La lingua bugiarda. Possono le parole nascondere i pensieri?

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La lingua bugiarda. Possono le parole nascondere i pensieri?

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«La lingua è data all’uomo perché possa travestire i suoi pensieri» (Talleyrand). «Quando si è detta una bugia, ci vuole buona memoria» (Corneille). «Dio mio! Le lingue degli uomini sono piene di inganni!» (Shakespeare). «Le differenti lingue mostrano che con le parole non si giunge né alla verità, né a un’espressione adeguata» (Nietzsche). «Il linguaggio traveste il pensiero» (Wittgenstein). «Omnis homo mendax» (Salmi).

Harald Weinrich

LA LINGUA BUGIARDA Possono le parole nascondere i pensieri?

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H arald Weinrich

La lingua bugiarda Possono le parole nascondere i pensieri?

il Mulino

I. «M agna quaestio est de m end acio...»

a bugia è nel mondo. È dentro di noi, è intorno a noi. Non possiamo far finta di non vederla. «Omnis homo mendax», re­ cita un verso dei Salmi (116, 11). Possiamo tra­ durre: l’uomo è un essere capace di mentire. Si tratta di una definizione non diversa da quelle secondo cui l’uomo è un essere in grado di pen­ sare, parlare o ridere. Sarà pure una definizione misantropica, ma è inconfutabile. Il misantropo di Molière la sfrutta a buon diritto per odiare l’intero genere umano. La linguistica non può eliminare la bugia dal mondo e non può evitare che «quei bugiardi vessilli» (Goethe) vengano così spesso spiegati1. È anche vero che gli uomini - il più delle volte - attraverso la lingua mentono; non dicono la ve­ rità e per parlare usano la lingua biforcuta. Ma c’è da chiedersi se la lingua li aiuti a mentire. Se lo fa, la linguistica non potrà sottrarsi al «grande

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problema del mentire» (Agostino). Se invece la lingua non aiuta a mentire o se addirittura vi oppone resistenza, la linguistica può comunque descrivere cosa le accade, quando la verità viene volta a bugia. In ogni caso la bugia è affare della linguistica. Agostino, che per primo ha fatto della bugia tema di riflessione filosofica e teologica, è stato anche il primo a coglierne l’aspetto linguistico quando fa notare che il linguaggio è stato senza dubbio istituito non perché gli uomini s’ingannino reciprocamente, ma perché ciascuno porti a conoscenza degli al­ tri i propri pensieri. Perciò usare il linguaggio per mentire, contro il suo fine originario, è pec­ cato (enchir : 7, 22)2.

Tommaso d’Aquino e Bonaventura accol­ gono questa riflessione: le parole sono espres­ sioni del pensiero: è contro la loro natura e con­ tro il pensiero porle al servizio della bugia3. La lingua dovrebbe rivelare i pensieri, non nascon­ derli. Ne va della funzione semiologica della lin­ gua. Si tratta della sua potenzialità più elemen­ tare, ma proprio per questo è quella più fondamentale. La bugia è la sua degenerazione.

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Ma gli uomini, per come sono fatti, usano i segni della lingua sia per il bene che per il male. Così dicono i moralisti. In un esametro dei Disticha Catonis è scritto: «Sermo hominum mores celât et indicai idem» (La lingua nasconde e al tempo stesso rivela i costumi de­ gli uomini)4. Lo scetticismo di queste parole ha fatto scuola. Nel Dialogo tra il cappone e la pollastra Voltaire mette nel becco dei due per­ sonaggi con le ali un duro giudizio sugli uo­ mini: «Si servono del pensiero solo per auto­ rizzare le proprie ingiustizie e fanno uso della parola solo per mascherare i propri pensieri»5. Chi non crede al cappone presterà forse più at­ tenzione al politico Talleyrand. Di lui si narra che nel 1807, in occasione di un colloquio con l’inviato spagnolo Izquierdo, abbia detto: «La parole a été donnée à l’homme pour déguiser sa pensée» (La lingua è data all’uomo perché possa travestire i suoi pensieri). Un detto che è diventato celebre, attribuito anche a Fouché o Metternich. Questo significa che, se non pro­ prio tutti gli uomini nascondono i loro pensieri con la lingua, per i politici e i diplomatici men­ tire fa parte del mestiere. È un’arte. Lo scrit­ tore Hermann Kesten riprende l’idea e, come un ventaglio, la apre:

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Di intere categorie professionali, la gente dà per scontato che inducano i loro rappresentanti a mentire, per esempio i teologi, i politici, le pro­ stitute, i diplomatici, i poeti, i giornalisti, gli av­ vocati, gli artisti, gli attori, i falsari, gli agenti di borsa, i produttori di generi alimentari, i giudici, i medici, i gigolò, i generali, i cuochi, i commer­ cianti di vino6.

C’è sempre stato chi ha ritenuto la lingua corresponsabile, quando gli uomini la usano impropriamente volgendola all’inganno. NelYEnrico V di Shakespeare è scritto, in francese: «O bon Dieu! Les langues des hommes sont pleines de tromperies» (Dio mio! Le lingue de­ gli uomini sono piene di inganni!)7. Forse per­ sino una lingua di più, un’altra di meno. Nel romanzo di Goethe Wilhelm Meister. Gli anni dell’apprendistato, la compagnia si intrattiene a un certo punto sui pro e i contro del teatro fran­ cese. Viene fatto notare che Aurelie non parte­ cipa alla conversazione su questo tema. Cortesemente sollecitata, ne rivela il motivo: odia il francese. Il suo amico infedele le ha tolto questo piacere. Infatti, fintanto che le fu legato, le aveva scritto le sue lettere in tedesco - «e che tedesco: affettuoso, forte, sincero!». Ma, svanito l’amore

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che provava per lei, era passato a scriverle in francese, cosa che prima era capitata solo per scherzo. Questo cambiamento Aurelie lo aveva capito fin troppo bene. Per le reticenze, per i mezzi termini, per le menzogne non c’è lingua più adatta: è una lin­ gua perfida. (...) Il francese è davvero la lingua del mondo degna di essere la lingua universale perché tutti possano mentirsi e ingannarsi a vi­ cenda8.

Quindi, se Aurelie con le sue «bisbetiche tirate» avesse ragione, la lingua tedesca sarebbe incline alla verità e quella francese all’inganno. Bene, questi sono solo degli aneddoti, e come tali li intendevano Shakespeare e Goethe. Potrebbe anche essere, tuttavia, che la lingua sia, come ha già notato Wittgenstein, non un vestito, ma un travestimento del pensiero9. In simile dubbio ci si imbatte spesso. Quando, anni fa, gli studiosi di diverse discipline si ritrovarono per mettere a punto una ricerca sul fenomeno della bugia, anche il linguista Friedrich Kainz venne invitato a contribuire con un’indagine sulle ma­ nifestazioni della bugia nella vita di una lingua. Riallacciandosi ad Agostino, Kainz stabilisce

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innanzitutto che tutte le bugie sono espressioni linguistiche e che, di conseguenza, fanno parte del vasto ambito della lingua10. Esamina poi la lingua per ritrovarvi quegli elementi che hanno a che fare con la bugia, e ne trova così tanti che il lettore non può che restare impressionato. Con lo stesso diritto con cui della lingua si dice che pensa e fa poesia per noi, si può anche dire, secondo Kainz che mente per noi. Egli conia a questo punto l’espressione «seduzione lingui­ stica». Secondo lui, il nostro pensiero si muove su binari linguistici e le bugie della lingua indu­ cono di conseguenza anche il nostro pensiero a mentire. A voler essere esatti, continua Kainz, sono bugie linguistiche molte delle figure reto­ riche come gli eufemismi, le iperboli, le ellissi, le anfibologie, le forme e le formule di cortesia, l’enfasi, l’ironia, le parole tabù, gli antropomor­ fismi, ecc. Secondo lui, alla verità, nella lingua, non resta che uno spazio angusto. Si può sup­ porre che si tratti della frase dichiarativa nuda e cruda, quella tanto amata dalla logica. Povera critica linguistica, toglie dalla lingua tutti i fiori e le foglie, fino a tenere in mano un misero stelo! Al riguardo Agostino si era dimo­ strato un linguista migliore. Egli si è confrontato con la questione nella sua opera Contra menda-

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cium (10, 24), in cui deve riuscire a giustificare il grave inganno che Isacco subisce per opera di Giacobbe, quando questi si arroga il diritto della primogenitura (Gen 27). Senza venir meno a quella che considera una condanna incondi­ zionata della bugia, giunge alla seguente con­ clusione: «non est mendacium, sed mysterium». L’episodio biblico è un mistero, in quanto va inteso in senso allegorico. Giacobbe si copre la mano con una pelle di capretto, non per ingan­ nare il padre, ma come prefigurazione dell’atteso Redentore, che accoglie su di sé i peccati altrui. Per Agostino le allegorie e le tipologie bibliche non sono bugie. Se le si volesse definire tali, si sarebbe costretti a chiamare bugie anche tutte le altre forme di discorso «improprio», tutti i tropi, le immagini e le metafore. Ma questo evidente­ mente è un’assurdità: «quod absit omnino». E dunque, continua Agostino, non basta af­ fermare che la bugia consiste nel dire qualcosa di diverso da ciò che si sa o si pensa. Una defi­ nizione del genere non consente di distinguere la menzogna grave e malvagia dalle forme gio­ cose (ioci) del parlare colto; queste infatti pos­ sono essere intese tutte come allegorie e cioè un «parlar d’altro». La coscienza morale però ci suggerisce diversamente. La menzogna si rea­

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lizza solo nel momento in cui il «parlar d’altro» è accompagnato da una consapevole intenzione di ingannare. Ecco allora la famosa definizione che Agostino dà della menzogna {de mend. 4 ,4 ): «mendacium est enuntiatio cum volúntate falsum enuntiandi» (è menzogna parlare con l’in­ tenzione di dire il falso)11. La scolastica ha fatto propria questa defini­ zione, lasciandola in eredità alla filosofia euro­ pea. I discorsi della filosofia morale riguardano ora solo questioni marginali sulla definizione della bugia. Le bugie necessarie sono permesse? Esiste un «inganno pietoso»? Il fine giustifica i mezzi? Si tratta di capire, se la (cattiva) inten­ zione di ingannare, che - da Agostino in poi fa parte dell’essenza della menzogna, può essere compensata da una qualche buona intenzione, ricollegabile forse alla bugia. Che decidano i filo­ sofi della morale, in questo i linguisti non hanno voce in capitolo. La questione è però se i linguisti, vista la de­ finizione di Agostino, abbiano ancora qualcosa da dire sulla magna quaestio della bugia. La bu­ gia sembra volersi sottrarre alle competenze del linguista. Infatti sono le circostanze a decidere se ima dichiarazione è più o meno falsa. E ci sia o meno intenzione di ingannare, viene deciso

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nell’animo ed è accessibile, se mai lo può essere, solo all’indagine psicologica. Come si vede, nella definizione della bugia fornita da Agostino, i lin­ guisti non hanno letto esattamente un invito ad occuparsi per parte loro di questo fenomeno. Se non per qualche accenno di alcuni outsider, la bugia non trova quindi posto nelle grammatiche o in altri libri di linguistica. Le riflessioni conte­ nute in questo libretto sono dunque un tenta­ tivo di scoprire la bugia come tema linguistico e, per quanto condannabile essa sia, di coglierne perlomeno un lato positivo: la possibilità di rica­ varne informazioni sulla lingua che altri aspetti non forniscono. Può forse anche chiarirci se le parole sono in grado di nascondere i pensieri e in che modo ciò avviene. Sarà però indispen­ sabile a questo punto richiamare alla memoria alcuni fondamenti della linguistica. Ci allonta­ niamo quindi per un breve tratto dal fenomeno per poterlo affrontare più avanti con strumenti di analisi migliori.

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Parola e testo

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i mente con le parole? Si mente con le frasi? E la semantica o la sintassi a do­ versi occupare del fenomeno bugia? Pro­ viamo prima con la semantica e diciamo subito che cos’è propriamente il significato. Se la lingua è un sistema di segni, possiamo tentare di immaginare la seguente situazione: ci sono due persone, una che parla e una che ascolta. Tra i due, poniamo, si stabilisce una co­ municazione linguistica, nel momento in cui chi parla trasmette a chi ascolta il segno lessicale fuoco. Poniamo anche che non ci sia un contesto e immaginiamo questa comunicazione avulsa da qualsiasi situazione reale. Mi permettete di dire subito che la situazione descritta è di natura pu­ ramente fittizia e che vale solo come modello? Infatti, normalmente, per parlare non usiamo parole isolate, ma frasi e testi, e il nostro di­ scorso è calato in una situazione. E mi permet-

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tete anche di dire subito che la semantica, come disciplina, si è quasi sempre basata su questa finzione, prendendo in considerazione solo la parola isolata? Facciamolo anche noi qui, ma solo per un attimo. L’ascoltatore che, secondo il modello comu­ nicativo descritto, ha ricevuto il segno lessicale fuoco, non sa che farsene. Il valore informativo è scarso. Ma in ogni caso qualcosa sa. Dal gran numero di parole possibili in questo processo comunicativo ne è stata estratta una, rendendo così improbabili molti soggetti come possibili temi di conversazione. L’ascoltatore, però, non sa ancora di che tipo di fuoco si tratti. Il fuoco di un fornello o un fuoco di paglia, di un incen­ dio, di una candela, un fuoco che divampa o che cova, un fuoco reale o immaginario. Non sa nep­ pure con certezza se si tratta di un fuoco vero e proprio. Potrebbe trattarsi del fuoco del vino, del fuoco dell’amore o di quello di un fucile. L’ascoltatore coglie il senso della parola fuoco, ma il suo significato è ampio («estensione»). Nel dizionario, la voce fuoco, nelle sue diverse acce­ zioni, rispecchia graficamente l’ampiezza di si­ gnificato di questa parola. Primo principio della semantica: ogni signifi­ cato è ampio.

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Sarà allora mai possibile capirsi se ogni si­ gnificato è per principio ampio? Chi parla vuole magari raccontare di un incendio, e invece l’ascoltatore pensa al fuoco dei fornelli o a qual­ cos’altro. O meglio, non sa ancora a cosa deve pensare. L’atto del suo capire resta in sospeso, in attesa di ulteriori informazioni. Fino a quando non gli arrivano - e questa era già la situazione ipotizzata nel nostro modello - il significato (ampio) del segno lessicale fuoco risulta all’ascol­ tatore vago nei suoi contenuti («intensione»). Secondo principio della semantica: ogni si­ gnificato è vago. Tuttavia non è del tutto inutile, se chi parla affida il segno lessicale fuoco alle onde sonore, dal momento che in questo modo raggiunge gli ascoltatori della sua comunità linguistica. Infatti fuoco ha lo stesso significato (ampio, vago) per tutti loro in quanto membri appunto di una comunità linguistica. Se dispongono del significato della parola, non hanno gran che, ma questo poco è proprietà comune di un grande gruppo. Il che significa che tutto il gruppo ha, nei confronti delle informazioni aggiuntive, più o meno le stesse aspettative. Ciò trasforma il significato della parola in un prodotto sociale.

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Terzo principio della semantica: ogni signifi­ cato è sociale. E adesso sia concessa l’ipotesi, per cui noi, da semplici spettatori, abbiamo dedotto da un qual­ che indizio che chi parla intende un incendio, di cui è stato testimone. Per le sue particolarità, questo incendio è ben descrivibile come evento unico. L’ascoltatore, che dispone solo della pa­ rola fuoco e del suo significato, arriva a conoscere ben poche di tutte quelle particolarità. Con il si­ gnificato (ampio, vago, sociale) gli è fornita solo una scarsa informazione, che grosso modo si può parafrasare usando i tratti «caldo», «ardente». Di tutti gli altri tratti di questo fuoco non viene a co­ noscenza. Con il segno lessicale fuoco viene trac­ ciato un limite di rilevanza fra i tratti semantici di questo particolare fuoco: alcuni di questi (molto pochi) sono considerati rilevanti, gli altri (moltis­ simi, ad libitum) irrilevanti e non accolti nel si­ gnificato della parola. L’insieme dei tratti di un oggetto, individuati come rilevanti da una comu­ nità linguistica; lo chiamiamo «significato». Ora, il processo con cui vengono esaminati i tratti semantici di un oggetto dal punto di vista della rilevanza è un procedimento di astrazione. Il si­ gnificato di una parola ottenuto in questo modo è un astratto. Ciò vale per tutti i significati, non

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solo per parole come verità o democrazia, definite generalmente astratte. Quarto principio della semantica: ogni signi­ ficato è astratto. I quattro principi della semantica sono ov­ viamente collegati fra loro, sono solo quattro aspetti di una stessa questione. È perché i si­ gnificati delle parole sono ampi che sono vaghi. (Estensione e intensione dei significati sono in­ versamente proporzionali.) Ma in quanto vaghi, i significati sono utilizzabili in un gruppo sociale. Tuttavia lo sono solo perché sono astratti. Così il significato delle parole è al tempo stesso ricco e povero. Quale povertà di informazione nella parola fiore, quale ricchezza di caratteristiche in ogni singolo fiore! Ma al contrario: che limi­ tatezza nel singolo oggetto, che forza evocativa nella parola! Mallarmé lo sapeva: Je dis: une fleur! Et, hors de l’oubli où ma voix relègue aucun contour, en tant que quelque chose d’autre que les calices sus, musicalement se lève, idée même et suave, l’absente de tous les bouquets.

