La filosofia dell'arte cristiana e orientale
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Nei nove saggi raccolti in questo volume Ananda Kentish Coomaraswamy formu­ la le sue idee su temi e argomenti che spa­ ziano dalla filosofia alla sociologia, dal folclore alla concezione indiana del ri­ tratto ideale, ribadendo che quelle che espone non sono opinioni >. (Dallo scritto di Grazia Marchianò) >>

In copertina: Particolare della cupola del tempio di Adinatha a Ranakpur, XIV secolo.

Ananda Kentish Coomaraswamy.

Titolo originale: Christian and Orientai Philosophy of Art (nella precedente edizione: Why Exhibit Works ofArt)

© 1994 MUNSHIRAM MANOHARLAL © 2005 VIA MANIN

PUBLISHERS PVT. LTD., NEW DELHI

ABSCONDITA SRL

l3- 20121

MILANO

INDICE

' LA FILOSOFIA DELL ARTE CRISTIANA E ORIENTALE I. II. III. IV.

Perché esporre le opere d'arte? Verità e universalità della filosofia cristiana e orientale dell'arte

29

L'arte è una superstizione o un modo di vita?

61

A che cosa serve l'arte?

v. Bellezza e verità VI. VII. VIII. IX.

9 II

89 I03

La natura dell'arte medioevale

I I3

La concezione tradizionale del ritratto ideale

I2 I

La natura del «folclore» e dell'«arte popolare»

I3 5 I47

La bellezza della matematica

I 53

Note POSTFAZIONE

di Grazia Marchianò

Nota bibliografica

I67 I7 5

I. PERCHÉ ESPORRE LE OPERE D'ARTE?'"

'' Why Exhibit Works o/ Art?. Discorso per la American Association of Museums di Columbus (Ohio) e Newport (Rhode Island), maggio e ottobre 1941; pubblicato in , Newport 1937.

Conformemente al significato etimologico, intendia­ mo per superstizione una « sovrastruttura » ereditata dal passato, la cui comprensione e utilizzazione sfugge a noi moderni; e per modo di vita, una condotta volta al bene dell'uomo e capace, in particolare, di guidarlo al conseguimento della sua felicità presente e finale. Sembra oggi generalmente accettato che l'« arte » faccia parte di quei beni superiori della vita, che sono fruibili in ore di svago guadagnate al prezzo di altre ore di lavoro nient'affatto artistico. Conformemente a ciò, constatiamo che uno degli aspetti più ovvi e caratteri­ stici della civiltà moderna è una separazione di classe tra artisti e lavoratori, tra coloro, ad esempio, che di­ pingono sulla tela, e coloro che dipingono i muri delle case, tra chi impugna la penna e chi il martello. Non vogliamo certamente negare che esista una distinzione tra vita contemplativa e vita attiva, o tra attività libera e lavoro « servile », bensì sottolineare che la nostra civiltà ha in primo luogo separato rigidamente l'azione dalla contemplazione e, in secondo luogo, sostituito alla vita contemplativa una vita estetica, ossia, come implica lo stesso termine, una vita che gravita intorno al piacere. Su questo punto torneremo a soffermarci. In ogni caso siamo giunti a ritenere l'arte una categoria incompati­ bile con quella del lavoro, o almeno indipendente, e, per la prima volta nella storia, abbiamo realizzato una industria senz' arte. Da individualisti e umanisti quali siamo, attribuiamo un valore sproporzionato alle opinioni e ai fatti perso­ nali, e nutriamo un interesse insaziabile per le esperien­ ze altrui; ai nostri occhi l'opera d'arte è divenuta una sorta di autobiografia dell'artista. Alienata dall'attività comune del produrre cose utili, in senso sia materiale che spirituale, l'arte ha finito con il significare per noi

la proiezione in una forma visibile dei sentimenti o del­ le reazioni della personalità peculiare dell'artista, so­ prattutto di quegli individui eccezionali che riteniamo « ispirati » e che ci piace descrivere come geni. Poiché il talento artistico è avvolto di mistero, noi, che pure accettiamo la più modesta condizione del lavoratore, siamo stati ben felici di chiamare « profeta » l'artista e di concedergli, in cambio della sua « visione », una quantità di privilegi che un uomo comune esiterebbe a esercitare. Ci rallegriamo soprattutto che l'artista si sia « emancipato » da quella che era stata un tempo la sua condizione di servitore della chiesa o dello stato, sicuri che la sua misteriosa immaginazione possa operare me­ glio a caso; se un artista come Blake ancora rispetta l'i­ conografia tradizionale, diciamo che egli è un artista ciò malgrado; e se, come in Russia o in Germania, lo stato presume di « arruolare » l'artista, ci disturba più il principio implicato in quell'atteggiamento che non la natura del regime. Se noi stessi esercitiamo una censura resa necessaria dalla sconvenienza morale di certi tipi di arte, ci sembra per lo meno di dovere delle scuse. Mentre un tempo lo scopo più alto della vita consisteva nell'acquistare la libertà da se stessi, ora ci preme assi­ curarci la maggior libertà possibile per noi stessi, poco importa da che cosa. Nonostante le caratteristiche dell'ambiente in cui vi­ viamo, con il suo soverchio ma deprezzato livello di vi­ ta, la nostra concezione della storia si basa ottimistica­ mente sull'idea di « progresso »; definiamo relativamen­ te « barbare » culture antiche o di altri popoli, e relati­ vamente « civile » la nostra, senza riflettere che tali pre­ giudizi, che non sono altro che appagamenti di un desi­ derio, possono essere assai lontani dalla realtà. Infatti lo storico dell'arte scopre in ogni ciclo artistico un feno­ meno di declino da una primitiva intensità a una raffina­ tezza o cinica o sentimentale. Ma essendo per parte sua sentimentalista, materialista, cinico o, in una parola, umanista, egli può pensare ciò che vuole e opinare che l'artista primitivo o selvaggio « disegnava a quel modo » perché non sapeva fare di meglio; né aveva appreso a

vedere le cose come sono - il che è singolare, data la sua conoscenza della natura oltremodo maggiore e più profonda di quella dell'uomo « civilizzato » o « urbaniz­ zato » - e non intendendosi né di anatomia né di pro­ spettiva, non poteva che disegnare come un bambino ! Badiamo, infatti, che quando parliamo di imitazione o di osservazione della natura non intendiamo una imi­ tazione « fotografica », ma quella che passa attraverso il filtro dell'esperienza soggettiva dell'artista o addirittu­ ra, una rappresentazione della natura dell'artista passa­ ta al filtro della sua stessa esperienza. L'arte diventa al­ lora una forma di « autoespressione » pur restando, quanto al risultato, una imitazione della natura, essen­ zialmente figurativa più che formale. D'altro canto abbiamo constatato che anche nelle maggiori opere d'arte esiste sempre un certo grado di astrazione, e invocando l'approvazione platonica della bellezza geometrica, ci siamo detti: « Avanti, facciamo uso anche noi di formule astratte ! ». Senza badare che quelle formule fungevano da veicolo naturale di comu­ nicazione dell'arte antica, né erano un'invenzione per­ sonale o locale ma il linguaggio comune al mondo di al­ lora. La conseguenza dell'odierno interesse all' astrazio­ ne per se stessa, a parte le questioni di contenuto e di comunicabilità, è stata l'eliminazione della riconoscibi­ lità nell'arte, anche se il suo fine è rimasto essenzial­ mente rappresentativo. Si sono sviluppati dei simboli­ smi personali che non si basano su alcuna corrispon­ denza tra cose e princìpi, ma su associazioni private di idee. Di conseguenza, ogni artista astratto deve essere « spiegato » individualmente: l'arte non comunica idee ma serve solo a provocare reazioni, come dimostra ciò che rimane dell'arte contemporanea. Qual è dunque la dote peculiare dell'artista d'oggi, tanto apprezzato? Evidentemente, e per unanime con­ senso, una spiccata sensibilità, ed è questo il motivo per cui i termini moderni « estetico » ed « empatia » sono molto appropriati. Beninteso, per sensibilità intendia­ mo una ricettività alle emozioni, conformemente all' ac­ cezione greca ed ellenistica di az'sthesis, nel senso di una

disposizione a reagire percettivamente, distinta dall' at­ tività razionale della mente. Parliamo di un'opera d' ar­ te in quanto la « sentiamo », mai della sua « verità », non foss' altro della sua verità rispetto alla natura o a un sen­ timento naturale; l'« apprezzamento » equivale a una « assimilazione » dell'opera. Infatti, tutto ciò che ci pia­ ce o dispiace provoca in noi una risposta emotiva (poi­ ché escludiamo che le opere d'arte possano disgustarci, ci limitiamo a considerarle qui come una fonte di piace­ re) : bello è definito ciò che piace, pur ammettendo che le questioni di gusto non sottostanno ad alcuna legge. La funzione dell'arte è dunque quella di mettere in lu­ ce una bellezza che ci piace o che ci si insegna ad ap­ prezzare; il suo scopo è di procurare piacere; questo è l'arte per l'arte. Valutiamo l'opera in base al piacere che deriva alla vista, all'udito o al tocco delle sue su­ perfici estetiche; il nostro concetto di bellezza è lette­ ralmente epidermico; raramente poniamo problemi di utilità o di comprensibilità, e quando ciò accade, li met­ tiamo da parte come irrilevanti. Se ci proponiamo di analizzare il piacere derivato da un'opera d'arte, ne fac­ ciamo un fatto di psicoanalisi, e infine una specie di scienza delle emozioni e del comportamento. Tuttavia se, alle volte, ricorriamo a espressioni altisonanti del ti­ po « forma significante », lo facciamo ignorando che niente può propriamente definirsi « segno » se non è si­ gnificante di qualcos'altro da sé e per il quale esiste. La « composizione » è per noi una disposizione di masse, volta a procurare una soddisfazione visiva piuttosto che governata dalla logica di un determinato contenuto. La nostra conoscenza delle basi materiali e tecniche del­ l' arte e delle sue forme concrete è enciclopedica; restia­ m o però indifferenti alla sua ragion d'essere e alla sua causa finale, oppure troviamo la giustificazione ultima dell'esistenza dell'opera nel piacere che il committente può trarre dalla sua bellezza, sebbene nella situazione odierna l'artista lavori soprattutto per il proprio piace­ re personale. Oggi, infatti, il committente ideale non è l'uomo che sa ciò che vuole ma che è disposto a ordina­ re all'artista di fare ciò che preferisce e di cui, secondo

