di un unico sistema [cfr. Neath e Surprenant 2003], la nostra tesi è che essi abbiano delle caratteristiche in comune, ma rappresentino sistemi di apprendimento differenti, che usano parti differenti del cervello evolutesi per svolgere funzioni differenti.

8. Memoria quotidiana

Finora abbiamo discusso il problema di come costruire una teoria della me­ moria umana che spieghi in che modo l’informazione viene codificata, imma­ gazzinata e recuperata. Tuttavia, se la nostra teoria deve essere utile oltre che informativa, essa dovrà essere applicabile anche fuori delle mura del laboratorio, e spiegare come funzionano i ricordi nella vita quotidiana. Essa deve andare oltre la popolazione studentesca, su cui si basa buona parte delle ricerche, e insegnar­ ci qualcosa sul funzionamento della memoria nei bambini e negli anziani, nelle differenti culture, nella salute e nella malattia. Affronteremo alcuni di questi temi nei prossimi capitoli. Com’è ovvio, è molto più difficile condurre esperimenti rigorosamente con­ trollati fuori del laboratorio, e di conseguenza la maggior parte dei lavori teorici descritti nei primi capitoli è basata su ciò che è stato scoperto in laboratorio. Vi è chi sostiene che le nostre ricerche non dovrebbero uscire dal laboratorio se non una volta raggiunta una comprensione completa della memoria (mentre altri, seguendo Bartlett, sostengono che ciò porterebbe a trascurare importanti aspetti della memoria). In risposta a questa concezione piuttosto conservatrice, nel 1978 un gruppo di psicologi organizzò a Cardiff, nel Galles, un convegno internazionale sugli aspetti pratici della memoria. L’iniziativa ebbe grande successo; studiosi di ogni parte del mondo presentarono i risultati delle loro ricerche su temi che anda­ vano dal ricordo delle informazioni mediche alle differenze tra i sessi nel ricordo dei volti, dagli esperti di calcolo mentale ai pazienti con lesioni cerebrali [Gruneberg, Morris e Sykes 1978]. Ulric Neisser fu invitato a tenere la relazione di apertura, nella quale criticò le tradizionali ricerche di laboratorio affermando che «se X è un aspetto della memoria interessante o socialmente significativo, allora X è stato studiato poco o punto dagli psicologi» [Neisser 1978, 4]. Con ciò egli, per così dire, predicava ai convertiti, giacché parlava a un uditorio il cui lavoro era di per se stesso una confu­ tazione di quell’affermazione. Tuttavia, il suo discorso trovò altrove un’accoglienza meno benevola, e ne seguì un articolo che lamentava la «bancarotta della memoria quotidiana» [Banaji e Crowder 1989]. La controversia successiva fu vivace ma non troppo fruttuosa, dato che si basava sul falso assunto che gli psicologi dovrebbero condurre le proprie ricerche o in laboratorio o nel mondo fuori di esso. In realtà, entrambi gli approcci sono preziosi. È certamente più facile sviluppare e verificare

CHE COS’È LA MEMORIA?

le nostre teorie nelle condizioni controllate del laboratorio, ma se esse ci dicono poco o nulla del funzionamento della memoria nel mondo esterno hanno un valore indubbiamente limitato. In generale, i tentativi di applicare le nostre teorie hanno avuto un certo succes­ so e hanno arricchito a loro volta la teoria. Un'importante applicazione riguarda la prestazione di memoria di gruppi specifici (bambini, anziani, pazienti con problemi di memoria). Come vedremo, queste applicazioni non solo dimostrano la robustezza e l’utilità della teoria cognitiva, ma permettono anche di metterla alla prova e di arricchirla. Il punto è ben illustrato dagli studi sui pazienti con un’amnesia molto grave ma pura, che hanno dimostrato l’importanza della memoria episodica nella vita quotidiana, hanno permesso di sviluppare test e tecniche di riabilitazione utili ai neuropsicologi clinici, e hanno influenzato profondamente le nostre teorie della memoria. Un secondo importante vantaggio che si ha uscendo dalle mura del laboratorio è che ciò ci permette di vedere bene come alcuni aspetti fondamentali della memoria sfuggano alla presa delle teorie esistenti. In alcuni casi questa consapevolezza ha condotto a nuovi importanti sviluppi teorici. Ne è esempio lo studio della memoria semantica, che ha avuto come impulso iniziale il tentativo di sviluppare programmi di computer in grado di comprendere il linguaggio naturale [Collins e Quillian 1969]. Un’altra area di ricerca molto attiva nata da un bisogno pratico è quella della testimonianza oculare, in cui è stato chiarito che la mancata comprensione dei limiti della memoria umana da parte dei giudici rischia di provocare errori giudiziari potenzialmente molto gravi [Loftus 1979]. Altre aree si sono sviluppate a partire dal riconoscimento di problemi pratici non affrontati sul piano teorico. Ne è buon esempio la memoria prospettica - la capacità di ricordare ciò che dob­ biamo fare. Questo uso della memoria è di grande importanza pratica, ma è stato a lungo trascurato perché è il risultato di una complessa interazione fra l’attenzione e la memoria. Questi temi più generali sono trattati nell’ultima parte del libro, che illustrerà l’idea ormai largamente accettata che l’approccio teorico e quello pratico alla memoria debbano essere alleati e non rivali.

8.1. Il contributo della neuroscienza

Sia Ebbinghaus sia Bartlett fondavano il loro approccio allo studio della memo­ ria sullo studio psicologico della prestazione di memoria in individui normali. Più recentemente, alla luce del ruolo del cervello nell’apprendimento e nella memoria, questo approccio si è arricchito dei dati della neuroscienza. Questo libro illustra numerosi casi in cui lo studio di pazienti con disturbi di memoria ha fatto luce sul funzionamento normale della memoria umana. In particolare, le difficoltà incon­ trate dai pazienti con disturbi di memoria possono spesso insegnarci qualcosa sulla funzione dei nostri ricordi, e indicare come li si possa indagare più in profondità. Gli studi neuropsicologici si suddividono in due categorie molto generali. Un approccio mira a far luce su specifiche malattie come la malattia di Alzheimer, la cui definizione comprende la presenza di un deficit di memoria. Tuttavia, questi deficit sono raramente puri. La diagnosi di malattia di Alzheimer richiede che il deficit di memoria sia accompagnato da altri problemi cognitivi. Poiché questi possono essere molti e vari, è difficile determinare con precisione quali aspetti del

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Fig. 1.6. Le aree del cervello umano che sono più strettamente associate alla memoria.

deficit cognitivo di un paziente dipendano dalla memoria e quali da altri proble­ mi. Studiare questi pazienti è importante per comprendere meglio la natura della malattia e per trovare il modo migliore per diagnosticarla e per aiutare il paziente a far fronte alle sue conseguenze. Tuttavia, a causa della complessità dell’interpre­ tazione dei molti possibili fattori in gioco, questi pazienti sono meno preziosi per sviluppare e controllare le nostre teorie. Molto più importanti ai fini della comprensione teorica sono quei rari casi in cui c’è un deficit molto specifico e puro relativo a un particolare aspetto della cogni­ zione. Un eccellente esempio è quello del paziente H.M. [Milner 1966], divenuto gravemente amnesico dopo avere subito un intervento chirurgico per risolvere una epilessia intrattabile. L’importanza di questo caso dipendeva da due ragioni: primo, esso dimostrava il ruolo dell’ippocampo, una struttura subcorticale del cervello, nella memoria; secondo, il deficit di memoria di H.M. era limitato alla memoria a lungo termine episodica. Il fatto che altri tipi di memoria fossero risparmiati ha avuto una grande influenza sulle successive teorie della memoria.

CHE COS’È LA MEMORIA?

Tuttavia, se è vero che lo studio della localizzazione delle lesioni in particolari pazienti ha fornito preziose informazioni, è vero anche che non necessariamente un paziente con un deficit molto puro ha un danno anatomicamente localizzato, o viceversa. Il cervello è un sistema enormemente complesso, le cui funzioni spesso dipendono da più di un'area, e una parte del cervello può riuscire a compensare i deficit in un’altra sua parte. Nondimeno, dallo studio delle lesioni cerebrali sono state tratte indicazioni di carattere generale su quali aree del cervello svolgano un ruolo importante in quale tipo di memoria. Ci riferiremo di tanto in tanto a queste aree, di solito nei termini della divisione convenzionale del cervello in aree o lobi della corteccia e delle strutture subcorticali. Alcune di queste suddivisioni sono rappresentate nella figura 1.6.

8.2. «Neuroimaging» della memoria umana

In anni recenti, sono state sviluppate nuove tecniche che permettono di studiare il funzionamento del cervello in individui normali impegnati in una varietà di com­ piti, tra cui quelli che coinvolgono la memoria [Rugg 2002]. La più antica di queste tecniche è l’elettroencefalografia (EEG), che permette di registrare l’attività elettrica del cervello per mezzo di elettrodi posti sullo scalpo. Questo metodo è usato da molti anni per individuare aree di attività cerebrale anomala che potrebbero avere un ruolo importante nella eziologia delle crisi epilettiche. Più recentemente, sono state sviluppate delle tecniche per misurare l’attività cerebrale provocata da particolari stimoli. Questi potenziali evento-correlati (ERP) producono caratteristiche forme d’onda che sembrano essere associate con tipi differenti di elaborazione cognitiva. In anni recenti hanno guadagnato notorietà e influenza gli studi di «neuro­ imaging». Essi impiegano diversi metodi per raccogliere informazioni sul funzio­ namento del cervello. I primi studi di neuroimaging si basavano sulla tomografìa a emissione di positroni (PET), in cui una sostanza radioattiva viene introdotta nel flusso ematico. Poiché le aree cerebrali più attive richiedono una maggiore quantità di sangue, esse mostrano anche una maggiore concentrazione di emissioni radioat­ tive, che una serie di rilevatori provvede a registrare. Ciò permette di tracciare una mappa delle zone di attivazione all’interno del cervello. La PET può essere usata anche per raccogliere informazioni sul funzionamento dei neurotrasmettitori nel cervello. Essa non è tuttavia priva di importanti controindicazioni. L’uso di sostan­ ze radioattive la rende costosa, e ragioni di tutela della salute limitano il numero di scansioni a cui può essere sottoposto un singolo individuo. La PET si basa sul calcolo della media dell’attivazione nel tempo, il che la rende inappropriata per ana­ lizzare una sequenza di processi in rapida evoluzione come quelli che caratterizzano molti compiti cognitivi. Di conseguenza, essa è stata sostituita come strumento di imaging funzionale dalla risonanza magnetica funzionale (fMRI). Questo metodo è basato sul fatto che quando il cervello è posto in un intenso campo magnetico, nuclei atomici differenti si allineano secondo orientamenti differenti. La fMRI è più sicura della PET, perché non è invasiva e non fa uso di sostanze radioattive. A differenza della PET, la fMRI permette la misurazione in tempo reale dei livelli di ossigeno nel cervello, rendendo possibile la registrazione di singoli eventi all’interno del cervello nel momento in cui accadono - un metodo noto come fMRI evento­ correlata (event-related).

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Una rappresentazione dell’attività del cervello ancor più dettagliata è resa possibile da uno sviluppo più recente, la magnetoencefalografia (MEG), che per­ mette di rilevare e localizzare le minuscole forze magnetiche generate dai neuroni nel cervello. Lordine in cui le diverse aree rispondono può essere registrato con estrema precisione; di conseguenza, questo metodo potrà dimostrarsi in futuro un prezioso strumento per studiare i sistemi e i processi cerebrali alla base dell’attività cognitiva. Come vedremo nei prossimi capitoli, l’importanza di questi metodi per la comprensione della memoria umana sta diventando sempre più grande.

9. Sommario Se è vero che ci lamentiamo della nostra memoria, è vero anche che essa è estre­ mamente efficiente e flessibile nell’immagazzinare le informazioni che ci sono utili e nello scartare quelle meno importanti. Molte volte il venir meno della memoria è la conseguenza di questo importante bisogno di dimenticare, necessario se la nostra memoria deve restare efficiente. Lo studio della memoria ebbe inizio con Ebbinghaus, che semplificò radical­ mente la situazione sperimentale per meglio osservare e quantificare i fenomeni, secondo una tradizione empirica che proseguì nel ventesimo secolo nel Nord Ame­ rica. Altrove si svilupparono tradizioni alternative: in Germania, con la psicologia della Gestalt, il modo di concepire la memoria fu influenzato dallo studio della percezione; in Gran Bretagna, Bartlett adottò un approccio alla memoria più ricco e libero da restrizioni. Negli scorsi anni Cinquanta e Sessanta, l’idea che i modelli potessero assumere il ruolo di teorie trovò larga applicazione con lo sviluppo dei computer; nacque così la psicologia cognitiva. Nel caso della memoria, emerse la necessità di distinguere fra codifica o modalità di input, immagazzinamento è recupero. Ciò condusse alla distinzione fra tre forme principali di memoria: memoria sensoriale, memoria a breve termine e memoria a lungo termine. Il modello dell’elaborazione dell’informazione è ben illustrato dal modello di Sperling della memoria sensoriale visiva, in cui i diversi stadi sono separati e analizzati con grande finezza. Anche il suo equivalente uditivo, la memoria ecoica, cominciò a essere studiato. Successivamente, questi sistemi sensoriali furono considerati parte della percezione, anziché veri e propri sistemi di memoria. L’idea era che essi inviassero l’informazione a una memoria temporanea a breve termine o di lavoro. Questa era inizialmente ritenuta di natura largamente verbale, ma poi si vide che l’immagazzinamento temporaneo era possibile anche in altre modalità. Si vide anche che la memoria a breve termine inviava informazione alla memoria a lungo termine e da questa riceveva a sua volta informazione, e che la memoria a lungo termine poteva essere suddivisa in una memoria esplicita o dichiarativa e una memoria implicita o non dichiarativa. La memoria esplicita, a sua volta, aveva due forme: la capacità di ricordare esperienze individuali, alla base dei «viaggi mentali nel tempo», che ebbe il nome di memoria episodica, e la conoscenza del mondo, che fu chiamata memoria semantica. Fu descritta una varietà di sistemi di apprendimento e di memoria impliciti o non dichiarativi, tra cui il condizionamento classico, l’acquisizione di abilità mo­ torie e diverse forme di priming. Benché non siano mancati i tentativi di dare una

CHE COS’È LA MEMORIA?

spiegazione unitaria dell’apprendimento e della memoria impliciti, è probabilmente vantaggioso considerarli come sistemi separati. Un importante sviluppo registrato in anni recenti è stato il crescente interesse per l’applicazione della teoria fuori del laboratorio. Ne è nata una controversia: è chiaro che abbiamo bisogno del laboratorio per sviluppare e perfezionare le nostre teorie, ma è chiaro anche che per studiare la loro generalità e importanza pratica dobbiamo uscire dal laboratorio. Lo studio della relazione fra la memoria e il cervello ha fatto enormi passi avanti negli ultimi anni. Esso è cominciato con i pazienti amnesici e continua con lo svi­ luppo di tecniche sempre più complesse per registrare in tempo reale l’attività del cervello normale. Fra le tecniche impiegate vi sono lo studio dell’attività elettrica del cervello, misurata attraverso elettrodi posti sullo scalpo (EEG ed ERP), e la tomografia a emissione di positroni (PET), in cui l’attività delle diverse regioni cerebrali è misurata attraverso il flusso ematico. Poiché la PET fa uso di sostanze radioattive, ragioni di salute impongono un limite al numero di scansioni, e al suo posto sono usate sempre più spesso la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la magnetoencefalografia (MEG), che sono meno invasive e permettono esami ripetuti dello stesso individuo.

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La memoria a breve termine

Nel 1887, John Jacobs, un maestro di Londra, ideò un compito per valutare le capacità dei suoi scolari. Il compito era apparentemente semplice: lo scolaro ascoltava una sequenza di cifre (lunga più o meno come quella dì un numero tele­ fonico), che poi doveva ripetere. La misura usata era lo span di cifre, la più lunga sequenza che potesse essere ripetuta senza errori [Jacobs 1887]. Lo span di cifre fa tuttora parte di un diffusissimo test di intelligenza, la Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS). Nella versione di Jacobs, la correlazione dello span con l’intelligenza generale non è particolarmente elevata, ma, come vedremo, una versione un po’ più complessa, lo span di memoria di lavoro, predice con ottimi risultati un’ampia varietà di abilità cognitive, tra cui la prestazione nei problemi di ragionamento usati spesso per valutare l’intelligenza. Si è soliti affermare che il test dello span di cifre dipenda dalla memoria a breve termine, mentre il compito più complesso dalla memoria di lavoro. D’altra parte, spesso le espressioni «memoria a breve termine» e «memoria di lavoro» sembrano usate in modo intercambiabile; ci si può dunque chiedere se vi sla una differenza.

L Memoria a breve termine e memoria di lavoro: qual è la differenza? L’espressione «memoria a breve termine» è piuttosto elusivi. Nell’uso comu­ ne, si riferisce alla capacità di tenere a mente qualcosa per qualche ora o giorno, il tipo di capacità che peggiora con l’avanzare dell’età ed è graveihente deteriorata nei pazienti con malattia di Alzheimer. Per gli psicologi, tuttavia, questi sono problemi di memoria a lungo termine. La capacità di ricordare Qualcosa nell’arco di minuti, ore o anni sembra dipendere da un unico sistema di memoria a lungo termine. La memoria a breve termine (MBT) si riferisce alla prestazione in un partico­ lare tipo di compito, la ritenzione di una piccola quantità di informazione, testata immediatamente o dopo un breve intervallo di tempo. Il sistema o i sistemi di memoria su cui si basa la MBT fanno parte della memoria di lavoro. La memoria di lavoro è un sistema che non solo immagazzina temporaneamente l’informazio­ ne ma anche la manipola, in modo da rendere possibili attività complesse come

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CAPITOLO 2

il ragionamento, l’apprendimento e la comprensione. Della memoria di lavoro parleremo nel prossimo capitolo; in questo capitolo esamineremo una nozione più semplice, quella di MBT, la capacità di immagazzinare piccole quantità di informazione per brevi intervalli di tempo; cominceremo dal compito di span di cifre ideato da Jacobs. La nozione di MBT, intesa come processo di immagazzinamento di piccole quantità di informazione per un breve intervallo di tempo, è teoricamente neutra, benché naturalmente non manchino le teorie sul modo in cui tale immagazzina­ mento viene realizzato. A differenza della nozione di MBT, che descrive semplicemente una situazione sperimentale, la nozione di memoria di lavoro si basa su un’assunzione teorica: che compiti come il ragionamento e l’apprendimento dipendano da un sistema in grado di immagazzinare e manipolare temporaneamente l’informazione, un sistema evolutosi come uno spazio di lavoro mentale. Sono stati descritti diversi modelli teorici della memoria di lavoro, alcuni influenzati soprattutto dalle ricer­ che sull’attenzione [Cowan 2001], altri dalle ricerche sulle differenze individuali nelle prestazioni in compiti complessi [Miyake et al. 2000; Engle e Kane 2004], altri ancora da dati neurofisiologici [Goldman-Rakic 1996]. Tutti comunque assumono che la memoria di lavoro offra uno spazio di lavoro temporaneo che è necessario per svolgere attività cognitive complesse. L’approccio adottato nei prossimi due capitoli discende dal modello multi componenziale della memoria di lavoro di Baddeley e Hitch [1974], che è stato profondamente influenzato dagli studi sperimentali e neuropsicologici sulla me­ moria umana e costituisce il nucleo centrale di questo libro. Esso si è dimostrato tuttora valido e applicabile in molti ambiti, ma non dovrebbe essere considerato come la teoria della memoria di lavoro, bensì come una teoria che affianca e inte­ gra altri approcci [Miyake e Shah 1999a]. Il modello multicomponenziale deriva in buona parte dagli studi sulla MBT, e la sua componente studiata più a fondo è il loop fonologico^ che fornisce un modello teorico della MBT verbale. Il presente capitolo descrive i principali risultati degli studi sulla MBT verbale e visiva. Esso usa il modello del loop fonologico per mettere in connessione questi risultati, ma considera anche alcune teorie alternative sulla MBT. Ciò porta al terzo capitolo, che va oltre i modelli della MBT, limitati essenzialmente aU’immagazzinamento a breve termine, e cerca di chiarire perché un siffatto magazzino temporaneo sia necessario e come venga usato all’interno di un sistema molto più ampio come quello della memoria di lavoro.

2. Lo span di memoria

Prima di procedere oltre, provate a cimentarvi nel compito descritto nel qua­ dro 2.1. Se il vostro span di cifre non è all’altezza delle vostre aspettative, non cruc­ ciatevi; in questa semplice forma, come vedremo più avanti, esso dipende da un piccolo benché utile tratto del nostro sistema di memoria, non dall’intelligenza generale. Lo span di cifre è un classico compito di memoria a breve termine, giacché richiede di ritenere una piccola quantità di materiale per un breve inter­ vallo di tempo.

LA MEMORIA A BREVE TERMINE

Quadro 2.1. Il test dello span di cifre

Leggete ciascuna sequenza (immaginate che sia un numero telefonico), poi chiudete gli occhi e cercate di ripeterla. Cominciate con i numeri a quattro cifre, e andate avanti finché non sbagliate entrambe le sequenze di una data lunghezza. L’ampiezza del vostro span è inferiore di una cifra rispetto a questa lunghezza. 9 3 9 6 9 6 7 5 8 5 7 1 9 7

7 5 4 8 2 5 4 3 1 8 2 5 13 8 4 8 3 9 5 8 3 16 6 9 5 17 3 19 3 6 3 8 15 2 1 5 4

8 9 2 7 4 8 1 9 8 7 4 8

5 1 2 4 3 8 4 4 3 5

3 2 7 2 2 9 8 6

2 6 6 1 5 2 1 6 2 19 3

Nella maggior parte delle persone lo span di cifre è limitato a sei o sette cifre, benché vi siano alcuni che riescono ad arrivare a dieci o più, mentre altri hanno difficoltà a ricordarne più di quattro o cinque. Che cosa determina questo limite? E perché esso varia da persona a persona? Le misure dello span di memoria richiedono due cose: a) ricordare quali sono gli item; b) ricordare V ordine in cui essi sono stati presentati. Nel caso delle cifre da 1 a 9, gli item sono ben noti, perciò il problema è più che altro quello di ricordare Lordine. Se però vi presentassi una sequenza di cifre pronunciandone il nome in una lingua che non vi è familiare, poniamo il finlandese, il vostro span sarebbe di molto inferiore, giacché avreste molta più informazione da ricordare: dovreste ricordare sia Lordine dei suoni che rappresentano le cifre in finlandese, sia Lordine di quelle cifre. Che cosa succederebbe se usassi parole invece di cifre? Cambierebbe qualcosa? Se usassi sempre lo stesso insieme di parole, ben presto quelle parole vi sarebbero familiari e ve la cavereste abbastanza bene. Se però cambiassi a ogni prova l’insieme delle parole, dovreste ricordare sia gli item sia Lordine e la situazione si farebbe più difficile (benché meno difficile che nel caso delle ignote cifre finlandesi). Come si fa a ricordare Lordine? La risposta non è semplice. Si potrebbe pensa­ re che ogni numero sia associato o collegato al successivo, a sua volta collegato al successivo, e così via, in un processo di concatenamento {chaining). Il problema di questa ipotesi è che quando un anello della catena si spezza, perché un item è stato dimenticato, la prestazione in tutti gli altri item dovrebbe crollare. In realtà, anche

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CAPITOLO 2

se dopo uno sbaglio il ricordo peggiora, il peggioramento non è grave quanto il concatenamento farebbe prevedere, Come vedremo, il problema di spiegare come il cervello immagazzina le sequenze resta irrisolto, non solo nel caso del ricordo di parole e numeri, ma anche nel caso della capacità di apprendere e riprodurre sequenze di azioni, che è essenziale per molte attività, dal semplice allungare la mano per afferrare qualcosa al gesto atletico di uno sportivo. Passiamo ora dai numeri alle lettere. Leggete ogni lettera della prossima se­ quenza a voce alta, poi chiudete gli occhi e cercate di ripetere le lettere nell’ordine in cui sono scritte. LTAIILTNFSRO

Provate adesso con quest’altra sequenza:

FANTOLLISTRI Dovreste trovare più facile quest’ultima sequenza, anche se è composta esat­ tamente delle stesse lettere che compongono la prima. La ragione è che l’ordine delle lettere della seconda sequenza vi permette di spezzarla in raggruppamenti {chunks) che possono essere pronunciati come se fossero parole. In un articolo ormai classico, Qeorge Miller [1956] ha proposto che la capacità di memoria sia limitata non dal numero di item da ricordare, ma dal numero di raggruppamenti. La prima sequenza è formata da dodici lettere apparentemente scollegate, cosa che rende difficile ridurre il numero di raggruppamenti molto al di sotto di dodici, mentre la seconda può essere pronunciata come una successione di quattro sillabe che, insieme, formano una sequenza che è priva di significato ma potrebbe anche essere una parola della lingua italiana. Il raggruppamento in questo caso è basato su insiemi di lettere conformi a re­ golarità linguistiche a lungo termine. Il raggruppamento può anche essere prodotto dal ritmo della presentazione di una sequenza di item. Supponete che io legga nove cifre. Se interpongo una pausa leggermente più lunga fra il terzo e il quarto item e fra il sesto e il settimo, ricordare le cifre sarà notevolmente più facile: 791-684-352 è più facile di 791684352. Anche le pause in altre posizioni possono essere utili, ma i gruppi di tre item sembrano funzionare meglio di tutti [Wickelgren 1964; Ryan 1969a; 1969b]. È verosimile che il sistema di memoria sfrutti suggerimenti basati sulla prosodia - i ritmi naturali che organizzano il linguaggio e che ne rendono più chiaro il significato suddividendo in unità discrete il continuum di suoni che costituisce il normale flusso linguistico. Anche se la capacità di ricordare stringhe di numeri probabilmente non inte­ ressava granché agli alunni del maestro Jacobs, in anni recenti è divenuta molto più preziosa a causa dell’uso crescente nella nostra cultura di sequenze di cifre e lettere, dapprima nella forma di numeri telefonici, poi di codici postali, infine di PIN e password. All’inizio degli scorsi anni Sessanta, R Conrad fu incaricato dal British Post and Telecommunications Service di studiare vantaggi e svantaggi dei codici basati su lettere e numeri. Uno dei suoi esperimenti prevedeva la presenta­ zione visiva di stringhe di consonanti che i soggetti dovevano rievocare immedia­ tamente. Conrad notò una importante regolarità nei suoi risultati: nonostante la presentazione visiva, era probabile che gli errori fossero simili nel suono agli item

LA MEMORIA A BREVE TERMINE

corretti, cosicché era più facile che una P fosse ricordata erroneamente come una V che non come una R, sebbene questa fosse visivamente più simile alla P [Conrad 1964]. Conrad e Hull [1964] studiarono ulteriormente questo effetto, e mostrarono che il ricordo di sequenze di consonanti è significativamente peggiore quando esse si somigliano nel suono (ad esempio, CVDPGT di contro a KkXLYF). Conrad interpretò i suoi risultati nei termini di un magazzino di memoria a breve termine basato su una traccia acustica che si dissolve rapidamente dando luogo all’oblio. Ciò rendeva particolarmente difficile la rievocazione delle lettere acusticamente simili; esse infatti possedevano meno caratteristiche distintive e perciò ciascun item si confondeva più facilmente con gli item adiacenti, con conseguenti errori nell’ordine di rievocazione (ad esempio, PTCVB ricordato come PTVCB}.

3. Due tipi di memoria?

Vi è mai capitato di alzarvi dalla sedia, andare in un’altra stanza per prendere qualcosa, e, una volta lì, accorgervi di non sapere più perché ci siete andati? Se vi è capitato, è probabilmente perché vi siete messi a pensare a qualcos’altro, e l’intenzione iniziale vi è sfuggita di mente, Lloyd e Margaret Peterson [1959], dell’università dell’indiana, idearono una procedura che potrebbe essere consi­ derata la versione di laboratorio di questa esperienza. Ai soggetti veniva presen­ tata una tripletta di consonanti da ricordare, ad esempio XRQ. Per distrarli, lo sperimentatore chiedeva loro di contare a ritroso con salti di tre a partire da un numero dato (ad esempio, 371: 368, 365, 362, e così via). Dopo un certo numero di secondi passati a contare, i soggetti dovevano ripetere la tripletta. Usando una procedura simile, Murdock [1960] ha dimostrato un effetto analogo per le triplette di parole (fig. 2.1). Come spiegare la cosa? Una possibilità è che i numeri interferiscano con il ricordo delle lettere. Come vedremo nel nono capitolo, vi sono abbondanti prove del fatto che l’apprendimento possa essere danneggiato da un'attività successi­ va. Tuttavia, già prima dell’esperimento dei Peterson era stato dimostrato che tale interferenza dipende dalla similarità tra il materiale da ricordare e quello interferente, e che, almeno per la MLT, i numeri non interferiscono con le lettere [McGeoch e Me Donald 1931]. Perciò i Peterson interpretarono i loro risultati nei termini del rapido dissolvimento di una traccia mnestica a breve termine. Questa interpretazione era in accordo con le conclusioni tratte.in Inghilterra da John Brown [1958] sulla base di una analoga dimostrazione dell’oblio a breve termine. Essa tuttavia era in aperto contrasto con una nozione ampiamente ac­ cettata all’epoca, quella della memoria come sistema unitario, in cui è l’oblio è prodotto dall’interferenza. L’ipotesi di un semplice decadimento della traccia fu però messa in discussione da Keppel e Underwood [1962], i quali mostrarono che il rapido oblio osservato dai Peterson aumentava dopo le prime quattro o cinque prove dell’esperimento. La primissima tripletta era soggetta a poco o punto oblio. Secondo Keppel e Under­ wood, ciò dimostrava che l’effetto trovato dai Peterson dipendeva dall’interferenza delle triplette precedenti, che, naturalmente, erano simili agli item da ricordare. È possibile controllare questa ipotesi usando item di tipo differènte a ogni prova dell’esperimento.

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CAPITOLO 2

Murdock [1960] ------- Una parola Tre parole -------- Tre consonanti

Peterson e Peterson [1959] .... yre consonanti

Fig. 2.1. Ritenzione a breve termine di trigrammi di consonanti [Peterson e Peterson 1959] e di sequenze

costituite da una parola e da tre parole [Murdock I960]. Fonte: Melton [1963].

Come abbiamo detto, l’interferenza dipende dalla similarità. Perciò, se l’item precedente è dissimile, non dovrebbe provocare oblio. Questa ipotesi è stata con­ trollata per mezzo di un esperimento che usava triplette di parole. Ciascun item di una tripletta apparteneva alla stessa categoria semantica: tre uccelli, poniamo, o tre colori. Dopo cinque prove, tutte basate su esempi differenti della stessa categoria (per esempio, gli uccelli), si passava a un’altra categoria (per esempio, i colori). Come si vede nella figura 2.2, la prestazione va declinando nelle prime cinque prove e migliora dopo il cambiamento della categoria, per poi declinare di nuovo finché la categoria non viene cambiata un’altra volta [Loess 1968]. Il modo più semplice di ragionare sul compito dei Peterson è nei termini del problema che i soggetti devono risolvere, che è quello di riprodurre V ultima di una serie di sequenze che sono state presentate. Quanto è più lungo l’intervallo prima della rievocazione, tanto più è difficile distinguere quale sequenza è stata presentata per ultima e quale appena prima. Se ciò sia o meno in accordo con la teoria dell’interferenza stimolo-risposta è una questione molto controversa [cfr. Baddeley 1993, 31-37]; tuttavia, è opinione generale che il compito dei Peterson richieda una spiegazione basata sul processo di recupero, una spiegazione che vada oltre l’ipotesi iniziale di un semplice decadimento della traccia.

I,A MEMORIA A BREVE TERMINE

------- 4 categorie

Stessa categoria

Fig. 2.2. Liberazione dall’effetto di interferenza proattiva. I soggetti dovevano rievocare insiemi di quattro

item appartenenti alla stessa categoria tassonomica. Dopo sei insiemi in sequenza, la categoria cambiava, e la prestazione relativa al nuovo insieme migliorava. Gli insiemi costituiti da item appartenenti a quattro diverse categorie mostrano un costante declino della prestazione e nessuna liberazione dall’interferenza proattiva. Fonte\ Loess [1968].

Prima di esaminare più a fondo la contrapposizione fra decadimento della traccia e interferenza, è il caso di considerare un secondo paradigma sperimentale che venne alla ribalta e fu oggetto di dibattito teorico negli scorsi anni Sessanta: il compito di rievocazione libera.

Rievocazione libera. In questo compito, ai soggetti vengono presentate delle liste di item che essi sono poi liberi di rievocare nell'ordine che preferiscono. La figura 2.3 mostra i risultati di un esperimento di Postman e Phillips [1965]. In esso erano presentate 10, 20 o 30 parole; le parole dovevano essere rievocate immedia­ tamente o dopo un intervallo di 15 secondi in cui i soggetti erano impegnati in un'altra attività. I risultati di questo esperimento illustrano svariate caratteristiche della rievocazione libera. Eccone alcune: a) la probabilità di rievocare un singolo item è minore per le liste più lunghe, anche se il numero totale degli item rievocati tende a essere più grande; b) in tutte le liste, gli item che occupano le prime posi­ zioni tendono a essere rievocati meglio (effetto di priorità); c) indipendentemente dalla lunghezza della lista, se la rievocazione è immediata gli ultimi item tendono a essere rievocati meglio (effetto di recenza); d) questo effetto viene meno dopo un breve intervallo di tempo in cui il soggetto è impegnato in un'altra attività, come quella di contare.

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CAPITOLO 2

Fig, 2,3, Curve di posizione seriale per liste di 10, 20 o 30 parole rievocate immediatamente o dopo un intervallo di 15 secondi. Si noti che per tutte e tre le liste il ricordo degli ultimi item è eccellente quando la rievocazione è immediata (effetto di recenza), ma non dopo rintervallo.

Fonte: Postman e Phillips [19651.

Come interpretare questo tipo di risultati? I dati mostrano che la prestazione relativa ai primi item dipende principalmente dalla MLT, e che l’effetto di priorità è probabilmente dovuto, almeno in parte, alla ripetizione {rehearsal) dei primi item mano a mano che vengono presentati - a volte questi item continuano a essere ri­ petuti durante la presentazione dell’intera lista [Rundus 1971; Hockey 1973; Tarn e Ward 2000]. E noto che tutta una serie di variabili influenzano la prestazione relativa ai primi item di una lista e a quelli di mezzo [Glanzer 1972], Ecco alcune di queste variabili: a) velocità di presentazione: lento è meglio; b) frequenza delle parole: le parole familiari sono più facili; c) immaginabilità delle parole: se le parole sono visualizzabili la prestazione ne guadagna; di) età dei soggetti: i giovani adulti ricordano di più dei bambini e degli anziani; 6*) stato fisiologico: droghe come la marijuana e Talcol danneggiano la prestazione. Tuttavia, benché tutti questi fattori incidano sulla prestazione complessiva, nessuno di essi influenza nella stessa misura l’effetto di recenza. Gli stessi Postman

LA MEMORIA A BREVE TERMINE

e Phillips interpretarono i propri risultati in termini di interferenza; tuttavia, questa interpretazione non spiega facilmente perché questi fattori influenzino la ritenzione complessiva ma non la recenza. L’interpretazione preferita negli scorsi anni Sessanta era quella di attribuire l’effetto di recenza a un magazzino temporaneo a breve termine, con caratteristi­ che differenti dal magazzino a lungo termine responsabile della prestazione relati­ va agli item più lontani [ibidem], Tuttavia, l’assunzione che la recenza dipendesse semplicemente dall’output di un magazzino a breve termine fu successivamente messa in dubbio dalla dimostrazione che gli effetti di recenza possono presen­ tarsi anche quando la traccia a breve termine dovrebbe essersi ormai dissolta. In uno studio, Bjork e Whitten [1974] chiedevano ai soggetti di rievocare sequen­ ze di parole presentate in tre condizioni. Nella condizione di base, i soggetti svolgevano un compito di rievocazione libera immediata di una lista di parole. Prevedibilmente, vi era un chiaro effetto di recenza. In una seconda condizione, fra presentazione e rievocazione era interposto un intervallo di 20 secondi nel quale i soggetti dovevano contare all’indietro; ciò, prevedibilmente, cancellava l’effetto di recenza. In una terza, cruciale condizione, vi era un intervallo di 20 secondi in cui il soggetto contava all’indietro fra ciascuna delle parole presentate, oltre che tra la fine della lista e la rievocazione. In questa condizione, l’effetto di recenza riemergeva. Effetti di recenza sono stati dimostrati anche per intervalli di tempo molto più lunghi. Ad esempio, Baddeley e Hitch [1977] hanno studiato la capacità di un gruppo di giocatori di rugby di ricordare contro quali squadre avessero giocato nella stagione in corso; le loro risposte mostravano un chiaro effetto di recenza. Siccome non tutti i giocatori avevano partecipato a tutte le partite, fu possibile determinare se l’oblio riflettesse il tempo trascorso o piuttosto il numero di partite disputate. Il predittore migliore risultò essere il numero di partite, il che suggerisce che una semplice ipotesi di decadimento non offra una spiegazione soddisfacente di questi risultati. Simili effetti di recenza a lungo termine sono stati osservati per la capacità di ricordare dove si è parcheggiata l’auto [Pinto e Baddeley 1991], anche se devo tristemente ammettere che, con il passare degli anni, non sempre la recenza mi salva dall’imbarazzante necessità di perlustrare in lungo e in largo il parcheggio del supermercato. Il fatto che gli effetti di recenza si osservino in un’ampia varietà di situazioni, e che in qualche caso siano alterati da alcuni secondi di attività non correlata, come quella di contare, mentre in altri casi persistono per mesi, sta a indicare che l’effetto di recenza non è legato a un singolo sistema di memoria, ma dipende piuttosto da una strategia di recupero basata sul fatto che gli eventi più recenti sono più facil­ mente disponibili per la rievocazione. Quando si è tenuta l’ultima festa alla quale avete partecipato? E quando la penultima? E la terzultima? Scommetto che la festa più recente è stata la più facile da ricordare, benché forse non la più divertente. La maggiore accessibilità dell’ultima esperienza di un certo genere potrebbe avere l’importante funzione di facilitare l’orientamento nello spazio e nel tempo. Se siete in viaggio e avete preso alloggio in un nuovo albergo, come fate a sapere dove vi trovate il mattino dopo, quando vi svegliate? E se lasciate l’albergo per fare una passeggiata in città, come fate a ricordare il numero della vostra stanza senza confondervi con la stanza in cui avete alloggiato ieri o ieri l’altro?

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Tempo trascorso dalla presentazione del primo item P1 (s) 0

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30

Tempo trascorso al momento R, (s) 40

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Rapporto di discriminazione

(Z^)

P,

P,

P2 R2

22

2

11:1

P,

P2

30

10

3:1

P,

P2

50

30

1,67:1

P^ Presentazione dell’item 1 P2 Presentazione dell’item 2 R2 Rievocazione dell’item 2

Fig. 2.4. La recenza.

Come nel caso dell’effetto Peterson, l’interpretazione più plausibile della recen­ za sembra essere quella basata sul recupero. Crowder [1976] paragona il compito di recuperare gli item di una lista a quello di distinguere i pali telefonici situati a intervalli regolari lungo una ferrovia. Il palo più vicino è facilmente distinguibile dal successivo, ma poi, a mano a mano che i pali si allontanano, la difficoltà di discernerli diventa sempre più grande. Sia questo effetto sia l’effetto Peterson possono essere descritti nei termini del rapporto di discriminazione, che si basa sulla lontananza dell’item da recuperare rispetto a quella del suo vicino (fig. 2.4). Quando la rievocazione è immediata, l’item più recente è considerevolmente avvan­ taggiato, ma quando l’intervallo aumenta, diventa sempre meno facile distinguere l’ultimo item dal suo predecessore [Glenberg et al. 1980; Baddeley e Hitch 1977; 1993; Brown, Neath e Chater 2007].

4. Modelli della memoria a breve termine verbale Verso la fine degli scorsi anni Sessanta, i dati sembravano chiaramente in con­ trasto con i tentativi di spiegare la MBT nei termini di un sistema unitario, e in favore piuttosto di una spiegazione basata su una molteplicità di sistemi interagenti, uno dei quali veniva identificato, alla luce di una vasta mole di dati, con la MBT verbale. Userò uno degli svariati modelli di MBT verbale, il loop fonologico, per collegare l’ampia varietà di risultati che continuano ad accumularsi in quest’area, per poi illustrare brevemente alcune teorie alternative.

LA MEMORIA A BREVE TERMINE

4.1. Il loop fonologico

La nozione di loop fonologico fa parte del modello di memoria di lavoro multicomponenziale proposto da Baddeley e Hitch [1974]. Il loop fonologico ha due sottocomponenti: un magazzino a breve termine e un processo di ripetizione articolatorio. Il magazzino ha capacità limitata e gli item vi sono registrati come tracce di memoria che decadono nell’arco di qualche secondo. Le tracce però pos­ sono essere «rinfrescate» ripetendo gli item per mezzo di un processo articolatorio vocale o subvocale. Consideriamo il caso dello span di cifre. Perché è limitato a sei o sette item? Se nella sequenza vi sono poche cifre, è possibile ripeterle tutte prima che la cifra iniziale svanisca. Con l’aumentare del numero di cifre ci sarà bisogno di più tempo per ripeterle tutte, e perciò la probabilità che le cifre svaniscano prima di essere rinfrescate aumenterà, il che pone un limite allo span di memoria. Il modello del loop è in grado di dar conto delle seguenti caratteristiche della MBT verbale. JJ effetto di similarità fonologica. Un tratto caratteristico del magazzino è l’effet­ to di similarità fonologica, la dimostrazione dovuta a Conrad [1964] che lo span di lettere si riduce quando gli item hanno un suono simile. Di conseguenza, ricordare una lista di cinque parole fonologicamente dissimili (ad esempio, le parole inglesi pit, day, cow, pen, hot) è relativamente facile, mentre è molto più difficile ricordare parole fonologicamente simili (come cat, map, man, cap, mad}. Si noti tuttavia che questo non è un effetto generale di similarità, poiché parole simili per significato, come huge, wide, big, long, tali (enorme, ampio, grosso, lungo, alto), sono solo leggermente più difficili di parole dissimili, come old, wet, thin, hot, late (vecchio, bagnato, sottile, caldo, tardo) (fig. 2.5). Un’altra osservazione: l’effetto di similarità fonologica viene meno se la lunghez­ za delle liste aumenta e i soggetti possono giovarsi di una fase di apprendimento. In queste condizioni, è molto più importante la similarità di significato [Baddeley 1966b], Ciò non significa che la codifica fonologica sia limitata alla MBT, poiché senza MLT fonologica non potremmo imparare a pronunciare nuove parole. Signi­ fica piuttosto che per la MLT è vantaggioso fare appello al significato piuttosto che al suono. Ritorneremo su questo punto nel quarto e quinto capitolo. Il modello assume che l’effetto di similarità fonologica abbia luogo quando l’informazione è estratta dalla traccia di memoria a breve termine; item simili hanno meno caratteristiche distintive, e perciò è facile confonderli. Il materiale linguistico uditivo passa direttamente nel magazzino fonologico. Ma anche gli item presentati visivamente possono passare nel magazzino se è possibile denominarli, come nel caso di cifre, lettere o oggetti denominabili, per mezzo di un processo di articolazione vocale o subvocale. Il sistema di ripetizione subvocale si blocca se ci viene chiesto di pronunciare ripetutamente una parola non attinente (ad esempio, l’articolo laf questo pro­ cesso è noto come soppressione articolatola. Esso rende impossibile rinfrescare la traccia mnestica ripetendo subvocalmente il materiale da ricordare. Diventa impossibile anche denominare subvocalmente gli item presentati visivamente (ad esempio delle lettere) e questo impedisce che essi siano registrati nel magazzino fonologico. Perciò, quando gli item sono presentati visivamente e accompagnati da soppressione articolatoria, è indifferente se essi siano fonologicamente simili

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Fig. 2.5. Effetto della similarità fonologica e semantica sulla rievocazione seriale immediata di sequenze di

cinque parole. La similarità fonologica peggiora la prestazione di rievocazione immediata, mentre la similarità di significato ha scarso effetto. Fonte'. Baddeley [1966a].

o no. Sia gli item simili sia quelli dissimili saranno ritenuti a un livello più basso ma equivalente. Va sottolineato che anche in caso di soppressione resta possibile ricordare fino a quattro o cinque cifre presentate visivamente. Ciò indica che sebbene il loop fonologico abbia un ruolo importante nello span di cifre, esso non ne è Punico fondamento. Torneremo su questo punto più avanti. Se la presentazione è uditiva, le parole accedono direttamente al magazzino fonologico nonostante la soppressione articolatoria, e si osserva un effetto di similarità.

LJeffetto della lunghezza della parola. Come abbiamo visto, la maggior parte delle persone è in grado di ricordare con relativa facilità liste di cinque parole monosillabiche dissimili. Mano a mano che la lunghezza aumenta, la prestazione peggiora: da circa il 90% per le parole monosillabiche si passa a circa il 50% per le parole pentasillabiche. Con ^aumentare della lunghezza delle parole, aumenta anche il tempo necessario per articolarle (fig. 2.6). La relazione fra rievocazione

LA MEMORIA A BREVE TERMINE

Fig. 2.6. Relazione fra lunghezza della parola, velocità di lettura e rievocazione. Le parole più lunghe richie­

dono più tempo per essere ripetute e provocano la riduzione dello span di memoria. Fonte; Baddeley, Thomson e Buchanan [1975].

e velocità di articolazione si può riassumere dicendo che si possono ricordare all’incirca tante parole quante se ne possono pronunciare in 2 secondi [Baddeley, Thomson e Buchanan 1975]. Interpretare questi risultati nel modello del loop fonologico è relativamente semplice. La ripetizione si svolge nel tempo, come pure il decadimento della traccia; le parole più lunghe, che richiedono più tempo per essere articolate, lasciano più tempo anche al decadimento. Baddeley, Thomson e Buchanan [ibi­ dem] hanno attribuito l’effetto della lunghezza della parola all’oblio durante la ripetizione. Cowan e colleghi [1992] hanno tuttavia dimostrato che la lunghezza delle parole causa oblio anche perché le parole più lunghe richiedono più tempo per essere rievocate, e Baddeley e colleghi [2002] hanno mostrato che sono vere entrambe le cose. La soppressione articolatoria, per cui ai soggetti viene richiesto di articolare una parola irrilevante, impedisce il processo di ripetizione verbale. Ciò cancella l’effetto della lunghezza della parola. Diversamente dall’effetto di similarità fonologica, non fa differenza se la presentazione sia uditiva o visiva;

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se l’articolazione viene impedita, nessuna delle due forme di presentazione per­ metterà la ripetizione verbale, e l’effetto della lunghezza della parola verrà meno [Baddeley, Thomson e Buchanan 1975]. L’effetto della lunghezza della parola è molto robusto, ma la sua interpretazione è tutt’altro che chiara. Un’alternativa all’ipotesi di Baddeley, Thomson e Buchanan \ibidem\ che l’effetto sia basato sul decadimento della traccia, con parole più lunghe che richiedono più tempo per essere ripetute e rievocate, è l’idea che le parole più lunghe siano più complesse e perciò producano più interferenza [Caplan, Rochon e Waters 1992]. Secondo una terza interpretazione, le parole più lunghe, che hanno più componenti da ricordare, sono più vulnerabili alla frammentazione e all’oblio [Neath e Nairne 1995], ma questa interpretazione è stata abbandonata dai suoi stessi sostenitori [Hulme et al. 2006]. Tuttavia, la controversia non è affatto risolta [per un approfondimento, cfr. Mueller et al. 2003; Hulme et al. 2006; Baddeley 2007; Lewandowski e Oberauer 2008]. Per fortuna, per quanto sia importante stabilire se la maggiore vulnerabilità all’oblio delle parole più lunghe sia dovuta al decadimento della traccia nel tempo o all’interferenza delle sillabe successive, non è essenziale per l’idea generale di un loop fonologico operante all’interno di un modello di memoria di lavoro multicomponenziale. E questa è una fortuna, perché comprendere se l’oblio a breve termine dipenda dal decadimento della traccia, dall’interferenza, o da entrambe le cose, si è dimostrato, in questi ultimi quarant’anni, un problema estremamente difficile da risolvere.

4.2. L’effetto dei suoni irrilevanti

Spesso gli studenti sostengono di lavorare meglio se hanno come sottofondo la musica o il loro programma radio preferito. Hanno ragione? Nel 1976, Colle e Welsh hanno mostrato che la MBT di sequenze di cifre presentate visivamente peggiora quando esse sono accompagnate da una voce che parla in una lingua straniera non familiare, a cui i soggetti sono istruiti a non prestare ascolto. La rievocazione di cifre non è danneggiata se la voce è sostituita da rumore non strutturato. Salame e Baddeley [1982] hanno studiato direttamente l’influenza del significato confrontando l’effetto prodotto da parole irrilevanti e da sillabe senza senso pure irrilevanti sulla rievocazione di sequenze di cifre. Essi hanno trovato che le parole dotate di significato e le sillabe senza senso alterano la rievocazione nella stessa misura, il che fa pensare che il significato del materiale irrilevante non fosse importante. In effetti, quando i suoni irrilevanti comprendevano nomi di cifre {one, two), l’alterazione non era maggiore di quando erano presentati gli stessi fonemi in ordine differente, in modo da formare parole che non fossero cifre (per esempio, tun, woo). Sia gli autori dello studio precedente sia Colle [1980] hanno suggerito che l’effetto dei suoni linguistici irrilevanti potrebbe stare alla memoria come il masche­ ramento a opera di suoni irrilevanti sta alla percezione uditiva di suoni linguistici. Una possibilità è che i suoni linguistici irrilevanti abbiano accesso al magazzino fonologico e aggiungano rumore alla traccia di memoria. Tuttavia, il rumore bianco altera la percezione ma non danneggia il ricordo, cosa che invece fanno i suoni lin­ guistici irrilevanti. Inoltre, in contrasto con il mascheramento uditivo, la prestazione

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di MBT non è influenzata dall’intensità del suono irrilevante [ibidem]. Ancor più problematico per l’analogia del mascheramento uditivo è il fatto che il grado di deterioramento della MBT non è correlato con la similarità fonologica fra il suono irrilevante e gli item da ricordare. Le parole irrilevanti simili nel suono agli item da ricordare non producono più danno delle parole dissimili [Jones e Macken 1995; Le Compte e Shaibe 1997]. Ma come stanno le cose con la musica? Salamé e Baddeley [1989] hanno mostrato che la musica interferisce con la rievocazione di cifre, e la musica vocale più di quella strumentale. Jones e Macken [1993] hanno scoperto che anche i toni puri danneggiano la prestazione, purché abbiano fluttuazioni d’altezza. Essi hanno proposto quella che hanno chiamato changing state hypothesis (ipotesi dello stato variabile), secondo cui la ritenzione dell’ordine seriale, nella memoria verbale o visiva, può essere alterata da stimoli irrilevanti, posto che essi fluttuino nel tempo [Jones, Macken e Murray 1993]. Jones [1993] ha messo in relazione l’effetto dei suoni irrilevanti con le teorie della percezione uditiva, e ha proposto, in alternativa al modello del loop fonologico, la object-oriented episodic record (O-OER) hypothesis (ipotesi dei record episodici orientati agli oggetti), di cui parleremo più avanti.

4.3. Il problema dell’ordine seriale

A questo punto era chiaro che il modello del loop fonologico specificato in termini puramente verbali soffriva di due gravi difetti. In primo luogo, non spiegava adeguatamente come è immagazzinato l’ordine seriale. Dato che il clas­ sico compito di span di cifre è basato sulla ritenzione dell’ordine seriale, questa è una limitazione evidentemente importante. In secondo luogo, il modello non specificava chiaramente i processi all’opera nel recupero dal magazzino fonolo­ gico. Per superare queste due limitazioni occorreva un modello più dettagliato, preferibilmente in forma computazionale o matematica, che permettesse di ela­ borare e controllare previsioni esplicite. Per fortuna, fu possibile persuadere diversi gruppi di ricercatori in possesso delle competenze necessarie a cimentarsi in questa impresa. Sono stati proposti diversi modelli basati sul loop fonologico; essi hanno af­ frontato la questione dell’ordine seriale in una varietà di modi, concordando su quali fossero i problemi più importanti, ma non su come fosse meglio trattarli. I diversi modelli concordano nel postulare un magazzino fonologico e un mecca­ nismo separato per l’ordine seriale; il recupero dal magazzino è influenzato dalla similarità. La maggior parte dei modelli basati sul loop fonologico respingono una interpretazione dell’ordine seriale in termini di concatenamento, e propongono che l’informazione sull’ordine sia portata da qualche tipo di contesto dinamico [Burgess e Hitch 1999; 2006], da connessioni con il primo item, come nel primacy model (modello basato sulla priorità) di Page e Norris [1998], o da connessioni con il primo e l’ultimo degli item [Henson 1998]. La ripetizione fa sì che gli item siano recuperati dal magazzino fonologico e successivamente reintrodotti come stimoli ripetuti. Finora solo uno di questi modelli ha preso esplicitamente in considerazione l’effetto dei suoni irrilevanti. Page e Norris [2003] propongono che i suoni lin-

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Quadro 2.2. L’immagazzinamento dell’informazione sull’ordine seriale 1. Concatenamento A-+B-+C-^D Ciascun item è associato con Fitem successivo. La rievocazione comincia dal primo item (4), che evoca il secondo (B), e così via.