(Io dico: un fiore! e fuori dall’oblio ove la mia voce relega ogni contorno, in quanto qualcosa

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d’altro che i calici saputi, musicalmente si leva, idea ridente o altera, l’assente da ogni mazzo)1. Il fiore come parola, che non si può trovare in nessun mazzo, è superiore a ogni fiore reale in quanto contiene più mistero. Nella confessione di Mallarmé c’è però an­ che una parola che allarma. E la parola idea. Qualsiasi studioso di semantica avvertirebbe che ci si è avvicinati alla teoria delle idee di Platone. I significati come forme ampie, vaghe, sociali e astratte assomigliano effettivamente in modo sospetto alle idee di Platone, di certo con la differenza che per ogni comunità lingui­ stica si deve pensare un regno delle idee o dei significati, un «cielo concettuale» (Begriffshim­ mel), secondo Nietzsche, o un «mondo lingui­ stico intermedio» (sprachliche Zwischenwelt), secondo Weisgerber2. Ma così non si aiuta né Platone, né la semantica. Allora, per sfuggire alla, ahimè, compromettente vicinanza di Pla­ tone e seguendo l’inclinazione scettica della semantica e della filosofia moderna del lin­ guaggio, dobbiamo abbandonare del tutto il concetto di significato? Paul Valéry, che sulle orme di Mallarmé ha riflettuto molto sulle que­ stioni della semantica, considera questa possi­ bilità nei suoi Quaderni e intorno al 1900-1901

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annota: «Le sens d’un mot n’existe que dans chaque emploi particulier» (Il significato di una parola esiste solo in ogni suo particolare uso)3. Più nota è l’osservazione che fa Ludwig Witt­ genstein nelle sue Ricerche filosofiche (cito per esteso, perché l’importante precisazione spesso non viene colta): Per una grande classe di casi - anche se non per tutti i casi - in cui ce ne serviamo, la parola «si­ gnificato» si può definire così: Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio4. Qui non daremo ragione né a Valéry, né a Wittgenstein, né lasceremo la semantica in ba­ lìa della teoria delle idee di Platone. Dalla tesi e dall’antitesi trarremo invece una sintesi e svilup­ peremo le riflessioni precedenti trasformandole nei principi di una semantica testuale. Lasciamo dunque da parte - sarebbe ora! - il modello pre­ sentato sin qui. Liberiamo la parola dal suo iso­ lamento, collochiamola nel quadro del suo con­ testo e con ciò in una situazione reale. È così che normalmente incontriamo le parole. Non è que­ sto il caso del dizionario, che rappresenta un’ec­ cezione, non la regola. E un buon dizionario, se proprio non riesce a definire la situazione, for-

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nisce almeno le parole di quel minimo contesto, cioè le frasi esemplificative. Le parole devono stare dunque nelle frasi, nei testi e nelle situazioni. Se si vuole capire cos’è una parola e come si comporta con il suo significato bisogna tenerne conto, altrimenti si passa da un’aporia all’altra. I quattro principi della semantica che abbiamo annotato defini­ scono quindi solo la metà della semantica. Val­ gono solo per il modello poco più che fittizio di una comunicazione per mezzo di parole isolate, senza un contesto e una situazione. Non val­ gono per le parole come tali e soprattutto non valgono per le parole come noi le usiamo di so­ lito, cioè nel testo (orale o scritto). La seman­ tica delle parole usate in un testo è compietamente diversa dalla semantica di singole parole isolate e la semantica delle parole va integrata in una semantica del testo. La vecchia, seman­ tica consisteva in larga misura in una semantica della parola; per tutto ciò che non era territorio della parola e sconfinava verso la frase, riman­ dava alla sintassi. Ma la sintassi è un’altra cosa. Inizia solo dopo la semantica testuale. Per i quattro principi appena citati, la se­ mantica testuale dispone di quattro corollari, ugualmente importanti. Li si può capire ca­

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landosi in una qualunque situazione di vita reale. A questo punto chi parla si trova pro­ babilmente in un dilemma. Vuole informare l ’ascoltatore di un incendio determinato e specifico, che egli considera importante e de­ gno di segnalazione; a disposizione ha solo pa­ role fornite di significati ampi, vaghi, sociali e astratti. Quel che ancora può nascondersi nel significato fuoco, non lo interessa affatto, non è quello che intende. Mentre si serve del si­ gnificato lessicale, egli dispone dunque di un significato testuale diverso dal primo. Questo significato testuale non è ampio, è ben deli­ mitato. Infatti mira a quell’oggetto, a quell’in­ cendio, di cui il parlante vuole riferire. Il si­ gnificato testuale non è neppure vago, è ben preciso. E non è sociale, è individuale, è ciò che egli vuole dire hic et nunc. E infine non è astratto, è concreto. Infatti, nel significato te­ stuale del parlante, nessuno dei molti tratti se­ mantici di questo incendio viene sacrificato a favore di qualche punto di vista degno di rile­ vanza. Ogni significato testuale, così possiamo riassumere i quattro corollari della semantica, è dunque circoscritto, preciso, individuale e concreto. E chiaro che anche questi quattro corollari vanno considerati nel loro insieme e

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riferiti l’uno all’altro, come i quattro principi della semantica elementare. Significato lessicale e significato testuale sono i due concetti basilari della semantica. Tutto quello che c ’è da dire sulla semantica gravita intorno a questi due poli. E solo quello che al tempo stesso si riferisce ai due poli, me­ rita il nome di semantica. Finora nella nostra descrizione siamo partiti dal polo del signifi­ cato lessicale e abbiamo puntato verso il polo del significato testuale. In una descrizione che fosse però più orientata verso l’acquisizione della lingua, si procederebbe in senso contra­ rio. La lingua si acquisisce attraverso frasi e te­ sti. All’inizio si hanno solo significati testuali, dapprima pochi, poi, con la pratica, molti, de­ rivati tutti dalle frasi sentite o di cui ci si ri­ corda. Non si hanno però solo significati te­ stuali, ma è da questi - si tratta qui di un’ipo­ tesi vera e propria - che si ricava il significato lessicale. In questo modo si acquisisce l’altro polo semantico e viene appresa la parola. Ora la si può usare. Nel suo impiego in frasi pro­ prie l’ipotetico significato lessicale viene poi costantemente corretto. È interessante come noi, parlanti di una lingua, mettiamo in atto tutti i giorni il gioco delle ipotesi, della sua ve­

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rifica e della sua falsificazione, lo stesso gioco su cui sono imperniati tanti studi scientifici. La lingua è appunto per la sua struttura una scienza prescientifica5. Torno al dilemma del parlante, che ha un’in­ tenzione (o significato testuale nel senso appena indicato) e deve però servirsi delle parole con il loro significato lessicale. Per Voltaire il dilemma si pone nel modo seguente. Noi disponiamo, scrive nel suo Dizionario filosofico, delle parole amore e odio. Ma l’amore e l’odio hanno mille forme. Come riuscire a rendere giustizia a tutte le sfumature! Voltaire giunge alla conclusione pessimistica per cui tutte le lingue sono incom­ plete, come incompleti siamo noi uomini. Na­ thalie Sarraute ha le stesse esitazioni, o meglio l’io narrante del romanzo Ritratto d’ignoto a un certo punto parla del grande amore del principe Bolkonskij in Guerra e pace di Tolstoj ed è avvi­ lito dal dover definire i sentimenti del principe con la parola amore: « ... sempre queste parole brutali che colpiscono come mazzate»6. No, questa non è semantica. Certo, niente è più multiforme dell’amore; lo sanno tutti. È altrettanto certo che esiste solo quella parola amore. Ma questo non è un buon motivo per rimproverare alle lingue di non essere perfette.

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Infatti per l’amore dalle mille forme non esiste solo la parola amore, ma esistono anche mille frasi sull’amore. E mentre il significato lessicale della parola amore è sempre uguale, quello te­ stuale è diverso in ogni frase. Difficilmente ce ne saranno due uguali. La frase è il ponte tra il significato lessicale e quello testuale. La frase, insieme al contesto restante e alla situazione di contorno limita il significato lessicale (ampio, vago, sociale, astratto) al significato testuale (circoscritto, preciso, individuale, concreto). Quando sentiamo una parola isolata, la mente può spaziare per l’intera orbita dei significati. Quando sentiamo la parola nel testo, ciò non è più possibile. Il contesto definisce. Fissa cioè il significato. Le parole del testo si delimitano a vicenda e si racchiudono in un modo che è tanto più efficace quanto più completo è il te­ sto. Consideriamo come contesto della parola fuoco un esempio tratto da una fiaba dei fratelli Grimm: «Ora sì che il soldato si guardò intorno per bene, vide i paioli sparsi per l’Inferno con sotto un gran fuoco e dentro tutto un ribollire e friggere»7. La nostra parola si trova qui in una frase, e il contesto delle altre parole riduce il suo significato lessicale a quello testuale della fiaba. Non è difficile vedere come ciò avviene. Il com­

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plemento per l'Inferno esclude altri tipi di fuoco che non siano infernali; l’aggettivo gran esclude tutti i tipi di fuoco che non siano grandi, e così anche le altre parole della frase fanno sì che la parola fuoco venga definita nel modo più esatto possibile. Quel che resta è circoscritto, preciso, indi­ viduale e concreto: è il significato testuale che i fratelli Grimm conferiscono a questo inconfon­ dibile passaggio della fiaba Del diavolo il fulig­ ginoso fratello. Non importa se la precisione del discorso non continua e se non ricaviamo altri dettagli di quel fuoco. La precisione ha eviden­ temente raggiunto la misura richiesta dalla capa­ cità di immaginazione dei lettori di fiabe, adulti o bambini. Non va dimenticato che il testo del­ l’intera fiaba contribuisce al processo di deter­ minazione. Si vede comunque come il contesto formi il suo significato testuale dal significato lessicale di una parola. Ritaglia, per così dire, dal vasto si­ gnificato, quelle parti non conciliabili con i signi­ ficati attigui contenuti nella frase. Quel che re­ sta, dopo tutti i tagli, è il significato testuale. De­ finiamo questo procedimento determinazione e ricordiamo la vecchia massima di Spinoza: «De­ terminado negado est»8. E chiaro che vengono

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determinate anche le parole contigue. Paiolo de­ termina fuoco, e fuoco determina paiolo. Non c’è bisogno di ricorrere qui a particolari costrutti logici. Solo per il fatto di stare una accanto al­ l’altra, due parole si determinano a vicenda. Ma nella maggior parte delle frasi utilizziamo anche parole funzionali (preposizioni, congiunzioni, ecc.) con il compito di determinare. Un testo è quindi qualcosa di più di una serie di parole e trasmette (diversamente dal dizionario) qualcosa di più di un cumulo di significati lessicali. Alla somma delle parole aggiunge la determinazione; o meglio: dalla somma dei significati lessicali to­ glie qualcosa - il più - e definisce così un senso. Il senso è il risultato tra il «più» dei significati lessicali e il «meno» delle determinazioni. La vecchia disputa, se sia nata prima la pa­ rola o il testo (la frase), è dunque superflua. In principio è sempre stata la parola nel testo. E se mai esiste un’interpretazione primaria del mondo attraverso le parole delle singole lingue, nel testo viene sempre superata. Non siamo schiavi delle parole, perché siamo padroni dei testi. Anche la frequente lamentela che le lingue sono fondamentalmente intraducibili, è superflua. Si dice che la parola tedesca Gemüt si sottrae alla

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traduzione così come la parola francese esprit o la parola anglo-americana business. Argomentazioni dilettantesche di questo tipo sono, oltre che inu­ tili, irritanti. Anche le parole Feuer, rue, car sono intraducibili. Nessuna parola è traducibile. Gene­ ralmente, infatti, non dobbiamo tradurre parole. Dobbiamo tradurre frasi e testi. Non importa se i significati lessicali delle parole di solito non coin­ cidono nelle diverse lingue. Tanto nel testo sono importanti i significati testuali e quelli si possono sempre adattare, basta solo sistemare opportuna­ mente il contesto. In linea di principio i testi sono dunque traducibili. Ma allora le traduzioni men­ tono? Ci si può attenere a questa regola: le parole tradotte mentono sempre, i testi tradotti mentono solo se sono tradotti male.

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III. Parola e concetto

a critica linguistica è vecchia quanto la ri­ flessione sulla lingua. Essa afferma che la lingua si trova sempre e necessariamente indietro rispetto al pensiero. Infatti il pensiero mira a una verità, invece le parole appartengono alle diverse lingue e nel migliore dei casi ci con­ ducono a una verità tedesca, italiana, francese, mai alla verità. «Rem tene, verba sequentur», consigliava già il vecchio Catone (letteralmente: . tieni ferma la cosa, le parole seguiranno)1, e così molti dopo di lui hanno consigliato di badare più alle cose che alle parole. Persino la lingui­ stica ha cercato di prendersi a cuore questo suggerimento. «Parole e cose»: questa è la for­ mula di un metodo linguistico, che sembrava prestarsi particolarmente bene alla descrizione dei dialetti. «Meno parole, più cose», così va letta la formula. Il dialettologo era più sicuro dell’aratro come cosa che non delle diverse pa-

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role con le quali la stessa cosa è definita nei sin­ goli dialetti. Da qui si sviluppò un settore a sé della linguistica, la cosiddetta scienza delle de­ nominazioni (l’onomasiologia). Il suo principio metodologico è indagare sulle parole partendo dalle cose. Le cose vengono per prime, le parole per seconde. Con l’onomasiologia la linguistica ha perso la propria bussola. L’onomasiologia ha però recuperato solo nell’ambito degli oggetti concreti quello che nel mondo del pensiero era già evidente da tempo, cioè un complesso di inferiorità della linguistica rispetto alle altre scienze umane e naturali, ma soprattutto rispetto alla logica e alla matematica. In effetti i linguisti non giudicavano chic badare più alle parole che ai pensieri. Cosa sono del re­ sto le parole? Nietzsche scrive: Le differenti lingue poste l’un l’altra accanto mostrano che con le parole non si giunge né alla verità, né a un’espressione adeguata: perché al­ trimenti non ci sarebbero così tante lingue2.

E cosa sono del resto le lingue? Le chiamano lingue naturali e lo sono, come sono naturali i figli naturali. Si può dire anche illegittimi. Se si vuole sfuggire all’inganno delle lingue naturali,

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vi si deve rinunciare creandone di artificiali. Così procede la logica e così procede la matematica. Condillac dice chiaramente in che cosa riporre le speranze: «L’algebra è una lingua ben fatta, ed è la sola: nulla in lei è lasciato al caso»3. L’uso di una lingua artificiale da parte della logica e della matematica è divenuto così naturale da provo­ care massimo stupore quando un logicò o un matematico vi rinunciano per fini divulgativi. Dietro a tutto ciò c’è la chiara convinzione, così diffusa nel mondo della scienza, che le pa­ role sono rivestimenti difettosi dei pensieri, vecchi costumi nazionali. E meglio dismetterli, sono solo d’impiccio. Tenere ferme le cose, per­ ché poi le parole si sistemano da sé: questa mas­ sima vale anche quando la cosa è un concetto. Se ogni tanto la linguistica afferma che è venuto il tempo di creare dei dizionari dei concetti, in cui le parole vengono ordinate solo nei settori predisposti di un sistema concettuale generale, questa non è altro che la conseguenza metodica dovuta a una scarsa risolutezza della linguistica che ha radici lontane. Le lingue naturali, però, non devono vergo­ gnarsi della loro natura. In esse non c’è meno verità che nella lingua della logica e della mate­ matica. Lo si vede subito quando si misurano le

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lingue con il loro metro, non con un metro preso dalle lingue speciali di altre scienze. Per il solo fatto che noi non parliamo mai con parole iso­ late, ma con frasi e testi, le parole non alterano il pensiero. Se dunque le parole devono essere pa­ ragonate ai concetti, si deve pretendere che que­ sto avvenga in condizioni adeguate, cioè nei testi. A quel punto infatti la mistica dei concetti va in fumo. Ma che cosa sono i concetti? Innanzitutto i concetti non sono niente di speciale. Li incon­ triamo tutti i giorni e li usiamo in numerose si­ tuazioni. Chi è malato incontra il concetto di «febbre», chi è in tribunale ha a che fare con il concetto di «giuramento» e chi si occupa di chimica ha familiarità con il concetto di «cataliz­ zatore». Luogo dei concetti è principalmente il linguaggio delle scienze. È ora diffusa l’opinione secondo la quale è del tutto irrilevante che i con­ cetti vengano qui denominati con le tre parole italiane febbre, giuramento e catalizzatore; altret­ tanto bene li si può denominare con le parole inglesi fever, oath, catalyst, o con le parole fran­ cesi fièvre, serment, catalyseur. Come i dialetto­ logi, indicando l’aratro, scovano diverse parole, così gli studiosi possono indicare i loro concetti e scovarne le denominazioni nelle diverse lin­