la corrente fraseologia, « rispetta la libertà ». Il consu­ matore, l'uomo comune, è alla mercé di chi opera per il piacere (l'« artista ») e di chi lavora per il profitto (lo « sfruttatore »), i quali si assomigliano più di quanto po­ tremmo sospettare. Dire che l'arte è soprattutto una questione di senti­ mento equivale a sostenere che il suo scopo consiste nel procurare piacere; di questo passo l'opera d'arte diven­ ta un lusso, un accessorio a una vita impostata sul pia­ cere. Si obietterà, i piaceri non sono forse legittimi? L'impiegato e l'operaio non meritano piaceri maggiori di quelli normalmente concessi dalla grigia e necessaria routine del lavoro? Certamente. Ma esiste un divario profondo tra la ricerca deliberata del piacere e il godi­ mento legittimo derivante dalla vita attiva o da quella contemplativa. Uno dei maggiori punti a svantaggio della nostra civiltà è proprio il fatto che i piaceri tratti dall'arte, sia nella fase creativa sia in quella fruitiva, sia­ no del tutto sconosciuti al lavoratore o si ritiene che debbano restare tali. Si dà per scontato che quando si lavora si debba fare ciò che piace di meno e quando si è liberi tutto ciò che piace di più. Questo appunto in­ tendiamo, fra l'altro, quando parliamo dell'impoveri­ mento dei nostri livelli di vita; il fatto che l'operaio sia mal pagato è meno inaccettabile del fatto che non si possa appagare di ciò per cui è rimunerato nella stessa misura in cui lo appaga ciò che fa per libera scelta. « L'artigiano ama parlare del suo lavoro » riconosceva Meister Eckhart: ebbene, oggi l'operaio ama parlare di calcio ! La conseguenza inevitabile di una produzione retta da tali leggi è che la qualità viene sacrificata alla quantità. Un'industria senz' arte sa fornire i mezzi indi­ spensabili all'esistenza: case, indumenti, pentole, e così via; ma questi mezzi sono privi delle caratteristiche es­ senziali delle cose artistiche, ossia di bellezza e di signi­ ficato. Dovremo allora riconoscere che quella che defi­ niamo una vita civile assomiglia a una esistenza anima­ lesca e meccanica più che compiutamente umana; il confronto con quella dei « selvaggi » è infatti tutto a suo svantaggio, come è evidente, ad esempio, nel caso

degli indiani d'America, i quali non hanno mai pensato che la manifattura, ossia la produzione di oggetti utili, potesse essere un'attività priva di arte. La concezione dell'arte che abbiamo illustrato è sot­ toscritta dalla maggioranza di noi moderni in maniera così assoluta che non solo ne accettiamo le conseguenze nella nostra vita, ma fraintendiamo le caratteristiche del­ l' arte e degli artisti di altre epoche e culture, adottando criteri che si addicono solo al nostro punto di vista stori­ camente provinciale. Non turbati dall'aspetto inquietan­ te del nostro ambiente, diamo per scontato che l'artista sia sempre stato un individuo singolare, che artista e committente abbiano avuto sempre scopi contrastanti e che il lavoro sia stato sempre considerato un male neces­ sario. Ma prendiamo ora in esame quella che abbiamo definito la « concezione normale dell'arte », intendendo per « normale » non solo una teoria che sia stata unani­ memente ritenuta fondamentale per la struttura della società, ma anche una esatta o integra interpretazione dell'arte. N el constatare che questa concezione, tra di­ zionale e ortodossa, contraddice quasi in ogni senso le dottrine estetiche del nostro tempo, dovremo dedurre che la comune saggezza del mondo può essere stata su­ periore alla nostra, e che una esaustiva comprensione del significato tradizionale dell'« arte » e della teoria del « bello » è indispensabile per lo storico dell'arte ai fini di spiegare la genesi di opere prodotte per committenti i cui scopi e interessi non ci dicono più nulla. Per cominciare, diremo che la vita attiva di un uomo consiste sia nell'agire sia nel fare e predisporre cose in vista di un'utilità concreta: in senso lato, in quanto sog­ getto dell'azione, l'uomo è committente; e, in quanto esecutore, è artista. Il committente sa qual è lo scopo da raggiungere se, ad esempio, gli occorre un tetto. L' artista, dal suo canto, sa come costruire ciò che è ne­ cessario, nel caso citato, una casa. Ognuno è per natura agente, committente, consumatore; e anche artista, os­ sia un uomo capace nel suo campo, si tratti di pittura, falegnameria o agricoltura. La ripartizione del lavoro è tale che tutto quanto un uomo non produce da sé com-

missiona ad altri, poniamo, al calzolaio se ha bisogno di scarpe, o allo scrittore se gli occorre un libro. In ogni caso, nelle società relativamente unanimi, la cui struttu­ ra è preordinata da concezioni tradizionali dell'ordine e dei fini, è molto raro che sorga un contrasto di inte­ resse come quello tra committente e artista; entrambi abbisognano dello stesso tipo di scarpe e assolvono i doveri religiosi negli stessi templi, in un ambiente in cui l'alternarsi delle mode è lento e impercettibile, sicché ben si giustifica l'assunto scolastico: « L'arte ha fini pre­ cisi e mezzi accertati di esecuzione ». Nella società normale immaginata da Platone, e rea­ lizzata nel sistema feudale o a caste, la professione si fonda sulla vocazione, ed è di solito ereditaria; il che quanto meno significa che ognuno eserciterà il mestiere per il quale è naturalmente versato e con cui può meglio contribuire al bene della società, realizzando nel con­ tempo il proprio perfezionamento interiore. E dal mo­ mento che ognuno utilizza cose realizzate ad arte, come indica la stessa parola « artefatto », ed è esperto in un'arte specifica, sia pittura, scultura, fonditura, tessitu­ ra, cucina o agricoltura, in una simile società non si av­ verte l'esigenza di spiegare la natura dell'arte in genera­ le, ma solo di partecipare, a coloro che devono praticar­ le, la conoscenza di arti specifiche; questa conoscenza si trasmette regolarmente da maestro a discepolo, senza che vi sia alcun bisogno di Scuole d'Arte. Una società integrata del genere, se non si frappongono interferenze esterne, può funzionare in modo armonico per millenni. D'altro canto, l'appagamento di moltissime persone può essere distrutto nello spazio di una generazione dall'impatto inaridente con una civiltà come la nostra. Il mercato locale viene inondato da una superproduzione con la quale un onesto artigiano non può competere; la struttura della società impiantata sul principio della vo­ cazione e della professionalità, con la sua organizzazio­ ne corporativa e i suoi modelli di esecuzione, è minata; l'artista è derubato della sua arte e costretto a trovarsi un « impiego »; fino a quando non subentra un processo definitivo di industrializzazione, che abbassa quelle an-

tiche società a livelli affini a quelli della nostra moderna, in cui gli affari contano più della vita. Ci si può allora stupire se le nazioni d'Occidente sono temute e odiate dai popoli di altri continenti non solo per ovvie ragioni politiche ed economiche, ma ancor più profondamente e istintivamente per motivi spirituali? Che cos'è, o meglio, che cosa è stata l'arte? In primo luogo una proprietà dell'artista, un tipo di conoscenza e abilità tramite il quale egli apprende non quello che deve fare ma il modo in cui immaginarne la forma, ma­ terializzandola in un corpo adatto affinché il prodotto risultante sia utile. Il costruttore di navi procede non in obbedienza a ragioni estetiche ma perché gli uomini possano navigare; va da sé che una nave ben costruita è bella, ma non è per il gusto di fare qualcosa di bello che il costruttore si mette all'opera; è sottinteso che un'ico­ na ben fatta sia bella, cioè che piaccia a coloro per il cui uso è stata ideata, ma l'artista che la realizza fonde il bronzo anzitutto perché gli serve, e non per farne un or­ namento da salotto o per esporlo in un museo. L'arte si può allora definire la materializzazione di una forma preconcepita. L'operato dell'artista è duplice, intellettuale o « libero » e « servile ». Secondo Eckhart « una cosa, per essere correttamente espressa, deve pro­ venire dall'interno, mossa dalla sua forma ». Che l'idea dell'opera venga immaginata in una forma imitabile è tanto necessario quanto il fatto che l'artigiano sappia ri­ produrre tale forma con perizia nella materia di cui di­ spone. « La giusta somiglianza delle cose » secondo Agostino « si giudica dalle idee da cui esse sono infor­ mate ». Poiché le idee non esistono indipendentemente dall'intelletto che le accoglie e di cui sono le forme, una loro proprietà privata è inconcepibile; non può esservi una paternità delle idee, che possono essere soltanto ac­ colte, non importa se da uno o da molti. E se si pensa che l'operazione intellettuale dell'artista sia « libera », tale non è certo nelle idee che intende esprimere nel­ l' arte o, se si vuole, nei contenuti della sua opera, giac­ ché la natura di quelle idee è predeterminata da una scienza tradizionale di origine trascendente, attraverso