2. Contesto Contesto variabile A A A n T T ▼ v A B C D Ciascun item è collegato a un contesto variabile, che può essere basato sul tempo. Il contesto opera poi come un suggerimento per il recupero.

3. Priorità Ciascun item presentato riceve attivazione. Il primo ne riceve di più, il secondo un po’ meno, e così via. Gli item sono rievocati in ordine di forza. Dopo essere stato rievocato, Fitem viene soppresso e viene scelto il più forte fra i rimanenti. A A

Forza

B

C

D

I I I I

guistici irrilevanti aggiungano rumore al meccanismo dell’ordine seriale ma non al magazzino fonologico, la componente responsabile degli effetti di similarità fonologica (quadro 2,2). Ciò permette di spiegare perché la similarità tra gli item da ricordare e quelli irrilevanti non abbia effetto; essi operano su parti differenti del sistema e perciò non interagiscono.

5. Teorie alternative della memoria a breve termine verbale Finora ci siamo concentrati principalmente sulla spiegazione della memoria verbale a breve termine fornita dall’ipotesi del loop fonologico. Questo approccio ha due vantaggi: offre una spiegazione unitaria di una varietà di fenomeni molto robusti relativi alla MBT, e lo fa collegandoli direttamente con altri aspetti della me­ moria di lavóro (dei quali parleremo nel prossimo capitolo). È tuttavia importante tenere a mente che sono stati proposti altri modi di spiegare questi dati. Prenderemo brevemente in considerazione alcuni di essi prima di passare a una trattazione più ampia della memoria di lavoro e di chiederci perché le persone abbiano bisogno di una memoria di lavoro.

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Un primo approccio alla MBT è quello proposto da Dylan Jones e colleghi [Jones 1993; Jones e Macken 1993; 1995] con V object-oriented episodic record (OOEBj model (modello dei record episodici orientati agli oggetti)* Questo modello è stato sviluppato per dar conto dell’effetto dei suoni irrilevanti Sulla MBT. Esso è stato influenzato dalle ricerche sulla percezione uditiva e rappresenta le sequenze di item come punti su una superficie multimodale; assume però che la rievocazione seriale, uditiva o visiva che sia, si basi su un unico sistema operante su una rappre­ sentazione comune. Rievocare una sequenza significa ricostruire la traiettoria dei punti che rappresentano la sequenza (un processo simile a quello di trovare i punti di un grafico). I suoni irrilevanti potrebbero creare traiettorie alternative, alterando la rievocazione (Jones 1993]. L’assunzione che la MBT verbale e quella visiva siano basate sullo stesso sistema non è stata confermata da esperimenti successivi [Meiser e Klauer 1999] ed è in contrasto con i dati degli studi neuropsicologici, che mostrano pazienti con MBT verbale danneggiata e MBT visiva preservata [Shallice e Warrington 1970; Vallar e Papagno 2002], mentre per altri pazienti vale l’opposto [Della Sàia e Logie 2002]. Inoltre, la spiegazione della memoria dell’ordine seriale offerta dal modello sem­ brerebbe basata sul concatenamento, un’idea che non ha trovato molte conferme. Un altro modello della MBT verbale è il feature model (modello basato sulle caratteristiche) di James Nairne [Nairne 1988; 1990], che fa cadere la separazio­ ne fra MLT e MBT e postula un unico sistema di memoria in cui ciascun item è rappresentato da un insieme di caratteristiche, che appartengono a due categorie fondamentali: dipendenti dalla modalità e indipendenti dalla modalità. La parola GATTO, quando viene letta, ha sia caratteristiche dipendenti dalla modalità vi­ siva, come il carattere di stampa, sia caratteristiche da essa indipendenti, come il significato. Quando la parola GATTO viene pronunciata anziché letta, le carat­ teristiche indipendenti dalla modalità, come il significato, sono le stesse, mentre le caratteristiche che ne dipendono sono acustiche anziché visive. L’ipotesi è che l’oblio dipenda dall’interferenza: i nuovi item alterano gli insiemi di caratteristiche costruiti dagli item precedenti, provocando errori di rievocazione. Il feature model ha la forma di un programma per computer che può essere usato per predire l’esito di differenti manipolazioni sperimentali. Il modello, a partire da una serie di assunzioni, dà conto di molti dei risultati che sono stati usati per giustificare l’ipotesi del loop fonologico. L’effetto di similarità fonologica viene spiegato osservando che item simili hanno un maggior numero di caratteristiche in comune, donde una maggiore probabilità di recuperare un item simile ma sbagliato. Il modello assume che i suoni irrilevanti aggiungano rumore alla traccia di memo­ ria di ciascun item, e che anche la soppressione articolatoria aggiunga rumore, e inoltre richieda attenzione [ibidem}. A partire da ben precise assunzioni sull’esatta proporzione di caratteristiche dipendenti e indipendenti dalla modalità, e tenendo conto dell’influenza esercitata su di esse dalla soppressione articolatoria e dai suoni irrilevanti, il feature model è in grado di riprodurre un’ampia varietà di fenomeni [Neath e Surprenant 2003], benché siano state offerte ben poche giustificazioni per le particolari assunzioni richieste dalle simulazioni. Vi sono diversi risultati che & feature model ha difficoltà a spiegare. Esso prevede che i suoni irrilevanti peggiorino la rievocazione solo se sono presentati durante la co­ difica degli item in memoria. In realtà, essi peggiorano la rievocazióne anche quando seguono gli item, e quando la ripetizione è impedita per soppressione [Norris, Badde-

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ley e Page 2004]. Il modello ha inoltre il problema di spiegare perché l’effetto della lunghezza della parola viene meno con liste che mescolino parole lunghe e brevi. Di conseguenza, alcuni dei suoi sostenitori lo hanno abbandonato in favore del SIMPLE model [Hulme et al. 2006; Brown, Neath e Chater 2007], che descriviamo di seguito. Brown, Neath e Chater [ibidem] hanno proposto un modello di memoria di applicazione molto ampia, il SIMPLE model (scale invariant memory, perception and learning model} modello di memoria, percezione e apprendimento a invarianza di scala), che si applica sia alla MBT sia alla MLT. E fondamentalmente un modello dell’oblio basato sul recupero, nel quale gli item più distintivi sono più facili da recuperare. U modello sottolinea il ruolo della discriminabilità temporale ma va oltre i precedenti tentativi di usare questo meccanismo per spiegare gli effetti di recenza nella rievocazione libera sulla base di un modello matematico esplicito. E probabilmente troppo presto per valutare il SIMPLE model, che appare in grado di dare conto della rievocazione libera ma non sembra cavarsela altrettanto bene con la rievocazione seriale [Lewandowski et al. 2006; Nimmo e Lewandowski 2006]. Come nel caso del feature model, gli aspetti esecutivi della memoria di lavoro restano per il momento fuori del campo d’applicazione del SIMPLE model. Un altro modo di spiegare l’ordine seriale è supporre che l’informazione sull’or­ dine sia mantenuta da un segnale di contesto. Come abbiamo visto sopra, una possibilità è postulare un contesto basato sul tempo che incorpori il decadimento della traccia [Burgess e Hitch 1999; 2006]. Questa possibilità è respinta da Farrell e Lewandowski [2002; 2003], che propongono, nel loro serial-order-in-a-box (SOB) model, che l’ordine seriale sia mantenuto da un segnale di contesto basato sugli eventi, dove l’oblio dipende dall’interferenza fra eventi. Può apparire strano che una capacità apparentemente semplice come quella di rievocare una sequenza di cifre nell’ordine corretto sia tanto difficile da spiegare. Tuttavia, come abbiamo già osservato, il problema del modo in cui l’ordine seriale può essere mantenuto da un sistema come il nostro cervello, che elabora gli eventi in parallelo, imbarazza gli studiosi fin da quando fu sollevato da Karl Lashley [1951], più di cinquant’anni fa.

6.

Memoria a breve termine visuo-spaziale

Immaginate di trovarvi in una stanza ben illuminata che, all’improvviso, piomba nell’oscurità. Riuscireste a trovare la porta? E, se vi fosse una scatola di fiammiferi sulla scrivania di fronte a voi, ve ne ricordereste? Queste due domande concernono due aspetti collegati ma distinti della memoria di lavoro visiva: il primo ha a che fare con la memoria spaziale (dove?), l’altro con la memoria di oggetti (che cosa?). I dati mostrano che sareste in grado di tener ferma la direzione generale della porta per una trentina di secondi [Thomson 1983]. Il ricordo della posizione precisa di un oggetto a portata di mano declina più rapidamente [Elliot e Madalena 1987],

6.1. Memoria a breve termine spaziale

In un esperimento di Posner e Konick [1966], i soggetti dovevano ricordare in quale punto di una linea veniva a cadere uno stimolo. La prestazione di ritenzione

LA MEMORIA A BREVE TERMINE

era buona dopo un intervallo in cui i soggetti non dovevano fare alcunché, ma declinava se nell’intervallo erano impegnati in un compito di elaborazione di cifre; l’oblio aumentava di pari passo con la complessità del compito. Poiché il compito interposto non aveva natura spaziale o visiva, se ne può arguire che esso interferisse con la capacità di ripetere o tenere a mente lo stimolo iniziale. Un risultato analogo è stato ottenuto da Dale [1973], che ha usato un compito in cui i soggetti dovevano ricordare la posizione di un punto nero in un campo bianco bidimensionale.

6.2. Memoria di oggetti

Irwin e Andrews [1996] presentavano ai loro soggetti una matrice di lettere di diverso colore. Dopo un breve intervallo, là dove in precedenza c’era una delle lettere appariva un asterisco. Esso fungeva da suggerimento per rievocare la lettera, il colore o tutte e due le cose. I soggetti avevano risultati analoghi, sia che dovessero rievocare le lettere e il colore sia che dovessero rievocare solo uno di questi attributi. La prestazione era eccellente fino a quattro item, dopo di che declinava con l’aumentare del numero di lettere. Era ovviamente possibile che i soggetti usassero il loop fonologico per i nomi delle lettere, il che complicava l’interpretazione. Per evitare questa possibilità, Vogel, Woodman e Luck [2001] usarono come stimoli barre differenti per larghezza, orientamento e altre caratteristiche, come la tessitura; ciò rendeva praticamente impossibile una codifica verbale accurata nella breve fase di presentazione. Anche in questo caso c’era un limite superiore di quattro oggetti. Va sottolineato che appariva irrilevante quante caratteristiche avesse ogni oggetto. In una condizione, ad esempio, la matrice conteneva in totale sedici caratteristiche (quattro oggetti con quattro caratteristiche ciascuno), ma tutti e quattro questi oggetti complessi sembravano essere stati ben codificati. La conclusione di Vogel e colleghi era che il sistema fosse limitato quanto al numero di oggetti ma che gli oggetti potessero variare per complessità senza danno per la prestazione (fig. 2.7). In uno studio, per impedire la codifica verbale veniva usata la soppressione articolato ria; ciò non aveva effetto sulla prestazione, a conferma dell’idea che il compito non dipendesse dalla verbalizzazione. Nello stesso studio, l’interposizione di un breve intervallo vuoto non sembrava produrre oblio. In uno studio di Woodman e Luck [2004] il compito interposto era un test di ricerca visiva; i soggetti dovevano esplorare una matrice alla ricerca di bersagli specificati visivamente nell’intervallo fra la presentazione e il test di un insieme di figure colorate. L’esplorazione peggiorava la memoria della posizione spazia­ le, ma non la memoria del colore dello stimolo (memoria di oggetti). Oh e Kim [2004] hanno studiato l’influenza della memoria sulla velocità della ricerca visiva, e hanno osservato che la richiesta di ricordare contemporaneamente più oggetti non influenzava la velocità della ricerca visiva, mentre un compito concorrente di ritenzione spaziale faceva diminuire la velocità con la quale le persone ricercavano un dato bersaglio. Sembra insomma che siamo in grado di ricordare fino a quattro oggetti, anche quando ognuno di essi ha parecchie caratteristiche differenti, e che questa capacità non peggiori per alcuni secondi, neanche per effetto di una attività interpolata. Sem­ bra invece che la memoria della posizione spaziale sia più vulnerabile e interagisca

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Fig. 2,7, Prestazione idi riconoscimento visivo in funzione del numero di oggetti presentati e del numero

di caratteristiche per oggetto. La prestazione è molto sensibile al numero di oggetti ma non al numero di caratteristiche di ciascun oggetto.

Fonte- Vogel, Woodman e Luck [2001],

con altre attività spaziali. È possibile che questa differenza dipenda dalla necessità di mantenere un sistema di riferimento spaziale quando debba essere prodotta una risposta ben precisa, una capacità che potrebbe essere alterata da altre attività di tipo spaziale, come i movimenti oculari verosimilmente all’opera nella ricerca visiva.

6.3. La distinzione fra visivo e spaziale

Abbiamo tracciato sopra una distinzione fra memoria a breve termine spaziale (ricordare dove) e memoria di oggetti (ricordare che cosa). In concreto, questi due sistemi operano assieme, ma sono stati ideati compiti che sollecitano maggiormente Tuna o l’altra di queste due forme di memoria visuo-spaziale. In un classico compito spaziale il soggetto ha di fronte a sé una serie di nove cubetti (fig. 2.8). Lo speri­ mentatore tocca con la mano alcuni cubetti in sequenza, dopo di che il soggetto deve fare lo stesso; la lunghezza della sequenza viene aumentata finché il soggetto non sbaglia. Questa lunghezza è lo span di Corsi, dal nome del neuropsicologo che

LA MEMORIA A BREVE TERMINE

Fig. 2.8. D test di Corsi dello span di memoria visuo-spaziale. L’esaminatore tocca ì cubetti in sequenza e

il soggetto, che gli siede davanti, deve riprodurre la sequenza. I numeri servono ad aiutare l’esaminatore.

Fig. 2.9. Span di configurazioni visive. Ai soggetti viene presentata una serie di matrici in cui metà delle celle

sono piene e metà sono vuote; il loro compito è riprodurre le matrici. H test comincia con una semplice con­ figurazione 2x2 (a sinistra), poi le matrici diventano gradualmente più grandi fino alla matrice 5x6 (a destra).

Fonte: Della Sala et al. [1999].

ha ideato il compito; lo span è tipicamente di circa cinque cubi, due unità in meno dello span di cifre. Lo span visivo può essere misurato per mezzo di matrici in cui metà delle celle sono piene e metà sono vuote (fig. 2.9). Ai soggetti viene mostrata una configura­ zione; il loro compito è riprodurla su una matrice vuota contrassegnando le celle da riempire. Il test comincia con una semplice configurazione 2x2, dopo di che il numero di celle viene aumentato fino a che il soggetto non sbaglia, cosa che soli­ tamente avviene più o meno quando la matrice è di sedici celle.

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Ricordo della posizione di punti e di ideogrammi cinesi. Solo il movimento danneggia la memoria spaziale, mentre il ricordo di configurazioni è danneggiato piuttosto dal colore. Fig. 2.10.

Fonte-. Klauer e Zhao [2004].

LA MEMORIA A BREVE TERMINE

Le prove della distinzione fra lo span spaziale e quello visivo provengono da studi in cui fra la presentazione e il test è interposta un'attività potenzialmente interferente. Se questa attività implica elaborazione spaziale (ad esempio premere in sequenza una serie di tasti), lo span di Corsi si riduce; lo span di configurazioni è danneggiato piuttosto da un compito di elaborazione visiva, ad esempio dalla percezione visiva di forme [Della Sala et al. 1999]. La STM visiva non è ovviamente limitata al ricordo di configurazioni, ma riguarda anche forme e colori. Lo ha dimostrato con particolare evidenza una serie di studi di Klauer e Zhao [2004]; in essi veniva messo a confronto un compito spaziale, in cui i soggetti dovevano ricordare la posizione di un punto bianco su sfondo nero, con un compito visivo, che richiedeva di ricordare degli ideogrammi cinesi. In tutti i casi, la presentazione dello stimolo era seguita da un intervallo di ritenzione di 10 secondi, dopo di che ai soggetti venivano presentati otto item tra i quali essi dovevano indivi­ duare quello appena presentato. Durante l’intervallo di 10 secondi, i soggetti svolge­ vano un compito che poteva essere spaziale o visivo. Nel compito spaziale venivano presentati dodici asterischi, undici dei quali si muovevano a caso mentre il dodicesimo era stazionario; il soggetto doveva individuare quello stazionario. Nel compito inter­ ferente visivo veniva presentata una serie di colori, sette dei quali erano variazioni di un colore, che poteva essere il rosso, mentre uno, il bersaglio, era blu o vicino al blu. Come si vede nella figura 2.10, la localizzazione spaziale dei punti era peggiorata dal movimento ma non dal colore, mentre per gli ideogrammi valeva l'opposto.

6.4. Approcci neuropsicologici allo studio della memoria a breve termine

Nel 1966, Brenda Milner descrisse il caso di un giovane, H.M., che aveva avu­ to la sfortuna di soffrire di un'epilessia intrattabile. Questa può dipendere dalla formazione di tessuto cicatriziale nel cervello, che produce un eccesso di attività elettrica e, di conseguenza, crisi epilettiche. Accade spesso che l'asportazione chirurgica del tessuto cicatriziale sia di grande aiuto per alleviare le crisi. H.M. fu sottoposto a un intervento di questo tipo; le crisi si ridussero, ma purtroppo insorse anche una gravissima amnesia. Infatti l'intervento chirurgico aveva interessato, in entrambi i lati del cervello, la regione dell’ippocampo, che, come oggi sappiamo, ha un’importanza cruciale per la memoria episodica a lungo termine. Il caso di H.M. è stato importante per ragioni pratiche, perché ha sottolineato la necessità di considerare molto attentamente la funzione della parte del cervello da asportare chirurgicamente, e per ragioni teoriche, per la luce che ha gettato sulla natura della MBT. In H.M. era deteriorata la capacità di apprendere nuovo materiale, visivo o verbale, e di aggiornare la conoscenza del mondo - un classico esempio della sindrome amnesica di cui parleremo nell’undicesimo capitolo. Alcuni aspetti della memoria, tuttavia, venivano risparmiati. H.M. era in grado di ricordare gli eventi accaduti prima dell’intervento e di apprendere certi compiti, ad esempio quelli basati su abilità motorie. Anche lo span di cifre era rimasto intatto, il che indica che le prestazioni di MBT e MLT potrebbero dipendere da sistemi di memoria differenti, basati su parti differenti del cervello. Perciò Baddeley e Warrington [1970] indagarono più in det­ taglio la distinzione fra MBT e MLT, usando un gruppo di pazienti accuratamente selezionati con una grave amnesia ma abilità intellettive altrimenti normali, ed

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CAPITOLO 2

esaminando le loro prestazioni in una varietà di compiti di MBT e di MLT. Come in H.M., anche in questi pazienti lo span di cifre era preservato. Essi mostravano una prestazione normale nel compito dei Peterson, e l’effetto di recenza nella rievocazione libera era pure preservato; la prestazione relativa ai primi item in un compito di rievocazione libera era invece assai scadente. Questi risultati saranno discussi ulteriormente nell’undicesimo capitolo.

6.5. Deficit della memoria a breve termine verbale

Negli stessi anni, Tim Shallice ed Elizabeth Warrington [1970] stavano studiando un paziente con problemi di memoria di tipo opposto. Il paziente K.E aveva uno span di cifre di due soli item, una prestazione molto scadente nel compito dei Peterson, e un ridotto effetto di recenza nella rievocazione libera. In seguito furono osservati altri pazienti simili [Vallar e Shallice 1990]. I due tipi di pazienti - pazienti amnesici con prestazioni normali nella MBT e MLT danneggiata, e pazienti con MBT danneggiata e MLT preservata - esemplificano quella che è nota come doppia dissociazione. Essa dimostra, benché non in modo assolutamente conclusivo, l’esistenza di almeno due sistemi o processi separati. Se fossero stati studiati solo i pazienti amnesici, si sarebbe potuto pensare che le capacità preservate, come la recenza e lo span di cifre, rappresentassero semplicemente compiti più facili di quelli danneggiati. Il fatto che per altri pazienti valga esattamente l’opposto esclude questa interpretazione. Il paziente di Shallice e Warrington non mostrava un deficit generale di MBT, ma piuttosto uno specifico deficit di MBT fonologica. Di conseguenza, la sua pre­ stazione era decisamente migliore quando nella misurazione dello span di cifre gli stimoli erano presentati visivamente, in accordo con la conservazione della memoria visuo-spaziale testimoniata in K.E dal test di Corsi. Dello stesso tipo erano i pro­ blemi della paziente P.V. [Basso et al. 1982; Vallar e Baddeley 1987], che, in seguito a un ictus, presentava un deficit della MBT fonologica molto puro e specifico. Le sue capacità intellettive e linguistiche erano altrimenti intatte, ma aveva uno span di cifre di due item, e nei compiti di MBT verbale non mostrava effetti di similarità fonologica né di lunghezza della parola. Come è caratteristico di questi pazienti, P.V. mostrava un effetto di recenza molto ridotto nei compiti di rievocazione libera verbale immediata. La recenza a lungo termine era però normale. Ciò fu verificato per mezzo di un compito in cui i soggetti dovevano risolvere una serie di anagrammi, e poi eseguire un test di rievocazione, che i soggetti non si aspettavano. Sia P.V. sia i soggetti di controllo mostravano un evidente effetto di recenza (le soluzioni suc­ cessive erano ricordate meglio), sebbene la rievocazione fosse inaspettata e subito dopo il soggetto dovesse risolvere altri anagrammi. Questo tipo di risultati fa pensare che il problema pon stia nella capacità di P.V. di usare una strategia di recenza, ma piuttosto nella sua capacità di usarla per potenziare la memoria verbale immediata, che è presumibilmente basata su un codice fonologico o verbale/lessicale.

6.6. Deficit della memoria a breve termine visuo-spaziale

Kx-DT^ent/e pazienti, come K.E e P.V, hanno un deficit che è limitato alla verbale, altri pazienti mostrano il quadro opposto: una MBT verbale normale

LA MEMORIA A BREVE TERMINE

Quadro 2.3. La paziente L.E.

La paziente L.E. era stata un’abile scultrice prima che le lesioni cerebrali provocate da una malattia ne danneggiassero la capacità di formare immagini visive. Il suo stile artistico, che era stato improntato al realismo (come in a e è), si fece molto più astratto (come in c e 3). Anche la sua capacità di disegnare peggiorò, come è testimoniato dai tentativi di disegnare un uccello (é*), un cam­ mello (/) e un aeroplano (g). Fonte: Wilson, Baddeley e Young [1999].

e prestazióni scadenti nei compiti di MBT visiva o spaziale. Uno di questi pazienti, L.H., aveva riportato in un incidente stradale un trauma cranico che aveva gra­ vemente danneggiato la sua capacità di ricordare colori e forme. D’altra parte, la sua memoria per l’informazione spaziale, come quella relativa a luoghi e percorsi, era eccellente [Farah et al. 1988]. Un’altra paziente, L.E., aveva lesioni cerebrali dovute a lupus eritematoso. Anche questa paziente aveva una memoria spaziale eccellente ed era perfettamente in grado di seguire un percorso non familiare (non aveva difficoltà a guidare da casa fino al laboratorio dove venivano studiate le sue abilità cognitive). D’altra parte, la memoria visiva era deteriorata e insieme a questa era gravemente deteriorata la capacità di disegnare a memoria [Wilson, Baddeley e Young 1999]. Era stata un’abile scultrice, ma scoprì che la sua capacità di visua­

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CAPITOLO 2

lizzazione era andata perduta. Non riusciva a ricordare che aspetto avessero le sue vecchie sculture e il suo stile cambiò radicalmente (quadro 2.3). In altri casi la MBT visiva è intatta ma è deteriorata la memoria spaziale. Carlesimo e colleghi [2001] hanno descritto un paziente, M.V., con una lesione del lobo frontale destro provocata da un ictus; la sua prestazione di memoria visiva era normale, ma aveva risultati molto scadenti nel test di Corsi e in un compito di MBT che richiedeva di immaginare un percorso attraverso una matrice. Luzzatti e colleghi [1998] hanno descritto una paziente con lesioni progressive all’emisfero destro che le avevano provocato problemi di memoria spaziale in compiti come quello di descrivere l’ubicazione di punti di riferimento nella sua città, mentre la memoria per i colori e le forme era rimasta buona. Il lettore avrà forse notato che i deficit dei pazienti con problemi di MBT visuo-spaziale non sono limitati al mero immagazzinamento di stimoli visivi e spa­ ziali, ma riguardano capacità più complesse, come quella di creare e manipolare immagini mentali, e di usare tali immagini in compiti sofisticati quali la scultura e l’orientamento spaziale. In altre parole, i deficit chiamano in causa sia la memoria a breve termine sia la memoria di lavoro, di cui parleremo nel prossimo capitolo.

7. Sommario Il concetto di memoria a breve termine (MBT) si riferisce all’immagazzinamento di piccole quantità di informazione per brevi intervalli di tempo. La MBT è distinta dalla memoria di lavoro, che combina immagazzinamento ed elaborazione e opera come uno spazio di lavoro mentale che permette di svolgere compiti complessi. Lo studio della MBT ha preso le mosse dal compito di span di cifre, usato come misura delle capacità mentali. Di solito lo span è di circa sei o sette cifre, ma è facile che sia più breve per le parole e ancor più breve per le sillabe prive di significato e per le parole di una lingua straniera. Le prestazioni sono limitate dal numero di raggrup­ pamenti; materiali di tipo diverso sono più o meno suscettibili di raggruppamento. Verso la fine degli scorsi anni Cinquanta, l’idea di un sistema di memoria gene­ rale e unitario fu messa in discussione, essenzialmente sulla base di due paradigmi sperimentali. L’effetto di oblio a breve termine osservato dai Peterson dimostrò che piccole quantità di informazione, se ne è impedita la ripetizione, vengono dimen­ ticate nel giro di qualche secondo; inizialmente questo effetto fu interpretato in termini di decadimento della traccia. Si vide poi che il primissimo item presentato era meno soggetto a oblio; ciò suggeriva un’interpretazione in termini di interferen­ za degli item precedenti anziché di decadimento. Di qui là necessità di una teoria che prendesse in considerazione il processo di recupero. Il secondo importante paradigma fu quello della rievocazione libera. In questo tipo di compito, se la ripetizione degli stimoli viene impedita, l’effetto di recenza viene meno nell’arco di alcuni secondi, e si dimostra resistente ai molti fenomeni di memoria a lungo termine in grado di influenzare la ritenzione degli item prece­ denti. L’esistenza di una recenza a lungo termine fa pensare che essa dipenda da un particolare tipo di strategia di recupero che potrebbe essere usata in una varietà di sistemi di memoria. Le ricerche successive si sono concentrate sullo studio delle caratteristiche di vari sistemi di MBT. È stato mostrato che la MBT verbale è influenzata dalla

LA MEMORIA A BREVE TERMINE

similarità fonologica e dalla lunghezza delle parole da ricordare. L’ipotesi del loop fonologico spiega questi fenomeni nel quadro di un più ampio sistema di memo­ ria di lavoro postulando un magazzino temporaneo e un processo di ripetizione articolatorio che può essere interrotto per soppressione articolatoria. Sono stati proposti diversi modelli per dar conto di questo insieme di risultati. Alcuni sono basati sul modello del loop fonologico; altri modelli sono il feature model, basato principalmente sui modelli di MLT; \y object-oriented episodic record (O-OER) model, influenzato soprattutto dall’effetto dei suoni irrilevanti; e lo scale invariant memory, perception and learning (SIMPLE) model, il cui obiettivo principale è dare conto dell’effetto di recenza. La MBT visiva può essere suddivisa in una memoria visiva e una spaziale. Nella memoria per le posizioni spaziali l’oblio sembra sopravvenire nell’arco di alcuni secondi; non così nella memoria per gli oggetti visivi. Siamo in grado di ritenere fino a quattro oggetti; oltre questo punto, la prestazione declina. Inaspettatamente, il numero di caratteristiche di un oggetto non sembra avere un limite superiore evidente. E stato proposto che il taccuino visuo-spaziale, un sottosistema della memoria di lavoro che è omologo al loop fonologico, abbia componenti visive e spaziali. I dati neuropsicologici confermano le classificazioni comportamentali proposte. Diversi casi hanno rivelato la potenziale separazione fra MBT verbale, da un lato, e, dall’altro, MLT e MBT visuo-spaziale; il quadro dei deficit è fondamentalmente in accordo con l’ipotesi del loop fonologico. Sono stati descritti anche pazienti con deficit di MBT visuo-spaziale; in alcuni casi il deficit sembra riguardare il magazzino visivo, come testimonia la riduzione dello span di configurazioni, mentre altri pazienti mostrano una MBT spaziale deteriorata, come rivela la prestazione nel test di Corsi. Le localizzazioni cerebrali delle lesioni alla base di questi deficit neuropsicologici sono fondamentalmente in accordo con i dati di neuroimmagine che presenteremo nel terzo capitolo.

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La memoria di lavoro

Come ve la cavate con l’aritmetica mentale? Riuscite a moltiplicare 27 x3? Fate una prova. I metodi variano da persona a persona; io moltiplico prima 7 per 3, ottenendo 21, poi tengo a mente 1 e riporto 2, dopo di che moltiplico 2 per 3, e così via, alter­ nando il recupero di fatti numerici con la memorizzazione e la manipolazione dei risultati parziali. Insomma, uso la memoria di lavoro, tenendo a mente e al tempo stesso elaborando l’informazione. Questo uso attivo della memoria è l’argomento del presente capitolo. L’idea che la memoria a breve termine servisse da memoria di lavoro fu proposta negli scorsi anni Sessanta da Atkinson e Shiffrin [1968], gli autori del modello che abbiamo descritto sommariamente nel primo capitolo. Poiché aveva molto in comune con parecchi altri modelli in voga in quegli anni, ebbe il nome di modello modale. Come si vede nella figura 3.1, nel modello modale l’informazione proviene dall’ambiente ed è elaborata da una serie di sistemi di memoria sensoriale tempora­ nea che lavorano in parallelo, tra i quali sono compresi i processi di memoria iconica ed ecoica di cui abbiamo parlato nel primo capitolo. Da qui l’informazione passa nel magazzino a breve termine, che è una componente cruciale del sistema, non solo perché invia informazione al magazzino a lungo termine e da questo riceve a sua volta informazione, ma anche perché opera come una memoria di lavoro, alla quale compe­ tono la scelta e l’attuazione di strategie, la ripetizione {rehearsal) e, in generale, il ruolo di spazio di lavoro globale. Atkinson e Shiffrin [ibidem} proposero una simulazione matematica del loro modello per spiegare i processi all’opera nella ripetizione di item verbali e il ruolo della ripetizione nel trasferimento dell’informazione dal magazzino a breve termine al magazzino a lungo termine. Il modello modale, quando fu pre­ sentato, sembrava spiegare in maniera soddisfacente il modo in cui l’informazione è manipolata e immagazzinata. Ma ben presto cominciarono ad affiorare i problemi. Un primo problema era l’assunzione che la mera ritenzione di un item nel magazzino a breve termine fosse garanzia di apprendimento. Questa idea fu messa in discussione da Craik e Lockhart [1972], che proposero il principio dei livelli di elaborazione, secondo cui l’apprendimento dipende dal modo in cui il materiale è elaborato, piuttosto che dalla permanenza nel magazzino a breve termine. Questa è un’idea importante, sulla quale torneremo nel quinto capitolo.

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CAPITOLO 3

Input ambientale

Registri sensoriali Visivo Uditivo

Aptico

Magazzino a breve termine (MBT) Memoria di lavoro temporanea Processi di controllo: Ripetizione Codifica Decisioni Strategie di recupero

Magazzino a lungo termine (MLT) Magazzino di memoria permanente

___I___

Risposta

Fig. 3.1. Il flusso delPinformazione attraverso i sistemi di memoria secondo il modello modale di Atkinson

e Shiffrin.

Nel modello di Atkinson e Shiffrin era difficile anche spiegare alcuni dati neuropsicologici. Il lettore ricorderà che Shallice e Warrington [1970] hanno descritto un paziente con un grave deficit di memoria a breve termine. Nel modello modale, il magazzino a breve termine ha un ruolo cruciale nel trasferimento dell'informazione nella e dalla MLT. Perciò in questi pazienti il deficit di MBT dovrebbe danneggiare profondamente Papprendimento a lungo termine. Per giunta, se il magazzino a breve termine servisse da memoria di lavoro generale, questi pazienti dovrebbero mostrare gravi problemi in attività cognitive complesse come il ragionamento e la comprensione. Le cose stavano diversamente. Dei pazienti con MBT danneggiata, una era un'efficientissima segretaria, un'altra gestiva un negozio e cresceva i figli, un terzo faceva il tassista [Vallar e Shallice 1990]. In breve, non c'era traccia di un deficit generale della memoria di lavoro. Nel giro di pochi anni, il concetto di MBT, da semplice che era, divenne piut­ tosto complicato. Erano state ideate parecchie nuove tecniche sperimentali, ma non si applicavano in modo naturale a nessuna delle teorie proposte per spiegare i risultati sulla MBT A questo punto, molti ricercatori passarono allo studio della MLT, preferendo occuparsi dei nuovi affascinanti sviluppi della ricerca sui livelli di elaborazione e sulla memoria semantica. Proprio quando i problemi del modello modale stavano diventando evidenti, Graham Hitch e io cominciammo a occuparci della relazione fra MBT e MLT. Piuttosto che addentrarci nella selva delle tecniche sperimentali e delle teorie che caratterizzavano i due campi, preferimmo affrontare una semplicissima questione: se il sistema o i sistemi alla base della MBT hanno una funzione, quale può mai essere questa funzione? Supponiamo, come era allora opinione generale, che la MBT serva da memoria di lavoro: in tal caso, se la MBT smettesse di funzionare, ne soffrirebbero l'apprendimento a lungo termine e attività cognitive complesse come il ragionamento e la comprensione. Non avevamo a disposizione pazienti con questo particolare deficit di memoria, perciò pensammo di simularli servendoci dei nostri studenti universitari. Per fortuna, il procedimento non comportava l'aspor­ tazione di questa o quella parte del loro cervello: bastava tenerlo occupato mentre i soggetti ragionavano, comprendevano e apprendevano [Baddelev e Hitch 19741.

LA MEMORIA DI LAVORO

Quadro 3.1. Esempi tratti dal test di ragionamento grammaticale usato da Baddeley e Hitch [1974]

Vero

A segue B

B^A

B precede A

A-»B

B è seguito da A

B^A

A è preceduto da B

B^A

A non è preceduto da B

A->B

B non segue A

A->B

Falso

Risposte: V, F, V, V, V, F.

Quasi tutte le teorie concordavano su un punto: se la MBT verbale era associata a un compito particolare, questo era lo span di cifre, dove le sequenze di cifre più lunghe gravano maggiormente sul sistema di immagazzinamento a breve termine. Perciò combinammo lo span di cifre con il concomitante svolgimento di altri compiti, dal ragionamento all’apprendimento e alla comprensione, che si riteneva fossero basati su questo sistema a capacità limitata. Ai soggetti veniva presentata una sequenza di cifre; il loro compito era ripeterle ad alta voce mentre erano alle prese con altri compiti cognitivi. Se il numero di cifre da ritenere in memoria va­ ria, dovrebbe variare anche, in modo proporzionale, il carico su questo sistema a capacità limitata. Se esso opera come un sistema di memoria di lavoro deputato al ragionamento e ad altri compiti, il carico esercitato dalle cifre e l’effetto di interfe­ renza dovrebbero essere tanto più grandi quanto più lunga è la sequenza di cifre. Un esperimento consisteva in un semplice compito di ragionamento in cui i soggetti dovevano verificare un’affermazione sull’ordine di due lettere. Il compito è illustrato nel quadro 3.1. Potete provare voi stessi. Non senza sorpresa da parte nostra, i soggetti riuscivano a svolgere il compito anche quando dovevano ritenere e ripetere, al tempo stesso, sequenze fino a otto cifre (che era più dello span di memoria di molti di quei soggetti). Come si vede nella figura 3.2, il tempo impiegato in media per verificare le affermazioni aumen­ tava sistematicamente con il carico esercitato dalle cifre, ma non di moltissimo. Il tempo totale con otto cifre superava di circa il 50% il livello di base. Forse la cosa più notevole è il fatto che la percentuale di errori rimanesse costante a circa il 5 %, indipendentemente dal carico esercitato contemporaneamente dalle cifre. Quali sono le implicazioni di questi risultati per l’idea che il magazzino a breve termine serva da memoria di lavoro? La percentuale di errori indica che la prestazio­ ne può restare abbastanza buona nonostante il carico crescente esercitato dalle cifre, mentre i dati sul tempo di elaborazione indicano che cè un effetto, benché non grandissimo. Gli studi sull’apprendimento e sulla comprensione ebbero risultati essenzialmente analoghi [ibidem]} essi confermavano in certa misura l’ipotesi della

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CAPITOLO 3

Carico esercitato dalle cifre Fig. 3.2. Velocità e accuratezza del ragionamento grammaticale in funzione del carico esercitato contem­

poraneamente dalle cifre.

Fonte: Baddeley [1986].

memoria di lavoro, ma questa non sembrava dipendere interamente dal sistema di memoria all'opera nel compito di span di cifre. Perciò sviluppammo un modello più complesso, che chiamammo modello multicomponenziale della memoria di lavoro. L'espressione «memoria di lavoro» era stato coniato ma non ulteriormente elaborato da Miller, Galanter e Pribram [I960]. Nel caso del nostro modello, l’accento posto sulla specificazione «di lavoro» serviva a distinguerlo dai precedenti modelli di MBT, centrati soprattutto sull’immagazzi­ namento, e a sottolineare il suo ruolo funzionale di sistema alla base delle attività cognitive complesse, un sistema su cui poggia la nostra capacità di elaborazione mentale e di pensiero coerente [Baddeley e Hitch 1974].

1. Il modello multicomponenziale Il modello da noi proposto aveva tre componenti (fig. 3.3). La prima, il loop fonologico, è responsabile della ritenzione di sequenze di item acustici o verbali. Un secondo sottosistema, il taccuino visuo-spaziale, svolge una funzione simile per

LÀ MEMORIA DI LAVORO

Fig. 3.3. Il modello della memoria di lavoro proposto inizialmente da Baddeley e Hitch. Le frecce doppie

rappresentano il passaggio di informazione dal e al taccuino; le frecce singole rappresentano il processo di ripetizione seriale nel loop fonologico.

Fonte'. Baddeley e Hitch [1974].

gli item e i gruppi di item codificati visivamente e/o spazialmente. Il sistema, nel suo complesso, è controllato dall'esecutivo centrale, un sistema attentive a capacità limitata che seleziona e manipola il contenuto dei sottosistemi una struttura di controllo che, per così dire, manda avanti tutta la baracca. Per farvi un’idea dell’ese­ cutivo centrale, provate a pensare alla casa in cui vivete, e contate mentalmente quante finestre ci sono. Fatto? Adesso potete proseguire. Quante sono le finestre? Come avete fatto a contarle? Probabilmente vi siete formati una specie di immagine visiva di casa vostra, un’immagine che è basata sul taccuino visuo-spaziale. Poi, si può supporre, avete contato verbalmente le finestre ricorrendo al loop fonologico. Per fare tutto questo, è stato necessario che il vostro esecutivo centrale scegliesse una strategia e la applicasse. Esamineremo Tuna dopo l’altra queste tre componenti della memoria di lavoro, a partire dal loop articolatorio, che, come abbiamo già detto, può essere considerato come un modello di MBT verbale incluso in una teoria più generale della memoria di lavoro.

1.1. Il loop fonologico

Come abbiamo visto nel secondo capitolo, il loop fonologico è essenzialmente un modello di MBT verbale. Il loop fonologico dà conto di un’ampia e ricca varietà di risultati postulando semplicemente un magazzino temporaneo e un processo di ripetizione verbale. Non è privo di difetti, ma dà frutti da oltre trent’anni e, alme­ no finora, non è emersa un’alternativa generalmente accettata. Ma qual è il ruolo del loop fonologico nel più ampio sistema della memoria di lavoro? A che serve?

1.2. La funzione del loop fonologico

Stando ai dati, il loop fonologico non fa altro che accrescere di due o tre item lo span di memoria nel compito alquanto innaturale di ripetere una lista di nu-

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CAPITOLO 3

meri. Quale dunque può essere, se c’è, il suo significato evolutivo? L’evoluzione è stata così previdente da prepararci all’invenzione del telefono? E, se così non è, il loop è qualcosa di più di un «foruncolo nell’anatomia della cognizione», come ha suggerito un critico? Per rispondere a questa domanda, due colleghi italiani, Giuseppe Vallar e Costanza Papagno, intrapresero con il sottoscritto lo studio di una paziente, PV., che aveva un deficit molto puro del loop fonologico. Il suo span di cifre era di due item, ma l’intelligenza, la MLT e la memoria visiva a breve termine erano eccellenti, Parlava in modo fluente e le sue abilità linguistiche generali apparivano normali. PV. gestiva un negozio, si prendeva cura dei figli e non sembrava avere particolari problemi nella vita quotidiana. C’erano ambiti nei quali aveva gravi difficoltà? Se così fosse stato, avremmo potuto farci un’idea della funzione svolta dal loop fono­ logico. Considerammo diverse ipotesi. • Prima ipotesi: il loop potrebbe essersi evoluto per facilitare la compren­ sione del linguaggio [Vallar e Baddeley 1987]? PV. aveva effettivamente delle difficoltà, ma solo con un particolare tipo di frasi lunghe, quelle in cui è necessario tenere a mente le parole iniziali fino alla fine della frase per poterla comprendere. Ciò però non le creava problemi nella vita quotidiana, ed è difficile immaginare che l’evoluzione favorisca lo sviluppo di un sottosistema specializzato nei discorsi prolissi. • Seconda ipotesi: il loop fonologico potrebbe essersi evoluto come ausilio nell’apprendimento del linguaggio? Le persone colpite da un deficit del loop fono­ logico da adulte, come P.V, dovrebbero andare incontro a poche difficoltà, perché hanno già appreso la lingua madre. Potrebbero però avere problemi se dovessero apprendere una nuova lingua. Per controllare questa possibilità chiedemmo a PV. di imparare ad associare otto termini russi con gli equivalenti in italiano, sua lingua madre [Baddeley, Papagno e Vallar 1988]. Le parole venivano presentate a voce; dopo dieci prove, tutti i soggetti di controllo avevano appreso tutti e otto i vocaboli russi, mentre PV. non ne aveva appreso neanche uno (fig. 3.4). Non era possibile che soffrisse di amnesia? Ciò era da escludersi, perché quando le veniva richiesto di imparare ad associare due parole non correlate appartenenti entrambe alla sua lingua madre, ad esempio castello-pane, compito tipicamente basato sulla codifica semantica [Baddeley e Dale 1966], P.V non aveva particolari difficoltà. Questi risultati confermavano perciò l’ipotesi di un collegamento fra il loop fonologico e l’acquisizione del linguaggio. Tuttavia, se è vero che un singolo caso può fornire molte informazioni, è vero anche che un individuo può essere molto diverso dagli altri e perciò, in definitiva, fuorviarne. Siccome di pazienti con un deficit di MBT non ve ne sono molti, deci­ demmo di controllare ulteriormente la nostra ipotesi «guastando» il loop fonologico di soggetti normali impegnati nell’apprendimento di parole di una lingua straniera. L’ipotesi era che l’impossibilità di usare il loop avrebbe causato particolare difficoltà nell’apprendimento di parole straniere, proprio come in P.V In uno studio veniva usata la soppressione articolatoria [Papagno, Valentine e Baddeley 1991]. Il fatto che i soggetti dovessero ripetere in continuazione un suono irrilevante durante l’apprendimento ostacolava l’apprendimento della lingua straniera, basato, per ipotesi, sul loop fonologico, ma aveva scarso effetto sull’apprendimento di coppie di parole nella lingua materna. In un altro studio, Papagno e Vallar [1992] varia­ vano la similarità fonologica o la lunghezza delle parole straniere da imparare, due

LA MEMORIA DI LAVORO

------- Soggetti di controllo — P.V.

2 -

1 0 d------- 1------- 1------- 1----- 1------- 1----- 1----- 1------- 1----- [----- 1 0123456789 10 Prove

Fig. 3.4. Velocità di apprendimento di coppie di parole da parte della paziente P.V. e di un gruppo di

controllo. La sua capacità di apprendere còppie di parole dotate di significato rimaneva inalterata (47), ma non era in grado di apprendere le parole di una lingua straniera {b}. Fonte; Baddeley, Papagno e Vallar [1988].

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CAPITOLO 3

fattori che, com’è noto, influenzano il loop fonologico. Quando le risposte erano parole straniere, la similarità e la lunghezza danneggiavano la prestazione molto più di quando entrambe le parole appartenevano alla lingua materna dei soggetti. Tutto ciò confermava quanto già detto in relazione a P.V. sull'importanza del loop per l’apprendimento di nuove parole. Queste conclusioni, tuttavia, erano limitate agli adulti che apprendevano una seconda lingua. Il sistema sarebbe ovviamente più importante se influenzasse anche l’acquisizione della lingua materna da parte del bambino. Susan Gathercole e io studiammo sotto questo aspetto un gruppo di bambini con un disturbo specifico del linguaggio [Gathercole e Baddeley 1990]. Erano bambini che avevano 8 anni e una intelligenza non verbale normale, ma lo svi­ luppo linguistico era quello di un bambino di 6 anni. Ciò poteva dipendere da un deficit del loop fonologico? Sottoposti a una batteria di test di memoria, i bambini mostravano una scarsa capacità di ripetere pseudo-parole non familiari. Si noti che in questo compito i soggetti non solo devono ascoltare le non-parole, ma anche tenerle a mente abbastanza a lungo per poterle ripetere. Elaborammo per­ ciò un test di ripetizione di non-parole, in cui i soggetti ascoltavano e dovevano ripetere pseudo-parole di lunghezza crescente (per esempio, ballop, woogalamic, versatratìonal\ in italiano potrebbero essere: loccioy smodialone, insontrazionalé). Mettemmo a confronto bambini con disturbo del linguaggio, altri bambini della stessa età che avevano uno sviluppo linguistico normale, e un gruppo di bambini di 6 anni con un livello di sviluppo linguistico simile a quello del gruppo con disturbo del linguaggio ma che, per la differenza d’età, avevano prestazioni non verbali peggiori. I risultati appaiono nella figura 3.5; si vede chiaramente che i bambini di 8 anni con disturbo del linguaggio avevano prestazioni peggiori anche dei bambini di 6 anni. Di fatto, la loro capacità di ripetere non-parole equivaleva a quella di bambini di 4 anni. Questa prestazione nella ripetizione di non-parole poteva avere a che fare con il ritardo nello sviluppo del linguaggio? Il livello del vocabolario è correlato alla prestazione nella ripetizione di non-parole anche nei bambini normali? Per rispondere a queste domande studiammo una coorte di bambini di età compresa fra 4 e 5 anni che di lì a poco avrebbero cominciato la scuola primaria a Cambridge (Inghilterra); facemmo uso del test di ripetizione di non-parole, insieme con un test di intelligenza non verbale e una misura del vocabolario. L’esaminatore presentava quattro immagini e diceva il nome di ciò che una di esse raffigurava; compito del banqbino era indicare l’immagine corretta. Mano a mano che il test procedeva, le parole diventavano sempre meno comuni. Il test terminava quando il bambino mostrava di non conoscere più le parole. Le prestazioni in questi tre test erano poi me^se in correlazione per capire fino a che punto il vocabolario fosse collegato all’intelligenza e alla ripetizione di non-parole. I risultati appaiono nella tabella 3.1; come si vede, c’è una stretta correlazione tra la capacità di ripetere una parola dopo averla ascoltata e il grado di sviluppo del vocabolario. Naturalmente, correlazione non significa causazione. Supporre che possedere un buon vocabolario aiuti a ripetere suoni non familiari è plausibile, ma lo è altret­ tanto supporre che la capacità di ripetere suoni non familiari aiuti ad ampliare il vocabolario. Uno studio sullo sviluppo del vocabolario in bambini di età compresa fra 5 e 6 anni [Gathercole e Baddeley 1989] ha indicato che la memoria fonologica può effettivamente essere il fattore cruciale in questo stadio dello sviluppo. Tuttavia,

LÀ MEMORIA DI LAVORO

Fig. 3.5. Percentuale di ripetizioni corrette di non-parole da parte di bambini con Imo specifico disturbo

del linguaggio (A), confrontati con bambini di pari età (B) e bambini dello stesso livello linguistico (C). Fonte\ Gathercole e Baddeley [1990].

Tab. 3.1. Relazione fra il punteggio di vocabolario a 4 anni di età e altre variabili. Vi è una stretta

relazione con la capacità di ripetizione di non-parole Misure

Coefficiente DI CORRELAZIONE

Età cronologica Intelligenza non verbale Ripetizione di non-parole Imitazione di suoni Totale

0,218 0,388 0,525 0,295 0,578

Regressione semplice (% varianza)

5a 15“ 27“ 9“

Regressione passo (% varianza)

passo

5* 13“ 15“ 0

33“

rtp9; 3 —>4, ecc.), o una colonna di sottrazioni (per esempio,5—>4; 8 -» 7;3—>2, ecc.), o dovevano alternare: sommare al primo numero, sottrarre dal secondo, sommare al terzo, ecc. (per esempio, 5 —» 6; 8—>7; 3 —»4, ecc.). L’alternanza rallentava la prestazione, in particolare quando i partecipanti dovevano «ricordarsi» da sé di cambiare operazione, senza che ac­ canto alle cifre vi fosse il segno + o Inoltre, la prestazione era più lenta quando l’alternanza era accompagnata da soppressione articolato ria; ciò fa pensare che i soggetti si facessero guidare da istruzioni subvocali. Effetti simili sono stati osservati e studiati da Emerson e Miyake [2003] e da Saeki e Saito [2004]. E degno di nota che i soggetti degli esperimenti psicologici usino molto spesso la codifica verbale per facilitarsi il compito. Di questa strategia si sono occupati due psicologi russi, Lev Vygotskij [1934] e Aleksandr Lurija [1959], che hanno dimostrato l’importanza autoistruzione verbale nel controllo del comportamen­ to, studiando il suo uso nella riabilitazione di pazienti con danni cerebrali e il suo sviluppo nei bambini (quadro 3.2). Purtroppo, l’influenza diretta di Vygotskij e Lurija sui recenti sviluppi della psicologia cognitiva è stata fino a oggi molto limi­ tata. Si può solo sperare che nuove ricerche sul ruolo del linguaggio nel controllo del comportamento possano colmare questa lacuna. Abbiamo descritto abbastanza in dettaglio la storia del modello del loop fo­ nologico non perché sia l’unica o la più importante componente della memoria di lavoro, ma perché è quella che è stata studiata più a fondo e, in quanto tale, è un buon esempio di come compiti sperimentali relativamente semplici possano essere usati per studiare dei processi cognitivi complessi e le loro implicazioni pratiche. Passiamo ora al taccuino visuo-spaziale, che è stato studiato meno approfon­ ditamente e che descriveremo più in breve.

LA MEMORIA DI LAVORO

Quadro 3.2.

Aleksandr Lurija

Lo psicologo russo Aleksandr Lurija ideò un’ingegnosa tecnica per studiare il ruolo del linguaggio nel controllo delle azioni. In un esperimento, chiedeva a bambini di età differente di schiacciare un pulsante quando si accendeva una luce rossa, e di non schiacciarlo quando la luce era blu. Prima dei 3 anni d’età, in genere, i bambini premono il pulsante in risposta a entrambe le luci, benché siano in grado di ripetere correttamente le istruzioni, e di fare la cosa giusta se viene data loro l’istruzione «premi» quando la luce rossa si accende ma nessuna istruzione nel caso della luce blu. Alcuni mesi più tardi, gli stessi bambini sono in grado di dare le risposte verbali appropriate, ma senza ancora passare all’azione, Verso i 5 anni rispondono con parole e azioni appropriate; solo più tardi imparano ad agire senza ricorrere ad autosuggerimenti verbali. Lurija mostrò che anche i pazienti con lesioni al lobo frontale possono avere difficoltà a svolgere questo compito, e possono trovare aiuto nell’uso di auto­ suggerimenti verbali.

2.