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gue. Che poi esistano diverse denominazioni per quell’unico concetto sarebbe un male che ori­ gina possibili equivoci. Inoltre, ciò è considerato principalmente fonte di errori della scienza. La scienza ha quindi interesse a normare, il più pos­ sibile, le denominazioni dei propri concetti nelle singole lingue. Lo fa elevando al rango di parole nórmate neutre le parole del greco o del latino, raccomandandone l’uso nelle singole lingue per la denominazione di concetti scientifici. E così che per esempio le parole febbre, fever, fièvre, come anche catalizzatore, catalyst, catalyseur si assomigliano nella loro forma fonetica. Certo, sarebbe meglio, così si sente dire, se le deno­ minazioni fossero del tutto uguali, così come è uguale dappertutto il segno x della lingua della matematica. Ma è dai tempi di Babele che gli idiomi sono diversi e bisogna comunque con­ frontarsi con l’imperfezione delle lingue naturali quale condicio humana. Le commissioni per la normazione sono ovunque al lavoro per ridurne gli effetti fastidiosi. Pur se spesso ripetuti, questi argomenti non rappresentano dei seri ostacoli alla verità delle lin­ gue. Tutto ciò non è davvero un buon motivo per vedere nei concetti della scienza qualcosa di parti­ colare, a cui le parole delle singole lingue aspirino,

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come si trattasse di un idolo irraggiungibile. Non esistono concetti come apriori delle singole lingue. I concetti sono piuttosto nient’altro che parole, e con ciò si vuol dire: parole di una tale o talaltra lin­ gua. Ma sono parole i cui significati sono predispo­ sti in modo particolare. Osserveremo ora più da vicino come dò accade. Ci serviranno d’esempio la parola e il concetto febbre. Questa parola della lingua italiana non è fatta per essere usata unicamente da sola. Trova il suo uso normale nei testi. Può trattarsi di una frase in cui si parla di una «ricerca febbrile». Qui, così come in tutti i testi, il significato lessicale della parola febbre è determinato dal contesto secondo un certo significato testuale. Il medico a questo punto dirà: ma cosa c’entra con la febbre! Questo non è il concetto medico di febbre come lo si usa accanto al letto di un malato. Se poi si domanda a quel medico da quali tratti sia caratterizzato il concetto di febbre, dal momento che la ricerca febbrile non va assolutamente presa in conside­ razione, egli dirà: si parla di febbre solo ed esclu­ sivamente quando la temperatura del corpo su­ pera i 37 °C. Una simile risposta soddisferebbe anche lo studioso di semantica. Gli dà conferma infatti di ciò che vuol vedere confermato per tutte le parole, ovvero che esse compaiono in genere

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nei contesti delle frasi. Anche le definizioni sono frasi. Poiché dunque i concetti della scienza ven­ gono formati attraverso definizioni e solo attra­ verso definizioni, lo studioso di semantica ne de­ duce in primo luogo che i concetti nascono dalle frasi e solo attraverso i loro contesti. I concetti, dunque, sono di competenza della semantica del testo, e non della semantica della parola. La defi­ nizione è il contesto che fa il concetto. I concetti non hanno lo status semantico di parole isolate, ma di parole nel testo. Ne risulta che queste ultime non hanno più un significato lessicale (ampio, vago, sociale, astratto), hanno acquisito un significato testuale (circoscritto, preciso, individuale, concreto). Ciò vale anche per i concetti. Tuttavia con un’impor­ tante restrizione, che deriva dalla natura della definizione. Esistono molte forme di definizione, non ce ne occuperemo però in questa sede4. Da un punto vista semantico, però, quel che acco­ muna tutte le definizioni è che esse hanno un te­ sto relativamente breve. Di solito si tratta di un enunciato, come per esempio: «la febbre è una temperatura corporea oltre i 37 °C». Questo è il solo enunciato rilevante per lo status della pa­ rola italiana febbre quale concetto della scienza medica. Di fronte a ciò, tutti gli altri contesti e

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situazioni, in cui può venire usato il concetto, sono irrilevanti. Nelle parole della quotidianità è invece importante l’intero e complesso conte­ sto situazionale. Si desidera esprimersi in modo chiaro e far capire concretamente al proprio in­ terlocutore quel che deve sapere. E sufficiente che io trasferisca la parola febbre in una conver­ sazione e che la collochi in una situazione chiara; con il contesto e la situazione ricaverò una pre­ cisa determinazione del suo significato lessicale in funzione del significato testuale. Rispetto alla precisione di una parola deter­ minata completamente dal contesto e dalla situa­ zione, la precisione di un qualsiasi concetto, anche di quello più esatto nel campo delle scienze natu­ rali, resta molto approssimativo. I concetti sono parole determinate solo in modo incompleto. Si verifica anche una determinazione del significato lessicale che va verso quello testuale, ma solo in mi­ sura limitata. Infatti il contesto determinante è re­ lativamente piccolo e una situazione determinante è esclusa per definitionem. Il concetto è quindi una parola che resta sospesa tra il polo del signi­ ficato lessicale e il polo del significato testuale. Il suo valore concettuale non è nitido né sfocato, ma ha esattamente quel grado di nitidezza o sfocatura adatto all’uso scientifico richiesto.

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Tra il polo del significato lessicale e quello del significato testuale esiste infatti una scala semantica che spazia dal valore ampio a quello circoscritto, dal vago al preciso, dal sociale al­ l’individuale, dall’astratto al concreto. Il conte­ sto e la situazione sono i regolatori con i quali possiamo definire su questa scala qualsiasi va­ lore semantico. Le conversazioni della quoti­ dianità, nelle quali è rilevabile spesso una forte partecipazione delle determinanti situazionali, si collocano in genere presso il polo del signi­ ficato testuale o comunque nelle sue imme­ diate vicinanze. Anche i nomi propri si trovano molto vicino al polo del significato testuale e hanno quindi una grande forza determinante. Le parole nei titoli dei libri, che sono prive di determinanti situazionali e dispongono di un contesto nullo o solo esiguo, si collocano in­ vece presso il polo del significato lessicale, o comunque molto vicino. (Solo la lettura del libro fornisce infatti la determinazione conte­ stuale mancante risolvendo l’enigma del titolo.) A seconda del tipo e della qualità della defi­ nizione, i concetti si collocano quindi in qual­ che punto a metà di questa scala semantica, spesso più vicino al polo del significato lessi­ cale che non a quello del significato testuale.

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Non devono infatti coincidere solo con un caso individuale, concreto, preciso e circoscritto, ma essere applicabili ai rispettivi campi della scienza. Il bambino malato che dice al suo me­ dico: «Ho una gran brutta febbre», dà a que­ sta parola, mediante il contesto e la situazione, quel significato testuale così preciso quale il concetto febbre non potrà e, soprattutto, non dovrà mai avere in una trattazione scientifica se deve restare un termine scientifico generico: Nel caso particolare del nostro bambino ma­ lato, può darsi poi che questo concetto venga ulteriormente determinato, per esempio grazie all’anamnesi, slittando così verso il polo del si­ gnificato testuale, ma per il carattere concet­ tuale della parola febbre la cosa è irrilevante. I concetti non si trovano quindi prima della lingua, in un qualche imprecisato pensiero li­ bero dal linguaggio, ma nella lingua stessa, più precisamente: nella singola lingua, ancora più precisamente: nelle frasi di questa lingua. Sono più precisi delle parole isolate, più imprecisi spesso - delle parole di uso quotidiano nei testi e nelle situazioni. La loro precisione media ha dato buoni risultati nelle scienze. Ma i concetti non hanno forse un valore di scambio che supera i confini delle singole lin­

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gue? Come si concilia questo con il fatto che sono comunque parole delle singole lingue? Si concilia perfettamente se, per le troppe parole, non ci si dimentica del testo. La parola italiana febbre ha un significato, la parola inglese fever ne ha un altro e quella francese fièvre un altro ancora. Per lo scambio intellettuale in ambito scientifico, che avviene essenzialmente a livello transnazionale, si tratterebbe di una difficoltà insormontabile, se gli scienziati dovessero co­ municare per parole isolate. Parlano invece per frasi, e con i loro contesti hanno per for­ tuna la possibilità di regolare i diversi signifi­ cati delle parole febbre, fever, fièvre su una scala semantica normata in modo tale che il valore registrato sia uguale in tutte le lingue. Lo stesso avviene con la definizione, che da un punto di vista semantico può essere recepita come un contesto normato e normalizzato per una pa­ rola. Le parole italiane, inglesi, francesi possono pure essere diverse: come concetti, cioè parzial­ mente determinate dai brevi contesti normativi delle definizioni, sono identiche. Non smettono di essere parole nelle proprie lingue, ma per de­ terminati contesti sono vincolate e hanno a quel pùnto lo stesso valore concettuale. A questo mi riferivo all’inizio quando ho detto che i concetti

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non sono niente di speciale. Non sono più vicini alla verità di altre parole. Non rivelano i pen­ sieri meglio di altre parole. Non hanno niente in più rispetto alle altre parole, se non la loro convenienza a essere usati nella comunicazione scientifica internazionale. Ma neppure hanno qualcosa in meno. L’af­ fermazione di Spengler che «i concetti uccidono l’essere»5 è sbagliata quanto l’affermazione com­ plementare «le parole travestono il pensiero».

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IV. L e parole possono m en tire?

«S

uo marito è morto e la fa salutare»1. Questa notizia che Mefistofele porta alla signora Marta Schwerdtlein nel Faust di Goethe è una bugia. Mefistofele non sa se il signor Schwerdtlein sia morto o meno, e in ogni caso non è incaricato di portare i suoi sa­ luti. La maggior parte delle bugie sono di que­ sto tipo. Sono frasi. Non c’è dubbio che con le frasi si possa mentire. Ma si può mentire anche con le parole? Non intendo qui la situazione in cui per esem­ pio Mefistofele, alfa domanda o a uno sguardo interrogativo della signora Marta, dicesse solo: «morto». In una situazione del genere, deter­ minato dal contesto del dialogo, il significato lessicale della parola morto è chiaramente circoscritto. Non può sorgere alcun dubbio che dal­ l’ampio spettro dei significati della parola morto sia qui valido quello testuale, che si riferisce al

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decesso del lontano signor Schwerdtlein. An­ che il significato lessicale è determinato in fun­ zione del significato testuale, come nella frase che Goethe ha effettivamente scritto come verso della sua tragedia. La questione è piuttosto se le parole, prese di per sé, possano mentire, se una bugia possa ri­ manere addosso al significato lessicale come tale. Spesso infatti si pensa così. Ecco tre esempi. Tra le «cinque difficoltà per chi scrive la verità» che Bertolt Brecht ha descritto nel 1934 perché fos­ sero diffuse nella Germania di Hitler, c’è anche la difficoltà che scaturisce dal «marcio mistici­ smo» delle parole. In quel contesto si legge l’in­ dimenticabile frase: «Chi al giorno d’oggi invece di popolo dice popolazione e invece di suolo dice proprietà fondiaria, già evita di dar credito a pa­ recchie menzogne»2. Gli esempi sono natural­ mente sostituibili, dato che la nostra epoca non è più quella di Brecht. Nel 1964, in un’inchiesta collegata a Brecht, lo scrittore Stefan Andres ri­ prende, pur semplificandolo, il suo pensiero e scrive: A proposito: anche la parola verità, come la li­ bertà, la giustizia, la tolleranza, l’onore e tante altre, viaggia sotto la bandiera della quarantena;

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questi concetti sono completamente infettati dal­ l’ideologia, dal pragmatismo e da bugie di con­ venienza di tutti i tipi3.

Il critico Reinhard Baumgart, intervenendo nella stessa inchiesta, esprime i medesimi timori proprio per la parola verità. Dice infatti: «La pa­ rola stessa, temo, resta sbilenca, tendeverso il contrario di quel che vorrebbe significare: verso la bugia»4. E il sociologo Eugen Rosenstock Huessy ci fornisce poi la parola chiave che ci si può aspettare in questo contesto. Egli accusa lo spirito del tempo di aver generato bugie, sotto­ mettendoci con i suoi falsi slogan5. Mai gli slogan hanno dominato la scena con più spavalderia che sotto il regime di Hitler. Per questo la lingua tedesca è diventata una lingua bugiarda? Le sue parole si sono disumanizzate? O sono state semplicemente collaborazioniste? O sono rimaste incontaminate? Non c’è dubbio che le parole con cui si è mentito molto divengano esse stesse false. Ciò vale per parole che in tedesco hanno originaria­ mente un significato innocente o godono addirit­ tura di buona fama, parole come Weltanschauung («visione del mondo», coniata da Kant), Lebens­ raum («spazio vitale», attestata in Goethe) e

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persino Endlösung («soluzione finale»). Ma an­ che queste parole sono comunque state inserite, senza poterci far nulla, nell’ingranaggio di questo «movimento», cosicché ancora oggi non possono essere usate se non sotto forma di citazioni (come qui). Se ciò avverrà per un tempo imprecisato o per un lungo tempo, non si può stabilirlo con certezza. La cosa migliore è non tentare nem­ meno di darsi pena per ripulirle della sporcizia o del sangue che vi si sono incollati, bensì espel­ lerle dall’uso. Ma com’è possibile che le parole riescano a mentire? Mentono anche le parole tavolo, fuoco e pietrai Certo è che i tiranni che anno dopo anno ci hanno mentito hanno usato anche queste stesse parole. Anche a questo proposito non si può fare a meno di una semantica affidabile6. Non tutte le parole sono infatti in grado di mentire. E non accade neppure, come sembrerebbe a una visione superficiale, che le parole astratte siano in grado di mentire e quelle concrete invece no. Il confine semantico tra le parole che sono in grado di men­ tire e quelle che non sono in grado di farlo corre altrove. Diamo uno sguardo a due parole tedesche con le quali si è molto mentito. Si tratta di Blut (san­ gue) e Boden (suolo). Entrambe possono essere

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usate oggi con la stessa disinvoltura di sempre. Sono parole che non ci mentono, con cui non mentiamo. Ma nessun tedesco potrà più usarle abbinate. Blut und Boden può essere usato solo per mentire, così come hanno fatto i nazisti con questo costrutto ideologico. Dipende forse dalla parolina und? No, und è una parolina del tutto innocente. Dipende dal fatto che le due parole Blut e Boden, affiancate, si contestualizzano a vi­ cenda. Il contesto und Boden determina il signi­ ficato di Blut in senso nazista, e lo stesso accade con il significato di Boden, che viene determi­ nato in senso nazista dal contesto Blut und. Il parlante non si trova più prossimo al polo del si­ gnificato lessicale, ma, attraverso il contesto, ha scelto un valore sulla scala semantica chè si trova tra il polo lessicale e quello testuale, più o meno lì dove si trova anche il valore dei concetti. Ebbene, questo vale in generale. Le parole pensate senza alcuna determinazione contestuale o memorizzata non possono mentire. Ma basta un piccolo contesto, per esempio un costrutto con una e, ed ecco che le parole possono men­ tire. I concetti sono di natura tale che, per po­ ter esistere, hanno bisogno di un contesto. Senza definizione contestuale non c’è concetto. Ed esi­ stono solo fino a quando questo contesto, que­

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sta definizione, sono noti. Non importa che il contesto definitorio venga citato ogni volta che si menziona il concetto. Spesso è superfluo, spe­ cialmente quando il concetto è usato nell’ambito di espressioni scientifiche riconosciute. In un ambito del genere, fa parte delle regole del gioco che le definizioni siano note e riconosciute. Non è quindi necessario menzionarle ogni volta: la determinazione del significato lessicale, cioè la sua restrizione al significato concettuale, per­ mane. I concetti possono quindi mentire anche quando si trovano da soli. Infatti solo in appa­ renza stanno da soli. Dietro di essi è implicita­ mente presente un contesto normativo: la defini­ zione. Le parole che mentono sono quasi sempre concetti che mentono. Fanno parte di un sistema concettuale e sono collocabili in un’ideologia. Diventano falsi quando l’ideologia e le sue dot­ trine mentono.

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V. P ensare

el Cerchio di gesso del Caucaso di Ber­ tolt Brecht, la moglie del governatore (la madre cattiva) dice a un certo punto: «Io amo il popolo, la sua mentalità semplice e sincera». Si tratta di una bugia. Lo deduciamo dalle contraddizioni nel contesto che segue. La moglie del governatore viene condotta nell’aula del tribunale, dove indietreggia di colpo per l’odore della povera gente. Completa l’afferma­ zione di poco prima dicendo: «È solo l’odore che mi fa venire l’emicrania». Si volge poi verso Grusa, che più tardi dimostrerà nel cerchio di gesso di essere la madre buona. «E questa la femmina?»1, chiede. Non è questo il modo di porre le domande, se si ama il popolo e le sue idee semplici e sincere. Esaminiamo questa bugia servendoci della definizione che ne dà Agostino. Si tratta chiara­ mente di un’affermazione falsa (enuntiatio falsa).

N

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Come dobbiamo regolarci con l’intenzione d’in­ gannare (voluntas {attendi)? Non potrebbe es­ sere che la moglie del governatore si sia sbagliata su se stessa e pensi davvero di amare il popolo? Da cosa possiamo davvero dedurre che ci sia l’intenzione di ingannare? In che modo è possi­ bile leggere nel cuore di questa donna? In effetti non possiamo leggere nel suo cuore e non si può escludere con piena certezza la pos­ sibilità di un autoinganno, a meno che chi mente non confessi sotto il peso delle prove: «Ho men­ tito». La moglie del governatore non rende una confessione di questo tipo e al giudice, così come a noi, spettatori di questa scena, resta il compito di raccogliere gli indizi e le prove e giungere alla sentenza: «Ha mentito». Questa sentenza non cancella comunque le parole della moglie del go­ vernatore, non è come se non avesse detto nulla. Non che si riapra la questione se la donna ami o no il popolo. Sappiamo invece definitivamente che non ama il popolo. Infatti, se avesse detto la verità e non avesse mentito, avrebbe dovuto pronunciare esattamente queste parole: «No« amo il popolo (con le sue idee semplici e sin­ cere)». Questa frase è rimasta taciuta. Il nostro giudizio, secondo cui la frase detta è una bugia e come tale è da condannare, è legato all’ipotesi

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che nel cuore della moglie del governatore sia esistita quella frase non proferita, esattamente quella frase e nessun’altra. Senza questa ipotesi non si può parlare assolutamente di bugia e nes­ sun tribunale al mondo potrà mai distinguere il vero dal falso. A questo punto vale la pena di fermarsi un attimo per assaporare lo stupore. Non abbiamo forse detto che da questa bugia erano interessate non una, ma due frasi? La prima è quella che sentiamo e questa frase come tale passa inos­ servata. Ma non è vera. La seconda frase non la sentiamo, resta chiusa nel petto. Questa frase è vera. Non esprime semplicemente qualcosa di diverso dalla frase falsa, ma l’esatto contrario. Linguisticamente equivale a dire: la frase vera è identica a quella falsa, eccetto che per la paro­ lina non. È dimostrato a questo punto che la bugia è una questione linguistica molto più sostanziale di quanto avessimo supposto all’inizio delle no­ stre riflessioni. La lingua non aiuta soltanto a mentire, aiuta anche a pensare il vero. Entrambe le cose avvengono tramite frasi. Ma le frasi sono fatte di parole, i cui significati si definiscono vi­ cendevolmente in significati testuali formando così un senso. Le frasi obbediscono alle leggi

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fondamentali della semantica e della sintassi. Le frasi sono di competenza della linguistica. La definizione agostiniana di bugia può adesso essere corretta. Agostino dà una bugia per acquisita quando dietro la frase che la con­ tiene c’è l’intenzione di ingannare. La linguistica invece dà per acquisita una bugia, quando die­ tro la frase falsa (pronunciata) c’è una frase vera (non espressa), che si discosta in senso contrad­ ditorio, cioè per il morfema assertivo sì/no. Non duplex cogitatio, come dice Agostino (de mend. 3, 3)2, ma duplex oratio è quindi segno della bugia. Le conseguenze di questa constatazione ri­ guardano innanzitutto quello che viene definito pensiero. Infatti, la frase non detta, portatrice della verità, può essere ugualmente chiamata pensiero. Ora, non ho niente da obiettare a che si continuino a chiamare pensieri le frasi non dette, come d’altronde si è sempre fatto. Ma tengo molto a mettere in evidenza che questi pensieri o frasi non dette sono della stessa ma­ teria di cui sono fatte le nostre lingue. Le lingue naturali, ovviamente, non quelle artificiali. O, in ogni caso, le lingue naturali non meno di quelle artificiali. A quel punto, di fronte a tutte le leggi logiche che possono esistere, il pensiero obbedi-

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see alle leggi linguistiche. Soprattutto obbedisce alle leggi fondamentali della semantica che go­ vernano il gioco della determinazione tra i poli del significato lessicale e testuale. Naturalmente non si può provare che il pen­ sare sia in fondo di tutt’altra natura rispetto al parlare. Ma non è dimostrabile ed è «impensa­ bile». Ciò che voglio dire qui è: non possiamo parlare di bugia in assoluto né attribuire a chi mente una mancanza morale, se non conside­ riamo i pensieri come dichiarazioni costituite da parole e frasi. Solo allora il pensato e il detto sono tra loro confrontabili per possibili contrad­ dizioni. E vero che si potrebbe definire questa un’ipotesi, ma su questa ipotesi si basa l’ordine morale e una buona parte dell’ordine legale. E un’ipotesi che viene verificata cento volte al giorno. La sua validità è una certezza morale. Le sue conseguenze superano però largamente il regno della bugia e coprono l’intero problema della lingua e del pensiero.

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VI. C ontro g li iconoclasti

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uod absit omnino, ha detto Agostino riflettendo sul fatto che anche il di­ scorso metaforico in tutte le sue forme potrebbe forse rientrare nella sfera della bugia (c. mend. 10, 24)1. Gli avevamo dato ragione, no­ nostante non avesse motivato questo punto di vista. Ora dobbiamo tornare sull’argomento, e possiamo farlo avendo chiarito le premesse seman­ tiche. In realtà non sono molti quelli che hanno esplicitamente accusato la metafora - useremo questo termine per tutte le figure linguistiche - di essere menzognera. E però un’accusa che si ri­ pete spesso in modo implicito. Soprattutto nella scienza è radicata una profonda diffidenza nei confronti della metafora e, di tanto in tanto, si fanno vivi gli iconoclasti che vorrebbero ripulire la lingua della scienza da tutte le metafore: così tutto andrà bene e verrà finalmente a galla la ve-

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rità. «Comparaison n’est pas raison»: comparare deve cedere alla ragione, così affermano e perciò la scienza deve poter dire il vero con un linguag­ gio vero. I pensieri della scienza possono soltanto venir celati o addirittura distorti dalle metafore. Perciò lo scienziato serio deve scrivere senza me­ tafore. Quanto più lontana è la sua lingua dalla lingua cara alle muse, tanto più scientifico sarà il suo contributo alla conoscenza. Li conosciamo tutti, questi iconoclasti e bi­ sbetici privi di senso artistico. Se almeno fossero bravi scienziati! Bandire le metafore non vuol dire però soltanto strappare i fiori dal sentiero della verità, ma significa anche privarsi dei mezzi che rendono più rapido il cammino verso la ve­ rità. Senza metafore non solo non si può scrivere, ma non si può nemmeno pensare. E poi, che le metafore siano meno precise di altre parole è una diceria priva di fondamento. La semantica ha da dire qualcosa al riguardo. Torno alla distinzione fra significato lessicale e significato testuale. Il significato lessicale di una parola isolata viene determinato dal contesto a seconda dell’intenzione di chi parla e diventa parte del senso generale. Questo vale fondamen­ talmente anche per la metafora, ovvero per qual­ siasi forma di figura linguistica. Le metafore sono

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fatte di parole. Quindi obbediscono ai principi della semantica. Nelle metafore si può ricono­ scere persino meglio che in altre parole che una pura semantica della parola, senza raggiunta di una semantica del testo, fornisce nel migliore dei casi una mezza verità di questa disciplina. Infatti una parola da sola non può essere mai metafora. Fuoco, pensato senza un contesto e una situa­ zione, è sempre la parola normale, il cui signifi­ cato è noto. Solo grazie a un contesto la parola può trasformarsi in metafora. (Naturalmente il contesto può essere sostituito, come sempre, da una situazione.) Fuoco della passione, se vogliamo restare vicini al nostro esempio, questa sì po­ trebbe essere una metafora. Evidentemente non si tratta più di un fuoco dal punto di vista della fisica, ma di una manifestazione psichica. Ma che cosa è cambiato? La parola fuoco in veste di me­ tafora ha assunto un altro significato? No, non direi che è così. Il significato lessi­ cale di una parola è sempre lo stesso, che venga o no usata come metafora. Se tuttavia è vero che la metafora, per esistere, ha bisogno del contesto, allora anche nel suo caso vale non la semantica della singola parola, ma la semantica del testo con il gioco della determinazione tra il polo del signi­ ficato lessicale e quello del significato testuale. La

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determinazione non elimina di certo il significato, ma lo limita. Lo stesso accade in quel contesto che trasforma una parola in metafora. Anch’esso determina la parola, come ogni contesto. Ma lo fa in un modo particolare. Mentre il contesto nor­ male determina una parola nel raggio d’azione del suo significato lessicale, in un contesto metaforico la determinazione avviene al di fuori del signi­ ficato lessicale. In questo modo si crea una ten­ sione tra il significato lessicale e quello testuale, che si ora trova non all’intemo, ma all’esterno del significato lessicale. Proprio in questa tensione sta il fascino della metafora. Quel che si è detto può essere chiarito ulte­ riormente se si pensa ai fondamenti della teoria dell’informazione. Informazione significa ridu­ zione di possibilità. Ogni significato è informa­ zione, in quanto, delle possibilità date, ne esclude alcune. Anche la determinazione tramite il con­ testo è informazione, poiché esclude alcune delle possibilità del significato lessicale. Dal punto di vista della singola parola, il concetto di informa­ zione ha però due dimensioni. Da un lato si ri­ ferisce al mondo che - e questa è la possibilità totale - vuole diventare lingua. Il segno lessicale, quando è emesso, ci informa su quel che è già rimasto escluso da questa possibilità totale. Una

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seconda dimensione si riferisce invece ai segni lessicali prevedibili nella sequenza comunicativa. La possibilità totale teorica di sequenze verbali è infatti già limitata nel momento in cui viene pro­ nunciata la prima parola. A questo punto molte parole sono diventate più o meno improbabili per la sequenza comunicativa. Non ce le aspet­ tiamo più. Si tratta di una riduzione di possibilità, non nella certezza, bensì nella probabilità. Per la lingua anche questa preinformazione sulla de­ terminazione prevedibile è una realtà. La parola fuoco è collegata a una determinazione prevedi­ bile che può - approssimativamente - essere letta come se nel seguito si parlasse probabilmente di incendi, di fiamme, luce, rovine, cenere e simili. Ci aspettiamo la determinazione da una precisa direzione che può essere evocata da una serie di associazioni. (Se avessimo da decifrare un testo il­ leggibile, nel quale fosse comprensibile solo la pa­ rola fuoco, i nostri strumenti di decodificazione si muoverebbero nella direzione appena indicata.) Nella maggior parte dei casi le nostre aspetta­ tive sulla determinazione non restano deluse. Così, quando nel Faust di Goethe sentiamo un personag­ gio dire «Bruciano fuochi di guardia. Fiamme rosse si protendono»2, troviamo che il contesto del verso è in sintonia con la parola fuoco-, in effetti c’era da

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aspettarselo. Se invece il discorso, ruotando ancora intorno alla parola fuoco, sconfinasse verso tutt’altre sfere, questo non sarebbe prevedibile e la no­ stra determinazione ne risulterebbe ingannata. «In meinen Adern welches Feuer! In meinem Herzen welche Glut!» (Nelle mie vene quale fuoco! Nel mio cuore quale ardore!). In questi altri versi di Goethe (Willkommen und Abschied, 1785) ci era­ vamo preparati a un significato testuale diverso rispetto a quello, ancora incerto, che si desume chiaramente dal contesto. Dobbiamo correggere le nostre aspettative e veniamo fuorviati un po’ nel nostro calcolo delle probabilità. Qui sta la tensione metaforica, che fra l’altro è tanto maggiore quanto più piccolo è lo scarto tra la determinazione reale e quella prevista. Una tradizione forte, invece, come quella legata all’immagine del «fuoco dell’amore», attenua la tensione metaforica3. Alla metafora, quindi, è collegato necessaria­ mente un inganno. E tuttavia: questo tipo di in­ ganno ha a che fare col mentire? Certamente no. Si tratta infatti di un inganno solo rispetto a quel che ci saremmo aspettati, siamo cioè di fronte a una delusione, piuttosto che a un inganno vero e proprio. Avevamo preso per certezza una pro­ babilità e ora veniamo strappati alla nostra tran­ quilla attesa. Una volta, però, che la determina­

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zione metaforica si è compiuta al di fuori della nostra prima aspettativa, tutto ritrova la sua cor­ rettezza e il significato testuale della metafora è esattamente circoscritto, preciso, individuale e concreto, come qualsiasi altro significato testuale. Sotto questo aspetto le metafore non sono in nulla diverse dalle altre parole nei testi. Non c’è motivo dunque di essere diffidenti nei confronti delle metafore. Differiscono dalle altre parole dei testi solo per una piccola particolarità, che non le esclude dalla dialettica generale del significato lessicale e di quello testuale. E quindi non ha senso dire che le parole sono proprie, le metafore improprie. Finché le parole non sono circondate da un contesto, non sono né proprie, né improprie, sono essenzialmente istruzioni su quel che ci si può e ci si deve aspettare. Robert Musil scrive: «perfino un cane è già difficile da immaginare, perché è solo un accenno a vari cani e qualità canine»4. Solo nel momento in cui i si­ gnificati delle parole vengono determinati dai loro contesti si pone la questione della proprietà o im­ proprietà. Ma a quel punto è anche quasi super­ fluo. Naturalmente si può dire che da una parola ci aspettiamo «propriamente» una certa direzione della determinazione, e che poi questa aspettativa viene soddisfatta o meno. Ma comunque soddi­

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sfatta è la condizione per una comunicazione chiara. Altrimenti la lingua non potrebbe affatto permettersi le metafore. Con le metafore ci si può esprimere in modo altrettanto chiaro che con tutte le altre parole. Non si può dire che il discorso fi­ gurato è come un tappeto di fiori, grazioso, ma del tutto superfluo, che copre uno strato di signifi­ cati veri. Le metafore sono appropriate quanto noi desideriamo che siano. Non possiamo sostituirle con espressioni dirette, e anche se all’occasione possiamo farlo, non dovremmo, perché sostitui­ remmo solo qualcosa di proprio con qualcosa di improprio. Le parafrasi sono sempre più deboli di quel che si è parafrasato. Tutte le parole possono andar bene se vogliamo usarle in un testo, quelle nei contesti attesi e quelle nei contesti inattesi che creano le metafore. Le metafore dunque non sono legate alla bugia. La lingua non ci mente e noi non mentiamo quando parliamo per metafore. I nostri pensieri giungono agli altri chiari e autentici, che li costruiamo con pa­ role normali o con le metafore. Infatti li costruiamo sempre in forma di testi e lo stesso contesto che crea le metafore garantisce anche che siano adeguate al­ l’intenzione di chi parla. Quando il polo del signi­ ficato testuale viene raggiunto, il discorso è preciso così come lo vuole chi parla.

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VII. S ì e no

e parole isolate sono parole virtuali. Solo le parole in un testo sono parole reali. Il gioco della determinazione nella frase e nel testo appartiene appieno all’ambito della semantica. È così che abbiamo inteso la seman­ tica. A questo punto resta ancora spazio per la sintassi? La definizione tradizionale dice che la sintassi si occupa del collegamento delle parole nella frase. Si tratta di una definizione riduttiva, come tutte le definizioni ricavate esclusivamente dalla denominazione (syn-taxis). Il collegamento dei significati delle parole, per come questi si limitano a vicenda e formano insieme il senso della frase, non può essere oggetto di altra di­ sciplina linguistica se non della semantica. Conviene anzitutto interrogarsi su che cosa sia una frase. Lo status proposizionale di un enunciato è infatti del tutto indipendente dalla sua informazione semantica. Si possono accumu-

L

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lare parole e parole, anche in costrutti forniti di senso, senza con questo aver formato una frase. Prendiamo l’incipit nell’opera Der Freischütz di Weber, «Schöner, grüner Jungfernkranz» (bella, verde corona verginale): l’enunciato ci offre dei significati lessicali che si determinano a vicenda. Basta la loro semplice giustapposizione per defi­ nire un significato testuale e fornire un senso. Ma questo enunciato non è una frase. «Noi intrec­ ciamo la tua corona verginale» sarebbe invece una frase. La differenza è evidente. È il verbo (di modo finito) che fa la frase. Ma tale potere del verbo non è dovuto alla sua informazione seman­ tica. «L’intrecciare» come sostantivo conserva l’informazione semantica del verbo, ma questa non basta per trasformare l’enunciato in frase. A questo punto la sintassi ha qualcosa da dire. La sintassi può essere concepita principal­ mente come teoria delle frasi, poiché si occupa di tutto ciò che da enunciato si trasforma in frase. A livello più elementare ciò corrisponde a quel che rende finito un verbo. Infatti il verbo si differenzia dalle altre categorie grammaticali per il fatto che il suo nucleo semantico è circondato da una nutrita schiera di morfemi, che lo deter­ minano in modo particolare. Precisamente, lo determinano in funzione della situazione comu-

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nicativa. Nel nostro esempio compare per primo il morfema personale noi. Il morfema perso­ nale mette in relazione il significato del verbo, e quindi il senso dell’intera frase, con la situazione base del parlare, vale a dire il triangolo comuni­ cativo: io - tu - lui/lei. Anche la forma plurale noi definisce il punto d’orientamento in questo modello di comunicazione. Del verbo fa inoltre parte un morfema temporale. Nel nostro esem­ pio si tratta di un presente, che determina ana­ logamente il significato del verbo in un modo particolare. Indica infatti se il discorso è da ri­ ferirsi direttamente alla situazione comunicativa oppure solo indirettamente, come narrazione di eventi lontani (il tempo verbale non ha niente a che fare con il tempo cronologico)1. Anche questa è una determinazione della situazione co­ municativa e comprende al tempo stesso quello che le grammatiche chiamano modo. E poi c’è un altro morfema, che spesso passa inosservato perché è ovvio. Nel nostro esempio si tratta del morfema zero, che sta per sì. Al suo posto po­ trebbe trovarsi il morfema no e allora il senso di tutta la frase sarebbe trasformato nel suo con­ trario. Questo morfema, come abbiamo detto, è così ovvio che diventa quasi banale parlarne. Mi pare comunque importante riflettere sul fatto

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che le nostre lingue sono tali per cui non esiste una frase che non sia determinata da un mor­ fema, udibile o non udibile, verso il sì o verso il no. Lo chiameremo morfema assertivo. Forse sarebbe lecito trascurare o ignorare il morfema assertivo, se non ci fosse questo strano parallelismo con le altre determinazioni del verbo. Il morfema assertivo è strettamente legato al verbo, esattamente come lo sono il morfema personale e quello temporale. Solo nel momento in cui ci sono tutti e tre i tipi di determinazione, l’enunciato diventa una frase, a prescindere dal­ l’informazione semantica che la frase può conte­ nere in una situazione qualsiasi. Questi tre tipi di determinazione devono quindi avere un par­ ticolare peso, visto che sono lorq a determinare 10 status proposizionale di un enunciato. Per i morfemi personali e per quelli temporali il va­ lore particolare deriva dalla capacità di collegare 11 verbo alla situazione comunicativa nella sua forma elementare come modello di comunica­ zione. E dunque plausibile che anche il morfema assertivo colleghi il significato del verbo e quindi il senso della frase alla situazione comunicativa. A questo punto ci si potrebbe aspettare che la logica obietti con forza. Infatti per il sì e per il no la logica ha pronte le sue tavole di verità

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e non lascia intravedere la minima volontà di prendere in considerazione qualcosa come la si­ tuazione comunicativa. Ma ci sono altri aspetti linguistici di cui non tiene conto. Fra i tre tipi di determinazione che, nelle lingue naturali, vanno a costituire il carattere proposizionale di un enunciato, la logica fa una scelta, che dal punto di vista del linguaggio sembra arbitraria e im­ motivata. La determinante personale gode nella logica di una considerazione straordinariamente privilegiata e, agli occhi del linguista, esagerata. Viene elevata a forma di soggetto (dopo una nor­ mazione neutralizzante alla terza persona) e tra­ sformata in colonna portante, in una delle due colonne portanti dell’enunciato. Ma non sarà un onore troppo grande per un morfema determi­ nante? Come linguisti, ci si potrebbe aspettare che al morfema temporale fosse riservata un’at­ tenzione simile, considerando che nelle lingue viene collocato parallelamente al morfema per­ sonale. Non è così. La determinante temporale è invece quasi completamente ignorata con la motivazione che la logica ha a che fare con frasi atemporali. In realtà la determinante temporale non può essere scartata del tutto. In sua assenza non possono esserci frasi, neppure nella lingua artificiale della logica. Ma la si può conformare a

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una norma e, con ciò, neutralizzare. Questo ac­ cade tra i logici in virtù della convenzione (poco ponderata) di usare sempre il presente senza rifletterci più di tanto. La terza determinante, quella assertiva, gode infine di nuovo, come ab­ biamo visto, di ampia considerazione. I linguisti potranno ben stupirsi dei criteri di selezione e di priorità adottati dalle determinanti del verbo. Ma la logica è naturalmente libera di scegliersi da sola le regole del gioco. Solo, non dobbiamo poi meravigliarci se i suoi risultati ra­ ramente sono rilevanti per la linguistica. Com’è da intendersi allora il fatto che la de­ terminante assertiva del verbo si riferisce alla si­ tuazione comunicativa nello stesso modo in cui si intendono la determinante personale e quella temporale? A questo proposito vanno ricordate due riflessioni che - indipendentemente Tuna dall’altra - hanno preso in considerazione la si­ tuazione comunicativa. La prima è legata al con­ cetto - spesso frainteso - del comportamento (nel senso di behavior). La descrivo basandomi sul libro II linguaggio (1933) di Leonard Bloom­ field. Un atto linguistico, argomenta Bloomfield, non si compie in una «terra di nessuno», ma in una situazione di vita reale, nella quale si agi­ sce prima, durante e dopo aver parlato. Gli atti

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linguistici e gli atti azionali sono interscambia­ bili. Se si prende come riferimento lo schema anche se piuttosto limitato - di un gioco tra sti­ molo {stimulus) e reazione {response), in cui ogni reazione funga da nuovo stimolo, si ottengono lunghe catene di stimolo-reazione, nelle quali ciò che vi è di verbale e di non verbale si mescola. Se applicassimo lo schema al nostro esempio, Bloomfield si rifiuterebbe di interpretare la frase «Noi intrecciamo la tua corona verginale» iso­ landola dal resto. Chiederebbe: che cosa ha por­ tato a questa frase? Quale ne è lo stimolo (ver­ bale o non verbale)? E come procede la catena? La seconda riflessione deriva dalla filosofia ermeneutica ed è legata anche al concetto di dialettica. La descrivo basandomi su un’opera di Hans-Georg Gadamer2. Nel suo lavoro Ga­ damer sottolinea innanzitutto lo status spe­ ciale della proposizione o giudizio, in quanto capace di rendere esplicita e comunicata la «ragione stessa delle cose». Questa è filosofia tradizionale. Poi però Gadamer attua la svolta verso la dialettica. La verità di una proposizione va persa, così argomenta Gadamer, quando la si considera solo sulla base del suo contenuto. Una proposizione contiene dei presupposti che essa non enuncia. È infatti motivata (lo stimulus dei

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behavioristi!) in definitiva da una domanda. La domanda ha il primato rispetto alla propo­ sizione. Elicitata da una domanda, la proposi­ zione diviene essa stessa di nuovo una domanda richiamando un’altra affermazione. E così otte­ niamo. una lunga catena di domande che sono a loro volta risposte, e di risposte che sono di nuovo domande. La dialettica va a inserirsi nel­ l’analisi prima della logica. Le corrispondenze tra il modello di pensiero behaviorista del linguista americano e il modello di pensiero ermeneutico del filosofo tedesco sono sorprendenti. Non hanno praticamente ne­ cessità di essere armonizzate nei termini. Pos­ siamo tutt’al più aggiungere che Gadamer, par­ tendo dalla sua base dialettica, fa un ulteriore passo nell’ambito dell’ermeneutica quando scrive: «sia la domanda che la risposta, in quanto proposizioni, hanno una funzione ermeneutica. Tutte e due sono un “rivolgersi ad altri” (An­ rede)»0. In questo ragionamento la determinante personale si riappropria del suo diritto. La filo­ sofia pare scoprire la lingua. Da queste riflessioni si dovrebbe giungere a chiarire anche la determinante assertiva. Da un lato essa deve essere, così come quella personale e temporale, qualcosa di molto importante, visto

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che non può mancare in nessun verbo. Non solo non la si può tralasciare, ma nemmeno si può trascurare di pensarla. Dall’altro, se avevamo difficoltà a stabilire una connessione necessaria tra il sì e il no come determinazione del verbo e della situazione comunicativa, la stessa viene rimossa, dal momento che non si considera la situazione comunicativa come una costellazione statica. Si tratta invece, e questo lo si può impa­ rare sia dal modello behavioristico che da quello ermeneutico, di una costellazione dinamica in cui procediamo da domanda a risposta e da ri­ sposta a domanda o - se si preferisce la termi­ nologia alternativa - da stimolo a reazione, da reazione a stimolo. Ma è ben più di una differenza terminolo­ gica, dire stimolo o domanda, reazione o rispo­ sta. Mi pare che il filosofo Gadamer usi, rispetto al linguista Bloomfield, concetti migliori, cioè nel nostro caso quelli più linguistici. E quindi se­ guiremo lui. A questo proposito, resta ancora da dire cosa sia una domanda. Espresso in termini grammaticali il problema è relativamente sem­ plice. La grammatica, come sappiamo, distingue fra interrogativa totale («Ricordi?») e interroga­ tiva parziale («Cosa ricordi?»). E evidente che l’interrogativa totale è riferita al morfema asser­

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tivo sì/no. L’interrogativa parziale non è rife­ rita a tale morfema, almeno non direttamente. Vorrei però qui riferirmi al concetto più ampio di domanda, così come lo usa Gadamer nel suo approccio ermeneutico, quando dice che ogni ri­ sposta è al tempo stesso di nuovo una domanda per una nuova risposta. Se prendiamo nel loro insieme tutti i tipi di domande della grammatica menzionati, possiamo dire quanto segue: una do­ manda, rispetto alla risposta che segue, dà meno informazione su una situazione, ma non nessuna. Questa constatazione può essere volta anche in positivo. Una domanda contiene già un’informa­ zione parziale. E espressione di una pre-conoscenza. Solo chi sa già qualcosa può porre una domanda. A questa informazione manca natu­ ralmente qualcosa (l’intonazione ascendente è spesso l’equivalente prosodico di questo vuoto), ma si tratta solo di un supplemento. Tale supple­ mento mancante può essere grande o piccolo, e in questo si differenziano tra loro le singole do­ mande. Ma esso non può essere mai così grande da non far presupporre da parte di chi pone la domanda nulla nella risposta. E non può mai essere così piccolo da far sì che la risposta non aggiunga nuove informazioni. Il minimo di in­ formazione supplementare viene raggiunto nella

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cosiddetta interrogativa totale, dove non manca nulla se non il consenso («sì») o il rifiuto («no») rispetto all’informazione preliminare contenuta nella domanda. Questo vale anche per le situa­ zioni nelle quali la preinformazione non ha ca­ rattere di interrogativa in senso grammaticale. Gadamer ha ragione quando considera nel suo ragionamento anche questo tipo di situazioni. Per il valore dialettico della preinformazione in una situazione comunicativa non è molto rile­ vante che l’intonazione sia davvero ascendente o che venga inserito un pronome interrogativo riconosciuto come tale. Quello che conta è che una frase non invia informazione in un vuoto informativo, ma completa di regola una prein­ formazione data. Si tratta di un fatto linguistico fondamentale, più precisamente sintattico. La sua espressione nella lingua è il morfema asser­ tivo sì/no. E un morfema che la lingua ha creato per mettere in relazione la nuova informazione di un parlante con la preinformazione del suo interlocutore. La sua funzione, più che essere lo­ gica, è dialettica e cioè sintattica. Tutte e tre le determinanti necessarie del verbo si riferiscono effettivamente alla situa­ zione comunicativa al suo livello essenziale e ne rivelano i tre aspetti fondamentali, che pos­

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siamo definire con termini linguistici: persona, tempo, asserzione. La sintassi è - prima degli altri compiti secondari che ne scaturiscono l’analisi della persona, del tempo e dell’asser­ zione intesi come modi in cui i significati les­ sicali sono collegati alla situazione comunica­ tiva. E chiamiamo frase tutti gli enunciati in cui viene pienamente stabilito questo nesso. Sulla base di queste riflessioni siamo in grado di integrare la semantica della bugia so­ pra abbozzata con una sintassi della bugia. Molte sono le specie di menzogna, e noi le dob­ biamo odiare tutte, senza distinzioni, perché non c’è menzogna che non sia in contrapposizione con la verità. Verità e menzogna sono infatti cose contrarie fra loro come luce e tenebre, pietà ed empietà, giustizia e ingiustizia, peccato e opere buone, salute e infermità, vita e morte (c. mend. 3 ,4)4. Come il sì e il no, possiamo aggiungere. Perché, in definitiva, la bugia è sempre riferita a un sì o a un no. Perlomeno questo vale per la menzogna nella sua essenza malvagia. E la menzogna che ri­ sponde all’interrogativa totale. Possiamo quindi chiamarla menzogna totale. Essa presuppone

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un massimo di preinformazione nell’interlocu­ tore, al quale spetta solo di dover decidere se confermarla o rifiutarla. La conferma o il rifiuto vengono dati con un sì o con un no. Con il mor­ fema assertivo quindi si può mentire. Di questo tipo sono le grandi bugie, che hanno cambiato il corso del mondo volgendolo al male. È così che ha mentito Hitler. Il 26 settembre 1938, durante la crisi dei Sudeti, riferendo in un discorso pubblico delle sue trattative con il pre­ mier britannico Chamberlain, affermò: Gli ho assicurato che il popolo tedesco non vuole altro che la pace. (...) Gli ho inoltre assi­ curato e lo ripeto qui, che - risolto questo pro­ blema - la Germania non ha altre rivendicazioni territoriali in Europa!5

Dai documenti sappiamo oggi, e lo si poteva capire allora da tanti indizi, che la Germania di Hitler non voleva la pace. Era infatti in vigore l’ordine segreto trasmesso ai generali il 30 mag­ gio 1938: È mia decisione immutabile di schiacciare la Ce­ coslovacchia entro breve tempo con un’azione militare. (...) In conseguenza di ciò è necessario non dilazionare più i preparativi6.

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Il corso della storia ha dimostrato che in realtà questa decisione non venne mutata. La Cecoslovacchia fu annientata e poi ci furono al­ tre «rivendicazioni territoriali», fino a che l’in­ tero territorio non divenne zona d’occupazione tedesca. La storia non conosce menzogne peggiori di quelle di Hitler. Per questo è importante stu­ diarle con attenzione, anche da un punto di vi­ sta linguistico. Non basta infatti stabilire che le frasi dei discorsi pubblici e quelle del comando segreto non concordano e che, visto che le frasi segrete si sono dimostrate vere, quelle pubbli­ che sono false. Va invece notato che il discorso di Hitler non è stato pronunciato nel vuoto. Era un discorso indirizzato a uomini e donne, in Germania e fuori dalla Germania, che ascol­ tavano in trepidante attesa. Quegli ascoltatori erano già informati, più o meno correttamente, sull’uomo e sul suo regime. Si parlava già da tempo di «questioni territoriali» e già si poneva l’interrogativo angoscioso: sarà guerra o pace? Hitler non rende semplicemente una comuni­ cazione a sé stante sulla pace e sui confini in Europa. Con quelle frasi, seppure semanticamente velate, risponde all’interrogativo secco: Guerra - sì o no? Aggressione - sì o no? Che si

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trattasse comunque di guerra e aggressione era già chiaro, come preinformazione, a tutti co­ loro che ascoltavano. Le sue frasi erano quindi una risposta a quegli interrogativi impliciti. Ri­ gettano con un chiaro no la preinformazione: Guerra? - No. Aggressione? - No. Questo è il punto esatto della menzogna di quella situa­ zione comunicativa, che tanti ricordano di aver appreso con angoscia dalla radio. Quali singole parole siano poi entrate al servizio della men­ zogna, se al posto di aggressione si sia parlato di questioni territoriali, è di secondaria impor­ tanza. Non si tratta certo di una nuova infor­ mazione rispetto al vuoto precedente, ma per tutti coloro che ne sono stati coinvolti si tratta di un’ulteriore decisiva informazione che inte­ gra ciò che già sanno, se appunto la pace verrà mantenuta o meno. Certo, vengono udite tutte le parole, ma si ascoltano solo il sì o il no. Con­ tava solo un morfema. In questo morfema la verità è falsata. La menzogna terribile, malva­ gia, totale, è di natura sintattica: essa falsa il senso in quel punto decisivo dove linguaggio e mondo si incontrano, nella situazione comuni­ cativa. Di certo non ogni menzogna è totale e non ogni menzogna è così radicalmente malvagia

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come questa. Il problema del mentire non sa­ rebbe una magna quaestio se bianco e nero fos­ sero sempre così equamente distribuiti. Esistono le mezze bugie ed esistono quelle leggere devia­ zioni dalla verità, che proprio per questo sono più pericolose, perché difficilmente riconoscibili. Esistono infine tantissimi tipi di bugie diplomati­ che, e non solo tra i diplomatici. Ma non porta a nulla tentare di creare una casistica della bugia. Questo ha già messo in imbarazzo la morale di altri secoli. Alla linguistica non serve ripetere gli stessi errori.

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v in .

Ironia

«I

1 concetto di ironia ha fatto il suo in­ gresso nel mondo con Socrate». E questa una delle tesi che Kierkegaard sostiene nella sua dissertazione1. Socrate, il mae­ stro della verità: è lui ad averci insegnato a men­ tire? Non a caso leggiamo in Wolfgang Kaiser la seguente frase: «Con ironia si intende il contra­ rio di quel che si dice con le parole»2. Ciò col­ lima piuttosto bene con la definizione linguistica di bugia, come l’abbiamo sviluppata prima: una frase detta nasconde una frase non detta, che differisce dalla prima per il morfema assertivo. Non ci si meraviglia quindi, quando François Paulhan in un libro sulla morale dell’ironia, così la definisce: «L’ironia è una forma del mentire»3. E tuttavia Proudhon è ancor più nel giusto quando in un’invocazione innodica alla «dea» ironia, la chiama «maîtresse de vérité»4. Verità e bugia non si contrappongono nell’ironia.

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L’ironia (eironeia) era nota ai greci già prima di Socrate. Era però considerata come un in­ ganno più o meno ignominioso, specie se perpe­ trato mediante una simulazione, anzi più preci­ samente una dissimulazione. Il concetto greco di ironia potrebbe essere reso con la parola usata da Goethe: kleintun (minimizzare). Anche chi sottostimava il valore delle sue proprietà con l’autorità fiscale veniva considerato un ironico. In fondo, minimizzare, dissimulare era bugia e inganno esattamente come enfatizzare, millan­ tare. Nella sua Etica (1127 b 20, IV, 7) Aristotele deve ammettere che il millantare e il dissimulare si trovano alla stessa distanza dall’aurea mediocritas delle virtù, la veridicità. Sono vizi. Ma poi pone una riserva, che non va d’accordo con il rigore del suo sistema etico: «Gli ironici invece, dicendo meno del vero, appaiono più simpatici nei loro costumi [rispetto ai millantatori]». Si ca­ pisce subito, come mai Aristotele sia così simpa­ ticamente incoerente. Viene infatti menzionato il nome di Socrate. Per amore del filosofo ironico, che sostiene di non sapere nulla, Aristotele riva­ luta l’ironia5. Nel corso della storia la rivalutazione del­ l’ironia prosegue. Difesa dalla retorica nell’anti­ chità latina e nel Medioevo latino, scoperta nel

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Rinascimento e nel Settecento dall’epica come un modo di narrare, l’ironia è canonizzata dai Romantici come habitus quasi metafisico e so­ pravvive nella letteratura moderna, deromanticizzandosi. I poeti l’amano più che mai, come sorella dissimile della fantasia. L’ironia copre un ampio spettro: dall’ironia triviale delle conversazioni quotidiane fino alla «bouffonnerie trascendentale» di Friedrich Schle­ gel6. In tutte le sue forme però, l’ironia si dif­ ferenzia in maniera sostanziale dall’ironia greca prima di Socrate. In quel caso si trattava soltanto di una specie di understatement. A partire da Socrate e in tutta la nostra tradizione letteraria l’ironia è qualcosa di più. All’ironia ormai appar­ tiene il segnale d’ironia; si minimizza e al tempo stesso si fa capire che si sta minimizzando. Si finge, certamente, ma si fa intendere che si sta fingendo. Il segnale d’ironia è elemento costi­ tutivo dell’ironia come il minimizzare. L’uno e l’altro insieme fanno, per dirla con le parole di Cicerone, della dissimulatio, una dissimulatio urbana, priva di qualunque macchia morale (de orat. 2, 269)7. Dacché l’ironia si è svincolata dalYeironeia, per la nostra etica il puro minimizzare senza segnale d’ironia è ancora più offensivo che al tempo dei greci, quando al dissimulatore era

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riservato il rispetto che il mondo ellenico garan­ tiva all’astuzia. Una figura moderna di questo genere è il Tartufo di Molière, ma nessuno ri­ spetta più la sua perfidia interpretandola come astuzia. Se alla linguistica è permesso di interessarsi della bugia, allora a maggior ragione le sarà per­ messo riflettere sull’ironia. Se infatti all’ironia, perché la si possa considerare tale, deve essere aggiunto un segnale d’ironia, il termine segnale richiamerà subito la funzione semiotica del lin­ guaggio. Esistono diversi tipi di segnali d’ironia. Ci può essere la strizzatina d’occhio, lo schiarirsi la voce, un tono enfatico, una particolare into­ nazione, un insieme di espressioni ampollose, metafore audaci, frasi lunghissime, ripetizioni, oppure - nei testi stampati - l’uso del corsivo e delle virgolette. Si tratta sempre di segnali, cioè di segni. Perlopiù, e di questi si interessa in particolare la linguistica, può trattarsi di segni vocali: parole, suoni o particolarità prosodiche. Nei testi scritti i diversi tipi di segnali ironici co­ stituiscono un importante capitolo nella stilistica dell’ironia. Ma torniamo per un momento al modello comunicativo. La lingua è basata su un codice per la comunicazione fra un parlante e un ascol­

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tatore. E precisamente la singola lingua (quella tedesca, francese, russa) è quel codice che viene aggiornato nei singoli atti linguistici, cioè nei testi scritti e in quelli parlati. Anche il discorso ironico è un atto linguistico che si realizza tra un parlante e un ascoltatore. Ma se il parlante è l’ignorante Socrate e l’ascoltatore è il saputello sacerdote Eutifrone, come accade nel famoso dialogo omonimo di Platone, allora si ha un di­ vario di ironia tra il «millantatore» Eutifrone e il «dissimulatore» Socrate, che dice al sacerdote: «O meraviglioso Eutifrone! Dunque per me il partito migliore è diventare tuo scolaro...» {Eut. V, 5)8. Questo divario di ironia viene espresso in parole. Corrisponderà anche ai pensieri? La prima domanda da porsi è: i pensieri di chi? Alla lettera, questa proposta corrisponde evidente­ mente ai pensieri di Eutifrone; infatti poco dopo, quando Socrate ricorda - ancora una volta con intenzione ironica - che Eutifrone ama defi­ nirsi il migliore conoscitore di cose di religione, quest’ultimo lo interrompe e afferma: «E dico la verità, o Socrate!» (Eut. XVI, 13e)9. Questo però non corrisponde evidentemente ai pensieri di Socrate (e neanche ai nostri). Infatti il mini­ mizzare da parte del filosofo è solo un aspetto di quell’arte maieutica che non vuole distribuire

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la verità, ma vuole che venga scoperta. Così So­ crate in apparenza si lascia istruire per costrin­ gere quello che si crede il maestro a capire da solo, dalle continue domande del finto allievo, quanto povera sia la sua dottrina e quanto egli stesso necessiti di insegnamenti. Alla distruzione ironica dell’opinione falsa e presuntuosa segue poi la costruzione comune di concetti e vera co­ noscenza. Ne deriva dunque che l’ignoranza del filosofo era una finzione totale, un dissimulare. In realtà, Socrate non solo è superiore ai sofisti e agli altri millantatori, ma è anche consapevole di esserlo, perlomeno grazie al suo oracolo e al suo demone. Nasconde però la superiorità del suo spirito dietro la modestia delle parole. Su questi argomenti Musil scrive: «Socratico: Atteggiarsi a ignorante. Moderno: Essere ignorante»10. Se non ci fosse altro da aggiungere, bisogne­ rebbe ora tirare le somme e dire: sì, l’ironia di Socrate è una bugia. Si potrebbe tutt’al più os­ servare che l’ironia socratica, come ironia peda­ gogica, funge da intenzione salutare ed è quindi giustificata dai buoni propositi. In termini ago­ stiniani: l’intenzione di ingannare viene bilan­ ciata e neutralizzata dall’intenzione salutare. Ma l’analisi linguistica dell’ironia è giunta solo a metà. Il segnale d’ironia, che appartiene

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ugualmente all’ironia come l’atteggiamento del dissimulatore, non è stato ancora preso in considerazione. Il segnale d’ironia, se ce lo im­ maginiamo per un momento come intonazione enfatica, è un segno linguistico che accompagna il discorso. Per la sua natura può essere o non essere percepito. Appartiene infatti a un codice che non è identico a quello generale della gram­ matica e viene condiviso solo da coloro che sono dotati d’ingegno. Gli pseudocolti e i presuntuosi non lo colgono e il segnale d’ironia non rag­ giunge lo scopo. Ma la colpa non è di chi parla, è di chi ascolta. L’analisi linguistica dell’ironia risulta faci­ litata, se si immagina di espandere il modello elementare di comunicazione da cui sono par­ tite queste riflessioni in un modello elementare di ironia introducendo, accanto al parlante e all’ascoltatore, una terza persona. Nel dialogo ironico tra Socrate ed Eutifrone potremmo im­ maginare Platone come terzo. Siamo sicuri che Platone, testimone del dialogo, avrebbe colto il segnale d’ironia. Come autore dei dialoghi socra­ tici - forse addirittura come autore di un’ironia solo attribuita a Socrate, questo è incerto11 - si è sforzato di trasmettere tutti i segnali d’ironia. Ma non è così sicuro che vi sia riuscito; infatti

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dalla nostra esperienza d’ogni giorno sappiamo quanti segnali d’ironia siano contenuti in sfu­ mature e non siano registrabili attraverso i segni dell’alfabeto. Perciò, per poter agire attraverso testi scritti e stampati, i segnali d’ironia vanno innanzitutto tradotti dalla lingua parlata, ricca di sfumature, in un altro mezzo espressivo. A que­ sto punto si devono scegliere le parole in modo tale che non possano essere lette se non con una certa intonazione ironica. L’autore dovrà quindi codificare i segnali d’ironia e al lettore spetterà il compito di decodificarli. Prendiamo come esempio un passaggio delYEutifrone. Parla Socrate, che ha appena dovuto farsi lodare da Eutifrone per averlo seguito così bene. E dice: Sì, amico mio: perché io sono così desideroso del tuo sapere, e con tanta attenzione ti ascolto, che neppure una sillaba mi può cadere a terra di quello che dici (Eut. XV II, 14d)12.

Dobbiamo pensare a Socrate che pronuncia questa risposta con una voce falsata dal tono tra il patetico e il pomposo. Un’intonazione del ge­ nere, se l’autore del dialogo non vuole aggiun­ gere altre indicazioni di regia, non può essere

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resa direttamente mediante segni scritti; viene mantenuta piuttosto nell’organizzazione stilistica del testo stesso, tradotta negli aggettivi (così de­ sideroso, tanta attenzione) e in un’apostrofe mie­ lata (amico mio). Il lettore a questo punto non può fare altro che ritradurre questi segnali d’iro­ nia scritti più o meno con lo stesso tono di voce che il segnale d’ironia orale doveva avere in So­ crate. Il segnale d’ironia, come si evince dal testo del dialogo platonico, non ha raggiunto il vane­ sio sacerdote. In effetti, questi si accorge che So­ crate con le sue domande lo sta accerchiando, ma non capisce che l’ignoranza del suo inter­ locutore è simulata. Le sfumature dei segnali d’ironia gli sono precluse. Platone invece, la terza persona in questa situazione comunicativa, li ha compresi e li ha trasmessi a noi, lettori dei suoi dialoghi. Se li capiamo così come lui li ha affidati al dialogo scritto, diveniamo ugualmente testimoni del dialogo e vi partecipiamo nel ruolo del terzo. Le parole pronunciate da Socrate se­ guono quindi due direzioni diverse. E come se si scindessero: una catena comunicativa va verso l’ascoltatore in questione e dice sì, mentre una seconda catena simultanea va verso una terza persona coinvolta e dice no. Quest’ultima catena

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comunicativa è formata dai segnali d’ironia. Il loro è un codice segreto degli uomini intelligenti e di buona volontà. «Chi ha orecchi per inten­ dere, intenda» (Mt 13, 9). La situazione descritta, con un parlante, un ascoltatore e una terza persona, è un modello. Non ci dice che l’ironia è possibile solo dove è presente, fisicamente, una terza persona. P o­ trebbe infatti anche non esserci un testimone. Ciò non escluderebbe l’ironia, là dove è neces­ saria. Ciò nonostante il parlante non deve rinun­ ciare ai segnali d’ironia, se non vuole degradarsi a ipocrita. E un peccato allora che nessuno ac­ colga i segnali persi. Ma è un peccato a cui si può porre rimedio. Per esempio, si può ripren­ dere la situazione ironica in forma narrativa e quindi far pervenire i segnali d’ironia con ri­ tardo a un terzo ascoltatore. Tutto questo è forse meno soddisfacente, perché all’ironia non viene più collegato alcun rischio comunicativo, ma a volte, quando le orecchie sono completamente sorde, non c’è alternativa. Infine, neppure l’ascoltatore è così indispen­ sabile alla realizzazione di questo modello. Esiste infatti l’autoironia, dove chi ironizza (il parlante) è anche oggetto dell’ironia (l’ascoltatore). L’au­ toironia è un caso limite di ironia e forse ne co­

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stituisce anche la realizzazione più pura. Bisogna naturalmente tenere presente che nell’autoironia è necessario immaginare sempre una terza per­ sona, ugualmente artefice dell’ironia, poiché chi ironizza su se stesso fa spettacolo di se stesso. A volte, nei momenti più alti dell’ironia, ac­ cade che tutti gli aspetti del modello d’ironia confluiscano in uno, come scrive Robert Musil: L’ironia è rappresentare un clericale in modo tale da cogliere in lui anche un bolscevico. Rap­ presentare un idiota in modo tale che l’autore pensi subito: ma questo sono in parte anch’io13.

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IX. I poeti m enton o?

n Omero la bugia non costituisce ancora un problema. L’astuto Ulisse viene lo­ dato dagli dèi e dagli uomini ogni volta che gli riesce una frottola colossale. Possedere l’arte del mentire è prova di ingegno. Gli stessi dèi non disdegnano di mentire e ingannare, e danno dimostrazione di quest’arte agli uomini. I poemi epici di Omero, che conservano memo­ ria di tutte queste bugie, sono una scuola per bugiardi. I filosofi se ne sono presto scandalizzati. Il primo fu Platone, che accusa i poeti di mentire, quando affermano che gli dèi mentono. In uno stato ideale non c’è posto per simili bugie e ai poeti non sarà permesso di usarle e corrompere così i giovani. Con la cacciata dei bugiardi per opera di Platone, la bugia si trasforma in pro­ blema letterario e assume un’importanza che va ben oltre le fiabe popolari sulle bugie. Lo si vede

I

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subito in Luciano. Nel suo dialogo L’amante della menzogna i protagonisti sono un bugiardo e uno scettico, e quest’ultimo è stato messo in guardia dalle bugie di Erodoto e Omero. E b ­ bene, per fortuna i poeti non hanno smesso di mentire e i nostri stati non sono così ideali da impedirgli di mentire. I poeti hanno addirittura scoperto la bugia e il bugiardo come temi let­ terari, facendone una vera e propria provincia letteraria. Misurarla nella sua totale estensione ci porterebbe troppo lontano. Per una linguistica della bugia è tuttavia importante descrivere al­ cune delle strutture basilari della letteratura eu­ ropea sulla materia, che sono sia linguistiche che letterarie. Immaginiamo di assistere a una rappresenta­ zione della commedia II bugiardo (1750) di Goldoni. Siamo arrivati a teatro con l’aspettativa, suscitata dal titolo, di incontrare un bugiardo. Entrano ora in scena personaggi di ogni tipo: il dottor Balanzoni e le sue figlie, Ottavio, Florindo, Brighella, Pantalone, Lelio, Arlecchino e altri ancora, fino ai gondolieri. Molti di questi personaggi sono noti come figure della comme­ dia dell’arte, ma non è questo il punto. Che li conosca o no, lo spettatore ha il compito di sco­ prire chi di loro è il bugiardo. La tecnica della

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commedia richiede addirittura, e di questo deve tener conto l’autore, che lo spettatore riconosca il personaggio del bugiardo il più presto possi­ bile, prima che, nel finale, Tintero castello di bu­ gie finisca per crollare. Le sue risate infatti pre­ suppongono un certo divario informativo a suo favore. Ma com’è che giunge a scoprire che il bugiardo è Lelio? Lo scopre fin dall’inizio - Goldoni è metico­ loso nel creare effetti sicuri - per bocca del servi­ tore Arlecchino, in compagnia del quale Lelio si presenta nella seconda scena. Sia dialogando con il suo signore, sia parlando a parte, Arlecchino svela al pubblico che dovrà aspettarsi delle belle fandonie. Lelio ne attenua solo i toni: «Queste non sono bugie; sono spiritose invenzioni» (I, 4). L’effetto relativamente grossolano scorre per tutta la commedia e allo spettatore arrivano così segnali di bugia chiari e continui. E proprio questo lo spunto essenziale in tutta la letteratura della bugia. La letteratura della bugia, compresa quella sulla figura del bu­ giardo tipico, è costellata di segnali di bugia, che fra l’altro si tramandano con grande continuità attraverso i secoli. Si tratta di topoi formali e contenutistici che non necessitano di venir tra­ smessi attraverso uno studio consapevole, ma

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che si attivano quasi da sé quando si tenta di raccontare o di scrivere una storia intessuta di bugie. I segnali di bugia appartengono necessa­ riamente all’ambito della bugia letteraria come i segnali d’ironia all’ambito dell’ironia. Sono parte dell’informazione e, per chiunque abbia orecchi per intendere, trasformano il messaggio nel suo opposto. E vero che il discorso bugiardo esprime il contrario dei pensieri nascosti, ma il messaggio completo, discorso bugiardo e se­ gnale di bugia, equivale esattamente ai pensieri nascosti. Il discorso bugiardo e il segnale di bu­ gia si annullano a vicenda. Una bugia letteraria, accompagnata da un segnale di bugia, non corri­ sponde più alla definizione della bugia in senso extraletterario. Nella scena di Goldoni il discorso bugiardo e il segnale di bugia si biforcano nelle repliche del bugiardo e del suo servitore. E una conven­ zione letteraria delle scene confidenziali a ren­ derlo possibile. I confidenti svolgono il ruolo di una parte dell’io dei protagonisti. Ma in Goldoni si trova anche un ricco inventario di altri e più sottili segnali di bugia. Soprattutto si trova il segnale di bugia per eccellenza: l’assicurazione iterata della propria sincerità. Luciano aveva già intitolato un racconto di bugie Storie vere e, in

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tempi più recenti, Jean Cocteau fa ancora ini­ ziare così il monologo del suo bugiardo in Le Menteur: «Je voudrais dire la vérité. J ’aime la vérité» (Vorrei dire la verità. Amo la verità)1. Comprendiamo allora anche Lelio quando dice: Guardimi il cielo, che io dica una falsità; non sono capace di alterare in una minima parte la verità. Da che ho l’uso della ragione, non vi è persona che possa rimproverarmi di una leggiera bugia. Domandatelo al mio servitore (I, 11).

Possiamo cogliere qui una pluralità di motivi se­ condari intorno alla classica assicurazione di since­ rità. Il bugiardo giura in nome di Dio e, se neces­ sario, è pronto a morire all’istante, se le sue parole non sono vere. L’assicurazione di sincerità rap­ presenta infatti al tempo stesso la negazione della bugia, anzi della capacità di mentire. Dell’assicu­ razione di sincerità fa parte anche il ricorso a testi­ moni che abbiano visto o sentito o, in mancanza di testi falsi, l’assicurazione di essere stato perso­ nalmente testimone dell’evento. Se tutto questo non basta, il bugiardo passa dalla difesa all’attacco e accusa altri di aver mentito. Schiller la chiama «la fiducia sfacciata della bugia» {der Lüge kecke Zuversicht) e il Lelio di Goldoni ne è provvisto. A

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questo scopo si esprime con smisurato compiaci­ mento per i dettagli nell’inventare storie costellate di bugie. Così il bugiardo di Goldoni sfida i mi­ gliori gazzettieri d’Europa a inventare un «fatto così bene circostanziato» (H, 12). Contribuiscono a rendere precisi i dettagli soprattutto l’esattezza dei nomi e delle cifre; il bugiardo non ne rispar­ mia. Le cifre non sono per lui mai troppo alte, né i nomi mai troppo lunghi. Il guaio è quando poi ci si ingarbuglia. «Quando si è detta una bugia, ci vuole buona memoria», si dice già nella com­ media Il bugiardo di Corneille2. Se poi si cade in trappola con una bugia, ci si toglie d’impaccio in­ ventandone un’altra ancora più grossa. Il «maestro di bugie» ammassa davanti a sé una grande monta­ gna di bugie, che continua a crescere, quanto più egli mente e quanto più spesso viene colto in fallo. Persino l’ammissione parziale di una bugia può di­ ventare il trampolino di lancio per nuove trovate e consente di protestare la sincerità per dare spazio a una nuova e più grande bugia. Tutti questi sono segnali di bugia e non è ne­ cessaria una grande cultura letteraria per ricono­ scerli come tali. Basta un po’di psicologia3. La let­ teratura si basa sulla psicologia elementare degli uomini e ne amplifica gli elementi, trasformandoli in motivi. Ma chi non ha esperienza della natura

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umana non riuscirà a orientarsi nella letteratura della bugia, perché non ne intravede i segnali. Gli succede come a quel moderno commenta­ tore di Luciano che, ancora dopo quasi duemila anni, cade vittima à Æ Amante della menzogna. Eucrate, l’amante della menzogna, aveva affer­ mato infatti, in un passo dei suoi racconti intrisi di bugie, di non essere neppure lui esattamente al corrente di qualche dettaglio. Il dotto commen­ tatore osserva in una nota a piè pagina come ciò stia a dimostrare che Luciano descrive il suo Eu­ crate in modo realistico4. No, caro commentatore, questo dimostra solo che Luciano sapeva usare i segnali di bugia. Chi fornisce cento dettagli e al centounesimo dice di non essere più così sicuro, automaticamente convalida in modo suggestivo gli altri cento dettagli falsi. Qui comincia la raffi­ natezza dei segnali di bugia. In Luciano si incontrano altri segnali di bugia, difficilmente adattabili per la scena. Nel dialogo llamante della menzogna, lo scettico si ritrova infatti in una compagnia di buontemponi dalla bugia facile, che si raccontano a vicenda storie zeppe di bugie. Il piacere del mentire ce l’hanno tutti scritto in fronte. Si tratta di una situazione fondamentale della bugia letteraria. Gli amici di una brigata si raccontano storie intrise di bugie. E

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un ciclo di storie come in Boccaccio, con una nar­ razione dagli effetti però più grossolani. Ognuno, a turno, deve tentare di dirla più grossa degli al­ tri. La situazione narrativa è quella di una scom­ messa. Si introduce la propria storia, sminuendo quella appena ascoltata: «ma questo non è nulla; ascoltate questa...». Vince chi inventa le bugie più grosse. Quello è il campione. Nella fiaba si trova spesso una variante di questa situazione narrativa, quando il re delle bugie promette la propria figlia in moglie a colui che saprà mentire meglio. Così nascono le dinastie e le case regnanti nel regno delle bugie. I segnali di bugia possono anche trovarsi nei contenuti delle storie intrise di bugie. La bugia letteraria ha i suoi territori privilegiati: l’amore, la guerra, i viaggi per mare e la caccia parlano la stessa lingua - tutte occupazioni pericolose, dove quello che conta è il successo. «Il racconto delle avventure amorose non può aver grazia senza un po’ di romanzo», dice il Lelio di Goldoni (I, 15), e lui lo sa bene. Una volta che la cornice è predisposta per accogliere l’attesa bu­ gia, come spesso accade in letteratura fin dal ti­ tolo, già la scelta di uno di questi temi è segnale di bugia. Con argomenti del genere è un piacere farsi prendere in giro.

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Oltre a questi territori, esiste un altro paese in cui la bugia è di casa. Non intendo Creta, i cui abitanti - secondo un famoso sofisma - sono tutti bugiardi. (Però è un cretese a dirlo, quindi non sarà così. D ’altronde questo cretese ha men­ tito e allora anche gli altri cretesi potrebbero es­ sere dei bugiardi.) Penso alla contrada chiamata «mondo alla rovescia»5. Una delle sue province si chiama paese di Cuccagna e se ne parla in una storia che inizia così: «Voglio raccontarvi e non voglio mentire, ho visto due piccioni arrosto volare...». Nella vita normale i piccioni arrosto non ci volano in bocca; nel paese di Cuccagna, dove tutto si svolge in modo diverso, sì. Così succede sempre nel mondo alla rovescia. Tutto è capovolto: i pesci volano, gli uccelli strisciano; le pecore sono selvatiche e i leoni mansueti; i gio­ vani si riposano e gli anziani danzano; nevicano rose rosse e piove del vino fresco. Sappiamo bene che non nevicano rose e non piove vino, ma non ci facciamo spaventare dal segnale di bugia della successione di cose impossibili, per seguire il narratore di bugie nel paese delle as­ surdità, quando dice: Era buio, la luna splendeva chiara e la campagna verde era coperta di neve,

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quando un’auto veloce come un lampo, svoltò lentamente l’angolo...

Entriamo in questo paese e salutiamo i suoi abi­ tanti con un sorriso, come si fa scambiandosi gli auguri. E un sorriso con il quale i membri di un consesso della bugia si riconoscono, segnale di bugia per iniziati, enigma per gli stupidi e i pe­ danti. Ora, ci sono sempre state voci che hanno di­ chiarato, con la massima serietà, che la letteratura nell’insieme fosse il paese delle bugie. Ci guarde­ remmo dal fame menzione, se tra queste non ci fosse quella di Platone. E la voce di un filosofo, e quindi il rimprovero rivolto alla poesia equivale a dire che la filosofia parla la lingua di una realtà propria e la lingua della poesia quella di una realtà impropria. Così come nella bugia la frase detta copre una frase pensata, così le parole dei poeti pare coprano i pensieri dei filosofi. Rispetto alla verità della filosofia, la poesia sarebbe bugia o forse, quantomeno, verità offuscata. A ogni modo ci vorrebbe un’esegesi filosofica per creare, con fatica, armonia tra la finzione dei poeti e la pura dottrina dei maestri della filosofia. Beato chi ci crede! Non lo possiamo aiutare; le muse gli hanno negato una diversa perspica-

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cia. Herder scrive: «Solo un insensato confon­ derebbe poesia e bugia»6. E Nietzsche annota: «L’arte dunque tratta l’apparenza come appa­ renza, non vuole quindi ingannare, è vera»7. Chi non ci crede non potrà venir convinto nemmeno da una linguistica della bugia. Se però dovesse aver accettato le riflessioni fin qui esposte, una linguistica della bugia può forse levargli almeno uno scrupolo. Nessuno viene ingannato dalla letteratura. Non perché non ci sia il proposito di ingannare: i poeti hanno davvero intenzione di fare poesia. Ma, quando la letteratura è bu­ giarda, i segnali di bugia ci sono sempre. La letteratura presenta se stessa come tale. Tutti i tratti tradizionali dei generi letterari sono anche segnali che quel testo stampato o parlato è let­ teratura, non verità. E, tra i generi, quello che deve insospettire di più in quanto intriso di bu­ gie, la fiaba appunto, è anche quello che pos­ siede i tratti più tipici del suo genere letterario. Anche un bambino è in grado di riconoscerli. Ma su una cosa bisogna convenire con chi disprezza la letteratura. C’è stato nella storia della letteratura un periodo in cui sembrava che si stesse smarrendo la bussola. La letteratura so­ steneva di voler far dono di verità. Bene, niente di nuovo in questo. Il segnale era noto dalla

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lunga tradizione della letteratura della bugia. Lo si poteva interpretare nel senso che da quel momento la letteratura avrebbe inventato bugie particolarmente grosse. Ma, guarda un po’, non era così. La letteratura non voleva affatto esco­ gitare bugie più grosse, bensì esprimere verità più profonde. Voleva essere «realistica». Era un fatto irritante, i segnali non funzionavano più. Da allora nella letteratura tutto si è fatto più complicato e da allora certi bugiardi, quelli veri voglio dire, si sono accorti di poter mettere la letteratura al servizio di propositi malvagi. La letteratura al servizio della bugia è bugia. Ma da allora ogni opera letteraria che rifiuta di mettersi al servizio della bugia è verità e - per dirla con Brecht - «verità, che vai la pena di scrivere»8.

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POSTFAZIONE

Q u arantan ni dopo

Q uarant’a n ni dopo

uesto libro è nato nel 1966 in rispo­ sta al primo bando di concorso della Deutsche Akademie für Sprache und Dichtung dal titolo Possono le parole nascondere i pensieri?. Da allora è stato più volte pubbli­ cato e ristampato. Oggi è disponibile nella 7a edizione presso l’editore Beck di Monaco. La prima traduzione italiana è stata pubblicata dal Mulino nel 1976, con il titolo Linguistica della menzogna, nella miscellanea Metafora e men­ zogna. La serenità dell’arte, curata da Lea Rit­ ter Santini. Sempre per il Mulino, in seconda edizione, ma come volume a sé, esce ora nella nuova traduzione di Franca Ortu. A questa lunga storia editoriale è opportuno dedicare qualche considerazione. Nei buoni quarant’anni trascorsi da quella prima pubblicazione, in diversi paesi molto si è riflettuto e scritto sulla linguistica e sulla bugia1.

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Se volessi tener conto di tutti i contributi, dovrei scrivere un nuovo saggio. Da un simile pensiero ho però preso le distanze, anche perché dubito che una nuova redazione possa rientrare nel for­ mato di un lavoro breve e non debba invece di­ ventare un grosso libro. Sono quindi giunto alla conclusione di accludere allo scritto di allora una postfazione di oggi, per avviare un dialogo critico con l’autore che ero a quel tempo.

Parola, frase, testo Volgendomi indietro, la prima considera­ zione riguarda la «linguistica», che nel titolo te­ desco del mio saggio era collegata alla Lüge (bu­ gia) con un’allitterazione. Per la linguistica, gli anni Sessanta sono stati un periodo di grande vivacità, nel corso del quale da disciplina stret­ tamente orientata in senso storico si è trasfor­ mata in linguistica strutturale, animata dal pro­ posito di descrivere come nella lingua sia tutto sistematicamente collegato. Lo «strutturalismo», come fu chiamato il nuovo filone di ricerca, con grande ammirazione dai suoi estimatori e al­ trettanta avversione dagli oppositori, testava di preferenza i propri metodi sulla lingua in uso

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(e questa era una novità), senza trascurare (cosa inaudita) le strutture letterarie. Ben presto le ricerche fecero un ulteriore balzo in avanti, oltre Atlantico verso la «gram­ matica generativa», nell’Europa centrale piut­ tosto verso la «linguistica testuale» Textlinguis­ tik). E il filone storico, in cui rientrava anche questo saggio, nel quale gli addetti ai lavori ri­ conoscono il manifesto nascosto della linguistica testuale (qui denominata, con riferimento al tema, semantica o sintassi testuale). Questa premessa intende innanzitutto mo­ strare che la nuova linguistica, per aprire spazi nuovi all’analisi, ha arricchito l’orientamento tradizionale verso la «parola» e la «frase» con una dimensione più ampia chiamata «testo». «Parola» era stato il concetto fondamentale della scienza del significato (semantica), «frase» quello dell’analisi delle frasi (sintassi). La grammatica generativa si apprestava per l’appunto a portare la «frase» persino in posizione assiomatica per l’intera linguistica, inclusa la semantica, in modo che null’altro, se non forme dirette o indirette di frasi, potesse venire considerato genuino. La mia idea era allora che, sotto gli auspici della linguistica testuale, si dovesse procedere esattamente in senso contrario. Come punto di

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partenza e con riferimento al «gioco linguistico» (lo Sprachspiel di Wittgenstein), viene scelto il «testo-nella-situazione», orale o scritto. Da qui l’analisi linguistica deve passare a esaminare unità più piccole di testo, con l’intento di mettere a fuoco i livelli diversi della «sintassi testuale» e della «semantica testuale». Nei miei propositi, quindi, il libro aveva lo scopo, principale o secondario, di testare l’ido­ neità della neonata linguistica testuale su un og­ getto allora fuori dal raggio tradizionale di in­ dagine sulla lingua: la bugia. Essa rientrava fino ad allora negli ambiti di competenza di filosofi e psicologi, moralisti e columnist. Per i linguisti era un terreno quasi vergine. Ma poteva un unico autore raggiungere una meta così ambiziosa al primo tentativo? Oggi, volgendomi indietro, vedo con chiarezza i limiti che in quegli anni mi si ponevano come rappresentante della giovane linguistica testuale. E così, rileggendo quel che ho scritto allora, mi disturba per esempio che nelle mie descrizioni testuali venga usata ancora troppo spesso la parola frase, anche se perlopiù nell’accezione (quasi) innocente di «parte di testo». In seguito, nelle mie ricerche di lingui­ stica testuale e in particolare nelle grammatiche testuali della lingua francese e di quella tede-

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sea (1985 e 1993), ho scartato quasi del tutto il concetto di frase dalla mia teoria grammaticale, considerandolo superfluo per un’analisi che vo­ glia essere coerente con il metodo linguistico-testuale. Se già allora, nel 1966, avessi avuto più fiducia nella nuova impostazione di ricerca, an­ che le mie osservazioni sulle parole e sulle frasi menzognere sarebbero forse state più ricche di prospettive culturali.

Una lacuna: la bugia cortese Ripensando al saggio del 1966, oggi mi domando anche se, tra le considerazioni sulla bugia, non sarebbe stato opportuno includere anche un piccolo capitolo sulla cortesia. Nelle buone maniere del comportamento cortese, da cui la storia culturale europea ha mutuato alcuni dei suoi colori più luminosi, non esiste forse un aspetto menzognero, sia palese che na­ scosto? E un’idea che viene fortemente soste­ nuta in un capitolo del noto trattato dell’arci­ vescovo Giovanni Della Casa Galateo overo D e’ costumi (1558), dove l’autore riflette in termini espliciti sul possibile rapporto fra cortesia e bu­ gia2.

I li

È vero che Della Casa ha scritto quest’opera principalmente in lode e onore delle buone ma­ niere, tanto del parlare, quanto dell’agire, qualità che pur non trovando per mano sua una precisa collocazione nel canone delle grandi ed eroiche virtù, tuttavia possono considerarsi «cosa molto a virtù somigliante». Ciò nondimeno, tra le maniere più o meno gentili si notano delle forme abba­ stanza vicine alla bugia. Della Casa le chiama, nel suo trattato, con un termine che persino a lui pare estraneo: cerimonie. Si tratta, a parere dell’autore, di forme affettate della cortesia e di certo vale la regola che «niuna cirimonia si dee usare». Chi parla o agisce in forma cerimoniosa prenderebbe la bugia come misura della convivenza. In particolare, esistono due varianti del com­ portamento cerimonioso e bugiardo, da evitare entrambe a ogni costo. L’una e l’altra costitui­ scono una deviazione dalle buone maniere, la prima verso l’alto e la seconda verso il basso (v. sopra, le pagine sull’ironia). Verso l’alto vuol dire che le persone mentono per eccesso, glo­ riandosi con vanità e superbia. Verso il basso vuol dire che mentono per un eccesso di mode­ stia, svilendo se stesse ugualmente a fini men­ zogneri. Nell’un senso e nell’altro la verità del comportamento cortese viene mancata, cosicché

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il Della Casa può consigliare ai suoi lettori: «né vantare ci debbiamo de’ nostri beni né farcene beffe». Eppure accade non di rado che la gente fac­ cia abuso delle cerimonie bugiarde, andando contro quella che è la ragione. Perché lo si fa allora? Ovviamente perché l’usanza spesso per­ vertita è «troppo potente signore». Ne risulta, però, a favore dei peccatori, che in molti casi una bugia cortese «non è peccato nostro ma del secolo». Infine, la clemenza dell’arcivescovo si giustifica con l’argomentazione che tutte le ce­ rimonie, sebbene siano bugiarde nel principio, non lo sono sempre di fatto nella realtà psi­ chica. E sappi che tu troverai di molti che mentono, a niun cattivo fine tirando né di proprio loro utile né di danno o di vergogna altrui, ma perciocché la bugia per sé piace loro come chi bee non per sete ma per gola del vino. Un’osservazione saggia che sembra già tagliata su misura per il grande bugiardo goldoniano: Lelio Bisognosi.

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Bugia e politica Un’altra ritrattazione opportuna rispetto al testo del mio libro si riferisce al linguaggio poli­ tico. Quando, infatti, negli anni Sessanta tentavo di trattare con metodi linguistici la magna quae­ stio della bugia, non avevo ancora raggiunto il livello critico che proprio allora, nella seconda metà degli anni Sessanta, emergeva nella co­ scienza pubblica degli europei da un gran nu­ mero di fatti di cui si veniva a conoscenza, oltre che dalle riflessioni politiche e morali derivanti da quella cesura storica. Ne fui toccato, e vissi un profondo cambiamento delle mie idee poli­ tiche. Nello stesso contesto storico mi si impose anche la necessità di ripensare al ruolo nefasto assunto dalla bugia negli anni più terribili del Novecento. Il primo shock mi fu provocato dai fatti emersi al (primo) processo sui crimini di Auschwitz, nonché dalla forma in cui essi fu­ rono tradotti in parole poetiche da Peter Weiss nell’oratorio 11istruttoria (Die Ermittlung, 1965). Le dichiarazioni degli accusati e anche dei testimoni, per come risultano documentate nel lavoro di Weiss, sono infatti piene di pa­ role e frasi ovviamente bugiarde, del tipo «Non ricordo», «Non ne so niente», «Mi chiedete

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troppo», «Non so, non c’ero» e simili, che il­ lustrano sinistramente un noto aforisma di Friedrich Nietzsche: «Questo l’ho fatto, dice la memoria. - Non ho potuto farlo, dice il mio or­ goglio, e resta spietato. Finalmente, la memoria cede». Avendo in mente queste parole, mi do­ mando se quei testimoni abbiano mentito con consapevolezza o se forse le loro parole appa­ rentemente innocenti esprimano piuttosto una loro verità individuale, poiché è possibile che nei vent’anni che erano trascorsi sino ad allora dal tempo della Shoah, persino la memoria si fosse stravolta e piegata alla bugia. Nello stesso decennio l’interesse dell’opi­ nione pubblica si è rivolto a un altro processo per crimini contro l’umanità, che ha visto come imputato l’SS Adolf Eichmann, il principale organizzatore della «soluzione finale» (1963). La filosofa ebrea Hannah Arendt, sfuggita per poco lei stessa al genocidio, seguì il processo a Gerusalemme, annotando con accuratezza il comportamento criminale di quell’uomo che durante la guerra aveva fatto funzionare alla perfezione i campi di concentramento e di ster­ minio3. Con-gran sorpresa dell’osservatrice, si delineò nel corso del processo un’immagine dell’accusato da cui traspariva a malapena il Sa­

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tana che senza dubbio doveva avere incarnato. Emergeva invece il carattere «banale» di un bu­ rocrate in cui l’abitudine a mentire e a ingan­ nare era impercettibilmente giunta a produrre, senza lasciar trapelare emozioni particolari, un genocidio quasi industriale. Aver descritto que­ sta struttura criminale, così inumana, nei ter­ mini di «banalità del male» costituisce il me­ rito imperituro della scrittrice, che pure, dopo la pubblicazione del libro, è stata coinvolta in una polemica amara e in parte infame condotta contro la sua visione del male assoluto ripresa da Kant. Gli insegnamenti politici che si possono trarre da queste esperienze angoscianti in ogni senso, per la scrittrice e i suoi lettori, Hannah Arendt li ha poi trasformati in un libro, pubbli­ cato nel 1967 con il titolo Verità e politica, am­ pliato nel 1972 da un altro lavoro intitolato La menzogna in politica4. Mi rincresce profonda­ mente che le conoscenze storiche e gli spunti di riflessione contenuti in questi scritti non fossero ancora disponibili mentre lavoravo al saggio sulla bugia. Oggi, grazie alle dolorose esperienze e alle documentazioni di Hannah Arendt, pos­ sono identificarsi con maggiore puntualità quelle «finzioni totali», coerenti ma senza volto, e dun-

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que d’una infinita perfidia, con le cui suggestive conseguenze il regime totalitario di Hitler è riu­ scito per dodici terribili anni a espellere la verità dalla sfera del suo terrore. Ma nemmeno nelle società democratiche, aggiunge con dolore la Arendt, si può star sicuri che la bugia organiz­ zata e manipolata non possa riemergere e pren­ dere il potere per un tempo più o meno lungo. Resta l’obbligo di vigilare. Concludendo questa postfazione desidero soffermarmi su un romanzo importante in cui, negli stessi anni Sessanta, la bugia politica nella sua forma più malvagia è stata denunciata per mezzo della finzione letteraria. Mi riferisco a Jakob il bugiardo, dello scrittore tedesco Jurek Becker (1937-1997), pubblicato in Germania nel 1969 (in Italia soltanto nel 1999)5. Nel­ l’intensa testimonianza romanzata che emerge dalla profonda desolazione del ghetto di Var­ savia, l’ebreo Jakob è il maestro bugiardo della situazione. Ha per caso una vecchia radio e così ogni giorno può inventare per i compagni notizie che annunciano la liberazione sempre più imminente da parte delle truppe sovieti­ che. In questo modo Jakob il bugiardo riesce a mantenere viva fino alla catastrofe finale l’in­ gannevole finzione e a piantare alcuni fiori di

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speranza nell’anima dei compagni. Il numero di suicidi nel ghetto diminuisce per un po’ di tempo, il numero degli assassini alla fine della persecuzione, no. Chi mente allora in questo «romanzo», quando Jakob il bugiardo mente?

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N ote

N ote

I. «Magna quaestio est de m endacio ...» 1 J.W. Goethe, Faust, Milano, Mondadori, 19822, p. 915 (parte II, atto IV, Sui contrafforti).

2 Agostino di Ippona, Manuale sulla fede, speranza e carità, in Opere di sant’Agostino. VL2. La vera religione, Roma, Città nuova, 1995, p. 501. 3 Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, Bolo­ gna, Esd, 1996, vol IV, p. 245 (II, II, q. 110, a. 3); Bo­ naventura da Bagnoregio, Commentaria in quatuor libros sententiarum magistri Vetri Lombardi, in Opera omnia , Firenze, Quaracchi, 1887, vol. Ili, p. 844 (Sent. d. 38, a. unicus, q. II). 4 Disticha Catonis IV, 20. 5 Voltaire, Dialogo tra il cappone e la pollastra , in La cena del conte Boulainvilliers e altri dialoghi filoso­ fici , Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 110; Ch.M. de Tal­ leyrand, Mémoires de Barère, 1842, citato in G. Büchmann, Geflügelte Worte, Konstanz, Asmus, 1950, p. 281. 6 H. Friedrich (a cura di), Schwierigkeiten, heute die Wahrheit zu schreiben, München, Nymphenburger Verl.Handl., 1964, p. 84.

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7 W. Shakespeare, Enrico V, in Tutte le operey Fi­ renze, Sansoni, 198211, p. 584 (atto V, scena II). 8 J.W. Goethe, Wilhelm Meister. Gli anni del­ l'apprendistato, Milano, Adelphi, 2006, p. 304 (libro V, cap. XVI); cfr. L. Spitzer, Essays in Historical Semantics, New York, Vanni, 1948, p. 142. 9 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus (1922), Torino, Einaudi, 1989, p. 41 (4.002). 10 E Kainz, Lügenerscheinungen im Sprachleben, in O. Lipmann e P. Plaut (a cura di), Die Lüge , Leipzig, Barth, 1927, pp. 212-243. 11 Agostino di Ippona, La menzogna, in Opere di sant’Agostino. VIL2. Morale e ascetismo cristiano, Roma, Città Nuova, 2001, pp. 318-319.

II. Parola e testo 1 S. Mallarmé, Prefazione al Trattato del verbo di René Ghil, in Opere di S. Mallarmé, Milano, Lerici, 1963, p. 406. 2 F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso ex­ tramorale, in Su verità e menzogna, Milano, Bompiani, 2006, p. 99; L. Weisgerber, Das Menschheitsgesetz der Sprache als Grundlage der Sprachwissenschaft, Heidel­ berg, Quelle und Meyer, 1964, pp. 38-43. 3 P. Valéry, Cahiers, Paris, Cnrs, 1957, vol. II: 19001902, p. 261; analogamente vol. V: 1913-1916 (1958), p. 825.

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4 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche , Torino, Ei­ naudi, 1999, p. 33 (I, n. 43). 5 Vi ha fatto riferimento, in altro contesto, P. Hart­ mann, Zur Theorie der Sprachwissenschaft, Assen, van Gorcum, 1961, pp. 16 ss. 6 Voltaire, Dizionario filosofico , Milano, Universale economica, 1930; N. Sarraute, Ritratto d'ignoto, Milano, Feltrinelli, 1959, p. 63. 7 Jacob e Wilhelm Grimm, Del diavolo il fuligginoso fratello , in Fiabe, Milano, Rizzoli, 1995, pp. 527-528. 8 B. Spinoza, Epistolario, Torino, Einaudi, 1951, p. 226 (lettera L).

III.

Parola e concetto

1 Pare che Marco Porcio Catone (Catone il Censore) abbia ricavato questa citazione (da intendersi nel senso «Se padroneggi l’argomento, le parole seguiranno») dsSTÀrs rhetorica di Gaio Giulio Vittore e F abbia inse­ rita nel Praeter Librum de re rustica quae extant, fram­ mento 15. 2 Nietzsche, Su verità e menzogna, cit., p. 89. 3 E. Bonnot de Condillac, La langue des calculs (1798), in Œuvres philosophiques de Condillac, Paris, Puf, 1947-1951, vol. II, p. 420. 4 SulPargomento si possono consultare C.G. Hempel, La form azione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica, Milano, Feltrinelli, 19763; T.T.

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Segerstedt, Some Noies on Definitions in Empirical Sci­ ence, Uppsala, Lundequist, 1957. 5 O. Spengler, Il tramonto d e ll Occidente (1922), Parma, Guanda, 1978 (risi. 1999), p. 861.

IV. L e parole possono mentire? 1 Goethe, Faust, cit., p. 251 (parte I, atto II, La casa

della vicina). 2 B. Brecht, Cinque difficoltà per chi scrive la verità (1949), in Teatro I, Torino, Einaudi, 1956, p. 13. 3 In Schwierigkeiten, heute die Wahrheit zu schrei­ ben , cit., p. 35. 4 Ibidem, p. 41. 5 E. Rosenstock-Huessy, Die Sprache des Menschen­ geschlechtes, Heidelberg, L. Schneider, 1963-1964, voi. II, p. 116. 6 Di ciò risentono le tesi terribilmente generalizzate sulla disumanizzazione della lingua tedesca sostenute da George Steiner, John McCormick e Hans Habe e conte­ nute nella rivista «Sprache im technischen Zeitalter», 6 (maggio 1963), pp. 431-475. E invece utile consultare V. Klemperer, LTI: la lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo (1942), Firenze, Giuntina, 1999. E ancora D. Sternberger, G. Storz e W.E. Süskind, Aus dem Wör­ terbuch des Unmenschen, Hamburg, Claassen, 1957.

124

V. Pensare 1 B. Brecht, II cerchio di gesso del Caucaso (194445), Torino, Einaudi, 1964, p. 107 (scena VI). 2 Agostino, La menzogna, cit., p. 312.

VI.

Contro gli iconoclasti

1 Agostino di Ippona, Contro la menzogna, in Opere di sant'Agostino. VII.2. Morale e ascetismo cristiano, cit., pp. 448-449. Letteralmente: «Ma questo evidentemente è un’assurdità». 2 Goethe, Paust, cit., p. 629 (parte II, atto II, Notte di Valpurga classica). 3 Tratto questi temi più in dettaglio nei saggi Moneta e parola. Ricerche su di un campo metaforico, e Semantica delle metafore audaci, entrambi in Metafora e menzogna. La serenità dell'arte, Bologna, Il Mulino, 1976, pp. 31-48

«

e pp. 55-83.

4 R. Musil, L'uomo senza qualità , Torino, Einaudi, 1996, p. 346.

VII. Sì e no 1 Maggiori dettagli nel mio libro Tempus. Le fun­ zioni dei tempi nel testo , Bologna, Il Mulino, 20042. 2 H.G. Gadamer, Che cos'è la verità?yin «Rivista di

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filosofía», 47 (1956), 3, pp. 251-266. Di Gadamer cfr. anche Verità e metodo , Milano, Bompiani, 200113, pp. 418 ss. 3 Le due citazioni da Gadamer, Che cos’è la verità?, cit., sono alle pp. 255 e 262. 4 Agostino, Contro la menzogna, cit., p. 415. 5 W. Hofer (a cura di), Il Nazionalsocialismo. Docu­ menti 1933-1945, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 172. 6 Ibidem , p. 169.

Vili. Ironia 1 S. Kierkegaard, Sul concetto d’ironia in riferimento co­ stante a Socrate, Milano, Guerini e Associati, 1989, p. 21. 2 W. Kayser, Das sprachliche Kunstwerk , Bern, Francke, 1959, pp. I l i ss. 3 F. Paulhan, La morale de l’ironie , Paris, Alcan, 1925, p. 146. 4 P.J. Proudhon, Les confessions d ’un révolution­ naire (1849), in Œuvres complètes, Paris, Rivière, 1923, vol. VIII, pp. 341 s. 5 Aristotele, Etica Nicomachea, in Opere , RomaBari, Laterza, 1973, voi. VII, p. 100. 6 F. Schlegel, Frammenti critici e poetici , Torino, Ei­ naudi, 1998, p. 11 (framm. 42, sez. I). 7 Cicerone, De oratore , in Opere retoriche, Torino, Utet, 1970, vol. I, pp. 392 s.

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8 Platone, Eutifrone, in Opere, Bari, Laterza, 1967, vol. I, p. 9. 9 Ibidem , p. 21. 10 R Musil, Dàzrc, Torino, Einaudi, 1980, voi. E, p. 1612. 11 Kierkegaard, Sul concetto d'ironia in riferimento costante a Socrate, cit., p. 32, ricorda che il Socrate di Senofonte non è ironico. 12 Platone, Eutifrone, cit., p. 22. 13 R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften , Ham­ burg, Rowohlt, 1952, p. 1603 (la citazione non è conte­ nuta nell’edizione italiana).

IX. I p oeti m entono? 1 J. Cocteau, Nouveau Théâtre de poche , Monaco, Ed. du Rocher, 1960, p. 111. 2 P. Corneille, Il bugiardo, in Teatro scelto, Milano, Bietti, 1974, p. 259 (IV, 5). 3 Le macchine della verità si basano sul presuppo­ sto - evidentemente provato - che una bugia è accom­ pagnata da dei segnali. Questi, nella bugia letteraria, si muovono verso l’esterno, ma in quella morale verso l’in­ terno, nei circuiti fisiologici del corpo, dove strumenti sofisticati riescono a individuarli. Quanto sia affidabile un simile procedimento e quali giustificazioni trovi da un punto di vista morale, è un’altra questione. 4 Luciano di Samosata, Damante della menzogna, Venezia, Marsilio, 1993.

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5 Intorno a questo motivo esiste fin dall'antichità una variante che affronta in modo critico le problema­ tiche del tempo. Cfr. E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino (1954), Firenze, La Nuova Italia, 1995. 6 Dall'opera postuma di Herder, pubblicata in W. Kaiser, Die Wahrheit der Dichter, Hamburg, Rowohlt, 1959, p. 83. 7 Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramo­ rale, cit. (dagli appunti di Nietzsche per il saggio). 8 Brecht, Cinque difficoltà per chi scrive la verità , cit., p. 8.

Postfazione. Q uarantanni dopo 1 Mi limito a citare qui Maria Bettetini, Breve sto­ ria della bugia. Da d is s e a Pinocchio^ Milano, Raffaello Cortina, 2001. 2 G. Della Casa, Galateo , Milano, Rizzoli, 1988. 3 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Ge­ rusalemme (1964), Milano, Feltrinelli, 20035. 4 H. Arendt, Verità e politica (1967), Torino, Bollati Boringhieri, 1995, e della stessa autrice, La menzogna in politica (1972), Torino, Marietti, 2006. 5 J. Becker, Jakob il bugiardo , Milano, Feltrinelli, 1999.

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Finito di stampare nel mese di settembre 2007 dalla litosei, via rossini 10, rastignano, bologna www.litosei.com

In difesa dell’innocenza delle parole Possono le parole nascondere i pensieri? La risposta, un’appassionata arringa contro una diffusa tradizione pessimistica, difende la «verità della lingua» e l’innocenza delle singole parole. Una fitta trama di rapporti lega il tema alla filosofia e alla teologia classiche, alla retorica, alla critica letteraria. Con raffinatezza e ironia Weinrich si muove fra Shakespeare e Goldoni, Platone e Wittgenstein, cita i discorsi di Hitler e Eichmann per approdare alla conclusione che no, le parole non mentono: i segni linguistici sono fatti sia per il bene sia per il male, e dunque l'inganno non è nella lingua, ma sempre nell’uso che se ne fa.

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