la cui autorità una loro chiara e iterata espressione ha fi­ nito con l'essere accettata come una necessità in discuti­ bile. Come dice Aristotele, il fine generale dell' arte è il bene dell'uomo. Ciò riguarda l'arte religiosa solo in quanto in una società tradizionale vi è poco o nulla di strettamente secolare; quali che siano gli usi materiali degli artefatti, constatiamo che quella che usiamo defi­ nire la loro decorazione - noi che a stento siamo capaci di distinguere in linea di principio l'arte dalla modiste­ ria - ha sempre un significato preciso; né è possibile se­ parare le idee espresse nella più umile arte contadina di un dato periodo da quelle contemporaneamente domi­ nanti nell'arte sacra. Abbiamo più volte ribadito che l'arte di una società tradizionale rispecchia, attraverso l'intera gamma delle sue forme, l'ideologia dominante; l'arte ha fini precisi e mezzi accertati di esecuzione; è coscienza di forma al modo in cui il giudizio è coscien­ za nella condotta, intendendo « giudizio » nel senso sia di regola sia di consapevolezza. È quindi in tal senso che possiamo parlare di conformità o non conformità nell'arte, o distinguere nella condotta ciò che è secondo una regola da ciò che è irregolare, ciò che è secondo l'ordine da ciò che non lo è. La buona arte non è un fat­ to di stati d'animo, al pari che il buon comportamento non è un fatto di inclinazioni; ambedue sono delle abi­ tudini: è l'uomo meditativo, non quello esagitato, che fa o agisce bene. D'altra parte, nulla si può conoscere o affermare se non in un certo modo: quello dell'individuo che cono­ sce. Qualsiasi conoscenza tu e io abbiamo in comune, verrà espressa da ciascuno a modo proprio. A un dato momento questi modi distinti si uniformano reciprocJ ­ mente a tal punto da rendersi attraenti e comprensibili dall'intera comunità; tuttavia, sia i modi di conoscenza sia le espressioni particolari sono soggetti a mutare nel­ la stessa proporzione in cui si modificano la psicologia e la somatologia del gruppo; una iconografia può resta­ re immutata per millenni, eppure og11i stile sarà distin­ to e riconoscibile al primo sguardo. E in questo senso che l'operazione intellettuale si dice libera; lo stile è

l'uomo, e ciò in cui lo stile di un individuo o di un pe­ riodo differisce da quello di un altro è l'impronta in­ confondibile della natura dell'artista, una inconsapevo­ le e non deliberata espressione dell'uomo libero. L'oratore il cui discorso non esprime una opinione o una filosofia personali, ma un aspetto della dottrina tra­ dizionale, parla in perfetta libertà e originalità; la dot­ trina gli appartiene non per averla inventata, ma per es­ servisi conformato (adaequatio rei et intellectus) . Nep­ pure quando cita direttamente ripete in modo passivo, ma dà voce a un contenuto ricreato dentro di sé. L'arti­ sta è il servitore dell'opera che compie, e lo stesso vale nel campo della condotta: « il mio servizio è l' espressio­ ne di una perfetta libertà ». Solo una finta devozione è schiava; allorché una formula ereditata si cristallizza in uno stereotipo riprodotto senza più tener conto del si­ gnificato originario, solo allora l'artista, che da artigia­ no tradizionale è diventato un accademico, si può giu­ stamente definire un contraffattore o un plagiario. La ripetizione delle forme classiche, così diffusa nell'archi­ tettura moderna, è in questo senso una falsificazione; il fabbricante di « immaginette » è un contraffattore e nel contempo un uomo prostituito; l'artigiano tradizionale, invece, che riproduce formule ereditate dall'età della pietra non cessa di essere un artista originale fino a quando non è costretto dalla pressione economica ad accettare il ruolo del parassita, cioè di uno che soddisfa la richiesta del turista ignorante in cerca di soprammo­ bili e di oggettini provenienti dal « misterioso Oriente ». Quando un'idea si conserva immutata attraverso lun­ ghe sequenze di variazioni di stile, è evidente che tale idea è il motivo o la forza dominante che anima l'opera; l'artista si è totalmente dedicato all'espressione della idea, anche se, per esprimerla, lo fa a modo suo. L'esi­ genza da rispettare è quella di accogliere effettivamente l'idea e di visualizzarla in una forma imitabile; ed è que­ sto agire, implicante un processo intellettuale in conti­ nuo rinnovamento, ciò che, rispetto al nuovo, intendia­ mo per originalità e, rispetto alla violenza, per potere. Sarà chiaro, allora, che se ci concentriamo sulle parti-

colarità stilisti che delle opere d'arte, limiteremo il nostro orizzonte a una rassegna di dati accidentali, con l'unico risultato di baloccarci nell'analisi psicologica della per­ sonalità degli artisti, senza però riuscire a penetrare ciò che è stabile ed essenziale nell'arte. L'attività manuale dell'artista è definita servile perché la similitudine vale rispetto alla forma; ad esempio, nel fissare per iscritto la forma di una composizione musica­ le che l'autore ha già udito mentalmente, e anche nel corso della stessa esecuzione, l'artista non è libero ma imita ciò che ha immaginato. In tale asservimento non vi è nulla di disonorevole, semmai una fedeltà protratta al bene dell'opera; l'artista passa dal lavoro intellettuale a quello manuale, o viceversa, a suo piacimento e, una volta che l'opera è compiuta, ne giudica la « verità » con­ frontando la forma concreta dell'artefatto con l'immagi­ ne mentale corrispondente, anteriore alla sua realizza­ zione, e che ancora perdura pella coscienza indipenden­ temente dall'esito pratico. E forse a questo punto che cominciamo a comprendere il senso della distinzione tra artista e artigiano, arte « bella » e arte « applicata ». Siamo partiti dal presupposto che esistono due tipi d'uomo, quello che sa immaginare e quello che ne è in­ capace o, più onestamente, quello al quale, per non danneggiare il giro affaristico dell'arte, non possiamo permettere di esercitare l'immaginazione, concedendo­ gli perciò solo un lavoro servile e pedissequo. Così co­ me è servile il puro applicarsi mimetico dell'artista, o il modo in cui l'arcaicista imita le forme e le formule del­ l' arte antica senza cimentarsi in una ricreazione delle idee nei termini adatti al suo modo d'essere, altrettanto servile è il lavoro dello scalpellino cui si richiede di « stampare », non importa se a mano o a macchina, co­ pie innumerevoli di oggetti o « ornamenti » per la cui riproduzione dispone di disegni già pronti, realizzati da un altro, ridotti a mere « superstizioni », cioè a « for­ me d'arte » svuotate del loro contenuto ideale, non al­ tro che vestigia di tradizioni un tempo vive. È proprio nel nostro mondo moderno che ognuno è « libero » no­ minalmente ma nessuno lo è in realtà.

L' arte è stata anche definita « imitazione della natura nel suo modo di operare », cioè della natura non come effetto ma in quanto causa. Ovviamente, natura sta per Natura Naturans, Creatrix, Deus, e non per l'ambiente già « naturato » in cui viviamo. Tutte le tradizioni sot­ tolineano l'analogia dei due artefici, l'umano e il divi­ no, entrambi « creatori tramite l' arte » o « per mezzo di una parola mentale ». Come affermano le Scritture in­ diane « Dobbiamo creare al modo in cui gli Dei in prin­ cipio crearono ». Sono tutte immagini per ribadire che « la somiglianza riguarda la forma ». L'« imitazione » è la materializzazione di una forma preconcepita; ed è quanto intendiamo esattamente per « creazione ». L' ar­ tista è il tramite provvidenziale dell'opera. L' insegnamento moderno è imperniato esclusiva­ mente sul modello in posa e sulla sala di dissezione; il nostro modo iniziale di intendere la ritrattistica è asso­ ciato storicamente all'identità dell'ossario e della ma­ schera funeraria. D'altronde, solo ora cominciamo a capire perché l'arte primitiva e tradizionale, e quella che abbiamo definito « normale », è astratta; essa è imi­ tazione non di una apparenza visibile e fugace o di un « effetto di luce », ma di una forma intelligibile cui non occorre una rassomiglianza con alcun oggetto in natura più di quanto occorra a una equazione matematica di assomigliare al suo « luogo » per essere « vera ». Una cosa è disegnare per ritmi lineari e in luce astratta per­ ché così va fatto; e un'altra coltivare deliberatamente uno stil� dSì.< :ttto per chiunque non sia per sua natura, e nell'accezione filosofica del termine, un realista. Da quanto s1 è detto derivano direttamente i princìpi della critica tradizionale. L' opera d'arte è « vera » nella misura in cui il suo aspetto reale o accidentale riflette la forma essenziale concepita nella mente dell'artista (è in questo senso che ancor oggi l'artigiano parla di « rettifi­ ca » dell'opera in corso); ed è adeguata o valida quando questa forma sia stata correttamente concepita rispetto alla causa finale dell'opera, la cui utilizzazione spetta al committente. Questa distinzione di giudizio, che nelle culture unanimi di norma coincide, è di particolare va-

lore per lo studioso moderno delle arti antiche o esoti­ che che non obbediscono più al nostro uso pratico. Poi­ ché il moderno estetologo ritiene che il segreto dell'arte consista in una sensibilità speciale che si estrinseca co­ me un bisogno di esprimere e comunicare un sentimen­ to, egli è convinto di aver fatto abbastanza una volta che abbia « assimilato » l'opera; né si rende conto che le opere d'arte antiche sono state sì realizzate con uno spi­ rito di devozione, ma soprattutto in vista di un fine e per trasmettere una conoscenza sapienziale. La prima qua­ lità che si esigeva dall'artista tradizionale era il pieno possesso della sua arte, ossia il possesso di una cono­ scenza più che di una sensibilità. Dimentichiamo che, mentre la sensazione è una caratteristica dell'animale, la conoscenza è propria dell'uomo; e che, se riteniamo l'arte un'attività tipicamente umana e scorgiamo in essa una partecipazione ai « beni superiori della vita », essa dovrà partecipare molto più della conoscenza che del sentimento. E non dovremmo perciò, come nota acuta­ mente Herbert Spinden, « accettare come indice di comprensione un effetto piacevole, concepito dai nostri terminali nervosi in cui non risiede l'intelligenza ». Il critico dell'arte antica o esotica, disponendo solo dell'opera che gli è di fronte e di cui non può conside­ rare altro che le superfici estetiche, può solo registrare le sue reazioni e procedere a una analisi dimensionale e chimica del materiale e psicologica dello stile. La cono­ scenza che ne trae è accidentale e molto diversa da quella essenziale e pratica dell'artista e del committen­ te d'origine. Di fatto, solo nella misura in cui avrà sa­ puto identificarsi con la mentalità di entrambi potrà di­ re di aver compreso l'opera e di averne una conoscenza non dilettantesca. Può dire di aver capito l'arte romani­ ca o indiana solo colui che riesca pressoché a dimenti­ care di non averla prodotta lui stesso per il proprio uso; è qualificato a tradurre un testo antico solo colui che non si è limitato a osservare ma che si è realmente addentrato negli aspetti esterni e profondi della vita coeva di quel testo, identificando quel tempo con il proprio. Tutto ciò richiede ovviamente una disciplina