Immagini visive e taccuino visuo-spaziale

Supponiamo che qualcuno vi chieda di descrivere un famoso edificio, ad esem­ pio la basilica di San Pietro. Provate a farlo adesso. Probabilmente la vostra descrizione si è basata su una qualche forma di rap­ presentazione visuo-spaziale, forse un’immagine visiva. E forse, come potrebbe testimoniare un osservatore, avete usato le mani come integrazione spaziale della spiegazione verbale. Se si chiede alle persone in che misura facciano uso di im­ magini visive, le risposte saranno diversissime. Nel diciannovesimo secolo, Sir Francis Galton scrisse a un gruppo di gentiluomini vittoriani chiedendo loro di ricordare il tavolo al quale avevano fatto la prima colazione quella mattina, e poi di descrivere questa esperienza. Alcuni riferirono di essersi formati immagini vivide quasi come se avessero avuto il tavolo davanti agli occhi, mentre altri riferirono di non essersi formati nessuna immagine. Queste differenze di vividezza hanno una relazione sorprendentemente debole con la prestazione in compiti che ci si aspetterebbe dipendessero fortemente dalle immagini visive, come la rievocazione visiva [Di Vesta, Ingersoll e Sunshine 1971]. Gli studi che hanno registrato dif­ ferenze mostrano, inaspettatamente, che i partecipanti che riferiscono un largo uso di immagini visive hanno una prestazione peggiore nei compiti di memoria visiva [Heuer, Fischman e Reisberg 1986; Reisberg et al. 1986]. La ragione sembra essere che le persone che si formano immagini vivide non hanno ricordi migliori, ma usano la vividezza come criterio di accuratezza dei ricordi, ed è più facile che giudichino come fedele un ricordo vivido ma fallace. Ciò fa pensare che i reso­ conti soggettivi, non importa se siamo convinti di avere immagini vivide o di non averne, potrebbero riflettere il modo in cui scegliamo di categorizzare e descrivere le nostre esperienze soggettive, piuttosto che il loro contenuto o la loro capacità [Baddeley e Andrade 2000].

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CAPITOLO 3

2.1. Manipolazione di immagini

La figura 3.6 illustra un compito studiato da Shepard e Feng [1972]. Le figure che vi sono rappresentate (mostrate nella parte sinistra), se fossero riportate su un foglio di carta e ritagliate, potrebbero essere piegate in forma di cubo, con la faccia scura a mo’ di base. Il vostro compito è immaginare di piegarle e dire se le frecce si incontreranno punta contro punta. Provate. Shepard e Fepg hanno scoperto che il tempo necessario ai soggetti per giungere a una soluzione era correlato con il numero di piegature necessarie. Compiti del genere sono usati spesso nella ricerca di personale, ad esempio per selezionare architetti o ingegneri, attività in cui il pensiero visivo o spaziale ha un ruolo importante. In questi compiti gli uomini tendono ad avere risultati un po’ migliori delle donne, che probabilmente adottano un approccio più analitico e frammentato [Linn e Petersen 1985]. Uno studio successivo di Hsi, Linn e Bell [1977] ha trovato che le studentesse di ingegneria della University of California, a Berkeley, ottenevano risultati peggiori in un test di manipolazione spaziale e face­ vano meno bene in un difficile corso di grafica nel quale un quarto degli studenti (maschi e femmine) riceveva una D o era bocciato. Hsi e colleghi intervistarono degli ingegneri esperti sulle strategie di manipolazione spaziale da essi usate e, su questa base, prepararono un corso intensivo di un giorno sulle strategie di manipolazione spaziale. I partecipanti al corso miglioravano moltissimo la loro prestazione, al punto che le differenze di genere svanivano e le bocciature si ridu­ cevano a zero o quasi. Diverse ricerche hanno cercato di studiare le manipolazioni spaziali in labora­ torio. Finke e Slayton [1988] hanno ideato il compito seguente: Immaginate una lettera J maiuscola. Poi immaginate una D maiuscola. Adesso ruotate la D di 90 gradi verso sinistra e sistematela sopra la J. A che cosa somiglia la figura così prodotta?

La risposta è; a un ombrello. Pearson, Logie e Gilhooly [1999] hanno cercato di analizzare in dettaglio i processi in gioco. Ai soggetti venivano presentate 4, 6 o 8 figure geometriche (quadrati, triangoli, cerchi e simili); essi dovevano usarle per comporre un oggetto, poi dovevano dare un nome all’oggetto e infine disegnarlo. Se dopo 2 minuti non avevano ancora prodotto nulla, i soggetti dovevano sempli­ cemente rievocare le figure geometriche che erano state presentate loro all’inizio. Il ruolo del taccuino visuo-spaziale e del loop fonologico in questo compito era studiato per mezzo di compiti concomitanti. Per mettere fuori uso il loop, veniva impiegata la soppressione articolatoria; per mettere fuori uso il taccuino visuospaziale, veniva chiesto ai soggetti di toccare con la mano {tapping) una serie di punti nello spazio. Pearson e colleghi hanno trovato che il tapping spaziale danneggiava la capacità di comporre nuovi oggetti, ciò che indicava come questo aspetto dipendesse dal taccuino, ma non aveva effetto sulla capacità di ricordare quali figure geometriche fossero state presentate. Quest’ultima capacità era invece danneggiata dalla soppressione articolatoria, ciò che indicava come i nomi delle figure da manipolare fossero mantenuti nel loop fonologico. Lo studio di fearson e colleghi è un buon esempio del modo in cui il taccuino visuo-spaziale e il loop fonologico possono concorrere insieme al miglioramento

LA MEMORIA DI LAVORO

a) Incontro

b) incontro impossibile

c) Fai da te

d) Già fatto

e) Materiale extra

f) Arrotolamento

Fig. 3.6. A sinistra: sei problemi di piegatura di fogli ideati da Shepard e Feng; il compito dei soggetti è dire

che cosa accadrebbe se le figure disegnate sui fogli fossero piegate in modo da formare un cubo: le frecce si incontrerebbero? A destra: tempo impiegato in media per decidere se le frecce sulle facce dei cubi si incontrano, in funzione del numero di piegature immaginarie necessarie per arrivare alla decisione. Ciascun cerchio rappresenta uno dei dieci differenti tipi di problema.

Fonte: Shepard e Feng [1972].

della prestazione. Un altro esempio è uno studio su un gruppo di esperti giapponesi in calcolo mentale, che erano abilissimi nell’uso dell’abaco, il tradizionale strumen­ to di calcolo basato sulla manipolazione di palline che scorrono lungo un serie di guide parallele. Hatano e Osawa [1983a; 1983b] hanno studiato gli abachisti in grado di usare, al posto di un abaco materiale, l’immagine mentale di un abaco. Questi esperti riescono a sommare o sottrarre a mente fino a 15 numeri, ciascuno formato da 5 a 9 cifre. Essi hanno uno span di cifre molto ampio, circa 16 per la rievocazione in avanti e 14 per la rievocazione all’indietro. Come ci si aspetterebbe se si basassero sull’immaginazione visuo-spaziale, il loro span di cifre era fortemente ridotto da un concomitante compito spaziale, a differenza dei soggetti di controllo, la cui prestazione era danneggiata piuttosto dalla soppressione articolatoria. Proprio come l’attività spaziale può ostacolare l’uso delle immagini visive, così le immagini visive possono interferire con l’elaborazione spaziale. Ho sperimentato un singolare esempio di questa interferenza durante un soggiorno negli Stati Uniti. Mentre guidavo lungo l’autostrada di San Diego, ascoltavo la radiocronaca di una partita di football americano fra UCLA e Stanford e vedevo le immagini del gioco svolgersi nella mia mente. D’improvviso mi accorsi che l’auto stava zigzagando da una corsia all’altra. Pensai bene di sintonizzare la radio su un canale musicale e sopravvissi, ma una volta tornato in Gran Bretagna decisi di studiare l’effetto in condizioni meno rischiose. Uno dei compiti di immaginazione visiva usati nello studio è illustrato nella figura 3.7. I soggetti ascoltavano l’una dopo l’altra delle frasi e dovevano ripeterle. Quando le frasi corrispondevano alla matrice visiva, i soggetti riuscivano a ricordare circa 8 istruzioni; ne ricordavano solo 6 quando la corrispondenza spaziale era irrealizzabile. Sfortunatamente, nel mio dipartimento non c’era un simulatore di guida uti­ lizzabile per il compito spaziale, dunque mi servii di un vecchio dispositivo a

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CAPITOLO 3

Materiale spaziale Nel quadrato dì partenza metti un 1. Nel quadrato contiguo a destra metti un 2. Nel quadrato contiguo al di sopra metti un 3. Nel quadrato contiguo a destra metti un 4. Nel quadrato contiguo al di sotto metti un 5. Nel quadrato contiguo al di sotto metti un 6, Nel quadrato contiguo a sinistra metti un 7. Nel quadrato contiguo al di sotto metti un 8.

Materiale senza senso Nel quadrato di partenza metti un 1. Nel quadrato contiguo al veloce metti un 2. Nel quadrato contiguo al buono metti un 3, Nel quadrato contiguo al veloce metti un 4. Nel quadrato contiguo al cattivo metti un 5. Nel quadrato contiguo al cattivo metti un 6. Nel quadrato contiguo al lento metti un 7. Nel quadrato contiguo al cattivo metti un 8.

10 n Yuille e Cutshall [1986] hanno trovato che dopo tre anni circa il 33% dei pazienti aveva recupe­ rato la memoria perduta e un altro 26% mostrava un recupero parziale; se ne può concludere che almeno in questi casi il problema stia nel recupero e non nel consolidamento. Questi casi spno esempi genuini di amnesia o semplicemente tentativi di si­ mulazione? Schacter [1986] è incline a pensare che l’amnesia psicogena sia spesso il risultato di una strategia intenzionale. In uno studio meno recente, Hopwood e Snell [1933] hgnno analizzato 100 di questi casi nell’ospedale psichiatrico di massima sicurezza di Broadmoor, in Inghilterra, concludendo che circa il 78% era rappresentato da casi genuini, il 14% da simulazioni, 1’8% da casi dubbi. Ma, evidentemente, è molto difficile raggiungere una conclusione del genere con qualche certezza. Tuttavia, diversi elementi indicano che l’amnesia legata ad atti di violenza sia un fenomeno genuino e non una simulazione. In primo luogo, può presentarsi in persone che hanno confessato spontaneamente un delitto e non hanno minimamen­ te tentato di sottrarsi alla cattura. In secondo luogo, l’amnesia non è riconosciuta come una circostanza attenuante nel Regno Unito né in molti altri paesi, perciò non porta a vantaggi pratici. In terzo luogo, effetti simili si presentano nelle vittime o nei testimoni oculari di delitti violenti, che non hanno nulla da nascondere [Kuehn 1974]. Infine, sembrano esservi delle costanti nei resoconti, con commenti quali «è stato così raccapricciante [...] che non riesco a ricordare più niente» o anche «è come se un’immagine cominciasse a formarsi e poi [...] la testa mi fa male e tutto si confonde» [O’Connell I960].

4.4. Disturbo di personalità multipla

L’idea che in una persona possano albergare due o più personalità molto dif­ ferenti è stata resa popolare da Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson. Questo disturbo è stato descritto da Kihlstrom e Schacter [2000] come «il pezzo più pregiato [...] delle amnesie funzionali», giacché ha ge­ nerato oltre 2.000 articoli, due terzi dei quali nel decennio precedente la rassegna di Kihlstrom e Schacter. Ciò nondimeno, Kopelman [2002b], un neuropsicologo e psichiatra che lavora a Londra, lo descrive come un disturbo raro. La ragione è che, come si conviene ai pezzi pregiati, esso non è distribuito uniformemente. Secondo Merskey [1992], tutto dipende da quali sono i sintomi «alla moda»: è il «comportamento rinforzante» di psicologi, psichiatri e del mondo esterno che favorisce l’adozione di certi sintomi da parte dei pazienti. Che il campo dei sintomi psichiatrici sia soggetto a mode è un dato di fatto. Un buon esempio è quello del classico sintomo isterico detto anestesia a guanto-, il paziente lamenta una mancanza di sensibilità che affligge l’intera mano esattamente fino al polso, qualcosa che è anatomicamente molto improbabile, visto il tipo di innervazione della mano. Questo sintomo era relativamente comune all’inizio del ventesimo secolo, ma oggi sembra essere divenuto molto raro. Un altro esempio è la catatonia, uno stato di immobilità e rigidità un tempo frequente nei pazienti schizofrenici ma che oggi si osserva poco o punto.

LA MEMORIA AUTOBIOGRAFICA

Le molteplici personalità presenti in un paziente possono essere reciprocamente consapevoli oppure no. Uno studio di Nissen e colleghi [1988] su una donna con ben ventidue personalità ha trovato che otto di esse non avevano memoria Puna dell’altra. Nelle personalità non reciprocamente consapevoli è possibile dimostrare una memoria implicita comune, presentando, ad esempio, una lista di parole a una delle personalità e sottoponendone un’altra a un compito di completamento di radici [Eich et al, 1997]; al tempo stesso, le diverse personalità non sono in grado di rievocare esplicitamente le esperienze delle altre. Non è chiaro quale sia la causa del disturbo di personalità multipla, e perché vi siano differenze culturali. Secondo Kopelman [2002b], una possibilità è che i pazienti esplorino in questa maniera nuovi modi di vivere. Ma, in tal caso, ci si può chiedere come mai la paziente di Nissen et al. [1988] non abbia trovato qualcosa di adatto in meno di ventidue tentativi.

5.

Deficit di memoria autobiografica su base organica

Se è vero che l’amnesia psicogena può avere anche una componente organi­ ca, in altri casi il deterioramento della memoria autobiografica è indubbiamente conseguenza di un danno cerebrale di un certo tipo (cfr. cap. 11). L’amnesia su base organica differisce dall’amnesia psicogena per il fatto che di rado il senso dell’identità personale va perduto, mentre sono molto comuni i problemi di orientamento nel tempo e nello spazio. Il risultato può essere un ininterrotto porre domande da parte del paziente, spesso le medesime domande ripetute più e più volte: un sintomo che può mettere a dura prova le persone che si prendono cura di quel paziente. Benché la memoria autobiografica sia un campo di ricerca relativamente recente, gli studi di neuroimaging stanno già facendo luce sulla sua base anatomica.

6,

La memoria autobiografica e il cervello

6.1. Studi neuropsicologici

La distinzione fra semantico ed episodico. L’amnesia retrograda organica con­ duce di solito alla perdita sia di ricordi episodici di eventi specifici, sia di cono­ scenze autobiografiche più semantiche, come il nome dei vecchi compagni di scuola. Sebbene l’amnesia retrograda interessi in genere entrambi gli aspetti della memoria autobiografica, vi sono delle eccezioni. De Renzi, Liotti e Nichelli [1987] descrivono il caso di una donna italiana che non era in grado di ricordare pressoché nessun avvenimento pubblico, né la guerra, alla quale era scampata, né l’uccisione dell’allora capo del governo italiano. Neppure era in grado di riconoscere foto­ grafie di personaggi famosi di quel periodo, sebbene ricordasse perfettamente gli eventi della sua vita privata. L’unico avvenimento pubblico che, apparentemente, ricordava era il matrimonio fra il principe Carlo e Diana Spencer, che descriveva come una ragazza calcolatrice, proprio come quella che aveva sposato suo figlio. Altri studi hanno illustrato il caso opposto. Dalla Barba, Cipolotti e Denes [1990] descrivono una paziente con sindrome di Korsakoff e un grave deficit della memoria

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CAPITOLO 7

episodica; essa ricordava benissimo persone ed eventi celebri, ma non era in grado di ricordare molti episodi della sua autobiografia personale. Confabulazione. Si ha confabulazione quando l’informazione autobiografica è falsa ma non intenzionalmente ingannevole. Si può distinguere tra la confabu­ lazione spontanea e quella provocata. La confabulazione provocata può derivare dal tentativo di un paziente amnesico di colmare una lacuna nei suoi ricordi, in modo da evitare una situazione imbarazzante. In un certo senso, il comportamento normale non è tanto diverso da questo; a tutti può accadere di raccontare qualcosa in modo abbastanza accurato ma includendovi molti più dettagli di quanti se ne possano ricordare, magari per rendere il racconto più interessante. La confabula­ zione spontanea di solito è molto più ricca ed elaborata, è meno comune, e spesso è associata a lesioni del lobo frontale. Si consideri, ad esempio, il paziente R.R., che aveva subito estese lesioni bilaterali dei lobi frontali in seguito a un incidente automobilistico [Baddeley e Wilson 1988], Quando gli veniva chiesto dell'incidente, era felice di raccontare come fosse sceso dall'auto e avesse avuto una conversazione cortese ma estremamente ripetitiva con l'autista del camion che lo aveva urtato, nella quale ciascuno dei due si scusava più e più volte con l'altro. In realtà dopo l’incidente l'uomo era rimasto a lungo in stato di incoscienza e quasi certamente non era in grado di ricordarsene. Non era più in condizione di guidare e raccontava, del tutto inverosimilmente, di essere giunto al centro di riabilitazione al volante della sua auto e di avere dato, strada facendo, un passaggio a un’altra paziente che poco galantemente descriveva come una «cicciona». Dalla confabulazione può anche nascere l'azione. Un giorno R.R. venne trovato per la strada fuori del centro di riabilitazione mentre spingeva un altro paziente in sedia a rotelle. Stava portando il suo amico a vedere l’impianto di trattamento di liquami nel quale aveva lavorato come ingegnere. Che avesse lavorato in un impianto del genere era vero, ma era successo molti anni prima e abbastanza lontano da lì. La confabulazione si manifesta di solito nei pazienti con una sindrome disesecu­ tiva, conseguenza di una lesione al lobo frontale, che probabilmente interferisce con la memoria autobiografica sotto due aspetti. Un primo problema è rappresentato dal fatto che tali pazienti hanno difficoltà a usare appropriatamente i suggerimenti per il recupero. Ad esempio, il paziente R.R. che abbiamo descritto poco fa era in grave imbarazzo quando gli veniva chiesto di elencare i membri di una categoria semantica. Data la categoria animali, ad esempio, egli rispondeva: «Cane [...] animali [...] ce ne devono essere a migliaia! [...] Cane l'ho già detto?». Se però gli veniva offerto un appropriato suggerimento per il recupero, ad esempio animale australiano che salta, egli forniva prontamente la risposta. Un secondo problema è quello di valutare adeguatamente l’esito di una ricerca nella memoria. La conseguenza è che un’informazione che apparirebbe chiaramente inverosimile alla maggior parte dei soggetti normali (e, in verità, anche alla maggior parte di quelli con un danno cerebrale) è accettata e arricchita di particolari dai pazienti disesecutivi. In uno studio sulla memoria autobiografica, R.R. doveva ri­ spondere alla parola-suggerimento lettera. Raccontò della volta in cui aveva scritto una lettera a una zia comunicandole la morte del fratello Martin. Quando gli fu fatto notare che Martin gli rendeva regolarmente visita, egli non si scompose, spiegando che dopo la morte del fratello la madre aveva avuto un altro figlio a cui aveva dato lo stesso nome [Baddeley e Wilson 1986].

LA MEMORIA AUTOBIOGRAFICA

Deliri. I deliri sono convinzioni palesemente false che il paziente ha su se stesso e sul mondo. Possono essere molto elaborati e molto persistenti. Sotto questo aspetto, differiscono dalla confabulazione, che tende ad avere carattere temporaneo e spesso manca di coerenza. Mentre la confabulazione è spesso as­ sociata con un danno del lobo frontale, i deliri tendono a presentarsi più spesso nella schizofrenia, la cui base organica è molto meno evidente, e nulla prova che nei pazienti deliranti i processi esecutivi funzionino peggio che nei pazienti non deliranti [Baddeley et al. 1996]. I deliri possono apparire piuttosto bizzarri. Un paziente era convinto che degli angeli gli stessero asportando gli organi interni. Quando gli fu chiesto perché si fosse fatto questa convinzione anziché pensare semplicemente di stare male, rispose che era così che gli avevano detto gli angeli stessi; in effetti, le allucinazioni uditive sono comuni nei pazienti schizofrenici {ibidem}, I deliri possono essere molto elaborati e riferirsi a esseri provenienti da altri pianeti, e hanno spesso un carattere paranoide; ad esempio, i pazienti credono che la loro mente sia controllata dall’esterno, dal governo o da potenze straniere [Frith 1992]. Altri deliri hanno una tonalità più positiva: il paziente è convinto di essere imparentato segretamente con la famiglia reale o di essere una reincarnazione di Gesù Cristo. Un giorno uno di questi pazienti si lamentò con me per la presenza nel suo reparto di qualcun altro che sosteneva anche’egli di essere Gesù Cristo; quando gli chiesi come se lo spiegasse, replicò senza batter ciglio che l’altro tizio evidentemente si sbagliava. I deliri sembrano essere un modo di spiegare esperienze straordinarie: ad esempio, sentire voci che dicono di fare qualcosa; avvertire un senso di minaccia o di grandiosità; avere l’impressione che le proprie azioni siano controllate da altri. Tutto ciò è incompatibile con l’esperienza normale e induce alcuni pazienti a creare una versione modificata del mondo in cui le loro bizzarre esperienze acquistino un senso. I deliri di persecuzione possono essere spaventosi, ma talvolta i deliri possono anche portare conforto, come nel caso di un giovanotto che credeva di essere al tempo stesso un grande maestro di scacchi russo e un celebre chitarrista rock. Quando gli fu chiesto come fosse possibile, visto che non parlava il russo e neppure suonava la chitarra, rispose che in quel momento non possedeva nessuna di queste capacità, ma quando era nella modalità «scacchista russo» sapeva parlare correntemente il russo, e quando era nella modalità «musicista» sapeva suonare la chitarra [Baddeley et al. 1996].

6.2. La base anatomica della memoria autobiografica

Greenberg e Rubin [2003] sottolineano che i pazienti con lesioni delle aree deputate alla visualizzazione tendono ad avere una memoria autobiografica sca­ dente, e suggeriscono, d’accordo con altri, che l’immaginazione visiva possa avere un ruolo importante. Conway e colleghi [2003] hanno usato l’EEG per studiare l’attivazione corticale associata con il compito di leggere una parola-suggerimento, evocare un ricordo autobiografico collegato a quella parola, ritenerlo in memoria, e poi descriverlo. Essi hanno osservato che i primi stadi chiamavano in causa la cor­ teccia prefrontale sinistra, presumibilmente alla base dei processi esecutivi all’opera per evocare il ricordo, dopo di che l’attivazione si propagava al lobo occipitale e a

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CAPITOLO 7

Fig. 7.9. Tipi di attivazione durante il recupero daDa memoria autobiografica e dalla memoria semantica. I

numeri rappresentano la correlazione fra i livelli di attivazione nelle aree collegate da frecce. Il bianco e il nero rappresentano aree diverse di ciascuna struttura anatomica. Legenda: AMY, amigdala; HIP, ippocampo; IFG, giro frontale inferiore. Fonte: Greenberg et al. [2005].

quello temporale, a conferma del ruolo dell’immaginazione visiva; questo quadro era essenzialmente simile a quello osservato in seguito da Addis e colleghi [2004]. Benché non sia stata argomento di studi approfonditi come più generalmente è stata la memoria episodica, vi è un numero crescente di studi di neuroimaging sulla memoria autobiografica. Una recente rassegna ha combinato i dati raccolti in 24 studi [Svoboda, McKinnon e Levine 2006]; tali dati mostrano che nella me­ moria autobiografica possono essere distinti aspetti episodici e aspetti semantici, e che, per effetto delle emozioni, l’attivazione corticale tende a fluttuare dall’uno all’altro emisfero. In uno studio, Cabeza e colleglli [2004] chiedevano ai loro soggetti, studenti universitari, di fotografare certi punti del campus della Duke University. Queste fotografie, mescolate con fotografie scattate da altri studenti, venivano presentate ai soggetti in uno studio di fMRI evento-correlata. Entrambi i tipi di fotografie attivavano una rete comune deputata alla memoria episodica, localizzata nella regione mediale-temporale e in quella prefrontale. Inoltre, le fotografie scattate dai soggetti stessi attivavano aree della corteccia prefrontale mediale note per essere associate con l’elaborazione autoreferenziale, come pure aree associate con la rievocazione episodica (ippocampo) e la memoria visuo-spazi ale (regioni visive e paraippocampali). Si potrebbe sostenere che il significato autobiografico della fotografia di una scena familiare scattata da noi stessi o da qualcun altro sia abbastanza trascurabile. Un altro studio [Greenberg et al. 2005] si è servito di una tecnica più convenzio-

LA MEMORIA AUTOBIOGRAFICA

naie in cui innanzitutto i soggetti generavano parole-suggerimento per 50 ricordi autobiografici, registrando le risposte soggettive a ciascuno di essi. Poi, in uno studio fMRI, veniva presentata ognuna delle parole-suggerimento, e ai soggetti veniva richiesto di premere un tasto quando recuperavano il ricordo giusto. Questa condizione era messa a confronto con un compito di recupero semantico nel quale i soggetti dovevano rispondere appropriatamente a una serie di nomi di catego­ rie (ad esempio, dato il suggerimento animale, potevano rispondere elefante}. Il recupero autobiografico accresceva Fattivazione dell’amigdala, che è legata alle emozioni, dell’ippocampo, che è legato alla memoria episodica, e del giro frontale inferiore destro, connesso all’elaborazione legata al Sé. La condizione di recupero semantico prolungava l’attivazione della regione frontale sinistra (fig. 7.9),

7. Sommario

La memoria autobiografica ci aiuta a creare una rappresentazione coerente di noi stessi e della nostra vita. Essa può avere un ruolo anche nella vita sociale, come quando rievochiamo il passato con i nostri vecchi amici, e può aiutarci nella soluzione di problemi permettendoci di imparare dalle esperienze che abbiamo avuto in passato. La memoria autobiografica è difficile da studiare, perché spesso non abbia­ mo nessuna informazione sul momento in cui i ricordi sono stati codificati per la prima volta, cosicché non siamo in grado di controllare la loro accuratezza. Un modo per affrontare questo problema è lo studio diaristico. I diari sono qua­ litativamente ricchi ma tendono a essere selettivi - vi è una selezione sia degli eventi da registrare sia delle persone disponibili a tenere un diario. Un’alternati­ va è sondare la memoria autobiografica; ciò può essere fatto presentando a una persona una parola-suggerimento o interrogandola sui ricordi di uno specifico periodo della sua vita. Per le persone che hanno superato i 40 anni, la distribuzione nel tempo dei ricordi rievocati mostra di solito un picco che va dai 15 ai 30 anni, il cosiddetto «picco di reminiscenza». Ciò si spiega considerando che si tratta di un periodo importante nella costruzione di una narrazione autobiografica, una storia coerente su chi siamo e da dove veniamo. Le teorie della memoria autobiografica stanno cominciando a svilupparsi, ma questo campo in buona misura non va ancora oltre lo studio di singoli fenomeni come le flashbulb memories, i ricordi apparentemente molto accurati e ricchi di dettagli che le persone sembrano conservare su esperienze drammatiche, come le circostanze in cui hanno avuto notizia della morte del presidente Kennedy. Come le flashbulb memories fA disturbo post-traumatico da stress (PTSD) sembra essere un caso in cui un evento emotivamente coinvolgente produce un ricordo molto specifico e dettagliato. Non è chiaro, ed è oggetto di controversia, se le flashbulb memories o i flashback del PTSD rappresentino un tipo speciale di memoria o siano spiegabili nei termini degli stessi processi postulati per la normale memoria autobiografica. Oggetto di controversia è anche la cosiddetta «sindrome da falsi ricordi». Alcuni terapeuti hanno sostenuto di avere riportato alla luce ricordi dimenticati di abusi subiti dai loro pazienti quando erano bambini. A volte questi ricordi

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CAPITOLO 7

sono palesemente falsi, e possono essere piuttosto bizzarri. Questa situazione ha alimentato una considerevole attività di ricerca sui falsi ricordi, per chiarire come possano essere indotti, se per via intenzionale o in qualche altro modo. Si ha amnesia psicogena quando forti emozioni negative impediscono il recu­ pero dei ricordi autobiografici. Essa si contrappone ai deficit della memoria auto­ biografica su base organica, che possono interagire con fattori sociali ed emozionali per produrre confabulazioni e deliri. Le tecniche di neuroimaging possono contribuire alla comprensione della base neurologica e neuroanatomica della memoria autobiografica.

Il recupero

Sono le 10 di sera e state preparando i bagagli: domattina presto vi aspetta un volo internazionale. Vi serve il passaporto, ma non lo trovate più. La preoccupa­ zione comincia a montare. E mezzanotte. Il volo è previsto per le 6 di mattina. Salite in macchina e an­ date in ufficio, frugate nei cassetti, controllate in ogni scaffale. Niente passaporto. Tornate alla macchina, guardate sotto i tappetini, rovistate nel bagagliaio e tastate speranzosi il pavimento sotto i sedili, mentre una pioggia sottile vi infradicia la schiena. Il panico vi assale. Ritornate a casa, perlustrate ogni stanza, scrutate con il raggio laser della co­ scienza ogni centimetro quadrato. Sfogliate i libri, immaginando di vedere il passa­ porto che cade svolazzando sul pavimento. Alle 4 di mattina, cominciate a scavare nella memoria. «Quando è stata l’ultima volta in cui l’ho visto? Mi pare di averlo messo da qualche parte in questa stanza, ma qui ho già cercato». Dopo 20 minuti di intensa concentrazione dalla memoria non scaturiscono altro che fuggevoli im­ magini e tutto quel che vi resta è la radicata convinzione che il passaporto sia lì da qualche parte. Decidete di dare un’ultima occhiata. A questo punto, sollevate un foglio in fondo a una scatola che avevate ispezio­ nato più volte. Eccolo! Tutto vi ritorna in mente - come, quando e perché. «Ah sì... ora ricordo, ho messo il passaporto in questa scatola due mesi fa quando ho riordi­ nato lo studio perché dovevano arrivare gli ospiti». Sono le 5 di mattina. Finite di preparare i bagagli in fretta e furia e correte all’aeroporto, dove una misericordiosa assistente di volo vi fa salire in extremis sull’aereo, stanchi per non aver dormito e senza scarpe (le vostre le avete lasciate al banco dei controlli di sicurezza), ma con due calzini di colore diverso. Tutto questo mi è successo davvero, ed è stata un’esperienza a dir poco memo­ rabile. Essa illustra un aspetto cruciale della memoria. Abbastanza spesso i ricordi sono immagazzinati perfettamente, ma, per una ragione o per l’altra, abbiamo difficoltà a recuperarli. Il fatto di aver messo il passaporto nelle scatola era ben presente nella mia memoria; eppure, dopo 20 minuti di deliberata ricerca, la traccia continuava a essere inaccessibile. Ma nello stesso istante in cui vidi il passaporto, il ricordo riaffiorò in tutta la sua vividezza. Che cosa mi impediva di recuperare questa informazione?

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CAPITOLO 8

Ovviamente, una buona memoria non presuppone solo una buona codifica del materiale. Bisogna anche riuscire a recuperare l’informazione. Come è noto a ogni studente, si può imparare a fondo un argomento e all’esame scoprirsi improvvisa­ mente incapaci di rievocare il materiale studiato. In questo capitolo esamineremo i processi di recupero e i fattori che ne influenzano la riuscita.

1.

«Sulla punta della lingua»

Da un punto di vista soggettivo, la prova forse più convincente del fatto che la nostra memoria contenga informazioni cui non siamo in grado di accedere è data da una comune esperienza, quella in cui siamo sicuri di conoscere la risposta di una domanda, ma non riusciamo a produrla in quell’esatto momento; l’abbiamo, per così dire, «sulla punta della lingua». Alcuni anni fa, due psicologi di Harvard, Roger Brown e David McNeill [1966], si proposero di accertare se questa sensazione si fondasse sulla realtà o non fosse altro che un’illusione. Essi costruirono una situazione sperimentale che facilitasse il prodursi della sensazione, leggendo ad alta voce ai soggetti una serie di definizioni piuttosto oscure e chiedendo loro di dire il nome dell’oggetto definito; ad esempio, «strumento musicale formato da un telaio che regge una serie di tubi percossi da martelletti». I soggetti dovevano dichiarare se si trovavano nella condizione «sulla punta della lingua», se erano cioè convinti di conoscere la parola essendo al tempo stesso incapaci di produrla. Quando questo accadeva, veniva chiesto loro di fare una congettura sul numero di sillabe della parola e di fornire qualunque altra infor­ mazione possibile, ad esempio indicare la lettera iniziale. Nel fornire questo tipo di informazioni facevano costantemente molto meglio di quanto ci si sarebbe potuti attendere sulla base del puro caso. Altri studi hanno mostrato che presentare ai sog­ getti la lettera iniziale, in questo caso la x, aiuta a produrre la risposta giusta, xilofono. Cercare di ricordare il nome della capitale di vari paesi è un buon modo per evocare questo effetto. Provate a leggere rapidamente l’elenco di paesi nel quadro 8.1, avendo l’accortezza di tenere coperte le lettere iniziali. Tralasciate i casi in cui siete in grado di dare immediatamente la risposta, e quelli in cui siete certi di non sapere la risposta. Concentratevi sui paesi rimanenti. Come è andata? Nei casi più difficili, il suggerimento fornito dalle lettere iniziali può risvegliare il ricordo. Potete controllare le risposte alla fine del capitolo. In generale, la sensazione di sapere qualcosa è spesso una indicazione ragio­ nevolmente buona del fatto che la sappiamo davvero - come possiamo dimostrare grazie al suggerimento giusto. In un esperimento di rievocazione di nomi di capitali simile a quello già descritto, le risposte corrette erano più del 50% quando il sug­ gerimento veniva dato per le città che i soggetti pensavano di conoscere, ma solo del 16% nel caso delle città che essi pensavano di non conoscere. Analogamente, la mia forte sensazione che il passaporto perduto fosse da qualche parte nel mio studio era, di fatto, corretta. Abbiamo così accertato che il nostro magazzino di memoria contiene più in­ formazione di quella cui riusciamo ad avere accesso in qualunque momento dato. Ma che cosa determina l’accessibilità dell’informazione? Per affrontare questo problema, abbiamo bisogno di farci un’idea generale del modo in cui funziona il processo di recupero.

IL RECUPERO

Quadro 8.1. Provate a rievocare il nome della capitale di ciascuno dei paesi qui elencati. Inizialmente, potete tenere coperte le lettere a destra. Quando vi sembra di non riuscire a rievocare altre città, usate il suggerimento fornito da tali lettere. Avete avuto un’esperienza del tipo «sulla punta della lingua»? Controllate le risposte alla fine del capitolo (quadro 8.2).

2.

Paese

Lettera iniziale della capitale

1

Norvegia

o

2

Turchia

A

3

Kenya

N

4

Uruguay

M

5

Finlandia

H

6

Australia

C

7

Arabia Saudita

R

8

Romania

B

9

Portogallo

L

10

Bulgaria

S

11

Corea del Sud

s

12

Siria

D

13

Danimarca

C

14

Sudan

K

15

Nicaragua

M

16

Ecuador

Q

17

Colombia

B

18

Afghanistan

K

19

Thailandia

B

20

Venezuela

C

Il processo di recupero: principi generali

Per descrivere il funzionamento del processo di recupero, sarà utile introdurre un po’ di terminologia. Durante il recupero, di solito, siamo alla ricerca di un ricordo particolare - un fatto, un'idea o un'esperienza particolari: li chiameremo ricordobersaglio , o traccia-bersaglio. Supponiamo, ad esempio, che vi chiedessi di ricordare che cosa avete mangiato ieri sera a cena. Per rispondere, dovreste cercare di rievocare quell'evento. Il bersaglio sarebbe dunque il vostro ricordo della cena di ieri sera.

209

210

CAPITOLO 8

Quando cerchiamo un bersaglio nella memoria, di solito abbiamo un’idea di che cosa stiamo cercando. Nell’esempio della cena, voi sapete di essere alla ricerca di un evento, la cena appunto, accaduto ieri sera. Questa specificazione può essere paragonata alle parole che scriviamo nell’apposita finestra di un motore di ricerca su Internet. Senza una specificazione siffatta, la vostra memoria non avrà nulla su cui lavorare, e perciò non restituirà nulla (allo stesso modo, se lasciamo vuota la finestra di ricerca, anche il miglior motore di ricerca non ci indicherà nessun sito web). Questi frammenti di informazione che ci permettono di avere accesso a un ricordo sono detti suggerimenti-per il recupero {retrieval cues) o, più semplicemente, suggerimenti. In generale, il recupero è un cammino che procede da uno o più sug­ gerimenti fino a un ricordo-bersaglio, in modo che quel bersaglio possa influenzare i processi cognitivi in corso. Ma in che modo i suggerimenti ci aiutano a recuperare i ricordi-bersaglio? L’idea è che le tracce presenti nella memoria portino l’una all’altra per mezzo di collegamenti che prendono il nome di associazioni. Supponiamo, ad esempio, che vi chieda di dire la prima cosa che vi viene in mente in risposta a ciascuna delle seguenti parole: cane, caldo, sopra, mucca. Non è improbabile che rispondiate gatto oppure osso per cane, freddo per caldo, sotto per sopra, latte per mucca. Concetti come cane e gatto sono strettamente collegati l’uno all’altro nella memoria della maggior parte delle persone, sono cioè associati. Le associazioni sono connessioni strutturali fra tracce; esse possono essere più o meno forti. Ad esempio, se vi chie­ dessi di nominare un frutto, potreste rispondere immediatamente dicendo mela. Ma anche la guava è un frutto; se la guava non vi viene in mente con altrettanta facilità dipende dal fatto che è associata più debolmente alla categoria frutta. Il recupero è dunque un cammino che conduce da uno o più suggerimenti fino a un ricordo-bersaglio, passando per una serie di connessioni associative. I ricordi possono essere recuperati a partire da un’ampia varietà di suggerimenti. Se invece di: «Che cosa avete mangiato ieri sera a cena?» vi avessi chiesto: «Quando è stata l’ultima volta che avete mangiato piselli?», voi avreste potuto dirmi: «Beh, ho mangiato piselli ieri sera a cena». Avreste avuto accesso allo stesso ricordo, ma per mezzo di un suggerimento diverso che nel caso precedente. Molte cose possono servire da suggerimento: l’odore dei piselli può rammentarvi la sera scorsa; la canzone che stanno passando alla radio può essere la stessa che canticchiavate a cena. La nostra memoria è molto flessibile. Qualunque aspetto del contenuto di un ricordo può ser­ virci da chiave per avere accesso all’esperienza: si parla a questo proposito di memoria indirizzarle per contenuto {content addressable memory). Il nostro è un «motore di ricerca» mentale che ci permette di usare qualunque tipo di informazione o quasi. Queste idee ci aiutano a far luce sulle strutture coinvolte nella memoria, ma non dicono granché sui processi all’opera. Come si compie il cammino che conduce dai suggerimenti ai ricordi-bersaglio passando per le associazioni? Le teorie al riguardo non mancano; un’idea che si è dimostrata utile è che il recupero avvenga attraverso un processo di propagazione dell’attivazione. Secondo questa idea, ogni ricordo ha un proprio stato interno che può essere più o meno «eccitato» o «attivato»; questo stato rappresenta il livello di attivazione del ricordo. L’attivazione ha alcune importanti proprietà. Il livello di attivazione può variare, e da esso dipende quanto sia accessibile una traccia nella memoria; un livello di attivazione più elevato im­ plica maggiore accessibilità. Il livello di attivazione di una traccia aumenta quando ci imbattiamo in qualcosa che sia collegato a essa (ad esempio, vedere un piatto

IL RECUPERO

di piselli attiverà Videa piselli e probabilmente la vostra cena a base di piselli), o quando l’attenzione è focalizzata direttamente sulla traccia (come quando vi chiedo di pensare ai piselli). Questa attivazione persiste per un certo tempo, anche dopo che l’attenzione è venuta meno. In che modo il concetto di attivazione ci aiuta a far luce sul processo di recu­ pero? Un’idea è che i ricordi propaghino automaticamente l’attivazione ad altri ricordi cui sono associati. L’attivazione che si propaga è una sorta di «energia» che fluisce attraverso le connessioni fra le tracce mnestiche. La quantità di attivazio­ ne che si propaga da un suggerimento a una traccia associata è tanto più grande quanto più forte è l’associazione, e l’attivazione si propaga in parallelo a tutte le tracce associate. Se il bersaglio raccoglie abbastanza attivazione dal suggerimento, sarà recuperato, ma potranno essere attivate anche altre tracce associate. Perciò, sevi capita sotto gli occhi il nome Totti, l’attenzione rivolta all’idea corrispondente accrescerà la sua attivazione, il che a sua volta attiverà le tracce associate, come calcio. Di conseguenza, potrà essere recuperato calcio. L’idea che le tracce abbiano un’attivazione e che questa si propaghi all’intorno è al centro di molte teorie della memoria, e ci permette di ragionare utilmente sul modo in cui i suggerimenti han­ no accesso ai ricordi. Per affinare ulteriormente la nostra definizione di recupero possiamo dire che il recupero è un cammino da uno o più suggerimenti fino a un ricordo-bersaglio, un cammino che passa per una serie di connessioni associative e si avvale del processo di propagazione dell’attivazione.

3.

Fattori che determinano la riuscita del recupero

Sapere che il recupero è un cammino dai suggerimenti a un ricordo-bersaglio non mi ha facilitato le cose quando non riuscivo a trovare il passaporto. Perché il recu­ pero a volte ha buon esito e altre volte no? Prenderemo qui in esame diversi fattori, ciascuno dei quali illustra un importante aspetto della natura del recupero (fig. 8.1).

3.1. Attenzione prestata ai suggerimenti

Il recupero è meno efficace se il suggerimento è presente ma la persona non vi presta (abbastanza) attenzione. Supponiamo, ad esempio, che durante la mia ricerca del passaporto non avessi visto la scatola in cui si trovava. In tal caso la scatola non avrebbe potuto certo risvegliare il mio ricordo. In realtà avevo già frugato più volte nella scatola, perciò l’avevo presa in considerazione. Ciò nondimeno, avrei potuto non prestarle molta attenzione, preso com’ero dalle mie preoccupazioni. Diverse teorie assumono che l’attivazione di un concetto aumenti con l’attenzione. Se questo è vero, quando l’attenzione si riduce il suggerimento potrebbe diventare meno utile e il recupero potrebbe fallire. Se si vuole che una persona non presti attenzione ai suggerimenti, una possibi­ lità è chiederle di svolgere un compito secondario durante il recupero. Quando la persona è distratta, il recupero di solito riesce peggio, specialmente se il compito secondario richiede di prestare attenzione a uno stimolo collegato. Ciò è stato dimostrato in diversi studi da Myra Fernandes e Morris Moscovitch [2000; 2003], che chiedevano ai soggetti di rievocare ad alta voce liste di parole che erano state

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212

CAPITOLO 8

Fattori che determinano il successo del recupero 1 ) Attenzione ai suggerimenti

2) Appropriatezza dei suggerimenti

3) Forza suggerimento-recupero

4) Numero dei suggerimenti

5) Forza del bersaglio

Fig. 8.1. In questo esempio, supponiamo di dover recuperare la parola inglese per acqua: 1) se non sfruttiamo

il suggerimento {acqua}, a causa dell’attenzione rivolta in parte altrove, è più difficile che esso ci rammenti il bersaglio {water}', 2} i suggerimenti studiati insieme con il bersaglio sono più efficaci dei suggerimenti che non sono stati studiati con esso (per esempio, eau, la parola francese per acqua}', 3) se durante la codifica il sugge­ rimento non viene associato con sufficiente forza al bersaglio, il suggerimento sarà meno utile per il recupero; 4) disporre di un maggior numero di suggerimenti appropriati, ad esempio la lettera iniziale di una parola, facilita il recupero; 5) gli item codificati debolmente nella memoria sono difficili da recuperare; 6) adottare una strategia di recupero inefficiente (per esempio, rievocare tutti i tipi di bevanda in lingua inglese fino a imbattersi nella parola-bersaglio) è uno spreco di tempo e genera risposte distraenti; 7) incontrare uno stimolo senza avere Tintenzione di recuperare il bersaglio dalla memoria riduce la probabilità di evocare il bersaglio.

presentate loro per via uditiva (fig. 8.2). Contemporaneamente, i soggetti dovevano formulare giudizi su stimoli del tutto differenti che apparivano sullo schermo di un computer. Rispetto a una condizione di controllo in cui le persone non svolgevano nessun compito secondario, la distrazione faceva peggiorare il recupero di circa il 30-50%, specialrpente quando i giudizi riguardavano delle parole. Invece, formu­ lare giudizi su nupaeri o immagini produceva un'interferenza molto più debole. Gli effetti dell'attenzione divisa sono maggiori quando i soggetti devono generare un ricordo dalla memoria (rievocazione), ma sono presenti anche quando essi devono semplicemente dire se hanno già visto qualcosa (riconoscimento).

IL RECUPERO

Effetti sulla rievocazione della divisione dell’attenzione

Fig, 8.2, Il tentativo di recuperare delle parole in condizioni di attenzione divisa fra più compiti influenza

negativamente il successo del recupero, specialmente quando i compiti distrattori (semantici o fonologici) sono simili al compito da svolgere (in questo caso, la rievocazione di parole).

Fonte-. Fernandes e Moscovitch [2000].

Dividere l’attenzione fra più compiti può peggiorare il recupero anche quando il compito secondario è del tutto indipendente; di solito, però, in minor misura. Ad esempio, quando Craik e colleghi [1996] chiedevano ai loro soggetti di svol­ gere un semplice compito secondario visuo-motorio, questi ricordavano peggio le parole presentate in precedenza. L'effetto di interferenza di, un compito non collegato è tanto maggiore quanto più il compito è oneroso [Rohrer e Pashler 2003]. Va sottolineato che la riduzione dell’attenzione nella fase di recupero danneggia la rievocazione meno di quanto faccia la riduzione dell’attenzione nella fase di codifica. Si è supposto che questa asimmetria indichi che in tali cir­ costanze il recupero possa richiedere meno attenzione della codifica [Baddeley et al. 1984; Craik et al. 1996]. Questa interpretazione è in accordo con l’idea che se il suggerimento è presente e la persona lo nota, il processo automatico di propagazione dell’attivazione possa spesso riportare alla memoria una traccia. Nondimeno, se è necessaria una rievocazione accurata e completa, l’attenzione dovrà essere piena.

3.2. Appropriatezza dei suggerimenti

Disporre di suggerimenti per il recupero serve a poco se essi rion sono collegati con ciò che si vuole ricordare (bersaglio). Ciò potrebbe sembrare fin troppo ovvio, ma ci accade spesso di cercare nella memoria servendoci di suggerimenti inappro­ priati. Un giórno ero andato a fare la spesa al supermercato; all’uscita non riuscivo a ricordare dove avessi parcheggiato l’auto. Dopo qualche minuto di vuoto totale,

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CAPITOLO 8

mi venne in mente che quel giorno mi ero fatto prestare la macchina dai vicini. Nel momento in cui me ne resi conto, ricordai subito dove l’avevo parcheggiata. Avevo posto alla memoria la domanda sbagliata con il suggerimento sbagliato (la mia auto). Questo è un errore che accade spesso, Vi è mai capitato di non riuscire a ricordare dove avete messo le chiavi della macchina? Se cercate nella memoria supponendo di averle messe in uno dei soliti posti (per esempio, il cestino sulla cassettiera) e invece le avete messe in qualche altro posto, quei suggerimenti per il recupero saranno vani. A volte un suggerimento che a prima vista appare valido finisce per non esserlo affatto. Una volta dovevo riportare un film al negozio di videonoleggio. La matti­ na, in piedi accanto al tavolo della colazione, infilai il DVD nello zaino. Più tardi, tornando a casa, passai davanti al negozio di videonoleggio e gli gettai un’occhiata, ma non mi venne in mente di restituire il film. Quando però tornai a casa e vidi il tavolo della cucina, me ne ricordai: «Oh no, ho dimenticato di riportare il film!». Perché dunque passare davanti al negozio non mi aveva fatto ricordare di restituire il video? Avrebbe dovuto essere un suggerimento eloquentissimo! E come mai il tavolo della cucina si era rivelato un suggerimento molto più efficace, benché i tavoli non abbiano nulla a che fare con i film? Tutto questo diventa comprensibile se si considera ciò che era stato codificato. La cosa da ricordare era l’intenzione di restituire il film, che era stata codificata la mattina in cucina, vicino al tavolo. In effetti, avevo appoggiato il DVD sul tavolo, e così le due cose si erano associate. Invece, il negozio di videonoleggio era lontano da me al momento della codifica, per questo non si era associato al film. Perciò, quando il negozio era divenuto di­ sponibile come suggerimento, non c’era nessuna associazione che potesse propagare l’attivazione all’intenzione di restituire il film. L’esempio precedente illustra un’idea largamente condivisa, il principio di spe­ cificità della codifica. Secondo questo principio, perché un suggerimento sia utile, deve essere presente nella fase della codifica, e deve essere codificato insieme a ciò che si vuole ricordare. In effetti, i suggerimenti codificati insieme a un particolare bersaglio sono più efficaci, anche se, a prima vista, possono sembrare meno validi di altri suggerimenti già collegati con il bersaglio. In un esperimento che dimostra questo principio, Tulving e Osler [1968] presentavano ai soggetti delle parolebersaglio da rievocare successivamente; ogni bersaglio era accompagnato da un suggerimento debolmente associato con la parola da ritenere. Un esempio potrebbe essere la parola sedia accompagnata dalla parola-suggerimento colla (ad esempio, ai soggetti poteva venire presentata la coppia colla-sedia). Dopo la codifica, i sog­ getti dovevano rievocare i bersagli, senza aiuto o con l’aiuto del suggerimento con cui i bersagli erano stati collegati. Le parole-suggerimento facilitavano in modo considerevole la rievocazione dei bersagli, a dimostrazione dell’efficacia dei sugge­ rimenti per la rievocazione. Ma non tutti i suggerimenti sono ugualmente efficaci, secondo Tulving. Ad esempio, benché tavolo sia strettamente associato a sedia, non sarà efficace quanto colla, dato che tavolo non è stato presentato durante la codifica. Tulving e Thomson [1973] illustrano ulteriormente la portata dell’effetto di specificità della codifica. Vi sono altri modi di dimostrare lo stesso effetto. Ad esempio, se presento a una persona la frase: «L’uomo accordò il pianoforte» e a un’altra persona la frase: «L’uomo sollevò il pianoforte», allora il suggerimento qualcosa di pesante sarà ben poco utile per la prima persona, ma prezioso per la seconda [Barclay et al. 1974].

IL RECUPERO

Ricordiamo ciò di cui abbiamo esperienza, e accediamo alla memoria servendoci di un frammento di quell’esperienza come di una chiave per ricostruirla nella sua totalità. Perciò, anche se un negozio di videonoleggio ha tutta l’aria di dover esse­ re un suggerimento perfetto per ricordare l’intenzione di restituire un film, esso è molto meno efficace del tavolo della cucina, perché solo quest’ultimo è stato codificato insieme a quell’intenzione.

3.3. Forza associativa tra il suggerimento e il bersaglio

Il recupero può fallire anche quando i suggerimenti sono appropriati ma deboli. Come abbiamo detto, le associazioni variano quanto alla forza, ed è questa forza che determina la velocità con la quale l’attivazione si propaga dal suggerimento al bersaglio. Di conseguenza, se l’associazione tra il suggerimento e il bersaglio è debole, il recupero può fallire. Chiunque abbia cercato di memorizzare i vocaboli di una lingua straniera sa che associare nuove parole ai loro equivalenti nella lingua materna può essere difficile; è possibile avere immagazzinato la parola straniera (per esempio, essere in grado di riconoscerla come una parola già vista) ma non riuscire a recuperare il significato giusto. Analogamente, spesso non riusciamo ad associare il volto di una persona appena conosciuta con il suo nome, anche quando siamo capaci di riconoscere il volto di quella persona nonché il suo nome (se qual­ cuno ce lo dice). Perciò il successo del recupero dipende dalla forza con cui sono associati i suggerimenti e il bersaglio, il che dipende dal tempo e dall’attenzione impiegati nella codifica dell’associazione. Forse una ragione per cui a suo tempo la scatola non mi aiutò a ricordare dove avessi messo il passaporto è che nella fretta di riordinare casa prima dell’arrivo degli ospiti non prestai abbastanza attenzione a quello che stavo facendo.

3.4. Numero di suggerimenti

Disporre di un maggior numero di suggerimenti appropriati può agevolare il re­ cupero. Consideriamo di nuovo l’esercizio sul fenomeno «sulla punta della lingua». Se avete cercato di richiamare alla memoria il nome di una città senza riuscirvi, ma avevate la sensazione di conoscere la risposta giusta, è probabile che l’indizio aggiuntivo della prima lettera vi abbia riportato alla mente la parola. Analogamente, la scatola da sola non fu sufficiente a risvegliare in me il ricordo di avervi riposto il passaporto, ma non appena celo trovai dentro, ricordai quell’evento all’istante. Va sottolineato che neanche il passaporto da solo avrebbe risvegliato questo ricordo. Supponiamo che qualcuno mi avesse aiutato nella ricerca e avesse trovato il pas­ saporto mentre io stavo in un’altra stanza. Se questa persona mi avesse mostrato il passaporto, non avrei ricordato subito di averlo messo nella scatola. Avrei detto piuttosto: «Dove l’hai trovato?». Fu la combinazione del passaporto e della scatola a risvegliare in me il ricordo. E ragionevole pensare che, in generale, l’aggiunta di un altro suggerimento sia utile. Se la persona presta attenzione a tutti e due i sug­ gerimenti, saranno attivati entrambi. L’attivazione si propagherà fino al bersagliò; siccome vi sono due fonti di attivazione, il bersaglio si attiverà rapidamente, e sarà recuperato più facilmente.