di autonegazione molto più lunga e complessa di quella di norma associata allo studio della storia dell'arte, il quale, nella maggior parte dei casi, non si spinge oltre un'analisi degli stili e neppure sfiora le ragioni necessa­ rie delle iconografie o la logica della composizione. Esiste anche una teoria tradizionale del bello, svilup­ patasi non solo rispetto agli artefatti ma in senso uni­ versale. E poiché si è d'accordo nel convenire che, co­ me nota Agostino, certuni prediligono il brutto, essa è indipendente dal gusto. La parola deformità acquista in quest'ambito una pregnanza particolare perché è pro­ prio la bellezza formale a essere posta in questione; senza dimenticare che « formale » connota « formati­ vo ». Il riconoscimento del bello dipende dal giudizio, non dalla sensazione; e la bellezza delle superfici esteti­ che dipende dalla forma su cui sono state modellate, non dalla loro apparenza. Ogni cosa, naturale o artifi­ ciale, è bella nella misura in cui è realmente ciò che è intesa a essere, indipendentemente da ogni confronto; o è brutta nella misura in cui la sua forma non è espres­ sa e realizzata nella sua attualità tangibile. L'opera d' ar­ te è dunque bella in termini di perfezione, o di verità e idoneità nel senso indicato sopra; tutto ciò che è inade­ guato o vago non si può considerare bello, indipenden­ temente dal valore attribuitogli da coloro che « sanno ciò che loro piace ». Ben lontano da ciò, al vero inten­ ditore « piace ciò che sa », perché, una volta scelta nel­ lo studio dell'arte la direzione che gli sembra giusta, la pratica di quella ricerca la rende piacevole. Tutto ciò che è ben fatto, sarà bello in senso assoluto a causa della sua perfezione. Nella perfezione non esi­ stono gradi; come non possiamo sostenere che una ra­ na sia più o meno bella di un uomo, quali che siano le nostre preferenze in materia, così non diremo che una cabina telefonica come tale sia più o meno bella di una cattedrale in quanto tale; e se riteniamo che l'una sia più bella dell' altra in senso assoluto, è solo a causa del­ la nostra concreta esperienza di brutte cabine e di bel­ lissime cattedrali. Poiché si dà per scontato che l'artista lavori sempre

« per il bene dell'opera », dalla coincidenza tra bellezza e perfezione deriva inevitabilmente che il suo operare tende alla realizzazione di un'opera bella. Il che tutta­ via è ben diverso dal dire che lo scopo primario dell' ar­ tista è quello di scoprire e comunicare il bello. Nella bottega di un maestro artigiano la bellezza non è la cau­ sa finale dell'opera ma una conseguenza inevitabile. Per questo la vera opera d'arte è sempre casuale; è nella na­ tura dell'essere razionale di lavorare in vista di fini pre­ cisi, laddove la bellezza è un fine indeterminato. Sia che l'artista progetti una pittura, oppure una canzone o una città, il suo scopo è di fare quella cosa e nient'altro. Ciò che conta per lui è compiere il suo lavoro « al modo giusto », secundum rectam rationem artis: è il filosofo che introduce il concetto di « bello » e ne individua le condizioni nella perfezione, nella chiarezza e nell' ar­ monia. Il riconoscimento del fatto che le cose possono essere belle in senso assoluto, senza paragoni con altre, e la concezione della formalità del bello, ci portano nuovamente a riflettere sulla futilità dell'arte naturali­ stica; la bellezza di un uomo e quella di una statua o di una pietra sono diverse in senso assoluto, e non sono intercambiabili; quanto più ci sforziamo di rendere la statua simile all'uomo, tanto più snaturiamo la pietra e mettiamo in caricatura l'uomo. La forma di un uomo nella natura corporea ne fa la bellezza, come la sua for­ ma nella natura della pietra fa la bellezza della statua; e queste due bellezze sono incompatibili. La bellezza, dunque, è perfezione percepita come un potere di attrazione; quell'aspetto del vero, ad esempio, che muove la volontà ad affrontare il tema da esprime­ re. Secondo la fraseologia medioevale « il bello aggiun­ ge al bene una finalità, una "intenzione" , alla facoltà co­ noscitiva con la quale il bene è conosciuto come tale »; « il bello è in connessione con la cognizione ». Se ci sforziamo di parlar bene, è solo a beneficio della chia­ rezza, e per questo dovremmo essere considerati inte­ ressanti più che melliflui. Per citare un esempio dalla tradizione chassidica, come se uno dicesse: «"Ed ora ascoltiamoti parlare della tua dottrina, parli così be-

ne ! " ; "Possa io ammutolire prima di parlare in modo meraviglioso"». Ma se la bellezza non è sinonimo di ve­ rità, non può nemmeno esserne separata: c'è una distin­ zione logica, ma esiste una coincidenza in re. La bellez­ za è a un tempo un sintomo e un invito; come la verità è colta dalla mente, così la bellezza muove la volontà; la bellezza è sempre « intenzionata » alla riproduzione, si tratti di creazione fisica o spirituale. Pensare alla bellez­ za come a qualcosa da godersi al di fuori dell'uso, signi­ fica essere un naturalista, un feticista e un idolatra. Non vi è nulla di più irritante per un espositore di arte moderna della domanda: « Di che cosa tratta? » o « A che serve? ». Egli esclamerà: « Tanto vale chiedere allora a che cosa assomiglia ! ». Il fatto è che la doman­ da e la risposta sono su piani di riferimento del tutto diversi. Abbiamo convenuto che l'opera d'arte non ha bisogno di rassomigliare a niente di terrestre, e forse è peggio se tende a creare un'illusione. Ma se esigiamo da essa una intelligibilità e un'efficacia funzionale, la questione cambia. Infatti, a che cosa può servire, in senso fisico e intellettuale, se non ha significato e non è adatta a un uso? Tutto quello che possiamo fare in tal caso è di gradirla o sgradirla, come si dice che i tori amino il verde e detestino il rosso. L'intelligibilità dell'arte tradizionale, al modo della scrittura, non dipende dalla possibilità di ravvisare in essa una qualche somiglianza, ma dalla sua leggibilità. I caratteri in cui è scritta quest'arte sono giustamente chiamati simboli; quando il significato è dimenticato o ignorato e l'arte esiste solo per la soddisfazione degli occhi, questi simboli diventano « pure forme » e vengo­ no descritti come « ornamenti »; si parla allora di valori « decorativi ». Simboli combinati formano una icono­ grafia o un mito. I simboli sono il linguaggio universale dell'arte; un linguaggio con varianti locali meramente dialettiche, diffuso un tempo in tutti gli ambienti eppu­ re intrinsecamente intelligibile anche se ora incompre­ so dagli uomini colti, e rintracciabile solo nell'arte rura­ le. Il contenuto dei simboli è metafisica. Qualunque sia l'opera dell'arte tradizionale da noi considerata, un ero-

cifisso, una colonna ionica, un ricamo di fattura rurale, una bardatura da cavallo o una fiaba per bambini, essa mantiene o ebbe un significato che va al di là del valore immediato dell'oggetto in quanto ci procura piacere o soddisfa una nostra necessità. Ciò implica che non pos­ siamo fingere di aver spiegato la genesi di una simile opera d'arte fino a quando non avremo compreso a che cosa serviva e quale era stato in origine il suo significa­ to. Le forme simboliche, che chiamiamo ornamenti per­ ché non sono ai nostri occhi che superstizioni, costitui­ scono addirittura la sostanza dell'arte espressa nell' ope­ ra; non basta saper usare liberamente i termini della iconografia ed etichettare in modo corretto gli esempla­ ri dei nostri musei; per comprenderli occorre capire la motivazione ultima della iconografia, perché è così e non altrimenti. È implicito in questo simbolismo quello che, sia per l'artista sia per il committente, fu il significato spiritua­ le fondamentale dell'opera. I riferimenti delle forme simboliche sono precisi quanto quelli della matematica. E poiché l'adeguatezza dei simboli non è convenzionale ma intrinseca, quando siano correttamente impiegati essi trasmettono di generazione in generazione la cono­ scenza delle analogie cosmiche: quale il sopra, tale il sotto. « Sia fatta la Tua volontà come in cielo così in ter­ ra » è ancora la preghiera ripetuta da alcuni di noi. L' ar­ tista è costantemente rappresentato come un imitatore delle forme celesti: « Tutte quelle arti, poi, che creano cose artistiche di natura sensibile, come l'architettura o l'arte del legno, dovettero pur ricavare il loro fonda­ mento di lassù, dal pensiero di lassù » spiega Plotino.1 La dimora archetipica, ad esempio, ripete l'architettura dell'universo: una superficie in basso, uno spazio inter­ medio, in alto una volta in cui è praticata un'apertura corrispondente al varco solare attraverso il quale si « evade completamente » dal tempo e dallo spazio in un empireo sconfinato e atemporale. Esiste una coinciden­ za tra i valori funzionali e quelli simbolici; se in alto, verso il foro, si leva una colonna di fumo, tale foro non soddisfa soltanto a un'utilità pratica ma funge anche da

rappresentazione dell'asse dell'universo, che sostiene, separandoli, il cielo e la terra, l'essenza e la natura, e, benché privo di dimensione o consistenza, costituisce in sé il principio adamantino e la forma esemplare del­ l' estensione temporale e spaziale e di tutte le cose esi­ stenti nel tempo e nello spazio. All'uomo preistorico ciò fu indubbiamente palese, sebbene non ci sia possi­ bile rintracciarlo nella letteratura anteriormente a mille­ cinquecento anni circa avanti Cristo. Vestigia del foro primitivo sopravvivono negli occhi delle cupole, e trac­ ce del suo significato traspaiono ancor oggi nella figura di Santa Claus, il doppione del Sole risorto che entra con i suoi doni non dalla porta ma attraverso il camino. La designazione diffusa ovunque delle armi litiche come « fulmini » è un ricordo che sopravvive dall'età della pietra quando l'uomo primitivo già identificava le sue armi appuntite con il dardo di luce di cui si serve il Dio solare per colpire il Drago o, nella Bibbia, l' arcan­ gelo Michele per annientare Satana; l'età del ferro eredi­ ta tradizioni più antiche, e i documenti di una identifi­ cazione armi-fulmine risalgono almeno al secondo mil­ lennio avanti Cristo. Tutte le tradizioni concordano nel vedere nell'ordito delle stoffe tessute a mano la rappre­ sentazione dei raggi primordiali dell'alba della creazio­ ne, e nella trama la figura dei piani dell'essere o dei li­ velli di riferimento più o meno lontani, ma sempre di­ pendenti dal loro centro comune e ultimo supporto. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma basterà dire che in tutte le tradizioni l'origine delle arti è fatta risalire a una fonte divina, che la pratica dell'arte fu un rito alme­ no quanto rappresentò un commercio, che fu stimata indispensabile per l'artigiano l'iniziazione ai misteri mi­ nori della sua arte specifica, e che lo stesso artefatto ave­ va un doppio valore, come oggetto e in quanto simbolo. Queste concezioni, presenti in Europa nel Medioevo, sono potute sopravvivere in Oriente, seppure in modo precario, nella misura in cui modelli normali di uma­ nità sono riusciti a resistere all'influsso sovvertitore dell'affarismo ammantato di civiltà. Siamo ora in grado di comprendere almeno in parte

in che modo la produzione di cose tramite l'arte, e l'uso di cose prodotte con arte, provvidero non solo ai bisogni immediati dell'uomo ma anche alla sua vita spirituale; servirono, in altre parole, l'uomo integro o il santo, non l'uomo esteriorizzato che vive di « solo pane ». La tran­ sustanziazione dell'artefatto ebbe il suo inevitabile co­ rollario in una trasformazione dell'uomo stesso; il tem­ plare, ad esempio, la cui spada era anche una croce, era stato iniziato e aveva lottato per superarsi come uomo e fare il più possibile di sé una ipostasi del Sole. La spada, dice Rum1,2 è la stessa, ma l'uomo non è lo stesso uomo. Da quando la vita, nella maggior parte dei suoi aspetti, è incorsa nella secolarizzazione, questi valori trasfigurati­ vi dell'arte sono rimasti rintracciabili solo nell'iconola­ tria, in cui un'icona fatta a mano e poi consacrata serve da supporto alla contemplazione, sì che l'adoratore pos­ sa trasformarsi e rivestire la somiglianza della forma ar­ chetipica, alla quale, e « non ai colori dell'arte », come nota san Basilio, è diretto il tributo di venerazione. Il collezionista che possiede un crocifisso antico della mi­ gliore fattura, e che si limita a godere della sua « bellez­ za », è in una posizione molto diversa da quella di un fe­ dele parimenti sensibile ma che, nell'avvertire il potere trascinante dell'immagine, è spinto ad assumere la pro­ pria croce; solo di quest'ultimo si può dire che ha pene­ trato lo spirito dell'opera, mentre l'altro è un feticista. In modo analogo, l'uomo che, come già notammo, può an­ che essere stato un « barbaro » ma, levando gli occhi al palo di sostegno del tetto della sua dimora, sapeva dire: « Lì pende la Luce delle Luci », o abbassando lo sguar­ do al suo centro: « Ecco il Centro del Mondo ! », era compiutamente Uomo più di quello la cui casa, per quanto ben fornita di apparecchi igienici e di ogni at­ trezzatura capace di alleviargli le fatiche domestiche, non è altro che una « macchina per viverci ». Restano ora da considerare i problemi dell'artista e del committente, del produttore e del consumatore d'al punto di vista dell'etica, per spiegare in che senso per l'atteggiamento tradizionale non può esserci « buon uso », cioè una bontà utile, dell'opera senza l'arte, ma

solo delle buone intenzioni quando i mezzi a disposi­ zione non sono adeguati. Supponiamo ad esempio che l'artista sia un tipografo; se i caratteri che stampa sono illeggibili, il libro, per quanto inestimabile possa essere il valore del testo, sarà « non buono » (ossia inutile). In modo analogo, di un operaio che tira via alla meno peg­ gio diciamo che « non serve », che è « un buono a nul­ la » ovvero, nel linguaggio dell'etica, che è un « pecca­ tore »: intendendo per « peccato » ogni mancato ade­ guamento allo scopo, quale che esso sia. Prima ancora che l'artista possa concepire una forma deve esservi stato un orientamento della sua volontà verso l'idea specifica, visto che non si può immaginare la « forma » in astratto ma solo questa o quella in parti­ colare. In termini indiani, diremo che un'immagine può nascere soltanto da un « seme » o che, secondo Bona­ ventura, « ogni soggetto d'azione che operi razional­ mente, e non a caso o perché costretto, conosce la for­ ma finale della cosa prima che esista, cioè la conosce in immagine (mentale), ed è attraverso tale immagine, os­ sia "l'idea" della cosa (in una forma imitabile) , che la cosa stessa è a un tempo conosciuta e realizzata ». Sic­ ché nell'artista la volontà aderisce allo scopo prima del­ la effettiva esecuzione, che si tratti di uno scopo buono o cattivo non è più affar suo; è tardi per gli scrupoli, e l'artista a quel punto non ha altro dovere che di de di­ carsi al bene dell'opera. Dice san Tommaso che « l'arte non esige dall'artista che il suo agire sia buono, ma che l'opera sia buona. [ . . ] L'arte non presuppone la bontà del desiderio », ma solo che esso venga soddisfatto sia per il bene che per il male. Mentre all'uomo spetta di stabilire se e quale propaganda sia eventualmente ne­ cessaria, all'uomo come artista spetta solo il compito di rendere quella propaganda efficace. Se però succede al­ l' artista di mancare allo scopo, si dirà che « come artista ha peccato »: ad esempio, se decide di produrre un gas micidiale e ne produce di fatto uno innocuo o se volen­ do disegnare una Madonna ne vien fuori un figurino di moda. L'artista in quanto tale è amorale: al tempo stesso non può darsi buon uso, cioè uso efficace, senza l'arte. .

Non dimentichiamoci però che l'artista è anche un uomo, e pertanto responsabile di tutto ciò cui accon­ sente la sua volontà; « perché un uomo possa far buon uso dell'arte, dovrà disporre di una virtù con cui rettifi­ care il desiderio ». L'uomo è responsabile direttamente se, ad esempio, con un atto di assassinio intenzionale acconsente a preparare del cibo adulterato o a fornire farmaci in dosi superiori alla prescrizione richiesta; o quando incita a costumi dissoluti diffondendo immagi­ ni pornografiche (come qualcosa di lascivo in sé, fatta salva la distinzione tra « osceno » ed « erotico ») ; ma è responsabile spiritualmente se è un sentimentalista o un falso mistico. È un errore supporre che in epoche precedenti la « libertà » dell'artista sia stata arbitraria­ mente negata dall'esterno, mentre è del tutto evidente che l'artista in quanto tale non è un uomo libero. Non c'è dubbio che da artista sia moralmente irresponsabi­ le, ma chi può sostenere che è un artista e non anche un uomo? Separare l'uno dall'altro è possibile sul piano lo­ gico e a beneficio della comprensione; ma di fatto l'arti­ sta si aliena come uomo soltanto se incorre in una disin­ tegrazione della sua personalità. Ed è quanto implica esattamente la teoria dell'arte per l'arte con il suo sacri­ fido dell'umano in nome dell'arte, o dell'intero a favore della parte. Mentre affiorano, infatti, nella sfera della odierna cultura tendenze individualistiche, in altri cam­ pi in cui dominano esigenze affaristiche e criteri di inte­ resse è del tutto negata alla maggior parte degli uomini la possibilità di esprimere le proprie attitudini artisti­ che, o si concede loro di farlo solo nelle ore libere quan­ do possono coltivare un hobby o intrattenersi in giochi. Quanto gioverà a un uomo essere politicamente libero, se è poi costretto a essere uno schiavo dell'« arte » o de­ gli « affari »? Diremo allora che l'artista, se come artista è moral­ mente irresponsabile, come uomo è però responsabile moralmente. Nelle civiltà normali e stabili che abbiamo esaminato - indiana, egizia, paleogreca, cristiana me­ dioevale, cinese, maori o indiana d'America - la deci­ sione di ciò che doveva essere fatto spettava all'uomo

come committente piuttosto che all'uomo come artista: la libertà di quest'ultimo, infatti, è autonoma solo al­ l'interno della sua sfera di azione e non include la libe­ ra scelta dei temi. Questa scelta restò una competenza dell'Uomo e si risolse in una censura efficace, ma non nel senso odierno di censura esterna, bensì in quello di « autocontrollo », perché l'uomo e l'artista ancora coin­ cidevano nel modo di pensare, tutti gli uomini erano in un certo senso degli artisti e nulla si faceva che non corrispondesse a una necessità generalmente accettata. Tutto questo concorda con il detto di Aristotele che « il fine generale dell'arte è il bene dell'uomo ». I fini generali hanno la precedenza su quelli privati; non era il bene privato di questo o quell'uomo, e tanto meno di questo o quell'artista, a determinare ciò che andava fat­ to con l'arte, ma la concezione del bene propria del­ l'Uomo. In tal senso e in linea di principio si può ap­ provare una censura come cosa del tutto adatta alla di­ gnità dell'Uomo. E, posto che l'artista sia anche un membro responsabile della società, non occorre che ta­ le censura sia formulata in termini legali. L'occasione di una censura legalmente prescrittiva nasce non appena l'artista si arroga un'indipendenza assoluta; quando la libertà diviene licenza, si crea le proprie catene. Non dobbiamo tuttavia trascurare un fattore essen­ ziale al problema in questione. Chi è qualificato a eser­ citare la censura? Certamente non basta ravvisare l' er­ rore, o quello che prendiamo per tale, e precipitarsi ad agire guidati soltanto da un'opinione che per quanto profondamente radicata, sia solo personale o di un gruppo ristretto di individui. La censura non è certo esercitata con giustizia né in una democrazia né in una società che cerca di sopravvivere per via di tentativi e di errori. Nel caso migliore la nostra censura riflette un canone elastico di convenienza, variabile, ad esempio, da paese a paese e di epoca in epoca. Per giustificare l'esercizio di una censura dobbiamo sapere che cosa è giusto o errato e perché; prima di imporre un codice umano dobbiamo avere letto la Legge Eterna. Ciò si­ gnifica che solo all'interno di una comunità relativa-