2 15

216

CAPITOLO 8

È stato mostrato che a volte il miglioramento prodotto dall’aggiunta di sug­ gerimenti può essere più che additivo. Le ricerche sul doppio suggerimento indi­ cano che disporre di due suggerimenti è spesso molto più vantaggioso di quanto ci si aspetterebbe se semplicemente si sommassero le probabilità di recupero del bersaglio a partire dall’uno e dall’altro suggerimento presi separatamente. Si consideri un esempio tratto da una ricerca di Rubin e Wallace [1989] sul modo in cui i suggerimenti basati sul significato e sulla rima influenzano la probabilità di generare particolari risposte dalla memoria. Se vi chiedessi di dirmi il nome di una creatura immaginaria, potreste menzionare l’unicorno o l’uomo nero o parecchie altre creature simili. Se vi chiedessi di dirmi una parola che fa rima con risata po­ treste dire aranciata o patata, o una qualunque delle parole con cui fa rima risata. Ma se vi chiedessi il nome di una creatura immaginaria che fa rima con risata vi sono buone probabilità che direste fata. Rubin e Wallace hanno trovato che la probabilità di generare una particolare parola in risposta a un solo suggerimento, basato sul significato o sulla rima, poteva essere piuttosto bassa (per esempio, 14% per una categoria semantica, 19% per una rima), ma diventava molto più alta se i due suggerimenti venivano combinati (97% per la categoria semantica e la rima congiunte). Ciò potrebbe spiegare perché è così utile codificare l’informazione elaborandola, come abbiamo visto nel quinto capitolo sulla codifica. L’elaborazione associa il materiale con molti suggerimenti che possono essere successivamente usati per facilitare il recupero.

3.5. Forza del ricordo-bersaglio

Se un ricordo è mal codificato, anche un buon suggerimento potrebbe essere insufficiente per il recupero. Nel quadro descritto finora, se un ricordo ha un basso valore iniziale di attivazione, dovrebbe essere più difficile per un suggerimento attivare quel ricordo, anche quando il suggerimento è appropriato. Ad esempio, le parole di una lingua variano moltissimo per frequenza d’uso: alcune parole hanno una frequenza elevata, come luce, mentre altre sono ben note ma vengono usate di rado, come elmetto. Le parole a frequenza più alta vengono rievocate meglio. Una spiegazione di questo fatto è che le parole a frequenza più alta sono per ciò stesso rappresentate con più forza. Analogamente, il ricordo di un insieme di pa­ role o figure presentate separatamente varia in funzione del tempo impiegato per codificare tali stimoli, e un tempo più lungo è collegato a una codifica migliore.

3.6. Strategia di recupero

Il recupero può essere influenzato dalla strategia adottata. Ad esempio, dopo avere studiato una lista di vocaboli, potrei (ma questa sarebbe una strategia in­ genua) provare a rievocarli recuperando i vocaboli associati con ciascuna lettera dell’alfabeto. Se il materiale è stato organizzato in qualche modo nella fase della codifica, usare la stessa organizzazione nella fase del recupero sarebbe una strategia ideale, come abbiamo visto nel quinto capitolo sull’organizzazione. Anche l’ordine in cui rievochiamo un gruppo di stimoli è una scelta strategica; è meglio cominciare dall’inizio o procedere all’inverso? A suo tempo, per ricordare dove avessi messo il

IL RECUPERO

passaporto tentai molte strategie di recupero, ad esempio ricordare l’ultima volta in cui avevo visto il passaporto, o ripensare ai miei viaggi più recenti. Un’eccellente illustrazione dell’influenza della strategia di recupero è dovuta a un ingegnoso studio di Richard Anderson e James Pichert [1978]. I soggetti leggevano una storia su un gruppo di ragazzi che avevano marinato la scuola e si erano rifugiati a casa di uno di loro. La storia descriveva gli oggetti che si trovavano nella casa; ai soggetti, durante la lettura, veniva chiesto di adottare il punto di vista di un ladro o di una persona intenzionata a comprare casa. In un test successivo, i due gruppi rievocavano lo stesso numero di oggetti, ma ogni gruppo ricordava gli oggetti più interessanti dal punto di vista adottato (ladro o acquirente). Ma non è tutto. Ai soggetti fu chiesto di rievocare una seconda volta gli oggetti visti; in questa occasione, ad alcuni fu chiesto di adottare la stessa prospettiva, ad altri di cambiarla. Come era prevedibile, i soggetti che adottavano la stessa prospettiva rievocavano gli stessi oggetti di prima; la cosa notevole è che i soggetti che assume­ vano un’altra prospettiva (ad esempio, la prospettiva del ladro, dopo essere stati acquirenti nelle fasi della codifica e del recupero) rievocavano un numero signifi­ cativamente maggiore di oggetti significativi da questa nuova prospettiva. Perciò il recupero migliorava per effetto di un semplice cambiamento della strategia di recupero. Questo studio mostra come spesso - a nostra stessa insaputa - possiamo adottare un particolare punto di vista nel rievocare il passato. Questa prospettiva offre una struttura schematica che guida il recupero e ci fa rievocare solo le cose che si accordano con lo schema. Ciò implica che per arricchire la rievocazione di un evento si potrebbe cercare di rievocarlo da punti di vista differenti, Torneremo su questa idea nella nostra discussione del metodo dell’intervista cognitiva nel quattordicesimo capitolo.

3.7. Modalità di recupero

In occasione della mia disavventura con il passaporto, guardai parecchie volte la scatola. Frugai anche al suo interno, eppure tutto questo non mi fece mai ritor­ nare alla mente il fatto di avervi riposto il passaporto. E possibile che la scatola fosse associata solo debolmente al passaporto, ma esiste anche un’altra possibilità: forse quando guardavo la scatola ero in una disposizione mentale sbagliata. E vero che mentre frugavo nella scatola la mia attenzione era concentrata su di essa. Ma forse ero troppo preso dall’atto di frugare e ciò era d’intralcio alla memoria. Se nel guardare la scatola avessi cercato di ricordare come l’avevo usata essa avrebbe potuto risultare un suggerimento efficace. In effetti, molti degli stimoli della nostra vita quotidiana sono associati con il passato, ma non per questo siamo bombardati dai ricordi in ogni momento della giornata. Stamattina, quando vi siete infilati le scarpe, probabilmente non avete ricordato in che occasione le avete comprate, anche se le vostre scarpe sono un eccellente suggerimento per quell’evento, e anche se probabilmente avreste potuto ricordarlo, se lo aveste voluto. Accade spesso che le esperienze passate ci ritornino spontaneamente alla memoria senza che le vogliamo recuperare, ma la cosa forse più sorprendente è che non ci ritornino sempre in mente, visto il gran numero di suggerimenti da cui siamo circondati. Sembra insomma che in certi casi dobbiamo adottare la giusta disposizione mentale, quella che potremmo

217

218

CAPITOLO 8

chiamare «modalità di recupero» {retrieval mode}, per rievocare il nostro passato [Tulving 1983]. Secondo le ricerche sulla modalità di recupero, perché il recupero sia efficace è necessario assumere un atteggiamento cognitivo che assicuri che gli stimoli siano usati per «sondare» la memoria episodica. Una eccellente dimostrazione di questo principio è stata data da Herron e Wilding [2006] in uno studio che misurava Tattivita elettrica cerebrale durante il recupero. I soggetti codificavano liste di parole che apparivano sulla parte destra o sinistra di uno schermo. Poi queste parole venivano ripresentate, stavolta mescolate con nuove parole, e i soggetti dovevano svolgere, per ogni parola, uno dei due compiti seguenti. Nelle prove «episodiche», dovevano giudicare se la parola era una di quelle già viste prima e, in tal caso, dovevano dire in quale parte dello schermo era apparsa; nelle prove «semantiche», dovevano giudicare se la parola si riferiva a un oggetto capace di muoversi autonomamente (per esempio, cinciallegra), un giudizio che potevano formulare senza bisogno di ricordare che cosa avessero appena visto. Ogni parola era preceduta per 4 secondi da un suggerimento che indicava ai soggetti come dovevano giudicare la prossima parola. Registrando Fattività cerebrale nei 4 secondi nei quali i soggetti si stavano preparando a formulare il giudizio, era possibile vedere se vi fosse una configura­ zione neurale caratteristica della disposizione al recupero. Herron e Wilding hanno osservato un maggiore incremento dell'attività elettrica nella corteccia frontale de­ stra - un’area deputata al controllo attentivo - quando le persone si stavano prepa­ rando al recupero che non quando si stavano preparando a un giudizio semantico. Inoltre, essi hanno osservato che quando i soggetti formulavano una successione di giudizi episodici, Faccuratezza di giudizio e la velocità aumentavano a ogni prova, a conferma dell’idea che per «entrare nello spirito» del recupero ci vuole un po’ di tempo. Perciò, il recupero trae beneficio dall’assunzione della giusta disposizione mentale, un compito svolto dalla corteccia prefrontale destra.

4.

Suggerimenti contestuali

Anche se stiamo discutendo dei suggerimenti in modo generico, è opportuno considerare più in dettaglio una importante classe di suggerimenti; i suggerimenti contestuali. Il termine contesto si riferisce alle circostanze nelle quali uno stimolo è stato codificato. Ad esempio, la conoscenza generale associata alla parola melagrana appare ovviamente differente dal particolare ricordo di avere visto una melagrana al mercato sotto casa o dal ricordo di avere visto la parola melagrana stampata in questa pagina. Questi ultimi casi concernono occasioni particolari ovvero ricordi episodici, distinguibili sulla base del luogo e del tempo in cui sono collocati. Il contesto spazio-temporale o ambientale di quella volta che non ritrovavo l’auto parcheggiata, ad esempio, includeva il contesto del supermercato il martedì. Il recupero dalla memoria è spesso influenzato dal contesto, a volte intenzio­ nalmente, altre volte no. Quando vogliamo recuperare qualcosa del nostro passa­ to, dobbiamo circoscrivere la parte del passato cui siamo interessati. Se la vostra coinquilina vi chiede se avete portato fuori l’immondizia, non vi sta chiedendo di rievocare qualunque episodio del vostro passato in cui avete portato fuori l’immon­ dizia. Se non circoscrivete il recupero al contesto del giorno precedente, potreste rievocare alcune precedenti occasioni e dire, falsamente, di averla portata fuori.

IL RECUPERO

Risultato: una coinquilina fuori dai gangheri. Perciò uno dei suggerimenti che dob­ biamo includere durante il recuperò è il contesto spazio-temporale dell’episodio che vogliamo rievocare. Il concetto di contesto non comprende solo la dimensione spazio-temporale, ma anche altri aspetti. Il contesto di un evento comprende V umore, lo stato af­ fettivo in cui la persona si trovava quando l’evento ha avuto luogo. Il contesto fisiologico si riferisce allo stato farmacologico/fisico della persona (per esempio, se è sotto l’influenza di droghe o alcol). Vi è poi il contesto cognitivo, il particolare insieme di pensieri che possono passare per la mente di una persona in corrispon­ denza di un evento. Come vedremo nel paragrafo 6 sulla memoria dipendente dal contesto, tutti questi aspetti del contesto possono influenzare ciò che recupe­ riamo del nostro passato, spesso senza che ne siamo consapevoli. I suggerimenti contestuali contribuiscono anche a definire i tipi di compiti di recupero usati per studiare la memoria.

5.

Compiti di recupero

Giorno dopo giorno, la vita lascia le sue impronte nell’argilla della nostra mente, e questo ci influenza in molti modi. A volte usiamo la memoria volontariamente e cerchiamo in modo cosciente di rievocare un episodio del passato. Altre volte non abbiamo intenzione di essere influenzati dalla memoria, e tuttavia, senza esserne consapevoli, lo siamo. Gli psicologi hanno ideato numerosi metodi per testare il recupero che ha luogo in queste circostanze. Questi test corrispondono a varie si­ tuazioni della vita quotidiana, e i differenti aspetti della memoria portati in questo modo alla luce ci hanno insegnato molto sulle strutture e i processi della memoria.

5,1. Test di memoria diretta

I test che chiedono alle persone di recuperare informazioni dal loro passato sono detti test di memoria diretta o esplicita [Schacter 1987; Richardson-Klavehn e Bjork 1988], Poiché questi test chiedono alle persone di rievocare particolari espe­ rienze, in essi viene usato il contesto come suggerimento, I test diretti differiscono per diversi aspetti: numero di suggerimenti forniti, quantità di informazione da re­ cuperare, uso di strategie di recupero. La rievocazione libera è fortemente basata sul contesto; i soggetti devono rievocare un intero elenco di item dopo averlo studiato, senza suggerimenti espliciti e nell’ordine che preferiscono. Ad esempio, se avete studiato 25 vocaboli e poi avete cercato di rievocarli in qualunque ordine, vi siete cimentati in un compito di rievocazione libera. La rievocazione libera riproduce quelle situazioni della vita quotidiana in cui dobbiamo generare molte informazioni senza bisogno di rispettare un ordine particolare. Ricordare chi ha partecipato alla festa di sabato sera, ricordare le voci della lista della spesa che abbiamo lasciato sul tavolo della cucina, anche rispondere alla domanda «Che cosa hai fatto oggi?», sono tutti esempi di rievocazione libera. La rievocazione libera richiede inoltre l’uso di strategie per generare le risposte secondo qualche ordine. Perciò questo test è sensibile alla capacità di organizzare le informazioni nella fase di codifica e di scegliere le strategie nella fase di recupero.

219

220 CAPITOLO 8 Invece, la rievocazione guidata può contare su suggerimenti espliciti, e molto spesso è rivolta a particolari contenuti della memoria. Negli studi di laboratorio, per il recupero di una parola precedentemente studiata si può usare come suggerimento una parola associata o la lettera iniziale della parola. I test di rievocazione guidata corrispondono a situazioni in cui cerchiamo di rievocare un dato o un’esperienza particolari a partire da un suggerimento. Ricordare chi vi ha accompagnato in macchina alla festa di sabato scorso, o in quale negozio avete fatto acquisti oggi, sono esempi di rievocazione guidata. La rievocazione guidata richiede l’uso del contesto come suggerimento, ma il contesto è integrato con informazioni specifi­ che che permettono di focalizzare la ricerca. La rievocazione guidata è spesso più facile della rievocazione libera e per rievocare un dato ha meno bisogno di usare strategie di recupero. I test di riconoscimento sono il tipo di test diretto più facile, perché richiedono semplicemente una decisione: se abbiamo già incontrato o no un certo stimolo in un certo contesto. Se, dopo avervi chiesto di studiare un insieme di 25 immagini o parole, vi presentassi quegli stessi 25 item mescolati con 25 item nuovi, e, per ciascuno di essi, vi chiedessi di dire se era già presente nella lista originaria, vi starei sottoponendo a un test di riconoscimento. I test di riconoscimento saltano fuori continuamente. Un esempio significativo (di cui parleremo nel quattordicesimo capitolo sulla testimonianza oculare) è quello dei «confronti all’americana», nei quali un testimone oculare deve dire se una delle persone allineate di fronte a lui è la persona che ha visto commettere un crimine. Un test di riconoscimento può avvenire in due modi: uno più dipendente dal contesto, l’altro meno. Approfondi­ remo questo punto in un paragrafo successivo sul riconoscimento.

5.2. Test di memoria indiretta

In un celebre caso legale che oppose la Bright Tunes Music alla Harrisongs Music, George Harrison dei Beatles fu citato in giudizio per avere copiato larghi brani della canzone He's so fine degli Chiffons e averli usati nella sua canzone My sweet lord. Harrison perse la causa, ma insistette fino all’ultimo sul fatto di non avere copiato consapevolmente la canzone. Per fare un altro esempio, a 12 anni Helen Keller fu accusata di plagio per il suo racconto The frost king, che somigliava moltissimo a The frost fairies di Mar­ garet Canby, una fiaba che le era stata letta in tenera età. Neanche la Keller era minimamente consapevole di ciò che aveva fatto, e questa fu per lei un’esperienza traumatica. Vi sono molti casi di apparente criptoamnesia, in cui una persona è convinta di avere creato un’opera d’arte nuova che in realtà è una reminiscenza di un’opera simile in cui la persona si è imbattuta in passato. I ricordi possono influenzarci a livello inconscio? In verità siamo spesso influenzati dalle nostre esperienze senza esserne con­ sapevoli. Supponete, ad esempio, che la pagina dei giochi del vostro quotidiano contenga un anagramma la cui soluzione è melagrana. Se quello stesso giorno vi è già capitato di leggere qualcosa sulle melegrane, potreste scoprire più facilmente la soluzione. La vostra prestazione in un compito (soluzione di anagrammi) ha tratto beneficio da quell’esperienza senza che fosse vostra intenzione rievocare il passato. Vi sono molti esempi che mostrano che tali influenze sono possibili. Questi esempi

IL RECUPERO

ricadono nella categoria dei test di memoria indiretta, che sono intesi come una misura della memoria implicita [Schacter 1987; Richardson-Klavehn e Bjork 1988], I test indiretti misurano l’effetto dell’esperienza senza chiedere alla persona di rievocare il passato. Queste misure hanno un che di surrettizio, perché cercano di cancellare agli occhi dei soggetti qualunque traccia del fatto che essi stiano memo­ rizzando o (al momento del test) recuperando qualcosa. In un tipico esperimento di memoria implicita, i soggetti per prima cosa codificano una lista di parole. Poi, per ciascuna parola, devono formulare un semplice giudizio, ad esempio se l’oggetto cui la parola si riferisce è un essere vivente - un compito scelto per dissimulare il compito di memoria. Infine, i soggetti svolgono un compito nel quale vengono usate le vecchie parole mescolate con parole nuove. Il test di solito consiste in un compito che è possibile svolgere senza rievocare nessuna particolare esperienza. Sono possibili molti test indiretti, e di solito vi è una «storia di copertura» che spiega perché lo sperimentatore è interessato a quel compito. In un compito di decisione lessicale, ai soggetti vengono presentate parole e non-parole (per esempio, loccio) e per ciascuna di esse i soggetti devono decidere il più rapidamente possibile se la stringa di lettere presentata sia una parola italiana realmente esistente. In un com­ pito di identificazione percettiva, ai soggetti vengono presentate per breve tempo (30 millisecondi) delle parole nascoste da una maschera visiva (per esempio, una fila di X) in modo da renderne difficile l’identificazione. Il compito dei soggetti è dire quale parola hanno visto. Nei test di completamento di frammenti di parole (per esempio, m-l-g-a-a) o di completamento di radici di parole (me—), il soggetto deve dire la prima parola adatta al contesto che gli venga in mente. In ognuno dei test della tabella 8.1, i soggetti hanno risultati migliori con le parole già viste che non con le parole nuove, anche quando non sono consapevoli della relazione con la fase precedente: essi svolgono più rapidamente compiti di decisione lessicale; identificano più accuratamente parole difficili da vedere; com­ pletano un maggior numero di frammenti di parole. Esistono test simili per altre categorie di stimoli, come le immagini e i suoni. In ogni caso, la prestazione ha caratteristiche differenti da quelle che si osservano nei test espliciti. Ad esempio, il miglioramento della prestazione dipende spesso dalla corrispondenza percettiva tra codifica e test. Cambiare modalità percettiva nel passaggio dalla fase di studio alla fase di test (ad esempio, passare dall’ascolto di parole a un test visivo) può ridurre il miglioramento osservato. Anche se molti di questi test sono focalizzati sulle qualità percettive dello stimolo (hanno cioè una base percettiva), alcuni test indiretti misurano l’influenza dell’esperienza sui compiti concettuali (hanno cioè una base concettuale). Ad esempio, se vi fornissi delle categorie semantiche e vi chiedessi di generare il maggior numero possibile di membri di ogni categoria una misura nota come «fluenza concettuale» -, avreste più probabilità di includere cinciallegra nella categoria uccelli di quante ne avreste se oggi non vi fosse capitato di leggere questo capitolo. Qual è la differenza fra i test indiretti e quelli diretti? Non differiscono necessa­ riamente nei meccanismi di base descritti all’inizio di questo capitolo. Ad esempio, i test indiretti forniscono suggerimenti che avviano un processo di recupero che dà accesso a uno scampolo di esperienza, forse tramite propagazione dell’attiva­ zione. I test indiretti, tuttavia, non richiedono la rievocazione del passato, e perciò il contesto non è intenzionalmente usato come suggerimento. Solo i suggerimenti presentati direttamente, come le lettere di una parola o i frammenti di un’imm agi-

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222

capitolo

8

Tab. 8.1. tipici esempi di compiti di recupero diretti e indiretti usati in laboratorio per studiare la memoria esplicita e implicita Categoria del

test

Tipo

di test

Rievocazione libera

Diretto/esplicito

Rievocazione guidata

Diretto/esplicito

Riconoscimento a scelta forzata

Diretto/esplicito

Riconoscimento sì/no Decisione lessicale

Diretto/esplicito Indiretto/implicito

Completamento di frammenti di parole

Indiretto/implicito

Completamento di radici di parole

Indiretto/implicito

Fluenza concettuale

Indiretto/implicito

Esempio

di istruzione per il recupero

«Rievoca gli item studiati in qualunque ordine» «Quale parola hai studiato insieme con salto?» «Quale parola hai studiato: balletto o monaco?»

«Hai studiato la parola balletto?» «Balletto è una parola? Maclo è una parola?» «Inserisci le lettere mancanti per for­ mare una parola: b-l-e-t-» «Inserisci le lettere mancanti per com­ pletare una parola: bai—» «Nomina tutti i tipi di danza che conosci»

ne, sono usati consapevolmente. Nonostante l’assenza di suggerimenti contestuali, l’aver incontrato recentemente lo stimolo migliora la prestazione, un fenomeno det­ to «priming» di ripetizione [per una rassegna, cfr. Ochsner, Chiù e Schacter 1998], Il priming di ripetizione è generalmente considerato come un fenomeno in cui l’esperienza passata ci influenza in modo inconscio. Questa influenza implicita non vuol dire che le tracce di memoria cui i test indiretti hanno accesso siano identiche a quelle che sono alla base della memoria episodica. In effetti, la memoria esplicita dipende da rappresentazioni contestuali aggiuntive localizzate nell’ippocampo. Perciò i test indiretti differiscono sia per l’assenza di suggerimenti contestuali sia per il contenuto e la localizzazione neurale delle tracce cui essi hanno accesso. E naturale chiedersi se questa influenza sia davvero inconscia. Forse le persone si rendono conto che il test riguarda materiale presentato in precedenza, e quello che ricordano lo ricordano intenzionalmente. In effetti, non tutti si lasciano ingannare. Nondimeno, anche quando i soggetti non dichiarano nessuna consapevolezza del collegamento, si registrano dei miglioramenti. In effetti, i pazienti amnesici, che non riescono a rievocare granché di un’esperienza già dopo pochissimo tempo, mostrano una prestazione perfettamente normale nei test indiretti. Questo dato - memoria esplicita danneggiata nell’amnesia, memoria implicita intatta — è alla base di un ripensamento fondamentale del modo di concepire la memoria da parte degli psico­ logi: la memoria è formata da una molteplicità di sistemi distinti [Squire 1992b; per una rassegna, cfr. Gabrieli 1998]. I test indiretti mostrano come le tracce impresse dall’esperienza possano influenzarci senza che lo sappiamo. Tutto ciò dovrebbe farci guardare con occhio più comprensivo George Harrison e Helen Keller.

6.

L’importanza del contesto incidentale nel recupero di ricordi episodici

Quando le persone recuperano il passato, usano il contesto per indirizzare il recupero al luogo e al tempo desiderati. Ma possiamo essere influenzati dal con­

IL RECUPERO

testo senza volerlo? Supponete di avere sperimentato un evento quando eravate in un certo ambiente o avevate un certo umore, e che in seguito vogliate recupe­ rare quell’esperienza trovandovi in un altro ambiente o avendo un altro umore. Ricorderete qualcosa di diverso rispetto al caso in cui al momento del recupero vi trovate nello stesso ambiente o avete lo stesso umore presenti alla codifica? La cor­ rispondenza tra il contesto originario e quello del recupero è in effetti importante; questo fenomeno è noto come memoria dipendente dal contesto. Vi sono diversi tipi di memoria dipendente dal contesto: la memoria può dipendere dall’ambiente, dall’umore e dallo stato.

6,1. Memoria dipendente dal contesto ambientale

Una sera ero a casa, al lavoro nello studio, quando decisi che era il momento giusto per fare una pausa e bere una tazza di tè. Scesi le scale e mi ritrovai in cu­ cina chiedendomi perché mai fossi lì. Sapevo di essere sceso per fare qualcosa, e che questo qualcosa dovevo farlo in cucina, ma non riuscivo a ricordare che cosa fosse. Così ritornai sui miei passi, e quando fui di nuovo nello studio mi ricordai: volevo un tè. Perché il recupero prima era fallito e poi aveva avuto successo? E probabile che il ritorno all’ambiente originale, ristabilendo il contesto spaziale nel quale l’evento era stato codificato inizialmente, abbia facilitato il recupero. Gli effetti di dipendenza della memoria dal contesto sono indubbi. Alcuni anni fa, Duncan Godden e Alan Baddeley [1975] indagarono questo fenomeno in connessione con un problema pratico, quello dell’addestramento di sommoz­ zatori di alto mare. Esperimenti eseguiti in precedenza da Baddeley sull’effetto del freddo sui sommozzatori avevano indicato, in modo del tutto accidentale, che l’ambiente subacqueo poteva indurre una forte dipendenza dal contesto. Questa ipotesi era corroborata dalle osservazioni di un amico che era stato alla guida di un gruppo di subacquei incaricati di osservare il comportamento di pesci che stavano per entrare in reti a strascico o che tentavano di uscirne. Inizialmente egli si era affidato alle testimonianze rese dai subacquei non appena tornavano in superficie, ma ben presto aveva scoperto che essi evidentemente dimenticavano la maggior parte di quello che vedevano sott’acqua sul comportamento dei pesci. Alla fine aveva dovuto far immergere i suoi subacquei con appositi registratori a nastro, in modo che potessero descrivere direttamente le attività dei pesci. Incuriositi da questo fatto, Godden e Baddeley idearono un esperimento in cui ai sommozzatori venivano fatte sentire 40 parole non correlate fra loro o sulla spiaggia o a circa tre metri di profondità. Dopo che avevano udito le 40 parole, i subacquei venivano sottoposti a test, o nello stesso ambiente o nell’ambiente alternativo. I risultati, mostrati nella figura 8.3, furono molto chiari: il materiale appreso sott’acqua era ricordato meglio sott’acqua, e il materiale appreso fuor d’acqua era ricordato meglio fuor d’acqua. Risultati analoghi sono stati osservati per molti altri cambiamenti del contesto fisico, tra cui i cambiamenti di stanza, e per molti tipi di stimoli, tra cui immagini, parole e volti. Smith e Vela [2001] hanno passato in rassegna le ricerche sulla memoria di­ pendente dal contesto e hanno tratto diverse importanti conclusioni. Un princi­ pio generale che determina la sensibilità al contesto ambientale è che le persone devono prestare attenzione all’ambiente fisico durante la codifica. Se durante la

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224

capitolo

8

Fig. 8.3, Le parole apprese e verificate nello stesso ambiente (rappresentate dai punti che cadono nella metà

superiore del grafico) vengono ricordate meglio delle parole studiate in un contesto ambientale differente da quello del test (metà inferiore del grafico).

Fonte: Godden e Baddeley [1975].

codifica l’attenzione è rivolta più verso l'interno, gli effetti del contesto incidenta­ le si riducono o scompaiono. La dipendenza della memoria dal contesto diventa maggiore quando l’intervallo fra la codifica e il recupero aumenta, il che potrebbe spiegare perché fare ritorno dopo lungo tempo nella casa in cui abbiamo vissuto da bambini può creare la sensazione di essere «sommersi» da ricordi ai quali non pensavamo più da anni. Infine, e non inutilmente, il semplice ripristino mentale del contesto riduce moltissimo la dipendenza della memoria dal contesto. Perciò, se stiamo cercando di recuperare un'esperienza o un fatto codificati in un contesto molto diverso, possiamo utilmente immaginare gli elementi dell'ambiente fisico, ad esempio gli oggetti che erano presenti, la loro disposizione e altri dettagli.

6.2. Memoria dipendente dallo stato

Effetti di dipendenza della memoria dal contesto si verificano anche quando l'ambiente interno del soggetto viene modificato per mezzo di una sostanza come l’alcol; si parla in questo caso di dipendenza dallo stato. Goodwin e colleghi [1969] descrivono prove cliniche di questo effetto. I forti bevitori che nascondono alcol o denaro quando si trovano in stato di ebbrezza sono incapaci di ricordare dove l’hanno messo una volta ritornati sobri; quando si ubriacano di nuovo, tornano a ricordarsene. Goodwin ha studiato questo effetto usando diversi test e ha scoperto che, in generale, ciò che si è appreso da ubriachi lo si ricorda meglio da ubriachi. Risultati simili sono stati dimostrati con una varietà di altre sostanze, ad esempio il protossido di azoto, usato a volte per anestetizzare i pazienti, la marijuana [Eich

IL RECUPERO

1980] e la caffeina. In una rassegna su questo tema, Eich [ibidem] ha dimostrato in modo persuasivo che la dipendenza dallo stato si osserva solo quando si usano test di rievocazione, mentre viene meno con i test di riconoscimento. Si direbbe che lo stato interno del soggetto gli sia d’aiuto per accedere alla memoria, ma che, quando l’accesso è facilitato dalla presentazione di un item da riconoscere, la ricerca non sia necessaria. I ricordi stato-dipendenti possono anche derivare da cambiamenti dello stato fisiologico che hanno luogo naturalmente. Un esempio interessante proviene da uno studio di Christopher Miles ed Elinor Hardman [1998] che Hanno indagato se l’esercizio aerobico potesse produrre ricordi stato-dipendenti. I soggetti imparava­ no un elenco di vocaboli presentati per via uditiva mentre stavaho comodamente seduti su una bicicletta da camera o mentre pedalavano tanto intensamente da portare le pulsazioni cardiache a 120-150 battiti al minuto. Poi, dopo un periodo di riposo, i soggetti venivano sottoposti a un compito di rievocazione libera dei vocaboli mentre riposavano o mentre pedalavano, come in precedenza. I soggetti che rievocavano le parole nello stesso stato cardiovascolare - entrambe le volte a riposo o entrambe le volte sotto sforzo - avevano risultati per il 20% migliori dei soggetti che avevano cambiato stato passando dalla codifica alla rievocazione. Per­ ciò gli aspetti del nostro stato fisiologico sono codificati incidentalinente come parte dell’esperienza episodica, e ricreare questo stato nella fase di recupero è d’aiuto alla memoria. Gli studenti che leggono il materiale d’esame mentre fanno esercizio con il tapis roulant o con la bicicletta da camera dovrebbero tenerne conto, e lo stesso dovrebbero fare gli atleti che hanno bisogno di ricordare sul campo ciò che hanno appreso fuori del campo.

6.3. Memoria congruente con l’umore e memoria dipendente dalfumore

Quando una persona depressa si trova a rievocare ricordi autobiografici, tende­ rà a rievocare episodi infelici; e tali episodi saranno rievocati tanto più rapidamente quanto più la persona è infelice. Naturalmente ciò può dipendete dal fatto che le persone depresse conducono davvero una vita meno piacevole (il che spiegherebbe perché sono depresse). Per sfuggire a questo problema, uno studio ha selezionato pazienti il cui livello di depressione oscillava sistematicamente nell’arco del giorno, come a volte accade nella depressione [Clark e Teasdale 1982]. Nei momenti in cui si sentivano giù, questi individui avevano meno probabilità di generare ricordi felici che in altri momenti. Risultati simili sono stati ottenuti con soggetti normali, usando una procedura nota come tecnica di Velten. Un umore felice (o triste) viene indotto incoraggiando i soggetti a valutare insiemi di enunciati felici (o tristi) [Vel­ ten 1968]. Quando erano tristi, i soggetti impiegavano più tempo per ricordare le esperienze positive [Teasdale e Fogarty 1979]. Questi risultati dimostrano il fenomeno della memoria congruente con Tumore [Blaney 1986], Questa espressione si riferisce alla maggiore facilità con cui una persona rievoca gli eventi che hanno un tono emotivo corrispondènte al suo umore del momento. È più facile rievocare ricordi lieti quando si è di uriiore lieto, ricordi tristi quando si è di umore triste. Il fatto che le persone d’umore depresso abbiano difficoltà a recuperare i ricordi felici potrebbe essere parte del problema della de­ pressione. Se una persona è depressa, rievocherà più facilmente episodi spiacevoli

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226 CAPITOLO 8

del suo passato, e ciò la renderà ancor più depressa. Gli approcci cognitivi al trat­ tamento della depressione mirano ad aiutare il paziente a recuperare ricordi meno depressivi e a rivalutare gli aspetti più positivi della sua esistenza. Le distorsioni sistematiche del recupero evidenti nel fenomeno della memoria congruente con Tumore offrono un altro insegnamento: meglio non prendere decisioni affrettate quando siamo di cattivo umore. Se siamo in collera con una persona, è probabile che di quella persona recupereremo soprattutto ricordi spiacevoli, malgrado tutti i ricordi positivi che potrebbero essere altrimenti accessibili. La memoria congruente con Tumore è un fenomeno che va tenuto distinto dalla memoria dipendente dal contesto incidentale, poiché l’elemento cruciale che determina la probabilità di rievocazione è la corrispondenza fra il tono d’umore del ricordo da recuperare e Tumore del momento. Non si dà il caso che lo stato d’umore alla codifica si associ incidentalmente con eventi altrimenti neutri, fun­ gendo da contesto incidentale. Per dimostrare il fenomeno della memoria dipen­ dente dall’umore, è necessario provare che la facilità con cui un ricordo viene rievocato dipende dalla corrispondenza d’umore tra la codifica e il recupero, non semplicemente dalla congruenza tra ciò che viene rievocato e lo stato d’umore al recupero. In uno studio, Eric Eich, Dawn Macaulay e Lee Ryan [1994] hanno di­ mostrato il fenomeno della memoria dipendente dall’umore chiedendo ai soggetti di generare eventi del loro passato in risposta a suggerimenti (per esempio, nave, strada). Essi suscitavano nei soggetti un umore piacevole o spiacevole nella fase di codifica e di nuovo nella fase di recupero, che aveva luogo due giorni dopo. L’umore veniva indotto facendo ascoltare ai soggetti musica lieta o malinconica mentre essi erano occupati da pensieri allegri o depressivi. Una volta instaurato Tumore appropriato (secondo la valutazione dei soggetti) iniziava la fase di codifi­ ca, o, due giorni dopo, di recupero. I ricercatori hanno trovato che la rievocazione degli eventi generati due giorni prima era migliore quando lo stato d’umore alla verifica corrispondeva con quello alla codifica, indipendentemente dal fatto che l’evento rievocato, in se stesso, fosse di tono positivo, negativo o neutro.

6.4. Memoria dipendente dal contesto cognitivo

Il contesto interno include anche le idee, i pensieri e i concetti che hanno oc­ cupato la nostra attenzione durante la codifica e il recupero. Sembra ragionevole supporre, ad esempio, che durante il periodo «nero» di Goya, il nero dominasse la sua mente. Il contesto cognitivo nel quale codifichiamo un’esperienza influenza la nostra capacità di recuperare successivamente quell’informazione? Un esempio dell’influenza del contesto cognitivo è il fatto che il contesto linguistico tende a influenzare la facilità di recupero dei ricordi. In un elegante esperimento di Viorica Marian e Ulric Neisser [2000], a un gruppo di soggetti bilingui russo-inglesi veniva chiesto di raccontare episodi auto­ biografici in risposta a suggerimenti verbali. L’esperimento era diviso in due parti uguali, in ciascuna delle quali veniva parlata una sola delle due lingue; i soggetti ricevevano una parola-suggerimento in quella lingua e, in risposta, dovevano ge­ nerare un ricordo di qualunque periodo della loro vita. Quando l’intervista era condotta in russo, i soggetti generavano ricordi russi (cioè ricordi di cose occorse loro in un contesto in cui si parlava russo) in risposta al 64% dei suggerimenti in

IL RECUPERO

quella stessa lingua; quando l’intervista era condotta in inglese, solo il 35% dei suggerimenti risvegliava ricordi russi. Per i ricordi inglesi valeva l’opposto. Secondo Marian e Neisser, il contesto linguistico agisce come gli altri tipi di contesto incidentale. Essi suggeriscono che una persona bilingue possa avere due modalità linguistiche in cui i ricordi vengono acquisiti e immagazzinati. Quando questa persona conversa in una delle due lingue, viene attivata la modalità cor­ rispondente e il contesto cognitivo incidentale favorisce il recupero dei ricordi acquisiti in quella modalità. Altri studi hanno replicato questi risultati estendendoli alla memorizzazione di materiale di studio e alla conoscenza semantica generale. Ad esempio, Marian e Fausey [2006] hanno trovato che le persone bilingui ricordano meglio le informazioni apprese (su argomenti come chimica, storia, ecc.) quando il test avviene nella stessa lingua in cui il materiale è stato studiato. Dà da pensare il fatto che interi segmenti della vita di una persona, compren­ denti sia ricordi personali sia conoscenze generali, possano essere resi meno acces­ sibili dalla lingua parlata in quel momento - un fatto che, se è vero, non può non influenzare le tante persone bilingui che vi sono al mondo. Di conseguenza, chi va a studiare in un paese straniero deve affrontare difficoltà sconosciute agli studenti di lingua madre, difficoltà che non nascono solo dalla necessità di padroneggiare una nuova lingua. Queste difficoltà sono un’illustrazione dell’influenza del contesto incidentale sulle esperienze che hanno luogo nella nostra sfera mentale.

6.5. Memoria ricostruttiva

Il recupero, quale l’abbiamo descritto finora, è riferito a un ricordo nella sua interezza. Ma il recupero può complicarsi se cerchiamo di recuperare qualcosa che è a malapena accessibile. Possiamo essere in grado di rievocare certi aspetti dell’espe­ rienza, ma essere costretti a inferirne altri. L’espressione memoria ricostruttiva rimanda a questo aspetto attivo e inferenziale del recupero. Il seguente racconto, messo per iscritto da Alan Baddeley qualche giorno dopo che l’esperienza che vi è narrata aveva avuto luogo, dà un’idea del modo in cui opera la memoria ricostruttiva. Novembre 1978

Sul marciapiede della stazione noto una faccia familiare, e decido di vedere se riesco a ricordare chi sia. Mi si affacciano due associazioni, il nome Sebastian e qualcosa che ha a che fare con i bambini. Sebastian mi sembra un buon indizio, ma tutto ciò che esso mi suggerisce è un'associazione con gli orsacchiotti di pezza attraverso Ritorno a Brideshead di Evelyn Waugh. Ho anche l’impressione che vi sia qualche vaga associazione con una stanza in penombra in cui si trovano dei libri, ma nulla che sia abbastanza netto per suggerire qualche utile linea di ricerca. Poco dopo, senza alcuna ragione apparente, mi viene in mente l’associazione babysitting e mi ricordo che eravamo entrambi membri di un gruppo per la custodia reciproca dei bambini, che il suo nome è effettivamente Sebastian (anche se non riesco a ricordarne il cognome), e che abita in una via che conosco e in una casa che riesco a visualizzare abbastanza chiaramente. Vedo una immagine mólto nitida del suo soggiorno, che contiene libri in edizioni pregiate; mi torna in mente che di professione fa il tipografo. Ricordo in effetti di avere notato che in una stanza della casa c’è un torchio da stampa. Non ho dubbi sul fatto di essere riuscito a identificarlo.

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capitolo

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Due giorni dopo, mi viene in mente che non mi sono ancora ricordato il suo cognome o il nome della strada in cui abita. Non ho indizi riguardo al primo, ma so che abita in Oxford Road o in Windsor Road. Ho un collega che abita nella strada in cui non abita Sebastian. Se dovessi fare un’ipotesi direi che abita in Oxford Road, e che il mio collega abita in Windsor Rpad. Mi sforzo di nuovo di ricordare il suo cognome. Sebastian... niente. E poi, senza nessuna ovvia ragione, salta fuori il cognome Carter. Mi sembra quello giusto, anche se non ne sono arcisicuro. Poi mi viene in mente un’associazione con Penny Carter, il nome e cognome di sua moglie. Sono sicuro di essere nel giusto, e questo rafforza la mia convinzione che l’uomo si chiami Sebastian Carter. Consulto la gu|da telefonica. Dopo tutti questi sforzi, voglio essere sicuro. C’è effettiva­ mente un Carter in Oxford Road. Lo chiamo e gli chiedo se per caso martedì era sul treno delle 14:36 diretto a Liverpool Street. C’era.

Questa esperienza illustra diversi punti importanti. In primo luogo, vi è certa­ mente un processo di recupero automatico attraverso il quale l’informazione «salta fuori» senza sforzo, senza un ragione apparente. Il nome Sebastian e l’associazione con la custodia dei bambini sono esempi di questo processo. In secondo luogo, quando l’informazione appropriata non riaffiora alla memoria, è come se usassimo i frammenti che troviamo nel modo in cui un investigatore potrebbe usare un indizio. Nel caso dell’indizio Sebastian, Baddeley seguì un certo numero di associazioni, ciascuna delle quali avrebbe potuto essere rifiutata. Per contrasto, la vaga associa­ zione con i bambini portò a babysitting, e poi a una chiara immagine della casa di Carter. Questa a sua volta produsse altre informazioni, incluso il fatto che Sebastian Carter è un tipografo, e l’immagine visiva di un torchio da stampa a casa sua. La ricostruzione dipende spesso da conoscenze di base che suggeriscono infe­ renze plausibili. Tali inferenze potrebbero anche indurci a credere che stiamo ricor­ dando qualcosa quando invece così non è. In uno studio ben congegnato, Dooling e Christiaansen [1977] facevano leggere e studiare ai soggetti il brano seguente. Un aiuto professionale per Carol Harris

Carol Harris fu una bambina problematica fin dalla più tenera età. Era ribelle, testarda e violenta. All’età di otto anni era ancora intrattabile. I genitori erano seriamente preoccupati per la sua salute mentale. Nel suo stato non c’era un buon istituto in cui il suo problema potesse essere trattato. Alla fine i suoi genitori decisero di fare qualcosa. Perciò assunsero un’insegnante privata per Carol.

I soggetti furono sottoposti a un test una settimana dopo. Subito prima del test, alla metà dei soggetti fu detto che la storia su Carol Harris riguardava in realtà Helen Keller; all’altra metà non veniva detto nulla. I soggetti ai quali veniva detto che la storia riguardava Helen Keller avevano molte più probabilità di dichiarare di aver letto nel brano frasi come «Era sorda, muta e cieca», quando invece il brano non conteneva nulla del genere. Presumibilmente, il fatto che Helen Keller fosse stata menzionata subito prima del test attivava le conoscenze che i soggetti aveva­ no su di lei, inducendoli a credere di ricordare qualcosa che invece non avevano letto. Questo è un chiaro esempio di inferenza ricostruttiva che influenza ciò che le persone credono di ricordare. Errori del genere diventano più probabili con il passare del tempo, poiché il ricordo originario diventa sempre meno accessibile [Spiro 1977].

IL RECUPERO

Benché i processi ricostruttivi ci possano indurre in errore qùando cerchiamo di rievocare un episodio, essi sono in verità molto utili, e spesso ci permettono di rievocare informazioni corrette e di fare inferenze plausibili su quello che deve es­ sere accaduto. Ciò nondimeno, quando la veridicità della rievocazione è essenziale (ad esempio, nella testimonianza oculare), gli errori ricostruttivi possono avere gravi conseguenze. Una persona che sia testimone di una rissa e poi, involontariamente, sbagli a ricordare chi ha iniziato la rissa, perché si è lasciata ingannare da un’infe­ renza ricostruttiva basata sugli stereotipi, mette a grave rischio la persona accusata.

7.

Memoria di riconoscimento

Ci siamo soffermati finora sulla rievocazione libera e guidata come modelli del recupero di informazioni dalla memoria. Molto spesso, però, usiamo la memoria non per generare qualcosa ma per decidere se abbiamo o no già incontrato uno stimolo. Possiamo passare in rassegna una lista di numeri telefonici nella speranza di trovare quello che vorremmo chiamare; può accaderci di incontrare una persona per la strada e chiederci se è qualcuno che conosciamo; possiamo essere chiamati dalla polizia per identificare l’autore di un delitto in un confronto all’americana. Questo tipo di capacità, la memoria di riconoscimento, merita un trattamento a parte, perché chiama in causa processi specifici. Diversamente dalla rievocazione, il riconoscimento presenta lo stimolo nella sua interezza, e richiede un giudizio: abbiamo già visto quello stimolo in un certo contesto? Ciò ha diverse implicazio­ ni, che riguardano la misurazione del riconoscimento e il modo in cui le persone risolvono il problema. In primo luogo, i test di riconoscimento richiedono fondamentalmente di discriminare gli stimoli che una persona ha incontrato in un particolare contesto dagli altri stimoli. Poiché la persona deve discriminare il «vecchio» dal «nuovo», un test è significativo solo se include sia item vecchi sia item nùovi, in modo da costringere la persona a usare la sua capacità di discriminare correttamente gli stimoli. Gli item non studiati sono detti distrattori, e sono simili alle persone che in un confronto all’americana sono allineate accanto al presunto colpevole. Negli studi di laboratòrio, i distrattori possono essere presentati insieme con il vecchio item, e la persona è chiamata a scegliere uno degli item; questo è un test di riconoscimento a scelta forzata. In altri casi, viene presentato un item alla volta, con gli item vecchi e nuovi mescolati, e a ogni item la persona è chiamata a decidere per il sì o per il no; questo è un test di riconosciménto sì/no. In tali test i distrattori forniscono preziose informazioni sull’affidabilità del giudizio di riconoscimento di una persona. Come valutare la risposta delle persone ai distrattori? Quando misuriamo il riconoscimento di un insieme di stimoli, non basta un singolo errore a rendere scadente la prestazione di una persona. Anche chi ha una buona memoria com­ mette degli errori. Qual è dunque il peso che dobbiamo attribuire al numero di identificazioni errate? Se registriamo il 10% di riconoscimenti errati dovremmo parlare di ritenzione insufficiente? La memoria di chi commette il 10% di errori di riconoscimento è necessariamente peggiore della memoria di chi ne commette il 5%? Che dire di qualcuno che identifica correttamente 1’85% dèi vecchi item, ma sbaglia identificazione il 10% delle volte? La memoria di quella persona è peggiore

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capitolo

8

della memoria di chi riconosce il 40% dei vecchi item ma commette solo il 5% di errori di identificazione? A complicare le cose, dobbiamo tener conto della tendenza delle persone ad azzardare una congettura quando viene chiesto loro un giudizio di riconoscimento. A volte, l’erronea risposta «sì» a un item nuovo non rispecchia il genuino convin­ cimento di avere visto quell’item, ma l’incertezza della persona, insieme con la necessità di prendere una decisione. Per la stessa ragione, alcune delle risposte «sì» a un item vecchio possono essere frutto di una congettura. In effetti, nei confronti all’americana la situazione sociale spinge i testimoni a compiere un’identificazione, e alcuni azzarderanno una congettura sulla base di un giudizio di familiarità. Per capire quanto peso possono avere le congetture, immaginate che a due persone, A e B, sia assegnato un compito di riconoscimento. Alla persona A viene detto che il test comprenderà sia item vecchi sia item nuovi, ma che non vi sarà nessun danno per chi risponde erroneamente «sì» a un item nuovo. Alla persona B viene detto che se risponde scorrettamente agli item nuovi ne avrà un grave danno. La seconda persona sarà certamente più cauta della prima, e la sua tendenza a rispondere «sì» agli item nuovi sarà molto ridotta; e lo sarà anche la sua tendenza a rispondere «sì» ai vecchi item sui quali non si sente del tutto sicura. Naturalmente, fare una congettura non è un processo semplice, e la tendenza ad azzardare congetture può variare a seconda dei biases di giudizio delle persone. Questa discussione pone un problema generale riguardo alla misurazione della memoria di riconoscimento; il problema di distinguere ciò che è memoria da ciò che è presa di decisione. È necessario un metodo per stimare l’informazione ritenuta nella memoria, e questo metodo deve permettere di escludere l’effetto dei biases di giudizio. Per sviluppare un metodo siffatto, tuttavia, occorre una teoria dei processi di memoria che entrano in gioco nei giudizi di riconoscimento. Esamineremo ora una tale teoria.

7.1. La teorìa della detezione del segnale come modello della memoria di riconosci­ mento

Il riconoscimento può essere studiato sulla base dei concetti sviluppati nell’am­ bito della teoria della detezione del segnale, che è nata dalla ricerca sulla perce­ zione uditiva [Green e Swets 1966]. In un tipico esperimento di discriminazione uditiva, i soggetti stanno in ascolto per rilevare un flebile segnale su uno sfondo di rumore bianco; essi sono istruiti a premere un pulsante non appena odono un suono. Data la debolezza del suono, la prestazione dei soggetti sarà meno che perfetta, e potranno presentarsi quattro tipi di situazioni. Il suono è presente e il soggetto afferma, correttamente, di averlo udito: questo è un successo {hit). Altre volte, il suono è presente ma non viene rilevato: questo è un falso negativo {miss). Può anche accadere che il suono non sia presente ma il soggetto affermi, erronea­ mente, di averlo udito: questo è un falso positivo {false alarm). Infine, può darsi che il soggetto affermi di non avere sentito il suono quando effettivamente il suono non è presente: questo è un rifiuto corretto {correct rejection). In un test di riconoscimento sì/no la situazione è simile. I soggetti devono decidere in questo caso se lo stimolo ha un’aria «familiare». Decidere se uno sti­ molo è abbastanza familiare perché lo si consideri «vecchio» è come decidere se vi

IL RECUPERO

sono informazioni uditive sufficienti perché si possa dire di aver sentito un suono. Come nel caso della discriminazione uditiva, sono possibili quattro situazioni. Se lo stimolo è stato studiato e viene classificato correttamente come «vecchio», è un successo; se è vecchio, ma viene classificato erroneamente come «nuovo», è un falso negativo. Se lo stimolo è nuovo e il soggetto lo classifica erroneamente come «vecchio», è un falso positivo; se invece esso viene classificato correttamente come «nuovo», è un rifiuto corretto. La teoria della detezione del segnale è un utile quadro di riferimento per ragio­ nare sul riconoscimento, e offre gli strumenti necessari per distinguere il ricordo genuino dalla congettura. La teoria della detezione del segnale attribuisce un valore di forza alle tracce di memoria (cfr, la discussione sul livello di attivazione nel par. 2); tale valore rispecchia l’attivazione delle tracce nella memoria e determina il loro livello di familiarità. La familiarità della traccia dipende dall’attenzione ricevuta dallo stimolo al momento della codifica o da quante volte esso sia stato ripetuto. E importante notare che la teoria suppone che i nuovi stimoli abbiano anch’essi una certa familiarità, benché non quanto gli stimoli che sono stati studiati. La familiarità può aumentare se i nuovi stimoli sono stati incontrati spesso al di fuori dell’esperimento o se sono simili a stimoli studiati. Nei termini dell’esempio del «confronto all’americana», una persona potrebbe sembrare molto familiare a un testimone perché il testimone l’ha già vista (non però sulla scena del crimine), o perché assomiglia molto al vero colpevole. Ma come si possono usare queste idee? Un’assunzione cruciale è che la fami­ liarità di un insieme di stimoli sia distribuita normalmente, e che i vecchi e i nuovi stimoli abbiano distribuzioni distinte. È verosimile che queste distribuzioni differi­ scano per il livello medio di familiarità. Nella maggior parte dei casi, la familiarità media dei vecchi stimoli sarà maggiore della familiarità media degli stimoli nuovi, poiché i vecchi stimoli sono stati già presentati; tuttavia, come si vede nella figura 8.4, queste distribuzioni possono sovrapporsi. La sovrapposizione può derivare dal fatto che alcuni vecchi stimoli sono stati codificati male, e perciò non hanno rag­ giunto un grande valore di attivazione nella memoria, mentre alcuni nuovi stimoli possono sembrare particolarmente familiari. Per alcuni soggetti, queste distribuzioni potrebbero essere molto vicine, con differenze minime nella familiarità media tra le distribuzioni vecchie e quelle nuove. Per altri soggetti, le distribuzioni potrebbero essere più lontane, e anche non sovrapporsi affatto, se i soggetti hanno studiato la lista molto bene. Aumentare il tempo di studio o il numero di ripetizioni di ogni stimolo studiato può far sì che la distribuzione dei vecchi stimoli si discosti ulterior­ mente da quella dei nuovi stimoli, con un incremento della familiarità complessiva. In che misura una persona sia in grado di discriminare gli stimoli studiati da quelli nuovi dipende dalla differenza di familiarità media tra le vecchie e le nuove distribuzioni. In altre parole, la capacità di un soggetto di discriminare due insiemi di stimoli può essere misurata per mezzo della distanza tra le medie delle vecchie e delle nuove distribuzioni, come si vede nella figura 8.4. Nel linguaggio della teoria della detezione del segnale, questa distanza è chiamata d*. Ma come avviene un giudizio di riconoscimento? La teoria afferma che le per­ sone scelgono un livello di familiarità come criterio di riferimento: se uno stimolo di test supera quel livello viene giudicato vecchio, se non lo supera viene giudicato nuovo. Il grafico 4 nella figura 8.4 illustra una possibile posizione del criterio sul continuum di familiarità. Si noti che se si colloca il criterio in questo punto alcuni

23 1

232

capitolo

8 Teoria della detezione del segnale 2) Distribuzione del segnale: successi e falsi negativi

Alta n

d'

------ Distrattori Bersagli

Bassa Bassa

Risposta «nuovo»: Risposta «vecchio»

Alta

- Criterio di risposta (0)

Forza della familiarità

4) Un criterio meno cauto

3) Distribuzione del rumore: rifiuti corretti e falsi positivi

Alta-,

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Bassa Bassa

7\

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------ Distrattori Bersagli

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Alta-.