mente unanime e partecipe di una verità già accertata è possibile esercitare una censura in modo corretto. Il compito di sancire le leggi attinenti al comportamento dell'artista in quanto uomo non potrà spettare che a una élite, la cui vocazione consiste esattamente nel conosce­ re la verità metafisica (che è l'unica da cui dedurre e ac­ certare i princìpi dominanti dell'agire e del produrre). Non potremo dunque aspettarci da alcuna censura legale un accomodamento dei difficili rapporti tra arti­ sta e committente, produttore e consumatore; il primo è troppo preoccupato di se stesso, il secondo troppo poco consapevole dei reali bisogni umani, fisici e spi­ rituali, troppo amante della quantità e troppo poco amante della qualità della vita. La fonte di tutte le no­ stre difficoltà economiche o psicologiche è al di là del potere della legislazione o della filantropia; abbiamo bisogno di rettificarci come uomini e di acquistare co­ scienza della priorità della contemplazione sull'azione. Siamo troppo presi dalle nostre occupazioni e abbiamo fatto dell'industria un vizio. Nelle circostanze odierne l'arte è prevalentemente un lusso, che pochi sono in grado di permettersi ma che non merita di essere troppo rimpianto da tutti gli altri. Questa stessa « arte » fu un tempo un principio di conoscenza in grado di provvedere alle necessità fisiche e spirituali dell'uomo: un uomo, tuttavia, reso intero dalla contemplazione, e non alienato da se stesso a cau­ sa del suo fare. Per riassumere il nostro pensiero in un'unica formula: l'arte è una superstizione e /u un mo­ do di vita. POSCRITTO

nota alla recensione di Richard Florsheim a questo saggio

Nel recensire il saggio L'arte è una superstizione o un modo di vita? Florsheim presuppone che io « invochi un ritorno a uno stato di cose più o meno feudale, [ . . . ] a un ordinamento antico, ma ormai estinto ». E gli fa

eco un recensore di Patron and Artist,3 il quale, pur am­ mettendo che quanto dico « è tutto vero », afferma che il rimedio che noi « medioevalisti » (intendendo per ta­ li Gill, Gleizes, Carey e me) vorremmo proporre sareb­ be quello di « regredire in qualche modo a una organiz­ zazione sociale primitiva ». Queste affermazioni facili e false danno modo al cri­ tico di sottrarsi ai due punti nevralgici della sfida lan­ ciata dalla nostra teoria, cioè che: 1 . l'« apprezzamen­ to » corrente dell'arte antica o esotica secondo il crite­ rio della nostra concezione storicamente provinciale si risolve in una specie di formula magica; 2. nelle condi­ zioni della manifattura che la teoria artistica attuale dà per scontate, all'uomo si offrono pietre invece di pane. Le possibilità sono due: queste affermazioni sono vere oppure false, e non si può onestamente travisarle per sostenere che auspichiamo un regresso. Non è nemmeno vero che « non pretendiamo di of­ frire granché quanto a rimedi pratici », visto che invece offriamo il massimo di ciò che è possibile offrire, ossia « un ritorno ai princìpi primi »; il che, tradotto nel lin­ guaggio religioso, significa: « Cercate prima il Regno di Dio e la Sua Giustizia, e tutto questo vi verrà dato in ag­ giunta ». N on riesco proprio a vedere che cosa ciò abbia a che fare con l'arcaismo sociologico o con l'eclettismo. Un ritorno ai princìpi primi non ricreerebbe le con­ dizioni esteriori di vita del Medioevo, ma ci aiuterebbe certamente a comprenderle meglio. Non ho mai affer­ mato che desidero un « ritorno al Medioevo ». Nel sag­ gio recensito ho detto che una cattedrale per se stessa non è più bella di una cabina telefonica, escludendo esplicitamente questioni di preferenza, del cosiddetto wishful thinking (il voler credere vera una cosa perché lo si desidera intensamente ) . Tale « fede a ogni costo » si riflette appunto in quel genere di fede nel « progres­ so » che porta Florsheim a identificare « antico » con « estinto » e che, mostrando che egli non tiene in alcun conto la distinzione tra sostanza e accidente, sembra indicare un pregiudizio marxista e sicuramente anti­ tradizionale.

Ciò che era vero nel Medioevo, ad esempio che « la bellezza è connessa con la conoscenza », resta vero tut­ tora, questioni di stile a parte. Ma dobbiamo forse de­ durne che per essere coerente dovrei decorare la mia casa di fregi o proibirmi di ammirare un aeroplano? Se Wackernagel4 « mette in guardia contro la mancanza di scopo della maggior parte dell'arte moderna », forse che ciò implica da parte sua una nostalgia del Medioe­ vo? Se affermo che una manifattura eseguita con arte è di qualità superiore a quella dei prodotti di una « indu­ stria senz' arte », non significa che io immagini dei guer­ rieri in armatura. Se constato che, agli effetti del consu­ matore (e noi tutti siamo tali), una manifattura prodot­ ta per l'uso è migliore di quella programmata per lucro, ciò non significa che dobbiamo metterei a produrre og­ getti di antiquariato. Se accetto che la vocazione è il na­ turale fondamento del progresso individuale (dove il termine ha senso solo se applicato all'individuo nell'ac­ cezione letterale del werden was du bist) , non è detto che io abbia necessariamente torto solo perché una po­ sizione del genere era stata sostenuta « anticamente » da Platone e nella Bhagavad Gita. Non pretendo infatti di anticipare lo stile di una futura Utopia; per quanto poco stimi la « civiltà moderna » e per quanto superiori possano essere stati i valori dominanti nel sistema me­ dioevale o in qualunqu,e altro ordinamento antico o tuttora esistente, non credo che alcuno di essi possa of­ frire un programma bell'e pronto da riprodursi in futu­ ro. Non so che farmene dello pseudogotico in ogni sen­ so. Quanto più presto i miei critici comprenderanno questo e si convinceranno che non enuncio opinioni né intendo esprimere alcun convincimento o filosofia per­ sonali, tanto prima capiranno di che cosa sto parlando.

IV. A CHE COSA SERVE L'ARTE ? *

* What is the Use o/ A rt, Anyway?. Due conversazioni radiofoniche per conto del Museum of Fine Arts di Boston, gennaio 1 9 3 7; pubblicate in >, febbraio 1937, e, insieme con altri scritti a cura di A. Graham Carey e John Howard Benson, nella collana «John Stevens Pamphlet>>, Newport 1 937.

N ella odierna concezione dell'arte si possono facil­ mente ravvisare due tendenze: da un lato, quella di una esigua e sedicente élite che distingue le cosiddette « belle » arti dall'artigianato, e tiene in gran conto le prime in quanto consentono all'artista di esprimere se stesso e la sua personalità; va da sé che questa élite fon­ di i propri dettami estetici sullo stile e intenda l'« ap­ prezzamento dell'arte » più una questione di maniera che di contenuto o di autentica intenzione dell'opera. A questa élite appartengono i docenti di estetica e di storia dell'arte delle nostre università, i quali, mentre gioiscono della incomprensibilità dell'arte contempo­ ranea, si applicano a spiegarla in chiave psicologica, so­ stituendo allo studio dell'arte prodotta dall'uomo una indagine incentrata sull'uomo stesso; queste guide nelle tenebre dell'illeggibile trovano un seguito ampio e sod­ disfatto nelle file della maggioranza degli artisti con­ temporanei, ovviamente lusingati dell'importanza attri­ buita alla genialità individuale. Dall'altro lato si trova l'atteggiamento della gente comune che, priva di reali interessi verso la personalità degli artisti, tende a considerare l'arte, intesa al modo dell'élite, più una stranezza che una necessità della vita, e in pratica se ne disinteressa. Al di là delle predette tendenze, e in netto contrasto con esse, c'è poi una concezione normale ma dimenti­ cata, che intende per arte la capacità di fare o sistemare in modo appropriato tutto ciò che richieda un simile intervento, si tratti di modellare una statuetta, di co­ struire un'automobile o di sistemare un giardino. In Occidente questo atteggiamento ha trovato la sua for­ mulazione specifica nella concezione cristiana dell'arte, da cui scaturisce la naturale conclusione espressa nelle parole di san Tommaso: « Non può esservi buon uso

senza arte ». È peraltro ovvio che se cose destinate a un uso intellettuale o materiale e, in condizioni normali, ad ambedue, non sono realizzate nel modo appropriato, non possono nemmeno essere godute, intendendo per « godimento » qualcosa di più del mero piacere. Ad esempio, un cibo mal preparato ci sarà sgradito; così una mostra di oggetti di valore autobiografico o senti­ mentale non farà che infiacchire il senso morale di colo­ ro che da quella mostra traggono un profitto. Un com­ mittente moralmente sano non è più interessato alla personalità dell'artista di quanto lo sia nei confronti della vita privata del suo sarto: tutto ciò che richiede a entrambi è che possiedano ognuno la propria arte. In questa serie di conversazioni intendo rivolgermi alla seconda categoria di persone che ho prima descrit­ to, quella dell'uomo comune e pratico, che si disinte­ ressa dell'arte intesa al modo degli psicologi e oggi pra­ ticata dalla maggior parte degli artisti, soprattutto pit­ tori. L' uomo comune non si interessa di arte se non a patto di sapere di che cosa tratta e a che cosa serve. E fin qui ha perfettamente ragione; se infatti non tratta di qualcosa o non serve a qualcosa, l'arte è inutile. Inoltre, a meno che tratti di qualcosa che merita più degno di considerazione, ad esempio, della preziosa personalità dell'artista - e abbia qualche interesse per il commit­ tente e il consumatore come per l'artista e l'artigiano, non si può dire che l'arte abbia un'utilità reale, ma sarà solo un lusso o un mero ornamento. Su queste basi l' ar­ te ha motivo di essere respinta dal religioso come pura vanità, dall'uomo pratico come un bene costoso e su­ perfluo, e infine dal teorico classista come parte e baga­ glio della fantasia borghese. Vi sono dunque due punti di vista a contrasto, quello per il quale non può esservi buon uso senza arte, e quello che vede nell'arte una co­ sa del tutto superflua. Ma si badi, nella loro contraddit­ torietà, questi assunti riguardano due cose molto diver­ se, che per il solo fatto di essere definite ambedue « ar­ te » non per questo coincidono. Assumiamo per scontata la concezione storicamente normale e religiosamente ortodossa per la quale come -

l'etica è « il giusto modo di agire », così l'arte è « il giu­ sto modo di fare tutto ciò che richiede di esser fatto » o, semplicemente, « il saper fare »; e rivolgendoci di nuo­ vo a coloro per i quali un'arte espressiva della persona­ lità è superflua, chiediamo loro se l'arte non sia in ulti­ ma analisi necessaria. Necessario è qualcosa di cui non si può fare a meno, quale che sia il suo prezzo. Senza inoltrarci qui in que­ stioni di prezzo, noteremo di passaggio che non occor­ re che l' arte sia costosa, né dovrebbe esserlo, tranne nel caso in cui si serva di materiali particolarmente pregia­ ti. Ed è qui che sorge la questione cruciale dell' antino­ mia tra una produzione a scopo di lucro e una produ­ zione a scopo utilitario. Le cose in genere non sono ese­ guite bene, e quindi non sono belle, appunto perché la idea della produzione a scopo di lucro è legata alla so­ ciologia industriale correntemente accettata. L'interesse del fabbricante è proprio quello di produrre ciò che ci piace o che possiamo essere indotti a desiderare, indi­ pendentemente dal fatto che il prodotto ci serva. Come molti artisti moderni, il fabbricante esprime se stesso, e se si adegua ai nostri bisogni reali è solo in quanto deve farlo per vendere. I fabbricanti, come gli artisti del loro stampo, si affidano alla pubblicità; l'arte è largamente propagandata nelle scuole e nelle università, dai « Mu­ sei d'Arte Moderna » e dai mercanti; e sia l'artista che il fabbricante fissano il prezzo in rapporto alla richiesta del mercato. In queste condizioni, come giustamente osserva Carey che partecipa con me a queste conversa­ zioni, il fabbricante lavora per poter continuare a gua­ dagnare, invece che guadagnare, come dovrebbe, per poter continuare a fabbricare. Solo quando chi produce lo fa per vocazione, non esclusivamente per mantenere un'impresa, il prezzo delle cose si avvicina al loro valo­ re reale; in un caso del genere, per acquistare un'opera d'arte che sia anche utile, il denaro occorrente sarà ben speso. Infatti, se l'arte assolve a uno scopo necessario, dobbiamo poterei permettere di pagarla, altrimenti vi­ vremo al di sotto di un livello di vita umano, che è quel­ lo in cui vive la maggior parte di noi moderni incluso il

ricco, se prendiamo c E DELL' *

* The Nature o/ >, Bangalore, luglio-ottobre 1936; « >, Londra 1 93 7; (in francese) « Etudes Traditionelles >>, Parigi 1 937.

Secondo l'opinione comune, una netta distinzione separa la sfera della cultura da quella del folclore, l'arte « raffinata » da quella popolare. Il che è del tutto giusti­ ficato nella situazione odierna in cui il positivismo scientifico e l' arte personalistica o accademica si con­ trappongono, da un piano di riferimento del tutto di­ verso alla « superstizione » e all'« arte rurale ». Sembra che anche in India si possa tracciare una corrispondente distinzione tra linguaggi e letterature ufficiali (sarizsk,rta) e provinciali (deH) , e tra un'arte principale (marga: « della via maestra », secondo un si­ gnificato più letterale) e una locale o secondaria (deH) ; e poiché ciò che è sarizsk,rta e marga è sempre superiore a ciò che è deH, si ripropone un apparente parallelismo con la valorizzazione moderna dell'arte colta e accade­ mica e il relativo discredito per la superstizione e l'arte popolare. Quando, ad esempio nel Sarizgitadarpa!Ja/ si legge che. >, >, è il nome con cui è desi­ gnato in inglese il direttore di un museo. [ N. d. T ] 2 I n modo analogo, l'affermazione (che cito dal , 1, p. 29): > (Giac. 5 , 1 5). >: san Tommaso d'Aquino, La Somma Teologica (S.Th.), n-n, 47, 1 3 ad 2 [tradu­ zione e commento a cura dei domenicani italiani, Firenze 1964; tutti i passi della Summa Theologica citati dall'autore sono tratti da questa traduzione (N d. I ) ] . 2 > (S. Th . , 1-11, 57, 5; 11-11, 47, 2; IV, 3, 7 e 8; Aristotele, Etica, VI, 5 ) . 3 Cfr. Platino, Enneadi, IV, 3 , 7 · 4 Per artem e t e x voluntate (S. Th. , 1, 4 5 , 6 ; cfr. 1, 14, 8 c). Nelle parole di san Tommaso: >.) 7 Ivi, 1-11, 5 7, 3 ad r . 8 Ivi, I-11, 3 3 , 4· 9 Bhagavad Gztii, xvm, 4 5 -46: sve sve karmal}y-abhiratab samsiddham labhate narab . [le traduzioni dei passi della Bhagavad Gita sono tratte da: Bhagavad Gztii, a cura di Anne-Marie Esnoul, Milano 1976 (N. d. T ) ] ; >) diventa > al modo stesso [n cui ratab (da ram, « compiacersi di >>) diventa > o . E dunque > l'uomo che, quando è all'ope­ ra, fa ciò che più lo diletta. 10

Nec oportet, si liberales artes sunt nobiliores, quod magis eis conveniat ratio artis (S. Th. , r-n, 57, 3 ad 3 ) . (vrata). 12 Dialoghi, m, 6 5 . n Platone, Cratilo, 4 1 6 c; Dionigi Areopagita, D e divinis nominibus, rv, 5 ; Ulrico di Strasburgo, D e pulchro; Laiikdvatiira Sutra, n , r r 8- r 1 9 , passim. 14

15

Ens et bonum convertuntur.

Witelo, Perspectiva, rv, r 4 8 - 149· Baeumker ( Witelo, p. 639) mostra di non comprendere che il fatto che Witclo sostenga la soggettività del gusto non è in alcun contrasto con il suo enunciato sulla oggettività del bello. Il gusto dipende dalle emozioni; il bello dal giudizio: (Bonaventura, De reductione artium ad theologiam, 1 3 ) . > (Guido D'Arezzo). La reale distinzione tra scienza e arte è esemplificata in S. Th. , r, 14, 8, e I-II, 57, 3 ad 3: (C. Brinton, in (>) . Nel colofone del Saunddrananda così afferma Asvagho�a: .) Nel suo Music an d Western Civilization, p. 87, Lang fraintende la penulti­ ma riga traducendo: >; egli dimostra sia di ignorare la doppia negazione, sia di frainten­ dere il senso di usu, che non è > ma > o >, wcpÉÀq.twç. Tale concezione è presente in sant'Agostino (>) e in Platone, per il quale le arti ci sono date > (5. Th., I, q, 8; I, I 7, I; I, 22, 2; I, 4 5 , 6; I-II, 1 3 , 2 ad J ) . 24 I n L e symbolz'sme de l'epée, i n >, 4 3 , gennaio 1 9? ,8-W.R. Lethaby, Architecture, Mystzcism and Myth, Londra I 892; e il mio Symbolism o/ the Dome, in « lndian Historical Quarterly >>, XVI, 1 938, pp. I - 56. 26 A. B. Keith, Aitareya Ara?Zyaka, p. 42. « > (W. H. Au-

den, in >, 25 marzo 1 939, p. 3 5 3 ) . > (Ermete Trismegisto, Asclepio, 2 5 ) . 2 7 > (W. Andrre, Keramik im Dienste der Weisheit, in >, XVII, dicembre 1 9 3 6 , p. 62 3 ) ; ma: > (W. Andrre, Die ionische Saule, Bau/orm oder Symbol?, 1 9 3 3 , p. 6 5 ) . 28 S . Th., 1 , 5 , 4; Basilio, D e Spiritu Sancto, XVIII, 4 , 5 . > (S. Th. , m, 29, 2 c). La forma che dà per­ fezione alla cosa (la forma esemplare) è il modello sul quale viene giudicata la figura concreta della cosa stessa; in altre parole, è dalle idee che le infor­ mano che traiamo la conoscenza di come le cose dovrebbero essere (Agosti­ no, De Trinitate, IX, 6, I I ) , e non osservando o ricordando cose già esistenti. I nostri autori indicano comunemente nell'arco l'esemplificazione di una forma esemplare; così Agostino, ivi, e Bonaventura, II Sent. , d. I, p. I , a. r , q . a d 3 , 4 : >. 29 Natura Naturans, Creatrix Universalis, Deus, da cui tutte le cose natu­ rate traggono la loro forma specifica. 3 0 Gv. I , 3· > (Agostino, De Trinitate, vr, Io). > (Eckhart, ed. Pfeiffer, p. 3 9 1 ) . 3 1 > (Bonaventura, In Exaemeron, coli. 20, n. 5 ) . I l concepimento d i una forma imitabile è un'>, come una generazwne. 32 « Per verbum in intellectu conceptum >> (S. Th., I, 4 5 , 6 c ) . 33 Ermete Trismegisto, Trattato I, 8 ; cfr. Boezio, De consolatione, m : « Contemplando i l mondo nella S u a mente, e formandolo a S u a immagine >>. « L'essenza divina, invece, mediante la quale l'intelletto divino conosce, è im­ magine adeguata di tutte le cose che esistono >> (S. Th., 1, 14, 1 2 c). Cfr. il mio Vedic exemplarism, in « Harvard Journal of Asia tic Studies >>, 1, aprile 1 93 6. 34 Sankaràciirya, Svdtmanirupatza, 9 5 . Sull'« affresco del mondo >> come forza attualizzata, cfr. Vimuktaman , secondo la citazione di Das Gupta, His­ tory o/ Indian Philosophy, 11, p. 203. La perfezione del giudizio è illustrata dal passo di Gen. 1, 3 1 : « E Dio vide tutto ciò che aveva fatto, ed ecco, era molto buono >>. Un tal giudizio può solo valere rispetto al modello ideale preesistente nell'intelletto divino, non a un modello esterno. 35 Sant'Agostino, nella citazione di Bonaventura, I Sent. , d. 3 5 , a. unic., q. r , fund. 3 ; cfr. Bissen, L'Exemplarisme divin selon St. Bonaventura, 1 929, p. 39· 36 Agostino, De Trinitate, rx, 6, n ; cfr. E . Gilson, Introduction à l'étude de St. Augustin, 1 9 3 I , p. I 2 I . 3 7 William Blake. 3 8 Platone, La Repubblica, 5oo e. 39 E. Gilson, op. cit. , p. I 2 I , nota 2. 40 Sull'« espressionismo >> di san Bonaventura, cfr. Bissen, op. cit. , pp. 92-93.