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Risposta «nuovo: Risposta «vecchio» • Criterio di risposta (0)

Forza della familiarità

d'

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/ \

------ Distrattori B Bersagli

U

'J: Alta

Bassa Risposta «nuovo» Risposta «vecchio»

Alta

• Criterio di risposta (0)

Forza della familiarità

Fig. 8.4. 1) Esiti del riconoscimento a seconda dello stimolo (segnale presente o assente) e della risposta

del soggetto («vecchio.» o «nuovo»); 2) distribuzioni di familiarità del segnale e del rumore, Successi e falsi negativi; 3) rifiuti corretti e falsi positivi; 4) se si sposta il criterio di risposta verso sinistra i successi e i falsi positivi aumentano.

stimoli vecchi cadranno al di sotto del criterio per la «vecchiaia», e perciò saran­ no dei falsi negativi. Gli stimoli vecchi al di sopra del criterio saranno invece dei successi. Analogamente, alcuni stimoli nuovi avranno una familiarità che supera il criterio, cosicché le persone li classificheranno scorrettamente come vecchi; questi saranno falsi positivi. Gli stimoli nuovi al di sotto del criterio saranno dei rifiuti corretti. Perciò, i nostri quattro possibili esiti {successo,falso negativo, falso positivo, rifiuto corretto) possono essere analizzati, dato un livello di familiarità, in relazione al criterio e allo status dello stimolo (vecchio o nuovo). L’idea che venga fissato un criterio in base al quale giudicare lo status dello stimolo aiuta a chiarire che cosa debba intendersi per bias di giudizio. Per com­ prendere questo punto, si noti che cosa accade se si «allarga» il criterio (lo si sposta verso sinistra lungo il continuum della familiarità), permettendo che stimoli meno familiari siano classificati come «vecchi». In tal caso, la grande maggioranza dei vecchi stimoli sarebbero dei successi, e vi sarebbero ben pochi falsi negativi. Sfor­ tunatamente, ciò farebbe aumentare anche la percentuale di nuovi stimoli giudicati come vecchi, e aumenterebbe la percentuale di falsi positivi. Se il criterio fosse reso più stretto (spostato verso destra), si avrebbe il risultato complementare: sarebbe

IL RECUPERO

più improbabile che i soggetti commettessero dei falsi positivi, ma vi sarebbe anche un aumento dei falsi negativi. Questi due modi di spostare il criterio descrivono quel che accade quando una persona adotta una strategia di giudizio, rispettivamente, temeraria o cauta. Collocando il criterio tra i punti medi delle due distribuzioni, il soggetto sarebbe esente da bias. Il valore di familiarità in corrispondenza del quale una persona colloca questo criterio è detto e può essere considerato una stima della tendenza ad azzardare una congettura. Data questa analisi, la teoria della detezione del segnale fornisce gli strumenti matematici che ci permettono di valutare la capacità di un soggetto di discernere gli stimoli vecchi dai nuovi e le sue strategie di giudizio. Calcolando la percentuale di successi (la proporzione di vecchi stimoli giudicati tali) e la percentuale di falsi allarmi (la proporzione di nuovi stimoli giudicati vecchi), è possibile calcolare df ef, e in tal modo separare questi fattori. Cosa più importante, la teoria della detezione del segnale permette di spiegare come hanno luogo i giudizi di riconoscimento. L'idea che i ricordi si collochino su un continuum di forza e che le persone usino questo «senso» interno di familiarità per giudicare uno stimolo si è dimostrata estremamente utile. Vi sono comunque fenomeni che la teoria della detezione del segnale ha dif­ ficoltà a spiegare. Ad esempio, nei test di rievocazione libera, le parole che in una lingua hanno un'alta frequenza d'uso sono rievocate meglio di quelle meno frequenti. Questa differenza è comprensibile se si assume che le parole ad alta fre­ quenza, in virtù della ripetizione, siano rappresentate nella memoria con più forza delle parole a bassa frequenza, e perciò siano più facili da codificare [Hall 1954; Sumby 1963]. Se questo effetto fosse basato sulla forza dello stimolo, secondo la teoria della detezione del segnale le parole ad alta frequenza dovrebbero essere anche riconosciute meglio. In realtà avviene l’opposto: le parole a bassa frequenza sono riconosciute meglio delle parole ad alta frequenza, un fenomeno noto come effetto della frequenza delle parole nella memoria di riconoscimento [Gorman 1961; Kinsbourne e George 1974; Glanzer e Bowles 1976]. L'effetto della frequenza delle parole fa pensare che alla memoria di riconoscimento debba contribuire un fattore diverso della forza dello stimolo. Per queste e altre ragioni, molti studiosi sono convinti che un altro processo contribuisca al riconoscimento, un processo che è molto più vicino alla rievocazione. Esamineremo ora questa idea.

7.2. Modelli a doppio processo della memoria di riconoscimento

Un pomeriggio, bisognoso di assistenza tecnica, mi recai all'apposito Centro Servizi, dove mi accolse una donna affascinante che mi salutò tutta sorridente. Ricambiando la cortesia, le tesi la mano e mi presentai dicendo: «Salve, sono Mike Anderson del Dipartimento di Psicologia, mi stavo chiedendo se c’era qualcuno che potesse aiutarmi con il mio sito web». Mi fissò stupefatta, fece una pausa e disse: «Lo so chi sei». Effettivamente aveva un'aria familiare, ma proprio non sapevo dove l’avessi già incontrata. Lei incalzò: «Ma davvero non ti ricordi di me?». Dovetti ammettere che no, non riuscivo a ricordare. Qualche anno prima, disse, eravamo usciti insieme - un appuntamento durato sei ore. Era successo da tutt'altra parte (in una città, quella in cui lei viveva abitualmente, abbastanza lontana da dove ci trovavamo in quel momento). Non appena cominciò a raccontare ricordai ogni

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capitolo

8

cosa e la riconobbi perfettamente, e mi profusi in imbarazzate scuse. Siamo buoni amici ora, e lei non mi permetterà mai di dimenticare questa storia. Questo aneddoto illustra qualcosa che è accaduto a molti di noi - l’esperienza di conoscere qualcuno, o qualcosa, senza riuscire a ricordare da dove provenga quella conoscenza. Questa esperienza mostra che una persona può avere molta familiarità con uno stimolo, ma avere comunque la sensazione che il riconosci­ mento sia incompleto. I giudizi di riconoscimento possono assumere due forme: il giudizio può dipendere da quanto uno stimolo ci appaia familiare, un processo noto come riconoscimento basato sulla familiarità; oppure si può riconoscere qualcosa rievocando i particolari dell’episodio in cui lo stimolo è stato incontrato; chiameremo «recollection» questo processo di rievocazione episodica. Secondo le teorie del riconoscimento a doppio processo, entrambi questi processi contribui­ scono al riconoscimento [Atkinson e Juola 1974; Mandler 1980; Jacoby e Dallas 1981; Aggieton e Brown 1999; Yonelinas 1999L.il giudizio di familiarità è rapido e automatico, e il suo risultato è una percezione della forza del ricordo, senza che vengano rievocati dettagli specifici. Questo processo è ben descritto dalla teoria della detezione del segnale. Il processo di recollection, invece, è lento e più one­ roso per l’attenzione, e somiglia molto di più ai processi di rievocazione descritti nella prima parte di questo capitolo - in particolare, ai processi di rievocazione guidata. Esso implica la generazione di informazioni sul contesto in cui abbiamo incontrato lo stimolo. Per distinguere il contributo della recollection da quello della familiarità sono stati proposti diversi metodi. In uno di questi, la procedura «ricordo»/«so» [TuL ving 1985], al momento del test viene chiesto ai soggetti di spiegare su quali basi abbiano riconosciuto l’item. In particolare, i soggetti devono dire se lo ri­ cordano (rievocano a livello conscio i particolari dell’evento studiato) o perché sanno (avvertono una sensazione di familiarità, senza alcuna memoria dei dettagli dell’evento). Si intende che le risposte «ricordo» misurano la recollection, mentre le risposte «so» misurano il riconoscimento basato sulla familiarità [Yonelinas 2002; cfr. anche Gardiner, Ramponi e Richardson-Klavehn 2000]. Altri metodi si basano sulla capacità delle persone di rievocare i dettagli della situazione in cui esse hanno incontrato uno stimolo. Ad esempio, nella procedura di dissociazione dei processi (process dissociation procedure) [Jacoby 1991] i soggetti studiano pri­ ma una lista di vocaboli presentati per via visiva, e poi una seconda lista di item presentati per via uditiva. Nel successivo test di riconoscimento, a un gruppo di soggetti viene chiesto di rispondere «sì» agli item che essi ricordano essere stati presentati nell’una o nell’altra delle due liste (condizione di inclusione). A un secondo gruppo di soggetti viene detto di rispondere «sì» solo agli item della lista presentata uditivamente (condizione di esclusione). Nella condizione di inclusione, l’insieme degli item della prima lista riconosciuti correttamente dovrebbe com­ prendere sia item riconosciuti per familiarità, sia item riconosciuti per recollection. Per misurare quanta parte della prestazione di una persona sia dovuta al processo di recollection, occorre «sottrarre» l’effetto della familiarità. A questo scopo c’è bisogno di una stima della familiarità in assenza di recollection. Questa stima può essere fatta sulla base degli errori nella condizione di esclusione. Quando alle persone viene specificamente chiesto di rispondere «sì» a un item solo se hanno udito quella parola nella seconda lista, allora, se per errore rispondono «sì» a Un item che sia stato presentato loro per via visiva, vuol dire che l’item è familiare

IL RECUPERO

ma la persona non è in grado di ricordare con certezza da quale lista proviene, e cioè non lo sta riconoscendo per recollection. Perciò la recollection può essere stimata semplicemente sottraendo questi errori di riconoscimento dalla percen­ tuale di riconoscimento complessiva degli item della prima lista nella condizione di inclusione. In questo modo è possibile separare gli effetti della recollection da quelli della familiarità. In una rassegna sulle ricerche condotte usando questi e altri metodi per mi­ surare la familiarità e la recollection, Andrew Yonelinas [2002] ha tratto alcune generalizzazioni che confermano la distinzione fra questi due processi. In primo luogo, i metodi per stimare se una persona sia in grado di riconoscere per recol­ lection uno stimolo sembrano essere molto più sensibili agli effetti della distra­ zione. Se durante un’esperienza l’attenzione è divisa tra più oggetti, la successiva recollection di quell’esperienza diventa più difficile, anche se gli stimoli a essa associati possono restare familiari. Analogamente, la distrazione durante il test di riconoscimento è di gran lunga più nociva per la recollection di quanto non lo sia per il giudizio di familiarità. Questi risultati avvalorano la tesi che la recollection sia un processo controllato e oneroso per l’attenzione. A conferma di questa tesi, le persone con problemi di attenzione, come gli anziani e i pazienti con danni alla corteccia prefrontale, mostrano spesso difficoltà di recollection, mentre la sensazione di familiarità con uno stimolo visto recentemente è risparmiata. Inol­ tre, l’informazione sulla familiarità di uno stimolo viene recuperata molto più rapidamente dell’informazione necessaria per la recollection, a conferma dell’idea che i giudizi di familiarità siano frutto di un processo automatico. Questi risultati avvalorano l’idea che alla base del riconoscimento vi siano due processi di recupero qualitativamente differenti.

8.

Il monitoraggio della fonte

Abbiamo parlato del recupero come di un processo di riattivazione di una traccia sulla base di uno o più suggerimenti. Ma spesso le persone hanno bisogno di identificare la fonte delle informazioni che riescono a recuperare. Abbiamo già discusso della necessità di rievocare il contesto di un evento. Ho preso le mie pillole stamattina o ieri mattina? Ho parcheggiato la macchina sotto casa ieri o la settimana scorsa? Ma la necessità di determinare la fonte di questo o quel nostro ricordo è più generale. Questa storia me l’ha raccontata Leonardo o Eugenio? Ho saputo questo fatto leggendolo su «la Repubblica» o su «Il Sole-24 Ore»? Ho visto quella persona fare quella cosa o me ne sparlato qualcuno? I processi per mezzo dei quali esaminiamo l’origine delle informazioni recuperate e determiniamo se esse hanno una particolare fonte vanno sotto il nome di monitoraggio della fonte [Johnson, Hashtroudi e Lindsay 1993]. Le persone non sono sempre attente a monitorare l’origine dei loro ricordi, e perciò commettono errori, A volte tali errori hanno luogo quando le persone tengono, per così dire, la guardia abbassata, come nelle conversazioni occasionali, in cui la certezza della fonte può non sembrare troppo importante. Ad esempio, può accadervi di ricordare che Eugenio vi ha detto qualcosa, quando invece è stato Leonardo, e mettere Eugenio nei guai. I nonni possono ricordare male quale dei loro nipoti ha l’hobby della fotografia, o se hanno già raccontato la loro ultima

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CAPITOLO 8

barzelletta a noi o a qualcun altro. Tutti questi casi in cui identifichiamo erronea­ mente la fonte dei nostri ricordi sono esempi dell’errore di attribuzione della fonte. In che modo le persone riescono a monitorare la fonte dei loro ricordi? Per valutare una fonte, occorre rievocare i dettagli contestuali in modo da poter ac­ certare l’origine di un ricordo. Secondo Johnson, Hashtroudi e Lindsay [ibidem}, ciò viene fatto sfruttando le regolarità nelle informazioni che riceviamo dalle varie fonti. Ad esempio, per decidere se abbiamo saputo una notizia per averla letta o perché qualcuno ce ne ha parlato, possiamo valutare i dettagli uditivi e visivi nella traccia mnestica. Un’abbondanza di dettagli visivi può farci concludere di averla letta; se prevalgono i dettagli uditivi sarà vero l’opposto. Per decidere se qualcosa che abbiamo rievocato sia un’esperienza reale o qualcosa che abbiamo immaginato, la prevalenza di dettagli percettivi rispetto al ricordo di operazioni cognitive (come quelle all’opera per generare un’immagine) può orientare la nostra decisione sulla «realtà» del ricordo. Naturalmente, è possibile commettere errori. Se qualcuno è indotto a formarsi l’immagine mentale di una parola, è più probabile che affer­ mi erroneamente di aver visto l’immagine dell’oggetto corrispondente [Henkel, Franklin e Johnson 2000]. Questa è una conseguenza non voluta dell’uso delle strategie precedenti: la persona scambia erroneamente i dettagli immaginati con l’esperienza percettiva. Il malfunzionamento del monitoraggio della fonte può essere responsabile, almeno in parte, dei deliri in cui una persona non è in grado di distinguere i frutti della propria immaginazione dalla realtà. Torneremo sugli errori di attribuzione della fonte nel decimo capitolo sull’oblio motivato e nel quattordicesimo capitolo sulla testimonianza oculare.

9,

Sommario

La nostra memoria a lungo termine è in grado di immagazzinare una stra­ ordinaria mole di informazioni, donde l’importanza di un recupero efficace. Come è noto, tuttavia, il recupero a volte non ha successo anche se la codifica è efficace. Per comprendere come ciò possa accadere, occorre vedere come avvie­ ne il recupero. Il recupero comincia con uno o più suggerimenti che propagano l’attivazione attraverso un percorso associativo fino alle tracce immagazzinate in memoria. Questo processo può fallire quando i suggerimenti sono inappropriati o associati troppo debolmente con il bersaglio, quando il bersaglio non è stato ben codificato, quando non dedichiamo abbastanza attenzione al recupero, quando non abbiamo un numero sufficiente di suggerimenti, e, infine, quando abbiamo adottato la «disposizione mentale» sbagliata per il recupero. Il successo del recupero è influenzato anche - spesso senza che ce ne rendiamo conto - dagli elementi del contesto incidentale presenti al momento del recupero, e dalla loro corrispondenza con quelli presenti alla codifica, tra cui l’ambiente esterno, lo stato, l’umore e il contesto cognitivo. Naturalmente, anche la strategia di recupero può influenzare la prestazione, specialmente quando deve essere rievocata una grande quantità di informazioni. Benché le persone tendano a pensare al recupero come a una rievocazione intenzionale del passato, il recupero può assumere molte forme. I test diretti misurano esplicitamente la ritenzione di episodi, e si servono del contesto spa­ zio-temporale come suggerimento. I suggerimenti contestuali sono importanti

IL RECUPERO

soprattutto nei test diretti, come la rievocazione libera, ma sono necessari anche nella rievocazione guidata e nel riconoscimento. Per contro, i test indiretti misu­ rano l'influenza del passato per mezzo di compiti che non fanno riferimento alla memoria. Il contesto non è usato intenzionalmente come un suggerimento, e ciò permette ai test indiretti di fornire una misura della memoria implicita. Fenomeni di memoria implicita come il priming di ripetizione danno prova dell'influenza inconscia dell'esperienza sul comportamento, e la memoria implicita può restare perfettamente integra nei pazienti amnesici. Il priming di ripetizione riflette gli effetti secondari dell’elaborazione corticale fuori dell'ippocampo in seguito alla esposizione recente a uno stimolo. La memoria esplicita riflette il contributo di altre strutture cerebrali, come l'ippocampo, all’immagazzinamento e al recupero dell'informazione contestuale. La memoria di riconoscimento implica non uno ma due processi di recupero. Possiamo riconoscere uno stimolo sulla base della sua familiarità; questo giudizio avviene in modo rapido e automatico. Questo processo è ben caratterizzato dalla teoria della detezione del segnale, che fornisce un metodo per separare i ricordi genuini dalle congetture basate su biases di giudizio. Possiamo riconoscere uno stimolo anche attraverso la rievocazione della situazione in cui l'abbiamo incontrato in precedenza {recollection), un processo che è più oneroso per l’attenzione, più lento e qualitativamente distinto dalla valutazione di familiarità. Abbastanza spesso il recupero implica non solo l’attivazione di tracce ma un processo di ricostruzione attraverso inferenze plausibili che fanno appello alle nostre conoscenze di base. Anche quando una ricostruzione attiva non è necessaria, le persone fanno spesso inferenze su ciò che hanno recuperato, per decidere come usare tale informazione. Le persone di regola cercano di inferire la fonte di ciò che ricordano, in modo da determinare, ad esempio, se la traccia è quella che essi cercano, se è degna di fede, se è un ricordo genuino o frutto di immaginazione. Tali attribuzioni richiedono la considerazione delle proprietà della traccia rievocata in relazione a ciò che ci si aspetta di trovare immagazzinato nella memoria, data una fonte. Gli errori di attribuzione della fonte illustrano uno dei modi in cui il recupero può andar male per un errore di commissione, piuttosto che di omissione. I fallimenti del processo di recupero del genere che ho vissuto personalmente e ho descritto all'inizio del capitolo possono avere una varietà di fonti. Per meglio comprendere come funziona il recupero è importante comprendere in quali cir­ costanze il recupero fallisce. Quando il recupero fallisce, si pone la questione se l'informazione sia effettivamente presente o se sia stata dimenticata. Nel prossimo capitolo affronteremo il tema dell'oblio.

237

238

CAPITOLO 8

Quadro 8.2. (Risposte al quadro 8.1) Paese

Nome della capitale

1

Norvegia

Oslo

2

Turchia

Ankara

3

Kenya

Nairobi

4

Uruguay

Montevideo

5

Finlandia

Helsinki

6

Australia

Canberra

7

Arabia Saudita

Riyadh

8

Romania

Bucarest

9

Portogallo

Lisbona

10

Bulgaria

Sofia

11

Corea del Sud

Seoul

12

Siria

Damasco

13

Danimarca

Copenaghen

14

Sudan

Khartum

15

Nicaragua

Managua

16

Ecuador

Quito

17

Colombia

Bogota

18

Afghanistan

Kabul

19

Thailandia

Bangkok

20

Venezuela

Caracas

L’oblio incidentale

Durante le vacanze di Natale, mia sorella mi chiese: «Ti ricordi quella volta che hai fatto cadere l’albero di Natale?». Io risposi: «Ma di che cosa vai cianciando? Non ho mai fatto nulla del genere!». Stupita, mia sorella replicò: «Altroché se l’hai fatto, non te ne ricordi?». Mio fratello aggiunse: «Sì, correvi, hai cercato di passare dietro l’albero di Natale per fare una fotografia a zia Dottie e zio Jim sul vialetto d’ingresso, e l’hai buttato giù». Ribattei indignato: «Che cosa... che cosa state dicendo? Dovete avermi scambiato con qualcun altro». Mio padre rincarò la dose: «Altroché se l’hai buttato giù. Un vero disastro, ti prendemmo un bel po’ in giro». Aggiunse che ricordava che ero molto dispiaciuto per aver fatto cadere l’albero, anche se gli altri mi tranquillizzavano, dicendomi che era tutto a posto. Non riuscivano proprio a credere che me ne fossi dimenticato. A malincuore, accettai che quella storia fosse vera. Mi sforzai di ricordare qualche particolare, ma senza risultato. Chiesi: «Quando è successo? Quando ero piccolo?». Mia sorella rispose: «No, è stato 3 o 4 anni fa, a New York», Ero sconcertato. Telefonai a un altro fratello e lui mi confermò tutto in ogni dettaglio, e precisò anche l’anno. In effetti, ricordavo il Natale a New York e la nuova mac­ china fotografica di mia madre che usavo spesso in quei giorni, ma quel fatto non lo ricordavo proprio. Dopo molti mesi e ripetuti tentativi, non riuscii a riportare alla memoria la benché minima traccia di quell’esperienza. Prima di cominciare a pensare che io sia amnesico, considerate quanta parte della vostra vita siete in grado di ricordare. Smettete di leggere e provate a fare il seguente esercizio. Prendete un foglio e una penna ed elencate tutto quello che avete fatto ieri da quando vi siete alzati fino al momento in cui siete andati a letto, compresi i dettagli di chi avete visto, che cosa vi siete detti e quello che vi è passa­ to per la mente. Fatto? Quasi certamente avete ricordato in dettaglio molte cose. Forse avete omesso uno o due fatti minori, che però vi tornerebbero facilmente alla memoria se qualcuno vi aiutasse a ricordarli. Ma ora rispondete a questa do­ manda: che cosa avete fatto una settimana fa? Probabilmente ricorderete ancora molte cose, ma con maggiore fatica, e con ogni probabilità avrete l’impressione di averne dimenticate molte altre. Provate infine a tornare indietro di un anno. Mettetecela tutta. Con ogni probabilità, nonostante i vostri sforzi, non ricorderete granché, tranne forse qualche evento vago e congetturale, e solo dopo un bel po’ di

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CAPITOLO 9

lavoro di ricostruzione. E ciò è tristemente vero della maggior parte dei giorni della vostra vita, eccezion fatta per gli eventi molto speciali e per il passato più recente. Anzi, pensate che questo stesso momento di cui ora avete esperienza conscia - se il passato ci insegna qualcòsa - farà la fine di quelle perdute esperienze. Non possiamo fare a meno di chiederci come sia possibile che qualcosa che in questo momento è al centro della nostra coscienza vada infine completamente perduto. È questo il destino di ogni esperienza? Quando avremo 80 anni, ci resterà un ricordo dettagliato di appena 1’1% della nostra vita? Che fine fanno tutti i nostri ricordi? Sono presenti ma inaccessibili? La funzione della memoria non ci colpisce mai con tanta evidenza e intensità come quando essa ci fa difetto. Questo capitolo si occupa dei meccanismi alla base dell’oblio. Ci si potrebbe chiedere perché l’oblio dovrebbe essere trattato in un capitolo diverso dal recupero, visto che il mancato recupero è una forma d’oblio. E tuttavia appropriato trattare l’oblio in un capitolo a parte, perché possono es­ servi processi di oblio che contribuiscono al mancato recupero ma sono distinti da questo. Inoltre, porre l’accento sull’oblio ci permette di studiare i cambiamenti della recuperabilità nel tempo. Quali fattori producono questi cambiamenti? Che vita sarebbe la nostra se non dimenticassimo mai nulla? Per rispondere a questi interrogativi, gli studi sulla memoria hanno considerato sia l’oblio incidentale sia l’oblio motivato. L’oblio è incidentale quando manca l’intenzione di dimenticare; è motivato quando ci impegniamo intenzionalmente in processi o comportamenti che limitano l’accessibilità dei ricordi. Verosimilmente, per spiegare in tutta la sua varietà l’esperienza dell’oblio è necessario considerare entrambi i tipi di oblio. Tratteremo qui l’oblio incidentale e nel prossimo capitolo l’oblio motivato.

1.

Una memoria fuori del comune

Come sarebbe la nostra vita se ricordassimo tutto quel che ci accade? Non sono state ancora trovate persone capaci di tanto, ma ve ne sono alcune con una memoria stupefacente. Elizabeth Parker, Larry Cahill e James McGaugh [2006] hanno descritto l’affascinante caso di A.J., una donna di 41 anni con una formi­ dabile capacità di ricordare il proprio passato. A J. è in grado di ricordare detta­ gliatamente ogni giorno della sua esistenza, fin da quando era ragazzina. Indicate una data nell’arco di diversi decenni e lei ritornerà a quel giorno, rivivendone gli eventi come se fossero accaduti ieri. E in grado di dire quale giorno della settimana fosse, di rievocare le cose avvenute nei giorni precedenti e successivi, nonché i più minuti particolari dei suoi pensieri e sentimenti e degli avvenimenti pubblici; tutto ciò può essere verificato grazie ai diari personali che ha tenuto per più di trent’anni. A J. riferisce che i suoi ricordi sono vividi, che le scorrono davanti agli occhi come un film, e che sono carichi di emozioni. Questi ricordi le affiorano alla mente in modo automatico e senza controllo conscio, come è dimostrato dal fatto che la loro rievocazione è immediata e non richiede nessuno sforzo. Si potrebbe pensare che avere una memoria fuori del comune sia un privilegio. Ma c’è un’altra faccia della medaglia. Quando le accade qualcosa di sgradevole A J. vorrebbe poterlo dimenticare, e l’incessante bombardamento di stimoli che la riportano al passato la distrae e a volte la angoscia. Nelle sue parole:

l’oblio incidentale

La memoria domina la mia vita [...] È come un sesto senso [...] Non richiede nessuno sforzo [...] Vorrei sapere perché ricordo tutto. Penso continuamente al passato [...] È come un film che mi scorre davanti agli occhi senza mai interrompersi. E come Uno schermo diviso in due. Parlo con qualcuno e intanto vedo qualcun altro [...] Ad esempio, stiamo seduti qui a parlare e mentre parlo penso a qualcosa che mi è accaduto nel dicembre del 1982, il 17 dicembre 1982, era un venerdì, quel giorno cominciai a lavorare da Gs [un negozio] [...] Mi basta provare una cosa una volta e quella cosa lascia il suo segno su di me per sempre [...] Non c’è nulla che possa lasciarmi alle spalle, perché il ricordo rimane [...] I ricordi felici tengono unita la mia mente [.,.] Custodisco tutti questi ricordi, buoni e cattivi [...] Non c’è nulla che possa lasciarmi alle spalle, la mia memoria è parte di me [...] Pensare a queste cose allevia un po’ il tormento [...] Se l’avessi saputo fin dall’inizio non penso che avrei mai voluto avere una memoria così, ma questo è il fardello che mi è toccato in sorte.

La condizione di A J. è stata definita sindrome ipertimestica (dalla parola greca thymesis, che significa «ricordo») da Parker, Cahill e McGaugh [2006]. In sostan­ za, AJ, ha una memoria che non può controllare. E chiaro che la sua esperienza di vita è molto diversa dalla nostra, e che AJ. paga un prezzo per la sua memoria perfetta: può ricordare i momenti belli ma non riesce a dimenticare i momenti brutti. Scambiereste la memoria di AJ. con la vostra? Forse dimenticare non è una cosa tanto malvagia. Più avanti in questo capitolo esamineremo la possibilità che l’oblio sia in realtà utile.

2.

Un dato fondamentale sull’oblio

L’esperienza di A J. è senza dubbio atipica, dato che quasi tutti dimentichiamo gli eventi della vita quotidiana. Un buon punto di partenza per studiare il fenomeno dell’oblio è il riconoscimento di una sua caratteristica fondamentale: per la maggior parte delle persone (e degli organismi), l'oblio aumenta con il passare del tempo. Certamente ciò non vi giungerà nuovo, ma potreste non avere considerato l’esatta relazione fra la memoria e il tempo. Se doveste fare un’ipotesi, direste che l’oblio avanza a un ritmo costante? Per rispondere, bisogna semplicemente misurare la probabilità dell’oblio mano a mano che un ricordo si allontana nel tempo. Ancora una volta, lo studio classico fu condotto da Hermann Ebbinghaus [1885], che usò se stesso come soggetto ed elenchi di sillabe prive di significato come materiale da apprendere. Ebbinghaus imparò 169 elenchi distinti di 13 sillabò prive di senso e poi reimparò ogni elenco dopo un intervallo variabile fra 21 minuti e 31 giorni. Egli scoprì che era sempre intervenuta una certa dose di oblio, e usò la quantità di tempo richiesta per reimparare l’elenco come una misura di quanto aveva dimenticato. Vide così che vi era una chiara relazione fra il tempo e la ritenzióne. Il lettore ricorderà dal quarto capitolo che la relazione fra àpprendimento e ricordo è più o meno lineare: il magazzino di memoria a lungo termine funziona come una vasca da bagno che viene riempita da un rubinetto che eroga acqua a un ritmo costante. Ma che cosa si può dire dell’oblio? È semplicemente come toglie­ re il tappo dalla vasca, con una conseguente perdita di informazione a un ritmo costante, o la relazione è più complessa? I risultati ottenuti da Ebbinghaus sono mostrati nella figura 9.1. Questo grafico rappresenta una relazione quantitativa fra la memoria e il tempo detta curva delPoblio o, a volte, funzióne di ritenzione. Come si può vedere, l’oblio all’inizio è molto rapido, ma poi rallenta gradualmente;

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Fig. 9.1. La curva dell’oblio ottenuta da Ebbinghaus [1885] quando rappresentò graficamente i risultati di

uno dei suoi esperimenti. La sua scoperta che la perdita di informazione è all’inizio molto rapida per poi livellarsi conserva la sua validità per molti tipi di materiale appreso.

Fonte: Ebbinghaus [18851.

la curva dell’oblio di Ebbinghaus è più logaritmica che lineare. Ancora una volta, questo risultato ha resistito alla prova del tempo, e si applica a un’ampia varietà di condizioni di apprendimento. La maggior parte degli studi sulla curva dell’oblio, come quello di Ebbinghaus, hanno riguardato materiali ben poco naturali - dagli elenchi di sillabe prive di significato alle parole scollegate fra loro. I risultati di questi studi sono applicabili ai ricordi personali? Che cosa accade quando viene rievocato materiale più rea­ listico dopo un più lungo intervallo di tempo? Vi è qui un problema importante. Consideriamo di nuovo la domanda su che cosa stavate facendo un anno fa. Se anche riusciste a dare una risposta, come si potrebbe accertare se avete risposto correttamente oppure no? E molto improbabile che l’informazione necessaria resti disponibile. Una soluzione consiste nel porre ai soggetti domande su eventi importanti, quel tipo di eventi che attirano l’attenzione generale nel momento in cui hanno luogo. Questa fu la strategia seguita da Meeter, Murre e Janssen [2005], i quali individuarono le principali notizie apparse sui quotidiani e in televisione giorno dopo giorno in un periodo di quattro anni. Essi prepararono oltre 1.000 domande su altrettanti eventi databili; a ciascun soggetto furono poste 40 di queste domande scelte a caso. Per reclutare i soggetti, gli sperimentatori si servirono di Internet; ciò permise loro di testare la memoria di 14.000 soggetti di gruppi d’età molto differenti e di diversi paesi del mondo. Venne valutata sia la memoria di rievocazione sia la memoria di riconoscimento. I risultati di Meeter, Murre e Janssen [ibidem'} mostrano che vi era un conside­ revole oblio degli avvenimenti pubblici, e che la capacità dei soggetti di rievocare

l’oblio incidentale

Fig. 9.2. Le persone che avevano studiato lo spagnolo all’università mostravano un rapido oblio nei primi 3

o 4 anni; nei 30 anni successivi l’oblio era considerevolmente ridotto [Bahrick 1984]. Chi aveva una buona conoscenza della lingua continuava a mostrare una chiara superiorità ancora dopo 50 anni. Fonte: Bahrick [1984].

quegli avvenimenti scendeva dal 60 al 30% in un anno. Le curve dell'oblio rivelano una rapida caduta iniziale, seguita da un rallentamento dell'oblio con il passare del tempo: più o meno la stessa cosa osservata da Ebbinghaus nel caso delle sillabe prive di significato oltre un secolo fa. Inoltre i soggetti ottenevano risultati molto peggiori nei test di rievocazione: dopo più di un anno, i soggetti rievocavano correttamente solo il 31% degli eventi, rispetto al 52% di risposte corrette quando dovevano semplicemente scegliere la risposta giusta fra più opzioni (riconoscimento). Questi risultati avvalorano le conclusioni fondamentali sull’oblio ottenute in laboratorio. Le curve dell’oblio che abbiamo considerato finora si riferivano principalmente al ricordo di eventi appresi in modo relativamente incidentale. Qual è la sorte delle informazioni imparate intenzionalmente e in modo più approfondito? Uno studio di Bahrick, Bahrick e Wittlinger [1975] ha fatto luce su questo argomento. Questi autori riuscirono a rintracciare 392 diplomati americani e testarono la loro capacità di ricordare i nomi e i ritratti dei compagni di classe. Questo studio dimostrò che la capacità di riconoscere una faccia o un nome in un insieme di facce o di nomi non familiari, e di abbinare i nomi con le facce, restava molto elevata più di trentanni dopo. Per contro, la capacità di rievocare un nome in seguito alla presentazione di un ritratto era maggiormente soggetta a oblio, proprio come è stato osservato nello studio descritto sopra sul ricordo delle notizie giornalistiche. Harry Bahrick è un professore della Ohio Wesleyan University, che, come molte università americane, ospita ogni anno una riunione dei suoi ex alunni. Bahrick ha sfruttato ingegnosamente questa tradizione per studiare la ritenzione di una vasta gamma di informazioni, dalla geografia della città in cui l’università ha sede al voca­ bolario delle lingue straniere imparate durante gli studi. La figura 9.2 mostra l’effetto

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dell'intervallo di ritenzione sul ricordo di una lingua straniera (che in questo caso era lo spagnolo), ha caratteristica più notevole del grafico è il livellamento dell'oblio dopo circa due anni, seguito da un modesto declino nel periodo successivo, fino a 50 anni dopo. L’oblio sembra avere effetto solo fino a un certo punto, oltre il quale le tracce mnestiche sono come congelate. In analogia con il permafrost (il suolo delle regioni polari perennemente gelato in profondità), Bahrick [1984] ha coniato il termine permastore (magazzino permanente) per designare questa conoscenza del linguaggio che nqn viene meno. La seconda cosa da notare è che la ritenzione totale è determinata dal livello di apprendimento iniziale, almeno per ciò che concerne l’apprendimento di una lingua straniera. In conclusione, per i materiali ben appresi, la curva dell’oblio dopo un primo declino si appiattisce e rivela poco altro oblio con il passare del tempo.

3.

Sulla natura dell’oblio

L’analisi delle curve dell’oblio solleva la questione di che cosa debba intendersi per oblio. Gli studi di Meeter e colleghi e di Bahrick hanno osservato un oblio molto più grande nei test di rievocazione che non in quelli di riconoscimento. In effetti, che il riconoscimento sia generalmente più facile della rievocazione è un dato molto robusto. Di conseguenza, i test di riconoscimento ci mostrano che spesso nella memoria si trova più di quanto non sia misurato dalla rievocazione. Ma allora è giusto descrivere come vero e proprio oblio la mancata rievocazione di questa o quella informazione, visto che molte delle tracce non rievocate continuano a risiedere nella memoria? Non sarebbe meglio riservare il termine oblio al caso in cui la traccia sia andata perduta in modo permanente? Questo problema rimanda a una distinzione concettuale proposta da Endel Tulving: la distinzione disponibilità/accessibilità, cioè fra la disponibilità di un ricordo nel sistema cognitivo (se il ricordo sia immagazzinato o no) e la sua accessibilità (se sia possibile avere accesso al ricordo, posto che sia immagazzinato). E l’inaccessibilità che definisce l’oblio, o quel che conta è l’indisponibilità? Sfortunatamente, se parlassimo di oblio solo nel caso dei ricordi non più disponibili, la misurazione stessa dell’oblio finirebbe con l’essere impossibile. La ragione è che stabilire se un ricordo sia andato definitivamente perduto è più complicato di quanto non si possa pensare. Che cosa può valere come prova di indisponibilità? Certo non la mancata rievocazione, come mostrano i risultati pre­ cedenti. Quanto al riconoscimento, anch’esso, come la rievocazione, può fallire, nonostante vi si^ una traccia nella memoria (come si può dimostrare una volta ripristinato apprppriatamente il contesto). A volte un’esperienza può sembrare perduta per sempre, ma forse in realtà è semplicemente mancato il suggerimento giusto. Come si ricorderà dall’ottavo capitolo, ho avuto bisogno di vedere il passa­ porto nella scatola per ricordare di averlo riposto lì. Perciò è difficile distinguere l’inaccessibilità dalla indisponibilità. Inoltre, quando un ricordo da rievocabile che era diventa semplicemente riconoscibile, la causa, in linea di principio, potrebbe essere l’affievolimento della traccia. La perdita permanente potrebbe non essere un fenomeno «tutto o nulla», ma manifestarsi per gradi. Per queste ragioni, e poiché quando l’accessibilità si riduce vi è un venir meno della memoria, possiamo usare l’inaccessibilità come criterio dell’oblio.

l'oblio incidentale

4.

Fattori che ostacolano l’oblio

Gli studi di Harry Bahrick mostrano come l’oblio, benché forse inevitabile per molti ricordi, potrebbe progredire più lentamente per alcuni tipi di conoscenza. Quali fattori influenzano questo rallentamento? Un’ovvia verità è che se imparia­ mo qualcosa bene fin dal principio, l’oblio sarà meno probabile, o perlomeno si manifesterà più tardi. Ma è possibile rinsaldare un ricordo in modo da aumentare la sua resistenza all’oblio? Che cosa ricorderemo quando avremo 80 anni? L’appiattimento della curva dell’oblio con il passare del tenipo dimostra che i ricordi non sono ugualmente vulnerabili all’oblio in ogni momento della loro storia. La relazione fra il tempo e la memoria può essere descritta anche nei termini della legge di Jost, così chiamata dal nome di uno psicologo del diciannovesimo secolo, la quale afferma che se due ricordi sono ugualmente forti in un momento dato, quello più vecchio sarà più durevole e verrà dimenticato rheno rapidamen­ te, E come se la ritenzione nel tempo fosse dovuta a due forze opposte: da una parte i meccanismi dell’oblio, dall’altra un processo che fa sì che i ricordi che riescono a sopravvivere si rinsaldino con il passare del tempo. In effetti si pensa che le nuove tracce siano inizialmente vulnerabili all’oblio per poi imprimersi gradualmente nella memoria. Il processo dipendente dal tempo per cui una nuova traccia viene gradualmente intessuta nella tela della memoria è le sue parti e le loro interconnessioni si cementano assieme è noto come consolidamento. Sono stati descritti almeno due tipi di consolidamento. Secondo la ricerca sul con­ solidamento sinaptico, occorre tempo perché l’effetto prodottò dall’esperienza si stabilizzi: sono infatti necessarie modificazioni strutturali nelle connessioni sinaptiche tra i neuroni. Queste modificazioni dipendono da processi biologici che possono richiedere ore o giorni per compiersi [Dudai 2004], Finché queste modificazioni strutturali sono in corso, il ricordo è vulnerabile. E stato descritto anche un processo di consolidamento sistemico} l’immagazzinamento e il recupero dell’informazione chiamano inizialmente in causa l’ippocampo5 poi il suo ruolo diminuisce progressivamente finché la corteccia non è in grado di provvedere da sé al recupero del ricordo [Squire 1992c; Dudai 2004]. Come vedremo nell’undi­ cesimo capitolo, l’ippocampo riattiva periodicamente le aree cerebrali coinvolte nell’esperienza iniziale (per esempio, le aree attivate quando udiamo o vediamo qualcosa) in una sorta di «replay» del ricordo, finché queste aree don si connettono reciprocamente in modo che il ricordo originale possa essere ricreato. Finché il ricordo non diventa indipendente dall’ippocampo, è soggetto a deterioramento. Le stime della durata del consolidamento sistemico variano; alcuni dati indicano che negli esseri umani potrebbe richiedere anni. Sembra dunque che esista un processo che, con il passare del tempo, rafforza i ricordi ritardando l’insorgenza dell’oblio, e che questo processo implichi un recupero periodico di qualche tipo. Va sottolineato che recuperare intenzionalmente un’esperienza ha un conside­ revole effetto sulla rapidità con la quale un ricordo viene dimenticato. Ciò è stato illustrato in modo convincente da Marigold Linton [1975], che ogni giorno, per cinque anni, annotò in un diario due eventi che le erano accaduti nel corso della giornata. Dopo di che, a intervalli predeterminati, sceglieva a caso un evento dal diario e vedeva se era in grado di rievocarlo. Data la modalità di selezione degli eventi, poteva accadere che un evento saltasse fuori più volte. Pòté così analizzare i risultati per accertare quali effetti avessero le rievocazioni sulla sua successiva

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Protezione dall’oblio dovuta ai test precedenti

Fig. 9.3. La probabilità di ricordare un item dipende dal numero di volte che esso è stato recuperato o

richiamato alla mente. La rievocazione di un evento rallenta l’oblio.

Fonte-. Linton [19751.

capacità di ricordare l’evento. I risultati sono illustrati nella figura 9.3; gli eventi che non erano stati testati in precedenza mostravano, dopo quattro anni, un considerevole oblio (veniva dimenticato il 65% degli eventi). Già un singolo test era sufficiente a ridurre l’oblio, mentre gli eventi sottoposti a test quattro volte (o più) mostravano, dopo quattro anni, un livello di oblio estremamente basso (veniva dimenticato il 12 % degli eventi). Perciò si direbbe che i ricordi personali, se recuperati periodicamente, divengano resistenti all’oblio, proprio come nel caso del permastore, la ritenzione permanente di materiali ben appresi descritta da Bahrick, Bahrich e Wittlinger [1975]. Altri esempi che illustrano il ruolo del recupero nel rafforzamento della memoria saranno discussi nel sedicesimo capi­ tolo sul miglioramento della memoria. Posto che il recupero rafforzi la ritenzione, ci si può chiedere che cosa esatta­ mente venga recuperato. Si è tentati di credere che quando rievochiamo qualcosa che è accaduto vent’anni prima, stiamo rievocando un ricordo vecchio di vent’anni. Questa conclusione potrebbe essere vera se nel frattempo non avessimo mai rie­ vocato quel ricordo. Ma, se lo abbiamo fatto, forse in realtà stiamo recuperando un ricordo di ciò che abbiamo recuperato in precedenza. Il fatto di recuperare qualcosa è esso stesso un ricordo, con il suo contesto e i relativi dettagli. Quan­ to più spesso recuperiamo un’esperienza, tanto più questi eventi di recupero si accumuleranno nella memoria. Se l’informazione recuperata volta dopo volta è accurata e completa, questo processo rafforzerà la rievocazione. Se i ricordi sono

l’oblio incidentale

incompleti o inaccurati per effetto di inferenze ricostruttive, finiremo con il ricor­ dare qualcosa di diverso dall’evento originario. Sembra perciò che il recupero possa avere un ruolo specialissimo nel determina­ re quali dati dell’esperienza ci accompagneranno nel corso della vita. Ogni volta che ci incontriamo con gli amici o la famiglia e rievochiamo con loro il passato, stiamo implicitamente scegliendo quali sono le cose che ricorderemo meglio. E, se teniamo un diario, passare in rassegna i fatti della giornata e recuperarli non solo ci fornisce una registrazione oggettiva di ciò che è accaduto, ma può anche accrescere la lon­ gevità di quei ricordi, soprattutto se di tanto in tanto li richiamiamo alla mente. E certo che il recupero ha un considerevole effetto sulla ritenzione. Più avanti vedremo che, paradossalmente, il recupero ha anche un ruolo importante e complementare nel determinare ciò che dimentichiamo.

5.

Fattori che facilitano l’oblio incidentale

Sapere che l’oblio può essere ritardato dal recupero è utile, ma ci si può chie­ dere da dove esso abbia origine. Quali fattori determinano il venir meno della ritenzione? Gli psicologi sperimentali si sono occupati tradizionalmente soprattutto dell’oblio incidentale, sottolineando il ruolo di processi passivi che sono effetto collaterale di cambiamenti avvenuti nel mondo o nella persona. Ad esempio, l’oblio è stato attribuito al decadimento, ai cambiamenti contestuali e all’interferenza. Questa concezione passiva conferma una sensazione comune alla maggior parte di noi: che il venir meno della memoria sia qualcosa di cui siamo vittime involontarie. Spesso questa concezione rispecchia la realtà: vi sono molte cose che dimentichia­ mo involontariamente, anche quando sono importanti. Qui prenderemo in esame alcuni dei fattori più importanti.

5.1. Il passare del tempo come causa di oblio

Il modo più naturale di descrivere la curva dell’oblio è dire che la memoria peggiora con il passare del tempo. Forse la ragione è semplicemente che le tracce di memoria si indeboliscono con il tempo. I ricordi possono affievolirsi, un po’ come un biglietto esposto al sole e alla pioggia che a poco a poco sbiadisce fino a diventare illeggibile. L’ipotesi che i ricordi si indeboliscano con il tempo va sotto il nome di decadimento della traccia. Molti ricercatori sostengono che il decadimento della traccia sia in parte responsabile della perdita di informazione dalla memoria di lavoro verbale e visiva [Broadbent 1958; Baddeley 1986; Co­ wan 1988; Page e Norris 1998; Towse, Hitch e Hutton 2000; Gold et ah 2005], benché questo approccio abbia i suoi critici [Nairne 2002]. Il decadimento ha un ruolo anche nell’interpretazione del priming di ripetizione e della familiarità, effetti che secondo alcuni decadono rapidamente [Eichenbaum 1994; McKone 1998; Yonelinas e Levy 2002]. Molte teorie del decadimento della traccia hanno in comune l’idea che l’attivazione decada gradualmente, anche se l’item continua a essere immagazzinato nella memoria. Ad esempio, l’esposizione recente alla parola elmetto può attivare un concetto preesistente. Anche se l’attivazione può affievolirsi, il concetto permane.

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Vi è però un altro tipo di decadimento, in cui la degradazione concerne gli elementi strutturali di un ricordo, e non solo i livelli di attivazione: a deteriorarsi potrebbero essere i nessi fra le caratteristiche del ricordo, o le caratteristiche stesse. E questo quel che accade? Il problema si collega all’annosa questione se i ricordi siano immagazzinati in modo permanente e in certe condizioni divengano semplicemente inaccessibili, A un certo livello, la risposta sembra ovvia: i ricordi non sono permanenti, il decadimento deve esistere. Non possiamo negare la nostra natura di organismi biologici. I nostri ricordi sono incarnati in tessuti che cambiano incessantemente; i neuroni muoiono, le connessioni si indeboliscono o si modificano. Ad esempio, sappiamo che nell’Aplysia (una lumaca marina) un processo dipendente dal tempo produce la degradazione delle connessioni sinaptiche interpeuronali responsabili di un comportamento recentemente ap­ preso, con una corrispondente degradazione del comportamento [Bailey e Chen 1989]. Non è azzardato supporre che un processo di degradazione simile abbia luogo negli esseri umani, e che sia responsabile del decadimento dipendente dal tempo. Se i neuroni muoiono e le connessioni vanno incontro a degradazione, il mistero più grande sembra essere semmai la sopravvivenza dei ricordi per lunghi periodi di tempo. Benché il decadimento appaia inevitabile, gli psicologi sperimentali sono a buon diritto scettici sulle prove comportamentali a suo sostegno. La ragione è che dimostrare il decadimento in termini comportamentali è straordinariamente difficile. Per proyare la realtà del decadimento si dovrebbe dimostrare che l’oblio aumenta con il tempo in assenza di altre attività come l’immagazzinamento di nuo­ ve esperienze o la ripetizione. La ripetizione del ricordo deve essere controllata perché, come sappiamo, il recupero rinsalda il ricordo, cosa che vanificherebbe gli sforzi per accertare il decadimento. Come vedremo più avanti, l’immagazzina­ mento di nuove esperienze dopo la codifica di una traccia deve essere controllato perché l’interferenza può alterare il ricordo. Per rispettare queste condizioni, la persona dovrebbe essere mantenuta in una sorta di vuoto mentale, senza pro­ cessi di ripetizione, pensieri o esperienze a contaminare lo stato della memoria e a complicare l’interpretazione dell’oblio. A peggiorare le cose, anche se l’oblio avesse luogo in assenza di interferenze, resterebbe da vedere se la traccia non è più disponibile o è semplicemente divenuta inaccessibile. Perciò potrebbe essere impossibile dimpstrare il decadimento in termini comportamentali, anche se esso fosse reale.

5.2. Fattori correlati al tempo che causano Foblio

Per tutte queste ragioni, gli psicologi sperimentali preferiscono supporre che il tempo sia semplicemente correlato con l’effettiva causa dell’oblio. Sono state considerate due possibilità. In primo luogo, con il passare del tempo il contesto incidentale delle' nostre azioni va incontro a cambiamenti che possono rendere più difficile il recupero dei ricordi più vecchi. In secondo luogo, con il passare del tempo immagazziniamo molte nuòve esperienze simili che possono interferire con il recupero di una particolare traccia. Questi fattori non contraddicono l’ipotesi del decadimento, ma forniscono una spiegazione della curva dell’oblio che fa a meno di tale ipotesi.

l’oblio incidentale

5.2.1. Fluttuazione contestuale

Come abbiamo visto nell'ottavo capitolo, il recupero dipende dal numero e dalla qualità dei suggerimenti disponibili durante la rievocazione. Quando ven­ gono usati suggerimenti inappropriati, il recupero può fallire. Il recupero può fallire anche quando un suggerimento che in passato era appropriato cambia con il trascorrere del tempo. Con il passare degli anni, ad esempio, l’aspetto dei nostri familiari cambia, ed essi somiglieranno sempre di meno al suggerimento associato a un vecchio ricordo. Inoltre, l’oblio è più probabile anche quando il contesto incidentale presente al recupero non corrisponde a quello presente alla codifica. Una spiegazione della curva dell’oblio è che con il passare del tempo i cambiamenti del contesto diventano in media più grandi, giacché il mondo cambia e noi stessi cambiamo; con il tempo, incontriamo stimoli, persone e situazioni che non aveva­ mo mai incontrato prima, abbiamo nuovi pensieri e proviamo nuove emozioni. Di conseguenza, il contesto incidentale di una persona sarà molto simile a quello in cui si trovava subito prima, ma se ne allontanerà sempre di più con il trascorrere del tempo. L’idea che la fluttuazione contestuale (contextual fluctuation) contri­ buisca all’oblio ha trovato posto in numerosi modelli della memoria [Mensink e Raaijmakers 1988]. I cambiamenti del contesto possono spiegare in parte il sorprendente fenomeno deW amnesia infantile, su cui torneremo nel dodicesimo capitolo. L’amnesia infan­ tile è la difficoltà che quasi tutti abbiamo nel ricordare i nostri primi anni di vita. Un’ipotesi è che i contesti incidentali dei bambini piccoli siano molto differenti da quelli degli adulti, tanto da rendere semplicemente impossibile recuperare i ricordi d’infanzia. Nei primissimi anni di vita, ad esempio, i bambini non hanno ancora svi­ luppato a sufficienza il linguaggio e perciò sono estranei alla dimensione concettuale e linguistica in cui è immersa la vita adulta. I bambini inoltre hanno un’esperienza del mondo certamente differente da quella degli adulti che diventeranno: le cose sembrano relativamente più grandi quando si è piccoli. Perciò l’amnesia infantile può dipendere, in parte, da cambiamenti del contesto ambientale, cognitivo e, forse, emozionale.

5.2.2. Interferenza

Col tempo le esperienze si accumulano, un po’ come le carte che si ammuc­ chiano sulla vostra scrivania, e l’arrivo di nuovi ricordi rende più difficile trovare ciò che abbiamo già immagazzinato. Quando poi i ricordi si somigliano, questo problema diventa ancor più complicato, come se su una scrivania vi fossero molti documenti con l’intestazione simile. Il fatto che l’immagazzinamento di tracce simili renda più difficile il recupero va sotto il nome di interferenza. L’interferenza può facilmente diventare un grave problema, come appare chiaro se si considera che le persone sono, per loro natura, creature abitudinarie. Ci piace fare sempre le stesse cose: leggere il giornale ogni mattina, parcheggiare nello stesso posto tutti i giorni, prendere il caffè alla solita ora. Una vita del genere, tuttavia, è poco memorabile. Ricordiamo che cosa abbiamo mangiato a cena ieri sera, ma non due settimane fa. L’oblio non dipende semplicemente dal tempo. Non abbiamo difficoltà a ricordare per lungo tempo le nostre esperienze quando sono uniche: la cena a casa dei vicini

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un anno fa è molto più facile da ricordare della cena a casa nostra tre mesi fa. È la presenza di altre tracce nella memoria che rende più difficile il recupero. Siccome il numero di tracce che si somigliano aumenta con il tempo, l’interferenza spiega in modo molto semplice la curva dell’oblio. L’idea dell’interferenza come fonte di oblio ha una lunga storia [Mùller e Pilzecker 1900] ed è stata a lungo al centro della ricerca sperimentale sulla memoria [per una rassegna, cfr. Postman 1971; Crowder 1976; Anderson e Neely 1996]. Perché la presenza nella memoria di ricordi simili può essere dannosa? Per comprenderlo, sarà bene fare un passo indietro e considerare una scoperta fonda­ mentale su ciò che verosimilmente è alla base dell’interferenza. Nella storia della ricerca sulla memoria, gli studiosi hanno identificato ben presto una condizione che quasi tutte le situazioni di interferenza hanno in comune: c’è interferenza ogni volta che il suggerimento usato per accedere a un ricordo-bersaglio (fig. 9.4, in alto a sinistra) viene ad associarsi con altri ricordi. La situazione di interferenza canonica è illustrata nella sua forma più generale nella figura 9.4 (in alto a destra). Vi è un singolo suggerimento al quale sono associati più ricordi. Da questo punto di vista, il cammino da un suggerimento a un ricordo-bersaglio dipende non solo dalla forza dell’associazione fra il suggerimento e il bersaglio, ma anche dal fatto che il suggerimento sia o meno associato ad altri ricordi. Perché il collegamento fra un suggerimento e una molteplicità di ricordi rende più difficile il recupero di un particolare bersaglio? Benché le teorie differiscano nei dettagli, la maggior parte concorda sull’idea che quando un suggerimento è collegato a più ricordi, questi competono con il bersaglio per l’accesso alla consapevolezza; è questo il principio di competizione [Anderson, Bjork e Bjork 1994]. In sostanza, un suggerimento attiva con più o meno forza tutti i suoi associati, che «competono» l’uno con l’altro. Gli associati diversi dal ricordo-bersaglio ne sono i rivali. In generale, qualunque effetto negativo sulla memoria che derivi dalla competizione di un ricordo con i suoi rivali è un effetto di interferenza. L’interferenza aumenta in proporzione al numero di rivali in competizione con un bersaglio. Questa idea è confermata dal fatto che la rievocazione tende a peggiorare in proporzione al numero di ricordi associati allo stesso suggerimento, una generalizzazione detta principio di sovracca­ rico dei suggerimenti [Watkins 1978]. In parole povere, quando un suggerimento è associato a troppe cose, la sua capacità di dare accesso a una qualunque di esse è compromessa. In che modo queste idee ci permettono di spiegare perché l’immagazzina­ mento di ricordi simili è causa di interferenza? Supponete, ad esempio, di essere andati a fare la spesa al solito supermercato e di non riuscire a ricordare dove avete parcheggiato l’auto. Mentre parcheggiavate, avete certamente codificato in un ricordo diversi aspetti di quell’esperienza. Ma anche altri ricordi somiglianti a questo contengono alcune caratteristiche del bersaglio, tra cui il fatto di avere uti­ lizzato l’auto, il tipo di auto utilizzata (una Honda blu del 2004, poniamo) e, forse, lo scopo di fare la spesa. Se usate alcune caratteristiche importanti del bersaglio (per esempio, i concetti di voi stessi, di parcheggio e della vostra Honda) come suggerimento per ricordare dove avete parcheggiato l’auto, evocherete anche altri ricordi che condividono quelle caratteristiche con il bersaglio. La figura 9.4 (in basso) mostra come i molti suggerimenti disponibili nell’esempio (per esempio, «me stesso», «parcheggio» e «Honda») possono complicare la situazione di base, in cui il suggerimento è uno solo. La competizione per un suggerimento condiviso è un

l’oblio incidentale

Competizione per il recupero Suggerimento per il recupero

Suggerimento per il recupero

Ricordo-bersaglio

Mazda Miata

VW Maggiolino i

j

Episodio di parcheggio 1

Episodio di parcheggio 2

Fig. 9.4. In alto a sinistra: un suggerimento per il recupero associato a un singolo item-bersaglio. In alto a

destra: P associazione di un suggerimento per il recupero con un item rivale interferisce con la ri evocazione del bersaglio. In basso: un esempio di interferenza più complesso» con una molteplicità di suggerimenti per il recupero condivisi da più item, e ricordi complessi aventi molte caratteristiche. Ponte: Anderson e Neely [1996].

buon modo di spiegare l'interferenza fra tracce simili. L'idea di una competizione fra tracce che condividono gli stessi suggerimenti per il recupero è molto generale. Ad esempio, i ricordi in competizione nella memoria non devono necessariamente essere di natura episodica. Effetti di interferenza possono verificarsi anche quando cerchiamo di recuperare il significato di una parola.

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5.3. Fenomeni di interferenza

Vi è un certo numero di situazioni qualitativamente diverse che producono interferenza. Ad esempio, l’immagazzinamento di nuove esperienze può interferire con il recupero di quelle vecchie, ma anche i ricordi vecchi possono ostacolare il recupero di quelli nuovi. In questo paragrafo, prenderemo in esame alcuni dei più importanti fenomeni di interferenza e i principali risultati ottenuti. Va sottolineato che anche se i dettagli variano, i meccanismi di base che producono l’oblio potrebbero essere sostanzialmente simili. Più avanti, prenderemo in esame i possibili meccanismi dell’interferenza.

5.3.1. Interferenza retroattiva

All’inizio di questo capitolo vi ho chiesto di provare a elencare tutte le cose che avete fatto ieri, un giorno di una settimana fa, e infine un giorno di un anno fa, Se vi siete cimentati in questo esercizio, vi siete certamente scontrati con la sgradevole realtà di riuscire a ricordare ben poco della vostra vita. Come abbiamo visto, la difficoltà potrebbe essere dovuta a parecchi fattori, tra cui il decadimento e la fluttuazione contestuale. Ma è probabile che questo oblio derivi, in buona misura, dall’interferenza retroattiva. L’interferenza retroattiva è responsabile dell’oblio dovuto alla codifica di nuove tracce in memoria nell’intervallo tra la codifica iniziale del bersaglio e il momento in cui esso è sottoposto a test. In so­ stanza, la capacità di rievocare le esperienze più lontane nel tempo viene alterata da un processo associato con l’immagazzinamento di nuove esperienze. Ogni volta che andate a mangiare da McDonald’s, ogni mattina che salite sull’autobus, ogni giorno che trascorrete lavorando davanti al computer, tutto il vostro passato di pasti da McDonald’s, corse in autobus e giornate di lavoro sfugge un poco di più alla presa della vostra mente. Lo studio dell’interferenza retroattiva si è generalmente basato sull’uso di semplici materiali corrispondenti alla situazione di interferenza canonica de­ scritta sopra. Questo fenomeno viene spesso studiato per mezzo del classico disegno di interferenza retroattiva illustrato nella metà sinistra della figura 9.5. Nella condizione sperimentale, i soggetti studiano una prima lista di vocaboli (riquadro in alto), e poi un seconda lista. Spesso le coppie della prima lista (per esempio, cane-cielo) contengono suggerimenti che ritornano nella seconda lista, ma accoppiati con una nuova risposta (per esempio, cane-pietra), che i soggetti devono apprendere al posto della vecchia. Una volta che i soggetti abbiano appreso la seconda lista, viene presentato loro il primo vocabolo di ciascuna coppia; il compito è rievocare la risposta della prima lista (per esempio, cane-ì). Anche i soggetti nella condizione di controllo studiano una prima lista; tuttavia, nell’intervallo durante il quale i soggetti nella condizione sperimentale studiano la seconda lista, essi si dedicano a un’attività riempitiva irrilevante. Queste due condizioni ci permettono di porre la domanda critica: «Qual è l’effetto dell’ap­ prendimento di nuove informazioni (la seconda lista) sulla capacità di ricordare informazioni studiate in precedenza (la prima lista), rispetto a una situazione (la condizione di controllo) nella quale non è stata appresa nessuna informazione nuova?».

l'oblio incidentale

Fig. 9.5. A sinistra; compito di interferenza retroattiva in cui i soggetti imparano due liste di coppie di

parole, l’una dopo l'altra. Un gruppo di controllo omette l’apprendimento della seconda lista. A destra: risultati del test finale di rievocazione guidata (per entrambe le liste) in funzione del numero di prove di addestramento nella lista 2. Il ricordo della lista 2 migliora in proporzione alla pratica, mentre la lista 1 peggiora in proporzione alla pratica con la lista 2.

Fonte' Barnes e Underwood [1959],

Le conclusioni generali sono le seguenti: a) presentare una seconda lista stret­ tamente collegata alla prima riduce la capacità di rievocare gli item della prima lista, rispetto alla condizione di controllo; b} continuare a studiare gli item della seconda lista danneggia ulteriormente la ritenzione degli item della prima lista, mano a mano che lo studio procede. Ciò è vero specialmente quando la prima e la seconda lista hanno un suggerimento in comune {cane, nell’esempio precedente); l’interferenza retroattiva tende a essere più debole quando le coppie delle due liste sono scollegate. Perciò non tutte le esperienze interposte danneggiano la memoria: le esperienze devono essere simili. Un tipico esempio di interferenza retroattiva è illustrato dal grafico a destra nella figura 9.5, tratto da un classico studio di Barnes e Underwood [1959]. Si noti che quanto più i soggetti studiano la seconda lista di coppie, tanto migliore è il ricordo di quelle coppie, mentre la loro ritenzione delle coppie della prima lista peggiora leggermente. Sappiamo che questo incremento dell’oblio non è dovuto semplicemente al tempo trascorso, visto che nella condi­ zione di controllo trascorre la stessa quantità di tempo tra l’apprendimento della lista di coppie e il test finale. Imparare qualcosa di nuovo può dunque danneggiare la memoria» Ci si può tuttavia chiedere se lo studio di materiali come quelli usati in labo­ ratorio abbia qualcosa da insegnarci sulla memoria delle esperienze personali. Sarebbe utile scoprire se materiali più realistici sono anch’essi soggetti a inter­ ferenza retroattiva. Studi di questo tipo esistono, e generalmente confermano l’importanza dell’interferenza retroattiva. In uno studio di Hitch e Baddeley, fu chiesto a dei giocatori di rugby di ricordare i nomi delle squadre contro le

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capitolo

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Oblio causato dall’interferenza di eventi simili

Fig. 9.6. Questo grafico, che mostra il ricordo che giocatori di rugby hanno delle squadre che hanno da poco incontrato, illustra la tendenza degli eventi recenti a interferire con il ricordo di eventi simili meno recenti.

Fonte: Baddeley e Hitch [1977].

quali avevano giocato nella prima parte della stagione [Baddeley e Hitch 1977]. La figura 9.6 illustra la probabilità che essi rievocassero il nome dell’ultima squadra contro la quale avevano giocato, poi il nome della penultima, e così via. Risultò che la maggior parte dei giocatori aveva saltato alcune partite, a causa di infortuni o per altre ragioni, cosicché per un giocatore la penultima partita poteva avere avuto luogo una settimana prima, per un altro due settimane pri­ ma o anche un mese prima. Fu perciò possibile accertare se l’oblio dipendesse dal tempo trascorso o dal numero di partite intercorse. Il tempo si dimostrò relativamente ininfluente, mentre il numero di partite intercorse era un fattore cruciale; l’oblio era dovuto perciò a interferenza più che al decadimento della traccia. Evidentemente, il ricordo di avere giocato una partita poteva essere diventato meno accessibile semplicemente perché da allora i giocatori avevano disputato molte partite.

5.3.2. Interferenza proattiva

Un pomeriggio mi arrampicai in cima a una ripidissima stradina nei pressi del dipartimento di psicologia per scoprire, con orrore, che qualcuno mi aveva rubato la macchina. Ripensandoci meglio, mi resi conto che avevo parcheggiato la macchina lì non quel pomeriggio, ma quella mattina. Quel pomeriggio l’avevo

I? OBLIO INCIDENTALE

parcheggiata più avanti, lungo un'altra stradina assurdamente ripida. Ero stato una sfortunata vittima àeXV interferenza proattiva, che è la tendenza dei ricordi precedenti a interferire con il recupero di esperienze e conoscenze successive. Molti di noi conoscono i fastidiosi effetti dell’interferenza proattiva. Un esempio è quando non riusciamo a richiamare alla mente la nuova password perché quella vecchia continua a intromettersi, e non riusciamo a ignorarla o dimenticarla sebbene non sia più valida. Oppure, se siamo campioni di sfortuna, in un mo­ mento di distrazione ci può capitare di chiamare la nostra attuale fidanzata con il nome della precedente. In generale, può accadere che questo o quel ricordo ben codificato rialzino la testa e rendano più difficile il recupero di un ricordo più recente. Anche se abbiamo sottolineato come l’interferenza retroattiva influenzi la ritenzione a lungo termine, l’interferenza proattiva ha un ruolo importante nel de­ terminare l’andamento dell’oblio. Ciò è stato dimostrato brillantemente da Benton Underwood [1957], il quale voleva capire perché i soggetti che avevano imparato una lista di sillabe prive di significato presentassero un oblio molto elevato a ven­ tiquattro ore di distanza. A Underwood venne in mente che l’interferenza proat­ tiva era un’ipotesi concreta. All’epoca quasi tutte le ricerche sull’apprendimento umano venivano svolte in un piccolo numero di laboratori, i soggetti dei quali erano quasi sempre studenti universitari. In questi dipartimenti accadeva spesso che agli studenti fosse richiesto di partecipare per un considerevole numero di ore a esperimenti di apprendimento verbale. Underwood pensò che causa dell’oblio potesse essere l’interferenza di tutte quelle liste di sillabe prive di senso apprese in precedenza dagli studenti. Per fortuna, fu possibile accertare quante liste ciascun soggetto aveva appreso in altri esperimenti e determinare la quantità di oblio in un periodo di ventiquattro ore in funzione di questa esperienza passata. Si vide che degli studenti «ingenui», senza esperienza precedente, ricordavano dopo ventiquattro ore 1’80% degli item della lista, mentre gli studenti che avevano alle spalle 20 o più prove di apprendimento su liste differenti ne ricordavano dopo ventiquattro ore meno del 20%. L’interferenza proattiva aveva un grandissimo effetto sulla ritenzione, determinando in larga misura il tasso d’oblio del materiale dopo un intervallo prolungato. Gli studi sull’interferenza proattiva sono basati spesso su un disegno speri­ mentale apparentato a quello che abbiamo visto per l’interferenza retroattiva. Il disegno per l’interferenza proattiva (fig. 9.7) somiglia al disegno per l’interferenza retroattiva, salvo che: d) in esso viene testato il ricordo delle risposte alla lista 2, non quello delle risposte alla lista 1; b) nella condizione di controllo, il periodo di riposo (o lo svolgimento di attività irrilevanti) sostituisce l’apprendimento della prima lista anziché della seconda. Questo disegno ci permette di indagare in che modo le conoscenze acquisite in precedenza (la prima lista) possono alterare la nostra capacità di rievocare nuove informazioni (la seconda lista), rispetto a una situazione in cui non vi è stato apprendimento precedente (condizione di control­ lo, seconda lista). Gli studi che hanno fatto uso della procedura di interferenza proattiva hanno dimostrato che è più probabile che le persone dimentichino gli item di una lista quando in precedenza abbiano studiato un’altra lista. La quantità di interferenza proattiva è maggiore quando le due liste hanno un suggerimento in comune. Gli effetti di interferenza proattiva influenzano più la rievocazione che il riconoscimento.

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Interferenza proattiva Compito di interferenza proattiva Condizione di controllo

Q Condizione c sperimentale i« ...

Lista 1 cane-cielo

1S 5

€ E .9*

£8 F eJ

Lista 2 , cane-pietra ■

2. Appren- : dìmento ;- Liète 2 di coppie cane-pietra collegate

o TB

Lista 2

co

co

cane-? ,

co

Lista 2 cane-?

Fig. 9.7. A sinistra; compito di interferenza proattiva in cui i soggetti apprendono due liste di coppie di

parole. Un gruppo di controllo omette l’apprendimento della prima lista. A destra: meta-analisi dei dati del test finale di rievocazione guidata dopo un intervallo di 24 ore, in funzione del numero di liste apprese in precedenza. Il ricordo della lista 2 peggiora con l’aumentare del numero di liste apprese in precedenza.

Fonte: adattata da Underwood [1957].

5.3.3. L'effetto di «part-set cuing » L’esposizione recente a uno o più ricordi rivali rende più difficile il recupero di un ricordo-bersaglio. Supponiamo, ad esempio, di avere dimenticato il nome di qualcuno e di avere vicino un amico benintenzionato che, per aiutarci, prova a indovinare il nome che stiamo cercando. A meno di colpi di fortuna, spesso i suggerimenti peggiorano la situazione. A volte i tentativi di rievocazione restano a lungo vani, finché, sgombrato il campo dalle ipotesi sbagliate, la nostra mente non trova il nome tanto cercato. Se questa esperienza non vi è ignota, avete una conoscenza di prima mano dell’effetto di «part-set cuing». Nell’effetto dì pari-set cuing la rievocazione di un ricordo-bersaglio peggiora quando vengono forniti suggerimenti per il recupero appartenenti allo stesso insie­ me (per esempio, una categoria) cui appartiene il bersaglio [Mueller e Brown 1977]. Il fenomeno di base fu scoperto da Slamecka [1968]; i suoi soggetti studiavano liste formate da termini appartenenti a diverse categorie semantiche (per esempio, alberi, uccelli}. Nel test finale, a un gruppo di soggetti venivano forniti alcuni termini come suggerimento per la rievocazione degli altri termini della categoria; un secondo gruppo di soggetti non riceveva nessun suggerimento del genere. La questione interessante era la rievocazione degli altri termini della categoria (quelli non usati come suggerimento) nella condizione sperimentale, rispetto alla rievocazione di quegli stessi termini nella condizione in cui non veniva fornito nessun suggerimento. Slamecka si aspettava che i suggerimenti avrebbero aiutato la rievocazione degù altri termini della categoria. Con sua sorpresa, nel test di rievocazione di tali termini, i soggetti che avevano ricevuto i suggerimenti ottenevano risultati peggiori rispetto

l'oblio incidentale

a quelli che non avevano ricevuto nessun suggerimento. Questo è l’effetto di part­ set cuing\ se vengono forniti alcuni elementi di un insieme (in questo caso, di una categoria) come suggerimento, il ricordo degli altri elementi peggiora. Il part-set cuing può essere una delle ragioni per cui quando ci ripromettiamo di comprare un CD musicale la prossima volta che entriamo in un negozio di dischi, quel disco sembra svanirci di mente non appena entriamo nel negozio e passiamo in rassegna i CD in mostra negli scaffali. L’idea che fornire dei suggerimenti possa peggiorare il ricordo è sorprendente e paradossale. Con il senno di poi, tuttavia, la cosa è perfettamente ragionevole, data la situazione di interferenza descritta all’inizio. È presumibile che un insieme di elementi sia definito da un denominatore comune (per esempio, frutta o uccel­ li), al quale è associata una molteplicità di elementi. Se la presentazione di alcuni elementi dell’insieme rafforza la loro associazione con il denominatore comune, questi elementi acquisiranno un vantaggio competitivo durante il recupero rispetto agli elementi restanti, peggiorandone la rievocazione, Questo meccanismo spiega perché quanti più elementi dell’insieme sono forniti come suggerimento, tanto peggiore è il ricordo degli elementi restanti [per una rassegna, cfr, Nickerson 1984]. Se la tendenza a offrire aiuto e suggerimenti nuoce talvolta alla memoria, che cosa accade quando delle persone cercano di ricordare, in collaborazione, dei fatti che tutte loro hanno vissuto o appreso? I ricordi di una persona stimolano le altre a ricordare di più o hanno forse un effetto di part-set cuing? Studi recenti hanno mostrato che quando i membri di un gruppo devono ricordare del materiale che ognuno di essi ha appreso, essi ricordano meno cose quando rievocano l’infor­ mazione collettivamente di quanto non accada quando ciascuno di loro rievoca l’informazione individualmente e poi i risultati vengono combinati assieme. Que­ sto fenomeno, che va sotto il nome di inibizione collaborativa, può derivare dai meccanismi che producono l’effetto di part-set cuing [Weldon e Bellinger 1997]. Se gli altri membri del gruppo generano una grande quantità di ricordi mentre li ascoltiamo, l’interferenza che ne segue può danneggiare il nostro recupero. Perciò, gli studi sul part-set cuing aiutano a spiegare l’influenza del gruppo sulla varietà delle idee e dei ricordi generati da un individuo.

5.3.4. « Retrieval-induced forgetting»

Un aspetto paradossale della memoria umana è che l’atto stesso di ricordare è causa di oblio. Non che ricordare danneggi la memoria dell’esperienza recupera­ ta; il recupero danneggia piuttosto la rievocazione di altri ricordi o fatti collegati all’esperienza recuperata. Anderson, Bjork e Bjork [1994] hanno chiamato questo fenomeno «retrieval-induced forgetting» (oblio indotto dal recupero). Il fenomeno del retrieval-induced forgetting viene spesso studiato per mezzo di una procedura nota come paradigma di pratica del recupero {retrieval practice paradigm) [ibidem]. In questa procedura, illustrata nella figura 9.8, i soggetti stu­ diano anzitutto semplici categorie verbali, come frutta, bevande e alberi, per un successivo test di memoria. Poi a essi viene chiesto di rievocate ripetutamente, a partire da alcune categorie, alcuni degli esempi appena studiati. Ad esempio, i soggetti possono ricevere il suggerimento frutta-ar— per recuperare il termine arancia. Dopo la pratica di recupero, essi devono rievocare il maggior numero

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Fig. 9.8. In questo esempio, i soggetti fanno pratica di recupero con arancia ma non con banana, né con gli elementi della categoria bevande (condizione di base). Il test finale rivela che, per effetto della pratica, gli item praticati vengono rievocati meglio rispetto alla condizione di base, mentre gli item non praticati appartenenti a una categoria praticata sono soggetti a retrieval-induced forgetting.

Fonte: adattata da Anderson [2003].

possibile di esempi di ogni categoria. Naturalmente, in questo test finale i soggetti rievocheranno abbastanza bene gli esempi su cui hanno fatto pratica (d’ora in poi, «praticati»). Più interessante, tuttavia, è confrontare il livello di rievocazione degli esempi collegati sui quali non è stata fatta pratica (d’ora in poi, «non praticati»), come frutta-banana, con il livello di rievocazione degli item appartenenti alle cate­ gorie di base, anch’esse studiate, ma sulle quali non è stata fatta pratica di recupero (per esempio, bevande-vino). Come si può vedere nella figura 9.8, la pratica di recupero favorisce la rievocazione degli item praticati (per esempio, frutta-arancia), ma danneggia gli item collegati non praticati (per esempio, frutta-banana). L’atto stesso di ricordare sembra poter essere causa di oblio. Se il recupero è causa di oblio, gli studenti farebbero bene a preoccuparsi di come si preparano agli esami. Si pensi alla situazione di uno studente che sia a corto di tempo. Dovrà usare al meglio questo tempo, e inevitabilmente dovrà trascurare qualcosa durante lo studio. Gli studi sul retrieval-induced forgetting suggeriscono che ripassare selettivamente del materiale possa danneggiare il materiale non ri­ passato, in particolare se è collegato al precedente. Per verificare questa idea, Neil Macrae e Malcolm MacLeod [1999] presentavano ai loro studenti una serie di nozioni simili a quelle che si potrebbero apprendere a scuola. I soggetti studiavano dieci caratteristiche geografiche di due isole immaginarie, Tok e Bilu (per esempio, La lingua ufficiale di Tok è il francese', Il principale prodotto di esportazione di Bilu è il rame). Gli studenti facevano poi pratica di recupero sulle nozioni relative a una delle due isole; tale pratica era limitata a cinque nozioni su dieci. Seguiva un test finale di rievocazione, in cui il nome dell’una o dell’altra isola era usato come sug­ gerimento. Macrae e MacLeod hanno trovato che la pratica di recupero facilitava il ricordo delle nozioni praticate (70% di rievocazione) rispetto a quelle relative all’altra isola, su cui non era stata fatta pratica di recupero (38%), ma al prezzo di una peggiore ritenzione delle nozioni collegate (relative alla stessa isola) ma non

l’oblio incidentale

praticate (23 %). Effetti analoghi sono stati dimostrati nel caso di materiale testuale complesso, dove la verifica era basata su domande a risposta breve o composizioni scritte (ma non domande a scelta multipla) [Carroll et al. 2007]. La morale è che dobbiamo stare attenti a ciò che tralasciamo durante lo studio: omettere del ma­ teriale ne accelera l’oblio. Il recupero selettivo è comune nella vita quotidiana. Una situazione che può provocare problemi è quella in cui poliziotti, magistrati o avvocati interrogano un testimone dopo un delitto. Rispondere a una domanda, naturalmente, presuppone il recupero di informazioni. John Shaw, uno psicologo con un passato di difensore d’ufficio a Los Angeles, era convinto che questi interrogatori potessero alterare il modo in cui i testimoni ricordavano il materiale su cui non erano state poste domande (un’intuizione basata sull’esperienza che aveva avuto con alcuni dei suoi clienti). Per studiare questa possibilità, Shaw, Bjork e Handal [1995] chiesero a un gruppo di soggetti di immaginare di avere partecipato a una festa e, andando­ sene via, di accorgersi di non avere più il portafoglio. I soggetti osservavano poi le diapositive della stanza in cui avevano lasciato la giacca con il portafoglio, e veniva chiesto loro di prestare attenzione a tutti i dettagli che potessero essere utili alla polizia nell’indagine. Le diapositive mostravano diversi tipi di oggetti (un letto, una scrivania, un computer, un telefono) e due categorie di oggetti critici (felpe del college e libri di testo). Poi, durante la fase dell'interrogatorio, ai soggetti venivano poste delle domande strutturate su alcuni degli oggetti (per esempio, le felpe). A conferma dell’esperienza di Shaw, risultò che interrogare le persone su alcuni oggetti rubati alterava il loro ricordo degli oggetti collegati. Perciò l’oblio indotto dal recupero può avere considerevoli implicazioni per il modo in cui i testimoni dovrebbero essere interrogati. Se il recupero altera la memoria, ahora il semplice fatto di parlare di un’espe­ rienza potrebbe influenzare il ricordo delle cose di cui non si è parlato. In uno studio di Conroy e Salmon [2006], dei bambini partecipavano a un evento messo in scena nella loro scuola e intitolato Una visita alpirata, durante il quale svolgevano diverse attività in una varietà di situazioni. Ad esempio, nella scena Diventare un pirata i bambini issavano una vela, suonavano un tamburo, indossavano abiti da pirata, salutavano un pirata e firmavano il libro degli ospiti del pirata; nella scena Vincere una chiave, potevano dar da mangiare a un pappagallo, guardare in un binocolo, prendere il timone della nave dei pirati e partecipare a una danza. Nei tre giorni seguenti, i bambini parlavano dell’evento con un altro sperimentatore, che poneva loro delle domande su alcune parti dell’evento (ma non su tutte), ad esempio: «Parlatemi dell’animale al quale avete dato da mangiare». L’ultimo giorno, i bambini ricordavano gli elementi di cui non avevano parlato meno bene di un gruppo di controllo formato da bambini che non avevano partecipato a nessuna discussione. Conroy e Salmon hanno avanzato l’ipotesi che i ricordi dei bambini sugli eventi della loro vita siano plasmati dal modo in cui i genitori e i familiari rievocano il passato: ciò che non viene rievocato diventerebbe meno accessibile con il passare del tempo. Se parlare con qualcuno del passato comune può farci dimenticare le cose di cui non abbiamo parlato, può accadere che l’oblio divenga, in un certo senso, contagioso. Una persona che abbia dimenticato questa o quella parte di un’espe­ rienza, quando si troverà a rievocare l’esperienza ometterà le parti dimenticate. La rievocazione selettiva da parte di una persona può causare in un’altra persona

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durante il test finale, con un conseguente oblio retrieval-induced. Un’ipotesi alternativa è che la connes­ sione tra il suggerimento e il bersaglio vada incontro a disapprendimento durante la pratica di recupero. L’inibizione implica una riduzione dell’attivazione del ricordo-bersaglio. A destra: solo l’inibizione prevede correttamente che l’oblio si generalizza a suggerimenti indipendenti.

l’oblio del materiale non rievocato? Alexandru Cue, Jonathan Koppel e William Hirst [2007] hanno studiato questa possibilità in recenti lavori sulla condivisione sociale del retrieval-induced forgetting. Uno studio replicava l’esperimento di An­ derson, Bjork e Bjork [1994] con una variante: c’erano due persone, sedute l’una accanto all’altra, che studiavano le stesse coppie di parole. Nella fase successiva, però, un soggetto faceva pratica di recupero mentre l’altro restava seduto in silenzio a osservare, controllando l’accuratezza dei ricordi del compagno. Entrambi si sotto­ ponevano poi al test finale. Come era prevedibile, il soggetto che aveva fatto pratica di recupero mostrava un effetto di retrieval-inducedforgetting. Sorprendentemente, però, anche l’osservatore silenzioso mostrava questo effetto. Cue e colleghi hanno osservato lo stesso fenomeno usando delle storie come materiale da ricordare; l’ef­ fetto era presente anche quando ai soggetti era concesso di parlare liberamente fra loro delle storie: gli elementi di una storia non menzionati da una persona avevano più probabilità dì essere dimenticati dall’altra. Si direbbe che quando stiamo con altre persone che rievocano eventi passati, rievochiamo spontaneamente quegli eventi insieme con chi li sta raccontando e, di conseguenza, noi stessi abbiamo più probabilità di dimenticare le cose taciute dall’altro. Perciò il retrieval-induced forgetting potrebbe essere un meccanismo attraverso il quale la memoria collettiva di una società tende, con il passare del tempo, a uniformarsi. Esso potrebbe essere anche uno strumento di manipolazione politica: basta passare sotto silenzio certi fatti e usare i mass media per magnificare altri aspetti del passato. Come osservano Cue e colleghi, «il silenzio non sempre è d’oro». Il recupero sembra perciò essere una forza potente che plasma la nostra memo­ ria, nel bene e nel male. Le osservazioni di Marigold Linton rivelano che il recupero può accrescere, e di molto, la longevità di un ricordo, ma i risultati illustrati sopra mostrano che quando il recupero è incompleto, i benefici possono essere contro­ bilanciati dall’oblio di altri ricordi. Per comprendere quanto ciò sia importante,

l’oblio incidentale

si pensi alla pervasività di questo processo nella nostra vita mentale. Il recupero è parte di ogni processo cognitivo che chiami in causa una traccia immagazzinata nella memoria - il che significa, probabilmente, qualunque procèsso cognitivo. Se il recupero è una fonte di oblio, allora avere accesso a ciò che già sappiamo può contribuire all’oblio, indipendentemente dalla codifica di nuove esperienze. H ruolo del recupero come fonte di oblio ha aperto una nuova prospettiva sulle cause del collegamento tra l’interferenza e l’oblio (fig. 9.9). Discuteremo ora brevemente questa prospettiva.

5.4. Meccanismi di interferenza

Come segue dalla trattazione precedente, molte situazioni di «interferenza» alterano la ritenzione. Questi fenomeni rivelano quando l’oblio si presenta, ma non dicono come l’oblio si realizza - in altre parole, non ne specificano i meccanismi. Perché i suggerimenti alterano la rievocazione? Come si spiega il retrieval-induced forgetting? Perché apprendere qualcosa di nuovo peggiora la ritenzione di ciò che abbiamo già appreso? Innanzitutto, prenderemo in considerazione i classici mecca­ nismi proposti per spiegare l’interferenza, e mostreremo come eSsi possano essere estesi per spiegare fenomeni come il part-set cuing e il retrieval-induced forgetting. Poi prenderemo in esame una teoria più recente, in cui i processi inibitori associati al recupero sono causa di oblio.

5.4.1. Blocco associativo

Una volta non riuscivo a ricordare come vengono chiamati in Gran Bretagna gli addobbi natalizi, quelli che gli americani chiamano Christmas ornaments. Più ci pensavo e più continuava a venirmi in mente Christmas balls anziché l’espressione corretta, Christmas baubles. Avevo ormai rinunciato ed ero passato ad altro, quand’ecco che all’improvviso «saltò fuori» la risposta giusta. Forse l’interferenza potrebbe essere spiegata da qualcosa di simile all’esperienza «sulla punta della lingua». Ad esempio, nell’interferenza retroattiva, le persone potrebbero dimehticare le risposte della prima lista perché i suggerimenti che prima davano accesso a quelle risposte suscitano ora le risposte della seconda lista. Nel part-set cuing, presentare degli esempi di una categoria come suggerimento può rafforzare la loro associazione con la categoria, e fa sì che essi si intromettano nel recupero degù esempi non usati come suggerimento. Quel che accade è che un suggerimento evoca un rivale più forte e ci induce irresistibilmente a scegliere una risposta che sappiamo essere scorretta. L’ipo­ tesi che tale processo spieghi l’interferenza è stata avanzata da McGeoch [1942] nella sua teoria della competizione fra risposte, le moderne forme della quale vanno sotto il nome di blocco associativo {associative blocking) [Anderson, Bjórk e Bjork 1994]. Alla base dell’ipotesi del blocco è l’idea che quando viene presentato un suggeri­ mento comune a più ricordi, questi competano per l’accesso alla consapevolezza. Un ricordo è tanto più soggetto a interferenza quanto più il suggerimento è associato a un ricordo rivale: Anderson, Bjork e Bjork [1994] hanno parlato a questo riguardo di competizione dipendente dalla forza {strength-dependent competition). Ma in che modo un rivale più forte altera la rievocazione? Si consideri un caso di retrieval-induced

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forgetting in cui stiamo cercando di rievocare banana, dopo avere fatto pratica con frutta-arancia. Secondo la teoria del blocco, i suggerimenti forniti nel test finale per rievocare banana (per esempio, il suggerimento frutta) favoriscono il recupero involontario dell "item praticato più forte, arancia. Una volta recuperato, arancia acquisterà ulteriore forza, giacché sarà stato recuperato una volta di più, e ciò ne renderà ancora più probabile il recupero involontario. E così il ciclo prosegue, perché, a ogni recupero, la risposta sbagliata diventa più forte. Alla fine, Tunica possibilità è semplicemente quella di rinunciare al tentativo di recupero. Perciò, secondo l’ipotesi del blocco, gli esempi non praticati di una categoria praticata ven­ gono dimenticati perché le associazioni con i ricordi praticati dominano il recupero. Il blocco può spiegare anche il principio di sovraccarico dei suggerimenti: quanti più ricordi sono associati a un suggerimento, tanto più è probabile che esso porti al recupero involontario di una risposta sbagliata, innescando il processo di blocco. Da questo punto di vista, la ragione per cui non riusciamo a ricordare il pranzo di quattro mesi fa è che il recupero tende a richiamare alla mente i pranzi più recenti, tanto da indurci a rinunciare al tentativo.

5.4.2. Disapprendimento associativo

Supponete che un amico vi accenni a una conversazione avvenuta in una festa molti anni fa. Può darsi che ricordiate abbastanza bene diversi aspetti della festa, tra cui la presenza dell’amico, alcune conversazioni, e numerose cose divertenti accadute in quell’occasione. Tuttavia, potreste esservi dimenticati di avere avuto una conversazione con il vostro amico, anche se lui dice di ricordarsela benissimo, e anche se voi stessi ricordate di avere parlato di quell’argomento. Soggettivamente, è come se la vostra memoria si fosse frammentata e non riusciste a determinare in che modo i diversi elementi dell’esperienza si collegano insieme. Questa apparente frammentazione può dipendere dal danneggiamento delle associazioni fra le parti di quell’esperienza a causa dell’immagazzinamento di esperienze successive. Forse un problema del genere spiega la mia incapacità di ricordare di aver fatto cadere l’albero di Natale. L’ipotesi dell’interferenza retroattiva basata sul disapprendimento (unlear­ ning) [Melton e Irwin 1940] è collegata a queste idee. Secondo questa ipotesi, l’associazione fra uno stimolo e una traccia si indebolisce quando la traccia viene recuperata erroneamente al posto di un’altra. Ciò che accade è che la connessione fra il suggerimento e il bersaglio viene «penalizzata». Ad esempio, supponiamo che stiate cercando di recuperare la password del vostro account di posta. Secondo l’ipotesi del disapprendimento, se richiamate alla mente la vecchia password e vi rendete conto dello sbaglio, l’associazione fra il suggerimento e la vecchia password si indebolirà, diminuendo la probabilità che essa si ripresenti in futuro. Se la vec­ chia password viene penalizzata abbastanza spesso, l’associazione potrà diventare talmente debole da non attivare più quella traccia; lo stimolo verrà disgiunto dalla risposta. Questa teoria può spiegare il retrieval-induced forgetting assumendo che, durante la pratica di recupero, gli item rivali si intromettano e vengano penalizzati. L’interferenza retroattiva viene spiegata nello stesso modo. Così, mentre il blocco attribuisce l’oblio a rivali molto forti, il disapprendimento suppone che le associa­ zioni con il bersaglio siano troppo deboli.

l’oblio incidentale

Le ipotesi del disapprendimento e del blocco non sono incompatibili. In ef­ fetti, nel classico modello a due fattori dell'interferenza retroattiva [ibidem} sono necessari entrambi i meccanismi. Va sottolineato, tuttavia, che il disapprendimento è difficile da provare, per le stesse ragioni che rendono difficile dimostrare che i ricordi vengono dimenticati in modo permanente, come abbiamo già visto in questo capitolo. Inoltre, sebbene il blocco spieghi perché l’oblio sembra aumentare con il rafforzarsi degli item rivali, vi sono ragioni per dubitare che il rafforzamento di un rivale possa essere di per sé causa di oblio, come vedremo brevemente. Per queste ragioni, è stata proposta una concezione alternativa che attribuisce l’oblio derivante dall’interferenza a processi inibitori.

5.4.3. L’inibizione come causa di oblio

Ciò che abbiamo detto finora solleva una questione importante. Non sempre è vantaggioso che una traccia sia accessibile. Il recupero di un bersaglio è reso più dif­ ficile dall’azione di rivali facilmente accessibili; c’è bisogno di limitare questa azione. Il disapprendimento è un modo per ottenere questo risultato; un altro modo è inibire la traccia nociva. Consideriamo un’analogia. Supponiamo che di solito portiate un orologio, ma che un giorno il cinturino si rompa e non possiate mettere l’orologio al polso. Se qualcuno vi chiede l’ora può darsi che volgiate automaticamente lo sguardo al polso, anche se sapete che l’orologio non c’è. E può darsi che dobbiate farlo più volte prima di imparare a controllare l’ora al cellulare anziché all’orologio. Quella che era un’abitudine utile e profondamente radicata diventa, da un certo punto in poi, una risposta inappropriata, che deve essere cancellata e sostituita con una risposta diversa e più appropriata. Gli esseri umani, come altri organismi, hanno la capacità di arrestare una risposta, in modo da poter trovare un’alternativa o non rispondere affatto. L’arresto è attuato da un meccanismo di inibizione della risposta. L’inibi­ zione riduce il livello di attività della risposta e diminuisce la probabilità che essa sia prodotta, così come inibire un neurone riduce la sua influenza su altri neuroni. Ciò che abbiamo detto per la cancellazione delle risposte di interferenza vale anche per le azioni interne, come il recupero. Quando qualcuno vi chiede il numero di telefono, può accadervi di ricordare automaticamente il vecchio numero, anche se avete cambiato casa. Per ricordare il nuovo numero occorre fermare il recupero del vecchio, cosa che può essere ottenuta per inibizione. Quando il vecchio numero viene inibito, diventa più difficile da ricordare, anche se resta disponibile. Nel caso del retrieval-induced forgetting, banana può attivarsi e intromettersi nel recupero di frutta-ar—. Per facilitare il recupero di arancia, banana può essere inibito, e il persistere dell’inibizione renderà più difficile il suo recupero. Un item come banana, al pari dell’abitudine di volgere lo sguardo al polso, può essere inibito in funzione degli scopi del momento. Durante il recupero sono all’opera processi inibitori? Il ruolo dell’inibizione durante il recupero è stato studiato nell’ambito del retrieval-induced forgetting [Levy e Anderson 2002]. La teoria dell’inibizione fa diverse predizioni sul retrieval-inducedforgetting che non vengono fatte dalle teorie del blocco o del disapprendimento. Secondo la teoria dell’inibizione, la pratica di recupero con frutta-arancia danneggia la rievocazione di banana perché bana­ na, in quanto item rivale di arancia, viene inibito (come l’abitudine di volgere lo sguardo al polso) da meccanismi di riduzione dell’attivazione. Ma se banana viene

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effettivamente inibito, si può supporre che il suo recupero sarà più difficile in ogni caso, sia che nel test venga usato come suggerimento frutta, sia che venga usato un suggerimento indipendente, come scimmia-b—. In altre parole, il meccanismo delTinibizione implica che il retrieval-induced forgetting dovrebbe generalizzarsi a nuovi suggerimenti, dando prova di indipendenza dai suggerimenti. Per contro, sia il blocco sia il disapprendimento attribuiscono l’oblio a difficoltà relative alle associazioni che collegano frutta a banana o arancia. Di conseguenza, secondo queste teorie, il retrieval-induced forgetting dovrebbe dipendere dai suggerimen­ ti. Perciò, quando si passa a un suggerimento che, come scimmia, non chiami in causa l’associazione più forte frutta-arancia né quella potenzialmente più debole frutta-banana, il recupero di banana non dovrebbe essere alterato. Lindipendenza dell'oblio dai suggerimenti è stata osservata più volte [Anderson e Spellman 1995; per una rassegna, cfr. Anderson 2003]; questo fenomeno indica che l’inibizione ha effettivamente un ruolo nell’oblio retrieval-induced. Secondo l’ipotesi dell’inibizione, essa è innescata dalla necessità di vincere le interferenze durante il recupero. Da questo punto di vista, la pratica di recupero attivo di un item dovrebbe essere necessaria per provocare l’oblio degli item rivali. La semplice sostituzione della pratica di recupero (per esempio, frutta-ar—) con l’oppor­ tunità di studiare ripetutamente frutta-arancia, ad esempio, dovrebbe evitare l’oblio di rivali come banana. Non dovrebbe esservi oblio perché l’opportunità di studiare frutta-arancia evita ogni competizione per il recupero di arancia, e di conseguenza la necessità di risolvere l’interferenza dovuta a banana. Questa specifica dipendenza dal recupero è osservata costantemente nel retrieval-inducedforgetting {ibidem}. Perciò, anche se la pratica di recupero e una dose supplementare di studio rafforzano in pari misura il ricordo degli item praticati, solo la pratica di recupero peggiora la riten­ zione degli item rivali non praticati. Il fatto che questa sia una condizione necessaria conferma l’idea che sia qui all’opera un processo di inibizione. Questo risultato non conferma invece l’ipotesi del blocco, secondo la quale il rafforzamento degli item praticati dovrebbe peggiorare la rievocazione degli item rivali, indipendentemente dal fatto che il rafforzamento sia frutto di recupero o di studio. Se l’interferenza degli item rivali è vinta da processi inibitori, la quantità di retrieval-induced forgetting dovrebbe dipendere dal livello di interferenza durante la pratica di recupero. Se gli altri item associati a un suggerimento non causano interferenza, non dovrebbe esservi bisogno di inibizione. Una delle prime dimo­ strazioni di questo fatto si trova in uno studio di Anderson, Bjork e Bjork [1994] nel quale gli item in competizione erano o esempi ad alta frequenza d’uso della loro categoria (per esempio, frutta-banana) o esempi a bassa frequenza (per esempio, frutta-guava). Si potrebbe pensare che un esempio ad alta frequenza come banana sia più resistente all’oblio di un esempio a bassa frequenza. L’analogia con l’orologio da polso, tuttavia, suggerisce che potrebbe essere vero l’opposto. È precisamente perché controlliamo meccanicamente il polso anche quando non portiamo l’oro­ logio che dobbiamo inibire quella risposta se vogliamo che non si presenti. Di conseguenza, gli esempi ad alta frequenza come frutta-banana potrebbero essere i bersagli principali dell’inibizione, visto che vengono in mente con grande facilità, mentre gli esempi a bassa frequenza potrebbero non avere bisogno di essere inibiti. Il che è esattamente ciò che Anderson e colleghi hanno trovato. Questa proprietà, nota come dipendenza dall'interferenza, è la tendenza del retrieval-inducedforgetting a essere suscitato dall’interferenza di un item rivale.

l’oblio incidentale

Tab. 9.1. Proprietà del «retrieval-induced forgetting» Proprietà

Indipendenza dai suggerimenti

Dipendenza dal recupero

Indipendenza dalla forza

Dipendenza dall'interferenza

Descrizione

Tendenza dell’oblio causato dall'inibizione a generalizzarsi a nuovi suggerimenti in un test di verifica indipendente (per esempio, scimmia-b— come suggerimento per il recupero di banana, già studiato con il suggerimento frutta) Il recupero attivo dalla memoria a lungo termine è necessario per indurre l’oblio delle informazioni collegate. Ad esempio, il compito dì recuperare arancia a partire da frutta-ar— provoca l’oblìo dei rivali non praticati (per esempio, banana), cosa che non accade quando viene studiata la coppia completa frutta-arancia L'entità del rafforzamento per effetto della pratica di recupero è indi­ pendente dall'entità del retrieval-induced forgetting cui sono soggetti gli item rivali. Perciò, se si rafforza un item presentando la coppia completa frutta-arancia non sì ha retrieval-induced forgetting, invece un tentativo di recupero impossibile (per esempio, frutta-nu—) pro­ voca ugualmente l’oblio dei rivali non praticati L’interferenza da parte dei rivali durante il recupero di un bersaglio è necessaria perché il recupero porti all’oblio di quei rivali. Perciò i rivali con alta frequenza d’uso (per esempio, frutta-banana), che creano più com petizione dei rivali con bassa frequenza (per esem­ pio, frutta-guava), hanno più probabilità di essere inibiti

Vi è un’importante caratteristica del retrieval-induced forgetting che contrad­ dice l’ipotesi del blocco: la quantità di oblio prodotta sembra essere indipendente dalla forza che le associazioni acquisiscono per effetto della pratica di recupero. Le ricerche sulla dipendenza dal recupero, ad esempio, hanno mostrato che lo studio ripetuto può rafforzare il ricordo degli item praticati, senza per questo peg­ giorare il ricordo dei rivali non praticati. Se il rafforzamento degli item praticati fosse sufficiente a causare oblio, in queste circostanze si sarebbe dovuto osservare oblio. Anzi, il rafforzamento può non essere affatto necessario perché un item rivale sia soggetto a retrieval-induced forgetting. In uno studio recente, Benjamin Storm e colleghi [2006] hanno avuto la brillante idea di cercare di vedere se il retrieval-induced forgetting potesse essere causato dal semplice tentativo di recu­ pero. In questo paradigma di pratica del recupero, ai soggetti venivano presentati suggerimenti per il recupero che, per alcune categorie, non approdavano a nulla. Ad esempio, durante la pratica di recupero veniva presentato loro il suggerimento frutta-nu—, che non è possibile completare perché non vi sono frutti il cui nome cominci per nu. Inaspettatamente, anche se i soggetti non riuscivano a portare a termine nessuno di questi compiti di recupero, il retrieval-induced forgetting cui erano soggetti gli esempi non praticati era pari all’oblio osservato quando il compito di recupero poteva essere completato. Perciò la causa scatenante del retrieval-induced forgetting è la competizione per richiamare una traccia dalla memoria, e non il rafforzamento degli item praticati. Questa proprietà è detta indipendenza dalla forza. Nel complesso, le proprietà di indipendenza dai suggerimenti, dipendenza dal recupero, dipendenza dall’interferenza e indipendenza dalla forza, mostrano concordemente che l’inibizione contribuisce all’oblio (tab. 9.1). Da questo punto di vista, si può sostenere che molte delle caratteristiche dell’oblio derivano dalla ne­

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cessità di controllare l’interferenza. È precisamente perché siamo distratti da aspetti momentaneamente irrilevanti dei nostri ricordi - quelle occhiate involontarie al no­ stro «orologio da polso mentale» - che usiamo l’inibizione per tener fermo ciò che vorremmo recuperare dalla memoria. Da una parte, potrebbe apparire paradossale che gli stessi meccanismi alla base del recupero contribuiscano all’oblio. D’altra parte, come suggerisce Robert Bjork, l’oblio può essere adattativo perché ci aiuta a ridurre l’interferenza generata da informazioni che potrebbero non essere più rilevanti come in passato [Bjork 1989]. Se l’informazione permane nella memoria e può essere fatta rivivere (ad esempio, perché ci viene ripresentata), l’oblio può essere perfettamente funzionale.

6.

Una visione funzionale dell’oblio incidentale

Gli psicologi sperimentali si sono occupati tradizionalmente dei meccanismi passivi dell’oblio: decadimento della traccia, fluttuazione contestuale, uso di sug­ gerimenti inappropriati per il recupero, processi di interferenza come il blocco associativo. L’idea di base era che l’oblio fosse qualcosa che le persone subiscono e che fosse effetto di eventi che semplicemente ci accadono, dai cambiamenti casuali dell’ambiente all’aggiunta di nuove tracce nella memoria, Benché questi processi contribuiscano all’oblio, le ricerche sull’inibizione suggeriscono una prospettiva differente. Secondo la teoria del controllo inibitorio, l’oblio nasce in buona parte dalla necessità di controllare il processo di recupero con ciò che esso comporta in termini di competizione. È il processo che ci permette di contrastare l’interferenza - cioè l’inibizione delle tracce rivali - che conduce all’oblio, non la mera presenza di altre tracce nella memoria. Da questo punto di vista, la riduzione dell’accessibilità delle tracce rivali è adattativa perché agevola il recupero, ma anche perché facilita il recupero successivo della stessa informazione, riducendo la competizione futura. Queste osservazioni chiariscono che i processi inibitori possono essere del tutto adattativi. Questa visione funzionale considera l’oblio un esito positivo, e sottolinea come un sistema di memoria ben funzionante debba essere capace tanto di ricordare quanto di dimenticare [Bjork 1988; Anderson e Spellman 1995; Anderson 2003; Bjork, Bjork e Macleod 2006], Perciò, anziché essere il risultato di forze fuori del nostro controllo, molte volte l’oblio può essere dovuto agli stessi meccanismi che rendono possibile un controllo efficace della cognizione.

7.

Sommario

Ci piaccia o no, gran parte delle nostre esperienze di vita finiscono nel dimen­ ticatoio. Quali sono i meccanismi alla base dell’oblio? Per rispondere, dobbiamo comprenderne le caratteristiche, prima di tutto l’ambito del fenomeno e i suoi elementi costitutivi. Ì1 dato fondamentale è che l’oblio aumenta con il passare del tempo. Le ricerche sulla curva dell’oblio rivelano che l’oblio è dapprima molto rapido, dopo di che rallenta a poco a poco; la curva è di tipo logaritmico. Molti tipi di materiali mostrano questo andamento, benché la curva dell’oblio possa variare secondo la natura del test e secondo il livello di apprendimento del mate­ riale. La rievocazione è più difficile del riconoscimento; quest’ultimo rivela tracce

l’oblio incidentale

di ritenzione non evidenti alla rievocazione. L’oblio è considerevolmente inferiore per le esperienze e le nozioni bene apprese, specialmente quando i materiali sono recuperati spesso. Gli psicologi sperimentali distinguono fra l’accessibilità di un item e la sua di­ sponibilità; la disponibilità viene meno quando un item non è più immagazzinato. Sia il difetto di accessibilità sia il difetto di disponibilità sono forme di oblio. È difficile stabilire quando una traccia è definitivamente perduta, poiché è sempre possibile supporre che non siano stati trovati i suggerimenti appropriati per il recupero. Perciò, anche se l’oblio permanente può benissimo esistere, come è anzi probabile se si considera il sistema biologico sul quale la memoria poggia, resta vero che è difficile dimostrarlo sulla base delle sole prove comportamentali. Per comprendere il fatto fondamentale che l’oblio aumenta con il passare del tempo sono state avanzate diverse ipotesi. L’ipotesi più semplice è che i ricordi si indeboliscano con il tempo. Benché il decadimento sia probabilmente una realtà biologica e vi siano prove della sua esistenza negli animali non umani, dimostrare il decadimento a livello comportamentale è difficile, perché bisogna controllare l’influenza di altri fattori di oblio noti, e dimostrare che i ricordi sono perduti in modo permanente. Un’altra possibilità è supporre che non sia il tempo in se stesso che causa l’oblio, ma un fattore correlato con il tempo, come la fluttuazione contestuale o l’interferenza. Entrambe queste teorie possono dare conto delle ca­ ratteristiche fondamentali della curva dell’oblio, e al tempo stesso fare luce su certi ricordi misteriosamente longevi che sarebbe difficile spiegare se il decadimento fosse la causa primaria dell’oblio. L’idea che ricordi simili interferiscano l’uno con l’altro durante il recupero ha una posizione centrale nelle teorie dell’oblio. Nello schema di interferenza fonda­ mentale, un suggerimento per il recupero viene ad associarsi con una molteplicità di tracce. Quando un suggerimento viene presentato per il recupero di un bersaglio, gli altri item associati a quel suggerimento competono con il bersaglio per l’acces­ so alla consapevolezza. Quanti più item rivali sono collegati a un bersaglio, tanto peggiore sarà la rievocazione di ciascuno di essi, una generalizzazione nota come principio di sovraccarico dei suggerimenti. Sono stati scoperti molti fenomeni di interferenza. Ad esempio, le tracce codifi­ cate in passato possono ostacolare il recupero di quelle apprese più recentemente, un fenomeno noto come interferenza proattiva. Per contro, le tracce codificate recentemente possono intralciare il recupero di ricordi precedenti, il che va sotto il nome di interferenza retroattiva. Sia l’interferenza proattiva sia quella retroattiva contribuiscono all’incremento dell’oblio con il tempo, dato che il tempo è correlato con l’immagazzinamento di tracce simili. Nell’effetto di part-set cuingy presentare un certo elemento come suggerimento per il recupero di altri ricordi collegati al primo (cioè facenti parte dello stesso insieme) danneggia la loro ritenzione; ciò mostra che anche dopo che le tracce sono state immagazzinate, l’esposizione ad alcune di esse può danneggiare la rievocazione di altre. Si è visto inoltre che il recupero di un item peggiora la ritenzione delle tracce collegate; questo è il retrieval-induced forgetting. I meccanismi alla base dell’interferenza sono stati lungamente studiati. Le teorie basate sul blocco attribuiscono l’interferenza alla tendenza delle tracce più forti a intromettersi nel recupero delle tracce più deboli, il che può far sì che la ricerca sia abbandonata. Secondo le teorie del disapprendimento, l’interferenza

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CAPITOLO 9

indebolisce le associazioni sottese a una traccia, per effetto di meccanismi di ap­ prendimento che penalizzano i recuperi inappropriati. Le teorie dell’inibizione sostengono che Toblio deriva, in parte, dalla soppressione delle tracce interfe­ renti a opera di meccanismi inibitori che risolvono la competizione. Le ricerche basate sull’uso del paradigma del retrieval-induced forgetting hanno fornito prove specifiche a sostegno deU’ipotesi dell’inibizione. Queste ricerche suggeriscono che parte dell’oblio sia una conseguenza adattativa del controllo del processo di recupero. Questa concezione mostra, più in generale, che l’oblio può essere a volte vantaggioso. Come illustra il caso di A.J., una memoria perfetta può essere un fardello difficile da sopportare. Ritorneremo su questo argomento nel decimo capitolo sull’oblio motivato.

L’oblio motivato

Di solito vediamo l’oblio come qualcosa di negativo: ci fa perdere il nostro amato passato, dimenticare il nome degli amici, trascurare le nostre responsabilità. Ma come dimostra AJ. con la sua formidabile memoria (cfr. cap. 9, par. 1), l’oblio può essere più desiderabile di quanto non si pensi. A J. si augura spesso di poter dimenticare, in modo da non essere più costretta a rivivere continuamente avveni­ menti ed emozioni terribili. Non riesce a «lasciar perdere», a «gettarsi alle spalle» cose che la maggior parte di noi supera senza difficoltà. Questi sentimenti rivelano che, più spesso di quanto non crediamo, l’oblio è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno. A volte qualcosa ci rammenta ricordi che ci rattristano, come quando, dopo la morte di una persona amata o dopo una relazione finita male, oggetti e luoghi evocano un passato perduto per sempre. Altre volte vengono risvegliati ricordi che ci procurano rabbia, ansia, vergogna o paura: un volto ci rammenta un litigio che vorremmo fosse ormai alle nostre spalle; una lettera ci fa ritornare in mente una faccenda molto sgradevole alla quale preferiremmo non pensare; l’immagine del World Trade Center in un film ridesta i dolorosi ricordi dell’ll settembre. In un film di successo, Eternal sunshine of the spotless mind (Se mi lasci ti cancello), il protagonista si rivolge a una clinica specializzata per farsi cancellare dal cervello tutto ciò che ricorda di Clementine, la ragazza da lui amata e perduta. Sfortunatamente, anche se a volte ci piacerebbe, cliniche del genere non esistono, e non possiamo sfuggire alla tendenza della vita a imprimere nella nostra memoria tracce che non vorremmo ritrovare. Questa è una situazione alla quale le persone non si rassegnano passivamente. Di fronte a uno stimolo che risveglia un ricordo indesiderato, ha spesso luogo una reazione familiare ~ l’esperienza e le emozioni del passato si riaffacciano alla mente, subito seguite dal tentativo di escludere il ricordo dalla consapevolezza. Diversamente da ciò che accade in altre situazioni, il recupero è indesiderato e deve essere troncato. Sopprimendo il recupero, impediamo l’accesso ai ricordi intrusivi e riacquistiamo il controllo sul corso dei nostri pensieri e sul nostro benessere emotivo. Per i veterani di guerra, per i testimoni di atti terroristici, per i tanti che subiscono traumi personali, l’esigenza di controllare giorno dopo giorno i ricordi intrusivi è fin troppo ovvia. Qualunque adeguata trattazione dell’oblio deve tener conto del ruolo attivo e motivato della persona. La mia incapacità di ricordare

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di aver fatto cadere l’albero di Natale (cfr. l’inizio del cap. 9) è semplicemente un effetto fortuito del meccanismo dell'oblio? Quando ci «dimentichiamo» per V ennesima volta di un compito che non ci piace, è davvero un errore innocente? Questo capitolo parla di ciò che sappiamo del modo in cui le persone dimenticano le cose che preferirebbero non ricordare.

1.

La vita è bella (o così la ricordiamo)

Con sorprendente unanimità, persone di ogni parte del mondo, di ogni età, etnia e livello di reddito affermano di essere tutto sommato felici della propria vita. Questa percezione di benessere è molto diffusa, e spesso è in contrasto con le condizioni di vita oggettive di quelle persone. Si osserva sia nelle persone con disabilità fisiche o mentali, sia nelle persone con basso reddito [Diener e Diener 1996; Lykken e Tellegen 1996]. Le ricerche indicano che la memoria contribuisce a questo benessere percepito. Il modo in cui valutiamo la nostra vita si basa su ciò che ricordiamo. Vi è un forte «bias» di positività in ciò che le persone ricordano a lungo termine. In una delle prime descrizioni di questo bias, Waldfogel [1948] concedeva ai soggetti 85 minuti per produrre il maggior numero possibile di ricordi sui loro primi 8 anni di vita. Di questi ricordi, il 50% erano giudicati piacevoli, il 30% spiacevoli e il 20% neutri; ciò suggerisce che per qualche ragione i ricordi positivi fossero semplicemente più accessibili. Un risultato simile si osserva quando, anziché chiedere ai soggetti di generare volontariamente dei ricordi, si chiede loro di annotare i ricordi che emergono «spontaneamente» in un più lungo arco di tempo. Dei ricordi involontari descritti in uno studio di Bernsten [1996], il 49% erano piacevoli, il 32% neutri e il 19% spiacevoli. Questo bias di positività diventa tanto più forte quanto più siamo avanti con gli anni, e si concentra progressivamente sugli scopi emozionali e sul mantenimento del senso di benessere. Come si spiegano questi effetti? I ricordi degli eventi positivi sono più frequenti perché gli eventi di quel tipo sono più comuni, o sono qui all’opera le motivazioni delle persone? Susan Charles, Mara Mather e Laura Carstensen [2003] hanno condotto un semplice e convincente studio che suggerisce che i nostri biases di memoria non siano affatto accidentali. Essi chiedevano a un gruppo di adulti, comprendente giovani e anziani, di osservare 32 scene. Queste includevano immagini piacevoli, neutre e decisamente spiacevoli. Dopo un intervallo di 15 minuti, i soggetti dove­ vano rievocare il maggior numero possibile di immagini. Come si vede nella figura 10.1, le immagini con un contenuto emozionale, positivo o negativo che fosse, veni­ vano rievocate meglio delle immagini neutre, e gli adulti anziani rievocavano meno immagini di quanto non facessero gli adulti più giovani. Va sottolineato, tuttavia, che con l’avanzare dell’età i ricordi dei soggetti tendevano a concentrarsi sulle scene positive a danno di quelle negative, anche se tutte le scene erano state osservate per la stessa quantità di tempo: mentre i soggetti giovani rievocavano in ugual misura le scene positive e negative, i soggetti più anziani rievocavano quasi il doppio di scene positive rispetto a quelle negative. Come dimostrò un test successivo, i soggetti più anziani erano in grado di riconoscere ugualmente bene le scene positive e negative, il che indicava che entrambe avevano trovato posto nella loro memoria. Per qualche ragione, però, gli eventi negativi non venivano rievocati altrettanto bene. Biases emozionali collegati all’età sono stati osservati con le lettere e le facce [Leigland,

l'oblio motivato

Fig. 10.1. Benché la memoria tenda nel complesso a declinare con l’età, gli anziani hanno meno ricordi negativi rispetto a quelli positivi; ciò dimostra un bias di positività collegato all’età. A destra: esempi delle figure positive, negative e neutre usate in questo studio.

Fonte: Charles, Mather e Carstensen [2003].

Schulz e Janowsky 2004]. In una rassegna degli studi su invecchiamento ed effetti di positività, Mather e Carstensen [2005] hanno dimostrato in modo convincente che mano a mano che l’età avanza e ci resta meno da vivere ci concentriamo di più sul mantenimento di un senso di benessere e di meno sugli scopi concernenti la conoscenza e il futuro. Di conseguenza, diventiamo più abili nella regolazione delle emozioni, che include, in parte, il controllo di ciò che ricordiamo. Come riusciamo ad attuare questa regolazione? Quali processi contribuiscono all’oblio motivato?

2.

La ricerca sull’oblio motivato: problemi terminologici

È importante chiarire certi termini e certe distinzioni che useremo parlando del modo in cui le motivazioni alterano i nostri ricordi. Forse il più noto dei termini che hanno a che fare con l’oblio motivato è quello di rimozione, reso popolare da Sigmund Freud nella sua teoria psicoanalitica. Secondo Freud, la rimozione è un

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meccanismo di difesa psicologica che relega nell’inconscio ricordi, idee e sentimenti indesiderati in modo da ridurre il conflitto e il dolore psichico. Esso fa parte di un arsenale di processi di difesa che includono la razionalizzazione, la proiezione e molti altri. Freud usò il concetto di rimozione in diversi modi, ma ne offrì una semplice definizione: «la [...] essenza [della rimozione] consiste semplicemente nell’espellere e nel tener lontano qualcosa dalla coscienza» [Freud 1915; trad. it. 1976, 37]. Da questo punto di vista, i contenuti rimossi non vengono cancellati dalla mente, ma semplicemente esclusi dalla consapevolezza conscia. Essi possono con­ tinuare a influenzare inconsciamente il comportamento, manifestandosi nei sogni, nelle preferenze, nella scelta delle cose di cui parlare e anche nelle nostre reazioni emotive. Inoltre, nulla garantisce che i contenuti rimossi restino inconsci; Freud pensava che essi potessero ricomparire successivamente in quello che egli chiamò ritorno del rimosso [Freud 1900; 1915]. Viene fatta a volte una distinzione fra rimozione e repressione-, la prima è un processo inconscio, la seconda è conscia e intenzionale. Da questo punto di vista, la rimozione è un processo difensivo automatico, grazie al quale un ricordo viene escluso dalla coscienza senza che l’individuo abbia mai consapevolezza della sua presenza. La repressione, d’altra parte, è un processo intenzionale e guidato da scopi, che esclude idee o ricordi dalla consapevolezza. Benché la moderna tradizione psico­ analitica abbia fatto propria questa distinzione, Mathew Erdelyi [2006] ha dimostrato che essa è stata introdotta da Anna Freud, la figlia di Sigmund. Erdelyi ha sostenuto che Sigmund Freud usasse i due termini in modo intercambiabile e che la distinzio­ ne distorce la sua prospettiva teorica. Nel presente capitolo, il termine rimozione è inteso in entrambi i sensi; quando parleremo di repressione (o, equivalentemente, di soppressione) ci riferiremo specificamente al senso intenzionale del termine. Vengono spesso usati diversi altri concetti che non derivano dalla teoria freu­ diana, tra cui quelli di oblio intenzionale e di oblio motivato. oblio intenzionale è prodotto da processi che nascono dall’intenzione cosciente di dimenticare. Esso include diverse strategie coscienti per dimenticare, come la soppressione e i cam­ biamenti intenzionali del contesto. L’oblio intenzionale esclude i casi in cui l’oblio, pur non essendo accidentale, non è retto da intenzioni coscienti. Il concetto di oblio motivato è più generale e abbraccia tutte queste possibilità. Ad esempio, se ogni volta che vedete una persona associata a un evento spiacevole la vostra mente si rivolge a cose lontane da quell’evento, questa tendenza può condurvi all’oblio, un oblio che non è generato dall’intenzione di dimenticare, ma nondimeno è chia­ ramente motivato. La nozione di oblio motivato comprende quella di amnesia psicogena, che indica qualunque tipo di oblio che non dipenda da lesioni o disfunzioni biologiche, ma abbia un’origine psicologica. Benché i concetti di amnesia psicogena e di oblio motivato possano essere intesi come equivalenti, l’amnesia psicogena indica di solito il profondo e inaspettato oblio di segmenti importanti della nostra vita, o il profondo oblio di un singolo evento che dovrebbe essere ricordato. Il concetto di amnesia psicogena è neutro sia sul piano della teoria sia sul piano del meccanismo; infatti non assume la prospettiva teorica di Freud, né dice nulla su come l’oblio venga messo in atto, ma si limita a supporre che esso abbia un’origine psicologica piuttosto che biologica. L’oblio motivato include questi casi, ma anche casi più comuni e quotidiani in cui vi è l’oblio di qualcosa di spiacevole, ma un oblio che non richiede una valutazione clinica.

l'oblio motivato

3.

Fattori alla base dell'oblio motivato

In linea di principio, per controllare un'esperienza non desiderata si può ma­ nipolare qualunque stadio della memoria. Il modo più semplice per evitare di ricordare un evento spiacevole è intervenire sulla codifica. Possiamo letteralmente distogliere lo sguardo da uno stimolo, o concentrarci solo sui suoi aspetti positi­ vi; oppure, se abbiamo avuto la sfortuna di imbatterci in qualcosa di spiacevole, possiamo evitare di ritornarci sopra con il pensiero. Se un'esperienza spiacevole viene comunque codificata, possiamo impedirne il recupero evitando tutto ciò che la rammenti; oppure, se questo è impossibile, possiamo provare a fermare il recu­ pero. In tutti questi casi, i meccanismi all’opera nell'«oblio- normale» sono messi al servizio dei nostri scopi emozionali. La ricerca sull'oblio motivato si è occupata di tutti questi fattori, che discuteremo nei prossimi paragrafi.

3.1. Istruzioni a dimenticare

Avete mai detto a qualcuno: «Meglio che te ne dimentichi»? Dire cose del gene­ re serve a qualcosa? Quando fate questa raccomandazione, presumibilmente avete motivo di credere che l'altro abbia la possibilità di metterla in atto. Spesso abbiamo buone ragioni per dimenticare una cosa anche quando questa non ha un particolare contenuto emotivo. Bjork [1970] fa l'esempio del cuoco di una tavola calda che, durante una tipica mattinata di lavoro, deve fare fronte a decine di ordinazioni simili. Dovendo preparare, ad esempio, «due uova strapazzate, pancetta fritta e un muffin all'inglese», la prestazione del cuoco non potrebbe che peggiorare se non dimenticasse le ordinazioni precedenti. Probabilmente è capitato a tutti, dopo avere portato a termine un'attività impegnativa, ad esempio dopo avere studiato per un esame, di dover «lasciare la presa» su quel materiale in modo che la mente potesse volgersi ad altro. Quando poi ritorniamo sul materiale studiato, Spesso scopriamo con nostra sorpresa che molte conoscenze che in passato erano facilmente dispo­ nibili ora ci sfuggono. Questi esempi suggeriscono che a volte l'oblio può ridurre la tendenza dell’interferenza proattiva a disturbare la concentrazione. Questa idea è stata spesso studiata per mezzo del paradigma di «directed forgetting» (oblio su istruzione) [Bjork 1970; 1989; per una rassegna, cfr. Macleod 1998], in cui i soggetti sono istruiti esplicitamente a dimenticare dei materiali codificati da poco tempo.

3.1.1. Il «directed forgetting»: risultati fondamentali

La procedura di directed forgetting ha due varianti, ciascuna delle quali chiama in causa processi di oblio differenti. Nel directed forgetting con il metodo degli item {item-method directed forgetting), ai soggetti viene presentata Una serie di item. Dopo ciascun item appare un'istruzione, che specifica se i soggetti dovrebbero continuare a ricordare quell'item o, da quel momento in poi, dimenticarlo. Una volta terminata la lista, i soggetti vengono sottoposti a un test di memoria di tutte le parole da ricordare e da dimenticare. Il punto è che la rievocazione delle parole da dimenticare è spesso considerevolmente peggiore rispetto a quella delle parole da ricordare. Ad esempio, Basden e Basden [1996] hanno osservato una prestazione

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di rievocazione peggiore per gli item da dimenticare che per gli item da ricordare, sia quando gli item presentati erano immagini (il 78% per gli item da ricordare contro il 36% per quelli da dimenticare), sia quando erano parole (72 contro 46%) o parole di cui i soggetti dovevano elaborare un'immagine visiva (85 contro 42%). Si noti che gli effetti di directed forgetting osservati con il metodo degli item si manifestano anche nei test di riconoscimento [Basden, Basden e Gargano 1993]. Per queste ragioni, la maggior parte degli studiosi ritiene che gli effetti di directed forgetting con il metodo degli item dipendano da una codifica episodica insufficien­ te. Se foste un soggetto di questo tipo di procedura, con ogni probabilità «terreste ferma» una parola tramite, poniamo, ripetizione fonologica {phonological rehearsal), finché non vi venisse detto se la parola era da ricordare o da dimenticare, distru­ zione «ricorda» produrrebbe un’elaborata codifica semantica, mentre distruzione «dimentica» vi farebbe semplicemente smettere di ripetere la parola. Facendo in modo che uno stimolo abbia o meno un’elaborazione sufficientemente ricca, esercitiamo un controllo su ciò che entra nella nostra memoria. Presumibilmente i soggetti di Mather e Carstensen [2005] usavano una versione di questa strategia, benché la loro codifica apparentemente fosse abbastanza profonda da permettere il successivo riconoscimento. Nella procedura di directed forgetting con il metodo delle liste {list-method directed forgetting), l’istruzione a dimenticare viene data solo dopo che i soggetti hanno studiato metà della lista (di solito, dopo che sono stati presentati da 10 a 20 item), e in genere senza preavviso. Spesso si fa ricorso all’inganno: lo sperimen­ tatore dice ai soggetti che la lista appena studiata serve solo a «fare pratica», e che la vera lista sarà presentata di lì a poco. Altre volte lo sperimentatore può far credere ai soggetti di avere presentato loro una lista sbagliata, che farebbero bene a «dimenticare». Questa istruzione è seguita dalla presentazione di una seconda lista. I soggetti vengono poi sottoposti a un test finale, per lo più su entrambe le liste, ma a volte solo sulla prima lista. Viene chiesto ai soggetti di non considerare la precedente istruzione a dimenticare, e di ricordare quanti più item possono della lista. La prestazione di questo gruppo «dimentica» è messa a confronto con la pre­ stazione di un gruppo «ricorda», che segue la stessa procedura salvo che l’istruzione dopo la prima lista avverte i soggetti che essi dovrebbero continuare a ricordare la prima lista. Si osservano due risultati generali: primo, quando ai soggetti viene detto che possono dimenticare la prima lista, essi tendono a ricordare molto meglio la seconda Usta nel test finale rispetto al gruppo istruito a ricordare. In altri termini, l’interferenza proattiva prodotta dalla prima lista viene meno quando i soggetti assumono di poter dimenticare quella lista, il che illustra chiaramente il beneficio arrecato da una istruzione a dimenticare. In secondo luogo, l’istruzione a dimen­ ticare peggiora la rievocazione degli item della prima lista rispetto all’istruzione a ricordare, il che indica che un’istruzione a dimenticare ha un costo. Un’illustrazione di alcune varietà di directed forgetting è fornita dalla figura 10.2; un classico esempio di directed forgetting tratto da uno studio di Geiselman, Bjork e Fishman [1983 ] appare nella figura 10.3. Gli effetti di directed forgetting osservati con il metodo delle liste hanno in­ teressanti proprietà che li distinguono dagli effetti osservati con il metodo degli item. Primo, è improbabile che gli item della prima lista siano dimenticati per effetto di una codifica superficiale. I soggetti non hanno motivo di credere di do­ ver dimenticare qualcosa prima di avere completato lo studio della prima lista, e

l’oblio motivato

Compito di directed forgetting con il metodo degli item

Compito di directed forgetting con il metodo delle liste Condizione «dimentica»

1.

gliitem:

Memorizza lista 1

Costi

quelle parole. Ecco. \ la lista giusta/

3.

;OìOSS

Memorizza lista 2

SlfiilBtt 2.

Rievocare (~ tutti gli item: [

4.

Rievocare entrambe le liste

Condizione «ricorda»

• I soggetti nella condizione «dimentica» ' hanno risultati peggiori nella rievocazione finale della lista i rispetto ai soggetti nella condizione «ricorda» :

2. Istruzioni .s Accidenti, «ricorda»/ 'era la lista sbagliata^ «dimentica» Meglio che dimentichi

SBiilj

Risultati

Benìssimoi-x Continua a tenere a mente questi item. E adesso ricorda anche, 'Vquest’altra lista: < Benefici • I soggetti nella condizione «dimentica» hanno risultati migliori nella rievocazione finale della lista 2 rispetto ai soggetti della condizione «ricorda» < grazie alla riduzione dell’interferenza proattiva

Fig. 10.2. Nel directed forgetting con il metodo degli item, la presentazione di ciascun item è seguita da

un’istruzione a ricordare o a dimenticare. Nel directed forgetting con il metodo delle liste viene presentata una lista di item, dopo di che alcuni soggetti vengono istruiti a dimenticare quegli item e ad apprendere una seconda lista. Nella condizione «dimentica», il ricordo della prima lista peggiora, mentre la prestazione nella seconda lista migliora.

perciò non hanno motivo di non codificare efficacemente gli item. Perciò il directed forgetting con il metodo delle liste dipende piuttosto da un problema di recupero. Ciò è confermato dal fatto che gli effetti di directed forgetting con il metodo delle Uste di solito vengono meno nei test di riconoscimento. Secondo, diversamente da quel che accade con il metodo degli item [Basden e Basden 1996], gli item studiati e «dimenticati» con il metodo delle liste rivelano la loro presenza nei test di memoria implicita. Anzi, se la memoria viene verificata implicitamente, gli item da dimenticare possono esercitare sul comportamento un'influenza maggiore di quelli da ricordare. Ad esempio, Bjork e Bjork [2003] hanno trovato che quando alcuni nomi da dimenticare erano inclusi in un compito (apparentemente slegato dal precedente) in cui veniva presentata una serie di nomi, famosi e non famosi, e i soggetti dovevano decidere se ciascun nome fosse famoso oppure no, i nomi da dimenticare (non famosi) erano giudicati più famosi dei nomi da ricordare (anch'essi non famosi) dai soggetti istruiti a ricordare. Presumibilmente, i soggetti avevano dimenticato, per directed forgetting, da dove provenisse quel nome e per errore avevano attribuito la sua familiarità alla fama. Questo risultato mostra come Freud non fosse troppo lontano dal vero quando sosteneva che i materiali dimenticati intenzionalmente influenzano il comportamento senza che le persone ne siano consapevoli.

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Directed forgetting ccn il metodo delle liste

M Condizione «ricorda»

EHZZZ1 Condizione «dimentica»

Fig. 10,3. Un classico esempio dei risultati di un esperimento di directed forgetting con il metodo delle liste. Si noti che, rispetto alla condizione «ricorda», nella condizione «dimentica» la rievocazione della lista 1 è peggiore, mentre la rievocazione della lista 2 è migliore; ciò illustra i costi e i benefìci dell’istruzione a dimenticare.

Fonte'. Geiselman, Bjork e Fishman [1983].

Il directed forgetting con il metodo delle liste mostra che quando le persone non vogliono più ricordare un evento possono ridurre intenzionalmente la sua accessibilità. Processi del genere possono permetterci di dimenticare anche espe­ rienze personali più realistiche e cariche emotivamente? Susan Joslyn e Mark Oakes hanno affrontato la questione in modo originale. Essi chiesero agli studenti che facevano loro da soggetti di tenere un diario per cinque giorni e di annotare ogni giorno due evenni unici [Joslyn e Oakes 2005], I soggetti dovevano scrivere un breve racconto, dargli un titolo, e valutare gli eventi secondo la valenza e Fintensità emozionale. Ad esempio, uno studente prese nota di questo episodio, intitolato Un corvo all"inseguimento {ibidem, 4]: Stavo attraversando con alcuni amici il campus, quando alFimprowiso abbiamo visto un corvo che zampettava al suolo inseguendo uno scoiattolo. Che spettacolo! Ci siamo fermati a guardarli per alcuni minuti, raccontandoci storie divertenti sugli scoiattoli e su altri animali.

Dopo la prinqia settimana, gli studenti riconsegnavano il diario. Ai soggetti del gruppo «dimentica» veniva detto che gli eventi annotati nei primi cinque giorni sarebbero stati usati per un altro studio e che essi avrebbero dovuto dimenti­ carli, in modo da potersi concentrare sugli eventi della seconda settimana, che avrebbero dovuto ricordare. Ai soggetti del gruppo «ricorda» veniva detto che essi avrebbero dovuto ricordare gli eventi della prima settimana al pari di quelli

l’oblio motivato

della settimana seguente. Nei cinque giorni seguenti, gli studenti annotavano un nuovo insieme di eventi. Finita la seconda settimana e restituiti i diari, i soggetti dovevano ricordare tutti gli eventi che avevano annotato nelle due settimane. Jo­ slyn e Oakes trovarono che i soggetti istruiti a dimenticare ricordavano gli eventi della prima settimana peggio dei soggetti istruiti a ricordare. Risultati dello stesso tipo furono ottenuti anche con un insieme di ricordi usati per fare pratica, che i soggetti avevano annotato nella prima settimana e che nessuno dei due gruppi pensava di dover rievocare. Si noti che fu osservato un peggioramento sia con gli eventi affettivamente negativi sia con quelli positivi. Risultati simili sono stati ottenuti da Amanda Barnier e colleghi [2007] con ricordi personali estranei alla situazione sperimentale.

3.1.2. / meccanismi alla base del «directed forgetting» con il metodo delle liste

Il directed forgetting può essere spiegato alla luce di due teofie principali. Se­ condo l’ipotesi dell’inibizione del recupero, l’istruzione a dimenticare la prima lista inibisce gli item di tale lista, peggiorando il recupero. Questa inibizione, tuttavia, non produce un’alterazione permanente, e i ricordi restano disponibili. L’inibi­ zione pone limiti al recupero semplicemente riducendo l’attivazione degli item indesiderati. Questa ipotesi spiega perché gli item dimenticati intenzionalmente sono difficili da rievocare ma possono essere riconosciuti (si può supporre che la ripresentazione degli item dimenticati ripristini il loro livello di attivazione). Per contro, secondo l’ipotesi del cambiamento del contesto (context shift hypothesis') [Sahakyan e Kelley 2002], un’istruzione a dimenticare separa mentalmente gli item da dimenticare da quelli della seconda lista. Se il contesto mentale di una persona cambia tra la prima e la seconda lista, e se il contesto della seconda lista resta attivo durante il test finale, gli item da dimenticare saranno ricordati peggio perché il nuovo contesto è un suggerimento poco efficace per il loro recupero (cfr. la nozione di contesto cognitivo nel cap. 8). Per mettere alla prova l’ipotesi del cambiamento del contesto, Sahakyan e Kelley variavano il contesto mentale tra due liste di parole. Un tale cambiamento può produrre il tipo di risultati osservati nel directed forgetting? Nella condizione di cambiamento del contesto, i soggetti codificavano una prima lista di parole e poi svolgevano un semplice compito in modo da cambiare la lóro «disposizione mentale». Ai soggetti veniva chiesto di immaginare, per un minuto, come sarebbe stata la loro vita se fossero diventati invisibili. L’idea era che svolgendo questo bizzarro compito i soggetti avrebbero affrontato lo studio della seconda lista in un contesto mentale differente da quello presente quando avevano studiato la prima lista (quando forse avevano pensato che gli sperimentatóri fossero pazzi). Se l’ipotesi del cambiamento del contesto fosse corretta, questa semplice mani­ polazione dovrebbe danneggiare il ricordo della prima lista anche in assenza di un’istruzione a dimenticare. Che è quanto accadeva: i soggetti sottoposti a questo compito mostravano una ritenzione molto peggiore della prima lista in un test suc­ cessivo. Questi risultati suggeriscono che parte dell’effetto di directed forgetting possa nascere da un cambiamento del contesto mentale indotto dall’intenzione di dimenticare. Questa ipotesi, tuttavia, non è incompatibile con l’inibizione del recupero, posto che i cambiamenti del contesto mentale vengano prodotti iniben­

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do il contesto indesiderato anziché i singoli item [Anderson 2003]. In entrambi i casi, il peggioramento suscitato negli studi di laboratorio dalle istruzioni a di­ menticare è prodotto limitando l’accesso al contesto in cui sono stati codificati gli eventi da dimenticare. Gli studi sul directed forgetting dimostrano che possediamo una certa capacità di dimenticare intenzionalmente. Un metodo per riuscirvi è fare in modo che le esperienze non abbiano una codifica sufficientemente ricca (directedforgetting con il metodo degli item); ciò accresce la probabilità che quei ricordi siano dimenticati. Questo metodo ha per effetto un peggioramento generalizzato della prestazione di recupero o di riconoscimento, e una diminuzione dell’influenza dell’esperienza nei test indiretti. Alternativamente, i ricordi indesiderati possono essere resi meno accessibili limitando l’accesso al contesto al quale sono associati i ricordi da di­ menticare. Gli item da dimenticare possono continuare a influenzare i soggetti nei test indiretti, il che suggerisce che gli item dimenticati intenzionalmente possano far sentire la loro voce anche in assenza di consapevolezza. Il directed forgetting, con il metodo degli item o con il metodo delle Uste, può riguardare materiali sia neutri sia affettivamente negativi.

3.2. Cambiamenti motivati del contesto ambientale

La discussione precedente mostra come il semplice fatto di cambiare il pro­ prio contesto mentale (per esempio, passare intenzionalmente a un nuovo corso di pensieri) possa limitare l’accesso agli eventi passati. Se cambiare il contesto mentale può produrre oblio, forse si può avere lo stesso risultato cambiando altri elementi del contesto incidentale. È una cosa che sappiamo intuitivamente. Ad esempio, quando in un certo luogo si è svolto un evento traumatico, tendiamo a non ritornarvi per evitare di risvegliare il ricordo di queU’eventó. Se il luogo è la casa in cui viviamo o la nostra città di residenza, a volte cambiamo casa o città per superare il trauma. Quando il ricordo indesiderato ha a che fare con una persona, possiamo evitare di incontrare quella persona. Se non possiamo tenerci alla larga da un luogo, giungiamo a cambiare il luogo stesso. Ad esempio, dopo il massacro della Columbine High School, in Colorado, i familiari delle vittime fecero pressioni perché la biblioteca della scuola, dove aveva avuto luogo la sparatoria, fosse rasa al suolo e sostituita da un edificio totalmente differente, in modo che nulla più potesse rammentare quei terribili avvenimenti. I cambiamenti motivati del contesto trovano spazio quando è troppo tardi per minimizzare la codifica. Per limitare la consapevolezza di un ricordo, una possibilità è evitare ciò che può risvegliarlo. Evitare i suggerimenti, specie attraverso cambia­ menti del contesto ambientale, può facilitare i normali processi di oblio in diversi modi. In primo luogo, evitando gli stimoli che possono risvegliare un ricordo, è possibile evitare che il recupero rafforzi e preservi il ricordo, come accade normal­ mente [Erdelyi 2006]. In sostanza, si impedisce la pratica del recupero. Impedire la riattivazione della traccia può favorire gli eventuali processi di decadimento. In secondo luogo, se il contesto ambientale viene cambiato, il contesto incidentale nel quale la persona agisce sarà differente da quello in cui l’evento ha avuto luogo, ostacolando il recupero. Se il nuovo contesto fa star meglio la persona, il contesto emozionale cambierà, rendendo meno probabile il recupero spontaneo dell’evento.

l’oblio motivato

3.3. La soppressione intenzionale del recupero

Non sempre possiamo sfuggire agli stimoli che ci rammentano un evento spia­ cevole. E quando non possiamo, non ci resta che aprire la strada al ricordo o fer­ mare il recupero. Per vedere come sia possibile arrestare il recupero, consideriamo l’esempio seguente. Immaginate di avere litigato con una persona che per voi è importante. Incontrandola di nuovo, probabilmente vi rammenterete del litigio, e riproverete i sentimenti che avevate provato allora. Se siete motivati a chiudere l’incidente e a mantenere un atteggiamento positivo verso quella persona, potete cercare di scacciare il ricordo dalla mente, specialmente se il motivo del litigio non era poi così importante. Dapprima potreste trovare la cosa difficile: reindirizzare i pensieri e le emozioni a fini più costruttivi non è semplice. Con il ripetersi degli incontri, tuttavia, gli stimoli che vi potrebbero rammentare il litigio si fanno meno frequenti. Dopo un periodo di tempo abbastanza lungo, forse, non sarete più in grado di ricordare nulla del litigio. Questo oblio non è un male. Per mantenere in buona salute le relazioni personali ci vuole una certa dose di «perdona e dimentica». Senza di ciò, ci attarderemmo su mancanze di poco conto, e non dimenticherem­ mo mai un litigio o un’offesa. AJ., ad esempio, vorrebbe poter dimenticare, ma i ricordi spiacevoli continuano ad assillarla quando al suo posto un’altra persona già da tempo li avrebbe banditi dalla memoria. Spesso ci accadono cose che ridestano in noi ricordi che ci fanno sentire tristi, arrabbiati, ansiosi o pieni di vergogna; in questi casi, rispondiamo ricalibrando rapidamente i nostri pensieri. Come fanno le persone a sopprimere il recupero? Per chiarire questo proble­ ma, Collin Green e io abbiamo proposto un’analogia tra il modo in cui le persone controllano i ricordi indesiderati e il modo in cui controllano le proprie azioni. I ricordi indesiderati hanno un carattere «intrusivo»: emergono alla consapevolezza non appena uno stimolo li risveglia, nonostante le nostre migliori intenzioni di evitarli. Questo tratto li accomuna alle azioni riflesse. Non vi è dubbio che siamo capaci di arrestare le azioni fisiche. Una volta urtai inavvertitamente il vaso di una pianta poggiato sul davanzale della finestra della cucina di casa mia. Mentre allungavo la mano per afferrare la pianta che stava cadendo, mi resi conto che era un cactus. Fermai la mano quando era a pochi centimetri da quelle aguzze spine. La pianta cadde a terra e si rovinò, ma io scampai alle punture. Come si vede, la capacità di annullare una risposta riflessa a uno stimolo può essere preziosa. Senza questa capacità non potremmo tener dietro ai cambiamenti dei nostri scopi o dell’ambiente. E se siamo in grado di arrestare le azioni riflesse, forse abbiamo anche la possibilità di arrestare il recupero. Di fatto, il controllo del recupero, e con esso il controllo cognitivo, può essere conseguito a partire da questi meccanismi di controllo comportamentale.

3.3.1. La soppressione del recupero: risultati di base

Come facciamo a controllare le azioni riflesse? Come abbiamo visto nel nono capitolo, una risposta può essere soppressa per inibizione. Il recupero può essere soppresso nello stesso modo? Per studiare questa possibilità, Collin Green e io [Anderson e Green 2001] abbiamo sviluppato una procedura basata sul compito go/no-go, che è usato per misurare la capacità di arrestare le risposte motorie. In

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un tipico compito go/no-go, i soggetti devono premere un pulsante non appena vedono una lettera sullo schermo di un computer, salvo quando la lettera è una X, nel qual caso devono evitare di rispondere. La tendenza a evitare la risposta misura il controllo inibitorio sull’azione (per esempio, la capacità di evitare di afferrare il cactus). Per chiarire se l’arresto del recupero possa essere una questione di con­ trollo inibitorio, abbiamo modificato il compito go/no-go creando il paradigma «think/no-think». La procedura think/no-think si propone di riprodurre ciò che accade quando ci imbattiamo in qualcosa che risveglia un ricordo al quale preferiremmo non pensare, e cerchiamo di tenerlo fuori della mente. Nella versione più semplice, i soggetti studiano un insieme di coppie suggerimento-bersaglio (per esempio, ordalia-blatta), dopo di che imparano a rievocare la seconda parola {blatta) ogni volta che viene presentata loro la prima parola {ordalia). Grazie a questo addestramento, la prima parola della coppia dovrebbe risvegliare con forza il ricordo della seconda. Il passo successivo è la fase think/no-think, nella quale i soggetti devono esercitare un con­ trollo sul recupero. Nella maggior parte delle prove essi devono rievocare la risposta ogni volta che vedono il suggerimento, ma, nel caso di certe parole (in rosso), i soggetti sono invitati a non procedere al recupero. Così, ad esempio, quando appare la parola ordalia, ai soggetti viene chiesto di continuare a guardare quella parola, ma nello stesso tempo di evitare che il ricordo associato faccia il suo ingresso nella coscienza. Viene sottolineato che non basta evitare di pronunziare la risposta; è essenziale che il ricordo non emerga alla consapevolezza. Le persone sono in grado di usare il controllo inibitorio per impedire che un ricordo indesiderato si faccia strada nella coscienza? Se così fosse, questa procedura potrebbe cogliere l’essenza della rimozione, che, come Freud scrisse, «consiste semplicemente nell’espellere e nel tener lontano qualcosa dalla coscienza». Naturalmente, la consapevolezza conscia delle persone è impossibile da osserva­ re, e perciò è difficile dire se una persona abbia effettivamente impedito l’ingresso di un ricordo nella sua coscienza. La procedura think/no-think permette di misurare le conseguenze dell’arresto del recupero. Se l’inibizione continua, fermare ripetu­ tamente il recupero può forse portare all’oblio, più o meno come accade nel caso del litigio con il vostro amico, che diventa, incontro dopo incontro, sempre meno accessibile. Per misurare gli effetti comportamentali della soppressione, i soggetti vengono sottoposti a un test finale, nel quale vengono presentati i suggerimenti studiati {ordalia) e viene chiesto di rievocare il ricordo-bersaglio {blatta). Come mostra la figura 10.4, vi è una ragguardevole differenza nella capacità dei soggetti di rievocare, nel test finale, gli item della condizione think e quelli della condizione no-think. Questa differenza, che rappresenta l’effetto totale di controllo della memoria [Anderson e Levy 2009; Levy e Anderson 2008], mostra che l’intenzione di controllare il recupero altera la ritenzione. Ma questo effetto, da solo, non dice come tale intenzione influenzi la prestazione dei soggetti. L’ag­ giunta di un terzo insieme di coppie di parole che i soggetti devono studiare nella fase iniziale, ma che non appaiono durante la fase think/no-think (cioè l’aggiunta di una condizione di base), ci permette di misurare l’effetto di controllo positivo e l’effetto di controllo negativo. L’effetto di controllo positivo è rappresentato nella figura 10.4 dal fatto che la ri­ evocazione degH jtem «think» è superiore alla rievocazione di base, ed è causato dal recupero intenzionale. Questo effetto conferma che quando una persona vuole che

L’OBLIO MOTIVATO

Il paradigma think/no-think Condizione

Fase 1

Fase 2

Studio

Think/no-think

No-think

ORDALIA-BLATTA

Think

VAPORE-TRENO

ORDALIA

Fasi di test Stesso probe

, ORDALIA-_____,

VAPORE

'd?basen€ AFFITTO-SETTIMANA

Probe indipendente

. INSETTO-B_____

VAPORE-_____VEICOLO-T

AFFITTO-

TEMPO-S_____

Tipo di test Stesso

Probe

probe

indipendente

r

I Think

HHi Condizione di base

h ” I No-think

Fig. 10.4. In alto: dopo Tappren dimento di coppie di parole, ai soggetti di un esperimento think/no-think viene chiesto di pensare, o non pensare, al vocabolo associato a un suggerimento. Viene poi valutato il ricordo dei vocaboli da parte dei soggetti. In basso a sinistra: rappresentazione schematica dei due tipi di test finali. In basso a destra: risultati di una meta-analisi di studi think/no-think a seconda del tipo di test finale.

un ricordo sia risvegliato, i suggerimenti rafforzano il ricordo. L’effetto di controllo negativo è rappresentato dal fatto che il ricordo degli item «no-think» è inferiore alla rievocazione di base, ed è dovuto all'arresto intenzionale del recupero. Perciò, quando una persona non vuole che un ricordo sia risvegliato, la presentazione di un suggerimento innesca processi inibitori che indeboliscono il ricordo. L’effetto di controllo negativo è controintuitivo. Ci si potrebbe aspettare che incontrare ripetutamente uno stimolo capace di risvegliare un ricordo rafforzi quel ricordo, ma di fatto ciò dipende dalla disposizione della persona; il punto è se essa vuole o no che il ricordo sia risvegliato. Come si può vedere nella figura 10.4, l’effetto di controllo negativo per gli item no-think è presente anche quando i soggetti sono testati con un nuovo suggerimento, il che mostra che il peggioramento del ricordo è indipendente dai suggerimenti. Ciò, come abbiamo visto nel nono capitolo, sug­ gerisce che l’item sia stato inibito.

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3.3.2. La soppressione del recupero: meccanismi cerebrali

Siamo davvero capaci di controllare i ricordi intrusivi così come controlliamo le azioni esplicite? Le prove di questa possibilità sono state fornite da studi di neuroimaging che si proponevano di chiarire se Parreste del recupero e Parreste delPazione fossero dovuti a sistemi cerebrali simili. Insieme con John Gabrieli, Kevin Ochsner, Brice Kuhl e colleghi, ho condotto uno studio fMRI che confron­ tava l’attività cerebrale durante le prove think e no-think [Anderson et al. 2004]. Se la soppressione del recupero fosse basata sugli stessi meccanismi responsabili dell’arresto motorio, in quelle regioni dovrebbe essere registrata più attivazione durante le prove no-think, che comportano soppressione, che non durante le prove think. A conferma di questa ipotesi, la soppressione del recupero chiamava in causa una rete di regioni cerebrali comprendente la corteccia prefrontale laterale destra e sinistra, e la corteccia cingolata anteriore. Questa rete si sovrappone in buona misura con quella all’opera nell’inibizione motoria, anche se non è qui in gioco nessuna risposta motoria. La corteccia prefrontale laterale ha un ruolo cruciale nell’arresto delle azioni motorie riflesse [Aron et al. 2003]. E stato osservato che la stimolazione di questa regione cerebrale durante la risposta motoria go in un com­ pito go/no-go induce le scimmie ad arrestare la risposta motoria [Sasaki, Gemba e Tsujimoto 1989]. Questa sovrapposizione conferma l’idea che l’arresto delle azioni e la soppressione dei ricordi indesiderati si basino su uno stesso processo inibitorio. Ma come è possibile controllare i nostri ricordi? La risposta risiede nella regione cerebrale sulla quale sembra essere esercitato il controllo: l’ippocampo. L’ippo­ campo è essenziale per la formazione di ricordi episodici [Squire 1992c], e l’incre­ mento dell’attivazione ippocampale è stato collegato da altri studi di neuroimaging all’esperienza soggettiva in cui una persona rievoca consapevolmente un evento. Per evitare che uno stimolo ridesti un ricordo indesiderato, occorre arrestare il recupero deh ricordo in modo da impedire la sua rievocazione conscia. Quando una persona cerca di impedire la rievocazione conscia, allora forse la soppressione del recupero ridurrà l’attività ippocampale. Ciò è proprio quel che Anderson e colleghi [2004] hanno osservato: l’attività dell’ippocampo veniva ridotta quando i soggetti sopprimevano il recupero, il che indica che le persone possono controllare intenzionalmente l’attivazione ippocampale per evitare la rievocazione (fig. 10.5). Perciò, secondo che voglia o no rammentare qualcosa, una persona è in grado di controllare l’attivazione ippocampale, influenzando la successiva ritenzione. Questi meccanismi possono funzionare anche nel caso di ricordi con un con­ tenuto emotivo e una maggiore complessità? Studi recenti hanno mostrato che la soppressione del recupero di un ricordo negativo causa un’inibizione altrettanto o più grande rispetto alla soppressione di una traccia neutra [Depue, Banich e Curran 2006; Depue, Curran e Banich 2007] o di una traccia positiva IJoormann et al. 2005]. È stato osservato anche che le persone sono in grado di sopprimere il recupero di una scena aversiva. In due studi di Brendan Depue, Marie Banich e Tim Curran [2006; Depue, Curran e Banich 2007], i soggetti imparavano ad asso­ ciare facce non familiari con scene spiacevoli. Ad esempio, una faccia poteva essere usata per evocare la scena di un brutto incidente, un’altra poteva essere associata all’immagine di un bambino gravemente deforme. Depue e colleghi hanno trovato che presentare le facce e chiedere di sopprimere il recupero peggiorava la successiva rievocazione delle immagini aversive; ciò confermava l’effetto di controllo negativo

l'oblio motivato

osservato con le coppie di parole. Depue, Curran e Banich [ibidem] hanno re­ plicato anche P attivazione della corteccia prefrontale laterale e la ridotta attivi­ tà ippocampale durante le prove no-think. Perciò il controllo inibitorio sem­ bra in grado di sopprimere anche ricordi più realistici; esso può essere un buon modello del modo in cui regoliamo l’accesso alla Ippocampo consapevolezza dei ricordi (area di memoria) spiacevoli. Quando le persone vo­ Fig. 10.5. Rappresentazione tridimensionale dei risultati di neuroimaging di Anderson e colleghi [2004]. La corteccia prefrontale gliono evitare di mettere le laterale è all'opera durante le prove no-think per interrompere Tattimani sui loro «cactus men­ vita neurale dell’ippocampo; ciò impedisce ai ricordi indesiderati di tali» per non risvegliare un ritornare alla mente. ricordo indesiderato, usano sistemi che servono anche all’arresto motorio. La differenza fra il controllo motorio e il controllo della memoria sembra essere l’area del cervello influenzata dal controllo; nel caso dell’inibizione motoria, le aree motorie sono modulate dalla corteccia pre­ frontale laterale, mentre nel caso dell’inibizione dei ricordi, la strada della memoria viene sbarrata riducendo l’attivazione dell’ippocampo [Anderson e Weaver 2009]. Soppressione del recupero nel cervello

3.4. L’amnesia psicogena

Tra le forme di oblio motivato una delle più sorprendenti e insolite è V amnesia psicogena. Prendiamo il drammatico caso di A.M.N., un impiegato assicurativo di 23 anni [Markowitsch et al. 1998]. A.M.N. scoprì un piccolo incendio nello scantinato della sua abitazione e si allontanò per chiedere aiuto. Non inalò fumo: chiuse dietro di sé la porta dello scantinato e corse subito via. La sera aveva un’aria stordita e impau­ rita; la mattina dopo, al risveglio, non sapeva più che lavoro faceva né dove abitava. Dopo tre settimane fu ricoverato in ospedale. Alla visita, risultò che i suoi ricordi si fermavano all’età di 17 anni. A malapena riconosceva la fidanzata, che frequentava da tre anni, e non riconosceva affatto amici e colleghi. Dopo tre settimane di tera­ pia, rievocò uno dei suoi ricordi più remoti: a 4 anni aveva assistito a un incidente d’auto in cui un’altra macchina aveva preso fuoco; era stato testimone delle grida del guidatore mentre moriva nel rogo, la testa schiacciata contro il finestrino. Da quel momento in poi, il fuoco era stato la peggior paura di A.M.N. Ciò nonostante, aveva avuto un normale sviluppo fisico e psicologico, e negli anni successivi non aveva mostrato sintomi di malattie psicologiche. Una visita medica completa non rivelò segni evidenti di lesioni cerebrali, sebbene nelle aree collegate alla memoria il metabolismo fosse notevolmente ridotto. Otto mesi dopo, al momento della stesura dell’articolo, i deficit di memoria personale di A.M.N. erano ancora presenti.

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Casi come questo illustrano diverse caratteristiche dell’amnesia psicogena. Innanzitutto, l’amnesia psicogena è innescata da un intenso stress psicologico. Nel caso di A.M.N., un evento «fa contatto» con un trauma e provoca una fortissima reazione. L’evento stressante può danneggiare profondamente la memoria perso­ nale, spesso senza che vi siano cause neurobiologiche osservabili. Invece, il ricordo degli avvenimenti pubblici e delle conoscenze generali resta spesso intatto. A diffe­ renza del caso di A.M.N., l’amnesia può essere globale-, in tal caso riguarda l’intera storia di una persona. Le persone colpite da una forma di amnesia psicogena detta fuga psicogena o fuga dissociativa [Hunter 1968] dimenticano completamente la propria storia personale, fino a non sapere più chi sono. Queste persone spesso vengono ritrovate mentre vagano senza sapere dove andare e che cosa fare. Tra i fattori scatenanti vi sono gravi liti coniugali, lutti, guai finanziari o problemi con la legge. Se in passato una persona ha sofferto di depressione o ha subito una lesione alla testa sarà più vulnerabile alla fuga psicogena in caso di stress acuto o trauma. L’episodio di fuga dura di solito ore o giorni, e le persone, quando si ristabiliscono, ricordano di nuovo la loro identità e la loro storia. Hanno però un’amnesia persi­ stente per ciò che è accaduto durante la fuga. L’amnesia funzionale può anche riguardare una situazione particolare: la per­ sona mostra una profonda perdita del ricordo di un certo trauma. Commettere un omicidio, essere testimoni o autori di delitti violenti, come stupri o atti di sevizie, sperimentare la violenza della guerra, tentare il suicidio, essere coinvolti in incidenti automobilistici o catastrofi naturali: tutto ciò può provocare forme di amnesia specifica della situazione [Arrigo e Pezdek 1997; Kopelman 2002a]. Ciò nondimeno, come è stato sottolineato da Kopelman {ibidem}, è bene usare cautela nell’interpretare i casi di amnesia psicogena in cui la persona abbia motivi legali o finanziari per simulare un problema di memoria. Benché una parte dei casi di amnesia psicogena possano essere spiegati in questo modo, è opinione generale che i casi genuini non siano affatto rari. L’amnesia globale e quella specifica della situazione si distinguono di solito dalla sindrome amnesica organica (di cui parle­ remo nell’undicesimo capitolo) perché la capacità di immagazzinare nuovi ricordi e nuove esperienze è risparmiata. Data la drammaticità della situazione in cui versano queste persone, vi è spesso uno sforzo concertato per aiutare il paziente a recuperare la sua identità e la sua storia. Tuttavia, questi sforzi raramente vanno a buon fine. I ricordi a volte possono essere recuperati spontaneamente grazie a specifici suggerimenti [Abeles e Schilder 1935; Schacter et al. 1982]. Kopelman [1995] ha descritto un paziente che, nel vedere sul dorso di un libro il nome dell’autore, ricordò spontaneamente di avere un amico con lo stesso nome che stava morendo di cancro. Anche se alcuni pazienti recuperano da soli o con l’aiuto di una terapia di sostegno, Kritchevsky, Chang e Squire [2004] hanno trovato che solo due su dieci pazienti studiati avevano recuperato appieno 14 mesi dopo l’esordio. È evidente che le condizioni in cui i ricordi possono essere recuperati devono essere comprese meglio.

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Fattori alla base del recupero dei ricordi perduti

Può accadere che in un dato momento una persona sia motivata a dimenticare, ma in un momento successivo voglia ritrovare questo o quel ricordo perduto.

l'oblio motivato

Il bisogno di ritrovare i ricordi perduti (recovery) è pressante nell’amnesia psi­ cogena, ma è vivo anche in casi di oblio meno drammatici. Prima o poi dovrete fare i conti con quello spiacevole compito da cui continuate a tenervi alla larga; avrete allora bisogno di recuperarlo dalla memoria. Oppure vi può capitare di incontrare una persona che vi racconta qualcosa di imbarazzante che avete fatto e che voi proprio non riuscite a ricordare (ad esempio, quella volta che avete fatto cadere l’albero di Natale): pieni di stupore, cercherete allora di liberare quel ricordo dalle «segrete» in cui è stato imprigionato. O forse vi state sottoponendo a una terapia, e avete bisogno di riportare alla luce le vostre esperienze passate. In questo paragrafo prenderemo in esame i fattori alla base del recupero motivato dei ricordi perduti.

4.1. Il trascorrere del tempo

Il trascorrere del tempo, come è noto, è associato con l’oblio. Ma in alcuni casi, paradossalmente, la memoria migliora con il passare del tempo e senza che venga fatto alcun tentativo di recupero. La dimostrazione è stata data da Ivan Pavlov nei suoi studi sul condizionamento classico. Pavlov scoprì che quando una risposta salivare condizionata classicamente veniva estinta, la risposta riacquistava forza dopo 20 minuti [Pavlov 1923]. Questo fenomeno fu chiamato da Pavlov recupero spontaneo (spontaneous recovery). Il recupero spontaneo è un effetto «robusto» [Rescorla 2004], che si osserva anche negli studi sulle risposte emotive condizionate. Dopo l’estinzione di una risposta condizionata, il recupero spontaneo aumenta con il tempo, benché in genere le risposte condizionate non riacquistino il massimo della forza. Inoltre, con il ripetersi dei cicli di recupero/estinzione, il recupero della risposta condizionata è ogni volta più ridotto. Il recupero spontaneo dimostra che alcuni ricordi, dopo che sono stati apparentemente dimenticati, possono ripresen­ tarsi senza sollecitazione. Risultati simili sono stati osservati per la memoria dichiarativa. L’idea che la memoria possa migliorare con il tempo è nata dalla ricerca sull’interferenza retroattiva, sulla base di un’analogia tra l’interferenza retroattiva e l’estinzione del condizionamento [Underwood 1948]. In particolare, secondo l’ipotesi del disapprendimento discussa nel nono capitolo, ogni volta che una «risposta» viene accidentalmente recuperata, l’associazione fra il suggerimento e la risposta sba­ gliata viene penalizzata attraverso un processo simile all’estinzione. Stando così le cose, l’interferenza retroattiva dovrebbe venir meno con il tempo. A conferma di questa ipotesi, Underwood [ibidem] scoprì che vi era un livello considerevole di interferenza retroattiva dopo un breve intervallo di tempo, ma che dopo intervalli più lunghi la prestazione nella prima lista migliorava. Più recentemente, il recupe­ ro spontaneo è stato osservato in molti studi di interferenza retroattiva [per una rassegna, cfr. Brown 1976 e Wheeler 1995]. Mark Wheeler [ibidem] ha illustrato il fenomeno del recupero spontaneo nella memoria episodica. In uno studio, Wheeler presentava agli studenti che gli facevano da soggetti una serie di 12 figure, e dava loro tre opportunità di studiarle. Agli studenti veniva detto che quelle figure servivano solo per fare pratica e che le vere figure sarebbero state mostrate più avanti. Poi venivano presentate altre due serie di 12 figure, ognuna delle quali era seguita da un test di rievocazione libera.

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Recupero spontaneo di immagini Controllo

Interferenza

Intervallo breve

Recupero spontaneo di parole categorizzate 40-1 363025201510-

Intervallo lungo

Recupero spontaneo di coppie di parole

Controllo

Interferenza

50— Intervallo breve

Intervallo lungo

Intervallo breve

Intervallo lungo

Fig. 10.6. Gli esperimenti condotti da Wheeler dimostrano che Pinterferenza retroattiva prodotta dall’inter­

posizione di liste di immagini, vocaboli o coppie di vocaboli osservate dopo un breve intervallo diminuisce dopo un intervallo più lungo. Si noti che il ricordo degli item nella condizione di interferenza migliora in ciascuno dei casi con l’aumentare dell’intervallo. Fonte\ Wheeler [1995].

Dopo la presentazione dell’ultima serie, gli studenti erano sottoposti a un test di rievocazione libera delle figure della prima serie; il test avveniva immediatamente o dopo un intervallo di circa 30 minuti. Come si può vedere nella figura 10.6, la rievocazione della prima serie subiva l’interferenza retroattiva del?apprendimen ­ to delle due serie interposte, a differenza di un gruppo di controllo che svolgeva attività distraenti anziché apprendere la seconda e la terza serie. Si noti, tuttavia, che dopo circa 30 minuti la rievocazione libera delle immagini della prima serie andava incontro a un miglioramento. Wheeler ha trovato lo stesso effetto con elenchi di parole organizzate per categorie e con elenchi di coppie di parole; ciò mostra che il recupero è un fenomeno generale. Sebbene la maggior parte degli studi sul recupero spontaneo abbia considerato intervalli fino a 30 minuti, in alcuni casi è stato osservato un recupero dopo diversi giorni. Quanto più i ricordi sono forti, tanto più il loro recupero è probabile [Postman, Stark e Henschel 1969]. Ma come è possibile che la memoria episodica migliori con il tempo quan­ do la stragrande maggioranza delle ricerche illustra il fenomeno contrario? Un

l’oblio motivato

presupposto del recupero spontaneo, sia nel condizionamento classico sia nella memoria episodica, è che vi sia stata l’esclusione esplicita di risposte in precedenza appropriate. Come abbiamo visto sopra, il bisogno di fermare le risposte indesi­ derate è una delle principali condizioni alla base dell’inibizione. Se l’interferenza retroattiva riflette un effetto persistente dell’inibizione, forse gli item dimenticati vengono recuperati a causa del fatto che l’inibizione gradualmente s’allenta. Così, il fattore da cui dipende il miglioramento o il declino della memoria può essere l’inibizione. A conferma di ciò, Malcolm MacLeod e Neil Macrae [2001] hanno trovato che il retrieval-induced forgetting era significativamente minore dopo un intervallo di 24 ore, il che indica che in alcuni casi l’inibizione può venire meno con il tempo. Data la tendenza delle esperienze emotivamente spiacevoli a tornarci in mente e assillarci, anche dopo che sono state più volte soppresse, sembra pro­ babile che il recupero spontaneo sia una delle forze alla base della riapparizione delle tracce dimenticate.

4.2. Il ripetersi dei tentativi dì recupero

Dopo che vi siete sforzati a lungo di rievocare un’esperienza, vale la pena di insistere nel tentativo pur avendo la sensazione che non vi sia nulla da rievocare? Questa sensazione non significa che quell’evento è perduto per sempre? Forse no. Considerate la volta che non riuscivo a ricordare dove avevo messo il passaporto (raccontata all’inizio dell’ottavo capitolo). Nonostante gli sforzi, non ero minima­ mente consapevole di avere memorizzato quell’informazione, ed ero convinto che non avrei mai ricordato nulla. Eppure, non appena trovai il passaporto, ricordai all’istante di averlo messo nella scatola, il che dimostra che il ricordo era presente. Al contrario, tutti gli sforzi fatti per ricordare che avevo fatto cadere l’albero di Natale (cfr. l’inizio del nono capitolo) si sono dimostrati vani, nonostante i tentativi di rievocazione andati avanti per mesi. Quando non riusciamo a ricordare qualcosa più volte, ciò non vuol forse dire che il ricordo non sarà mai più recuperato? La risposta a questa domanda è spesso negativa. I ripetuti tentativi di recupero di solito aumentano la quantità di informazione ricordata, anche quando abbiamo la sensazione di non essere in grado di rievocare altro. Questo fenomeno è stato descritto per la prima volta da Ballard [1913], che aveva chiesto ai suoi soggetti, alunni di scuola elementare, di imparare a memoria una poesia. Nelle successive rievocazioni, Ballard scoprì che spesso gli scolari ricordavano parti della poesia che non avevano ricordato in precedenza. Ballard chiamò questo fenomeno re­ miniscenza {reminiscence}, che definì come «il ricordare di nuovo ciò che si è dimenticato senza che vi sia stato un riapprendimento» ovvero come «un graduale miglioramento della capacità di rivivere le esperienze passate» [ibidem}. Ballard notò che anche quando il numero complessivo di versi rievocati non aumentava con il ripetersi dei recuperi, spesso nei tentativi successivi erano incluse parti di poesia nuove, non presenti nelle rievocazioni precedenti. A volte, la rievocazione complessiva non migliorava, perché il beneficio della rievocazione di nuovi versi era controbilanciato dal fatto che gli scolari non riuscivano a rievocare versi ricordati in precedenza. Altre volte, però, la reminiscenza superava l’oblio all’opera tra un test e l’altro, producendo, nel complesso, un miglioramento. Quando la rievocazione complessiva aumenta con il succedersi dei test (cioè quando la reminiscenza prevale

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sull'oblio all’opera tra un test e l’altro), il risultato è Tipermnesia (hypermnesia), un termine coniato da Mathew Erdelyi in contrapposizione con l’amnesia prodotta normalmente dal trascorrere del tempo. L’interesse per questo fenomeno trascurato per decenni è stato ravvivato da Mathew Erdelyi e colleghi, che hanno condotto una serie di sorprendenti dimostra­ zioni. In un divertente esempio, Erdelyi fece in modo che un dottorando in psico­ logia, Jeff Kleinbard, diventasse il soggetto di uno studio sull’ipermnesia che andò avanti per una settimana. Lo studente era interessato a fare ricerca sull’ipermnesia. Per aiutarlo a farsi un’idea del fenomeno, Erdelyi gli chiese di unirsi ai soggetti di una sessione di test. Bisognava studiare 40 disegni di oggetti. Dopo di che i soggetti avevano 5 minuti per ricordare il maggior numero possibile di figure (scrivendo il nome degli oggetti su un foglio con 40 righe). Se non riuscivano a ricordare tutte e 40 le figure, gli studenti dovevano fare ipotesi su quelle che non erano riusciti a rievocare. Questa procedura di verifica veniva ripetuta per un totale di 5 tentativi di recupero. Quando Kleinbard si recò nello studio di Erdelyi per calcolare il proprio punteggio, Erdelyi gli propose di proseguire con i tentativi di rievocazione per una settimana intera. Kleinbard accettò la sfida. Ogni giorno poteva provare a rievocare le figure quante volte voleva. Una volta terminato, metteva il foglio di risposta in una busta e non lo guardava più. Come si può vedere nella figura 10.7, il livello di rievocazione totale di Kleinbard migliorò considerevolmente test dopo test; il primo giorno era del 48%, l’ultimo giorno arrivò all’80%. Anzi, considerando la rievocazione cumulativa (cioè tenendo conto di tutti gli item rievocati in qualsiasi momento entro e non oltre un dato test), il livello di rievocazione di Kleinbard passò dal 48 al 90%. E questo nonostante che il primo giorno Kleinbard ce l’avesse messa tutta per rievocare il maggior numero di item possibile. In sostanza, Erdelyi e Kleinbard avevano invertito la curva dell’oblio di Ebbinghaus, nella quale la memoria peggiora con il passare del tempo. Come può prodursi l’ipermnesia? Nel caso di Kleinbard, tra i fattori più im­ portanti vi erano la visualizzazione e la ricostruzione. Per dirla con le sue parole: L’esperienza soggettiva di gran lunga più interessante è stata il presentarsi alla niente della «sensazione visiva» di un certa forma generale, ad esempio la lunghezza o la rotondità. Ricordo di avere visto con l’occhio della mente una forma vagamente oblunga dalla quale ho potuto ricavare un fucile, una scopa e una mazza da baseball; da una forma ovale ho tratto un pallone da football americano e un ananas; da una coppa rovesciata, una campana, un imbuto e una bottiglia (la bottiglia usata come stimolo era una specie di campana di vetro); da una scatola rettangolare, un tavolo e un libro. Spesso, subito prima di questi episodi di recupero provavo la sensazione di avere la risposta, per così dire, «sulla punta dell’occhio»: ero certo di essere sul punto di recuperare un particolare oggetto, che però solo dopo qual­ che tempo prendeva improvvisamente la forma di un’immagine nella coscienza [Erdelyi e Kleinbard 1978, 220].

Erdelyi e Kleinbard \ibidem] hanno osservato lo stesso fenomeno in un grup­ po di altri sei soggetti, tre dei quali avevano studiato delle immagini, mentre gli altri tre avevano studiato dei vocaboli. I soggetti che avevano studiato i vocaboli mostravano un grado minore di ipermnesia rispetto a quelli che avevano studiato le immagini; ciò fa pensare che l’immaginazione visiva abbia un ruolo importante nel determinare se una tràccia finirà per riaffiorare in seguito a ripetute rievoca-

l’oblio motivato

Fig. 10,7. La prestazione di ri evocazione di un (involontario) soggetto di un esperimento di ipermnesia. I

ripetuti tentativi di recupero in un periodo di circa una settimana conducono a un Notevole miglioramento nella percentuale di immagini rievocate.

Fonte'. Erdelyi e Kleinbard [1978],

zioni. Diversi soggetti riferivano esperienze del tipo «sulla punta dell’occhio» non dissimili da quella di Kleinbard. L’ipermnesia è un fenomeno «robusto» e può essere osservata in semplici sessioni di laboratorio della durata di un’ora o meno [Payne 1987]. L’ipermnesia è maggiore nei test di rievocazione libera, ma è stata osservata anche nella rie­ vocazione guidata e nei test di riconoscimento. L’effetto è stato trovato sia con materiali verbali sia con materiali visivi, sebbene gli effetti siano maggiori quando i materiali possono essere immaginati. L’ipermnesia aumenta con il numero dei test di rievocazione; diversi studi hanno mostrato che questo effètto non dipende semplicemente dalla maggiore quantità di tempo trascorso, poiché in genere un singolo test più lungo non arreca lo stesso beneficio di molti test più brevi ripe­ tuti. L’ipermnesia non sembra dipendere nemmeno da una maggiore tendenza a fare congetture, perché la frequenza dei falsi ricordi non sembra aumentare con il ripetersi dei test. Anche un ricordo complesso e realistico può andare incontro a ipermnesia? In un’interessante illustrazione di questa possibilità, Susan Blutk, Linda Levine e Tracy Laulhere [1999] hanno studiato il ricordo di un avvenimento pubblico di cui molte persone erano state testimoni, e per il quale era possibile una veri­ fica oggettiva e circostanziata: la lettura televisiva del verdetto del processo per omicidio a O J. Simpson. La sentenza fu letta a Los Angeles il 2 ottobre del 1995, alle 10.04 del mattino. La lettura si protrasse per 14 minuti e mézzo e la scena fu ripresa da una sola telecamera per tutte le reti televisive. Otto mesi dopo che il verdetto era stato trasmesso in televisione, Bluck e colleghi chiesero a un certo numero di persone che avevano assistito alla trasmissione di ricordare tutto quel

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CAPITOLO 10

che potevano, compresi i dettagli che avevano preceduto, accompagnato e seguito la lettura del verdetto. Perché la rievocazione fosse completa e dettagliata, i sog­ getti furono intervistati tre volte di seguito. In ogni intervista, i soggetti furono invitati ripetutamente a fornire altri dettagli; si voleva avere la certezza che essi avessero riferito tutto ciò che potevano. Fu osservata una considerevole iperm­ nesia: il numero di dettagli verificabili ricordati aumentò dal 27 al 52% nei tré tentativi di rievocazione. Può esservi ipermnesia di un ricordo che una persona ha deliberatamente cer­ cato di dimenticare? Da una parte, la motivazione a non ricordare potrebbe attivare processi particolarmente potenti, rendendo quel ricordo difficile da rievocare. Inoltre, gli stessi fattori motivazionali che hanno condotto all’oblio potrebbero influenzare anche il recupero, ostacolando la rievocazione. D’altra parte, se una persona decide di ricordare qualcosa che in precedenza si era sforzata di dimenti­ care, può darsi che il cambiamento di disposizione rovesci la tendenza a escludere il ricordo, e renda il materiale dimenticato soggetto a ipermnesia. Sebbene le ricerche sull’ipermnesia di ricordi dimenticati intenzionalmente siano rare, diversi studi hanno fatto uso della procedura di directed forgetting per dimostrare che gli item dimenticati intenzionalmente sono effettivamente soggetti a ipermnesia [Goernert e Wolfe 1997; Goernert 2005]. È naturale chiedersi se il ripetersi dei recuperi possa introdurre informazio­ ni erronee in modo da alterare l’esperienza reale. In un’elegante dimostrazione, Linda Henkel [2004] presentava ai soggetti delle diapositive che contenevano o il disegno di un oggetto accompagnato dal suo nome (per esempio, l’immagine di un lecca lecca con accanto la parola lecca lecca) > o solo il nome, senza nessuna figura. Per ciascuna diapositiva ai soggetti veniva chiesto di pensare alle funzioni dell’oggetto e, quando la figura non c’era, di cercare di visualizzare un suo tipico esempio. Dopo di che i soggetti erano sottoposti a tre test di rievocazione. Essi mostravano un robusto effetto di ipermnesia, ma mostravano anche un aumento degli errori di attribuzione della fonte. Con il succedersi dei test, diventava più probabile che i soggetti affermassero erroneamente di avere visto la figura di un oggetto che avevano invece solo immaginato. Questa tendenza era particolarmente forte quando i soggetti avevano visto oggetti fisicamente o concettualmente simili nell’elenco. Tuttavia, la percentuale complessiva di rievocazioni erronee è spesso sorprendentemente piccola rispetto alla rievocazione accurata, come dimostrano gli studi sulla rievocazione ripètuta di episodi emotivamente significativi di cui si è stati testimoni oculari [Bornstein, Liebel e Scarberry 1998] o sulla rievocazione ripetuta di ricordi autobiografici [Bluck et al. 1999].

4.3. La disponibilità di suggerimenti appropriati

Dopo che abbiamo scacciato dalla mente un ricordo indesiderato ci può capi­ tare di incontrare qualcosa che ce lo rammenta. Girate l’angolo, ed ecco un’auto­ mobile uguale per modello e colore a quella della vostra vecchia fidanzata. Frugate in una scatola, e trovate un oggetto che vi è stato regalato da una persona che ora non c’è più. Un veterano di guerra nota un brusco movimento sul ciglio della strada mentre è in auto, e ritorna con la mente a un attacco armato contro la sua auto­ colonna in Iraq. Questi esempi illustrano il potere dei suggerimenti di risvegliare

l'oblio motivato

ricordi indesiderati. I suggerimenti, naturalmente, hanno lo stesso potere nel caso inverso, quando vogliamo ricordare qualcosa che in passato abbiamo cercato di dimenticare. Steven Smith e Sarah Moynan [2008] hanno dimostrato nel modo più convin­ cente come una persona possa dimenticare e poi recuperare un’esperienza, dati i suggerimenti appropriati. Molto spesso ci imbattiamo in stimoli capaci di risve­ gliare esperienze spiacevoli, Un modo di affrontare questa situazione è prendere in considerazione solo alcuni aspetti dell’esperienza, evitando quelli spiacevoli; di conseguenza, gli aspetti non presi in considerazione possono diventare meno accessibili. Per simulare questo processo, Smith e Moynan presentavano ai loro soggetti una lista di parole organizzate in categorie. Tra le 21 categorie c’erano, ad esempio, mobili, frutta, bevande, ma anche categorie con contenuto emotivo, come malattia, morte e parolacce. Dopo la codifica, il gruppo sperimentale produceva giudizi su esempi tratti da 18 delle 21 categorie, tre per ciascuna categoria; ciò favoriva la rielaborazione selettiva di una parte della lista. Nel gruppo di control­ lo, lo stesso tempo veniva impiegato in compiti irrilevanti. Ai soggetti veniva poi chiesto di rievocare tutti i nomi delle categorie, comprese quelle rimaste escluse dal compito interposto. Come si può vedere nella figura 10.8 (grafico in alto), i soggetti mostravano un notevole oblio delle tre categorie escluse dal compito interposto. Va sottolineato che ciò avveniva anche quando le categorie avevano un contenuto emotivo (parole volgari o parole collegate alla morte). In alcuni casi, la rievocazione delle categorie escluse era del 70% peggiore rispetto al gruppo di controllo, anche se l’intervallo di tempo e il carico attentivo nella fase interposta erano analoghi. Evidentemente, escludere l’attenzione per certe parti di un’esperienza può produrre il loro rapido oblio. Che fine facevano gli item dimenticati? I soggetti della condizione sperimentale trovavano evidentemente difficile rievocare le categorie escluse. Interrogati, rispon­ devano di avere la sensazione di non essere in grado di rievocare nient’altro. Smith e Moynan [ibidem] hanno tuttavia dimostrato che le cose stavano diversamente. Dopo che i soggetti avevano cercato di rievocare le categorie, venivano presentati loro, l’uno dopo l’altro, i nomi delle categorie e veniva chiesto di darne degli esempi. Come si può vedere nella figura 10.8 (grafico in basso), una volta forniti i nomi delle categorie, i soggetti di controllo e quelli sperimentali rievocavano esattamente lo stesso numero di item per categoria, e la percentuale di rievocazione era eccellente. Perciò l’uso di suggerimenti appropriati dimostrava la persistente ritenzione degli item. Delle 10 parole associate alla morte incontrate dai soggetti sperimentali, ne venivano ricordate quasi il 60% (pari a quelle rievocate dal gruppo di controllo) quando veniva presentata la categoria come suggerimento, anche se poco prima solo il 10% dei soggetti riusciva a ricordare di aver visto parole associate alla morte nella lista (rispetto al 70% dei soggetti nella condizione di controllo). Ciò indica che le esperienze spiacevoli possono essere dimenticate, dato un atteggiamento appropriato quando ripensiamo all’evento, e poi recuperate, dati i suggerimenti appropriati. I suggerimenti possono facilitare il recupero di un ricordo dimenticato in­ tenzionalmente? In uno studio, Goernert e Larson [1994] hanno scoperto che il directed forgetting può essere «revocato» presentando come suggerimento una parte degli item contenuti nella prima lista studiata dai soggetti. In mancanza di suggerimenti, i soggetti mostravano un effetto di directed forgetting', i soggetti istruiti

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Influenza creila rielaborazione selettiva sulla rievocazione libera 1Q0-I

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Indice analitico

Indice analitico

Abilità di studio, 452-456 motorie, 14,25,108-109,113,118,308,372-373 Abuso infantile, 192, 294, 297, 298 Accessibilità/disponibilità, distinzione, 244 Acetilcolina, 383 Adattamento edenico, 308-309 Alcolici, uso di, vedi Korsakoff, sindrome di Al operinolo, 378

Alternanza fra compiti, ipotesi della, 87 Alzheimer, malattia di, 379-385 capacità di attenzione divisa, 78-79 diagnosi, 27, 379 gomitoli neurofibrillari, 379 memoria di lavoro, 382-383 memoria episodica, 380 memoria implicita, 382 memoria semantica, 381-382 oblio, 317, 381-382 placche amiloidi, 379 sviluppo, 380-382 terapia della reminiscenza, 178, 384 terapia di orientamento alla realtà, 384 trattamento, 383-385 Amigdala, 120-121,195,205 Amnesia, 303-326 deficit su base organica, 201-205 della fonte, 312 dipendente dalla situazione, 199-200, 284 disturbo di personalità multipla, 200-201 elaborazione contestuale, 311-312 evolutiva, 143,313-315 livelli di elaborazione, 310 memoria esplicita contrapposta a quella im­ plicita, 222 modello modale, 312-313 post-traumatica, 305, 321-322 psicogena, 198-201, 272, 283-284

rapidità dell’oblio, 311 recupero, 311 teorie, 309-315 transitoria globale, 305-306 trauma cranio-encefalico (TCE), 320-325 vedi anche amnesia anterograda, amnesia in­ fantile, amnesia retrògrada Amnesia anterograda, 151, 305-309 adattamento edenico, 308-309 apprendimento, 307-309 controllo di sistemi corriplessi, 308 sindrome amnesica, 306-307 Amnesia infantile, 183-184, 249, 327-328, 344, 348-350 teoria del Sé cognitivo, 348-350 teoria socioculturale, 349-350 Amnesia retrograda, 305, 315-320 gradienti temporali, 317-318 modelli, 319-320 nel trauma cranio-encefalico, 321-322 nella memoria episodica e in quella seman­ tica, 151 valutazione, 316-318 Anestesia a guanto, 200 Ansia, 193, 397-400, 411, 413, 420, vedi anche disturbo post-traumaticb da stress Apprendimento, 95-124 abilità di studio, 452-456 alla lettera {verbatim learning), 459-461 basi cerebrali, 118-123 coscienza, 117-118 del vocabolario, 458-459 di concetti, 164-167 di grammatiche artificiali, 115 -116 disapprendimento, 262-263 effetti della ripetizione, 105-107 importanza dei test {testing effect), 101-103, 454-456

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INDICE ANALITICO

importanza dell'informazione di feedback, 103-104,456 importanza dell’organizzazione, 138-142 incidentale, 136 intenzionale, 137,141-142 invecchiamento, 372-373 metodo di immersione, 116 motivazione, 104-105, 362-363 nell’amnesia, 307-309 pratica distribuita, 98-100 predicibilità, 132 procedurale, 113-115, 123 recupero a intervalli crescenti, 100-101,104 tecnica della parola-chiave, 458-459 trasferimento o generalizzazione dell’appren­ dimento, 164-167 velocità di apprendimento, 96-98 verbale, 16 vedi anche apprendimento implicito Apprendimento implicito, 108-117 basi cerebrali, 121-123 condizionamento classico, 25, 109-111, 121, 285,308 controllo di sistemi complessi, 117, 308 di grammatiche artificiali, 115-116 invecchiamento, 372-373 priming, 25-26, 111-112, 122-123, 222, 308, 372, 382 procedurale, 113-115, 123 Approccio dell’elaborazione dell’informazione, 19 Area di Broca, 89 fusiforme per le facce, 401 Assembramenti cellulari (cell assemblies), 118119 Associazioni verbali, 130 Attenzione controllo della, 77 localizzazione della, 77-79,432 Attivazione, livello di, 210-211 Ausili mnemonici (esterni e interni), 440 Autobiographical Memory Interview, 317 Autoistruzione verbale, 70 Autostima, 190-191 P (beta), 233 Bambini come testimoni, 350-356 bias dell’intervistatore, 353-354 monitoraggio della fonte, 354-356 ripristino del contesto, 355 suggestionabilità, 351-353 uso di resoconti verbali e di diségni, 355-356 Base di conoscenza autobiografica, 186 Bias di positività, 270 Blocco associativo, 261-265 Bromocriptina, 378

Buffer di riconoscimento, 21 episodico, 75, 79-82, 84-85,336

Cambiamento contestuale, ipotesi del (context shift hypothesis), 277 Caratteristiche multiple, approccio a, 163-164 Catatonia, 200 Categoria, deficit specifici per, 160-163 Categorie semantiche, 139-141 Cecità al cambiamento, 107-108, 389-390 alla cecità al cambiamento, 390 per le facce, vedi prosopoagnosia Cellule dei luoghi (place cells) ,319 Cervello apprendimento, 118-123 invecchiamento, 376-378 memoria autobiografica, 201-205 memoria episodica, 142-146 memoria semantica, 159-164 soppressione del recupero, 282-283 struttura, 28-29 sviluppo, 333-335 vedi anche trauma cranio-encefalico (TCE) Cloze, tecnica di, 132 Codifica-immagazzinamen to-recupero, 18 Coerenza, tendenza sistematica alla, 171 Colinesterasi, 383 Competizione dipendente dalla forza, 261 fra risposte, teoria della, 261 principio di, 250 Completamento di frammenti, 111-112 di radici, 111-112 Comportamento di utilizzazione, 77 Concatenamento (chaining), 35-36 Condizionamento classico, 25,109-111,121,285, 308 Confabulazione, 77,186,188,202-203 Conflitti, soluzione automatica dei, 76 Conoscenza attenzione, interesse e conoscenza, 461-462 base di conoscenza autobiografica, 186 conoscenze di contenuto, 337-338, 344 Consolidamento cellulare (sinaptico), 120,245, 319 sistemico, 120, 245,319-320 Controllo cognitivo, 279 Controllo della memoria, effetto totale di, 280 effetto di controllo negativo, 280-281 effetto di controllo positivo, 280-281 Controllo di sistemi complessi, 117, 308 Corteccia entorinaie, 315 peririnale, 143, 315

INDICE ANALITICO

rinaie, 143 Coscienza, 80, 117-118 autonoetica, 188 nucleare (core consciousness), 117 Criptoamnesia, 220 Curva dell’oblio, 241-242 vedi anche ipermnesia

D’ (dprime), 231 Decadimento della traccia, 37, 86-87, 247 Deese-Roediger-McDermott, paradigma, 158, 341 Deficit associativo, ipotesi del, 366-367, 369 Deliri, 186,203 Demenza semantica, 172-173, 382 senile, 379 Depressione, 190-191,225-226, 359 Diari (metodo di studio della memoria autobio­ grafica), 179-180 Dipendenza dall’interferenza, 265 Directed forgetting con il metodo degli item, 273-275, 278 con il metodo delle liste, 274-278, 293 risultati fondamentali, 273-277 Disapprendimento (associativo), 262-263 Disegno longitudinale, 360 trasversale, 360 Dìstrattori, 229 Disturbo da deficit dell’attenzione e ìperattività, 84 da personalità multipla, 200-201 ossessivo-compulsivo, 420-421 post-traumatico da stress (post-traumatic stress disorder, PTSD), 193-196 Donepezil, 383 Dopamina, 377, 378 Doppia codifica, ipotesi della, 131 Doppia dissociazione, 56 Doppio processo, modelli di riconoscimento a, 234 Economia cognitiva, 153 Effetto/i dei suoni irrilevanti, 46-47, 49 della lunghezza della parola, 44-46, 50, 56 di coorte, 360-361 di generazione, 100, 103 di mera esposizione, 110-111 Elaborazione contestuale, 311-312 Elettroencefalogramma (EEG), 29, 143-144 Errore di attribuzione della fonte, 235-236, 394 Esami, preparazione agli, 452-463 abilità di studio, 452-456 apprendimento alla lettera, 459^461 apprendimento del vocabolario, 458-459

attenzione, interesse e conoscenza, 461-462 mappe mentali, 456-458 motivazione, 1.04-105, 362-363 Esecutivo centrale, 65, 76-79, 336-337

Feature model (modello basato sulle caratteristi­ che), 49-50 Feedback, 103-104,397,456 Flashback, 193-194,196-198 Flashbulb memory, 188-190 Fluenza concettuale, 221 Fluttuazione contestuale, 249 Focalizzazione sull’arma, effetto di, 398-400 Frames, 167-168 Frequenza delle parole, effetto della, 233 Fuga psicogena (o dissociativa), 198-199,284 Funzione di ritenzione, 241-242 Galantamina, 383 Gestalt, psicologia della, 17 Gist memory (memoria del senso generale), 340342 Goal-setting, teoria del, 462

HERA (hemisferic encoding and retrieval asymme­ try), ipotesi, 144 Huntington, malattia di, 378 Imitazione differita, 332-333 Immaginazione visiva, 131,288-289, 445-449 Immagini mentali, manipolazione di, 72-75 Implementation intentions, 430, 462-463 Incidenti aerei, cause degli, 423-426 automobilistici e distrazione alla guida, 79 Indipendenza dai suggerimenti, 264-265 dalla forza, 265 Infanzia, memoria nella, 327-357 amnesia infantile, .183-184,249,327-328,344, 348-349 cambiamenti evolutivi, 335-344 conoscenze di contenuto, 337-338, 344 memoria autobiografica, 344-350 memoria di lavoro, 336-337 memoria dichiarativa, 335-340 memoria dichiarativa contrapposta a quella implicita, 342-344 metamemoria, 335,339,340 strategie di memoria, 338-339 verbatim memory (memoria letterale) e gist memory (memoria del senso generale), 340-342 vedi anche bambini come testimoni, prima infanzia, memoria nella Inibizione, 86, 287 collaborativa, 257

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INDICE ANALITICO

come causa dell’oblio, 263-266 ipotesi dell’inibizione del recupero, 277 latente, 109-110 teoria del controllo inibitorio di Engle, 85-86 Integrazione (binding), 80 Interferenza effetto di/wMYtf cuing, 256-257, 261 fenomeni, 252-26Ì meccanismi, 261-266 proattiva, 86, 254^256, 393 retrieval-induced forgetting, 257-261,263-265 retroattiva, 252-254, 261-263,285-286, 393 Interviste cognitive, 409-411 Invecchiamento, 359-386 basi cerebrali, 376-378 Betula Study, 361-363 capacità di elaborazione, 366 declino della memoria causato dal disuso, 373-374 dopamina, 377-378 effetti di coorte, 360-361 effetto del self-performed task, 367-368 ipotesi del deficit associativo, 366-367,369 malattia di Alzheimer, 379-385 memoria a breve termine, 363-365 memoria a lungo termine, 365-374 memoria di lavoro, 363-365 memoria e apprendimento impliciti, 372-373 memoria episodica, 365-368 memoria prospettica, 369-371,428-430 memoria semantica, 371-372 ricordare e sapere, 368-369 studi longitudinali, 360-363 studi trasversali, 360-361 supporto esterno, 366, 368 Ipermnesia, 288-290 Ipotesi del tempo totale, 97, 98 Ippocampo, 28,121 cellule dei luoghi, 319 consolidamento sistemico, 120, 245, 319-320 dimensioni, 195-196 invecchiamento, 377 lesioni, 142-143, 311,313, 315, 319,380 potenziamento a lungo termine, 119 soppressione del recupero, 282 sviluppo del cervello, 334 Isteria, 200 Jost, legge di, 245 Korsakoff, sindrome di, 201-202, 304-307, 309310,317-318, 437

Labirinto acquatico di Morris, 119 Livelli di elaborazione, 61, 132-135, 310, 453 Lobi frontali, 77, 93, 142, 202, 307, 376-377 Loop fonologico, 34,43-46

controllo dell’azione, 70 funzione, 65-70 nell’infanzia, 336-337 problema dell’ordine seriale, 47 Magazzino/i a breve termine, 61-62 a lungo termine, 61 di memoria, 17-19 Magnetoencefalografia, 30 Mappe mentali, 456-458 Mascheramento, 20, 46-47,121 MBT, vedi memoria a breve termine Memoria a breve termine (MBT), 23, 33-59 approcci neuropsicologici, 55-56 invecchiamento, 363-365 modelli della MBT spaziale, 42-48 oblio, 37-38 rievocazione libera, 39-42 span di memoria, 34-37 teorie, 48-50 verbale, 42-48, 56 vedi anche magazzino a breve termine, memo­ ria a breve termine visuo-spaziale Memoria a breve termine visuo-spaziale, 50-58 deficit, 56-58 distinzione visivo/spaziale, 52-55 memoria di oggetti, 50-52, 90 Memoria a lungo termine (MLT), 23-26 e memoria a breve termine, 33,41, 55-56 e memoria di lavoro, 80-81, 87 invecchiamento, 365-374 vedi anche magazzino a lungo termine Memoria accessibile per via situazionale, 194 verbalmente, 194 Memoria autobiografica, 177-206 amnesia infantile, 183-184,327-328,344,348 amnesia psicogena, 198-201 base anatomica, 203-205 confabulazione, 77,186, 188, 202-203 deficit su base organica, 203-205 definizione di Cowan, 186 deliri, 186,203 distinzione semantico/episodico, 201-202,204 disturbo post-traumatico da stress, 193-196 flashbulb memory, 188-190 funzioni direttive, 177-178 funzioni sociali ed emotive, 177-178,190-191 metodi di studio, 178-185 metodi per sondare la memoria, 182-185 metodo dei diari, 179-180 narrazione autobiografica, 184-185 nell’infanzia, 344-350 picco di reminiscenza, 183-185, 196,198 rappresentazione di sé, 178 recollection, 234-235, 313-314,368-369

INDICE ANALITICO

ricordi involontari, 196-198 ricordi recuperati, 191-192, 294-300 sindrome da falsi ricordi, 193 studi neuropsicologici, 201-203 vedi anche base di conoscenza autobiografica, infanzia, memoria nella Memoria di configurazioni, 90 Memoria di lavoro, 23, 33-34, 61-94 buffer episodico, 75, 79-82, 84-85,336 differenze individuali, 82-84 esecutivo centrale, 65, 76-79, 336-337 immaginazione e taccuino visuo-spaziale, 7176 invecchiamento, 363-365 ipotesi dell’alternanza fra compiti, 87 malattia di Alzheimer, 382-383 memoria di lavoro a lungo termine, 87 memoria di lavoro spaziale, 90 modello di condivisione delle risorse su base temporale, 86-87 modello multicomponenziale (Baddeley e Hitch), 34, 64-79, 81-82 nell’infanzia, 336-337 neuroscienza, 88-93 teoria degli embedded processes (Cowan), 8485 teoria del controllo inibitorio (Engle), 85-86 Memoria di oggetti, 50-52, 90 Memoria dichiarativa, vedi memoria esplicita (dichiarativa) Memoria dipendente dal contesto, 222-227 congruente con l’umore, 178, 190, 225-226 dipendente dal contesto ambientale, 223-224 dipendente dal contesto cognitivo, 226-227 dipendente dallo stato, 224-225 dipendente dall’umore, 226 Memoria ecoica, 22 Memoria episodica, 24-25, 125-147, 150-152 apprendimento e predicibilità, 132 basi cerebrali, 142-146 contrapposta alla memoria semantica, 150152,201-202,204 etichette verbali, 128-129 invecchiamento, 365-368 livelli di elaborazione, 61, 132-135 malattia di Alzheimer, 380 negli uccelli, 142 organizzazione e apprendimento, 138-142 profondità della codifica, 136-137 recupero spontaneo, 285-287, 301 significato e memoria, 130-131 transfer-appropriate processing (elaborazione appropriata al trasferimento), 135-136 Memoria esplicita (dichiarativa), 23-25, 30 basi cerebrali, 334 nell’amnesia, 222 nell’infanzia, 328-342

Memoria iconica, 19-21 Memoria implicita (non dichiarativa), 23,25-26, 118 invecchiamento, 372-373 nella malattia di Alzheimer, 382 nell’amnesia, 222 nella prima infanzia, 328-329, 334 nell’infanzia, 342-344 test di memoria indiretti, 220-222 Memoria indirizzabile per contenuto {content addressable memory}, 210 Memoria non dichiarativa, vedi memoria impli­ cita (non dichiarativa) Memoria prospettica, 27, 419-435 ansia, 420 basata sugli eventi, 426-428 basata sul tempo, 426-428 compiti a esecuzione differita, 428 compiti a esecuzione immediata, 428 distinzione prospettico/retrospettivo, 419423,428 disturbo ossessivo-compulsivo, 420-421 incidenti aerei, 423-426 invecchiamento, 369-371, 428-430 prospettive teoriche, 430-434 valutazione della, 421-423 Memoria quotidiana, 26-30, 380 Memoria retrospettiva (contrapposta alla memo­ ria prospettica), 419-423, 428 Memoria ricostruttiva, 227-229 Memoria semantica, 24-25, 30,149-175 apprendimento di nuovi concetti, 164-167 contrapposta alla memoria episodica, 150152,201-202,204 immagazzinamento di concetti semplici, 152159 invecchiamento, 371-372 modello a rete gerarchica, 153-157 modello di propagazione dell’attivazione, 157159,211 nella malattia di Alzheimer, 381-382 organizzazione nel cervello, 159-164 personale, 186, 317 schemi, 167-174 Memoria sensoriale, 18-22, 61-62 Metamemoria, 335, 339, 340 Metodo dei loci, 377, 445-447, 451 di immersione, 116 Miglioramento della memoria, 437-464 ausili mnemonici (esterni e interni), 440 mnemonisti, 440-444 mnemotecniche, 444-452 «naturali» e «strategici», 441-444 preparazione agli esami, 452-463 vedi anche mnemotecniche MLT, vedi memoria a lungo termine

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INDICE ANALITICO

Mnemonisti, 440-444 Mnemotecniche, 444-452 efficacia, 451-452 fondate sull’immaginazione visiva, 445-449 metodo dei loci, 377,445-447, 451 sistema delle parole-appiglio, 447-448 ricordo di nomi di persona, 448-449 verbali, 449-451 Mobile conjugate reinforcement task, 329-331, 333 Modello di propagazione dell’attivazione, 157-159,211 modale della memoria (Atkinson e Shiffrin), 18, 61-62 modale dell’amnesia, 312-313 nozione di, 15,17 Monitoraggio del comportamento, 77 della fonte, 235-236, 354-356, 393-394 Motivazione ad apprendere, 104-105, 462-463 Multiprocesso, teoria, 432-434

Narrazione autobiografica, 184-185 Neuroimaging, tecniche di, 29-30 memoria di lavoro, 88-93 memoria episodica, 143-146 soppressione del recupero, 282-283 Neuroscienza, 27-29 cognitiva, 333-335 della memoria di lavoro, 88-93 Nomi di persona, ricordo di, 243, 448-449

Object-oriented episodic record (O-OER) model, 47,49 Oblio, 37-38 nella malattia di Alzheimer, 317, 381-382 vedi anche amnesia, oblio incidentale, oblio motivato Oblio incidentale, 239-268 accessibilità/disponibilità, distinzione, 244 concezione funzionale, 266 consolidamento, 245 curva dell’oblio/funzione di ritenzione, 241242 decadimento della traccia, 247 fattori causali correlati al tempo, 248-251 fattori che facilitano l’oblio, 246-266 fattori che ostacolano l’oblio, 245-247 fenomeni di interferenza, 252-261 fluttuazione contestuale, 249 incapacità di dimenticare, 240-241 incremento nel tempo, 241-244 meccanismi di interferenza, 261-266 part-set cuing, effetto di, 256-257, 261 passaggio del tempo come causa, 247-248 retrieval-inducedforgetting, 257-261,263-265 Oblio motivato, 240, 269-302

amnesia psicogena, 272,283-284 bias di positività, 270 cambiamenti motivati del contesto, 278 fattori alla base del recupero dei ricordi, 284293 fattori alla base dell’oblio, 273-284 istruzioni a dimenticare, 273-278 oblio intenzionale, 272 regolazione delle emozioni, 271 repressione (soppressione), 272 ricordi recuperati di traumi, 293-300 rimozione, 271-272 soppressione intenzionale del recupero, 279283 stress emotivo estremo (causa di amnesia psi­ cogena), 283-284 Ordine seriale, 47-48,50 Organizzazione soggettiva, .140 Papez, circuito di, 142 Parkinson, malattia di, 378 Parola-chiave, tecnica della, 458-459 Parole-appiglio, sistema delle, 447-448 Part-set cuing, effetto di, 256-257, 261 Permastore (magazzino permanente), 244, 246 Peterson, compito dei, 37-38, 56, 87, 306 Plagi, 220 Potenziali evento-correlati {event-related poten­ tial, ERP),29, 143-144 Potenziamento a lungo termine {long-term poten­ tiation, LPT), 119 Pratica distribuita, 98-100 Preparatory attentional and memory processes (PAM) theory, 430-434 Prima infanzia, memoria nella, 328-335 imitazione differita, 332-333 memoria esplicita, 329-334 memoria implicita, 328-329, 334 mobile conjugate reinforcement task, 329-331, 333 neuroscienza cognitiva, 333-335 principi di sviluppo della memoria, 333 train task, 332, 333 Priming, 25-26,111-112,122-123,222,308,372, 382 di ripetizione, 222,237, 247, 343 Priorità {primacy), effetto di, 39-40 Procedura di dissociazione dei processi {process dissociation procedure), 234-235 Profondità di elaborazione, 133, 134-135 Programmi di addestramento della memoria, 373-374 Prosopoagnosia, 400 Prospective and Retrospective Memory Question­ naire (PRMQ), 421-423 Psicologia della memoria, 16-18 Pubblicità, 109-111

INDICE ANALITICO

Raggruppamento {chunking), 36, 138 Recenza {recency) a lungo termine, effetti di, 41 effetto di, 21-22,39-42,56,184,306-307,380 Recollection, 234-235, 313-314, 368-369 Recupero {retrieval), 207-238 appropriaiezza dei suggerimenti, 213-215 associazioni, 210 attenzione prestata ai suggerimenti, 211-213 compiti di recupero, 219-222 fattori di riuscita, 211-218 forza associativa suggerimento-bersaglio, 215 forza del ricordo-bersaglio, 216 ipotesi dell’inibizione del recupero, 277 livello di attivazione, 210-211 memoria di riconoscimento, 229-235 memoria dipendente dal contesto, 222-227 memoria indirizzabile per contenuto, 210 memoria ricostruttiva, 227-229 modalità di recupero, 217-218 monitoraggio della fonte, 235-236, 354-356, 393-394 nell’amnesia, 311 numero di suggerimenti, 215-216 paradigma di pratica del recupero, 257-258,265 principi generali, 209-211 principio di specificità della codifica, 214, 355,409 propagazione dell’attivazione, 157-159,211 recupero a intervalli crescenti, 100-101, 104 ricordo-bersaglio/traccia-bersaglio, 209 strategia di recupero, 100-101,216-217 suggerimenti contestuali, 218-219 suggerimenti per il recupero, 210 «sulla punta della lingua», 208-209,215,261 «sulla punta dell’occhio», 288-289 vedi anche recupero {recovery) di ricordi, retrieval-induced forgetting, soppressione intenzionale del recupero Recupero del ricordo di un trauma, 191-192, 293-300 riscontri, 296,297 storie di casi, 294-297 varietà di origini, 297-300 Recupero {recovery) di ricordi, 284-300 disponibilità di suggerimenti, 290-293 effetto del trascorrere del tempo, 285-287 effetto di ripetuti tentativi di recupero, 287-290 fattori alla base del recupero, 284-293 vedi anche recupero del ricordo di un trauma Recupero spontaneo, 285-287 Registrazioni da singola cellula, 88 Regolazione delle emozioni, 271 Reminiscenza definizione di Ballard, 287 picco di, 183-185,196, 198 terapia della, 178, 384

Repressione {suppression), 272 Rete gerarchica, modello a, 153-157 Retrieval-induced forgetting, 257-261,263-265 Riapparizione, ipotesi della, 196 Ribot, legge di, 316, 319 Riconoscimento, memoria di, 229-235 contrapposizione riconoscimento/rievocazione, 244,313,315,368, 455 distrattori, 229 effetto della frequenza delle parole, 233 procedura di dissociazione dei processi, 234235 procedura «ricordo»/«so», 234, 313-314, 368-369 recollection, 234-235 riconoscimento basato sulla familiarità, 234 tendenza a fare congetture, 230 teoria della detezione del segnale, 230-233 teorie a doppio processo, 233-235 vedi anche riconoscimento di facce, riconosci­ mento, test di Riconoscimento, test di, 220, 229-231, 234-235, 244,274-275,368 a scelta forzata, 229 sì/no, 229 Riconoscimento di facce, 400-407 cross-race effect, 406-407 elaborazione olistica, 404-405 prosopoagnosia, 400 traslazione inconscia, 405 verbal overshadowing, 406 Riconoscimento visivo di sé, 348 Riconsolidamento, 120 Ricordi involontari, 196-198 «Ricordo»/«so», procedura, 234,313-314,368-369 Ridondanza del linguaggio, 132 Riduzionismo, 16 Rievocazione guidata {cued recali), 182, 220 libera {free recali), 39-42, 130-131, 219,233 Rimozione {repression), 184, 191-192, 271-272, 280, 300 Ripetizione di mantenimento, 137 e apprendimento, 105-107 elaborar iva, 137 Risonanza magnetica funzionale {functional mag­ netic resonance imaging, fMRI), 29, 144-145, 204-205,282,320 Risonanza magnetica strutturale, 145-146 Risorse, condivisione delle, 87 Ritorno del rimosso, 272,300 Rivastigmina, 383

Schemi, 17, 127, 167-174 disturbi della memoria dei concetti e degli schemi, 172-174

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INDICE ANALITICO

errori e distorsioni, 169,171 nella testimonianza oculare, 390-393 Schizofrenia, 88,203,305 Scripts, 167-168, 172-173 Sé cognitivo, 348-349 operante, 186 percepito, 186 Serial-order-in-a-box model, 50 Significato e memoria, 130-131 Sillabe senza senso, 46, 96, 130 Similarità fonologica, effetto di, 43-44, 49 SIMPLE {scale invariant memory, perception and learning) model, 50 Sindrome da falsi ricordi, 193, 297-299, 301 disesecutiva, 202 ipertimestica, 241 Sinestesia, 441 Sistema attentivo supervisore (SAS), 76-77 nervoso autonomo, 195 Sonno, 117,319-320 Soppressione articolatoria, 43,45, 66, 72-73, 78 Soppressione intenzionale del recupero, 279-283 effetto totale di controllo della memoria (po­ sitivo e negativo), 280-281 meccanismi cerebrali, 282-283 paradigma think!no-think, 280-283 Sovraccarico dei suggerimenti, principio di, 262, 267 Span di cifre, 33-35,43-44, 63-64, 87, 443, 452 di Corsi, 52-53 di memoria di lavoro, 33, 82-83, 85-86, 364 di operazioni, 85-86 visivo, 53 Specificità della codifica, principio di, 214, 355, 409 SQ3R, metodo di studio, 453,455 Stato variabile, ipotesi dello, 47 Stato vegetativo persistente, 321 Stili di apprendimento, 452-453 Strategie di memoria, 338-339,444-452 Stress emotivo estremo (causa di amnesia psico­ gena), 283-284 Studi neuropsicologici memoria a breve termine, 55-56 memoria autobiografica, 201-203 Study Process Questionnaire, 452 Suggerimenti, 210,218-219 contestuali, 218-219 olfattivi, 184-185 vedi anche indipendenza dai suggerimenti, recupero, recupero di ricordi, rievocazio­ ne guidata, sovraccarico dei suggerimenti, principio di

Suggestionabilità, 351-353 Supporto esterno, 366, 368 Taccuino visuo-spaziale, 64-65,71-76 manipolazione di immagini, 72-75 nell’infanzia, 336-337 Tempo alla base del recupero dei ricordi, 284-293 come causa dell'oblio incidentale, 247-248 di reazione seriale, compiti basati sul, 123 ipotesi del tempo totale, 97 -98 modello di condivisione delle risorse su base temporale, 86-87 viaggio mentale nel tempo, 25, 142 Teoria della detezione del segnale, 230-233 sensoriale-funzionale, 161-162 Teorie psicologiche, 15-17 Terapia della reminiscenza, 178, 384 di orientamento alla realtà {reality orientation training), 384 suggestiva, 294, 297-300 Test del DNA, 389,412 di Corsi, 52-53,56 di memoria diretti, 219-220 di memoria indiretti, 220-222 di ripetizione di non parole, 68, 70 Digit Symbol Substitution Test (DSST), 375 Doors and People Test, 313-314,365,368,381 Matrici di Raven, 360 Rivermead Behavioural Memory Test (RBMT), 323-324, 365 Speed and Capacity of Language Processing (SCOLP),371 Testimonianza oculare, 27, 259, 387-417 aspettative, 390-392 attendibilità, 388-400 bambini come testimoni, 350-356 confronti all’americana, 408 differenze individuali, 395-396 domande tendenziose, 392-395 effetti del feedback di conferma, 397 grado di certezza, 396-397 influenza dell’ansia e della violenza, 397-400 interviste ai testimoni, 352-353,409-411 interviste cognitive, 409-411 procedure adottate dalla polizia, 408-411 ricordo di facce, 400-407 test del DNA, 389, 412 testimonianze sospette, 389-390 validità ecologica, 411-416 Testing effect, 454-456 forza di immagazzinamento, 455-456 forza di recupero, 455-456 «The Journal of Memory and Language», 16

INDICE ANALITICO

Think/no-think, paradigma, 280-283 Thinking About Life Experiences (TALE), que­ stionario, 178 Tipicità, gradiente di, 156 Tomografia a emissione di positroni [positron emission tomography, PET), 29, 89, 378 Tracce multiple, ipotesi delle, 121, 319 Transfer-appropriate processing (elaborazione ap­ propriata al trasferimento), 135-136 Trasferimento o generalizzazione delFapprendi­ mento, 164-167 Traslazione inconscia, 405 Trauma cranio-encefalico (TCE), 320-325

Umore memoria congruente, 178, 190, 225-226 memoria dipendente, 226 Velten, tecnica di, 225 Verbatim memory (memoria letterale), 340-342 Viaggio mentale nel tempo, 25, 142 Visual cache, 75-76 Vocabolario, apprendimento del, 458-459 Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS), 33,375 Wechsler Memory Scale (WMS), 324, 325 Wessex Head Injury Matrix Scale (WHIM), 321

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Finito di stampare nel marzo 2020 presso LegoDigit s.r.l - Lavis (TN)