41 Ogni rito mimetico è per natura un'opera d'arte; nella filosofia tradi­ zionale dell'arte l'operare dell'artista è sempre anche un rito, e quindi un'at­ tività essenzialmente religiosa. 42 Meister Eckhart. 43 S. Th. , n-n, 47, 4 ad 2 . 44 « Chi pinge figura, l s i non può esser lei, non l a può porre >> (Dante, Convivio, III, 5 3 - 5 4 ) ; (ivi, IV, IO, I o6). Platino, Enneadi, IV, 4, 2. Cfr. il mio Intellectual Operation in In­ dian Art, in , III, I 9 3 5 , p. 6, nota 5 . 4 5 Poiché i n questo caso > (Eckhart, ed. Pfeiffer, p. 390) . 46 Bonaventura, I Sent. , d. 36, a. 2, q. I ad 4, citando sant'Agostino: >. " Agostino, Enarratio in Ps. XXXIl; cfr. Enarratio in Ps. CXLVI: >. Non è affatto necessario escludere dagli opera qui intesi tut­ to ciò che è fatto per artem et ex voluntate. 48 Cfr. Gv. I , 3 nelle citazioni di Agostino, Bonaventura, Tommaso d'Aqui­ no, eccetera; cfr. M. d'Asbeck, La mystique de Ruysbroeck l'Admirable, I930, p. I 59 · 4 9 Ermete Trismegisto, Asclepio, prologo. 50 Platino, Enneadi, IV, 4, 2 . 51 Purgatorio, xxiv, p- 5 4 · > (Platone, Il Convito, I97 a). > (Gv. 7, I 6 , I 8 ) . 5 2 Es. 2 5 , 40. 53 Aitareya Brahma1,1a, VI, 27. Cfr. Saiikhayana Ara1,1yaka, VIII, 9: >. 54 Platino, Enneadi, v, 9, r I . Il costruttore e il falegname fanno dunque la volontà di Dio >. 55 Agostino, Confessioni, XI, 5 . 56 > (Plato­ ne, Timeo, 9 0 a ) . " > (C. R. Morey, Christian Art, I93 5 ) . 5 8 Platone, L a Repubblica, 342 be.

59 Commento di sant'Ambrogio a I Cor. I 2 , 3, citato da S. Th. ,

I ad

1.

1-11,

I 09 ,

60 Titolo di un'opera di san Bonaventura: De reductione artium ad theolo­

giam.

6 1 Quintiliano, IX, 4· 62 Le. I 7, 33· Di qui la ripetuta domanda delle Upani1ad: >, e il tradizionale: >. 63 Gv. 8, 28. 64 Bhagavad GTtii, v, 8 ; cfr. III, 27. Cfr. ]aiminTya Upani1ad Briihmatza, 1, 5, 2 ; Udiin a, 70. 65 Dhammapada, 74· 66 E. D. e F. Andrews, Shaker Furniture, I 937, p. 44· 67 Cfr. AnJitta, Josephus Zadoks , Ancestral Portraiture in Rome, I 9J 2 , pp. 87, 92 sg. Le effigi funerarie intorno al I 200 . Nicola Cusano, De visione Dei, XVI: , almeno rispetto a ciò che altrimenti sarebbe una totale oscurità, sebbene tale dimostrazione non sveli il principio nella sua essenza palese. 83 S. Th. , III, 92, I ad 484 lvi, 1 , 3, r . Cfr. Brhadiiral)yaka Upani,ad, IV, 4, 22; Maitry Upan#ad, IV, 5, passim. 85 Dante, Convivio, III, I 5 . Nicola Cusano, De Fil. Dei: >. Eckhart: > (ed. Pfeiffer, p. 505 ) . 86 Parabola della zattera: Majjhima Nikiiy a, I , I J 5 : Agostinv, De spiritu et lz"ttera, I 6 . 8 7 Kena Upani,ad, I, 3 - 8 . 88 Maitry Upani!ad, IV, 6. 89 Per le condizioni nelle quali la decorazione diventa un peccato, cfr. S. Th. , II-II, I 67, 2 e I 69, 2 ad 4- Cfr. il mio On the Relation o/ Beauty to Truth, in >, xx, I 9 3 8 , pp. 72-77; e >, d. XXI. 90 I Cor. I 3 , I 2 . 91

lvi.

INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE SULLA ' FILOSOFIA MEDIOEVALE E ORIENTALE DELL ARTE

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3

V . BELLEZZA E VERITÀ 1

S.Th., 1, 5 , 4 ad 1 . lvi, III, 8 8 , 3 · 3 Bonaventura, De reductione artium ad theologiam, 1 3 . 4 Agostino, D e doctrina christiana, n , 3 I . ' Baldwin, Mediaeval Rhetoric and Poetic, c it . , p. 5 1 . 6 Platone, Protagora, 3 I 2 . Baldwin, op. cit., p. 3 · 8 Platone, Gorgia, 503 . 9 Agostino, op. cit., IV, 10. 10 Morey, Christian Art, 1 9 3 5 , p. 49· 1 1 Baldwin, op. cit. , pp. 239, 244. 12 lvi, p. p . 1 3 Agostino, op. cit. , IV, 1 2 - 1 3 . 1 4 Bonaventura, De reductione artium a d theologiam ( 1 7, 1 8 ) : > (« per esprimere, istruire e spronare >>) , ossia per esprimere con un'immagine, per istruire con la luce della chiarezza, e spronare con la forza della parola. Si noti che la > è il lumen arguens, e che l'etimo del nostro termine « argo­ mento >> significava all'origine « chiarificazione», « messa in luce >>. 1 5 Agostino, op. cit., IV, 2 5 . 16 lvi, IV, I I . 1 7 lvi, IV, 14. 18 La locutionis integritas di Agostino corrisponde alla sermonis integritas di Cicerone (Brut., 3 5 , 1 3 2) e significa « Correttezza di espressione >>. Simil­ mente in san Tommaso (S. Th., 1, 39, 8) integritas sive perfectto, come condi­ zione necessaria della bellezza, è integritas nel senso di « accuratezza >> più che di « integrità >>, o « integrazione >>. Tenendo conto che tutto si esprime attraverso un'immagine, questo significa « simbolismo adeguato », ossia cor­ rettezza iconografica. Troppo spesso trascuriamo il fatto che nel discorso, come nelle arti visive, l'espressione si comunica tramite immagini. 1 9 Agostino, op. cit., rv, IO. 2 0 Laiikdvatiira Sutra, n, I 14. 21 Dante, Epistola a Ca n Grande, I 5 : « Finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis >>. 22 Z . K. Pyne, Palestrina, His Lz/e and Times, Londra 1 922, pp. 3 1 , 48. 2 3 Agostino, De Trinitate, x, r o. 24 Agostino, De doctrina christiana, IV, 14.

VII. LA CONCEZIONE TRADIZIONALE DEL RITRATTO IDEALE

1 Sukraniiisiira, IV, 4, 76. 2 Pratimiinataka. III, 5 . 3 Quaritch Wales, Siamese State Ceremonies, I 93 I , p . I 70, osserva che >. Nelle parole > e > è sottesa un'ironia di cui l'autore sembra essere ignaro ! 4 Laiikdvatiira Sutra, II, I I 2 - I I4. 5 Chiindogya Upani1ad, VIII, 8 , 2-4; X I I , I. ' La risposta di Prajapati (il Progenitore) si può paragonare a quella del Buddha quando dice: > (Samyutta Nikiiya, III, 1 20) e a quella analoga del Cristo: > (Gv. I4, 9 ) ; in nessuno di questi casi si intende che ciò che si ode o si vede realmente e fisicamente siano > o il >. 7 La stessa immagine ricorre nella Brhadiiravyaka Upani1ad, II, 2, 8-9: l'ignorante Gargya venera la persona riflessa nell'acqua o nello specchio, cioè se stesso, e viene ripreso dallo gnostico Ajatasatru, che gli spiega che ciò che egli venera è la Persona in immagine come il Rilucente, il quale è l'archetipo dell'immagine, non al modo in cui è visibile nelle acque fisiche o negli specchi, bensì nel cuore. Circa il significato di ndstika, cfr. >, IV, p. I49 sg., s.v. nathika. I > sono > (Platone, Teeteto, I 5 5 e ) : contrapposti a coloro che, seguendo il ]\g Veda, x, 3 I , 8, sostengono che naitiivad enii, paro anyad asti, >. 8 Ebr. 4, I2. 9 Maitreya, Uttaratantra, 88-9 1 . 10 Divydvadiina, c. XXXVII. 1 1 Uttaratantra, 89; dalla versione di Obermiller in >, IX, pp. 208-209. 12 Ermete Trismegisto, Trattato XIII. 13 Analogamente, né gli dèi né gli uomini possono vedere il Buddha qua­ le è realmente (Samyutta Nikiiya, I , 2 3 ) : coloro che lo vedono o lo odono fi. sicamente, in realtà non lo vedono né lo odono ( Vajracchedika Sutra, xxvi ) . > (Gal. 2, 2 o ) ; (Rum!, Mathnawz� m, 3 3 64 ) . 14 Cfr. Platino, Enneadi, V I , 2 , 2 I ; e l'espressione d i Platone « copie d i co­ pie >> (La Repubblica, 6o I ) . Dallo stesso punto di vista si esprime Austerius, vescovo di Amasea, 340 d.C. circa: