La filosofia dell'amore in Dietrich von Hildebrand. Spunti per un’ontologia dell’amore 9788855290678, 9788855290685

Nel panorama filosofico del Novecento sono fiorite tante riflessioni e analisi sulle emozioni e sui sentimenti, tra cui

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La filosofia dell'amore in Dietrich von Hildebrand. Spunti per un’ontologia dell’amore
 9788855290678, 9788855290685

Table of contents :
Zeugma
Massimo Adinolfi e Massimo Donà
Zeugma
Abbreviazioni delle opere di Dietrich von Hildebrand citate frequentemente
Prefazione
Introduzione
Il fenomeno “amore” dalla prospettiva dei filosofi
L’etica di Dietrich von Hildebrand
Primi tratti essenziali della filosofia dell’amore in Hildebrand
La dinamica dell’amore e il suo rapporto con l’etica
Dell’amore e dell’essere a partire da Hildebrand
Bibliografia
Indice analitico
Indice dei nomi
Indice
Zeugma

Citation preview

Valentina Gaudiano

La filosofia dell’amore in Dietrich von Hildebrand Spunti per un’ontologia dell’amore

Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 23 - Proposte

Valentina Gaudiano

La filosofia dell’amore in Dietrich von Hildebrand Spunti per una ontologia dell’amore Traduzione italiana di Luisa Sello

Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

Titolo originale: Die Liebesphilosophie Dietrich von Hildebrands. Ansätze für eine Ontologie der Liebe, Verlag Karl Alber, Freiburg-München 2013.

© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 23 - gennaio 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-067-8 ISBN – Ebook: 978-88-5529-068-5 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: unendlich langer Steg am Ufer des Sees © Jenny Sturm – stock.adobe.com

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Abbreviazioni delle opere di Dietrich von Hildebrand citate frequentemente

CcF:  Che cos’è la filosofia? (What is Philosophy?) E:  Ethik EA:  Essenza dell’amore (Das Wesen der Liebe) M:  Moralia MG:  Metaphysik der Gemeinschaft MW:  Man and Woman RJ:  Reinheit und Jungfräulichkeit SeW:  Sittlichkeit und ethische Werterkenntnis SG:  Sittliche Grundhaltungen UH:  Über das Herz

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Prefazione

Questo volume è stato pubblicato per la prima volta in Germania, come risultato di una ricerca dottorale ivi condotta. Qualche anno più tardi, tornata in Italia, il mio percorso di ricerca e studio, mosso sempre da un interesse antropologico ha incontrato altri autori e sviluppato nuove tematiche trascurando quasi il lavoro svolto sul pensiero di Dietrich von Hildebrand. Ultimamente, nelle personali riflessioni ho più volte improvvisamente intravisto nell’intelligere hildebrandiano sulla persona e sull’amore un legame intercorso nelle vie teoriche e pratiche intraprese e, contemporaneamente, nell’interesse riscontrato negli studenti durante le lezioni, riappreso il suo valore. È per questo che, dopo sette anni dalla pubblicazione tedesca, mi sono decisa a riprendere in mano il lavoro del dottorato per riproporlo in una versione che evidentemente non poteva non risentire del tempo trascorso. Era necessaria un’attualizzazione e non ultima un’opera di traduzione capace di parlare a un pubblico di lingua italiana, alla cui attenzione l’opera hildebrandiana in questo testo principalmente tematizzata – Essenza dell’amore – era stata proposta ormai 19/20 anni fa nella versione italiana curata dalla prof.ssa Paola Premoli De Marchi.

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Ciò che, sicuramente, non avrei mai potuto immaginare era il contesto storico-sociale nel quale la traduzione e pubblicazione della presente ricerca sulla filosofia dell’amore in Dietrich von Hildebrand sarebbe avvenuta. Stiamo attraversando mesi di grande crisi e tribolazione mondiale, tempi di assoluta incertezza e imprevedibilità anche in Paesi che pensavano di averle cancellate per sempre dalle loro agende. Non soltanto sperimentiamo la transitorietà delle nostre vite per le morti che vediamo o di cui sentiamo, ma facciamo esperienza della limitazione fisica della prossimità. Le nostre relazioni interpersonali vengono tagliate sul vivo perché non ci è più concesso esprimere affetti ed emozioni con tutto il nostro corpo e neanche condividere i momenti più cruciali dell’esistenza umana, quelli che segnano il passaggio tra la vita e la morte. Ci è chiesto di soffrire e morire senza abbracci, né carezze. Si può quindi comprendere come in tale frangente, immersa in un’improvvisa e nuova fase storica per l’umanità, lavorare al tema dell’amore abbia assunto una valenza e una portata non percepite in precedenza. È stato proprio il ravvisare e avvertire un’esigenza crescente di senso dell’umano più pieno e profondo – una delle tante lezioni della pandemia da Covid-19 – che ha restituito allo stesso lavoro quel senso ultimo che lo motiva e che persino a me era rimasto nascosto. Rimettere al centro dell’esistenza umana l’amore, depurandolo dalle sbavature alle quali è andato incontro al tempo della Postmodernità – in quella “società liquida” sapientemente descritta da Bauman – per restituirgli una valenza ontologica e, quindi, ribadendone l’assoluta essenzialità per capire l’essere umano e le sue relazioni, ci sembra, in effetti, una risposta imprevista in questo tempo di passaggio. Al di là delle culture e credenze religiose, delle appartenenze etniche e delle strutture politiche di governo, ricchi e poveri, tutti siamo oggi coinvolti dallo stesso male, tutti accomunati nel riconoscere la fragilità e

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la vanità di tante strutture e idoli costruiti nel tempo – da quelli economici a quelli tecnologici, politici e di benessere – tutti accomunati dalle stesse esigenze di vicinanza e prossimità con i nostri cari e non. L’amore è tornato, silenziosamente, ma poderosamente, a rivendicare il suo posto nelle esistenze umane, per abitarle con piena dignità e riconoscimento. Lo dicono i molteplici gesti e sguardi di coloro che in prima linea e nel segreto stanno dando tutto se stessi per rendersi prossimi e far arrivare agli altri una carica di vita, fisicamente e spiritualmente; lo dicono tutti quelli che stanno trovando le strade più originali e creative per generare nella realtà virtuale spazi di condivisione profondamente umani; lo dicono le tante parole che viaggiano l’etere trasportando non più solo inutili frammenti di egoità, bensì pezzi di fraternità vissuta e sentita. Le riflessioni che qui di seguito proponiamo sono certamente limitate, offrono una prospettiva – quella filosofica – seguendo le tracce segnate da alcuni specifici pensatori, e lo fanno con un intento principalmente teoretico, di analisi e fondazione del fenomeno. Tuttavia, crediamo che in esse si possano intravvedere proposte e risposte alle domande che oggi ci stiamo ponendo con nuova forza, rimettendo l’amore sul moggio e tentando di farlo parlare con il suo linguaggio che non è quello della testa, né soltanto delle mani, bensì quello del cuore che non muove in maniera autonoma e isolata, ma necessita degli altri due, perché è soltanto nella dinamica di inabitazione di tutti questi piani, dinamica di inabitazione tra persona e persona, che possiamo dare senso e significato all’essere umano. Valentina Gaudiano Figline e Incisa Valdarno, 6 aprile 2020

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Introduzione

1. Il fenomeno amore tra etica e metafisica La storia occidentale del pensiero filosofico è attraversata dal tema dell’amore spesso come un fiume carsico, che a tratti spunta sulla superficie delle coscienze muovendo a riflessioni serie e oneste, per poi tornare a fluire sotto terra, nell’ombra nascosta di un pensare che vuole credere alla propria autonomia, ma di fatto è condotto e supportato da altro, appunto dal fiume carsico dell’amore. Là dove i filosofi si sono lasciati interpellare da questo fenomeno così eminentemente presente e pregnante nella nostra vita, ne sono emerse da un lato riflessioni di carattere morale, dall’altro metafisico – ognuna sottolineando qualche aspetto specifico o tratto d’interesse dell’amore. Tuttavia, pur nella ricchezza del panorama storico, ci sembra di poter sostenere con Anders Nygren1 che, in fondo, la filosofia dell’amore ha ricevuto prevalentemente due tipi di influenza

1.  Anders Nygren ha dedicato un ricco volume all’analisi dell’amore cristiano e afferma, proprio nelle primissime pagine, come si parli comunemente di amore in doppia declinazione – eros e agape – quando in effetti si tratta di due ben distinti e tra loro estranei fenomeni, facenti capo l’uno a Platone e l’altro a Paolo di Tarso (cfr. A. Nygren, Eros e agape. La nozione cristiana

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a carattere metafisico: quella del pensiero greco antico specialmente di Platone e quella del Cristianesimo. Scholz, a sua volta, si esprime in questi termini: «eros e caritas, l’amore platonico e quello inteso cristianamente sono le due più grandi figure dell’amore sul terreno dell’Occidente»2. Platone e la sua filosofia ci hanno effettivamente mostrato i molteplici aspetti dell’amore soprattutto sotto il profilo dell’eros; il Cristianesimo, per parte sua, ci ha introdotto in una nuova e più ampia dimensione dell’amore: l’amore come agape. Entrambi questi aspetti o modi di intendere l’amore non solo attraversano e innervano la storia dell’Occidente, bensì hanno avuto e hanno ancora influenza nella nostra vita quotidiana, pur essendo poco capiti o addirittura malintesi. La questione di fondo è la contrapposizione frontale tra modelli etici, da una parte, e visioni del mondo a carattere più metafisico-­ontologico, dall’altra. Non di rado, specialmente nello scorso secolo, il termine “amore” – in quanto aspetto erotico della nostra vita – è stato moralizzato e con ciò ridotto al solo territorio dell’etica volta a trattare l’amore tra i sessi. Al contrario, alcuni pensatori di provenienza cristiana hanno inteso l’amore prevalentemente da una prospettiva ontologica, considerando maggiormente la questione sotto il profilo dell’agape. Se si guarda alla prima metà del XX secolo, si possono individuare alcuni approcci filosofici che cercano di schiudere la dimensione ontologica dell’amore: uno è quello di Max Scheler (1874-1928) – grande amico di Hildebrand – che con coraggio rimette a fuoco il valore e la portata della sfera affettiva nell’esistenza umana, riconoscendo nell’amore l’elemento costitutidell’amore e le sue trasformazioni, tr. it. di N. Gay, intr. di F. Bolgiani, EDB, Bologna 1990, p. 151). 2.  H. Scholz, Eros und Caritas. Die platonische Liebe und die Liebe im Sinne des Christentums, Niemeyer, Halle 1929, p. V.

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vo della persona, più e prima della ragione3. Va, poi, nominato Emmanuel Mounier4 (1905-1950) e con lui alcuni altri filosofi personalisti come Jacques Maritain (1882-1972), Maurice Nédoncelle (1905-1976), Karol Wojtyla (1920-2005), per citarne solo alcuni. Il loro approccio nasconde certamente altre prospettive e premesse di fondo, se si considera soprattutto che questi pensatori erano cristiani e per lo più propugnatori del personalismo5; tuttavia, si lasciano individuare nell’intera storia della filosofia tracce che tendono a una visione più ontologica. Dietrich von Hildebrand, filosofo che non ha mai negato la sua fede cristiana e la particolare esigenza di innervare il pensiero filosofico della profonda esperienza derivata dalle verità di fede, ci sembra si muova in un territorio intermedio, nel quale le suddette posizioni non sperimentano un contrasto, nono-

3.  È proprio di Scheler la notoria trasformazione della celebre definizione cartesiana dell’ens cogitans che appunto, nella rilettura scheleriana diventa ens amans. 4.  La filosofia di Mounier è fortemente improntata sul concetto di persona e sulla sua comprensione quale realtà spirituale più propria dell’individualità e che oltrepassa la pura esistenza. Partendo dal tomismo, Mounier sviluppa il concetto di persona, quindi, attraverso un Manifesto personalista che fa nascere una corrente di pensiero espressasi, poi, in una filosofia della persona. Tra i pensatori ad essa appartenenti vanno ricordati Maritain, Nédoncelle e Marcel, anche se quest’ultimo ha approfondito meno degli altri il concetto di persona. Tra i personalisti viene anche annoverato Wojtyla, il quale, partendo dalla comprensione scheleriana di persona e in termini di distinzione dalla medesima, sviluppa una propria filosofia della persona. Cfr. le voci Marcel, Maritain, Mounier, Nédoncelle, in Enciclopedia filosofica, a cura del Centro di studi filosofici di Gallarate, EDIPEM, Novara 1979, vol. 5, risp. pp. 410414, 436-442, 962-964, 1069-1070. 5.  Il personalismo di quel tempo concentrava la propria riflessione sul concetto di persona così come era stato sviluppato all’interno della nuova scolastica, appropriandosi specialmente della comprensione dell’essere umano in quanto persona per via della sua libertà e dignità.

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stante egli analizzi l’amore prevalentemente in un orizzonte etico6. Tuttavia, il suo approccio fenomenologico apre possibili strade di comprensione e rilettura dell’amore all’interno di un orizzonte metafisico-ontologico. L’apparente tensione tra etica e metafisica potrebbe essere ricondotta all’uso e alla comprensione dei termini eros e agape, due termini spesso confusi e malintesi, che nel tempo si sono sempre più distanziati tra loro, finendo addirittura col contrapporsi, nonostante venissero linguisticamente ricondotti a un comune denominatore, ovvero la parola “amore”. Hildebrand non affronta direttamente la questione terminologica di un’eventuale distinzione tra eros, agape o altri termini che la storia ci ha tramandato. Secondo lui l’amore si mostra in maniera unitaria e perciò va sussunto nel termine amore (Liebe), nonostante la possibilità di servirsi di altri termini per fare differenziazioni. Ci troviamo, perciò, spesso di fronte a combinazioni di parole, come amore sponsale (breutliche Liebe) o amore coniugale (Eheliebe), amore genitoriale (Elternliebe) e amore filiale (Kindesliebe), amore amicale (Freundesliebe), amore tematico (thematische Liebe), amore santo (heilige Liebe) che vanno utilizzate per indicare le differenti forme di amore senza creare al contempo più fenomeni. Quando si parla di amore, meglio ancora, quando si fa parlare l’amore, esso si mostra nella sua molteplicità che, tuttavia, indica un’unica origine, ovvero ciò che ha valore o va amato. Nell’amare ed essere amati l’amore, secondo Hildebrand, si rende sperimentabile in quanto riferito al valore e al contempo 6.  L’etica è in effetti un campo di approfondimento del suo lavoro filosofico. Si pensi alle numerose opere che affrontano la questione dell’etica e della morale, anche nella definizione di un loro statuto epistemologico. Die Idee der sittlichen Handlung, Sittlichkeit und ethische Werterkenntnis, Situationsethik, Christian Ethics, Moralia, True Morality and its Counterfeits sono i titoli principali.

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esprimibile: l’amore è, infatti, secondo lui una risposta al valore (Wertantwort). Partendo, dunque, da un’analisi critica della filosofia dell’amore di Dietrich von Hildebrand, in queste pagine si è cercato di tematizzare e chiarire la seguente domanda: in che senso sia possibile, attraverso la filosofia hildebrandiana, una riabilitazione dell’amore come categoria fondamentalmente filosofica, che appunto non appartiene esclusivamente al campo dell’etica, ma piuttosto può condurre – all’interno di una nuova comprensione dell’essere – a una ontologia dell’amore.

2. Diversi termini per dire un solo fenomeno? Data la varietà linguistica del mondo antico, da cui deriviamo l’attuale termine amore, conviene intraprendere un breve percorso di chiarificazione terminologica, per cogliere le sfumature che spesso l’unico termine derivato dal latino amor vuole esprimere o che gli si vuole far dire. A tal proposito possiamo qui riproporre qualche passaggio dallo studio di Josef Pieper – Über die Liebe (Sull’amore)7 –, una trattazione ancora attuale per quanto concerne la discussione dei termini8. Intanto, già nella lingua latina troviamo una terminologia che, ben oltre i noti amor e caritas, è alquanto differenziata per indicare fenomeni oggi genericamente sussunti nel termine amore. 7.  J. Pieper, Sull’amore, tr. it. di G. Poletti, a cura di G. Santambrogio, Morcelliana, Brescia 2012. 8.  Il riferimento è qui alla parola tedesca Liebe, non ad altre lingue; tuttavia, la povertà del tedesco sottolineata da Pieper può essere riscontrata anche in altre lingue. Infatti: Liebe, love, amore, amor, amour, dicono tutte la stessa cosa, senza chiara distinzione se si tratti di un amore tra uomo e donna, o tra genitori e figli, o se si tratti di amicizia.

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Infatti, le opere oggi comunemente espresse con la parola “carità” erano un tempo opere della “pietà”; con la parola dilectio, invece, si intendeva la natura personale, spirituale dell’essere umano e dell’amore, poiché il verbo diligere significa qualcosa come scegliere, eleggere. Non solo, anche la parola studium trovava un riferimento all’amore, esprimendo il carattere di solerte servizio. Il termine affectio, invece, poneva l’accento – come d’altronde anche la parola passio – sulle passioni come anche sulle esperienze attive e passive dell’amore. Dopo la nascita e lo sviluppo del Cristianesimo la parola caritas iniziò ad essere usata prevalentemente con un significato esclusivamente religioso e ancora oggi contiene la stima per l’altro che può riferirsi agli uomini e a Dio. Infine, il termine amor veniva letteralmente riferito all’amore intendendo, però, qualcosa di passionale o l’essere travolti emotivamente. Sul versante greco, invece, il più noto e diffuso termine è certamente eros – per nulla univoco e chiaro. Platone è il primo del quale ci è giunto un uso cospicuo della parola, che nei dialoghi ritorna spesso nella molteplicità dei suoi significati: dall’attrazione che nasce dal bello carnale fino alla follia divina, dall’impulso all’osservazione filosofica del mondo e dell’esistenza alla forza dell’ascesa, alla visione del bello divino. Philía, invece, esprime il sentimento di solidarietà con gli altri esseri umani, non soltanto con i propri amici o con un partner; con questo termine si intendono tutti i rapporti con gli altri e in un senso più ristretto e intimo ciò che noi chiamiamo amicizia9.

9.  Cfr. P. Schulz, Freundschaft und Selbstliebe bei Platon und Aristoteles. Semantische Studien zur Subjektivität und Intersubjektivität, Alber, Freiburg-München 2000.

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Per quanto riguarda, infine, l’agape, va detto che questo termine iniziò ad essere utilizzato e poi diffuso soltanto con il greco biblico, perché nel linguaggio letterario si utilizzavano piuttosto altri termini come storgé che intendeva la simpatia nelle relazioni familiari; oppure ancora philantropía con la quale si intendeva sia la benevolenza in senso ampio che la relazione tra i sessi, o ancora philadelphía che primariamente indicava l’amore tra un uomo e una donna. Abbiamo ereditato, dunque, dal greco e dal latino una “coppia vincente” – amor/caritas ed eros/agape – circondata da un piccolo arcipelago di altre declinazioni affettive che hanno col tempo perso forza nel comune intendersi e conversare su tali temi. Questa brevissima carrellata di termini e significati nel campo del più generico “amore” ci mostra, perciò, quanto povere siano le nostre lingue odierne – almeno quelle latine e indoeuropee – nell’esprimere un fenomeno così complesso e variegato, nonché ricco di senso e molteplicità di significati, come l’amore. Ed è probabilmente anche questa una ragione che ha contribuito a generare e acuire, in certi frangenti storici, la dialettica che vede contrapposti i due succitati termini. Nygren la esplicita in una tabella che pone proprio i due termini greci a confronto evidenziandone l’opposizione: eros è desiderio, agape è sacrificio; il primo si eleva, il secondo si abbassa; l’uno è amore egocentrico, l’altro è disinteressato; «l’eros constata un valore nel suo oggetto e lo ama. L’agape ama e crea un valore nel suo oggetto»10. Proprio quest’ultima affermazione ci interesserà nel corso del­ l’analisi del pensiero hildebrandiano, poiché al centro della filosofia dell’amore stanno i valori, e la questione del riconoscere/ constatare o creare – su cui divergono i pensieri di Hildebrand e Scheler/Wojtyla – è un punto nodale per una comprensio10.  A. Nygren, Eros e agape, cit., p. 184.

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ne non dialettica, ma complementare delle due espressioni di amore.

3. Struttura dell’opera La comprensione dell’amore come risposta al valore si fonda su un’etica del valore che rappresenta uno dei momenti più significativi e fruttuosi della produzione filosofica di Hildebrand. Dopo il primo capitolo, dedicato all’esplicazione della tensione dialettica tra etica e metafisica – nel quadro della domanda sull’amore all’interno della storia della filosofia con brevi affondi su alcuni pensatori –, il secondo capitolo si sofferma sugli studi etici di Hildebrand, mettendo in risalto prevalentemente due concetti che, a parer nostro, costituiscono due colonne della filosofia dell’amore hildebrandiana, ovvero il “valore” e la “persona”. Il terzo capitolo affronta, poi, la definizione di amore mediante un primo confronto critico con le caratterizzazioni del medesimo (concepito come risposta al valore), quindi con una successiva descrizione degli aspetti specifici dell’amore esplicitati da Hildebrand attraverso una suddivisione in categorie. Nel quarto capitolo sono i risvolti morali ad essere al centro della riflessione, così come la questione del reciproco influsso tra moralità e amore. Va detto che il Nostro dedica molto spazio della sua opera centrale L’essenza dell’amore ad analizzare in modo dettagliato le implicazioni etiche dell’amore, da intendere non solo negativamente, ma anche come arricchimento reciproco per ambo le parti, cioè per l’amore come per l’etica. Ciononostante, le influenze mostrano anche non poche difficoltà che nel corso del capitolo e ancora nel quinto si cerca di risolvere o anche soltanto di illuminare. L’ultimo capitolo, riprendendo la domanda di partenza di questa ricerca, propone una sorta di dialogo tra Hildebrand e al-

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cuni pensatori a lui contemporanei: da Solov’ëv a Wojtyla, da Ortega y Gasset a Welte, fino a Marion. Con essi si può discutere sui pregi e sui difetti della risposta al valore e al contempo affermare – in una continuità di pensiero tra tutti – che l’amore sia un unico fenomeno che attraversa e pervade la nostra vita in uno spettro di forme espressive. Scopo di tale dialogo è, perciò, non soltanto rispondere alle domande aperte emerse durante la trattazione, bensì indicare una via sulla quale sia possibile collegare amore ed essere e trovare, a partire da quella che si sarà rivelata la metafisica hildebrandiana, spunti per questo.

4. Vita e opere di Dietrich von Hildebrand Dietrich von Hildebrand nasce a Firenze nel 1889 in una famiglia di artisti. Il padre Adolf von Hildebrand, scultore, e la madre Irene Koppel-Ellfeld, nata Schäuffelen, donna colta e intellettuale, gli forniscono un’educazione orientata alla percezione del senso estetico. L’amore e l’attenzione, non solo dei genitori e delle cinque sorelle maggiori, ma anche della cerchia di amici della famiglia, contribuiscono a sviluppare in lui un atteggiamento fondamentalmente aperto e ottimista nei confronti della vita. Nel 1898 l’intera famiglia si trasferisce a Monaco di Baviera, dove Hildebrand inizia gli studi filosofici. All’iniziale entusiasmo per lo psicologismo di Lipps, fa seguito la lettura delle Ricerche logiche di Husserl che lo induce a un cambiamento: insieme ad alcuni studenti e intellettuali, tra cui Johannes Daubert, Alexander Pfänder, Adolf Reinach e Moritz Geiger, già vicini a Lipps, Hildebrand fonda un circolo di fenomenologi, diventandone più tardi il presidente. Durante gli studi si trasferisce a Gottinga, dove incontra personalmente Edmund Husserl, con il quale consegue nel 1912 il

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dottorato con il lavoro Die Idee der sittlichen Handlung (L’idea dell’azione morale). In questi anni si dedica interamente al metodo fenomenologico, tanto che Husserl lo definirà il suo «Meisterschüler, il migliore studente, colui che ha saputo applicare il metodo fenomenologico nel modo migliore e più preciso». A Gottinga si unisce al circolo dei fenomenologi, che comprendeva Edith Stein, Theodor Conrad, Hans Lipps, Alexandre Koyré, Jean Hering e Hedwig Conrad-Martius e, dopo la svolta trascendentale di Husserl, farà parte del gruppo monacense11 di ex studenti di Husserl, che non vollero seguire il maestro. Nelle sue Auto-rappresentazioni Hildebrand spiega questo nuovo rapporto con la fenomenologia di Husserl con le seguenti parole: «Il termine fenomenologia, come Husserl lo capì più tardi e come molti fenomenologi contemporanei lo capiscono, non ha nulla a che vedere con quella che io chiamo fenomenologia»12. Una delle personalità che ha avuto più influenza su di lui in quegli anni è Max Scheler, incontrato a Monaco di Baviera durante un seminario del circolo dei fenomenologi. Hildebrand rimane abbagliato dal genio del filosofo monacense e tra loro 11.  Il circolo di Monaco si forma come circolo fenomenologico che prende le distanze dallo Husserl delle Idee (Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologische Philosophie). La conversione, infatti, avvenuta secondo gli allievi di Husserl nell’opera suddetta, viene letta come tradimento alle premesse originarie del metodo fenomenologico che lo stesso maestro aveva elaborato. La conversione dall’oggetto al soggetto – in contrapposizione a ogni psicologismo e trascendentalismo – rappresenta il principio-guida del Circolo di Monaco; anche se l’attenzione non viene rivolta esclusivamente ai fenomeni, ovvero ai dati esperienziali, bensì anche alle essenze. Hildebrand, assieme a Adolf Reinach, Hedwig Conrad-Martius, Max Scheler – per nominarne solo alcuni – darà grande impulso alla cosiddetta fenomenologia realista. 12.  D. von Hildebrand, Selbstdarstellung, in L.J. Pongratz (a cura di), Philosophie in Selbstdarstellungen, vol. II, Meiner, Hamburg 1975, pp. 77-127: p. 78.

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nasce un’amicizia lunga e profonda. Grazie a Scheler, von Hildebrand sviluppa la sua etica e trova la fede e il legame con la Chiesa cattolica. Tuttavia, non si può dire che Dietrich von Hildebrand sia stato un allievo di Scheler13, perché presto emergono divergenze tra loro; Hildebrand riconosce, infatti, i limiti del pensiero di Scheler e ne prende le distanze. Un’altra figura molto importante nella sua vita è il collega e amico Adolf Reinach. Attraverso queste relazioni e le vicende personali della sua vita, la filosofia hildebrandiana diventa sempre più una fenomenologia del valore, plasmata soprattutto dal pensiero cristiano. Fede e pensiero sono in lui strettamente intrecciati, quasi che il pensiero sia attraversato da una linea unificante. «Dietrich von Hildebrand era lontano da ogni pretesa profetica. Voleva essere filosofo; voleva esprimersi come filosofo e sotto nessun’altra veste. Eppure allo stesso tempo, ogni suo pensiero era motivato religiosamente»14. Nel 1920 si abilita a Monaco di Baviera con l’opera Sittlichkeit und ethische Werterkenntnis (Moralità e riconoscimento etico dei valori), apparsa l’anno successivo nello «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung» (Annuario per la filosofia e la ricerca fenomenologica), e inizia l’attività di insegnamento come docente privato, radunando attorno a sé vari studenti, tra i quali nomi importanti come Jacques Maritain e Gabriel Marcel15. I capisaldi della sua filosofia nel frattempo si sviluppano e sfociano in un’opera importante del

13.  Lo stesso Hildebrand lo afferma in maniera decisa nel suo scritto autobiografico. Cfr. ivi, p. 80. 14.  H. Kuhn, Eine Philosophie des Sich-Verlierens: Dietrich von Hildebrand (1889-1977), in «Communio. Internationale Katholische Zeitschrift», n. 6, 1977, pp. 556-564: p. 559. 15.  Al primo gruppo di allievi appartengono: Balduin Schwarz, Karla Mertens (traduttrice di molte opere di Hildebrand), Rudolph Berlinger e Paul Stöcklein.

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1930: Metaphysik der Gemeinschaft (Metafisica della comunità). In questo trattato, come ha riconosciuto Helmut Kuhn, la comprensione delle comunità, incluso lo Stato, rivela un’immagine fondata sull’amore e sul rispetto, atteggiamento contrario agli interessi politico-culturali della Monaco di Baviera dell’epoca16. Tuttavia, la sua attività di insegnamento e la vita privata a Monaco di Baviera si concludono bruscamente nel 1933 a causa delle sue forti convinzioni cristiane e della sua acuta capacità critica: Dietrich von Hildebrand fu uno dei primi intellettuali in Germania a percepire il grande pericolo proveniente dal nazionalsocialismo e a tacciarlo pubblicamente come tale. Per lui fu chiaro che «il nazionalsocialismo non solo è un’eresia, è paganesimo, non solo è un ateismo cattedratico, ma è la negazione virulenta della sfera religiosa in generale, un naturalismo dinamicamente potente e un soggettivismo che non si ritrova nella storia del mondo se non nel bolscevismo»17. La conseguenza di un tale atteggiamento è la persecuzione. Il suo nominativo viene inserito nella lista nera di persone non grate al Terzo Reich. Scappando trova solo in Austria la possibilità di sviluppare la sua contropropaganda al di fuori del Terzo Reich. Qui strinse amicizia con il cancelliere Dollfuß, anch’egli

16.  In quegli anni Monaco stava per «diventare la capitale del movimento che schiacciava con i piedi tutte queste richieste di umanità statale» (H. Kuhn, Eine Philosophie des Sich-Verlierens, cit., p. 560). La politica culturale della Monaco degli anni ’30 si indirizzava sempre più verso un’ideologia totalitaria e unilaterale che non lasciava alcun posto per la varietà e la libertà di pensiero. Perciò, la cultura fu strumentalizzata per via della situazione politica e per i suoi scopi. Si capisce, quindi, come certe opere che mettevano in evidenza il valore della vita in una comunità impregnata di amore e attenzione non fossero del tutto benvenute. 17.  D. von Hildebrand, Engelbert Dollfuß, in «Der Christliche Ständestaat» (1933-1938), 21 luglio 1935, pp. 683-685.

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molto ostile alla nuova politica tedesca; con il suo aiuto, Hildebrand fondò la rivista antinazista Der christliche Ständestaat (Lo stato corporativo cristiano), alla quale si dedicò con tutte le forze. Nel corso degli anni la situazione peggiorò e la sua condizione divenne sempre più precaria per i boicottaggi alle sue lezioni, le contestazioni e persino gli attentati alla sua vita. Dopo l’annessione dell’Austria al Terzo Reich da parte delle truppe naziste nel 1938, Hildebrand dovette interrompere le sue attività e riprendere la fuga, fino a quando trovò rifugio negli Stati Uniti, dove continuò la propaganda antinazista. In seguito si oppose non meno fortemente al comunismo, riconoscendo in esso un altro grande pericolo, anche se di natura diversa. «Per quanto il nazismo e il comunismo sembrino divergere l’uno all’altro – uno a destra e l’altro a sinistra – Dietrich era convinto che entrambi i sistemi fossero fratelli gemelli nel male. Essi rivelano lo stesso materialismo, la stessa glorificazione dello Stato, lo stesso totalitarismo e lo stesso ateismo. Dietrich li odiava entrambi, perché odiava il male»18. In America viene chiamato alla Fordham University, al Jesuit College of Philosophy di New York, e da lì si potrà nuovamente dedicare alla filosofia e ai suoi problemi, cosa che fece fino al ritiro dall’insegnamento. In questo periodo diede vita a una nuova cerchia di studenti.19 Qui continuò a sviluppare la sua filosofia del valore e scrisse le sue maggiori e più importanti opere, quali Christian Ethics (1953), What is Philosophy? (1960), Das Wesen der Liebe (1971), Ästhetik (vol. I, 1977, e vol. II, 1984 – postuma), Moralia (1978), per citarne solo alcune. Sem-

18.  A. von Hildebrand, Die Seele eines Löwen. Dietrich von Hildebrand, Verlag Dr. Müller, Düsseldorf 2003, p. 197. 19.  Tra loro ricordiamo William Marra, Balduin Schwarz, Ronda Chervin e Alice Jourdan, la quale sposò il Nostro dopo la morte della prima moglie. A lei dobbiamo anche la pubblicazione della prima biografia.

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pre più eminente diventa per lui il significato della trascendenza della persona umana e delle sue relazioni. Von Hildebrand muore a New Rochelle nel 1977.

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Capitolo I

Il fenomeno “amore” dalla prospettiva dei filosofi Breve excursus storico

Lo scopo di questo capitolo è di fornire spunti di riflessione sul fenomeno “amore” nella storia della filosofia. Anche se il platonismo e il cristianesimo ci hanno trasmesso i più importanti e completi modelli di una metafisica dell’amore, essi non sono gli unici, come ha notato Scholz1, che hanno trattato l’argomento da questa prospettiva. Per questo cercheremo di gettare un ponte dall’antichità ai tempi moderni e fino al secolo scorso, che porti alla luce alcune riflessioni sull’amore. Non essendo possibile – nel quadro di riferimento di questo studio – dilungarsi sui dettagli né pretendere una forma di esaustività, si è operata una selezione dei filosofi, limitando la scelta a quei determinati rappresentanti di un’epoca o di una particolare visione dell’amore che ci sono sembrati illuminanti in relazione alla filosofia dell’amo­ re di Hildebrand. In tal senso sottolineeremo alcuni aspetti dell’amo­re, sia metafisici che etici. Dalla figura demoniaca dell’eros platonico, all’amicizia come la via più eccelsa per la felicità in Aristotele; dall’istituzionalizzazione dell’amore sessuale nel matrimonio (Plutarco), alle sfumature cristiane dell’amo­ 1.  Cfr. H. Scholz, Eros und Caritas, cit.

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re al prossimo e dell’amore verso Dio in Tommaso d’Aquino e Agostino; dallo sviluppo della teoria degli affetti nella modernità – Spinoza e Pascal – alla funzione pedagogica dell’amore in Rousseau; dall’amore cosmico di Fichte al conflitto esistenziale tra amore naturale e amore divino nella dottrina dell’amore al prossimo in Kierkegaard. In tutti incontriamo profondità e sfumature dell’amore che rendono comprensibile quanto possa essere impegnativa una discussione filosofica sull’amore e quanti aspetti debbano venir considerati. Di particolare rilievo la prospettiva, alquanto ricorrente, che sostiene la molteplicità dell’amore e l’impossibilità di trovare un denominatore comune tra i diversi aspetti, con il conseguente contrasto tra eros e agape, tra l’amore terreno e l’amore divino.

1. La visione dell’amore nel mondo antico: un elogio di eros e philía 1.1. L’eros platonico – una riflessione metafisica Dobbiamo a Platone una prima trattazione del tema, essenzialmente sotto il profilo dell’eros. Il tema dell’amore è un tema costante, anzi uno dei Leitmotiv della filosofia platonica. Eros è descritto e caratterizzato in diversi modi, ma la visione di base di Platone rimane principalmente ontologico-metafisica. L’amo­re è qualcosa di esistenziale e viene quindi inteso e scandagliato ontologicamente. Nel Simposio, conosciuto anche come Convivio, l’opera platonica che tratta quasi esclusivamente dell’amore, si è condotti all’inizio su strade aperte, in descrizioni piuttosto entusiastiche, dall’inno di lode alla grandezza e bellezza dell’eros, alla distinzione tra eros volgare ed eros buono, all’affermazione che egli

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è il più giovane e il più bello di tutti gli dèi, un dio che anela alla bellezza. Ma il vero eidos dell’eros di Platone, che unifica straordinariamente tutti gli opposti, si concretizza solo alla fine del discorso di Socrate, nella resa di una conversazione con Diotima: qui Eros appare non come un dio, ma come un demone, una natura intermedia, che porta in sé qualcosa di carente2. Allo stesso tempo egli tende alla perfezione e all’amore per il bello3 e per tutto ciò che è sapiente. Eros, però, non si accontenta di trovare qualcosa di bello: infatti, nello stesso istante in cui lo trova non smette di cercare qualcosa di più bello ancora, per raggiungere il quale spinge l’essere umano alla procreazione, che a sua volta può avvenire solo nel bello, perché attraverso di esso l’immortale si realizza nel nostro essere altrimenti mortale. Secondo Platone, ogni essere umano è capace di generare, sia nel corpo che nell’anima: a seconda di ciò che più intensamente segue, il suo amore si articola in modo diversificato. In questo senso si capisce che per Platone l’amore è interessante non solo come atto umano o come fenomeno secondario della vita, ma nel suo significato profondo, cioè come forza ontologica.

2.  Questo carattere della mancanza è un punto centrale e importante nella metafisica dell’eros platonico, poiché si può amare solo ciò che non si ha. È per tale ragione che, come ha messo in luce Nygren, gli dèi sono esclusi dall’amore: essi hanno infatti già tutto, sono in sé compiuti, dunque non agognano nient’altro e non hanno bisogno di amare (cfr. A. Nygren, Eros e agape, cit., p. 151). Il movimento o la relazione che ha luogo tra il livello divino e quello umano è unilaterale e non include alcuna reciprocità. I due mondi rimangono in fondo divisi e l’eros offre, quale natura intermedia, l’unica possibilità di un attraversamento. Questo motivo diventa decisivo nel confronto con le tesi cristiane che attraverso la caritas rappresentano un movimento circolare dell’amore che da Dio muove verso gli uomini e da loro torna a Dio. 3.  Su ciò si basa l’intera metafisica platonica in rapporto all’amore, come Heinrich Scholz evidenzia in Eros und Caritas, cit. L’eidos del bello viene qui descritto come nucleo centrale dell’amore.

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Grazie all’eros diventano possibili la procreazione e con essa la creazione, sia in natura, quindi anche nell’uomo, sia nella tecnica, ovvero nel prodotto umano. Platone esprime questo concetto con l’immagine del corpo e dell’anima: coloro che sentono l’impulso e la gioia di procreare, saranno più attratti verso le donne e concepiranno soprattutto altri esseri umani. Coloro che sentono il desiderio di procreare secondo l’anima, preferiranno rivolgersi ai giovani e procreeranno nello spirito; i loro frutti saranno la giustizia, la prudenza e tutte le altre virtù. La seconda via è più perfetta della prima4, inoltre il vero amore per i giovani può essere l’accesso graduale5 alla visione del vero bello divino, perché: La giusta maniera di procedere da sé o di essere condotto da un altro nelle cose d’amore è questa: prendendo le mosse dalle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere quel Bello, salire sempre di più, da un solo corpo bello a due ... alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si 4.  Questa forte svalutazione di Platone nei confronti della donna e dell’amore eterosessuale si scontra con la visione di Plutarco, per il quale l’amore tra uomo e donna è il più completo. L’uomo e la donna si incontrano sullo stesso piano e così si aprono reciprocamente all’amore: così e solo così si può sviluppare un amore profondo e virtuoso, un’alleanza che anche nelle circostanze esteriormente più contrarie può avere luogo. Plutarco si presenta tuttavia come una voce isolata che nell’antichità valuta l’amore coniugale in modo così positivo e certamente di più valore rispetto all’amore pederastico. Cfr. Plutarco, Sull’amore, tr. it. di V. Longoni, intr. di D. Del Corno, Adelphi, Milano 1986. 5.  Diotima rispecchia quattro livelli dell’eros nei confronti del bello: come primi, i bei corpi, quindi le belle abitudini, sino ai bei pensieri e infine alla conoscenza del bello in sé. È evidente che si tratta di un «processo dell’astrazione e della graduale disindividualizzazione» (A. Wurm, Platonicus Amor. Lesarten der Liebe bei Platon, Plotin und Ficino, de Gruyter, Berlin-New York 2008, p. 19), che svela il carattere ontologico della concezione platonica nei confronti dell’amore.

33 pervenga a quella conoscenza che è conoscenza di null’altro se non del Bello stesso.6

Con le parole di Nygren si può anche dire: «Eros è amore volto verso l’alto. L’eros è l’aspirazione e la tensione dell’anima verso la trascendenza, verso il mondo celeste, il mondo delle idee»7. Ora, l’eros è una forza motrice, che attira l’essere umano verso la bellezza, verso l’oggettivamente bello, che allo stesso tempo include la perfezione. Ciò significa anche che l’essere umano non esercita in esso alcuna attività reale: la forza motrice è l’eros che lo mette in moto. In questo contesto, l’osservazione di G. Krüger mi sembra molto precisa: «Se ama veramente, l’amante non ha nemmeno una scelta. L’amore, compresa la parte più personale e attiva dell’amante, è uno “stato”; il proprio “comportamento” avviene all’interno di una “costituzione”, nella quale siamo “posti” senza il nostro intervento»8. L’amore interpersonale assume quindi uno status diverso, come possiamo trovare in Hildebrand, sebbene egli enfatizzi più fortemente il carattere attivo dell’amore. La vera realizzazione di eros sta nell’amore umano, che in Hildebrand assume il carattere dell’amore personale. La bellezza dell’essere umano di cui parla Platone va ben oltre la differenza tra i sessi e la pratica dell’eros, è piuttosto un riconoscimento ontologico della natura umana in quanto tale. Per Platone, eros non è necessariamente sesso, o non solo, e non è originariamente sesso. Questa visione si trova in seguito anche in Plutarco che riconosce l’importante compito di eros

6.  Platone, Simposio, in Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 20085, 211c, pp. 481-534: p. 518. 7.  A. Nygren, Eros e agape, cit., p. 151. 8.  G. Krüger, Einsicht und Leidenschaft. Das Wesen des platonischen Denkens, Klostermann, Frankfurt a.M. 1983, p. 9.

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proprio differenziandolo dal sesso, quello, cioè, di dare un’anima all’essere umano e condurlo alla virtù e alla visione di Dio. Quanto Platone abbia voluto sviluppare la propria filosofia del­ l’amore attraverso i Dialoghi è oggi sempre più discutibile9; in ogni caso, la sua visione dell’amore come eros rimane un capitolo importante nel successivo dibattito filosofico e costituisce il punto di partenza di comprensioni contraddittorie e opposte sull’amore riguardo al problema corpo-anima e la sua relazione con l’amore, così come pure rispetto alla domanda metafisica sul potere di eros e la sua posizione nel cosmo. Secondo Scholz, l’amore platonico rappresenta l’immortalizzazione della razza umana e l’offerta dell’unica possibilità di immortalità. In ogni caso questo aspetto, che non tocca direttamente la filosofia dell’amore di Hildebrand, è una caratterizzazione fondamentale dell’amore in molti pensatori.

1.2. La dimensione cosmica dell’eros e l’amore amicale in Aristotele La prospettiva metafisica di eros come guida alla beatitudine e alla creatività trova un’eco speciale in Aristotele che «ha ampliato questa concezione, dando al concetto dell’eros un significato cosmico»10. Il desiderio di perfezione diventa in Aristotele desiderio universale, di tutto il cosmo verso la perfezione in Dio e tutto viene messo in moto dal potere erotico, in un processo continuo e ascendente; «il primo motore muove come ciò che è amato, mentre tutte le altre cose muovono essendo mosse»11. 9.  Cfr. A. Wurm, Platonicus Amor, cit. 10.  A. Nygren, Eros e agape, cit., p. 157. 11. Aristotele, Metafisica, testo greco a fronte, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2004, 1072b 3, p. 563.

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Oltre a questa visione cosmica dell’eros, che nel suo lavoro sull’Etica Nicomachea trova il suo sviluppo principale nella metafisica, in una vasta indagine Aristotele sviluppa anche un’etica della philía. A suo avviso, philía è una proprietà dell’animo umano, «una virtù o quanto meno unita alla virtù»12, cioè qualcosa che ha in ogni caso a che fare con la virtù; e in effetti la sua analisi si volge all’ambito della moralità. Con ciò si sposta l’asse dell’analisi filosofica con la conseguenza che l’amore non viene più compreso come uno stato, ma come un’attività. Non è chiaro quale sia la connessione tra l’eros cosmico e la philía e perché Aristotele in questo scritto sull’etica tratti così ampiamente della philía, quando il punto cardine ruota principalmente sulla questione dell’eudaimonía13. Certamente, non si può parlare di un concetto derivato, poiché eros e philía non hanno quasi punti di contatto: eros è la forza che attira a Dio e basta, poiché Dio è il primo principio, l’immobile; philía invece mira alla reciprocità. Inoltre, gli esseri umani trovano più felicità nell’amare che nell’essere amati; anche se in eros è diverso, poiché qui la perfezione consiste nell’essere amati da Dio. Il punto di partenza della riflessione aristotelica sull’amore amicale è l’osservazione che l’amicizia con quelli della stessa

12. Aristotele, Etica Nicomachea, testo greco a fronte, tr. it. di M. Zanatta, 2 voll., BUR, Milano 19998, vol. II, 1155a, p. 703. 13.  In rapporto all’insegnamento sulla felicità nell’Etica Nicomachea, cfr. W. Metz, Der Weg zur Glückseligkeit bei Aristoteles und Thomas von Aquin, in E. Düsing - K. Düsing - H.-D. Klein (a cura di), Geist und Sittlichkeit. Ethik-Modelle von Platon bis Levinas, Königshausen & Neumann, Würzburg 2009, pp. 121-133. Secondo Metz dall’insegnamento sulla felicità si lascia ben dedurre il concetto di amicizia, tanto che essa rappresenta il cammino verso la felicità che la maggioranza degli uomini intraprende, nonostante i filosofi scelgano il cammino della solitudine o dell’isolamento, poiché questo promette la più alta beatitudine.

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specie è peculiare di tutti gli esseri viventi e, poiché questo amore è così naturale, non deve solo essere buono, ma anche necessario. Ma come nasce l’amicizia? Essa nasce scoprendo nell’altro la parte amabile, che consiste di quanto in lui c’è di buono, utile o piacevole; cioè, il primo passo richiede un atto cognitivo, seguito da un atteggiamento o un’azione interiore, cercando e desiderando il bene dell’altro. Ma qui non si tratta di amicizia, poiché la ricerca e la volontà di bene per l’altro sono semplice benevolenza. Solo quando questa benevolenza diventa reciproca, cioè dopo una comunicazione concreta di stima e affetto reciproci, nasce la vera amicizia. Quindi non è sufficiente desiderare il bene dell’altro, perché ciò può valere per tutti: l’altra persona deve esserne cosciente e rispondere allo stesso modo. Nel linguaggio di Hildebrand parleremo di amore dichiarato: solo un amore che viene dichiarato, ovvero reso noto all’altro, può diventare reciproco. In questo senso, l’amore è inteso come un “essere orientato” verso qualcosa di amabile, vale a dire di buono/utile/piacevole, che risponde con un atteggiamento di reciprocità. A seconda del valore dell’amore che viene perseguito, si sviluppano tre diverse forme di amore amicale. Se l’amicizia è caratterizzata dal fatto che si persegue solo l’utile e il dilettevole e non si ama la persona piacevole o utile per se stessa, l’altra persona non è riconosciuta e amata come tale. Ne consegue che tali amicizie sono in balia del caso e possono dileguarsi in qualsia­si momento. Il caso è diverso per le “persone buone” – chiamate da Aristotele virtuose – perché «l’amicizia dei buoni, vale a dire di coloro che sono simili in virtù, è perfetta. Questi infatti, in quanto buoni, vogliono in egual modo l’uno ciò che è bene dell’altro, e buoni essi sono di per se stessi. Ma coloro che vogliono ciò che è bene per gli amici per loro stessi, sono massimamente amici, giacché ciascuno lo è dell’altro per l’altro stesso e non per

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accidente»14. Come sottolinea lo stesso Aristotele, un simile atteggiamento è raro tra gli uomini e, quindi, non sorprende che egli assegni all’amicizia una sorta di singolarità. Questa amicizia richiede che ognuno scopra nell’altro l’aspetto amabile, che si trascorra del tempo insieme, così da conoscersi bene in modo che germogli e cresca la reciproca fiducia. Ad essa si affiancano la fedeltà, l’essere l’uno per l’altro15 e molte altre componenti. Tipica di questa amicizia è anche una certa intimità che unisce i due partner; nasce da una vita comune, perché la distanza può essere una minaccia significativa per l’amicizia. La vita volutamente scelta in stretta convivenza è una delle caratteristiche più importanti dell’amicizia; senza di essa si può parlare di persone benevole, ma non di amici. L’amore per il bene è, per così dire, un’eccedenza di energia ed è per questo che può applicarsi solo a una o poche persone nella stessa misura, cioè questo tipo di amicizia richiede una certa esclusività. Le amicizie che nascono, invece, dal piacevole o dall’utile, si applicano a molti, perché si incontrano sempre nuove persone che hanno qualcosa di utile o piacevole per noi. In Hildebrand non troviamo alcuna comprensione per un’amicizia orientata all’utile o al piacevole, perché l’amore amicale, come ogni forma di amore, vuole il bene degli altri, non il proprio. Aristotele comprende anche altre forme di amore sotto la categoria dell’amicizia, come ad esempio l’amicizia tra “non uguali”, dove esiste ad esempio una differenza tra i due amanti. Ciò vale anche per l’amore paterno e materno, per l’amore fraterno tra i bambini o per l’amore tra anziani e giovani. Tutte queste 14. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., vol. II, 1156b 6, pp. 714-715. 15.  Su questo punto si può individuare una convergenza tra Aristotele e Plutarco, perché anch’egli concorda sul fatto che il vero amico che ama desidera aiutare l’altro, nel caso in cui ne veda la necessità, e non ha bisogno quindi di nascondere gli errori o di tacerli. Cfr. Plutarco, Sull’amore, cit., 751f-752b, pp. 50-51.

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altre forme di amicizia sono pur diverse l’una dall’altra, perché il modo con cui un/a bambino/a ama la mamma, come ama il padre o come i genitori amano i loro figli, hanno forme diverse. Qui Aristotele formula una specie di ordo amoris, postulando che il meglio o il più utile deve essere amato di più che gli altri, quindi su un livello più elevato. Oltre a questo aspetto, Aristotele continua a dare spazio a domande etiche16 riguardanti l’amicizia, come ad esempio come comportarsi con gli amici: a questo proposito egli è dell’avviso che si dovrebbero evitare certe amicizie, cosa che troviamo anche in Hildebrand17. In sostanza, Aristotele crede che l’amicizia, una vera amicizia, sia unita a responsabilità e fedeltà, altrimenti essa tende in una direzione diversa, allo stesso modo delle altre forme inferiori di amicizia. Sorprendentemente, il focus dell’amicizia verte più sull’amare che sull’essere amato; in sostanza i virtuosi sono in realtà quelli che amano. Ci si può domandare, da cosa dipenda il fatto che si ami qualcuno in tal modo. La risposta di Aristotele fornisce spunti per un nuovo argomento nel campo dell’indagine, che si rivela essenziale, cioè l’amore per se stessi. Poiché ci si ama, si amano o possono amare i propri amici, cioè c’è una relazione fonda-

16.  Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., vol. II, libri VIII e IX, in part. IX, 2-4, pp. 773-787. 17.  Ad esempio, le persone cattive sarebbero da evitare e non si dovrebbe stringere con loro amicizia. Tuttavia, se un amico non fosse più buono o si comportasse male, non lo si dovrebbe semplicemente abbandonare interrompendo l’amicizia; ci si dovrebbe, invece, occupare di questo amico e fare di tutto perché possa migliorarsi e rinforzare il proprio carattere. Se, poi, la situazione non dovesse cambiare, dopo che si è provato di tutto, allora ci si può e anche deve allontanare da un tale amico.

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mentale tra l’amore di sé e l’amore per gli amici. Si desidera il bene e il meglio per se stessi, proprio come si fa per gli amici; si desidera trovare il proprio io, allora lo si augura anche all’amico/a; così come ci si può augurare di vivere e di vivere bene: tutti questi sentimenti caratterizzano sia l’amore di sé che l’amore per l’amico/a18. Tuttavia, nella questione dell’ordo amoris l’amore per se stessi viene prima dell’amore amicale, perché non c’è amico più vicino a noi del nostro io: infatti si dice che bisogna amare soprattutto chi soprattutto è amico, ed è soprattutto amico colui che, volendo bene a qualcuno, gliene vuole per lui stesso, anche se nessuno lo verrà a sapere. Ora, queste prerogative nell’individuo sussistono soprattutto verso sé medesimo, come anche tutte le altre con le quali si definisce l’amico.19

Questo argomento dell’amore di sé diventerà in seguito un argomento molto dibattuto nel contesto delle riflessioni e visioni dell’amore, in particolare nella discussione sulla comprensione cristiana dell’amore e della categoria della carità, spesso vista in opposizione all’amore di sé. Attraverso la sua chiara e accurata analisi dell’amore Aristotele ci apre, dunque, una nuova finestra su un altro aspetto di questo fenomeno, che a sua volta si esplica in ulteriori aspetti della nostra vita. Nella filosofia dell’amore di D. von Hildebrand 18.  Al riguardo, cfr. N. von Siemens, Aristoteles über Freundschaft. Untersuchungen zur Nikomachischen Ethik VIII und IX, Alber, Freiburg i.Br.-München 2007, p. 105: «L’amor proprio può servire a chiarire i segni distintivi dell’amicizia perfetta, poiché la relazione tra colui che è virtuoso e l’amico non si distingue dal rapporto con se stessi. L’amor proprio viene inteso come ratio cognoscendi e come tale è visto in rapporto all’amicizia come qualcosa che viene prima, pur senza condannarlo come egoistico». Bisogna dire, però, che i pareri al riguardo sono abbastanza contrastanti e la stessa von Siemens cerca di affrontare il tema da più punti di vista. Per un approfondimento cfr. anche P. Schulz, Freundschaft und Selbstliebe bei Platon und Aristoteles, cit. 19. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., vol. II, 1168, p. 799.

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– come già indicato in precedenza – molti motivi aristotelici trovano una ricca eco; egli li allinea alle idee platoniche rispetto alla visione cristiana, almeno si cimenta nel tentativo. In un modo specifico si trova in lui il motivo etico delle relazioni d’amore, in riguardo alla genesi dell’amore amicale, attraverso il riconoscimento dell’amabile, e ciò si estende fino alla dimensione dell’ordo amoris.

1.3. Plutarco. Un elogio dell’amore coniugale Una voce quasi solitaria nel suo genere è la lode dell’amore coniugale nel dialogo Sull’amore di Plutarco, un confronto dell’amore pederastico con l’amore coniugale – le due forme di amore più socialmente riconosciute al suo tempo – dal quale emergono la bellezza e la genialità della relazione coniugale. Il modo di porre il problema intorno all’amore è per Plutarco20 univoco: bisogna conoscerlo e comprenderlo in modo da sapere cosa è giusto o sbagliato. L’amore è correlato al regno della moralità e con il suo trattatello il filosofo greco mira a un riconoscimento definitivo dell’unica corretta espressione dell’eros, vale a dire l’amore coniugale. Il punto di partenza dell’analisi plutarchiana è la distinzione, ampiamente diffusa nell’antichità, di quattro forme di amore: l’amore generale, quello parentale, l’amore amicale e quello erotico. Quest’ultimo conduce gli amanti a uno stato di delirio, ma in senso positivo, poiché ha la sua origine non nel corpo naturale e sensibile21, ma in Dio. 20.  Plutarco si dedica, nel dialogo Sull’amore, cit., anche a diverse altre forme di amore, come l’amicizia e l’amore fraterno, che lasciamo volutamente fuori della presente riflessione poiché, a nostro parere, non offrono alcun apporto specifico. 21.  Per Plutarco è il sesso, e non l’amore, responsabile di ciò. Con forza egli distingue le relazioni sessuali, che abbassano gli esseri umani al livello degli

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Gli uomini catturati nel delirio erotico, comunemente definiti innamorati, sono portati a cercare la presenza dell’amato/a e vogliono solo restare con lui/lei. Vivendo in questo modo, raggiungono la virtù, poiché «l’anima viaggia rapidissima in direzione della virtù dell’amicizia, trasportata dalla passione come da una corrente, in compagnia del Dio»22. Ma eros porta con sé effetti ancora più profondi, perché quanti ne sono coinvolti sperimentano un cambiamento significativo interiore; coloro che sono normalmente codardi diventano coraggiosi, quelli che sono superficiali diventano assennati; attraverso l’amore si diventa generosi, comunicativi, sensibili e comunque più aperti; questo fatto, a sua volta, ha anche effetti sulla persona amata, che non rimane impassibile. La forza dell’amore conduce gli amanti alla castità, al pudore, alla fedeltà, in modo da non essere attratti allo stesso modo da altri. Pur non esprimendolo direttamente, si potrebbe leggere tra le righe del dialogo una certa esclusività dell’amore, descritta già da Aristotele e trattata in modo sistematico da Hildebrand. Bellezza e grandezza dell’amore coniugale comportano il dis­ tacco dalla pura sensualità; questo è un tratto essenziale dell’amore coniugale, per giungere a un affetto più profondo e interiore, a una partecipazione condivisa ai valori più elevati e santi; a ciò si aggiungono il rispetto reciproco, la disponibilità e la crescente confidenza. L’atteggiamento dell’amare, e non l’aspettativa di essere amati, si erge a garante della perpetuazione dell’amore coniugale. Da questo punto di vista, Plutarco si avvicina abbastanza a Hildebrand, anche se quest’ultimo non condivide le idee negative animali, e le relazioni d’amore, che, invece, portano l’essere umano a un più alto livello di sviluppo. 22. Plutarco, Sull’amore, cit., 759d, p. 73.

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sull’amor di sé considerando, infatti, come Aristotele, che l’amore per se stessi è molto prezioso, specialmente in relazione all’amore al prossimo e come misura di esso. Il potere dell’amore non prevale sulla ragione come l’eros platonico; non acceca, come pensano Platone e Plutarco, ma vede; acuisce la vista sull’altro, per scoprirne e percepirne la bellezza23.

2. Il pensiero cristiano del Medioevo e la tematizzazione dell’agape 2.1. Agostino: la molteplicità dell’amore L’incontro della cultura greco-latina con il cristianesimo trova, nella vita e nel pensiero di Agostino, un’espressione interessante e sviluppata fino ad oggi in modo diversificato, pur se controverso. Profondamente influenzato dalla sua educazione classica, Agostino trova nel cristianesimo il senso della vita e affronta una sfida difficile, ma emozionante, nel tentativo di unire le due culture. Purtroppo, proprio riguardo alla tematica dell’amore i risultati non sono sempre stati unitari24. Nono-

23.  Questa capacità dell’amore offre, secondo Hildebrand, proprio quella possibilità di riconoscere gli errori dell’altro e biasimarli in quanto tali. Cfr. infra, cap. IV, §1: Il “dono” dell’amore o del contributo attivo dell’amante nella relazione d’amore. 24.  Al riguardo esistono molti contributi che, partendo da differenti prospettive, hanno cercato di portare chiarezza in questo aspetto della filosofia agostiniana, pervenendo anche a differenti risultati. Qui solo alcuni esempi: H. Arendt, Il concetto d’amore in Agostino. Saggio di interpretazione filosofica, tr. it. di L. Boella, SE, Milano 2004; A. Nygren, Eros e agape, cit.; M. Scheler, Ordo amoris. Saggio introduttivo e ricerca sulla fonte agostiniana, testo tedesco a fronte, a cura di L. Iannascoli, Aracne, Roma 2009; R. Bodei, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, il Mulino, Bologna 1991.

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stante l’Ipponate usi liberamente e ampiamente tutti i termini a suo tempo conosciuti sul tema – amor come pure dilectio, amicitia, caritas, oppure cupiditas, desiderium e libido –, nei suoi testi le differenze e gli accenti alla fin fine si dissolvono, fino a significare la stessa cosa. La sua comprensione etica si basa su un’etica dell’appetitus, che, pur non essendo amore in senso vero e proprio, ricorda l’amore e, infatti, è proprio l’appetitus che mette in moto l’amore: amor cerca sempre un bene, sia che esso appartenga all’ordine terrestre che a quello celeste, un bonum che dia gioia al possederlo: «Il mio peso è il mio amore, esso mi porta dovunque mi porto»25, così leggiamo nelle Confessioni. L’amore umano incontra, però, i limiti dell’umanità e la situazione metafisica dell’essere umano nel mondo: voler amare ed essere amati, ma i rapporti che ne emergono non sono eterni e il desiderio che l’altro/a sopravviva alla morte rimane insoddisfatto. Tale amore è tutto proiettato a ché l’altro/a possa essere e fa tutto il possibile per sostenerlo/a in ogni modo, unicamente per il suo bene. Nell’amore si riconosce il bene dell’altro/a e si desidera il suo Essere. Tuttavia l’esistenza terrena non può esaudire pienamente questo desiderio e, alla fine, esso viene deluso. Per questo sono felici e in stato di perfezione solo coloro che si rivolgono a Dio e Lo amano. Agostino non intende comunque con ciò denigrare, svalutare o addirittura rifiutare la dimensione umana dell’amore. È pur vero, però, che «ciascuno è tale quale l’amore che ha»26 e, se segue solo i beni terreni e li desidera, segue nella sua vita la cupiditas, perciò la paura

25. Agostino, Le confessioni, in Opere di Sant’Agostino, vol. I, testo latino a fronte, tr. it. di C. Carena, Città Nuova, Roma 1965, XIII, 9.10, p. 459. 26. Agostino, Commento al Vangelo e alla prima epistola di San Giovanni, in Opere di Sant’Agostino, vol. XXIV/2, testo latino a fronte, tr. it. di E. Gandolfo, a cura di A. Vita, Città Nuova, Roma 1968, p. 1687.

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di perdere il bene acquisito lo accompagnerà sempre; invece l’essere umano che tende all’eternità è guidato dalla caritas. La differenza tra questi due tipi di amore consiste esclusivamente nell’oggetto cercato e non nel “come” della ricerca. Entrambe queste forme possono essere presenti nell’essere umano allo stesso tempo, ma solo la caritas è la via giusta, perché è diretta alla vita beata, cioè a un bene che è al di fuori dello sforzo stesso, e va ben oltre esso27. La vita beata consiste appunto nell’appropriarsi di questo bonum, nella certezza che non lo si perderà più: vita che non si può più perdere. Tendendo ai beni terreni ci rendiamo schiavi, perché non potremo mai veramente e definitivamente raggiungerli, eppure li cerchiamo di continuo; la conseguenza di ciò è una dipendenza da tali beni e la risultante mancanza di libertà. Pertanto, la cupiditas è cattiva in sé e può essere liberata solo dalla caritas. In altre parole, ci si deve staccare dal mondo, in modo da non dover cercare costantemente nuovi beni, che non possono veramente soddisfare il nostro essere; sarebbero i beni che, come dice Hannah Arendt, si dimostrano come un falso amatum28. L’eternità è l’unico bonum che ci manca e che solo può strap-

27.  Non è difficile riconoscere in tali pensieri di Agostino ombre della comprensione platonica dell’eros e dell’immagine del carro alato. L’eterno dilemma dell’essere umano nella sua doppiezza metafisica, tra bene e male, carnale e spirituale, trova nella riflessione agostiniana una ancora più drammatica risoluzione nella decisione definitiva e lineare per l’unico bene, ovvero Dio, e in Lui per la dimensione spirituale a scapito di quella carnale. Remo Bodei sottolinea questo aspetto in maniera molto espressiva: «smodato appetitus abendi, la cupiditas è desiderio di possesso che deriva da una insicurezza a sua volta dipendente dal metus ammittendi, dalla paura di perdere quanto si era faticosamente ricevuto e accumulato» (R. Bodei, Ordo amoris, cit., p. 142). 28. «L’amor possiede un falso amatum, un oggetto d’amore che deluce costantemente il suo anelito» (H. Arendt, Il concetto d’amore in Agostino, cit., p. 30).

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parci da questo circolo vizioso. E poiché l’essere umano è l’immagine di Dio, solo l’amore per Lui può essere quello vero. Così, anche l’amore genuino per sé è in definitiva amore per sé come il bonum, non il transitorio che viene trasposto nel tempo e nello spazio, ma quello che è eterno in Dio, o voluto in Dio. Se la caritas si qualifica come bene, lo sono anche tutti i suoi effetti: il desiderio del bene e la gioia di possederlo, ma anche la paura di perderlo o la tristezza per tale perdita; pur non essendo chiaro come la tristezza della perdita o il timore di essa possano persistere nell’eternità, caratterizzando essi una dimensione terrena. Comunque, il loro positivo cambiamento consiste nel tentativo di uscire dal circolo vizioso: se l’essere umano, infatti, anche nell’amore di Dio non è libero dalla paura e dall’insicurezza, ciò non risulterà convincente o per lo meno saranno necessari ulteriori chiarimenti. Tuttavia, questo amore presuppone una condizione: esige la perdita e la negazione di sé29, non in senso assoluto, ma come orientamento all’eternità. Il mondo, e quindi tutti i beni terreni, sono intesi innanzitutto come mezzo per raggiungere il fine dell’eternità: sono buoni in quanto utili a raggiungere il bonum, che è Dio.

29.  Qui si tratta di un importante ed essenziale aspetto della filosofia di Agostino, come Hannah Arendt ben sottolinea: «Solo la caritas può compiere la negazione di sé, poiché solo l’amore ha la possibilità di rinunciare alla propria voluntas, rinuncia che scaturisce dall’amore ed è la condizione dell’accoglimento della gratia […]. Nella negazione di sé la creatura si rapporta a se stessa sicut Deus, ama se stessa come Dio la ama, ossia odia in sé ciò che essa stessa ha fatto e si ama solo in quanto è a Deo creata»; e ancora: «La negazione di sé si esprime nell’atteggiamento verso il mondo. Il mondo viene amato in quanto creatum, la creatura ama nel mondo il mondo sicut Deus. Così si realizza la piena negazione di sé, che restituisce al tempo stesso, il proprio senso, derivante da Dio» (ivi, risp. pp. 112-113, 114). Nel desiderio di eternità sono dimentico di me stesso e sono totalmente in ciò che desidero e bramo, appunto nella futura eternità.

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Da ciò deriva un certo ordine30 nella visione e comprensione del mondo, come pure nel nostro rapporto con esso: l’amore come dilectio deriva dalla caritas, dalla prospettiva futura della vita eterna. Secondo questo ordine, anche l’amore deve ordinarsi rispetto ai prossimi in modo tale che nessuno sia amato più o meno di quanto dovrebbe31. Quindi, esiste una relazione personale con Dio, con gli altri esseri umani e con se stessi, che è assolutamente diversa da quella creata da amor qua appetitus. Nell’obiettività dell’ordine, si può amare il prossimo senza dipendere da lui e senza considerarlo come mezzo per raggiungere un fine. Ed è proprio l’amore al prossimo che fa emergere per Agostino un’altra grande domanda, quella se si tratti di un frui o di un uti: godiamo del prossimo o ne abbiamo bisogno? Il sistema frui/ uti per ottenere il bene eterno deve alla fin fine significare che anche il prossimo è necessario. Questo amore, come l’amore di sé, è ordinato all’amore di Dio; ma alla fine, dovremmo fruire del prossimo più che utilizzarlo, cosa possibile solo in Dio. Ora, poiché ciò non è davvero spiegabile al di fuori della teologia di Agostino, si ha l’impressione che la carità sia primariamente e 30.  Remo Bodei sottolinea come, secondo questo ordine, all’essere umano rimanga effettivamente solo la scelta tra un valore maggiore e uno minore, infatti «dato che è pur sempre un appetere, etimologicamente un tendere verso qualcosa, l’oggettività e l’eminenza del bene stabiliscono la gerarchia dell’ordine e dell’amore: all’uomo non resta che la libertà di scegliere valori più elevati o più bassi» (R. Bodei, Ordo amoris, cit., p. 120). Tale modello viene poi ripreso sia da Max Scheler che da Dietrich von Hildebrand nelle loro analisi sull’ordo amoris, anche se quest’ultimo ha offerto una descrizione dettagliata dell’ordine secondo le diverse relazioni umane (cfr. M. Scheler, Ordo amoris, cit.; D. von Hildebrand, Ordo amoris, in EA, pp. 921-977). 31.  Nelle sue riflessioni in Essenza dell’amore, Hildebrand aveva certamente davanti Agostino; tuttavia, egli affronta il discorso dell’ordine degli amori facendone una vera e propria casistica di situazioni da vivere nel modo giusto. In tal senso si avvicina molto di più ad Aristotele e alle sue distinzioni tra buone e cattive amicizie, giuste e sbagliate relazioni verso l’altro.

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solamente radicata nella fede cristiana e così praticabile solo in circostanze molto specifiche. Il pensiero di Hildebrand va nella stessa direzione: nella distinzione di due forme di amore al prossimo, egli riconosce solo nella forma della carità cristiana quella autentica, perché radicata in Dio32, nella caritas. Nel suo capolavoro teologico De Trinitate Agostino aggiunge come terzo elemento la conoscenza, come pure una connessione più forte tra l’amore per Dio e l’amore per il prossimo. In chiaro accordo con Platone, spiega che si ama solo ciò che si conosce, i beni33, le persone e persino Dio: da ciò si dovrebbe concludere che non si può amare Dio se non lo si è conosciuto, cosa che ci condurrebbe inevitabilmente in un vicolo cieco, vale a dire nell’impossibilità di amare Dio; ma per la fede è già possibile amarlo – spiega Agostino – e nel suo amore sono inclusi tutti i tipi di amore, cioè se si ama il prossimo, si ama anche Dio. Poiché Dio è amore, nell’amore al/la fratello/sorella amiamo Dio o amiamo fratelli e sorelle da Dio: «amando secondo l’amore il fratello, lo amiamo secondo Dio»34, ecco la conclusione cui si perviene con l’Ipponate. Sulla base della sua esperienza religiosa, Agostino si avventura in un ulteriore passo, riconoscendo un accento trinitario

32.  Cfr. infra, cap. IV, § 5: L’ordo amoris. 33.  Qui è evidente una svolta nel pensiero di Agostino in relazione a Platone, poiché questo bene che si desidera è Dio e nello specifico, non più il dio aristotelico o l’idea platonica, bensì una persona, o meglio tre persone. Si pone, allora, la domanda – come proposto anche da Irvin Singer – su come si possa desiderare Dio in quanto persona, cioè allo stesso modo in cui si desidera un bene qualunque. Come può essere Dio, il Dio cristiano, via per la felicità umana? (Cfr. I. Singer, The Nature of Love, 3 voll., The University of Chicago Press, Chicago-London 1984-1987, vol. I). 34. Agostino, De Trinitate, in Opere di Sant’Agostino, vol. IV, testo latino a fronte, tr. it. di G. Beschin, Città Nuova, Roma 1987, VIII, 8.12, p. 355.

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nell’amo­re umano: l’amante35 ama qualcuno attraverso l’amore, perciò sono tre elementi nell’amore, così come nella Trinità divina: l’amante, l’amato/a e l’amore stesso. Così l’amore diventa unione di due in una sola anima e ciò non solo nell’amore di Dio, ma anche nell’amore umano. Se ora si volesse distinguere tra le diverse forme di amore, bisognerebbe definire l’amore di Dio come l’amore principale, il primo amore; a seguire, l’amore di sé, che è incluso nel primo, anzi è il rovescio dell’amore di Dio, allorquando provenga dall’amore ordinato; infatti, possono esistere due forme di amore per sé: uno è il vero amor di sé, ordinato, e l’altro è il falso e disordinato amor proprio. Questo contrasto, che viene sviluppato negli opposti caritas/cupiditas, è da Agostino sempre nuovamente ripreso. Ci domandiamo: che cosa significano per Agostino caritas e cupiditas? Si tratta di un’assoluta opposizione, tanto da escludersi a vicenda e non poter sussistere contemporaneamente; le opere dell’una annullano le opere dell’altra e viceversa. Sono assolutamente escludenti, poiché cupiditas è diretta solo ai beni temporali e caritas all’eterno bonum. In tale sistema, le due rappresentano, perciò, un amore buono e uno cattivo. Detto questo, restano alcune domande senza risposta, questioni che Hildebrand affronta indirettamente nel suo lavoro, senza offrire necessariamente soddisfacenti sviluppi. È, davvero, solo Dio l’amore per eccellenza? E il mondo solo un mezzo utile in vista di Dio, come lo comprende la teologia di Agostino? Dov’è 35.  Seppure il termine designi consuetamente l’uomo o la donna amati all’interno di una relazione d’amore tra i sessi, spesso in relazioni che si intrecciano al di fuori dei legami socialmente riconosciuti, lo utilizzeremo in tutto il testo per designare “colui o colei che ama”, nel senso della persona che svolge un ruolo attivo nella relazione d’amore – qualsiasi sia la tipologia di relazione, dunque anche nel contesto hildebrandiano delle differenti categorie d’amore parleremo di amante e amato/a.

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allora l’amore di Dio per il mondo se – pur essendo immagine di Dio – esso non è amabile in sé e per sé? Il sistema etico di Agostino sembra contenere una serie di contraddizioni e, allo stesso tempo, stabilisce un nesso con lo stato metafisico dell’essere umano, che tuttavia non verrà ulteriormente elaborato. Infatti, che ci sia un amore buono e uno cattivo, che si debba scegliere tra l’uno e l’altro, che ci sia un modo in cui ciò accade, tutto ciò esprime un’etica; ma la questione della beatitudine e il vedere tutto come originato da Dio – cosa che scaturisce da una visione trinitaria – rimandano a questioni metafisiche ed estendono il tema dell’amore, senza tuttavia trovare ulteriore spazio di sviluppo. Nonostante tali ambiguità e la dicotomia dell’amore tra il mondo e Dio, la comprensione di Agostino sul tema dell’amore rimane fra le più convincenti, anche perché l’Ipponate ha cercato di gettare un ponte tra l’antichità e il cristianesimo e di trovare una risposta filosofica.

2.2. Tommaso d’Aquino: dell’amore e dell’odio La posizione dell’Aquinate sorge da un’altra prospettiva, che classifica il tema dell’amore nella categoria degli affetti e lo ordina nella relativa teoria. Come per Agostino, anche per lui la categoria della volontà entra in gioco come un attributo tipico dell’amore. L’amore che può essere attribuito a Dio e all’uomo è un atto di volontà che non implica passione. L’amore è causato dal piacere36 e conduce di conseguenza alla brama, perché l’amore è unione, alla quale tendono coloro che

36.  Nello studio di Elsbeth Michel troviamo un’approfondita analisi del tema delle passiones/affectiones, e proprio la relazione d’amore come amor dimostra il suo carattere graduale: l’amore ha una precedenza rispetto alle altre forme di passioni, tale per cui queste non sarebbero possibili senza di esso.

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si amano. Questa unione dell’amante con l’amato/a può essere reale o esterna, quando i due sono insieme; ma può anche essere emotiva o interiore, se si partecipa dell’altro/a interiormente e lo/a desidera. La prima unione provoca l’amore causalmente. Esso spinge (gli amanti) alla brama e alla ricerca della presenza dell’amato come appartenente a lui. La seconda unione causa amore in modo essenziale; poiché l’amore stesso è questa unione o legame.37

Per spiegarlo più precisamente, Tommaso d’Aquino elabora ulteriormente la sua analisi sull’amore, esaminandone la natura, le cause e gli effetti. Prima di tutto, bisogna riconoscere che l’amore appartiene alla facoltà appetitiva38, poiché il suo oggetto è il bene, proprio come nella capacità di tendere a qualcosa; a seconda dell’obiettivo che l’amore cerca, si possono distinguere diversi movimenti verso il bene, che sono l’amore stesso39. Nella ricerca naturale esiste una certa corrispondenCiò, secondo la Michel, viene sottolineato da Tommaso con diverse espressioni: radix omnium passionum, principium, causa, finis, respecto boni, incipit motus in amore (cfr. E. Michel, Nullus potest amare aliquid incognitum. Ein Beitrag zur Frage des Intellektualismus bei Thomas von Aquin, Universitätsverlag, Freiburg-Schweiz 1979, p. 63). 37.  «Primam ergo unionem amor facit effective: quia movet ad desiderandum et quaerendum praesentiam amati, quasi sibi convenientis ed at se pertinentis. Secundam autem unionem facit formaliter: quia ipse amor est talis unio vel nexus» (Tommaso d’Aquino, La somma teologica, vol. IX, Le passioni (I-II, qq. 22-48), testo latino a fronte, tr. e commento a cura dei Domenicani italiani, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984, q. 28 a. 1, p. 101). 38.  Tommaso distingue il processo conoscitivo dalla dinamica del desiderare, riconoscendo nel primo un’adeguazione all’oggetto da conoscere e nella seconda una tendenza. Nel desiderare si attua un uscire-fuori-di-sé della persona verso l’oggetto amato. 39.  Jan A. Aersten osserva come l’amore in quanto amor sperimenti con Tommaso una ben più ampia significazione in senso ontologico, perché ogni essente ha una relazione verso il proprio bene, così che bene, essente e amore

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za tra la persona amata e l’oggetto desiderato/amato; se però la corrispondenza tra i due avviene in modo sensitivo, allora tale amore è chiamato amore “sensitivo” o “razionale”. Il fatto che l’amore attraverso il desiderato causi un cambiamento nel desiderante, cioè la soddisfazione dell’altro, induce a chiamare l’amore passione e a definirla come un movimento40. All’interno della discussione sui nomi41 dell’amore, san Tommaso distingue quattro termini42: amore, affetto, amor cortese e amicizia. Tra essi l’amore è il più generale, perché: «infatti

convergono e l’amore non rimane limitato al livello umano: cfr. J.A. Aersten, «Eros» und «Agape». Dionysius Areopagita und Thomas von Aquin über die Doppelgestalt der Liebe, in E. Düsing - H.-D. Klein (a cura di), Geist, Eros und Agape. Untersuchungen zu Liebesdarstellungen in Philosophie, Religion und Kunst, Königshausen & Neumann, Würzburg 2009, pp. 191-203. Cfr. anche A. Ilien, Wesen und Funktion der Liebe im Denken des Thomas von Aquin, Herder, Freiburg i.Br.-Basel-Wien 1975. 40.  Per tale aspetto cfr. A. Brungs, Metaphysik der Sinnlichkeit. Das System der Passiones Animae bei Thomas von Aquin, Hallescher Verlag, Halle 2002, p. 136. 41.  Tommaso non si interessa del tema “amore” soltanto nella Summa theo­­logiae, ma anche in un commento al De divinis nominibus di Dionigi l’Areo­pagita (cfr. Tommaso d’Aquino, In librum beati Dionysii De divinis nominibus expositio, a cura di C. Pera, Marietti, Torino-­Roma 1950). Questi distingue quattro forme di amore: «il più basso ama il più elevato per via del bene e del bello; voltandosi indietro verso di lui, colui che è dello stesso grado ama il medesimo mediante comunione, il più elevato ama il più basso con premura e ciascuno ama se stesso in modo conservativo» (Pseudo-­ Dionysius Areopagita, De divinis nominibus, in Corpus Dionysiacum, a cura di B.R. Suchla, vol. I, de Gruyter, Berlin-New York 1990, IV.10, p. 155). Con queste forme Tommaso non è completamente d’accordo; infatti, dalla sua prospettiva di aristotelico, bisogna inserire la philía – l’amicizia – che Dionigi non nomina minimamente. In tale considerazione Tommaso è affiancato da Plutarco che già in precedenza assume la suddivisione delle quattro forme di amore, distinguendo un amore di amicizia da uno erotico. 42.  Per un approfondimento del tema linguistico cfr. E. Michel, Nullus potest amare aliquid incognitum, cit., pp. 94 ss.

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ogni dilezione o carità è amore, ma non viceversa»43. L’affetto nasce dalla volontà e conduce a una determinata scelta, quindi è più un atto razionale che amore vero e proprio; l’amor cortese mira alla stima dell’oggetto amato. L’amore comporta due tipi di movimento44: da un lato verso il bene voluto per se stessi o per l’altro/a, e dall’altro verso il motivo per cui si desidera il bene. In questo senso il nostro desiderio si indirizza verso qualcosa per noi, ma amiamo qualcuno amichevolmente quando desideriamo qualcosa per lui/lei. Se l’amore è causato dal bene – e il bene è per natura la cosa più appropriata all’essere umano – si deve, tuttavia, presupporre una certa conoscenza di sé per raggiungere l’amore; infatti, solo se il bene viene colto, ci si mette in moto verso di esso. Dunque, la conoscenza costituisce, accanto al bene, una causalità dell’amore. Come ha già chiarito Agostino e in linea con il suo pensiero, Tommaso spiega ulteriormente che non sono gli opposti ad attrarre, ma le somiglianze45, come ad esempio accade per gli amici. 43.  «Omnis enim dilectio vel caritas est amor, sed non e converso» (Tommaso d’Aquino, La somma teologica, cit., q. 26 a. 3, p. 83). 44.  Questo sviluppo dell’amore si dispiega a partire dalla comprensione agostiniana e offre una svolta inattesa verso Aristotele, come Josef Brechtken dimostra, con la seguente domanda: se l’amore sia un uti o un frui, ovvero quale relazione sia veramente possibile tra amor concupiscentiae e amor amicitiae. Particolarmente critico sembra essere anche il significato di amicizia in relazione all’amore per il prossimo e cioè come forma-base della prima. Cfr. J. Brechtken, Die “Freundschaftsliebe” bei Thomas von Aquin, in Id., Augustinus Doctor Caritatis. Sein Liebesbegriff im Widerspruch von Eigennutz und selbstloser Güte im Rahmen der antiken GlückseligkeitsEthik, Hain, Meisenheim a.G. 1975, pp. 158-165. 45.  Il concetto di similitudo come causa dell’amore trova la sua motivazione nell’insegnamento tomistico secondo il quale l’amore per il prossimo e l’amore di sé stiano sullo stesso livello. L’insegnamento dell’amore di sé ha in Tommaso un posto talmente importante e chiaro da non poterlo in alcun modo contestare o spiegare altrimenti (cfr. A. Ilien, Wesen und Funktion

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Per il desiderio di conoscere l’altro più profondamente e di capirlo e gioire pienamente di lui, ci si addentra nella sua interiorità e ciò caratterizza l’amore di desiderio. Nell’amore di amicizia al contrario si desidera condividere tutti i beni e i mali dell’amico/a e considerarli come propri cosicché si ha l’impressione di esperire nell’amico/a le proprie gioie e i propri malanni. Questo reciproco essere l’uno nell’altro degli amici può essere tuttavia anche compreso nella forma dell’amore reciproco e cioè per il fatto che gli amici si amano reciprocamente e vogliono il bene l’uno dell’altro. Proprio da questo comportamento emerge una sorta di “essere-­ fuori-di-sé” dell’amato/a nei confronti dell’amante: fondamentalmente il desiderio porta a volere l’altro accanto a sé, specialmente nell’amore di desiderio, dove si evidenzia il movimento verso il possesso dell’altro; ma nell’amore amicale, desiderando il bene degli altri, ci si muove fuori di sé verso gli amici. Questo interessante movimento di “fuori di sé” e “in sé” dell’amore trova una forte risonanza in Hildebrand, quantunque estesa alla dimensione cristiana dell’amore per il prossimo. Per Tommaso, il movimento al di fuori di sé, come già per Aristotele, è il genuino movimento dell’amore, quello dell’amicizia, a cui viene dato un valore più elevato dell’amore di desiderio; ma per Hildebrand questo movimento diventa quello dell’amore al prossimo, perché tutte le altre forme di amore (tra cui l’amicizia) sperimentano piuttosto un contro-movimento, quello dell’amante di creare spazio in sé; solo in questo modo è possibile l’unione dei due amanti.

der Liebe, cit., pp. 119-125). Questo stretto legame tra amore al prossimo e amore di sé non viene riconosciuto da Hildebrand, e vedremo in quale problematica e non coerente considerazione rispetto all’Aquinate si vengano a trovare tali forme d’amore.

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Soprattutto in questo movimento o nella comprensione dell’amore come movimento fuori di sé rispetto a quello dell’assorbimento in sé, intravvediamo le basi di una visione ontologica dell’amore; infatti non si tratta più di un amore buono o cattivo o degli aspetti di un amore e del modo migliore per svilupparlo, ma piuttosto di un essenziale esserci dell’essere umano come amante. I due movimenti opposti dell’amore stanno come due contrappunti a rivendicare la questione di una possibile loro riunificazione nell’essere umano, e con ciò la spiegazione di un’essenziale datità di fondo che possa essere in sé unità degli opposti. In questo senso, pur se nell’Aquinate troviamo a malapena degli spunti, la considerazione di entrambe le possibilità apre pur sempre nuovi orizzonti e prospettive possibili, che Hildebrand recepirà a modo suo, rovesciandole.

2.3. Marsilio Ficino: l’erotica di Platone letta in chiave cristiana Nel XV secolo, in un contesto in cui il platonismo un po’ alla volta si era aperto nuove strade per risvegliare l’attenzione di pensatori e poeti, per affermarsi poi come contrappunto alla filosofia forte e a dir poco inviolabile di Aristotele, Marsilio Ficino si assume il compito di tradurre e commentare Platone, con il desiderio di porre il suo pensiero in dialogo con la cultura cristiana e le sue convinzioni fondamentali. Tra le altre cose, si dedica anche al Simposio con un’analisi dettagliata dei singoli discorsi in esso contenuti. Certamente l’interesse principale di Ficino era rendere Platone più conosciuto e accessibile, tuttavia il suo pensiero rimane fortemente influenzato dalla cultura del tempo. Ciò vale in particolare per il discorso sull’amore, del quale la cultura umanistica si occupa ampiamente. Inoltre, non si può ignorare il fattore religioso, poiché Ficino, come già accennato, sviluppa

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una versione cristiana del platonismo46. Perciò, nel suo scritto Sull’amore non c’è soltanto un lavoro di commento47 o una replica del pensiero platonico, ma una rielaborazione personale e un trattamento suo tipico delle novità portate dall’aspetto metafisico dell’amore nella vita, ragion per cui, a nostro avviso, giunge a interessanti risultati. Secondo Michele Schiavone, l’eros nel senso di Ficino corrisponde all’Essere nella sua forma più alta ed è già prezioso in sé, mentre l’eros platonico, a suo avviso, è bisognoso, carente e privo di valore. L’eros di Ficino è assoluto e infinito, mentre quello platonico appare limitato e relativo; per questo Ficino attribuisce all’amore un ruolo metafisico di gran lunga maggiore rispetto a Platone48. L’amore è visto da Ficino come una tensione o un movimento unificante, derivante dal più profondo desiderio di tutte le cose di riunirsi “all’Uno”. In altre parole, l’amore è una caratteristica essenziale dell’essere umano e trova la sua espressione nell’ammirazione della bellezza e nel desiderio di essa, come anche nell’orientamento amorevole verso tutte le creature che portano tracce del divino. Guido Canziani commenta la tal cosa dicendo che non si tratta di rimanere ciò che si è, ma di trasformarsi grazie alla persona amata49.

46.  Cfr. A. Wurm, Platonicus Amor, cit. 47.  Al riguardo cfr. S. Glanzmann, Der einsame Eros. Eine Untersuchung des Symposion-Kommentars “De amore” von Marsilio Ficino, Francke, Tübingen 2006. Qui l’autrice sostiene la tesi secondo la quale Ficino si distingua da Platone già solo per il fatto che insegni contenuti diversi, non riproponendo soltanto le posizioni platoniche. Tale differenziazione non è solo formale, ma anche contenutistica, e porta con sé altri punti di vista rispetto al modello platonico. 48.  Cfr. M. Schiavone, Problemi filosofici in Marsilio Ficino, Marzorati, Milano 1957. 49.  «L’amante vuole diventare altro da ciò che è, in uno straniamento apparente, che è in realtà il principio dell’estremo perfezionamento di sé; la de-

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Partendo da questa comprensione dell’amore come amore per la bellezza50 o per il bello, come ciò che introduce gli esseri umani alla moralità, eros rende agli umani – così il pensiero di Ficino – tante buone azioni. È l’amore, ad esempio, che rende coraggiosi per l’amato/a. L’origine dell’eros si lascia, invece, ricercare nella descrizione del divino: Dio è bello e, mediante l’amore, attira tutte le cose a sé. Perciò, sussiste una relazione circolare tra Dio e il mondo, nel continuo movimento che va da lui al mondo e dal mondo torna a lui. In tale relazione va compreso anche l’amore tra amanti: la bellezza di un corpo accende in noi l’amore, ma non lo riesce a saziare del tutto, perché bramiamo di più, desideriamo «lo splendore51 della maestà superna, refulgente ne’ corpi»52. Questa profonda ragione dell’amore spiega anche ulteriori atteggiamenti degni di nota tra gli amanti, come una certa dose di pudore o rispetto per la persona amata, come pure l’ammirazione e la venerazione per lei, perché si riconosce in lei l’imdizione verso ciò che egli ama è intensa a tal punto da far sì che egli senta di non bastare più a se stesso e desideri di mutare natura nell’unirsi all’amato» (G. Canziani, Le metamorfosi dell’amore. Ficino, Pico e i Furori di Bruno, CUEM, Milano 2001, p. 34). 50.  Il tema platonico della bellezza viene sviluppato da Ficino ancor più approfonditamente che in Platone, come Sabrina Ebbersmeyer argomenta nel suo The Philosopher as a Lover: Renaissance Debats on Platonic Eros, in M. Pickavé - L. Shapiro (a cura di), Emotion and Cognitive Life in Medieval and Early Modern Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2012, pp. 133-155. 51.  Il motivo della visione e quello della luce sono entrambi molto forti e pregnanti nella filosofia di Ficino; essi si legano strettamente al tema dell’amore, poiché proprio dalla conoscenza che consiste nella visione emerge l’amore, e questo è a sua volta molla per il processo conoscitivo, per la stessa conoscenza. Cfr. W. Scheuermann-Peilicke, Licht und Liebe. Lichtmetapher und Metaphysik bei Marsilio Ficino, Olms, Hildesheim-Zürich-New York 2000. 52.  M. Ficino, Sopra lo amore ovvero Convito di Platone, a cura e con uno scritto di G. Rensi, SE, Milano 1998, cap. VI, p. 37.

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magine di Dio53. Tuttavia si sperimenta non solo il desiderio di guardare, ma anche di generare bellezza ed entrambi questi aspetti dell’eros sono in sé buoni e etici. Solo l’eccesso dell’uno o dell’altro non è buono e va evitato. Quando si osserva il rapporto tra amanti risulta immediatamente evidente che esso può essere unilaterale o anche reciproco, ma entrambe le forme sono oscurate da una morte – stando all’interpretazione ficiniana della dottrina di Platone: la morte dell’amante che, dimentico di sé, si perde nell’amato/a dimorando in lui/lei. Amara e quasi senza speranza è la morte per colui/lei il cui amore non è corrisposto, perché allora non vivrà né in sé né nell’altro/a. Invece colui/lei il cui amore è corrisposto, vive completamente e veramente, poiché vive nell’altro/a. A detta della Glanzmann, Ficino parla in toni persino euforici di questa forma di amore, in quanto non solo l’uno vive nell’altro/a e i due amanti entrano in uno scambio dove si donano reciprocamente, ma in ciò guadagnano se stessi: «Perché questo possiede se stesso, ma in quello; quello possiede se stesso, ma in questo. Infatti, amando te che ami me mi ritrovo in te che pensi a me e guadagno me stesso dopo aver rinunciato a me in te che mi ricevi»54. L’amore reciproco porta a far sì che gli amanti si riapproprino di se stessi attraverso gli altri. Allo stesso tempo, viene preservato il carattere platonico dell’amore estatico, poiché l’amante deve uscire da se stesso/a per entrare nell’altro/a; cosa che vie53.  Ciò necessita un passo dell’amante nella visione dell’amato/a. Sybille Glanzmann afferma a proposito: «Solo quando gli riesce di guardare, per così dire, attraverso l’amato, che significa soprattutto: penetrare con lo sguardo la sua bella presenza fisica – guardarlo, cioè, metà tà physiká –, l’amante inizia a vedere in modo giusto» (S. Glanzmann, Der einsame Eros, cit., p. 63). In ciò si attua una vera e propria oggettivizzazione dell’altro, dalla quale si può guardare a lui dalla distanza. 54.  Ivi, p. 69.

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ne diversamente interpretata. Inoltre, c’è il motivo del possesso: nella spoliazione del sé l’uno/a diventa proprietà dell’altro/a, e ciò è dovuto a una somiglianza che unisce amante e amato/a e questa somiglianza è quella che unisce tutte le creature in quanto tali, riflesso della bellezza di Dio55. Dalla conversazione con Diotima deriva l’interpretazione del­l’ambiguità dell’amore come amore celeste e demoniaco. Quest’ultimo caratterizza l’amore umano terrestre, che è orientato verso il naturale e si articola in tre forme: nell’amore contemplativo, attivo e voluttuoso. Davvero tipica dell’uomo è solo la seconda forma, che si erge tra le altre ed è fortemente influenzata dall’attività; ma l’essere umano può anche rivolgersi agli altri due tipi di amore e quindi imporre un determinato corso alla sua vita. Anche qui diventa chiaro che esiste un solo luogo, una patria di appartenenza dell’essere umano e dove questi si trova a casa, cioè il paradiso di Dio. In questo senso, l’amore è inteso come un ritorno a Dio, perché quando amiamo le cose e le persone, in linea di principio amiamo Dio in esse e quindi amiamo tutto in Dio. Canziani formula tale affermazione in modo molto convincente: «L’amato diventa per l’amante il medium verso il divino, verso una dimensione dell’essere che fonda quella in cui l’amante e il suo oggetto entrano in relazione, oltrepassandola»56. Ciò comporta una conseguenza inevitabile – come abbiamo potuto riconoscere anche in Agostino – ovvero un discono55.  Su questo punto la Glanzmann argomenta in maniera differente ed è del parere che le reali intenzioni di Ficino siano fondate più sull’amore proprio che sull’amore. L’amante ama un determinato essere umano perché lo trova bello, che significa che vi si ritrova e riconosce in esso. Questa sarebbe la bellezza che fonda l’amore ed è il motivo per cui l’altro/a viene assimilato nell’amante. L’amore reciproco sarebbe, perciò, una conseguenza necessaria dell’amor proprio (cfr. ivi, p. 64). 56.  G. Canziani, Le metamorfosi dell’amore, cit., p. 35.

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scimento del singolo come tale, cosa che implica che egli non abbia valore in sé con tutte le sue caratteristiche umane, perché viene appunto amato a causa di ciò cui rinvia. Hildebrand, probabilmente a causa del suo punto di vista cristiano, sostiene filosoficamente esattamente il contrario, vale a dire che ognuno ha un valore in sé e che l’amore è una risposta al valore di ogni individuo e non solo un’ombra del divino. Ficino, invece, assegna un compito ontologico all’amore: chi si dona completamente a Dio nell’amore, troverà il proprio vero, autentico essere nella vita dell’altro/a e vivrà in unità con lui/lei. «Così nel tempo presente, ameremo Dio in tutte le cose: acciò che finalmente amiamo tutte le cose in lui57. Imperocché, così vivendo, perverremo a quel grado che noi vedremo Dio e tutte le cose in lui. E ameremo lui in sé e tutte le cose in lui: qualunque nel tempo presente con carità si dà tutto a Dio, finalmente si ricompera in esso»58. L’amore non è solo un affetto, un moto sensibile, ma riteniamo che sia la forma esistenziale dell’essere umano, perché solo attraverso di esso l’essere umano può svilupparsi e realizzarsi pienamente. Sybille Glanzmann nota che l’amore per Ficino, a differenza di Platone, raggiunge il suo obiettivo quando l’amante si è completamente liberato dell’amato/a, in una dialettica di perdita e ritrovamento, che ritorna – benché diversamente – nell’idealismo di Fichte e Schelling. Anche Hildebrand adotta questa dialettica che, influenzando la sua comprensione

57.  Questo agostiniano amare in Deo si ritrova in Scheler, quando egli appunto parla di un amare in Dio pensando all’amore verso Dio, che secondo lui non è un amore per Dio, ma l’amore del mondo nel compimento del suo amore: «La forma suprema dell’amore di Dio è la co-attuazione dell’amore di Dio per il mondo (“amare mundum in deo”) e per se stesso (“amare deum in deo”)» (M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, tr. it. di L. Pusci, intr. di G. Morra, Città Nuova, Roma 1980, p. 246). 58.  M. Ficino, Sopra lo amore, cit., p. 132.

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dell’amo­re, sebbene in un tono relativamente modesto, valorizza la dimensione umana.

3. L’età moderna: l’amore come affetto 3.1. L’Etica di Spinoza e l’amor Dei intellectualis Sotto l’influenza di un approccio assolutamente razionalista, Spinoza si rivolge al campo dell’etica attraverso una dimostrazione matematica. Nel suo lavoro controverso e spesso criticato l’Etica dimostrata con metodo geometrico egli descrive il mondo degli affetti umani, la loro origine e la loro essenza attraverso definizioni e assiomi. Sin dalle prime righe percepiamo i nuovi toni con cui Spinoza spiega l’amore, poiché egli sostiene che l’amore sia un affetto, e lo spiega come la gioia che si istaura da un’idea esterna59. In questo senso si farà di tutto per tenere accanto la persona amata, e si amerà tutto ciò che ci porta gioia o ha una certa somiglianza con qualcosa che causa felicità. Sulla base dello stesso principio si può anche capire che si è felici del benessere dell’essere amato e si è tristi per un suo stato di malessere. Lo stesso accade quando qualcosa piace o infligge dolore a una persona cara: anche questo sarà amato o odiato per lo stesso motivo. Spinoza vede, però, nell’amore ancora qualcosa di più, cioè il compiacimento per qualcuno che ha fatto qualcosa di buono per la persona amata.

59.  Spiegando questa definizione Spinoza scrive che solo ciò può incontrare l’essenza dell’amore e non quello che già molti altri pensatori hanno creduto, ovvero l’idea che l’amore sia la volontà di unirsi all’amato/a. Infatti, questa è una conseguenza dell’amore e non l’amore stesso. Piuttosto si dovrebbe dire che il desiderio dell’amante di unirsi all’amato/a, inteso come desiderio di presenza di quest’ultimo/a, è tipico dell’amore.

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Proprio perché l’amore è gioia e induce il nostro spirito ad esprimersi in gesti, si cercherà ancor di più il positivo in sé e nell’oggetto amato, poiché solo ciò provoca a sua volta gioia. Così si tenderà a trascurare tutto ciò che altrimenti porterebbe tristezza o dolore, con la naturale conseguenza di illudersi a volte nei confronti di sé stessi e del proprio amato, attribuendo a questi un’importanza maggiore di quanto convenga. Contemporaneamente bisogna dire che devozione, apprezzamento e misericordia fanno ovviamente parte dell’amore. Nell’etica di Spinoza evidenziamo un motivo ben noto riguardo all’amore per il proprio simile: «Per il fatto solo che immaginiamo che una certa cosa ha qualcosa di simile a un oggetto che di solito produce nella Mente un affetto di Gioia o di Tristezza, sebbene ciò in cui la cosa è simile a quell’oggetto non sia la causa efficiente di questi affetti, tuttavia la ameremo o la avremo in odio»60. Allo stesso tempo è proprio questa la base per la benevolenza intesa in senso generale, cioè lo sforzo di fare qualcosa di buono per qualcun altro. Orbene, se l’altra persona ha una qualche somiglianza con noi ci sforzeremo e ci adopereremo ancora di più nel desiderio di sentire la risposta del suo amore di ritorno. È interessante quanto afferma Spinoza sull’amore ricambiato, cioè che non si basa sull’attrazione diretta o su una reazione di utilità, perché amiamo anche chi ci ama senza un qualche motivo immediato: «Se uno immagina di essere amato da qualcuno e crede di non avergliene dato alcun motivo, […] lo amerà a sua volta»61. In altre parole, all’amore si risponde con amore, e Spinoza ha ampiamente parlato di questo argomento. L’amore ha un effetto talmente positivo su di noi che può sconfigge-

60.  B. Spinoza, Etica dimostrata con metodo geometrico, a cura di E. Giancotti, Editori Riuniti, Roma 19973, parte III, prop. XVI, p. 184. 61.  Ivi, prop. XLI, pp. 202-203.

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re anche l’odio. Leggiamo, infatti, nella proposizione XLIII: «L’odio è aumentato da reciproco odio, e al contrario può essere annullato dall’Amore» e nella proposizione XLIV si sostiene che: «L’Odio che è vinto interamente dall’Amore, si muta in Amore; e perciò l’amore è maggiore che se non fosse stato preceduto dall’Odio»62. Anche da un punto di vista ateo, la spiegazione di Spinoza sembra non solo convincente, ma anche coerente con il comandamento cristiano della carità. Chiunque inizi ad amare qualcuno che per sua parte sia colmo di odio, sarà colmato della gioia dell’amore, ed è proprio questa gioia nell’amare, insieme al desiderio di superare la tristezza causata dall’odio, a risultare più forte dell’odio stesso e a causare una svolta interiore. Questo è pur sempre il fondamento del comandamento cristiano di amare i nemici e, più in generale, di amare ogni prossimo, cosa che Hildebrand scandaglia profondamente da una prospettiva cristiana. Come contrario di questi effetti positivi dell’amore, Spinoza nota che l’amore come emotività può sperimentare alti e bassi, trasformandosi in avarizia, lussuria carnale, intossicazione, ambizione o passione; ciò perché tutte queste manifestazioni sottendono a un amore intemperante. Nella concezione hildebrandiana, invece, non rientrano affatto nella categoria dell’amore, ma ne rappresentano i pericoli. Tutte queste analisi preparano il terreno per la quinta parte dell’Etica, in cui la dottrina degli affetti conduce fino all’amore di Dio, vale a dire all’amor Dei intellectualis63. Il presup-

62.  Ivi, prop. XLIV, p. 204. 63.  Per una spiegazione del termine in Spinoza, cfr. A. Nuzzo, Spinozas ‘Amor dei intellectualis’ und Hegels methodologische Umdeutung des Liebesbegriffs, in A. Engstler - R. Schnepf (a cura di), Affekte und Ethik. Spinozas Lehre im Kontext, Olms, Hildesheim-Zürich-New York 2002, pp. 246-262.

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posto dell’amore per Dio è la conoscenza64 dei propri affetti: più si conoscono i propri sentimenti ed emozioni, più si ama Dio. «Questo Amore verso Dio deve occupare al massimo la Mente»65, perché questo amore è associato a tutti gli affetti fisici. Dio, al contrario, non può né amare, né odiare nel senso qui compreso: egli non conosce affetti e non è influenzato dalla gioia o dalla tristezza. Di conseguenza, la speranza stessa di essere amati da Dio sarebbe priva di significato, perché ciò significherebbe volere che Dio non sia più Dio. Quindi, l’amore per Dio è amore unilaterale, pur essendo esso il più elevato bene per gli uomini, non influenzabile da nessun male e base della comunione fra essi. La domanda tuttavia rimane: in che modo la nostra anima ama Dio? Qui Spinoza distingue tre tipi di conoscenza e spiega che la terza è una forma di conoscenza sub specie aeternitatis, dal punto di vista dell’eternità, secondo la quale si conosce se stessi e il proprio corpo in qualche modo fin dall’eternità; ecco perché si può conoscere Dio. Da questo tipo di conoscenza dell’anima nasce l’amore spirituale per Dio: riconosciamo Dio come causa di tutto e come essere eterno. Questo è esattamente ciò su cui si basa l’amore spirituale per Dio e, poiché esso proviene dalla terza forma di conoscenza, esso solo ha un carattere eterno tra le forme di amore.

64.  Wolfgang Bartuschat ritiene che bisogna intendere l’amor intellectualis come conseguenza del legame tra amore e ragione, cosa che Spinoza cerca di dimostrare nel corso del suo insegnamento sugli affetti. Cfr. W. Bartuschat, Spinoza über Liebe und Erkenntnis, in G. Boros - H. De Dijn - M. Moors (a cura di), The Concept of Love in 17th and 18th Century Philosophy, Leuven University Press, Leuven 2007, pp. 69-78. Sul tema affetti e ragione, cfr. anche W. Lemmens, Philosophy as medicina mentis? Hume and Spinoza on Emotions and Wisdom, ivi, pp. 181-204. 65.  B. Spinoza, Etica, cit., parte V, prop. XVI, p. 302.

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Questo amore spirituale di Dio fa parte dell’amore eterno di Dio per se stesso, il che sarebbe in contraddizione con l’affermazione precedente che Dio non può né amare, né odiare e che ama gli uomini con lo stesso amore che ha per se stesso. Poiché Dio ama se stesso, ama anche gli uomini e, per questa ragione, l’amore di Dio e l’amore intellettuale della mente verso Dio sono la stessa cosa66. La beatitudo, che secondo la definizione agostiniana è il bene supremo, è l’eterno amore di Dio, sinonimo dell’amore di Dio per gli uomini; più di esso si gode, più si conoscono i propri affetti e si possono meglio pilotare, ottenendo in tal modo di diminuire la sofferenza. Nonostante un approccio differente, anche Spinoza arriva a concludere che l’amore di Dio è il più elevato e che l’essere umano può raggiungere la beatitudo solo attraverso questo amore e, con esso, la gioia eterna. In conclusione, la visione dell’amore spinoziano acquisisce anche un aspetto teleologico e costituisce così un chiaro orientamento. Il motivo agostiniano della conoscenza in relazione all’amore spiega come si possa amare Dio, ma la transizione tra questo amore e la condizione umana con i suoi affetti rimane poco chiara, lasciando aperta la questione di come rendere possibile la comunione tra le persone, se non si può sperimentare la reciprocità nella relazione con Dio. A questo proposito, vedremo come Hildebrand individui nella reciprocità un aspetto importante e un elemento fondamentale delle comunità, a partire da una comprensione dell’amore che presuppone la reciprocità, sia tra le persone che tra esse e Dio.

66.  Cfr. ivi, propp. XXXV e XXXVI, e corollari ss., pp. 312-313.

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3.2. Jean-Jacques Rousseau. L’esperienza dell’amore di sé e per gli altri come processo di sviluppo umano In contrasto con Spinoza incontriamo la filosofia educativa di Jean-Jacques Rousseau, per il quale l’amore non è un tema diretto di ricerca, ma piuttosto un’esperienza personale. In ogni caso esso gioca un ruolo importante all’interno della sua teoria educativa, in cui l’amore è letto in chiave etica. Rousseau considera l’amore come passione e, come tale, è originariamente classificato nella categoria morale del “bene”; le passioni derivano infatti da Dio e quindi non possono essere cattive o inutili. Tuttavia, pur rappresentando qualcosa di naturale, è anche vero che possono essere modificate in vari modi dalle influenze esterne. Quando le passioni non servono alla nostra esistenza e ci portano alla schiavitù, allora esse non provengono dalla natura, poiché tutto ciò che è naturale serve alla nostra libertà e al nostro sviluppo. Fonte e origine di tutte le passioni è l’amor di sé: esso è innato ai fini della nostra sopravvivenza. Per questo è necessario amare se stessi, anzi amarsi più di ogni altra cosa67. Conseguentemente, afferma Rousseau, amiamo ciò che ci è utile o che ci dimostra amore. Quindi, se non si sperimenta l’amore, non si può amare, rimanendo dominati da determinati sentimenti di cui si fa esperienza attraverso gli altri. In questo senso l’amore deve essere compreso come un’esperienza comunitaria che si sviluppa in modo graduale: primariamente si fa esperienza di amore di sé, immediatamente a seguire di amore per l’esterno, per coloro che agiscono per noi e ci sono vicini. Questo amore si sviluppa nel momento in cui si avverte che l’altro/a fa qualcosa per noi di sua libera volontà e non compulsiva67.  Anche Rousseau assume la concezione aristotelica di una priorità dell’amor per sé sulle altre forme d’amore, pur approfondendo questo aspetto sotto il profilo prevalentemente pedagogico e meno sotto quello etico.

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mente o solo per buona volontà. Ciò comporta assumere che l’amore derivi da quel sentimento propriamente umano di indigenza e che non sarebbe necessario amare, se fossimo felici soli con noi stessi. Partendo dalla considerazione dello sviluppo umano, Rousseau conclude che è necessario distinguere tra due forme d’amore: l’amore di sé e l’amor proprio che nel bambino emerge successivamente, quali poli di due forme d’amore, una positiva e una negativa: la prima produce passioni dolci e amabili, la seconda produce passioni di odio e di ira. L’amicizia nasce prima dell’amore sensuale, perché prima nascono i sentimenti verso i propri simili e solo in seguito verso il sesso opposto. Questi sentimenti derivano dall’esperienza della compassione68 e comprensione degli altri: quando una persona ha sofferto e sa mettersi nei panni degli altri per provare il loro dolore, allora quella persona sa amare e in ciò è guidata dalla fantasia ad andare fuori da sé per avvicinarsi all’altro/a. L’amore tra uomo e donna si sviluppa successivamente, attraverso la forza di attrazione dei sessi. Ma anche qui vale il fatto che l’amore si sviluppa attraverso un processo di apprendimento, perché si può amare solo conoscendo e apprezzando qualcosa, quindi sulla base di un amore preesistente. Rousseau non nega il fatto che l’amore renda ciechi, perché esso vede nessi tra le cose che la nostra ragione non percepisce. In tal senso egli contrasta con l’atteggiamento di Agostino e anche con il pensiero di Hildebrand, secondo il quale l’amore fa vedere,

68.  In Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini leggiamo: «Perfino la benevolenza e l’amicizia sono, a guardar bene, i prodotti di una pietà costante, rivolta a un oggetto particolare» (J.-J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini, in Id., Scritti politici, vol. I, a cura di M. Garin, intr. di E. Garin, Laterza, Roma-­ Bari 20094, pp. 117-244: p. 164).

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proprio perché vede ciò che nessun altro vede. Rousseau dunque usa lo stesso motivo, ma in modo contrapposto69. Caratteristica dell’amore è preferire qualcuno e desiderare di essere preferiti: «L’amore deve essere reciproco»70. Per realizzarlo ci si deve rendere amabili, persino più amabili di altri, almeno agli occhi della persona amata. Ciò comporta gelosia e rivalità; per questo l’amore uomo-donna e l’amore di amicizia sono accompagnati da difetti e odio probabilmente fin dalla loro nascita, e molti ne rimangono delusi e insoddisfatti71. Anche qui Rousseau si muove su un livello diverso da quello di Hildebrand, secondo il quale «gli aspetti amabili» non devono essere inventati o sviluppati, bensì sono già fondanti ed esistenti in ciascuno, sebbene in forme diverse. Ecco perché l’amante è colui/lei che scopre l’amore, e lo può fare solo rispetto a una persona. Rousseau dimostra rispetto a Hildebrand una comprensione molto più obiettiva dell’amore, più vicina alle scienze naturali72.

69.  Si può nominare anche Max Scheler e nello specifico il capitolo II su “amore e odio” nella sua fenomenologia dei sentimenti di simpatia (cfr. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., pp. 225-370). 70.  J.-J. Rousseau, Emilio o Dell’educazione, a cura di E. Nardi, Anicia, Roma 2017, p. 299. 71.  Si affaccia qui il pensiero secondo cui l’amore sia messo costantemente in pericolo dagli impulsi sessuali e dalle condizioni sociali, che Rousseau viveva proprio al suo tempo come forti e influenti. Ne conseguono tanti significati duplici nella comprensione rousseauiana dell’amore che ad esempio Irvin Singer prova a esplicare differentemente per dimostrare quanto sia difficile cristallizzare una chiara posizione del filosofo, specialmente con riguardo all’amore tra uomo e donna (cfr. I. Singer, The Nature of Love, cit., vol. II, pp. 303-343). 72.  L’amore tra i sessi, sotto un profilo puramente biologico e conseguenzialmente sociologico, è fortemente influenzato da modelli concorrenziali e dalla formazione identitaria che derivano dalla storia dello sviluppo. L’amore tra i sessi è qualcosa che si basa su una condizione di necessità ed è legato a

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Per quanto riguarda l’amore sessuale, Rousseau lo descrive come vero amore se dà tanto quanto richiede (in questo senso si basa sull’uguaglianza dei soggetti coinvolti), cosa che avviene con maggiore facilità quando si tratta della persona amata. L’amore si lascia illudere perché è accompagnato da una sorta di venerazione, perciò la sua forma più vera è il matrimonio, poiché nessun altro amore tra uomo e donna è così rispettabile come il matrimonio e nessun amore sessuale è duraturo se non in esso. È quanto risulta lampante in Julie ou La Nouvelle Héloïse, dove l’amore appassionato tra la protagonista e Saint-Preux ondeggia sugli alti e bassi della passione: il vecchio tema dell’amore impossibile o proibito si presenta come una questione di moralità e abbandona gli stessi protagonisti al buio dei loro istinti73. Rousseau separa così il fenomeno dell’amore tra sentimenti di anima e sentimenti del corpo, che possono trovare un’unione possibile solo nel matrimonio. L’autore francese ci offre un ritratto realistico dell’esperienza umana dell’amore, che ha il grande pregio di mettere in luce l’altro lato dell’amore, a malapena considerato fino ad allora, e cioè l’«essere amati» come forza propulsiva dell’amore stesso e come necessaria esperienza per poter amare. Questo va di pari passo con il tema dell’apprendimento dell’amore, che in seguito vedrà uno sviluppo nell’ambito della psicologia, come in Erich Fromm. Tuttavia, si individuano velocemente anche i limiti di tale visione sull’amore, perché se esso ha origine solamente quando

potere e durata. Cfr. G. Dux, Geschlecht und Gesellschaft. Warum wir lieben, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1994, parte I, pp. 25-273. 73.  Esempi dalla letteratura mondiale possono essere offerti da Romeo e Giulietta di Shakespeare, come dal mito greco di Ero e Leandro o dal romanzo di Tristano e Isotta.

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se ne fa l’esperienza, sorge la domanda di chi sia il/la primo/a a far sperimentare agli altri l’esperienza dell’amore. Certamente, come già detto più volte, essere amati è un aspetto molto importante e, persino Hildebrand, ammette che senza averne fatto esperienza non è possibile il vero amore. Siamo, però, del parere che, se una teoria dell’amore si basa esclusivamente su questa possibilità, tale visione rimarrà insufficiente e inadeguata, anche perché non corrisponde alla realtà della situazione umana. Si può comunque individuare una domanda ontologica più che pedagogica o etica alla base di queste considerazioni. A questo proposito, Irving Singer scrive che Rousseau in definitiva è incapace di credere nell’amore umano e sviluppa una visione idealistica dell’amore, basata su un’assoluta trasparenza degli innamorati, cosa per lo più impossibile, perché non tiene conto dei limiti e dei bisogni del singolo, tanto che alla fine corre il pericolo di degenerare in tirannia. Il pericolo dell’idealizzazione dell’amore riguarda non solo Rousseau, ma molti pensatori, come abbiamo già notato. Ciò è dovuto alla complessità del fenomeno amore e alla concreta difficoltà di comprenderlo in modo unitario. Lo stesso Hildebrand non è risparmiato da tale pericolo e vedremo come i suoi pensieri puntino in una direzione a tratti idealizzante.

3.3. Pascal e le “ragioni” del cuore Per Blaise Pascal, il tema dell’amore si basa sulla comprensione del cuore e delle sue ragioni, perché l’uomo giunge alla conoscenza non solo con la ragione, ma soprattutto con il cuore74. È il cuore il luogo dell’amore e ciò in tre modi: amore 74.  Circa il significato del termine “cuore” in Pascal, Paola-Ludovika Coriando spiega che si tratta primariamente dell’organo mediante il quale si può fare esperienza di Dio o «la dimensione dell’essere umano, nella quale

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per se stessi, per il prossimo e per Dio. Per dirla con Scheler, che si appropria della terminologia di Pascal, si tratta di: «un’eterna ed assoluta conformità alle leggi del sentire, dell’amare e dell’odiare, assoluta come quella della logica pura, assolutamente irriducibile, però ad una conformità alle leggi del pensiero»75. L’amore è a tal punto una caratteristica innata dell’essere umano che nel corso della vita, a seconda delle decisioni prese, gli si può più o meno accordare il diritto di emergere e dargli il suo posto; ma la capacità di amare è sempre e sostanzialmente presente. Pascal formula ancora più enfaticamente la sua visione, aggiungendo che l’uomo non può vivere senza amare. L’amore guida l’essere umano verso il bello o verso ciò che considera bello; questa bellezza consiste nella concordanza della somiglianza, poiché l’essere umano è la cosa più bella che Dio ha creato, quindi egli può amare solo qualcosa di simile a se stesso. Da ciò si esclude ogni altra possibilità di amore, come l’amore per gli animali o per oggetti non viventi. Questo è un aspetto comune nella filosofia dell’amore di Pascal e Hildebrand, così come la connessione tra amore e ragione, perché l’amore ci fa vedere la realtà, non ci acceca. Altre caratteristiche dell’amore sono la fedeltà nel quotidiano e la sua

il divino si manifesta» (P.-L. Coriando, Affektenlehre und Phänomenologie der Stimmungen. Wege einer Ontologie und Ethik des Emotionalen, Klostermann, Frankfurt a.M. 2002, p. 28). In secondo luogo, il cuore caratterizza il cammino per conoscere la verità, assieme alla ragione. Queste due diversissime dimensioni del cuore prendono un posto diverso in Dio: egli viene, infatti, esperito mediante fede, mentre i principi attraverso il sentire. Il legame consiste nella trascendenza, così che il cuore, in definitiva, è per Pascal «la facoltà della trascendenza» (ivi, p. 32). 75.  M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Nuovo tentativo di fondazione di un personalismo etico, tr. it. di G. Caronello, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, p. 315.

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dinamica: l’amore è movimento, sempre in procinto di divenire e sorgere. Fondamentalmente e originariamente l’essere umano ha due modi di amare che provengono da Dio, l’amor proprio e l’amore per Dio; a causa del peccato originale nella situazione umana l’amor di sé ha virato in una direzione diversa, tanto che Pascal afferma che si deve odiare e non amare se stessi, perché l’amo­ re di sé non corrisponde più a ciò che Dio aveva progettato e pensato in origine, essendo diventato amor proprio. La soluzione a questa tragica situazione metafisica dell’essere umano è la ricerca di un «essere veramente degno di amore, che egli può e deve amare»76. Quest’essere può essere soltanto Dio. Mentre, dunque, Pascal disprezza l’amor proprio e cerca una scappatoia nell’amore di Dio, egli tuttavia sostiene l’importanza dell’amor di sé per la disposizione al buono presente in noi. Fondamentalmente, questa possibilità di amor di sé si ritrova pure in Dio, per il fatto di provenire da Dio ed essere anche membri di Cristo; se si ama Dio, si ama necessariamente anche se stessi, come parte di Dio. In definitiva, quindi, l’amor di sé e l’amore per Dio sono strettamente connessi. Sulla base di questo amore, l’amore al prossimo diventa possibile e l’uno confluisce nell’altro. Nell’amore sessuale si riscontra un grande rispetto per l’ama­ to/a, anzi una venerazione per lui/lei: si ha l’impressione che l’amato/a sia il/la più bello/a, il/la migliore; per questo il solo pensiero di amare più persone con lo stesso amore e allo stesso tempo, è completamente assurdo. Ma la cosa più importante è che l’amore rende grande l’essere umano: quando si ama, nell’amante cambia qualcosa, che lo conduce a una dimensione

76.  Cfr. W. Hover, Der Begriff des Herzens bei Blaise Pascal. Gestalt, Elemente der Vorgeschichte und der Rezeption im 20. Jahrhundert, Börsig, Fridingen a.D. 1993, p. 130.

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altrimenti insperata77. Anche dietro a ciò si nasconde un motivo ontologico e non soltanto dietro al termine cuore, come invece ritiene Paola-Ludovika Coriando78; la natura umana si realizza pienamente attraverso l’amore, il che implica che l’amore nella sua essenza abbia una originaria forma ontica, attraverso la quale l’essere umano trova il suo vero essere. Tali espressioni riguardo all’amore si riscontrano anche in Hildebrand, quando afferma che attraverso l’amore si inizia davvero a vivere grazie ai molti cambiamenti positivi incorrenti in esso. Il tentativo di Pascal di ristabilire un equilibrio tra posizioni mediocri e rispettabili nell’amor di sé sarà ulteriormente sviluppato da Hildebrand come fondamento delle altre forme di amore e dello stesso amore del prossimo.

4. L’Idealismo del XVIII secolo. L’amore fichtiano come forza cosmica Pascal classifica l’amore sotto il concetto di cuore, facendogli assumere l’aspetto di un Giano bifronte caratterizzante l’essere umano. Nell’idealismo soggettivo di Johann Gottlieb Fichte, troviamo un approccio ugualmente profondo, quasi una svolta del suo pensiero, espresso nelle ultime lezioni da lui pubblicate sotto il titolo Die Anweisung zum seligen Leben (Introduzione alla vita beata). Fin dalla prima affermazione, presente nella prima lezione, la sua visione appare molto convincente:

77.  Pascal eredita una tale visione da Aristotele e da Plutarco, anche se la ritroviamo pure in Agostino: attraverso l’amore l’amante guadagna sempre aspetti positivi e capacità. 78.  Cfr. P.-L. Coriando, Affektenlehre und Phänomenologie der Stimmungen, cit. Nel testo l’autrice spiega come il motivo del cuore porti con sé entrambe gli aspetti, sia quello ontologico che quello etico.

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«La vita è amore e l’intera forma ed energia del vivere consiste nell’amore e scaturisce dall’amore»79. L’amore è rappresentato come un principio a cui è attribuito il compito di dividere l’Essere – altrimenti senza vita – in due parti, così da far sorgere un io che può riflettersi e avere coscienza di se stesso: in questa centralità dell’ipseità è contenuta la radice di tutta la vita. Ma questo io diviso in due parti non deve rimanere tale, piuttosto deve ricongiungersi con se stesso, cosa che è resa possibile dall’amore: in questa raggiunta unità che non scioglie la dualità, consiste la vita. In tal senso l’amore è anche soddisfazione, gioia del proprio io, in breve: beatitudine. Quindi vita, amore e beatitudine sono tra loro collegati, tanto da poter spiegare la vita di una persona dal modo in cui ama. «Ciò che ami, lo vivi. Questo amore, da te dichiarato, è appunto la tua vita: la radice, la sede e il centro del tuo vivere»80. Dunque ci sono due possibilità nella vita: amare l’Uno, l’Immutabile e l’Eterno, o amare solo il transitorio. La prima vita, riconosciuta da Fichte come la vera, ama ciò che chiamiamo Dio, l’altra vita o vita apparente, ama ciò che altrimenti è conosciuto come “mondo”. Fondamentalmente tutta l’esistenza ha un desiderio d’eterno, mai pienamente soddisfatto fino al suo raggiungimento. Ma se amiamo le cose effimere, quando ci arrendiamo al mondo e amiamo una qualsiasi cosa nella sicura convinzione che sia la cosa giusta, rimaniamo insoddisfatti e ci rendiamo conto di non essere veramente felici81. Ora «l’amore è (fondamentalmente) affetto dell’essere»82, 79.  J.G. Fichte, Introduzione alla vita beata, testo tedesco a fronte, tr. it. di G. Boffi e F. Buzzi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, lez. I, p. 97. 80.  Ivi, p. 101. 81.  Qui risuonano le parole di Platone quando parla di una vita apparente e della nostalgia di Eros per il bello, che però non viene mai saziata e spinge a sempre nuove bellezze. 82.  J.G. Fichte, Introduzione alla vita beata, cit., lez. I, p. 359.

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in esso tutto è godimento, poiché l’amore opera uno sforzo costante verso il vero essere e, nell’unione con esso viene raggiunta la piena soddisfazione. Chi ama può provare sia gioia che dolore, la gioia nell’unione con l’amato/a come il dolore nella separazione da lui/lei. Chi non ama non può fare né l’una, né l’altra esperienza. In modo ancor più pregnante Fichte afferma che qualora non si ami non si vive affatto; affermazione che Hildebrand potrebbe assecondare appieno. A differenza di Pascal, l’amore di Dio in Fichte non può essere abbinato con l’amor di sé, visto che solo annientandolo si può amare Dio, poiché l’amore di Dio non tollera nessun altro amore. L’amore di sé come l’amore al mondo in senso generale ama solo determinati oggetti e li prende di mira; al contrario l’amore di Dio vede tutto il mondo come mezzo e, quindi, un oggetto particolare non è da solo sufficiente. L’essere umano e il suo io non hanno altra scelta che fondersi in Dio, annientandosi, poiché nell’amore di Dio si fonda tutto l’essere e l’esistenza; ed è in questo, infatti, che Dio e l’essere umano sono fusi l’uno nell’altro. In definitiva l’amore di Dio è amore di Dio per se stesso, perché solo lui può amarsi, amarsi nell’essere umano. Leggendo la pagina del vangelo di Giovanni sul Logos, Fichte ne trae questo pensiero finale: il Logos è amore, quindi all’inizio era l’amore, e l’amore era in Dio ed è Dio e rimane in lui, poiché è la sua forza costituente83. Perciò anche l’essere umano, nell’amore, è in Dio ed è lui stesso Dio. All’amore è legata anche la dimensione morale, così che solo coloro che amano possono agire moralmente. Dietrich von Hildebrand sembra difendere una posizione inversa, secondo la quale l’essere umano, compreso come persona, può amare proprio in virtù del fatto che è un essere morale. Sulla base di 83. Nell’Introduzione alla vita beata leggiamo anche che «l’amore è la fonte di ogni certezza, di ogni verità e di ogni realtà» (ivi, lez. X, p. 471).

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una relazione positiva e condivisa tra amore e moralità, i due pensatori si allontanano tra loro per la prospettiva dalla quale osservano il rapporto, sebbene Hildebrand li consideri reciprocamente fruttuosi: se da un lato l’etica è premessa perché l’amore possa svilupparsi e l’amore stesso sia inteso come risposta al valore – in particolare riguardo ai valori etici – è l’amore che a sua volta ne consente un accesso più profondo. L’amore vero e anche l’amore religioso riaccendono in noi la fede e la speranza, ma non in Dio, essendo Egli già presente in noi. L’amore viene compreso in rapporto alla volontà84: l’amore, quale forma più alta di volontà abolisce, insieme alla fede e alla speranza quali forme secondarie di volontà, la dialettica tra natura e libertà e conduce l’io – attraverso eros e agape (intesi come due forme dell’amore stesso) fuori della perdita di sé. L’amore rende la volontà libera dai conflitti, perché conduce l’essere umano al suo più alto livello ideale. L’essere umano, attraversandosi interiormente, penetra fino alla comprensione dell’immagine di Dio in se stesso e negli altri, così che l’io e il mondo si incontrano nell’amore come agape: nell’amore all’altro/a è possibile l’unione tra l’io e il mondo. Oltre alla visione cosmica dell’amore, Fichte si dedica anche all’amore sessuale come una forma specifica di amore. Sebbene le sue opinioni siano fortemente influenzate dal contesto storico-culturale, troviamo un aspetto interessante nella considerazione del matrimonio già incontrato in Agostino e che Hildebrand sviluppa e illumina profondamente. Nel matrimonio, la donna gioca un ruolo sottomesso nel senso che si dà all’uomo, proprio come la natura quando si unisce alla ragione: 84.  Al riguardo, il conflitto tra libertà e natura esperisce un cambiamento: Fichte sembra risolverlo facendo convergere il termine “amore” con quello di “volontà”. Cfr. U.F. Wodarzik, Prinzip Liebe – zwischen Natur und Freiheit beim späten Fichte, in «Fichte-Studien», vol. 32, 2009 (Grundbegriffe in Fichtes Spätwerk, a cura di G. Zöller e H.G. von Manz), pp. 213-223.

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nel sacrificio della donna di fronte all’uomo, prende forma il carattere morale dell’amore. Ora, per rendere giustizia al suo carattere razionale, la donna si dà all’uomo non una volta sola, ma per sempre, rinunciando a sé come persona, per diventare parte dell’uomo. In questo perdersi nell’uomo, la donna riacquista tuttavia se stessa: questo perdere se stessa è allo stesso tempo un auto-perfezionamento, operazione che risulta essere una via d’uscita dalla dialettica tra uomo e donna, come da quella tra ragione e natura. Entrambi sono contemporaneamente presenti, e ciò costituisce il principio dell’amore sessuale stesso, poiché anche l’uomo si trova nella stessa condizione davanti alla donna. Anche lui deve perdersi nella donna, pur in modo diverso da lei e, in questa perdita, egli si appropria di sé in modo nuovo. Si può dire che nel matrimonio ogni parte si perde e si ritrova nell’altra, in modo che le parti unite rappresentano, in senso morale, un tutto, l’essere umano stesso85. Hildebrand sottolinea lo stesso processo di reciproca donazione all’interno del matrimonio – sebbene in termini meno metafisici – come il modo più perfetto di amare.

5. L’amore come atto. Del senso dell’amore al prossimo in Kierkegaard Secondo la nozione panteistica di Fichte e l’idealismo dell’amore di Schelling come forza cosmica e legame unificante tra essere ed esistenza, l’amore assume in Søren Kierkegaard86 85.  Non si può non rivedere qui il mito platonico degli uomini originari, sferici e consistenti di due parti, che furono tagliati in due e divisi, così che ora vagano in cerca ciascuno della propria metà per divenire nuovamente completi (cfr. Platone, Simposio, cit., 189d-192, pp. 499-502). 86.  La scelta di Kierkegaard, così come è stato per i precedenti autori, non va intesa come esemplificativa di un intero secolo. Nel XIX sec. viene risco-

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nuovamente un forte carattere cristiano. La ricerca di possibili strade di vita87, nelle quali sperimentare l’amore, conduce alla constatazione della grandezza e dell’unicità dell’amore cristiano ben superiore a ogni amore mondano. Partendo dal comandamento dell’amore cristiano: «Amerai il prossimo tuo come te stesso», Kierkegaard sviluppa un’analisi dell’amore che rappresenta un confronto tra l’amore cristiano e l’amore in senso generale, quindi anche tra l’amore divino e quello umano. Il fattore decisivo non è tuttavia se l’amore cristiano riguardi l’agape o l’eros, quanto piuttosto che si tratta di un comando: l’amore cristiano è caratterizzato dal fatto che è comandato: si deve (sollen) amare il prossimo. È proprio questo dovere che fa la differenza ed eleva questo amore a un livello imparagonabile. Il carattere di tale amore è l’eternità: esso non può mai svanire come le altre forme di amore. Se queste si salvano dall’usura del tempo, non durano tuttavia in eterno, quindi restano meramente transitorie. Comunque sia, in qualunque forma, l’amore ha un posto nell’intimo dell’essere umano e «da questo luogo esce la vita dell’amore, perché “dal cuore procede la vita”. Per quanto tu lo penetri in profondità, l’origine si sottrae sempre

perto in generale l’amore romantico e perciò è particolarmente tematizzato l’amore tra i sessi. Kierkegaard rappresenta piuttosto un’eccezione all’interno di quella cultura di appartenenza, per il suo forte interessamento all’amo­re al prossimo; ciononostante alcuni critici lo riconoscono come sommo rappresentante del Romanticismo. 87.  Kierkegaard, in Aut-Aut e in Timore e tremore, come anche in altre opere, descrive tre possibili cammini esistenziali o tipi umani che alcuni critici considerano essere un rispecchiamento della sua riflessione personale e intellettuale: sono il cammino estetico, quello etico e quello religioso. Partendo da essi si sviluppa anche la comprensione kierkegaardiana dell’amore in amore sensuale, matrimonio e amore al prossimo. Cfr. S. Muñoz Fonnegra, Das gelingende Gutsein. Über Liebe und Anerkennung bei Kierkegaard, de Gruyter, Berlin-New York 2010, e A. Fimiani, Sentieri del desiderio. Femminile e alterità in Søren Kierkegaard, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010.

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più lontana e segreta»88. È da questo luogo, quindi, che nasce l’amore, su vie diverse, di per sé imperscrutabili, e di cui non si può chiarirne l’origine. L’amore vive in segreto e la sua fonte è Dio; solo dai suoi frutti può essere riconosciuto, pur producendo frutti diversi. Un amore immaturo si constata dal fatto che produce solo parole e di solito parole vuote; ma l’amore non si fa ricondurre a una determinata parola, dunque è difficile riconoscere dalle parole se una persona ama, perché le parole saranno sempre diverse e potrebbero essere false. Invece il vero amore si può riconoscere dai frutti, cioè dalle azioni. Qui Hildebrand potrebbe replicare che proprio l’amore è modellato dalla parola, non da molte parole, come pure afferma Kierkegaard, ma da un’unica parola, quella che pronunciano gli amanti; invece, l’amore verso il prossimo è caratterizzato da gesti e frutti concreti, come sottolinea lo stesso Kierkegaard. Per Kierkegaard, la condizione preliminare per l’amore è l’amor di sé, e da ciò deriva la giustapposizione delle due forme di amore: l’“amore immediato” ama sempre il sé, sia quando è espressione di amor proprio che quando è rivolto al partner o a un/una amico/a; l’amore cristiano è diretto, invece, al superamento dell’amor di sé per il bene dell’altro/a. Secondo Hildebrand l’amor di sé non offre alcun punto di riferimento per spiegare l’amore verso gli altri (Fremdliebe). Anche se egli non nega o sottovaluta l’amor di sé, esso, tuttavia, non trova posto nella sua fenomenologia dell’amore se non come spunto di discussione in vista delle sue esplicazioni sull’amore89. Il comandamento dell’amore al prossimo si riferisce pure all’amor di sé, poiché si deve amare il prossimo come se stessi; 88.  S. Kierkegaard, Atti dell’amore, testo danese a fronte, a cura di C. Fabro, Bompiani, Milano 2003, p. 157. 89. Cfr. EA, pp. 63-65.

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quindi c’è un confronto tra le due forme di amore a partire dall’amor di sé, nonostante il sé costituisca solo una misura per amare con maggiore o minore intensità. Se ciò in qualche modo ci tiene legati, allora cerchiamo noi stessi nell’altro/a e si ama non più per l’amore in sé, ma per amor proprio. A partire da qui l’amore sessuale, che Kierkegaard chiama anche amor cortese, e l’amore amicale sono eccezioni che si rivolgono a una persona in particolare; al contrario l’amore cristiano al prossimo non fa eccezioni ed è diretto a tutti, perché il prossimo è il più vicino, non importa chi esso sia; tutti lo possono essere. Ma non tutti sono in grado di richiamare una mia predilezione e quindi non tutti possono diventare partner o amici. Nell’amor cortese non si ama l’altro/a «come se stesso», poiché per Kierkegaard l’io umano non sopporta doppioni: in questo modo l’amore del comandamento si avvicina all’egocentrismo. È importante sì amare il prossimo come si ama se stessi, eppure il prossimo non è il proprio sé. L’amore al prossimo, in realtà, ci dà la misura dell’amore per noi stessi, perché si può riscrivere il comandamento spingendo ad amare se stessi allo stesso modo in cui si ama il prossimo. Come, però, si può comandare l’amore? Ciò contraddirebbe tutte le idee d’amore che ne parlano come un atto di volontà, come un movimento naturale. La risposta di Kierkegaard può inizialmente sconcertare, egli afferma, infatti, che in questa apparente contraddizione dell’amore cristiano per il prossimo stia proprio la perfezione dell’amore che altrimenti non sarebbe mai realizzabile90, cioè la sua immutabilità nell’eternità. La

90.  Ci sembra qui attendibile la tesi di Sergio Muñoz Fonnegra, secondo il quale l’amore al prossimo è la spiegazione dell’amore in quanto tale, anche se essa rinforza la nostra opinione che Kierkegaard, così facendo, sminuisca definitivamente “le forme d’amore naturale” o che comunque le renda forme secondarie (cfr. S. Muñoz Fonnegra, Das gelingende Gutsein, cit., cap. I: Liebe und Anerkennung, pp. 100-165).

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chiave per capirlo sta proprio nel carattere obbligatorio dell’amore: «Soltanto quando c’è il dovere di amare, allora soltanto l’amore è garantito per sempre contro ogni alterazione; eternamente liberato in beata indipendenza; assicurato in eterna beatitudine contro la disperazione»91. Se due amanti, infatti, si giurano amore eterno, sbagliano, perché giurano su qualcosa di più basso dell’amore stesso, perché essi stessi non sono eterni; solo giurando di amarsi per l’eternità il loro amore è eterno. Solo l’eternità è la misura più eccelsa, potendo essa collegare il presente, il futuro e il passato e annullare qualsiasi cambiamento; ma l’eternità significa dovere. Se l’amore diventa dovere esso acquista durata e quindi sicurezza. Qualsiasi amore che non si sia donato per l’eternità è costantemente sotto il peso della paura che qualcosa possa cambiare e che l’amato/a si possa dileguare. Un tale amore si può trasformare persino in odio, che altro non significa che la distruzione di un amore. Il vero amore, una volta diventato dovere, non può mai odiare, perché non può cambiare. Per lo stesso motivo, non può neanche provare gelosia: il vero amore non ama perché o per come è amato, ma semplicemente ama, e ciò significa che non ha elementi di paragone per provare gelosia. Kierkegaard e Hildebrand hanno qui due posizioni diverse: il filosofo monacense vede nel fenomeno della gelosia, se non è estrema o patologica, addirittura un segno d’amore, tanto da essere difficilmente immaginabile un amore senza alcuna forma di gelosia; la qual cosa non vuol dire, però, che la gelosia in toto venga da lui valutata positivamente92. Anche questo amore è libero nel vero senso della parola e produce in noi libertà, non rendendoci dipendenti dagli altri; il 91.  S. Kierkegaard, Atti dell’amore, cit., p. 209. 92.  Su questo tema si veda gli approfondimenti infra, cap. IV, § 3.1.1.

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forte attaccamento dell’amore immediato a una persona provoca, nonostante la libera dedizione, una dipendenza indesiderata e inaspettata, perché se uno è pronto a morire per l’altro e a perdere tutto, non appartiene più a se stesso. Solo il dovere è liberante nella sua indipendenza. L’amore “di dovere”, dunque, conferisce a colui/lei che si dona ad esso un di più a motivo della sua indipendenza, che libera dalla disperazione e dalla sventura. Chi ama con amore immediato, ama – più di se stesso e con infinita passione – qualcosa che in realtà non è così elevato e non vive nell’eternità. Quindi ci si dona con una passione, che, parlando metafisicamente, è indegna, e perciò fallisce l’obiettivo. Si potrebbe dunque dire che il comandamento dell’amore offre la chiave per la beatitudine, perché dietro alla comprensione dell’amore cristiano di Kierkegaard c’è una svolta antropologica: ogni cosa terrena è soggetta al cambiamento e all’annientamento, così che l’unico principio sussistente è l’eterno, Dio. L’essere umano che non fissa la sua vita in Dio93, si dispera e, pur sperimentando nell’amore alcuni momenti felici, non è in grado di trattenerli; in questo conflitto è radicato l’amore umano. L’amor cortese e l’amicizia sono predilezione e passione per quanto si predilige; l’amore al prossimo è, invece, amore di abnegazione: in esso l’egocentrismo viene sradicato e l’uguaglianza dell’eterno preservata. L’amor di sé è sensitivo e va disprezzato, per questo il vero amore mira a uccidere l’amor proprio in se stesso e negli altri; il prossimo non è un sé, ma un tu94. In altre parole, l’amore 93.  Cfr. P. Gardiner, Kierkegaard, Herder, Freiburg i.Br.-Basel-Wien 2001, cap. V: Wahrheit und Subjektivität, pp. 87-130. 94.  Più tardi Martin Buber svilupperà un’intera filosofia della relazione IoTu, nella quale – con altre parole e in ampliamento a quanto già Kierkegaard aveva pensato – diviene chiaro che l’essere umano è doppiamente abbandonato all’incontro con la realtà: da un lato, c’è la modalità d’essere Io-esso

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per il prossimo è «l’amore fra due nature determinate in eterno ciascuna per sé come spirito; l’amore del prossimo è amore spirituale, ma due spiriti non possono mai diventare un solo Sé in senso egoista»95. È questo un netto disprezzo per tutte le forme umane di amore? No, perché il comandamento dell’amore è un invito a portare le altre forme di amore davanti a Dio e non a disprezzarle96. Certamente, l’amore come dovere è più alto e più degno, anzi è l’unico vero amore, ma le altre forme d’amore possono acquisire un nuovo valore nella loro posizione davanti a Dio, non escludendo l’amore del prossimo. E qui riconosciamo nuovamente l’inversione antropologica, poiché Kierkegaard intende implicitamente proprio questo: l’amore umano trova la sua dignità e il suo senso sottomettendosi all’amore cristiano e derivando da esso la sua dignità.

che esprime l’incontro con le cose; dall’altra, c’è una modalità d’essere Io-Tu nella quale ci incontriamo come esseri umani. La prima è la modalità d’essere del passato e del trascorrere, la seconda è la modalità del presente e della relazione. Secondo Buber – e qui ritroviamo un’assonanza con Kierkegaard – spesso le relazioni interumane vengono vissute nella modalità d’essere di primo tipo, al posto del secondo, e con ciò soffrono una mancanza, che solo nella dimensione Io-Tu può essere risolta. Cfr. M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma, San Paolo, Cinisello Balsamo 2011. 95.  S. Kierkegaard, Atti dell’amore, cit., p. 275. 96.  Su questo punto esiste una discussione aperta. I pericoli di una radicalizzazione di Kierkegaard sono evidenti e trovano nell’interpretazione differenti possibilità di spiegazione. Tuttavia, il comando dell’amore al prossimo, così come la comprensione dell’allargamento dell’amore umano nella sua pienezza attraverso l’amore di Dio, si può problematizzare anche in Hildebrand, come vedremo più avanti. Sulla discussione circa la comprensione dell’amore in Kierkegaard, cfr. S. Muñoz Fonnegra, Das gelingende Gutsein, cit., pp. 155-165, e Th.W. Adorno, La dottrina kierkegaardiana dell’amore, in Id., Kierkegaard. La costruzione dell’estetico, tr. it. A. Burger Cori, Longanesi, Milano 1962, pp. 365-401.

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Troveremo simili posizioni anche nella trattazione che Hildebrand fa dell’amore pervaso dalla caritas, quando, cioè, osserveremo come le forme naturali di amore raggiungono nella caritas la loro piena realizzazione.

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Capitolo II L’etica di Dietrich von Hildebrand

La breve rassegna storiografica del capitolo I ha evidenziato come le molte posizioni relative al fenomeno dell’amore, possano essere essenzialmente suddivise nelle due grandi macro-­ aree dell’etica e della metafisica, spesso senza soluzione di continuità. In questo quadro si colloca anche la posizione di Dietrich von Hildebrand che non è pienamente comprensibile se non si considera il suo evidente approccio etico. Le questioni etiche hanno giocato un ruolo importante e centrale sin dall’inizio nel suo modo di pensare e di lavorare, come evidenziato nella grande varietà delle sue opere, articoli e conferenze. Valori (Werte) e risposte al valore (Wertantworten) occupano un posto così centrale in queste testimonianze del suo lavoro che uno dei suoi discepoli ancora viventi, Josef Seifert, è giunto alla seguente conclusione: «La scoperta filosofica e la realtà della risposta al valore stanno al cuore della filosofia, del pensiero religioso e della vita di Dietrich von Hildebrand»1.

1.  J. Seifert, Dietrich von Hildebrands philosophische Entdeckung der “Wert­ antwort” und die Grundlegung der Ethik, in «Aletheia», vol. V, 1992, pp. 3458: p. 34.

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Il principale lavoro di Hildebrand sull’amore, sviluppato e realizzato piuttosto tardi, Das Wesen der Liebe (L’essenza dell’amore), è impregnato dalla prima all’ultima pagina dal concetto di risposta al valore che definisce l’amore come tale. Poiché la risposta al valore va collocata nell’ambito dell’etica, si fa, dunque, evidente la necessità di approfondire e capire l’approccio etico hildebrandiano, per poter avere un più chiaro orizzonte di riferimento circa la nostra questione di fondo, ovvero nell’esplicitare possibili sviluppi metafisici della filosofia dell’amore di Hildebrand. Dato il contesto di questo lavoro, ci si dovrà limitare a un breve resoconto e certamente non completo delle linee e dei principi fondamentali dell’etica hildebrandiana, come della correlata comprensione dell’essere umano come persona. Sotto questo punto di vista abbiamo selezionato alcuni punti riguardanti più da vicino la nostra tematica. In una prima parte, ci concentreremo principalmente sull’etica in generale, in una seconda sulla definizione della persona come “portatrice di valori” (Wertträger) ed ente libero. Nella prima sezione della prima parte (§ 1.1), vengono spiegati alcuni termini che svolgono un ruolo importante nell’etica di Hildebrand e come tali potrebbero incontrare incomprensioni, sia perché già esistenti altrove e con significati ben determinati, sia perché sono concetti tipici della filosofia hildebrandiana. A partire dall’etica, quindi, discuteremo il concetto di conoscenza del valore come comprensione intenzionale specifica della datità morale (§ 1.2). Il passo successivo sarà quello di concentrarsi sul bene (§ 1.3), poiché Hildebrand vi identifica una certa ambiguità e propone una differenziazione che rende questo valore più chiaro. Dopo aver spiegato il significato specifico del valore (§ 2), si propone un approfondimento e una discussione di tutti i suoi aspetti fino al rapporto con l’etica (§ 3). Alla dimensione og-

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gettiva fa seguito quella soggettiva, nella quale si dà voce alla relazione tra l’essere umano e i valori (§ 4). Nel fare ciò descriveremo e spiegheremo questo rapporto come risposta al valore, sempre rispetto alla sfera morale. Nella seconda parte esamineremo la visione hildebrandiana della persona (§ 1), specialmente in relazione alla comunità (§§ 1.1-1.2) ovvero come essere comunitario, nonché dal punto di vista della libertà (§ 2), quale aspetto essenziale non solo per l’etica in generale, ma specificamente per le risposte al valore.

Parte I – Il significato dei valori 1. Etica e conoscenza etica del valore: la questione del bene 1.1. Chiarificazione dei termini Prima di affrontare il tema della moralità, premettiamo alcune delucidazioni sui concetti, che nel discorso hildebrandiano hanno un loro significato specifico e che incontreremo frequentemente. Prima di tutto dovremmo brevemente spiegare il termine Sittlichkeit2 (morale/etica), che Hildebrand usa molto spesso, ma che oggi non è quasi più in uso. Per Hildebrand, la moralità è intesa come un atteggiamento morale che presuppone sempre una conoscenza del valore3. La relazione tra morale/moralità e conoscenza del valore è una domanda decisiva per l’etica; ecco perché, secondo Hildebrand, è mol-

2.  Questo termine si fa risalire filosoficamente al tedesco di Hegel. Nel tedesco moderno, accanto al termine Sittlichkeit, ricorre quello di Moralität e poi esiste anche la parola Ethik. 3.  «Ogni agire e volere morale presuppone una consapevolezza valoriale, poiché il volere costituisce al contempo una risposta al valore oggettivo» (SeW, p. 464).

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to importante comprendere bene il concetto di valore. Tuttavia la parola valore4, che è al centro dell’etica hildebrandiana, non è oggi priva di problemi e necessita di un’ulteriore spiegazione. Al fine di rendere questo termine più comprensibile nella sua definizione, è necessario chiarire in precedenza un altro termine, quello di significatività (Bedeutsamkeit). Una cosa ha la proprietà della significatività se non è indifferente in sé, o se ha una peculiarità che può innescare in noi una risposta affettiva. Quando un oggetto appare moralmente neutro in relazione all’opposizione tra il bene e il male, esso non evoca alcuna reazione in noi, né come atto di volontà né come risposta affettiva. In questo senso, la significatività hildebrandiana va direttamente collegata alla sfera spirituale dell’essere umano. A seconda che un oggetto sia buono o cattivo, diciamo che ha una significatività positiva o negativa e, poiché esistono diverse categorie di bene, Hildebrand distingue tre tipi di si4.  La parola “valore” può portare ad accese discussioni, perché sotto questo termine vengono assunte realtà plurisignificative e differenti. Specialmente nella società odierna si parla spesso di valori, ma per lo più in relazione all’economia, come alla politica o alla morale: il valore è diventato un concetto generale, altamente astratto, o addirittura un “concetto-container” del Postmoderno. Cfr. la voce Wert, in P. Kolmer - A.G. Wildfeuer (a cura di), Neues Handbuch philosophischer Grundbegriffe, Alber, Freiburg i.Br.-­München 2011, vol. III, p. 2484. Già solo la storia di questo termine, dal contesto economico del XIII sec. fino alla discussione filosofica circa il valoriale come domanda di validità del XIX sec., con le conseguenti difficoltà di difendere una filosofia in quanto filosofia dei valori, mostra quanto sia problematico parlare di questi ultimi. Eppure, il fatto che nel corso del XX sec. molti filosofi si siano lasciati interpellare dal tema, ci permette di riconoscere anche quanto i valori siano determinanti e decisivi per la nostra vita. Vedremo come la visione dei valori di Hildebrand acquisti un determinato posto all’interno di tale discussione, specialmente tra le posizioni dei fenomenologi di un idealismo valoriale che riconosce l’oggettività dei valori come qualcosa di incontestabile, ma offre anche delle differenziazioni. Cfr. la voce Valore, in N. Abbagnano - G. Fornero, Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1998, pp. 1141-1145.

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gnificatività positiva: ci sono, ad esempio, cose che ci attirano personalmente, che solo a noi non sono indifferenti. Questo è il caso di ciò che è soggettivamente soddisfacente (subjektiv Befriedigendes). Per chiarire: in una selezione di possibilità, il soggettivamente soddisfacente è esattamente ciò che a me solo sembra rilevante e attraente. Tuttavia, non è significativo solo qualcosa che per me non rimane neutrale e che attira la mia attenzione, ma anche ciò che in sé non è indifferente. Ci sono cose o situazioni (che portano in se stesse una significatività) che svegliano intensamente il nostro interesse, non perché ci sembrano piacevoli o in qualche modo soddisfacenti, ma perché contengono qualcosa di intrinsecamente significativo (das in-sich-Bedeutsame). A questa dimensione di significatività Hildebrand riconosce il senso più propriamente legato al valore, in quanto intrinsecamente significativo. Ad esempio, il fatto di avere acqua da bere è importante in sé e per sé, indipendentemente dal fatto che lo si percepisca o meno consapevolmente. Nei paragrafi seguenti ci occuperemo maggiormente della comprensione dei valori in Hildebrand, nonché di alcuni problemi e limiti delle sue formulazioni, anche in confronto alle posizioni di Husserl e Scheler. Intanto, e come prima cosa, dovremmo aver chiarito che Hildebrand intende il valore come contrario a «piacevole o importante per me» a causa della sua più ampia comprensione di significatività. Oltre alle due categorie di cui sopra – il soggettivamente soddisfacente e l’intrinsecamente significativo – ne esiste una terza, il bene oggettivo per la persona (das subjektiv Gute für die Person), indicando con ciò cose o situazioni che non suscitano un interesse derivante dalla soddisfazione soggettiva e non sono nemmeno significative in se stesse, bensì oggettivamente buone per noi. Il fatto di ricevere un’offerta di lavoro dopo una lunga ricerca non è significativo perché mi appare solo piacevo-

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le o perché costituisca una soddisfazione per me, ma piuttosto è oggettivamente buono per me aver trovato un lavoro corrispondente alla mia formazione. Certamente anche la capacità di lavorare ha qualcosa di soddisfacente, ma rappresenta per me un bene oggettivo che non è paragonabile, ad esempio, a un pasto che mi piace, ma che non è oggettivamente buono per me a causa di problemi di salute. A questo punto sarà chiaro che le ultime due categorie sono più strettamente correlate alla comprensione della significatività, perché il bene oggettivo presuppone un valore; allo stesso tempo tuttavia, ciò significa che si deve riconoscere un valore prima di classificarlo quale oggettivamente buono per la persona. Arriviamo così al tema della conoscenza5. Anche qui è necessaria un’esplicazione delle definizioni, perché Hildebrand usa termini diversi, spesso al di là di quelli fenomenologici o neppure ravvisabili in essi. Hildebrand sottolinea come la sfera affettiva sia un certo tipo di conoscenza: proprio come si possono percepire e riconoscere le cose materiali, è possibile anche una conoscenza specifica dei valori. Ciò significa che i valori contenuti negli oggetti o nei fatti ci sono dati alla stessa maniera in cui qualità o proprietà ci sono date dalla percezione esterna. In altre parole, secondo Hildebrand, esiste una comprensione intuitiva o per5.  Hildebrand riconosce nella conoscenza la più importante capacità umana, perciò essere umano e conoscenza rappresentano una relazione indissolubile e vanno come tali compresi: come l’essere della persona non è intelligibile senza la facoltà conoscitiva, così anche questa non è possibile senza un centro spirituale. La conoscenza provoca un contatto unico tra soggetto e oggetto: l’oggetto si dà al soggetto e questo lo può sfiorare, al punto da esperire un cambiamento in sé, ma non nell’oggetto. «Fin dall’inizio dobbiamo capire che il conoscere, nel senso più ampio, è un contatto unico con l’oggetto, un contatto che solo una persona spirituale può realizzare e che differisce da qualsiasi “divenire” reale da parte del soggetto. Conoscere qualcosa è essenzialmente un “ricevere”» (CcF, p. 77).

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cezione del valore6 (Werterfassen) che afferisce pienamente ai valori, analoga alla percezione esterna delle cose fisiche. Sulla percezione del valore si basa la conoscenza del valore (Werterkennen). All’interno della percezione del valore, bisogna fare una distinzione tra il sentire il valore (Wertfühlen) e vedere il valore (Wertsehen): un valore mi può raggiungere intuitivamente nel vedere, ma ciò non significa che io ne sia toccato a tal punto da sentirlo; non possiamo neanche parlare di un “esperire” che è invece tipico del sentire i valori. Il sentire il valore è intrinsecamente più vicino ai valori morali e conduce a una più profonda consapevolezza e percezione degli stessi. Se il cogliere il valore stabilisce una relazione con il valore, tanto da dire che la conoscenza intuitiva dei valori consente una relazione con la tipologia del valore più profonda e che evoca qualcosa che supera il puramente attuale; allo stesso modo la conoscenza del valore designa la conoscenza delimitata di determinati valori che, fenomenologicamente parlando, significano un “divenir coscienti” di un valore. La sola conoscenza

6.  Lo stesso Hildebrand dimostra come anche Edmund Husserl e Max Scheler parlino di coglimento dei valori, pur se con altri termini. Husserl parla prevalentemente di Wertnehmen, Scheler al contrario di Wertfühlen. Quest’ultimo ritiene, quindi, che la presa d’atto dei valori vada collocata nel sentire, e cioè alla stessa maniera in cui viene considerata la percezione di oggetti: «ogni a priori assiologico (compreso quello etico) risiede propriamente nella percezione affettiva, nella preferenza e in ultima analisi nella conoscenza assiologica o intuizione del valore fondata sull’amore e sull’odio nonché nella “conoscenza etica”, in quanto conoscenza della correlazione tra valori della loro “posizione gerarchica” […]. Questa conoscenza si compie pertanto in funzioni ed atti specifici, “toto coelo” diversi da ogni percezione e pensiero e tali da costituire l’unica via di accesso al mondo dei valori». E prosegue: «questa percezione affettiva ha, nei confronti del proprio correlato assiologico, la stessa relazione della “rappresentazione” rispetto al proprio “oggetto”: appunto la relazione intenzionale […]. La percezione affettiva tocca invece originariamente un tipo specifico di oggetti, appunto i “valori”» (M. Scheler, Il formalismo, cit., risp. pp. 97-98 e 319).

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del valore non può essere motivazione causale di un moto della volontà o di una qualsiasi altra risposta affettiva. In quale senso tutto questo debba essere compreso, sarà approfondito più avanti.

1.2. Il primo compito dell’etica: la comprensione consapevole dei “dati morali” Se si partisse dalla famosa affermazione aristotelica: «Ogni arte e ogni ricerca scientifica e similmente ogni azione ed ogni scelta deliberata tende – tutti ne convengono – ad un bene; perciò a giusta ragione si è dichiarato che il bene è ciò a cui tutte le cose tendono»7, il compito dell’etica potrebbe essere quello di spiegare il perché l’essere umano faccia il male, o perché non tutte le sue azioni siano espressione di bene. Di conseguenza, si potrebbe anche concludere che non esistono «azioni etiche» o che l’azione etica non abbia alcun legame con il bene. Dietrich von Hildebrand condivide l’affermazione aristotelica8, ma la giustifica diversamente rispetto al filosofo greco, ovvero, mediante un’analisi attenta delle differenze tra gli aspetti del bene che gli esseri umani sono in grado di compiere. Come abbiamo già chiarito, le suddivide nelle principali categorie di: valore, soggettivamente soddisfacente e bene oggettivo per la persona. L’etica di Hildebrand si basa, dunque, sui valori e acquista il suo profilo attraverso compiti specifici: da un lato, nell’acqui-

7. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., vol. I, 1094a, p. 83. 8.  Josef Seifert critica questa posizione, riconoscendo come Hildebrand si possa accordare con Aristotele e Tommaso solo sul significato di desiderare un bene. Tuttavia, non si chiarisce in loro di quale bene si parli; infatti, se si volesse unificare il bene, si dovrebbe considerare ogni azione e desiderio dell’essere umano come buono, cosa che di fatto non è. Ecco perché sembra necessario intraprendere una differenziazione del bene. Cfr. J. Seifert, Dietrich von Hildebrands philosophische Entdeckung, cit., pp. 34-58.

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sire una conoscenza filosofica che comprenda la piena consapevolezza dei dati morali e, dall’altro, nel chiarire la diversità della sfera morale degli altri settori. Come Scheler, anche Hildebrand desidera far spazio all’interno di un’etica materiale dei valori9, interamente basata sul­ l’oggetto, alla molteplicità della vita umana e alle sue manifestazioni. Ciò si ritrova in alcune opere, come nella sua tesi di dottorato Die Idee der sittlichen Handlung (L’idea dell’azione morale) e nella sua tesi di abilitazione Sittlichkeit und ethische Werterkenntnis10 (Moralità e conoscenza etica del valore) nonché in opere successive come Ethik (Etica) e Moralia. Come indicato sopra, il bene è legato ai valori. Nel paragrafo precedente abbiamo accennato a una prima definizione del 9.  È compito di un’etica materiale dei valori guardare alle azioni concrete e reali (non fittive) o agli atteggiamenti dell’essere umano per estrapolarne una spiegazione etica. Essa è stata elaborata da Scheler come contro risposta all’etica formale kantiana che ha misconosciuto l’a priori della sfera emotiva. Così scrive: «L’etica è piuttosto la semplice formulazione di giudizi specifici su quanto si presenti immediatamente nella sfera della conoscenza etica» (M. Scheler, Il formalismo, cit., p. 99). Secondo Scheler i valori si pongono come un a priori autonomo e indipendente dall’essente; è un a priori che è dato intenzionalmente nel sentire. In fondo, la differenza tra l’etica del dovere di Kant e l’etica materiale sta proprio in ciò: la prima guarda al soggetto e fa dell’oggetto qualcosa di dipendente da lui, così da ricavare la norma dal rapporto tra i due. L’etica materiale dei valori ha sostanzialmente l’oggetto – il valore – nel suo focus e cioè come qualità materiale, come il “che” in sé, indipendente dal soggetto. 10.  La dissertazione con la quale Hildebrand concluse il suo dottorato in collaborazione con Edmund Husserl – che la elogiò non poco (cfr. E. Husserl, Urteil über Hildebrands Doktorarbeit, in «Aletheia», vol. V, 1992, pp. 4-5) – così come il testo dell’abilitazione sono stati pubblicati nello «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung» (rispettivamente, n. 3, 1916, pp. 126-251, e n. 5, 1922, pp. 462–602) e mostrano il più profondo interesse filosofico che ha animato l’intera produzione hildebrandiana.

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valore come “intrinsecamente significativo”. Secondo Hildebrand nel regno dei valori esiste il prendere coscienza dei valori (Wertkenntnisnehmen), cioè i valori si presentano come oggetti percepiti da un centro intellettuale in un atto di conoscenza, allo stesso modo in cui vengono percepiti oggetti fisici. Questo concetto del prendere coscienza dei valori, che incontriamo principalmente nella “morale e nella conoscenza etica”, costituisce qualcosa di nuovo nel contesto delle gradazioni fenomenologiche della relazione soggetto-oggetto, poiché, secondo Hildebrand, tutta la conoscenza si basa proprio sul prendere coscienza. Soprattutto nel regno dei valori il prendere coscienza di determinati valori fornisce spesso una base più importante per la motivazione rispetto alla conoscenza del valore, perché ciò ha un’immediatezza che manca alla conoscenza. Attraverso il prendere coscienza dei valori «i valori fondanti risaltano spesso nelle cose, nei fatti e nelle persone […] analogamente nel vedere si percepiscono i colori, nel sentire i suoni, con la percezione esterna le cose date, ecc.»11. Questa equiparazione tra percezione e conoscenza dei valori ci ricorda l’afferrare/percepire il valore (Wertnehmen) di Husserl12, da questi compreso come atto analogo alla percezione. Per lui l’afferrare il valore è l’atto con cui noi riconosciamo i valori e attraverso il quale si formano i valori, proprio come le cose fisiche sono costituite dalla percezione, con la differenza 11.  SeW, pp. 467-468. 12.  Husserl dedica molte pagine delle sue lezioni su etica e dottrina dei valori alla tipicità del Werten e del Wertnehmen (valutare e afferrare i valori). Lì spiega come il Werten, che significa desiderare, aver piacere e volere, vada considerato e posto alla stregua degli atti della ragione, ovvero percezione e pensiero. Infatti, l’essere umano è capace, secondo il padre della fenomenologia, di avere un immediato coglimento dei valori, o meglio di oggetti carichi di una stratificazione di valori che si danno a noi mediante il sentire. Cfr. E. Husserl, Lineamenti di etica formale. Lezioni e la teoria dei valori del 1914, a cura di P. Basso e P. Spinicci, Le Lettere, Firenze 2002.

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che l’afferrare il valore è un atto del soggetto senziente fondato nella percezione13. Husserl concepisce i valori come oggetti fondati, perché negli atti di valore appaiono non solo gli oggetti-valore, cioè oggetti che hanno un valore, ma anche i valori in quanto tali. Allo stesso modo, Scheler condivide l’opinione che la “datità” di una cosa nel campo teoretico valga analogamente anche per i valori. Tuttavia egli opera una sorta di gradazione di questa datità: in primo luogo incontriamo i beni portatori di valori e, in un secondo momento, i valori che percepiamo nei beni14.

1.3. I diversi significati del bene. Le tre categorie della significatività I valori possono essere riconosciuti, dunque, attraverso il prendere coscienza del valore. Il prossimo passo sarà quello di chiederci quali siano le reazioni che da essi possono sorgere nel soggetto. Che cosa succede quando si riconosce qualcosa di buono? Si viene toccati ipso facto da questo bene? No, perché non tutto l’essente (da Hildebrand inteso come qualcosa di esistente 13.  Cfr. F. Fabbianelli, voce Wert, in H.-H. Gander (a cura di), Husserl-­ Lexikon, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 2010, pp. 311-313: p. 311. 14.  Il paragone tra sentire e percepire i valori si sviluppa in Scheler come tentativo di una fondazione dell’etica come materiale e a priori. La sfera dei sentimenti e con essa dei valori possiede una sua identità ed è caratterizzata da un proprio contenuto che si dà in maniera del tutto chiara ed evidente proprio come gli oggetti percepiti lo sono mediante atti teoretici. «La percezione affettiva, il preferire ed il posporre, l’amare e l’odiare hanno nello spirito un loro contenuto a priori specifico che è indipendente dall’esperienza induttiva come lo sono le pure leggi del pensiero. Nell’uno e nell’altro ambito sussiste una intuizione eidetica degli atti e delle loro “materie”, dei loro rapporti di fondazione e delle loro correlazioni» (M. Scheler, Il formalismo, cit., p. 94).

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e reale in contrapposizione all’errore o all’illusione), ossia ciò che abbiamo davanti a noi attraverso l’esperienza come oggetto, provoca in noi una risposta affettiva o muove la nostra volontà. Solo una cosa buona o cattiva può farlo, e questo perché essa ha una certa significatività per noi. «Un oggetto deve essere dotato di una sorta di significatività, deve essere privo di mera neutralità o indifferenza per motivare la volontà o una qualche risposta affettiva»15. Questa “neutralità” vale probabilmente solo per me e comporta che la sola significatività non sia ancora valore; solo quando ci troviamo di fronte a una significatività oggettiva, come abbiamo precedentemente illustrato, con qualcosa che rappresenta ciò che è per sé piacevole, possiamo parlare di un valore. Considerando che ciò che è soggettivamente soddisfacente può essere fonte della mia felicità, allo stesso modo del valore, la differenza tra le due forme di significatività si rivela nel fatto che, nel primo caso, la nostra felicità è il principium (il fattore determinante) e la significatività il principiatum (il fattore definito): la mia gioia per la visita di un amico è determinata dalle cose piacevoli associate alla sua visita. Ma nel caso del valore, è il valore il principium e la felicità il principiatum, poiché è la felicità il fenomeno che accompagna il valore e non il suo proprietario. Un valore «parla con la forza dell’oggettività, rivendicando un diritto maestoso, che non possiamo mutare con i nostri desideri»16. Con questa frase Hildebrand esprime la completa indipendenza dei valori dal soggetto che conosce e sente. I valori sono entità in sé, esistono indipendentemente dal fatto che li riconosciamo o li sentiamo; essi esigono una risposta

15.  E, p. 30. 16.  E, p. 44.

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che supera il semplice interesse che si può avere nel soggettivamente soddisfacente. Questo potrebbe portare a un certo imbarazzo dell’io, perché la nostra relazione con i valori non sarebbe completamente libera. Naturalmente, siamo liberi di rispondere o meno, o di dare una risposta adeguata o inappropriata. L’esigenza dei valori – come spiega Hildebrand – è discreta, contrariamente a quella soggettivamente soddisfacente, che può fuorviare il nostro io e condurci ad azioni non libere. Tuttavia, non ci è data una libertà nel senso di poter scegliere tra due cose, poiché una risposta al valore falsa o addirittura mancante porta a una disarmonia oggettiva nella persona che rimane, così, in debito di fronte al valore17. Questa disarmonia oggettiva è frutto appunto di una risposta inadeguata data a un bene carico di valore. Supponiamo, ad esempio, che qualcuno contesti il talento musicale di Beethoven: in questo caso ciò sarebbe una risposta inadeguata al dato di fatto «Beethoven è un musicista», poiché la bellezza oggettiva18 e il potenziale delle sue composizioni ci chiamerebbero in causa, indipendentemente dalla

17.  Sotto questo profilo è possibile, secondo Hildebrand, riconoscere differenti relazioni dell’essere-dovuto, a seconda dell’altezza del valore: «Non possiamo restare indifferenti e non toccati dinanzi al valore di un oggetto; evidentemente, tanto meno quanto più elevato è il valore» (E, p. 262). 18.  A questo riguardo troviamo un’interessante interpretazione in Crosby, il quale ritiene che la bellezza sia praticamente ciò che Hildebrand intende quando parla di valore nel senso di qualcosa che è in sé significativo. Con ciò egli non vuole dire che secondo Hildebrand tutti i valori siano estetici, perché questi non sarebbe d’accordo; piuttosto tutti i valori sono caratterizzati dalla bellezza. «Questo è il motivo per cui la profonda esperienza di un valore [Wertfühlen] sempre conferisce una qualche forma di gioia nella persona esperiente; è la gioia che solo il bello può conferire» (J.F. Crosby, Dietrich von Hildebrand. Master of Phenomenological Value-Ethics, in J.J. Drummond L. Embree [a cura di], Phenomenological Approaches to Moral Philosophy, Kluwer, Dordrecht 2002, pp. 475-496: p. 478).

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sensibilità verso la sua musica o dall’interesse personale. Allo stesso modo, nel caso di un omicidio, non potrebbe esserci contraddizione tra il sentimento soggettivo di sicurezza nel trovarsi a distanza dal misfatto e il rifiuto oggettivo della cosa in sé, cioè l’omicidio. Per Hildebrand, i valori possono essere percepiti in modo chiaro e inequivocabile nella loro obiettività nella misura in cui esigono una risposta determinata e dovuta. La domanda sulla verificabilità di ciò apre la grande questione del relativismo dei valori sostenuto da molti, così come la questione sulla relazione tra valori e sentimenti19 tornata da anni alla ribalta; ma questo discorso si allontanerebbe troppo dal contesto del presente lavoro, quindi lo lasciamo da parte rimandando all’Ethik20 di Hildebrand. A questo punto dovrebbe essere chiara la differenza tra il valore e il soggettivamente soddisfacente dal punto di vista della risposta richiesta. Ma non è tutto qui, esiste infatti una diffe19.  Holmer Steinfath rinvia alla relazione problematica tra valori ed emozioni, nello specifico riferendone tre posizioni contrarie: da una parte, nel realismo fenomenologico di Scheler (e con lui si potrebbe considerare anche quello hildebrandiano) si vede il problema di dover postulare delle entità che non trovano alcun posto nelle scienze moderne per concepire i valori come autonome caratteristiche morali degli oggetti; dall’altra parte, sembra che neanche l’emotivismo di Ayer ci restituisca una migliore spiegazione, se giudizi di valore vengono considerati come punti di vista soggettivi di carattere emotivo e quindi i valori come loro proiezione sul mondo, perché così si perde del tutto la pretesa di oggettività; una terza possibilità la offrono le concezioni valoriali disposizionali, secondo le quali una cosa possiede valore quando è capace di suscitare nel suo osservatore una determinata reazione emotiva. Qui il pericolo è di scivolare in infinite discussioni chiarificatorie circa la giustezza o meno di un valore. Cfr. H. Steinfath, Emotionen, Werte und Moral, in S.A. Döring - V. Mayer (a cura di), Die Moralität der Gefühle. Deutsche Zeitschrift für Philosophie, Akademie, Berlin 2002, pp. 105-122. 20.  E, parte I, cap. II, pp. 80-111, e parte II, cap. I, § 18, pp. 255 ss.

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renza qualitativa tra i due, che Hildebrand riporta a una distinzione essenziale. Il significativo in sé richiama in noi qualcosa di diverso dal soggettivamente soddisfacente, qualcosa che non è realmente paragonabile, così da considerare per esempio uno di rango superiore e l’altro inferiore. L’intrinsecamente significativo contiene un’oggettività in sé e per sé ed è indipendente dal singolo individuo; il soggettivamente soddisfacente, invece, porta in sé solo il carattere del piacevole o del soddisfacente per me e quindi dipende da me. Entrambi rappresentano due aspetti diversi, entrambi riguardano la singola persona, ma non sono entrambe riconducibili a un comune denominatore. Se confrontiamo la gioia che proviene dalla vista di un tramonto con la piacevole sensazione di un bagno caldo in una serata d’inverno, notiamo immediatamente che una differenza di grado (la gioia del tramonto ha un livello superiore della piacevole sensazione del bagno), non è appropriata a cogliere veramente la differenza tra queste due esperienze. Qui si tratta di una differenza sostanziale piuttosto che graduale21. Tuttavia la suddivisione categoriale del bene in valore e soggettivamente soddisfacente non esaurisce tutte le sue possibi21.  Che la bellezza della natura – qui esemplificata dal tramonto – sia a disposizione di tutti gli esseri umani, ovvero indistintamente se abbiano un certo statuto sociale o particolari caratteristiche personali, mentre un bagno caldo dipenda indubbiamente dal fatto di avere un’adeguata abitazione che lo permetta, esprime ciò che Hildebrand definisce differenza sostanziale. Josef Seifert chiarisce ulteriormente la cosa, affermando che il soggettivamente soddisfacente è differente dal significativo in sé per una gradazione differente. Il primo «implica soltanto una uguale gradazione quantitativa del più e del meno nella forma dell’intensità, o una gradazione qualitativa tra fisico e psichico o più profondo e più superficiale piacere. Questo grado di attrazione soggettiva è, però, assolutamente diverso dalle gradazioni di valore» (J. Seifert, Dietrich von Hildebrands philosophische Entdeckung, cit., pp. 34-58: p. 41).

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lità, poiché similmente alle significatività sopra menzionate, anche il bene oggettivo per la persona, che si presenta come terza categoria di significatività22, si appella al singolo. Questa categoria è qualcosa di oggettivo, come il significativo in sé, ma allo stesso tempo è orientata al soggetto, presume il valore, pur non confondendolo con esso. La categoria della significatività gioca un ruolo molto importante nell’amore, perché l’amante ha sempre davanti a sé il bene oggettivo dell’altro/a, ma ciò non significa che nel realizzarlo agisca moralmente bene. E ciò ha delle implicazioni per le categorie di significatività e per i conflitti etici, da cui l’amore non è esente quando si trova di fronte a due interessi: il bene oggettivo per l’amato/a – o quanto l’amante ritiene tale – e il bene oggettivo in generale, cioè il valore. Una persona che non si orienta né all’uno né all’altro, ma esclusivamente al soggettivamente soddisfacente, è incapace di amare, poiché vede solamente se stesso/a e le proprie esigenze. In sintesi, possiamo concludere che, secondo Hildebrand, ci sono tre diverse categorie di significatività, che attivano la nostra volontà e tutte le nostre risposte affettive: il soggettivamente soddisfacente, il bene oggettivo per la persona e l’intrinsecamente significativo o valore, ma quest’ultimo ha una sua centralità e potremmo dire un rigore che va ancora approfondito.

22.  Essa si presenta come terza, a paragone con le altre, anche nel più stretto significato dello sviluppo del pensiero di Hildebrand. Le prime due categorie sono state, infatti, da lui sviluppate già in Idee der sittlichen Handlung. Il bene oggettivo per la persona è stato, invece, tematizzato solo più tardi in Sittlichkeit und ethische Wertekenntnis. Cfr. J. Seifert, Dietrich von Hildebrands philosophische Entdeckung, cit., pp. 34-58.

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2. Il mondo dei valori La prima caratteristica fondamentale e decisiva dei valori è la loro connessione con l’Essere23. I valori possiedono, a motivo della loro necessità e intelligibilità, le proprietà dell’essere che si riscontrano in tutti gli essenti. Gli atti di amore o di giustizia, indipendentemente dalle loro motivazioni, sono buoni in sé e il valore di questi atti è presente negli atti stessi o nelle azioni. «I valori si dimostrano esplicitamente come esistenti e sono indipendenti dal nostro desiderio e dalla volontà»24. I valori sono quindi significativi in se stessi e distinguibili dal bene oggettivo per la persona, sebbene esistano molte connotazioni comuni tra i due e l’oggettivamente buono, che è in sé qualcosa di positivo, un valore indiretto. Più importante ancora di questa differenza è l’affermazione di Hildebrand secondo cui il valore rappresenta un dato originale, così come l’essenza, l’esistenza o la conoscenza, e non è riducibile a nient’altro25.

23.  Hildebrand concepisce l’Essere in relazione alla più semplice e fondamentale definizione del medesimo: essere è ciò che si definisce attraverso i tre principi (di identità, di non contraddizione e del terzo escluso), ovvero: 1) come con se stesso identico; 2) come ciò che allo stesso tempo e nel medesimo senso può essere e non essere; 3) come qualcosa che non può essere o non essere. Tuttavia, Hildebrand parla prevalentemente di esser-così come modo dell’essere dell’essente o sua essenza e di esser-ci come l’essere attualmente esistente. Cfr. J. Seifert, Die verschiedenen Bedeutungen von “Sein”. Dietrich von Hildebrand als Metaphysiker und Martin Heideggers Vorwurf der Seinsvergessenheit, in B. Schwarz (a cura di), Wahrheit, Wert und Sein. Festgabe für Dietrich von Hildebrand zum 80. Geburtstag, Habbel, Regensburg 1970, pp. 301-332. Di più su questo tema infra, cap. V, § 3. 24.  E, p. 92. 25.  E, p. 113. Qui Hildebrand si avvicina a Scheler che assegna al valore lo stesso carattere della non-riconducibilità o della originarietà primaria (cfr. M. Scheler, Il formalismo, cit., pp. 32-45).

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Lo scetticismo e il dissenso non sono motivi validi per un relativismo dei valori, poiché, anche se tutti condividessero una certa opinione, questa potrebbe comunque essere erronea; e il fatto che pochissimi comprendano una certa verità, non la cambia o non ne diminuisce l’obiettività. I più grandi presupposti morali che fondano la conoscenza del valore e sono necessari ad esso potrebbero far pensare che i valori siano qualcosa di relativo. La comunità in cui cresci svolge certamente un ruolo fondamentale nelle questioni etiche e realmente facciamo esperienza di culture e ambienti eticamente diversi. Ma ciò non deve portare a un relativismo, perché i valori si collocano come entità necessarie al di là di tutte le invenzioni o le finzioni. Si potrebbe integrare questa visione estendendo il concetto dell’oggettivamente buono per la persona ad altre entità costituite da persone, come una nazione o un ambito culturale. Secondo Hildebrand, all’interno dei valori esiste un’altra distinzione essenziale, quella tra valori ontici e valori qualitativi. Innanzitutto è palese che i valori ontici non indicano disparità opposte, come è probabilmente il caso dei valori morali. La vita umana, secondo Hildebrand, è preziosa in sé e ciò è indiscutibile come principio. La situazione è diversa per valori quali la giustizia, l’umiltà, la purezza, ecc., che si possono invertire in un contro-valore. Questi valori, al contrario dei valori ontici, intrattengono una relazione di autonomia rispetto al loro portatore (un qualunque essente) e al suo atteggiamento. Le differenze possono essere anche rappresentate nella relazione verso Dio e verso l’essere umano: i valori ontici riflettono Dio secondo il loro carattere di immagine ontica, mentre i valori morali riflettono un aspetto di Dio, comune anche all’essere umano. Da parte sua, però, quest’ultimo non ha la stessa relazione con i propri valori ontici e morali. I valori ontici di una persona sono una componente fondamentale dell’essere, sono tipici suoi, e non possono andar persi: soltanto l’esserci di una persona li porta all’esistenza. I valori

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morali, però, non esistono semplicemente perché esiste il loro portatore; essi vengono in vita solo quando esiste un atteggiamento particolare. Questo si basa sul fatto che i valori ontici non conoscono una gradazione di misura, mentre i valori qualitativi sì: una persona può ad esempio essere più equa o più generosa di un’altra; non può invece aumentare il proprio valore ontico come persona, perché ciò non ha una misura di confronto. Allo stesso modo è chiaro che i valori ontici non si realizzano se la persona umana viene annullata; i valori morali diventano reali attraverso l’atteggiamento libero della persona e cessano di essere reali quando la persona preferisce altri atteggiamenti. Quando una persona si comporta onestamente al lavoro, il valore dell’onestà diventa reale attraverso questo suo atteggiamento; se a un certo punto non ammette un proprio errore di fronte ai colleghi, il valore dell’onestà in lei smette di essere reale. Ciò significa che i valori rappresentano un essente in sé26 anche se il loro Essere può venir realizzato o meno; essi divengono dunque reali o vengono all’esistenza se la persona li riconosce e li incarna nel proprio atteggiamento. Questo entra in conflitto con la concezione hildebrandiana per la quale i valori sono un essente, perché come essenti non possono essere modi di essere, mentre l’essere reale è un modo di essere27.

26.  In ciò la concezione hildebrandiana sembra differenziarsi da quella husserliana secondo la quale i valori non rappresentano alcun essente. Per Husserl si ha qui in mente soltanto un “riferito all’essere o al non-essere” e non un essente stesso. Questa sottile distinzione poggia secondo noi sulla concreta difficoltà di concepire i valori come identità autonome, che però non sono oggetti, perché non le si riesce a cogliere in modo teoretico. Mentre Husserl cerca di aggirare tale difficoltà riconoscendo i valori come oggetti, ma riferiti all’essere, Hildebrand, invece, ritiene di doverli riconoscere come essenti in se stessi, perché altrimenti non potrebbero “attaccarsi” all’essente. In effetti, queste due posizioni non sono, però, in contraddizione tra di loro. 27.  Cfr. la distinzione di Hartmann tra idealità e realtà come modi dell’essere: N. Hartmann, Ethik, de Gruyter, Berlin 1962.

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Tipica dei valori qualitativi è la polarità tra valori e disvalori, secondo la quale una cosa non può avere contemporaneamente due valori opposti. Si può parlare di esclusività per dimostrare come un determinato valore ne esclude un altro, così che una persona non può avere due valori opposti contemporaneamente. Esempi di questa esclusività sono esistenza/non-esistenza oppure vero/falso, nonché tutte le forme di antitesi che cercano di ottenere una sintesi più elevata e sono chiaramente qualificate da un’esclusività. Importante e decisivo per la nostra analisi è il rapporto tra il bene e l’essere. Per Hildebrand, l’inderivabilità dell’uno dall’altro è evidente, poiché la semplice esistenza di qualcosa non ci dice nulla sul suo valore, sia esso buono o cattivo; ci si può concentrare sull’essenza di un essere senza dover far ricorso alla questione del valore. Questo è il caso delle scienze naturali, che indagano sulla materia, senza mettere in discussione se sia buona o meno. Il fatto che una determinata persona esista e possa essere un collega di lavoro, non mi dice nulla sul suo valore/disvalore come persona. Ma che il collega esista, è già un valore in sé, cioè la pura esistenza di un essere ha un valore, ed è preziosa rispetto alla non esistenza. Questa relazione di esistenza/non-esistenza è circoscritta per Hildebrand all’esistenza reale di un essente e la non esistenza a un errore o a un’illusione. Questo valore dell’essere-qualcosa è un valore formale e non un valore ontico o qualitativo degli esseri e può venir compreso solo attraverso l’astrazione. Se, però, l’essere non ha valori ontici o qualitativi, esso è neutrale per noi e non rispondiamo al suo valore. Allo stesso modo, il valore stesso è essere, poiché non si potrebbe aggiungere nulla a un essere che, a sua volta, non sia esso stesso essere. Secondo Hildebrand ciò fa parte di un mistero e purtroppo non troviamo ulteriori spiegazioni nell’ambito delle sue analisi. Ciò ovviamente pone ulteriori domande, poiché ci sono molte cose

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che esistono o sono realmente esistite e non rappresentano qualcosa di buono; il tentativo di risposta di Hildebrand con la definizione della neutralità dell’essere esistente – anche non avendo particolari valori ontici o qualitativi – sembra debole e filosoficamente infondata. La visione della positività dell’esistente riporta alla suddivisione metafisico-ontologica dell’antica Grecia tra realtà più perfetta e meno perfetta, dove l’essere e l’esistente possiedono un di più rispetto al non essere e alla non esistenza, pensati in relazione alla sostanza28. Tuttavia la comprensione del valore non implica necessariamente la perfezione. Il fatto che qualcosa sia significativo in sé, indipendentemente dal singolo soggetto che lo percepisce, non significa che sia necessariamente più perfetto di altro o che lo debba essere29. Inoltre, troviamo una distinzione che Hildebrand fa tra i valori in generale quali significatività oggettiva e i valori morali, di cui tratteremo in dettaglio nel prossimo paragrafo. Invertendo il tutto e guardandolo da un’altra prospettiva, cioè osservando il valore in sé, scopriamo che non solo esso esiste, ma che è necessario che esista. Poiché il valore è qualcosa di significativo in sé, deve esserci. In questo senso possiamo supporre, come pensa Hildebrand, che l’esistente sia più prezioso dell’inesistente, «perché l’esistenza di tutto ciò che ha valore, è essa stessa portatrice di un valore»30. Il problema rimane comunque irrisolto e richiede ulteriori riflessioni.

28.  Intendiamo per sostanza ciò che è compreso nella classica definizione aristotelica, ovvero ciò che sta a fondamento, o l’individuum, al quale in modo necessario appartengono l’essere/l’esistere o il non poter non esistere. Cfr. Aristotele, Metafisica, cit., libro Z. 29.  J. Seifert, Die verschiedenen Bedeutungen von “Sein”, cit., pp. 311 ss. 30.  M, p. 66.

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3. Valore e moralità Vogliamo osservare ora più da vicino i valori morali, perché essi includono le risposte al valore delle quali una è l’amore. Il primo prerequisito di un discorso sui valori morali è la persona, infatti: «Non potremo mai attribuire bontà o cattiveria morale a un essere a-personale. Nessun corpo materiale, nessuna pianta o animale possono essere buoni o cattivi»31. Solo persone reali con le loro attitudini e le loro azioni possono essere cattive o buone32 e possono esserne ritenute responsabili perché possono decidere consapevolmente. La capacità di decisione consapevole davanti a un’azione include la libertà della volontà, perché senza libertà non può esserci responsabilità e senza responsabilità non c’è distinzione tra colpa e merito. Secondo Hildebrand, il mondo dei valori morali è dunque inimmaginabile e inspiegabile senza libertà. La persona è in grado di essere buona o cattiva, o di prendere decisioni buone o cattive, semplicemente perché è libera. Ma non solo la libertà fonda i valori, anche la coscienza morale33 esercita

31.  E, p. 177. 32.  Su questo punto le posizioni di Hildebrand e Scheler sono in accordo: anche per quest’ultimo, infatti, esiste un bene solo in riferimento all’essere umano e ne Il formalismo si esprime in tal modo: «in quanto tali i valori etici sono, invece, in primo luogo, valori i cui portatori non possono mai presentarsi (originariamente) come “dati”, esprimendo essi per propria essenza forme personali e dell’atto» (M. Scheler, Il formalismo, cit., p. 118). 33.  Hildebrand non definisce la coscienza morale come una categoria ufficiale dell’etica, ma, prendendo in considerazione determinate situazioni dell’agire morale, nelle quali possiamo riconoscere di aver detto/fatto qualcosa di cattivo, perché ciò ha toccato la nostra coscienza morale, spiega come il ruolo di quest’ultima sia importante nell’etica. Dal suo modo di parlare della coscienza morale come di una “voce”, possiamo concludere che Hildebrand la intenda in senso piuttosto religioso. Per questo la cattiva coscienza è anche superabile solo mediante un’ammissione di colpa. Per esemplificare

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una funzione essenziale di correttivo in relazione alle nostre azioni34. I valori morali sono diversi dagli altri valori a causa della loro indispensabilità: non si può dire di essi che alcuni potrebbero esserci e altri no, come ad esempio nel caso dei valori intellettuali. I valori morali sono richiesti a ogni essere umano e una loro mancanza viene riconosciuta come tale; mentre la mancanza di valori intellettuali non è percepita allo stesso modo. Ad esempio, nessuno si aspetta che tutti gli esseri umani siano geni o grandi musicisti. Ecco perché Hildebrand scrive: Ciò che ha valore richiede un consenso, un disvalore richiede un rifiuto. Non fa parte della discrezione dell’individuo confrontarsi con esso, mentre il prendersene cura, dare una risposta giusta sì, perché i valori meritano da parte nostra un interesse, una risposta appropriata […]. Solo l’essere umano che comprende che ha in sé qualcosa di significativo […] è in che non si tratti del termine inteso in modo esclusivamente cristiano, porta l’esempio della tragedia greca di Clitemnestra. Importante è distinguere il fatto che la coscienza non deve dimostrare alcuna funzione conoscitiva in rapporto ai valori morali: la coscienza, piuttosto, presuppone la conoscenza dei valori moralmente rilevanti. Inoltre, ha solo un peculiare carattere “relativo”, nel senso che si riferisce esclusivamente a situazioni concrete. Sul tema, cfr. D. von Hildebrand, Situationsethik und kleinere Schriften, in Id., Gesammelte Werke, vol. VIII, Habbel-Kohlhammer, Regensburg-Stuttgart 1973, pp. 134-149. 34.  Si può essere anche “ciechi ai valori” e perciò non riconoscerli. Si tratta di una profonda ignoranza di alcune persone, in base alla quale esse prediligono spesso valori più bassi al posto di quelli più elevati agendo, così, in modo sbagliato. Anche in questo caso, però, Hildebrand distingue tra diversi casi di cecità al valore, ovvero: «1) la totale, costitutiva cecità al valore – che significa il completo venir meno di una comprensione per ciò che è “buono” e “cattivo” […]. 2) la parziale cecità al valore, nella quale la comprensione per il valore di base bene e male è presente, anche se in maniera un po’ primitiva, così come per certi tipi valoriali […]. 3) la pura cecità morale di sussunzione con la quale la comprensione per i singoli tipi valoriali è del tutto presente, non però, per ciò che è portatore di tali tipi valoriali» (SeW, p. 485).

108 grado di realizzare i valori morali nella propria persona. Solo l’essere umano che è capace di superare il proprio orizzonte soggettivo, che non si lascia avvincere dall’arroganza e dalla lascivia, che non domanda cos’è per me soddisfacente, ma piuttosto sa uscire dalle proprie ristrettezze e si dona a ciò che è intrinsecamente significativo, il bello e il buono, sottomettendovisi, può diventare portatore di valori morali.35

Proprio nella vocazione alla realizzazione dei valori morali sta la trascendenza dell’essere umano, in essa si rivela la relazione tra valori morali e Dio. Se l’essere umano è portatore di azioni morali, ci si può chiedere quali suoi atteggiamenti o attività possano veramente essere forieri di valori morali o quale relazione esista tra l’essere umano come portatore di valori morali e i valori stessi. Su questo fronte Hildebrand parla di «tre sfere principali della bontà morale»36. La prima è la sfera delle azioni37 ed è governata dalla volontà: ogni essere umano può cioè agire, può consapevolmente realizzare qualcosa e, a seconda di ciò che vuole realizzare, sia esso buono o cattivo, le sue azioni saranno di conseguenza, buone o cattive. La seconda sfera del bene morale riguarda le risposte della volontà, che non sfociano in azioni, come nel caso delle risposte e degli atti affettivi, perché rispondono solo ai valori. Con tali

35.  SG, p. 12. 36.  Cfr. SeW, pp. 355 ss. 37.  In Die Idee der sittlichen Handlung Hildebrand spiega la differenza tra azione, presa d’atto e presa di posizione, caratterizzando l’azione in questo modo: essa ha una coscienza fondante del contenuto e del suo significato, ovvero presuppone una presa d’atto del suo valore; a ciò fa seguito una presa di posizione di tale contenuto, ovvero il volere il medesimo, infine la realizzazione stessa del contenuto voluto. «Attraverso il nostro cogliere avviene un cambiamento oggettivo nel mondo […]. Per poter porre un’azione, non possiamo essere solamente strumenti di tale cambiamento, ma dobbiamo intendere il suo realizzarsi […]. Solo quando l’atto che genera il cambiamento è predisposto dalla nostra volontà, possiamo parlare di un’azione» (E, p. 359).

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risposte si sviluppa una relazione speciale con il bene portatore di un valore, a seconda del tipo di risposta al valore. La terza sfera della moralità consiste nelle qualità costanti del carattere di una persona, anche conosciute come virtù e vizi. In tale sfera la ragione non viene messa a tacere, come si potrebbe pensare; al contrario, per rispondere a determinati valori morali e sottomettermi ad essi, devo prima comprenderli e capire che sono ragionevoli. Senza un giudizio non potrei subordinarmi ai valori, perché essi non avrebbero senso per me. Così ragionevolezza e moralità non si escludono a vicenda38. I valori morali, tuttavia, richiedono dall’essere umano un di più nell’atteggiamento da assumere nei loro confronti che Hildebrand chiama atteggiamento morale di fondo (sittliche Grundhaltung)39. Per 38.  Ronda Chervin rileva questo aspetto della ragionevolezza dell’etica di Hildebrand come un carattere distinguente in rapporto all’etica nelle correnti esistenzialiste, che al contrario mostrano una tendenza a lasciare il soggettivo come non spiegabile e irrazionale (cfr. R. Chervin, The Valid Moments and von Hildebrand’s Value Philosophy, in B. Schwarz [a cura di], Wahrheit, Wert und Sein, cit., pp. 147-156). 39.  Josef Seifert si confronta con il significato dell’atteggiamento di fondo all’interno del sistema etico hildebrandiano, specialmente come contrapposizione all’opzione fondamentale come è intesa soprattutto dalle correnti di pensiero esclusivamente teleologico dell’etica. Tra l’altro, evidenzia le differenze tra: “posizione fondamentale” (Grundstellung), “intenzione fondamentale” (Grundintention) e “atteggiamento fondamentale” (Grundhaltung) ponendo quest’ultimo in relazione con le risposte e sostenendo che la “posizione fondamentale” è orientata all’essere generale del bene, mentre gli altri due sono relativi a contenuti individuali e concreti. In ciò si dimostra quanto essenziale sia l’affermazione di queste dimensioni assieme a quelle delle azioni come appartenenti alla persona, per ovviare ai rischi di un’etica esclusivamente teleologica. Cfr. J. Seifert, Grundhaltung, Tugend und Handlung als ein Grundproblem der Ethik. Würdigung der Entdeckung der sittlichen Grundhaltung durch Dietrich von Hildebrand und kritische Untersuchung der Lehre von der “Fundamentaloption” innerhalb der “rein teleologischen” Begründung der Ethik, in C. Breuer (a cura di), Ethik der Tugenden. Menschliche Grundhaltungen als unverzichtbarer Bestandteil moralischen Handelns, EOS, St. Ottilien 2000, pp. 311-360.

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atteggiamento morale di fondo si intende un atteggiamento amante del valore, in cui la questione del bene e del male gioca un ruolo centrale. Gli atteggiamenti morali di fondo sono «atteggiamenti che giustificano e fondano tutta la vita morale»40. Perché «l’anima di ogni buon comportamento morale è la dedizione all’oggettivamente valevole, è l’interesse a qualcosa che sia di valore»41. Queste parole esprimono chiaramente anche ciò che egli spiega in Moralia, vale a dire che i valori oggettivi costituiscono una chiara richiesta, non tuttavia da intendersi come dovere nel senso di Kant. Secondo Hildebrand, il termine e l’intera comprensione del dovere in Kant sono stati adombrati dalla riduzione del dovere al comportamento razionale o alla volontà soggettiva42. I valori moralmente significativi non sono però

40.  SG, p. 13. 41.  SG, p. 11. 42.  Nella Fondazione della metafisica dei costumi Kant si esprime così: «Un’azione compiuta per dovere riceve il suo valore morale non dallo scopo che si deve raggiungere per suo mezzo, ma dalla massima in base alla quale è stata decisa; tale valore non dipende dunque dalla realtà dell’oggetto dell’azione, ma esclusivamente dal principio della volontà in base al quale l’azione è stata compiuta, senza alcun riguardo per gli oggetti della facoltà di desiderare» (I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. di P. Chiodi, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 19-20). La differenza delle prospettive di Kant e Hildebrand sta fondamentalmente nella comprensione dell’a priori, perché per Kant tutto ciò che si fonda nel soggetto e nella sua ragione è a priori, mentre per Hildebrand esiste un a priori nell’oggetto stesso. È la spiegazione scheleriana di un’etica materiale dei valori, nella quale si riconosce un a priori ai valori, il cui luogo va ricercato nell’atto del sentire e non in un volere che conduce a una certa azione e con ciò a un giudizio di valore e a una conoscenza morale (cfr. M. Scheler, Il formalismo, cit., parte I, pp. 29-206). L’obbligo morale pone per Hildebrand già un dovere, anche se la chiamata di tale dovere viene dall’oggetto. «Kant ha riconosciuto il fenomeno del dovere in modo speciale, ma sfortunatamente non ha riconosciuto il significato dei valori significativamente morali sot-

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sempre «ragionevoli», anche se abbiamo affermato che razionalità e moralità non si escludono a vicenda. L’ordine di uccidere qualcuno ad esempio, mi mette nella posizione morale di eseguire o di rifiutare: uccidere una persona innocente è un disvalore, ma se rifiuto pago con la vita. In questa situazione sarebbe più ragionevole uccidere e non rischiare la propria vita. In questo caso il razionale non è morale proprio per l’obbligo morale43 di rispettare e preservare la vita di un altro/a, quindi per il valore dal lato dell’oggetto. Tutte le risposte concrete al valore su beni moralmente significativi sono pure attualizzazioni dell’atteggiamento di fondo. Inoltre, la risposta alla significatività morale o all’obbligo morale, che mi si presenta come fenomeno dal lato dell’oggetto, è profondamente correlata al mondo dei valori morali. Il “Tu devi” e il “Tu non devi” sono profondamente radicati nel valore del bene morale e nel disvalore del male morale.44

Per questo motivo Hildebrand rifiuta la visione di Kant circa la dimensione dell’obbligo, perché ciò riduce il problema al lato del soggetto e trascura l’importanza del valore moralmente significativo dal lato dell’oggetto. Anche Husserl e Scheler criticano l’estremo peso dato da Kant al dovere o alla dimensione del dover-essere, come pure al presupposto della ragione assoluta come base dell’etica. Con ciò entrambi sostengono che la comprensione kantiana della dito il profilo oggettivo. Con ciò, l’imperativo categorico è stato derubato del suo fondamento» (M, pp. 36-40). Cfr. anche M. Scheler, Il formalismo, cit., cap. IV: Etica dei valori ed etica imperativa, pp. 207-296. 43.  Questa espressione viene da Hildebrand favorita a quella di “dovere”, per evitare che la significazione limitata del termine sviluppato da Kant venga anche traslata alla sua comprensione del dovere. «Preferiamo parlare di obbligo morale piuttosto che di dovere poiché questo termine ha ricevuto con Kant un particolare “sapore collaterale”» (M, p. 39). 44.  M, p. 41.

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mensione obbligatoria e il fraintendimento riguardo agli atti affettivi non servano come fondamento dell’etica45.

4. La risposta al valore 4.1. Distinzione fra risposte e atti cognitivi: la risposta al valore Per osservare più da vicino la natura della risposta al valore e caratterizzarla, è necessario concentrarsi sul rapporto tra persona e oggetto in quanto poli delle azioni e delle risposte morali. All’interno della sfera della coscienza si possono distinguere due tipi di esperienza, le esperienze intenzionali e quelle nonintenzionali; le prime includono una relazione consapevole e razionale tra la persona e l’oggetto dell’esperienza. In un’espe-

45.  Scheler esplicita, a conferma di questa tesi, quattro punti: 1. l’elevazione unilaterale a dovere della costrizione verso tutto ciò che si fa in me presente, pur essendoci due aspetti della costrizione; 2. la necessità proviene da un cieco comando interiore; 3. questo comando si dovrebbe distinguere da comandi esterni, senza con ciò divenire autoritario rispetto agli altri; 4. il dovere ha solo il carattere negativo del divieto. Cfr. M. Scheler, Il formalismo, cit., cap. IV: Etica dei valori ed etica imperativa, pp. 207-296. Husserl critica in vari momenti l’etica kantiana, specialmente nelle sue lezioni sull’etica. Per lui gli errori più significativi da parte di Kant consistono nei presupposti di una legge pratica che si fonda soltanto su un essere di ragione e il misconoscimento dell’a priori nei sentimenti, i quali seguendo il metodo fenomenologico si lasciano riconoscere. «Non è possibile, però, dice Kant, conoscere a priori da nessuna rappresentazione di un qualunque oggetto, se questo sarà legato al piacere o al dispiacere oppure se ciò gli sarà indifferente […]. Di conseguenza, una regola diretta all’oggetto del desiderare può avere solo il carattere di una massima soggettiva» (E. Husserl, Introduzione all’etica. Lezioni del semestre estivo 1920/1924, tr. it. di N. Zippel, a cura di F.S. Trincia, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 199-200). Questo misconoscimento della misura legale dell’essenza della sfera dei sentimenti porta a un sensualismo che Kant ancora mantiene, nonostante combatta l’eudemonismo (cfr. ivi, § 42-45, pp. 198 ss.).

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rienza intenzionale si sarà completamente concentrati su ciò di cui si è preso atto; ad esempio, se siamo stanchi o irascibili, il più delle volte non abbiamo alcuna relazione diretta46 con l’oggetto o l’evento che potrebbe aver causato in noi questa condizione; se invece abbiamo una convinzione, siamo in stretto collegamento con l’oggetto/evento che l’ha motivata e di cui siamo convinti. Entrambi i tipi di esperienza hanno una causa, ma se volessi cercare la causa della mia stanchezza, nulla cambierebbe riguardo al mio stato, ovvero il mio stato non cambia a causa della relazione consapevole con la causa. All’opposto, se conosco la causa della mia gioia, questo cambierà molto in me, poiché implicherà necessariamente un rapporto con il particolare oggetto che l’ha causata. Tuttavia, si può obiettare che non è sempre come pensa Hildebrand, il quale riguardo alla risposta sulla gioia sostiene che «la gioia è risposta a un oggetto. Noi acquistiamo un atteggiamento positivo verso un oggetto, ci avviciniamo ad esso con un certo contenuto positivo, quale risposta al significato positivo dell’oggetto»47. Spesso, però, si sperimenta la gioia come uno stato, cioè come esperienza non intenzionale e non come risposta a qualcosa di determinato. Il motivo di una domanda del tipo: “sei felice?” non deve necessariamente corrispondere a un’occasione specifica che rende la persona felice. In altre parole: posso rallegrarmi di qualcosa, e in questo senso ci può essere un certo nesso con l’oggetto della mia gioia, senza la quale non proverei alcuna gioia, oppure la gioia non sarebbe 46.  Questo non esclude che viviamo la stanchezza o l’irritabilità come rivolte a oggetti diretti e concreti. Posso essere provata dopo una giornata di lavoro o perché facendo sport mi sono molto stancata: in questo caso la mia stanchezza ha un rapporto diretto con il carico di lavoro o con lo sport. Posso, però, anche essere stanca a fine giornata senza sapere esattamente da dove venga la mia stanchezza, perché ne avrei diversi motivi. E pure se lo sapessi, la cosa non diminuirebbe né aumenterebbe la stanchezza stessa. 47.  E, p. 204.

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giustificata, ma posso provare gioia anche senza sapere cosa l’ha causata, cioè senza una relazione intenzionale con un determinato oggetto o evento, come dimostra l’esempio della stanchezza. Non tutte le esperienze intenzionali sono risposte48, ma possono anche essere atti cognitivi, pur se risposte e atti cognitivi palesano una «profonda differenza nella natura della loro intenzionalità»49. Una distinzione tra i due si rivela necessaria nella demarcazione della sfera della moralità. Gli atti cognitivi comprendono la percezione come percezione sensoriale, nonché la percezione dello spazio e dei corpi materiali, delle persone e dei loro valori. Al contrario chiamiamo risposte le esperienze come la fede, le convinzioni, l’amore, l’odio, la fiducia o la sfiducia, ecc. Entrambe le categorie sono intenzionalmente contraddistinte, sebbene la loro intenzionalità abbia una differenza: gli atti cognitivi sono accompagnati dalla coscienza di un oggetto, cioè, il contenuto è dalla parte dell’oggetto. Ma quando sperimentiamo gioia o amore, il contenuto è dalla parte del soggetto, non come coscienza di un oggetto, ma come entità in sé consapevoli. Ad esempio, cogliamo il colore viola dello scaffale di fronte a noi, abbiamo una consapevolezza del suo colore, noi stessi però non siamo viola. Quando invece amiamo qualcuno, siamo pieni di quell’amore: l’oggetto del nostro amore ci sta davanti, ma la risposta dell’amore che ci riempie non è nell’amato/a, come nel caso del colore dello scaffale. Un’altra differenza è il movimento intenzionale che nel caso degli atti cognitivi è indirizzato dall’oggetto al soggetto, men48.  Esse vanno, però, concepite allo stesso modo che gli atti. Quando Hildebrand parla di vissuti intenzionali, intende atti anche se si lasciano poi distinguere in atti e risposte. 49.  E, p. 206.

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tre nel caso delle risposte procede dal soggetto, pertanto si può presumere che gli atti siano più ricettivi, sebbene non del tutto passivi, e che le risposte abbiano più probabilità di una natura spontanea. Esiste anche una relazione tra i due tipi di esperienza, nel senso che tutte le risposte richiedono un atto cognitivo: per poter rispondere a un oggetto, devo prima conoscerlo. «Il contatto principale con l’oggetto avviene sempre attraverso un tipo o l’altro di atto cognitivo»50. All’interno delle risposte si possono quindi distinguere alcuni tipi basilari, vale a dire che distinguiamo tra “risposte teoretiche”, “risposte della volontà” e “risposte affettive”. Le risposte teoretiche riguardano fondamentalmente la conoscenza, ma da parte del soggetto che qui esprime la sua esplicita affermazione sul contenuto dell’oggetto mediante la parola. Fondamentalmente, attraverso queste risposte, noi confermiamo ciò che gli atti cognitivi hanno portato alla nostra attenzione, confermando, per così dire, la loro esistenza o non esistenza. Per risposte della volontà Hildebrand intende le risposte «che diamo a uno stato di cose non realizzato, ma che può venire realizzato»51. Queste risposte non riguardano la verità di un oggetto, ma la sua rilevanza: se un oggetto è insignificante per noi, la nostra volontà non sarà motivata a dargli una risposta adeguata o desiderarne la realizzazione. Anche le risposte affettive presuppongono la significatività di un oggetto e «vi si rivolgono con la parola che assegnano all’oggetto»52. Qui la parola può essere intesa come espressione della risposta all’oggetto che non ha una connessione

50.  E, p. 207. 51.  E, p. 210. 52.  E, p. 212.

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diretta con ciò che si intende normalmente come parola, ma nel contesto delle opere di Hildebrand può essere interpretata come una proprietà o caratteristica dell’oggetto. Nella parola si esprime qualcosa che corrisponde pienamente all’oggetto e solo ad esso. La parola potrebbe essere vista in questo senso come l’unicum che rende qualcosa inconfondibile. Nelle risposte affettive, a differenza delle risposte teoretiche, il tema è affettivo piuttosto che noetico, tuttavia esse non si concentrano su fatti non ancora realizzati, ad eccezione di alcune risposte, come “il desiderare” o “lo sperare” che si concentrano su qualcosa che non è ancora reale. Più decisiva invece è la pregnanza affettiva che portano in sé come «voci del nostro cuore»53. Ci sono risposte affettive che possono essere sia personali che a-personali, come gioia, imbarazzo, rabbia, dispiacere, ecc.; altre si concentrano esclusivamente sull’essere personale come l’amore, l’odio e la venerazione. Sicuramente si può amare un animale o un paese, ma l’amore autentico e totale si sviluppa nella relazione verso una persona; le altre sono considerate da Hildebrand forme inferiori o comunque solo simili all’amore54. Un’esperienza particolare nell’ambito delle risposte affettive sta in quello che Hildebrand chiama l’essere coinvolti (affi53.  Hildebrand critica in questo punto tutte quelle posizioni filosofiche che misconoscono il modo d’essere spirituale e intenzionale delle risposte affettive, concependole come passioni, ovvero nella sfera del non spirituale e dell’irrazionale. Esempi in tal senso sono per lui Aristotele e Tommaso, che le hanno concepite come appetitus o atti della volontà. 54. Cfr. EA, p. 85: «L’amore nel senso più proprio e immediato è quello verso un’altra persona o l’amore per l’altro. L’amore verso entità impersonali, come l’amore per una nazione, per la patria, per una terra, per un’opera d’arte, per una casa, e via dicendo, è già qualcosa di analogo, seppure assai meno lontano dall’amore autentico di quanto non lo sia l’amore per sé».

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ziertsein), cioè il profondo essere toccati da qualcosa, come ad esempio nell’emozione suscitata ascoltando una musica meravigliosa. In tale esperienza il movimento è diretto dall’oggetto verso di noi e non viceversa, come nelle risposte affettive; «quando l’oggetto affetta la nostra anima, riceviamo, “subiamo” qualcosa. Non così con la risposta che ha un carattere spontaneo e attivo, pur riconoscendo che quanto vediamo nell’oggetto presuppone una sua conoscenza e dipende dall’essere […]. Parliamo per così dire all’oggetto, mentre nel venire coinvolti quello che riceviamo è solo la parola dell’oggetto»55. Qual è la relazione tra l’essere coinvolti e la risposta affettiva? Sebbene rappresentino due momenti diversi, come abbiamo detto, esiste tuttavia una stretta relazione tra loro, perché l’essere affetti precede la risposta affettiva: l’incanto di un brano musicale in noi è sempre la prima esperienza. Soltanto quando ciò accade, l’ammirazione o l’entusiasmo per la musica può trovare spazio in noi, come una risposta personale a questo oggetto. Per spiegarlo in termini di motivazione si potrebbe dire: venire toccata dalla musica provoca in me una risposta affettiva. La motivazione di una risposta può essere diversa, come abbiamo già affermato all’inizio di questo capitolo: ci sono valori/disvalori che motivano alcune risposte in modo essenziale, altre risposte sono causate da qualcosa di soggettivamente soddisfacente/insoddisfacente. Inoltre, ci sono risposte essenzialmente dirette al bene oggettivo per la persona ed emergono solo per questo motivo. Infine, ci sono risposte che possono essere motivate da tutte e tre le categorie di significato. La risposta al valore è quindi una risposta affettiva, che può essere causata solo da valori o disvalori. Ci domandiamo, a questo punto: che aspetto ha esattamente una risposta al valore? E quali sono i suoi effetti? 55.  E, p. 220.

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4.2. Le caratteristiche della risposta al valore Le risposte al valore sono identificabili, in primo luogo, per il loro carattere di dedizione, per il loro modo di darsi completamente all’oggetto e conformarsi ad esso. Nella risposta al valore è insito anche l’interesse per l’esistenza del bene, ovvero si esce dall’autoreferenzialismo, oltre i limiti del sé. Questo superarsi, tipico dell’essere umano, è notoriamente detto anche trascendenza. «Il trascendere si sviluppa soprattutto nella partecipazione al logos oggettivo dell’essente, che si attua nella conoscenza, nella misura in cui il nostro intelletto si conforma all’essenza dell’oggetto»56. Ma ciò non porta a una mancanza di interesse per il proprio bene, perché l’atteggiamento di donazione della risposta al valore non è in contrasto con il desiderio del vero bene. Allo stesso modo, il dono di sé della risposta al valore e la correlazione dell’essere umano all’essente cui deve rispondere stanno tra loro in reciproca relazione, poiché nella trascendenza, ad esempio, l’apertura verso Dio trova espressione diretta. Il carattere intenzionale della risposta al valore non esclude una certa spontaneità e coinvolgimento di tutta la nostra natura; secondo Hildebrand, infatti, i due aspetti non si contraddicono a vicenda, poiché l’intenzionalità non è in contrasto con l’adesione interiore e, quando si tratta di adesione interiore, non si intende istinto. La risposta al valore contiene quindi da un lato una determinazione e una correlazione di carattere consapevole e obiettivo a un bene portatore di valore e dall’altro un completo lasciarsi coinvolgere dal bene stesso tanto da riconoscere ad esso un qualcosa di indispensabile.

56.  E, p. 229.

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La risposta al valore richiede una risposta appropriata da parte del soggetto, poiché il se e il come della risposta non è indifferente, cosa che accade quando la risposta al valore è preceduta da un profondo essere coinvolti per il valore in questione; allora la nostra unione con il bene è più forte, anzi diventa indispensabile. Inoltre, ciò che costituisce la relazione tra valori e risposte al valore è la diversa corrispondenza qualitativa reciproca: se ci siamo conformati a un valore e ne siamo stati motivati ​​interiormente, il contenuto della nostra risposta al valore corrisponde necessariamente al valore motivante. Ad esempio, una risposta può essere solo positiva o negativa, a seconda che si acquisisca un valore o un disvalore; anche la qualità della risposta cambia in base all’ambito cui appartiene il valore acquisito. Un’ultima caratteristica della risposta al valore è la sua superattualità, che include anche la sua indipendenza dalla sfera temporale, perché la risposta a un particolare bene non cessa appena esso non ci riguarda più direttamente; l’esempio più lampante che Hildebrand riporta è quello dell’amore: quando amiamo qualcuno, non lo amiamo solo quando facciamo qualcosa insieme a lui/lei o ci troviamo nello stesso posto; il nostro amore rimane dentro di noi profondamente radicato, anche se siamo separati e dobbiamo dedicarci ad altre attività che ci coinvolgono completamente. Se l’amore per l’amato/a non esistesse più, non si potrebbe più parlare d’amore nel vero senso della risposta al valore. Anche Duns Scoto arriva a questa conclusione, dicendo che l’atto d’amore non è un atto motivato principalmente dalla propria felicità, bensì dal bene in sé e per sé57. Come sottolinea 57.  Cfr. I. Duns Scoti Commentaria Oxoniensa ad IV. Libros Magistri Sententiarum, vol. I, In I. Lib. Sententiarum, ex Typographia Collegii S. Bonaventurae, Ad Claras Aquas (Quaracchi) 1912. Anche Hoeres rileva questo

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Josef Seifert58, tuttavia, né Duns Scoto né altri filosofi – Aristotele, Agostino e Kant – hanno approfondito e sviluppato la concezione dell’amore quale risposta al valore alla maniera di Hildebrand. Il semplice fatto che questi utilizzi un proprio termine – risposta al valore – che per nulla o raramente viene usato da questi altri filosofi, lo rende in un certo senso una voce originale nella storia della filosofia.

4.3. La relazione tra risposta al valore ed etica: la coscienza morale e la “volontà di essere buoni” Tra le risposte al valore, la volontà di essere moralmente buoni è una delle più pure, perché non è da comprendere obbligatoriamente come risposta al nostro bene oggettivo. Se si segue ciò che la volontà di essere buoni riconosce come moralmente valido, si scoprirà che questo percorso rappresenta anche il bene per se stessi. «Non appena è chiara la comprensione del valore negativo e del valore positivo, come in ogni obbligazione morale, la coscienza del disvalore viene in primo piano in maniera più intensa»59. Ora si tratta di distinguere tra l’obbli-

aspetto in Duns Scoto, spiegando come per lui debba necessariamente precedere un atto della conoscenza dell’intelletto per riconoscere il bene, e come solo dopo tale conoscenza abbia luogo l’atto di volontà, che vuol dire: viene orientato intenzionalmente al bene. Per questo l’amore, come Scheler lo intende, è una specie di predilezione tra beni nei quali la volontà si articola in modo più coerente secondo la sua natura (cfr. W. Hoeres, Der Wille als reine Vollkommenheit nach Duns Scotus, Pustet, München 1962, in part. § 2a-b, pp. 181-205). Se si interpreta questo processo in senso fenomenologico, proprio come fa Seifert (cfr. ivi, nota 163), si può riconoscere nella concezione scotiana dell’amore un carattere di risposta, nel quale l’orientamento tra boni fruibili e boni per sé è suddiviso. 58.  J. Seifert, Dietrich von Hildebrands philosophische Entdeckung, cit., pp. 34-58. 59.  E, p. 273.

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go morale di rispondere a un bene, la significatività morale di una risposta senza obbligo morale e la necessità di una risposta adeguata a un bene carico di valore. Quest’ultima infatti è valida per tutti i valori, mentre la significatività morale non riguarda tutti i valori, ma solo determinati beni. L’obbligo morale suppone beni moralmente significativi e li suppone necessariamente. In altre parole, ci sono valori moralmente significativi e valori non significativi. Per afferrarli e distinguerli, dobbiamo essere in grado di farlo; ma non tutte le persone sono moralmente coscienti e questo gioca un ruolo importante non solo per captare i valori moralmente significativi, ma anche per il modo in cui ciò avviene60. Nel caso della persona moralmente cosciente, c’è una volontà di partecipare all’essere-buono, anche se ci sono diversi tipi di consapevolezza morale. Che cosa succede, invece, quando si riconosce il male morale? La risposta di Hildebrand è chiara e inequivocabile: è essenziale evitare il male in tutte le situazioni in cui c’è un disvalore moralmente significativo. In questo caso la volontà di essere-

60.  Tra le persone inconsapevoli ci vengono incontro quelli che pensano di poter vivere secondo la loro natura e che non conoscono la domanda morale. Non sono persone cattive, ma si comportano in modo indifferente o a volte avverso nei confronti dei valori morali. Il loro atteggiamento può essere al contempo buono o essere un elemento della risposta al valore, ma essa non scaturisce dalla coscienza morale, quanto da una antipatia verso ciò che è immorale. Poi ci sono quelli che desiderano semplicemente corrispondere al modello ideale tacito della loro società facendo proprio un “atteggiamento borghese” – come lo definisce Hildebrand – che non ha niente a che fare con la volontà di essere buoni, mancandogli la tipica profonda consapevolezza interiore. «L’essere umano moralmente incosciente può dunque dare in una certa situazione una risposta al valore. Forse agirà anche in modo adeguato alla richiesta morale, ma non lo farà perché avrà colto la significatività morale o perché desideri comportarsi moralmente. La moralità di un atto ha insieme un carattere di casualità» (E, p. 278).

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buoni gioca un ruolo fondamentale per evitare il male morale e astenersi da esso. La questione del male ne evoca un’altra ancora e cioè quale differenza esista tra valori moralmente significativi e moralmente irrilevanti. Hildebrand l’attribuisce a una comprensione intuitiva dei valori moralmente significativi. Essi si manifestano chiaramente alla nostra coscienza e nell’afferrarli comprendiamo contemporaneamente anche la risposta adeguata. Al contrario, i valori irrilevanti non si mostrano alla nostra coscienza con tale chiarezza, così che la risposta ad essi possa esplicitarsi in maniera differente. Ciò è motivato dalla richiesta che ogni essere umano assuma un atteggiamento di base nei confronti di ciò che è morale e quindi dall’apertura ad esso. Hildebrand non tematizza in quale misura la coscienza morale debba essere “formata”; avere una coscienza morale, in modo che si possa distinguere con certezza tra bene e male, risulta quasi un’affermazione dogmatica, che purtroppo lascia molte domande insolute, tanto più nell’odierna comunità culturale e globale dove c’è un’enorme diversità di opinioni culturali ed etiche. In sintesi, Hildebrand afferma che: Per essere moralmente buono nel senso stretto della parola, un atto umano non deve essere solo una risposta al valore in quanto tale, ma una risposta al valore a beni moralmente significativi. Ciò include la consapevolezza della loro rilevanza morale e un’attualizzazione della volontà generale a essere moralmente buoni […]. Ogni atto moralmente buono deve anche essere libero o collegato alla nostra libertà in modo tale da poterne essere responsabili.61

61.  E, p. 290.

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Parte II – I fondamenti dell’etica e il personalismo hildebrandiano 1. La persona: “mondo a sé” versus essere comunitario La posizione complessiva di Hildebrand nei confronti della moralità è basata sulla comprensione che egli ha della medesima in quanto aspetto specifico dell’essere umano. Come abbiamo visto, tutti gli atti morali, nonché le risposte della volontà e le risposte al valore, presuppongono la comprensione dell’essere umano come persona62 quale necessario termine di confron62.  Il termine “persona” accompagna la storia della filosofia sin dal suo iniziale uso, nella cultura greca antica, per indicare le maschere nelle rappresentazioni teatrali. L’originale uso del termine è comunque di derivazione ancora discussa; sicuramente il termine fu utilizzato dagli stoici per significare il ruolo esistenziale degli esseri umani, cioè traslando il senso oggettivo della maschera a quello figurato del ruolo che ci viene assegnato in vita. Panezio spiega quattro aspetti nella vita di un individuo ragionevole come determinanti la persona, e cioè: ragionevolezza, proprietà individuali, contingenza delle condizioni esistenziali e volontà propria. Tuttavia, agli stoici manca – come anche in Boezio, che più tardi avrebbe definito il termine come esistenza autonoma di una natura razionale – l’elemento della libertà dell’essere umano. Anche in ambito romano l’uso del termine subentra assumendo una valenza fortemente giuridica, venendo a indicare, ad esempio, il titolare di differenti rapporti giuridici da far valere (persona domini, persona procuratoris). Più in generale, poi, si viene a indicare con “persona” ogni essere umano, essendo il termine legato ai diritti e ritenendo solo gli esseri umani portatori di diritti. «Le personae si contrappongono alle res, le persone alle cose. In questo significato il termine persona si è emancipato dal particolare diversificato delle relazioni umane, si è liberato di ogni particolare ed è sbiadito nella rappresentazione dell’uomo in generale» (F.A. Trendelenburg, Per la storia del termine persona, tr. it. di R. Pettoello, Morcelliana, Brescia 2015, p. 59). Con il Concilio di Alessandria del 362 il termine proruppe nel contesto della nuova chiesa cristiana per risolvere la discussione attorno all’identità della Trinità, e “persona” venne a designare ciò che si definiva come “ipostasi”. Persona, dunque, significa «l’autentica essenza intelligente e non trasmissibile, che persiste di per sé» (ivi, p. 68). Nel Medioevo verranno riconosciute alla persona l’autoconsapevolezza e la libertà che poi influenzeranno anche i concetti di Locke e Kant. Con ciò, la persona assume il carattere dell’unici-

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to. Essi si basano su una dinamica di decisioni, nelle quali la libertà e la responsabilità svolgono un ruolo attribuibile solo agli esseri umani. L’essere umano è portatore di valori e in relazione ad essi sperimenta un triplice coinvolgimento: innanzitutto, in quanto portatore di valori morali, l’essere umano si rapporta ad essi ossia possiede un determinato modo di parteciparvi. Portare e realizzare determinati valori, come la bontà, la magnanimità, la purezza, ci rende oggettivamente buoni, magnanimi, puri e così via. Si tratta dell’intima unione tra valori e persona che intendiamo quando diciamo: questa persona è buona, pura o generosa, pur non essendo ciò vissuto da lei in modo consapevole. Sperimentiamo una seconda relazione con i valori quando ci sentiamo profondamente in unità con il bene dell’oggetto, come il legame che sorge dalla comunione io-tu con una persona cara, che nel prossimo paragrafo riprenderemo più dettagliatamente. La differenza tra queste prime due forme di parte-

tà, dell’incomunicabilità e della dignità – tratti che fanno distinguere l’essere umano dall’animale –, cui si aggiunge poi anche il riconoscimento dell’essere morale e lo sviluppo dell’etica in uno stretto rapporto con la persona. Leggiamo nella Fondazione della metafisica dei costumi: «gli esseri ragionevoli prendono il nome di persone, perché la loro natura ne fa già fini in sé, ossia qualcosa che non può essere impiegato semplicemente come mezzo e limita perciò ogni arbitrio (ed è oggetto di rispetto)» (I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 60). Nel XX secolo la filosofia della persona verrà particolarmente sviluppata dalla fenomenologia e poi nelle correnti analitiche di filosofia del linguaggio, oltre che dal personalismo di matrice cristiana. Cfr. la voce Persona, in N. Abbagnano - G. Fornero, Dizionario di filosofia, cit., pp. 812-814, e Th. Kobusch, Die Person: hypostasierte Freiheit. Der mittelalterliche Begriff der Person und sein Einfluss auf die Neuzeit, in E. Düsing - H.-D. Klein (a cura di), Geist und Psyche. Klassische Modelle von Platon bis Freud und Damasio, Königshausen & Neumann, Würzburg 2008, pp. 81-90. La comprensione hildebrandiana della persona riprende molto della concezione medievale, ma la sviluppa molto di più sotto il profilo della intersoggettività.

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cipazione è la natura obbligatoria della prima relazione e il carattere di dono della seconda. Una risposta al valore è, come abbiamo già visto, per lo più obbligante; l’unione con l’oggetto, d’altra parte, è un dono, perché può anche non aver luogo. La terza forma di partecipazione ai valori è la creazione di beni portatori di valore: ciò può accadere attraverso un’attività concreta o attraverso un moto spirituale, ad esempio sviluppando un nuovo farmaco, che può aiutare molti ammalati, o fondando un’organizzazione che si prende cura di persone svantaggiate. Hildebrand descrive l’essere umano come persona portatrice di valori e la sua posizione si avvicina da un lato a quelle di alcuni personalisti63 del XX secolo, mentre dall’altro trova riscontro

63.  Il personalismo contiene tanti punti di vista e forme di sviluppo di un pensiero che muove dalla comprensione dell’essere umano come persona. Tuttavia, ci sembra sufficiente una suddivisione in tre forme, così come la propone Bernhard Häring. Guardando alla storia della filosofia e della teologia, si può distinguere un personalismo orientato all’Io e umanista da uno sociale e da un personalismo Io-Tu-Noi. Alla prima forma di personalismo hanno contribuito fortemente gli stoici così come alcuni approcci dell’eudemonismo aristotelico: ogni essere umano viene preso sul serio come persona, con particolare riguardo ai suoi bisogni e alla sua realizzazione. In tale approccio gli altri sono considerati più come mezzi per il proprio successo, ovvero come aiuto o impedimento. Una nuova forma di questo personalismo viene proposta nel Novecento da Nicolai Hartmann e caratterizzata da un dialogo con i valori. Il personalismo sociale muove dalla necessità di osservare l’ordine sociale sotto l’aspetto della dignità umana, così che lo sviluppo personale di ogni essere umano possa diventare possibile in e attraverso di esso. La terza forma del personalismo trova le sue radici nella visione umana ebraico-cristiana e si diffonde nel XX secolo con la forte esperienza della spersonalizzazione dell’essere umano a causa delle grandi dittature. L’essere umano non è tanto l’amministratore o uno che viene amministrato, quanto un essere di relazione. «La più profonda esperienza dell’essere umano che sente di poter e voler essere infinitamente più del mondo amministrato e organizzato è l’incontro con un tu che prende assolutamente sul serio il suo io» (B. Häring, Personalismus in Philosophie und Theologie, Wewel, München-­Freiburg i.Br. 1968, p. 19). Battista Mondin annovera tra i per-

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nella comprensione fenomenologica della persona soprattutto in Scheler e Wojtyla64. Sebbene la persona svolga un ruolo decisivo nell’intera filosofia di Dietrich von Hildebrand e ne costituisca l’orizzonte di fondo, la ricerca antropologica non sembra aver suscitato in lui né un interesse diretto né la necessità di chiarire questo orizzonte più profondamente. Tuttavia vogliamo porre maggior attenzione all’immagine di essere umano che si incontra nella concezione etica di Hildebrand dato il suo aspetto fondamenta-

sonalisti contemporanei: Mounier, Maritain, Nédoncelle, Guardini, Hildebrand, Stefanini, Rigobello e Melchiorre, Buber, Heschel, Jonas, Lévinas, e altri ancora in area latino-americana (cfr. B. Mondin, Storia dell’Antropologia Filosofica, vol. II, ESD, Bologna 2002). Aggiungiamo a questa lista anche una serie di fenomenologi che pure hanno lavorato profondamente al tema dell’essere umano letto in chiave “personale”, come Pfänder, Scheler, Stein, Geiger, Wojtyla, Welte. Pur con le dovute differenze, anche culturali, si può dire che essi concepiscano l’essere umano come persona in relazione all’incontro e alla comunione in parola e amore; per dirla in modo sintetico, con le parole di Maritain: «tendere alla comunione è essenziale alla personalità» (J. Maritain, La persona e il bene comune, tr. it. di M. Mazzolani, Morcelliana, Brescia 200912, p. 29). La maggioranza dei personalisti di questa forma sono impregnati dalla loro fede e vedono l’essere umano di conseguenza come creatura di Dio, in rapporto con lui. All’interno di tale corrente l’amore assume un ruolo molto importante nella vita dell’essere umano, come via prediletta della sua realizzazione: «La persona è sotto il profilo dell’essere, così composta da perdersi se non si apre all’amore degli altri, a ricevere amore e donare amore» (B. Häring, Personalismus in Philosophie und Theologie, cit., p. 28). Per ulteriori approfondimenti, cfr. anche: R. De Monticelli (a cura di), La persona: apparenza e realtà. Testi fenomenologici. 1911-1933, Cortina, Milano 2000; V. Melchiorre (a cura di), L’idea di persona, Vita e Pensiero, Milano 1996. 64. In Amore e responsabilità Wojtyla si esprime con queste parole: «la persona, per il fatto di essere un individuo di natura ragionevole […] è allo stesso tempo nel mondo degli esseri un soggetto unico nel suo genere, totalmente diverso da quel che sono, per esempio, gli animali…» (K. Wojtyla, Amore e responsabilità. Morale sessuale e vita interpersonale, tr. it. di A. Berti Milanoli, Marietti, Casale Monferrato 19782, p. 12).

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le nell’amore. Per questa ragione prenderemo in considerazione Metaphysik der Gemeinschaft (Metafisica della comunità), nonché alcune lezioni individuali o brevi scritti in cui Hildebrand ha affrontato il tema della persona. La prima interessante e originale affermazione del Nostro sulla persona è la seguente: «Tra tutte le entità creaturali esperibili, la persona umana rappresenta un “mondo a sé”»65. Secondo il punto di vista di Hildebrand questo aspetto dell’essere-persé dipende dal carattere sostanziale della persona. In generale, egli definisce la sostanza come qualcosa di unificante in se stessa, cioè una e come una forma delimitantesi dall’ambiente esterno e quindi indipendente da esso. Se si considera l’essere umano come sostanza, identificandolo con questi due aspetti, si riconosce un “di più”, che lo rende distinguibile dalle altre cose materiali, siano pur esse esseri viventi. L’essere umano è infatti un «essere cosciente, fornito di un io completo, autonomo, libero»66, in questo senso è completamente diverso dalle sostanze materiali e pur vitali, non potendo fondersi in un’unità come lo possono le parti di un continuum; è perfetto e completo in se stesso. Questa comprensione della completezza umana non contraddice il fatto che egli stesso è l’insieme di diverse parti di un continuum, cioè la sua natura personale. La definizione di persona di Vincent Berning può venirci in aiuto: «Il nostro io cosciente ha una radice nel fondamento d’essere della nostra natura. Sotto questo aspetto un essere umano realmente esistente non è solo un essere della propria specie, ma un essere individuale nel profondo della sua sostanzialità. Questo è quanto definiamo con il concetto di persona»67. L’enfasi sulla

65.  MG, p. 17. 66.  MG, pp. 19-20. 67.  V. Berning, Die Idee der Person in der Philosophie. Ihre Bedeutung für die geschöpfliche Vernunft und die analoge Urgrunderkenntnis von Mensch,

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sostanzialità implica il modo di essere sostanza dell’essere individuale, che giustifica la differenza con la sostanza materiale o vitale e non tanto la sua perfezione. Questo essere individuale, in sé perfetto e in sé stante, può entrare in contatto spirituale con altri esseri umani e giungere a una sorta di unione altrimenti impossibile, pur se diversa dalla fusione delle cose materiali. La persona spirituale è molto più organica dei semplici esseri viventi, poiché essa soltanto dispone di una certa continuità di coscienza e una chiara conoscenza della propria identità68. La persona è essenzialmente diversa dalla sostanza animale, essa soltanto dispone di libero arbitrio e non può essere solamente oggetto, ma soggetto ed entrare in relazione razionale con il mondo, acquisire conoscenza attraverso il contatto intenzionale, partecipare della sua natura e costruire nei suoi confronti atteggiamenti pieni di senso. Riteniamo che questa capacità umana si basi sulla distanza che la persona può tenere con se stessa e con il mondo esterno69: contrariamente agli animali può guardare il mondo fuori di sé e prendere le dovute misure. La persona è talmente diversa da tutti gli altri esseri da far dire a Hildebrand che «la differenza

Welt und Gott. Philosophische Grundlegung einer personalen Anthropologie, Schöning, Paderborn-München-Wien-Zürich 2007, p. 379. 68.  È bene qui ricordare le analisi steiniane che offrono una dettagliata fenomenologia dell’essere umano, nella sua organicità e spiritualità, che ci permettono di comprendere e meglio sviluppare la stessa antropologia hildebrandiana. Cfr. in particolare E. Stein, Psicologia e scienze dello spirito. Contributi per una fondazione filosofica, tr. it. di A.M. Pezzella, Città Nuova, Roma 19992; Ead., La struttura della persona umana, tr. it. di M. D’Ambra, Città Nuova, Roma 2000. 69.  Vincent Berning, esprimendosi in modo similare, spiega che la possibilità dell’incontro sta proprio in tale motivo della distanza, così che solo esseri umani possono veramente incontrarsi (cfr. V. Berning, Die Idee der Person in der Philosophie, cit., p. 236).

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tra persona e non persona è forse la differenza ontologica più decisiva all’interno del mondo creato»70. Secondo questa prospettiva la persona è un essere in contraddizione, completo in sé e allo stesso tempo aperto a un’alta unione spirituale con gli altri, pertanto con Theunissen possiamo considerare la personalità della persona come un fenomeno paradossale proprio a causa della sua autonomia dagli altri esseri umani e la contemporanea dipendenza da essi. Michael Theunissen vede in questo paradosso una chiara differenza tra la nozione di persona in Hildebrand e quella della modernità, basata quest’ultima sull’autonomia e sull’individualità dell’essere umano. Sebbene Hildebrand usi la definizione classica di persona come sostanza, allo stesso tempo se ne allontana introducendo l’aspetto religioso della dualità. Infine Theunissen intravede in Hildebrand le stesse riflessioni di Martin Buber71. La persona si sviluppa, dunque, nell’incontro e nel contatto con l’altro, è un essere in comunione72 e ciò significa anche che può svilupparsi solo attraverso determinate relazioni.

70.  D. von Hildebrand, Die Weltkrise und die menschliche Person, in Id., Die Menschheit am Scheideweg. Gesammelte Abhandlungen und Vorträge, a cura di K. Mertens, Habbel, Regensburg 1955, pp. 233-250: p. 236. 71.  Cfr. M. Theunissen, Der Andere. Studien zur Sozialontologie der Gegenwart, de Gruyter, Berlin-New York 1965, pp. 390-398. 72.  In Individuum und Gemeinschaft (D. von Hildebrand, Individuum und Gemeinschaft, in Id., Memoiren und Aufsätze gegen den Nationalsozialismus. 1933-1938, Grünewald, Mainz 1994, pp. 254-262) Hildebrand porta in primo piano il fatto che proprio il misconoscimento della natura intenzionale dell’essere umano nonché del suo carattere sostanziale come “mondo-a-sé” renderebbe la comunità incomprensibile. Perché, senza una relazione consapevole e intenzionale verso il mondo, la comunità, non importa in quale sua forma, diventa un’apparenza o una «forma vuota» (ivi, p. 255). D’altro canto, il fatto che l’essere umano sia membro di una comunità non può indurre a un’affermazione ingannevole e cioè che non sia una sostanza: «La singola persona è ontologicamente superiore a tutte le comunità naturali» (ivi, p. 257).

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Pur se Hildebrand non lo esprime dettagliatamente, ci sembra di capire che nella sua concezione di persona si debba parlare di un processo, in base al quale determinati esseri viventi come gli umani, ma non solo loro73, hanno un potenziale crescente di personalità74. Comunque l’essere persona fa già parte della natura umana: anche un neonato può essere chiamato persona, pur non essendo la sua personalità ancora sviluppata, poiché in lui ci sono già le capacità di trascendersi e di entrare in contatto spirituale con gli altri. In questo senso il personalismo hildebrandiano corrisponde perfettamente al personalismo ebraico-cristiano del ventesimo secolo, in particolare alla visione di Maritain75, secondo la quale ogni essere umano, completo nella sua natura, è persona ed è voluto da Dio dall’eternità. Sia che possa, sia che non possa svilupparsi nella sua personalità, o qualora questa personalità sia più o meno riconoscibile, l’essere umano rimane sempre persona. Con le parole di Berning possiamo dire: «Personalità dobbiamo diventarlo, persone lo siamo già»76.

73.  Hildebrand si riferisce esplicitamente gli angeli come persone. 74.  In tal senso, si trova un’assonanza nella visione della persona tra Hildebrand e Welte, il quale afferma: «una persona invece è costantemente in divenire, qualcosa che si ridelinea continuamente in maniera nuova» (B. Welte, Dialettica dell’amore. Fenomenologia dell’amore e amore cristiano nell’era tecnologica, tr. it. di G. Scandiani, Morcelliana, Brescia 1986, p. 29). Con ciò il termine persona guadagna in ampiezza e sembra essere meno limitato che in altri pensatori come Scheler, quando, cioè, viene interpretato in modo solo ontologico attraverso le due categorie dell’autonomia, o della completezza in sé, e la dipendenza dagli altri o in generale dal mondo circostante. 75.  La persona umana rappresenta anche per Maritain un universo, qualcosa che l’essere umano non può perdere, ma che nelle concrete esistenze si sviluppa in modo differente. La persona è un universo aperto che desidera entrare in contatto con suoi simili (cfr. J. Maritain, La persona e il bene comune, cit.). 76.  V. Berning, Die Idee der Person in der Philosophie, cit., p. 389.

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1.1. Lo sviluppo della persona come essere comunitario Sul tema dei rapporti personali, riguardo al modo in cui essi modellano la persona, analizzeremo adesso i quattro tipi di rapporti personali che Paola Premoli De Marchi elabora nel suo articolo The Role of Relationality in the Actualization of the Person77. In generale, così l’autrice, nella visione antropologica hildebrandiana, vanno distinti quattro tipi di rapporti interpersonali: quello con la verità; quello con il Bene; quello con gli altri esseri umani; e infine quello con l’Assoluto78. Questi aspetti caratterizzano quasi letteralmente la comprensione che Hildebrand ha della persona come essere relazionale e contraddistinguono il suo personalismo, anche se, come abbiamo detto prima, egli non li nomina direttamente tranne nella disputa con alcune posizioni anti-personaliste79. La capacità unica dell’individuo di partecipare all’esistenza di tutto il resto del mondo – capacità che la conoscenza in tutte le sue forme, dalla semplice percezione fino all’intuizione di uno stato di fatto, rappresenta – è la base di tutta la nostra vita spirituale. Tutte le nostre volizioni e i nostri desideri, i nostri amori e i nostri odi, le nostre gioie e le nostre pene presuppongono la conoscenza; presuppongono una consapevolezza

77.  Cfr. P. Premoli De Marchi, The Role of Relationality in the Actualization of the Person. A Reflection upon Dietrich von Hildebrand’s Philosophical Anthropology, in «Aletheia», vol. VII, 2003, pp. 221-248. 78.  Ivi, p. 225. «It seems to me that four of these eminently personal relations must be regarded as the most fundamental in any philosophy of man: 1) man’s relation to truth, in knowledge; 2) man’s relation to the good, in his moral life; 3) man’s relation to other human persons; 4) man’s relation to the Absolute, in religious experience». 79.  Cfr. D. von Hildebrand, Der Kampf um die Person, in Id., Memoiren und Aufsätze gegen den Nationalsozialismus, cit., pp. 191-197, come anche Individuum und Gemeinschaft, cit. Cfr. anche Die Weltkrise und die menschliche Person, cit.

132 dell’oggetto del volere, del desiderare, dell’amare – una conoscenza di esso, un coglierlo consapevolmente.80

In un altro passaggio, Hildebrand si esprime ancor più chiaramente: Se possiamo affermare che non è possibile pensare l’essere di una persona senza includere la sua capacità di conoscenza, dobbiamo anche dire che la conoscenza non può essere concepita senza includere la persona spirituale: un essere cosciente, che ha una struttura intenzionale e una capacità di trascendere la sfera limitata dell’io.81

Conoscere significa fondamentalmente “entrare in contatto”, per questo esso costituisce la prima relazione dell’essere umano, la prima forma di contatto con il mondo esterno, ciò che lo qualifica come essere trascendente; proprio perché può trascendere se stesso sia esternamente che interiormente, egli è in grado di entrare in contatto con il mondo, stabilire con esso una relazione e acquisirne conoscenza. Il secondo tipo di relazione è instaurato dall’essere umano con il Bene, il che vuol dire nel contesto della sua vita morale: l’essere umano è tanto più ricco e spiritualmente grande quanto più sappia riconoscere il valore e nella misura in cui ne sia capace. L’espressione più alta in questo senso è la risposta al valore di cui abbiamo parlato in precedenza. La terza dimensione dell’attuazione della persona è la relazione con l’altro, il contatto con il mondo esterno nella forma del “più simile a me”. L’altro è fuori da me ed esige un movimento del “uscire-fuori-di-sé” per raggiungerlo. È nell’amore, relazione particolare e unica verso un altro essere per la profonda dedizione verso di lui, che l’essere umano fa la più gran-

80.  CcF, p. 73. 81.  CcF, p. 75.

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de esperienza di trascendenza umana sperimentabile. Tuttavia l’essere umano mantiene la sua unicità, nonostante le dimensioni contrastanti della vita propria82 e la relazione comunitaria instaurata. Questa dimensione di contrasto richiede ulteriori spiegazioni perché tocca un concetto che svolge un ruolo cruciale in Hildebrand e che incontreremo in particolare nel contesto delle relazioni d’amore. Si tratta della cosiddetta vita propria. Il termine sviluppato da Hildebrand, che troviamo soprattutto in Essenza dell’amore e Metafisica della Comunità, ha un doppio significato: in senso lato, con vita propria s’intende l’intera esperienza cosciente di una persona individuale, la sua esistenza cosciente, ciò che Hildebrand intende – pur in senso più limitato – quando scrive: Ogni essere umano ha una “vita privata” nel senso di tutti i contenuti che si riferiscono a lui, ai suoi “affari” e specialmente alla sua felicità. In tal senso […] ciò si riferisce esclusivamente a quelle cose che lo riguardano in modo particolare come persona individuale, a tutto ciò per cui vale: “tua res agitur”.83

Così intesa, la vita propria è una delle caratteristiche più essenziali dell’essere umano come persona spirituale e, secondo

82.  Il termine tedesco adoperato da Hildebrand – Eigenleben – si trova anche in M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 99, e cioè in relazione alla possibilità di relazioni autentiche con altri esseri umani. In ciò la vita propria sembra essere molto importante e appartenente a ogni singolo, perciò anche lui utilizza questo termine come Hildebrand. Tuttavia, la vita propria non assume per Scheler un significato così forte come in Hildebrand. Nel testo adotteremo la traduzione più letterale di “vita propria” e non quella di Paola Premoli De Marchi “vita privata”, perché il “proprio” ci sembra incorra in meno difficoltà o incomprensioni rispetto al “privato”. 83.  D. von Hildebrand, Eigenleben und Transzendenz, in H. Kuhn - H. Kahlefeld - K. Forster (a cura di), Interpretation der Welt. Festschrift für Romano Guardini zum 80. Geburtstag, Echter, Würzburg 1965, pp. 52-68: p. 52.

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Hildebrand, non va «confusa in alcun modo con l’egoismo»84; essa comprende tutte le cose importanti per noi, ciò che amiamo, tutto ciò che ci riguarda personalmente e cose alle quali non ci rivolgiamo con una pura risposta al valore. Ad esempio quando ci rivolgiamo a qualcuno nell’atteggiamento di puro amore al prossimo, andiamo oltre la nostra vita propria, perché il prossimo non è una persona direttamente legata a noi. Più avanti ci soffermeremo sull’amore al prossimo, ma è già chiaro l’aspetto della trascendenza nella relazione con l’altro, anche se la persona ha e mantiene una vita propria. Contrariamente a tutte le posizioni individualistiche, Hildebrand afferma che l’essere umano, in quanto persona, può realizzarsi come individuo, come persona particolare proprio nella capacità di trascendere la vita propria. Non è nell’aggrapparsi al proprio, ma “dando” che l’essere umano trova la sua perfezione; è un consegnare, che non è né una resa, né una perdita definitiva. Dietrich von Hildebrand insiste molto su questo concetto, come pure sull’idea che l’essere umano possiede qualcosa che è essenzialmente suo, e rifiuta così qualunque altruismo85 che generi un disinteresse per ciò che è proprio, in quanto non corrisponderebbe alla reale situazione metafisica dell’essere umano. Sebbene Hildebrand respinga fortemente qualsiasi tipo di individualismo, egli non concepisce l’essere umano come solo 84.  Ibidem. 85.  Per ciò che concerne l’altruismo, Hildebrand spiega come tante persone si sbaglino pensando che essere altruisti significhi dimenticarsi completamente e darsi del tutto all’altro, ché quanto è proprio perde in importanza e diventa inutile. Questo non è altruismo in senso vero perché senza vita propria non ci si può occupare degli altri e prendersi cura di loro. L’altruismo non è da confondere con la negazione totale della propria persona. Cfr. D. von Hildebrand, Die Rolle des “objektiven Gutes für die Person” innerhalb des Sittlichen, in Id., Die Menschheit am Scheideweg, cit., pp. 61-85.

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membro della comunità, ovvero che lo si consideri “uno dei tanti” come troviamo nelle filosofie del comunismo e in alcuni pensatori anarchici. La fenomenalità dell’essere umano evidenzia la diversità di queste sfumature, mostra che la vita consiste di entrambe le opposte dimensioni come anche dell’equilibrio tra queste, cosicché risulta chiaro che nessun estremismo da solo possa esprimere la nostra vita. Fatta questa lunga parentesi sull’Eigenleben/vita propria, torniamo alla quarta dimensione nell’attuazione della persona, cioè alla relazione con l’assoluto: solo in questa relazione con Dio l’uomo può realizzare pienamente se stesso86, perché solo Dio offre la possibilità di unire gli opposti umani in modo ragionevole. La tensione metafisica tra l’infinità delle possibilità e la finitezza delle capacità attraverso i limiti concreti dello spaziotempo della vita crea una tensione insoddisfacente che solo la relazione con l’assoluto può risolvere. All’interno di questo quadro entrambe le caratteristiche umane, la trascendenza e la sovrabbondanza trovano il loro posto; infatti, sebbene l’essere umano sperimenti già al livello generale la sua trascendenza nella capacità di comprendere cose più grandi di se stesso e che posseggono valore, è quando entra in dialogo con Dio che egli la sperimenta in modo esplicito e completo.

86.  La relazione con Dio si rende comprensibile mediante la risposta affettiva al valore, perché l’intelligenza dell’essenza divina, e con essa la possibilità di entrarvi in rapporto, si lascia spiegare – come mostra Judith Stewart Shank – proprio attraverso la risposta al valore, poiché essa presuppone l’intelligibilità dell’oggetto. Tuttavia, la Stewart Shank vuole dimostrare con ciò anche l’esistenza reale di Dio, perché l’intelligibilità della risposta al valore presuppone un essere oggettivo, cosa che però risulta troppo semplificata e necessita di un’ulteriore riflessione. Cfr. J. Stewart Shank, Von Hildebrand’s Theory of the Affective Value Response and our Knowledge of God, in «Aletheia», vol. V, 1992, pp. 153-159.

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Il principio della trascendenza87 presenta da un lato il “carattere creaturale” dell’essere umano, e quindi la sua dipendenza da un assoluto, e dall’altro la sua superiorità su tutti gli altri esseri. Il principio di sovrabbondanza ci fa capire che la vera felicità, quella che nasce esclusivamente dalla «stretta connessione con un bene di grande valore»88 e il valore non considerato come mezzo non possano venire da noi stessi, piuttosto si tratta di qualcosa di essenzialmente donato.

1.2. La persona spirituale a partire dal contatto e dalla relazione Mettendo da parte la capacità di agire volutamente e di conoscere e rispondere consapevolmente ai valori morali, sono

87.  La capacità umana di trascendersi poggia sulla decisione di rispondere ai valori in modo positivo o di negarli, cosa che porta con sé delle conseguenze nell’etica tradizionale, come spiega Wenisch nel suo saggio Wertantwort und Selbstentwicklung. La visione di Hildebrand contraddice la teoria secondo la quale l’essere umano deve svilupparsi in modo da diventare un’entità unitaria armonica delle sue predisposizioni e forze. Eppure, la decisione per l’altro, sia esso un essere umano o Dio, non ha direttamente a che fare con lo sviluppo della propria natura. In secondo luogo, anche la libertà è diversamente capita, infatti per Tommaso l’essere umano desidera la felicità (cosa dalla quale anche Hildebrand parte, come abbiamo prima detto) e deve, perciò, affermare tutto ciò che la riguardi, a scapito della libertà. Secondo Hildebrand la scelta è in realtà secondaria perché nella scelta per l’altro si fa già esperienza di felicità, anche quando ciò che è riferito a se stessi non sta al primo posto. Cfr. B. Wenisch, Wertantwort und Selbstverwirklichung. Kritische Bemerkungen zu philosophischen Voraussetzungen heutiger Theologie, in B. Schwarz (a cura di), Wahrheit, Wert und Sein, cit., pp. 237-251. Ci sembra che un guadagno della filosofia hildebrandiana stia proprio in questo: essa fonda in sé una visione della persona come “essere dialogico” o della vita come “in dialogo”, per cui l’amore può essere il modo di espressione più alto o può addirittura comporre l’essere stesso della persona. 88.  D. von Hildebrand, Die drei Grundformen menschlicher Teilhabe an den Werten, in Id., Situationsethik und kleinere Schriften, cit., pp. 167-194.

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proprio le forme spirituali del contatto o delle relazioni, che l’essere umano può avere con altri esseri spirituali, a qualificarlo come persona spirituale. Hildebrand parla anche qui di due modalità primarie di contatto spirituale, che possono svilupparsi su diversi livelli: il contatto-io-tu e il contatto-noi. Contrariamente alle forme impersonali, un essere spirituale risponde al mio contatto89: in questo processo hanno luogo una conoscenza e una presa di posizione che sono le prime forme di contatto spirituale tra persone spirituali. A questo livello esiste già una certa vicinanza tra le persone, ma questo tipo di contatto non richiama necessariamente una contro-risposta. Può essere infatti che io conosca una persona o che sia adirata con qualcuno senza che questi reagisca affatto. La situazione è diversa quando il contatto spirituale avviene a livello degli atti sociali: se faccio una domanda a qualcuno, gli prometto qualcosa, chiedo qualcosa, fra di noi emerge uno spazio che Hildebrand chiama spazio interpersonale90. L’altro/a deve rispondere al mio atto; non è più solo oggetto del mio atteggiamento intenzionale, ma un soggetto che sta di fronte a me. In tali atti, «io ricorro all’altro come soggetto»91.

89.  Edith Stein parla, allo stesso modo, di contatto tra persone quando, in relazione al possibile coglimento dell’interiorità dell’essere umano mediante la presa di coscienza del proprio corpo, scrive: «In ogni occasione, nella quale due esseri umani si guardano, si riconoscono reciprocamente come pari, e proprio così avviene un contatto spirituale, si crea un collegamento interiore» (E. Stein, Was ist der Mensch? Theologische Anthropologie, in Edith Stein Gesamtausgabe, vol. XV.3, Herder, Freiburg i.Br.-Basel-Wien 2005, p. 39). 90.  Ci permettiamo qui di rinviare a un nostro breve articolo sul tema: V. Gaudiano, Lo spazio interpersonale tra dono e annullamento. Chiavi di lettura fenomenologiche, in «Per la filosofia. Filosofia e insegnamento», XXXIV, n. 100-101, 2017, pp. 107-116. 91.  MG, p. 25.

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Gli spazi interpersonali nascono dal fatto che l’essere umano non può muoversi solo in “spazi fisici” bensì anche in “spazi spirituali” che in qualche modo separano l’individuo dagli altri. Visti dal mondo esterno questi spazi spirituali non sono strutture chiuse, ma qualcosa come un’abitazione in cui la persona può intrattenersi da sola o assieme ad altre persone alle quali dà accesso. In altre parole, lo spazio spirituale è il luogo in cui possono succedere incontri, contatti, relazioni. Senza questo luogo l’essere umano sarebbe solamente un “mondo a sé” e non si diversificherebbe dagli altri esseri viventi. Hildebrand lo esprime così: «In questo spazio si trovano le singole persone, anche se fossero pensate senza alcuna consapevolezza reciproca. Anche in tal caso esso si estenderebbe tra loro»92. Questa abitazione è composta da vari altri spazi che rappresentano i diversi spazi interpersonali, come quello intimo degli innamorati o quelli interpersonali dell’amicizia, del milieu, ecc. L’idea di Hildebrand caratterizza in modo molto speciale la comprensione dell’amore e delle diverse forme di amore; infatti poiché la persona spirituale occupa un posto speciale nello spazio cosmico interpersonale, ogni tipo di contatto con il mondo esterno – e in particolare con altre persone spirituali – consisterà nel trasgredire o superare lo spazio stesso. Un terzo tipo di contatto avviene quando l’amore o l’odio vengono dichiarati93 all’altro/a e questi li accoglie consapevolmen-

92.  MG, pp. 181-182. 93.  Come ha esposto Terravecchia, questo termine “dichiarazione” costituisce nel contesto hildebrandiano qualcosa di speciale perché viene infatti da lui spesso utilizzato in riferimento all’amore e alle relazioni d’amore (cfr. G.P. Terravecchia, Fenomenologia sociale. Il contributo di Dietrich von Hildebrand, Diade, Padova 1998). Dichiarare nel senso hildebrandiano significa esattamente l’esplicitazione di determinati sentimenti, a cui si aggiunge un significato più profondo del semplice condividere che interessa anche notizie di vario genere. Hildebrand si esprime così: «Una dichiarazione è possi-

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te. In questo caso, l’altro/a non solo deve prendere atto dell’intenzione, ma deve essere veramente toccato/a dal contenuto della presa di posizione. Attraverso questa dichiarazione vengono a crearsi relazioni capaci di cambiare radicalmente la vita di una persona. La persona in questione potrà prendere nota dei sentimenti dichiarati senza esserne veramente toccata, senza accoglierli, come fossero una semplice comunicazione, oppure potrà rispondere alla dichiarazione, accogliendola pienamente. Ecco perché, a nostro avviso, nell’atto della dichiarazione c’è una sorta di spogliamento irrevocabile del proprio io, che ci consegna interamente nelle mani dell’altro/a. Solo nel secondo tipo di contatto sorge una reciprocità: è il contatto-io-tu, la modalità primaria della persona spirituale. La modalità noi si presenta sotto vari aspetti, si può ad esempio sperimentare qualcosa insieme a qualcun altro/a, sapendo che non si è soli in una certa situazione. Ma se i due sanno l’un dell’altro/a s’innesca una relazione più profonda, stanno fianco a fianco nella stessa situazione. Lo scalino superiore sarà quello di essere uniti, orientati verso un determinato oggetto. La caratteristica del contatto spirituale, sia nella forma Io-Tu che nella forma io-noi, è quella di raggiungere una relazione che allo stesso tempo significa entrare in un certo campo di valori, perché ogni essere umano è costituito in modo tale da poter e dover riconoscere i valori. Quindi, quando due persone si rivolgono l’una all’altra in una qual forma d’amore, entrano simultaneamente in un certo campo di valori e vengono, per così dire, da essi incorporate.

bile solo nei confronti di colui/lei per il/la quale vale materialmente, mentre in maniera del tutto evidente nella comunicazione non è il caso di qualcosa di analogo» (MG, p. 28).

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Tutte queste gradazioni, brevemente accennate, formano una scala verso la comunione fra le persone in senso stretto, poiché è vero che la parola comunità può riferirsi alle varie forme di convivenza tra le persone, ma essa si riferisce anche a certe forme di appartenenza, come la famiglia, la nazione, ecc. A questo punto sarà bene non andar oltre, perché l’approfondimento della vita comunitaria oltrepasserebbe lo scopo della nostra indagine, inoltre l’aspetto comunitario verrà affrontato successivamente, in relazione più diretta con l’amore.

2. La libertà Intenzionalità e trascendenza sono due caratteristiche importanti dell’essere umano come persona, ma in modo ugualmente pregnante lo è la libertà. Abbiamo già affermato altrove che moralità e responsabilità si richiamano; la responsabilità presuppone la libertà, perché «un essere umano è responsabile solo per qualcosa che può liberamente scegliere o rifiutare, qualcosa che è in qualche modo all’interno della sua sfera di influenza»94. La moralità, la responsabilità e la libertà formano così una “triade”, dove i tre aspetti hanno una relazione diretta l’una con l’altra e quindi con la terza. La libertà è una condizione fondamentale per la persona, tanto che la semplice idea che una persona non sia libera, suona impossibile o assurda, perché in termini concreti una persona può anche trovarsi in una situazione in cui è privata della libertà, ma ciò non significa che la libertà non le appartenga come persona. Un esempio classico è quello del prigioniero, il quale vive in cattività ed è privato di fatto della sua libertà, perché non può muoversi o 94.  E, p. 293.

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fare ciò che vuole. Egli, d’altra parte, rimane persona anche in prigione, poiché spiritualmente è pur sempre responsabile di acconsentire o meno a certe cose. La sua personalità non potrà forse svilupparsi ulteriormente o non sarà più riconoscibile, ma il suo essere persona rimane intatto. In altre parole, secondo Hildebrand, la libertà può essere completamente separata dall’idoneità fisica della persona, ma non dal suo potenziale spirituale. Questa comprensione della libertà è circoscritta al concetto di persona ed esclude quindi altre possibilità di interpretazione, come quella di pura libertà fisica nel fare di fatto qualcosa oppure no, nonché la libertà nel senso di libertinismo, cioè nel fare tutto ciò che si vuole e si sente. La libertà ha significati diversi all’interno della complessa realtà della persona. Per la sua chiara connessione con la volontà, Hildebrand distingue tra la capacità di dare una risposta libera a un oggetto significativo e la capacità di iniziare una nuova catena di causalità che ordini lo sviluppo delle cose. Nel primo caso è l’oggetto che motiva la mia reazione; ma dire “sì” o “no” a quest’oggetto rimane a mia discrezione. La libertà, più precisamente questa forma di libertà, ha a che fare con la capacità della persona spirituale di decidere. Nel secondo caso, invece, è la personale volontà di essere «padrone delle proprie azioni» – cioè la capacità di mettere in moto le cose mediante una concreta attività fisica o di dirigerle in una data direzione – che prende maggiormente forma95.

95.  Questo concetto della libertà lo troviamo anche in Edith Stein, sebbene la filosofa sia del parere che tale capacità di compiere atti liberi lasci una traccia nella vita dell’essere umano. Inoltre, ella riconosce ancora altri due elementi alla libertà, che trovano in Hildebrand un’assonanza, ovvero: la capacità dell’essere umano di formare e modificare la propria personalità e insieme il suo mondo circostante. In generale, va detto che la Stein recepisce la lezione agostiniana, come quella di Duns Scoto e di Tommaso,

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Quanto sopra riportato non significa che le azioni umane si svolgano sempre all’interno di una catena causale. A rigor di termini, la libertà indica quella capacità dell’essere umano di agire senza un necessario nesso con cose accadute in passato. La tesi di Hildebrand è che l’essere umano è indipendente dalla sua storia, dalla società o dall’educazione. Pur ammettendo naturalmente che questi fattori influenzano le sue azioni e nel complesso il suo sviluppo, essi non sono però i motivi decisivi e definitivi delle sue azioni. L’essere umano è capace, nonostante tutti i condizionamenti, di essere completamente creativo nei confronti del mondo, in certo senso fin dalla nascita. Anche se in modo limitato e rudimentale, il neonato sa esprimere la propria volontà e sa volere una cosa piuttosto che un’altra; anch’egli è una persona e ciò prevede la perfezione del suo essere come dono. Oggigiorno le discussioni nell’ambito delle neuroscienze96 sul­ l’impossibilità di cambiare le neuro-reazioni, vanno contro queoltre che dei mistici (cfr. E. Stein, Essere finito e essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, tr. it. di L. Vigone, Città Nuova, Roma 19994, pp. 392-395). Per una ricognizione generale, cfr. C.M. Wulf, voce Freiheit, in M. Knaup - H. Seubert (a cura di), Edith Stein-Lexikon, Herder, Freiburg 2017, pp. 125-127. 96.  Al riguardo, cfr. W. Singer, Verschalungen legen uns fest: Wir sollten aufhören, von Freiheit zu sprechen, in Ch. Geyer (a cura di), Hirnforschung und Willensfreiheit. Zur Deutung der neuesten Experimente, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004, pp. 30-65; G. Roth, Worüber dürfen Hirnforscher reden – und in welcher Weise?, ivi, pp. 66-85; Ch. Geyer, Hirn als Paralleluniversum. Wolf Singer und Gerhard Roth verteidigen ihre Neuro-Thesen, ivi, pp. 86-91. I tre ricercatori discutono sui processi neuronali e il risultante determinismo, pur trattandosi di tentativi chiarificatori che di per sé non hanno alcun carattere di verità definitiva e indiscutibile. Si avverte come la ricerca neuronale faccia fatica e abbia difficoltà a difendere tesi troppo estreme; è il caso di Singer, secondo il quale oltre i nostri neuroni non c’è più nulla, o di Roth che parla di una “illusione di paternità” intesa come impossibile certezza soggettiva di essere libero di decidere (G. Roth, Aus Sicht des Ge-

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ste affermazioni. Da un punto di vista puramente biologico si dovrebbe parlare di una sorta di predestinazione, secondo la quale ogni persona, a causa della sua costituzione e del suo ambiente, non può essere diversa da come è in realtà e parlare, dunque, di capacità creativa nell’essere umano suonerebbe come un controsenso. Tuttavia, la nostra esperienza testimonia molto spesso l’opposto di tali espressioni, sostenute da altri scienziati come Eccles, che afferma: Non c’è dubbio che gran parte delle operazioni svolte dalla corteccia cerebrale siano automatiche e stereotipate […]. Ma è indiscusso che si possa assumere volontariamente il controllo di tali azioni, anche le più banali, proprio come possiamo, entro certi limiti, esercitare un controllo volontario sul nostro respiro.97

hirns, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2003, p. 72). Particolarmente problematica diventa qui la domanda del diritto penale e della colpevolezza dell’essere umano. Per ulteriori approfondimenti sulla tematica in lingua italiana e inglese, cfr. A. Zhok, Emergentismo. Le proprietà emergenti della materia e lo spazio ontologico della coscienza nella riflessione contemporanea, ETS, Pisa 2011; M. Zoli, Neuroscienze e libero arbitrio, in L. Ruggiu - F. Mora (a cura di), Identità differenze conflitti, Mimesis, Milano 2007, pp. 201-240. L. Lo Sapio, Libero arbitrio e neuroscienze: verso un modello naturalistico delle scelte coscienti, in «Rivista internazionale di filosofia e psicologia», vol. 6, n. 3, pp. 514-527; N. Levy, Neuroetica. Le basi neurologiche del senso morale, tr. it. di R.I. Rumiati, Apogeo, Milano 2009; S. Stewart-Williams, Il senso della vita senza Dio. Prendere Darwin sul serio, tr. it. di E. Rini, a cura di M. Mori, Espress, Milano 2011; M. De Caro - A. Lavazza - G. Sartori (a cura di), Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio, Codice, Torino 2010. 97.  J.C. Eccles, nel suo libro Affrontare la realtà, difende il concetto della libertà e nello specifico sotto l’aspetto della libertà d’azione, cioè come possibilità di costruire la propria vita o di modificarla secondo determinati ideali. In ciò sostiene anche la tesi secondo la quale le stesse scienze naturali avrebbero bisogno della libertà per il loro pieno sviluppo (cfr. J.C. Eccles, Affrontare la realtà. Le avventure filosofiche di uno scienziato del cervello, tr. it. di A. Fanti, Armando, Roma 2018, p. 149).

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Ciò supporterebbe le affermazioni di Hildebrand, pur se questi si sottrae a una spiegazione più dettagliata, sia scientifica che filosofica. Anche i due significati di libertà possono avere aspetti più estesi; questo vale, ad esempio, per l’atteggiamento della volontà guidata da intenzioni etiche; la volontà assertiva o negativa si riferisce a oggetti ancora non reali, affinché essi rispettivamente esistano o meno. Tali oggetti devono essere significativi per noi, altrimenti non muoveranno la nostra volontà. La libertà consiste nella possibile risposta che si può dare, ma il motivo deve essere la significatività dell’oggetto. Ciò significa che siamo in grado di soprassedere all’appello dell’oggetto, ignorando o negando il suo invito, poiché è in nostro potere farlo. Alla questione del fondamento della libertà e se esso presupponga gli stessi esseri umani quale causa prima, la risposta di Hildebrand è chiara e irrevocabile: il libero arbitrio non si scontra con la nostra natura creata, anzi il fatto che abbiamo una libera volontà presuppone Dio come causa prima98. Poiché l’uomo è inteso come natura creata, il cui creatore è Dio, anche la sua libertà viene da Dio, anche se la sua realizzazione è indipendente da lui. Nel contesto della moralità la libertà umana evoca anche il problema della libera decisione: se si seguisse il principio in base al quale l’essere umano tende a obbedire a ciò che è piacevole o soltanto al soggettivamente soddisfacente, la distinzione precedentemente trattata tra soggettivamente soddisfacente e oggettivamente buono sarebbe inutile. In quella sede aveva98.  Al riguardo anche la Stein argomenta che l’essere umano non rappresenta l’origine della sua libertà e indica indirettamente Dio, sostenendo che bisogna cercare tale origine su un altro livello, ovvero quello della filosofia della religione (cfr. E. Stein, Psicologia e scienze dello spirito, cit., p. 120).

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mo spiegato, però, che nella vita della persona ci sono secondo Hildebrand tre tipi di motivazione: abbiamo la possibilità di scelta99 e prendiamo decisioni senza essere in ciò costretti dal bene morale. Hildebrand intravede così anche diversi tipi di persone: ci sono coloro che perseguono principalmente il soggettivamente soddisfacente, come anche coloro che agiscono seguendo l’appello del bene oggettivo100. Fondamentale per questa domanda è il fatto che il bene morale ci appella con una chiara motivazione, a cui siamo veramente liberi di rispondere o meno, in piena consapevolezza, e che il soggettivamente soddisfacente non è in sé cattivo o negativo. Ovviamente dietro a questa visione c’è il grande problema delle decisioni e dei condizionamenti erronei, legato al divario tra valori meramente piacevoli e valori morali: se seguo solo il piacevole, la mia vita si svolgerà a un livello moralmente più basso della vita di chi agisce secondo la morale. Ci si può già immaginare come questo discorso, nel caso dell’amore, porti ad affermare che un amore senza responsabilità, che significa anche senza apertura cosciente al bene oggettivo,

99.  La scelta si riferisce, secondo Hildebrand, non solo ai mezzi, ma anche al traguardo: «Il conflitto dei valori con il soggettivamente soddisfacente può subentrare tra due o più possibili fini concreti e allo stesso modo tra determinati mezzi e il loro fine. In entrambi i casi sta alla nostra libertà conformarsi al valore o al soggettivamente soddisfacente» (E, p. 320). Se i mezzi siano poi i più adeguati non riguarda tale domanda: si tratterà nuovamente del loro valore morale, ovvero se siano neutri o se possiedono un valore. 100.  John Crosby distingue tale dimensione della libertà in Hildebrand, specialmente in riguardo a Scheler: la nostra libertà, infatti, non consiste – come ritiene Scheler – nel preferire o posporre un valore in relazione a un altro, quanto piuttosto nella risposta al valore anziché al soggettivamente soddisfacente. In questa distinzione hildebrandiana ritroviamo anche la chiarificazione del male, perché la nostra libertà sta sempre dinanzi a due possibilità: assentire al bene oggettivo o al bene soggettivo (cfr. J.F. Crosby, Dietrich von Hildebrand, cit., pp. 485-488).

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sia impossibile e non può essere vero amore. Non vogliamo, comunque, entrare ora in questo argomento, perché lo tratteremo in relazione all’amore e vi ritorneremo nel quinto capitolo con ulteriori considerazioni. Un’altra distinzione all’interno delle forme di libertà è quella tra libertà diretta e indiretta. In realtà ci sono cose di cui siamo responsabili anche se esse non rientrano direttamente nella nostra sfera di influenza. Nella morale si devono riconoscere cose di cui siamo “responsabili in qualche modo” e cose di cui “non siamo responsabili” e per le quali la nostra influenza non può avere alcuna conseguenza. Questa distinzione tra influsso diretto e indiretto della nostra libertà «implica la domanda se la realizzazione o al contrario la distruzione di una cosa siano in qualche modo in nostro potere; ciò sarà determinato dal modo in cui cerchiamo la realizzazione o la distruzione di un determinato oggetto»101. Nel contesto della nostra domanda sull’amore, è interessante constatare che le risposte affettive sono da situare nella sfera dell’influenza indiretta: non si può cambiare la decisione di una persona cara, ma si può influire su altri fattori che portino a un eventuale cambiamento di essa. La nostra libertà si espande ulteriormente, se consideriamo che possiamo prendere posizione di fronte ad esperienze che non sono diventate reali attraverso il nostro intervento, ma che tuttavia non possono più sparire senza un nostro intervento. In altre parole, di fronte a determinate situazioni che non abbiamo direttamente voluto o causato, possiamo ancora decidere di dire “sì” o “no”, e ciò riguarda principalmente gli stati psichici e l’essere affetti (Affiziertwerden). Prendiamo ad esempio la situazione seguente: sono invitata a un evento culturale, dove diversi artisti hanno lavorato insieme a un’unica opera. Posso fare spazio in me alla bellezza e profondità che comunicano, 101.  E, p. 326.

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così da essere riempita da quel valore e la mia anima ne venga toccata; ma posso anche bloccare questo processo in me e evitare che questa bellezza penetri in me a un tale livello di profondità. In definitiva la libertà è uno degli aspetti più importanti102 della persona come essere spirituale, specialmente per quanto riguarda la sfera della moralità. Grazie a questa capacità, possiamo già preparare in noi stessi il terreno per essere affettati dai valori, e partecipare – non appena ne veniamo toccati – alla loro maturazione e fecondità in noi. Naturalmente non possiamo, attraverso la nostra libertà, comandare risposte affettive e farle diventare reali: tra atti di volontà e risposte affettive esiste una differenza ontica; ma il ruolo della nostra libertà non è meno importante, una volta che tali risposte sono messe in luce. Un esempio ci aiuta a chiarire: non posso forzare la gioia, ma quando improvvisamente la ritrovo in me, posso certamente sanzionarla o rifiutarla, posso accettarla e identificarmi con essa o rifiutarla e scrollarla di dosso. Questo sarebbe il punto più basso della libertà umana. In questi due atti di sanzione e di-

102.  La comprensione della libertà, in effetti, può dare un grosso contributo allo sviluppo dell’antropologia perché Hildebrand prende in considerazione i diversi e opposti aspetti della vita umana e attraverso la libertà crea un legame tra intelletto, volontà e affettività. Anche Paola Premoli de Marchi si esprime al riguardo: «Hildebrand’s philosophy of freedom indeed enables us to comprehend the many aspects of human experiences, and at the same time takes into account the metaphysical situation of man as a created person, who is endowed with a body and a spiritual center constituted by the unity of intellect, will and affectivity, and ordered to truth, moral goodness and happiness» (P. Premoli De Marchi, Philosophy of Freedom in Dietrich von Hildebrand. Freedom as Related to Truth, Moral Goodness and Affectivity, in Freedom in Contemporary Culture. Acts of the V World Congress of Christian Philosophy (Lublin, 20-25 August 1996), vol. I, University Press of the Catholic University of Lublin, Lublin 1998, pp. 627638: p. 638).

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sconoscimento, Hildebrand vede per così dire la possibilità che la nostra libertà influenzi in qualche modo le risposte affettive. La sanzione e il rifiuto sono da intendere come rassicurazione o come rigetto delle risposte affettive: sono due atti che possiamo compiere, che di per sé non producono o dissolvono le risposte, anzi le presuppongono. Sono un contributo organico delle risposte affettive, qualcosa che viene dall’interno, quindi sono possibili solo conoscendo il mondo dei valori e lasciandosi coinvolgere da esso. La sanzione e il rifiuto cambiano la nostra risposta, rendendola maggiormente «la nostra risposta»; nel caso della sanzione la risposta diventa più nostra, perché siamo in pieno accordo con il valore a cui abbiamo risposto; nel caso del disconoscimento, invece, dichiariamo non valida la nostra risposta. La libertà di sanzionare/disconoscere è al centro della nostra persona ed è essenziale per la volontà nella sfera dell’azione. È chiaro che la comprensione della libertà e della persona in Hildebrand evoca forti controreazioni, se si confronta con i termini di es/ego/super-ego di Freud. Secondo Freud non esiste alcuna libertà di sanzione o disconoscimento, perché per lui i valori sono solo l’utile e il dilettevole, esattamente il contrario di quanto Hildebrand comprende come valore. Una critica appropriata al Nostro, dal punto di vista di Freud, potrebbe riferirsi alla dimensione trascurata delle emozioni inconsce e incontrollabili, che è stata confermata anche dalle attuali ricerche sul cervello103. D’altra parte, Hildebrand risponde costernato alle teorie psicoanalitiche, che confondono colpa e complessi di colpa, ignorando la realtà del bene e del male104. 103.  Cfr. G. Roth, Fühlen, Denken, Handeln. Wie das Gehirn unser Verhalten steuert, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2001. 104.  Cfr. D. von Hildebrand, Il cavallo di Troia nella città di Dio, tr. it. di L. Villalsa, Volpe, Roma 1969, cap. XIV: Libertà e arbitrio, pp. 149-153.

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Capitolo III

Primi tratti essenziali della filosofia dell’amore in Hildebrand

Nel secondo capitolo abbiamo esaminato l’etica hildebrandiana, approfondendo alcuni elementi essenziali del suo pensiero, incluso il concetto di persona. In modo particolare si è evidenziato che la persona è un essere libero, dotato di facoltà intellettuali e spirituali, di autonomia, ma allo stesso tempo essa è chiamata a una vita comunitaria con i suoi simili. Per Hildebrand, la persona è un essere che pensa, che vuole, che sente con altri. Questa dimensione del sentire è l’aspetto più importante della nostra discussione sul fenomeno dell’amore. Lo stesso Hildebrand era fortemente convinto dell’importanza della sfera affettiva nell’essere umano, per cui in questo capitolo rivolgeremo la nostra attenzione all’affettività e al suo ruolo nella nostra vita. I risultati di tale analisi mostreranno la centralità del cuore nella sfera affettiva e che i sentimenti vengono concepiti all’interno di un contesto ontologico nonostante, o meglio, proprio a causa della loro differenza essenziale con intelletto e volontà. È, infatti, solo attraverso l’equilibrio di tutti e tre, cioè tanto in quanto ogni sfera contribuisce con la sua specificità che la personalità può svilupparsi armoniosamente. Affermare che i sentimenti corporei (leiblich) e psichici, ovvero

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sentimenti esclusivamente condizionati dal corpo vivente, ma anche sentimenti che non presuppongono sempre una causa nell’esperienza corporea esterna, richiamino comunque a una causa, li delimita ipso facto dal campo delle risposte affettive che, invece, sono motivate. Tuttavia, le risposte affettive non sono da confondere con le passioni, perché queste ultime non sono stati intenzionali. Questa delimitazione ci consentirà di definire le risposte affettive – fra le quali deve essere classificato l’amore – come atti intenzionali, cioè come atti che sorgono da una relazione consapevole tra l’essere umano e gli oggetti fisici e spirituali come risposte adeguate. La dinamica delle risposte affettive rivela le caratteristiche delle risposte al valore e porta al riconoscimento dell’amore come una risposta al valore. Da qui deriva l’enfasi sugli elementi specifici dell’amore come risposta al valore, fra cui sono da menzionare in particolare: l’intenzione unitiva e l’intenzione benevolente, due aspetti profondamente inerenti a tutte le forme di amore. Per intenzione unitiva Hildebrand comprende il desiderio più profondo dell’essere umano di unione con l’amato/a, che caratterizza tutte le forme di amore. L’intenzione benevolente, invece, indica il desiderio di creare o promuovere il bene dell’amato/a e di fare qualsiasi cosa per il suo benessere. Questi due aspetti sono di fondamentale importanza nella nostra analisi, perché essi – e questo vale in particolare per l’intenzione unitiva – rappresentano l’aspetto più importante dell’amore quale dimensione metafisica dell’essere umano, pur non entrando in gioco in tutte le forme di amore allo stesso modo, come si vedrà nella considerazione individuale delle medesime. Un altro argomento fondamentale è la comprensione della caritas come categoria particolare di amore e, allo stesso tempo, come qualità precipua dell’amore, che plasma come tale tutte le forme di amore in modo più o meno forte. Il Giano bifronte

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della caritas, amore fondato in Dio e allo stesso tempo amore perfezionante ogni altra forma di amore, solleva alcune domande che giocheranno un ruolo chiave nella nostra analisi. Scopo di questo capitolo sarà quindi quello di esplorare da una parte le basi della filosofia dell’amore hildebrandiana, in particolare la sua comprensione dell’amore quale risposta al valore, come forma concreta di espressione nella vita di ogni essere umano, dall’altra di puntualizzare alcuni problemi emergenti e i limiti di questa teoria.

1. La dimensione dell’affettività e il ruolo del cuore Un tema molto sentito da Hildebrand è la riabilitazione della sfera affettiva, nonché della conoscenza e della volontà come caratteristiche principali dell’essere umano, quale essere spirituale. In questo senso, le risposte affettive trovano il loro “posto” nel cuore1 e non nella volontà o nell’intelletto2. Secondo Hildebrand molti filosofi commettono un grande errore quan1.  Il significato della parola “cuore”, come accade per il “sentimento”, non trova in Hildebrand una chiara e univoca differenziazione, nonostante vi dedichi un’intera opera: Über das Herz. Il cuore costituisce primariamente l’organo umano, ma anche il luogo simbolico dove l’affettività si può sviluppare. Infine, esso indica il punto centrale dell’affettività delicata. Hildebrand fa, dunque, uno studio di approfondimento e chiarificazione circa il cuore umano e le declinazioni dell’affettività da esso scaturenti che, passando poi allo studio del cuore di Dio, si conclude con la visione del cuore umano “purificato” e trasformato dall’amore di Dio. Cfr., per un approfondimento, S.T. Zarzycki, Spiritualität des Herzens. Die philosophisch-theologischen Grundlagen bei Dietrich von Hildebrand, Pneuma, München 2010. 2.  Max Scheler parla al riguardo di «una separazione completamente inadeguata alla struttura dello spirito, tra “ragione” e “sensibilità”», che conduce a uno spostamento di tutti i vissuti emozionali nella sfera dei sensi in quanto non direttamente legati alla ragione (cfr. M. Scheler, Il formalismo, cit., p. 314).

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do classificano il cuore e la sfera affettiva come secondari, perché proprio la felicità che tutti gli uomini agognano, appartiene a questa sfera: la felicità si può solo sentire, non comprendere, né tanto meno pretendere. Hildebrand attribuisce questo diffuso giudizio errato della sfera affettiva a un fraintendimento dell’affettività stessa, come puramente condizionata dal corpo: i sentimenti e le passioni del corpo sono classificati come affettivi e l’atto affettivo in quanto tale viene completamente ignorato. Hildebrand qui fa riferimento alla filosofia antica e in particolare alle posizioni di Platone e Aristotele3 i quali, a suo avviso, si esprimono in modo contraddittorio rispetto ai sentimenti4: pur rimanendo aspetti significativi della vita umana, vengono relegati nel livello più basso dell’anima. Nel corso della storia della filosofia, tale posizione ha portato a un’interpretazione errata delle emozioni, pensate come passioni, o ancor di più con l’esclusiva considerazione di ogni vissuto emotivo sotto la categoria delle passioni. La sfera affettiva, tuttavia, è costituita da una serie di esperienze diverse, il cui spettro va dai sentimenti fisici alle esperienze spirituali più elevate, che hanno la stessa dignità degli atti di volontà e degli atti mentali. «In verità, troviamo nella persona tre centri spirituali, ovvero la trilogia: intelletto, volontà

3.  Hildebrand critica in particolare Aristotele poiché per lui «ragione e volontà costituiscono la parte spirituale dell’essere umano, mentre il campo degli affetti e con esso il cuore appartengono agli strati non spirituali, ovvero ai vissuti che l’essere umano pare condividere con l’animale […]. Questo così basso posizionamento dell’affettività è tanto più sorprendente visto che Aristotele spiega come la felicità sia il bene supremo per il quale si desidera ogni altro bene» (UH, p. 24). 4.  Circa la contraddittorietà o la non chiarezza della sfera affettiva, si veda: A. Plack, Die Stellung der Liebe in der materialen Wertethik. Eine systematische Auseinandersetzung im Anschluss an Max Scheler, Nicolai Hartmann und Dietrich von Hildebrand, Isar-Post, Landshut 1962, pp. 52-53. Qui Plack richiama la molteplicità di significati dell’amore tra desiderio e passione.

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e cuore»5. Per questo motivo Hildebrand ritiene indispensabile studiare la sfera affettiva con un’analisi più approfondita. Una prima chiarificazione preliminare: la risposta è inseparabile dal suo oggetto motivante, a causa del legame intenzionale tra essa e l’oggetto che la motiva, come abbiamo già spiegato. In modo diverso, la risposta affettiva perderebbe la sua identità e giustamente dovrebbe essere considerata inferiore alle risposte della volontà e alle risposte teoretiche. Conseguenze anche peggiori seguirebbero nel caso si volessero sostituire i valori moralmente significativi con i semplici sentimenti di simpatia, perché ciò degraderebbe le realtà indipendenti dal nostro spirito a qualcosa di puramente soggettivo e non riconoscerebbe la loro vera identità di risposte spirituali. Come ha dimostrato Scheler, la sfera affettiva si manifesta con una grande varietà di sentimenti6, tutti diversi nella loro accezione. 5.  D. von Hildebrand, Die geistigen Formen der Affektivität, in «Philosophisches Jahrbuch», LXVIII, 1960, pp. 180-190: p. 186. Pur con differenti intenzioni, anche Theodor Haecker difende l’appartenenza del sentire allo spirito umano, con pari diritti che la volontà e la ragione (cfr. Th. Haecker, Metaphysik des Fühlens. Eine nachgelassene Schrift, Kösel, München 1950). 6.  Il termine “sentimento” (Gefühl) possiede una molteplicità di significati che si sono sviluppati nel corso della storia in differenti modi, anche all’interno del discorso filosofico, così da non restituirci una chiara e unitaria definizione. Ad esempio, nell’antichità il sentimento era una questione di morale, così che l’analisi dei sentimenti seguiva ed era subordinata a quella sulle virtù; lo stesso nell’epoca medievale, a forte matrice cristiana. Un altro approccio è stato quello più teoretico di confronto tra sentimenti e intelletto (Kant); mentre tra la fine del XIX sec. e gli inizi del XX si è assistito a un fenomeno di psicologizzazione dei sentimenti. Nella lingua madre del Nostro, il termine assume una varietà di espressioni sulla quale non è possibile qui soffermarsi; ci limitiamo a differenziare l’uso del termine al singolare e quello al plurale: nel primo caso, esso indica il sentire psicologico o mentale, mentre al plurale indica gli atti cognitivi. Se dunque, da un lato, si colloca il sentimento, descritto come un elemento soggettivo costitutivo della facoltà

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Esiste già una prima differenza, ad esempio, tra i sentimenti corporali e quelli psichici: i primi sono esperienze del corpo vivente, quindi sono in diretto contatto con esso; i secondi non sono necessariamente causati dal corpo e sono più soggettivi e anche se fossero causati dal corpo, non si presenterebbero come sua espressione. Queste due forme del sentire si differenziano dalle risposte, perché esse vengono causate, non motivate: le vere risposte affettive possono nascere solo da una motivazione, cosa che non sminuisce e non esclude in alcun modo il ruolo del corpo. Hildebrand mette in rilievo ed enfatizza il prezioso carattere dei sentimenti del corpo, affermando che «sarebbe completamente sbagliato equiparare i sentimenti

di giudizio, che si può polarizzare in piacere/dispiacere o amore/odio, non si può dire ugualmente dei sentimenti al plurale. Questi sembra che si differenzino dal puro sentire per il fatto di essere comunicabili e giudicabili. Ad esempio, la teoria di James-Lange presuppone che i sentimenti siano da ricondurre a sensazioni corporee; le teorie cognitiviste, invece, cercano di descriverli come atti puramente intenzionali e mentali, o come percezioni interne del soggetto, così da intendere i sentimenti come un modo di prendere posizione di fronte al mondo (Goldie, De Sousa); le teorie pluricomponenti, al contrario, cercano di spiegare i sentimenti come una composizione di componenti (Ben-Ze’ev). Cfr. la voce Gefühl, in P. Kolmer - A.G. Wildfeuer (a cura di), Neues Handbuch philosophischer Grundbegriffe, cit., vol. II, pp. 865-878; Í. Vendrell Ferran, Die Emotionen. Gefühle in der realistischen Phänomenologie, Akademie, Berlin 2008, pp. 22-54. Inoltre si veda pure: R.M. Restak, The Naked Brain. How the Emerging Neurosociety is Changing how We Live, Work, and Love, Three Rivers Press, New York 2006. Per un approfondimento sul tema dei sentimenti si può rinviare allo studio recente di Á. Heller, Teoria dei sentimenti, tr. it. di V. Franco, Castelvecchi, Roma 2017. La comprensione del termine “sentimento” in Hildebrand come in Scheler risente dell’approccio fenomenologico; tuttavia, in Über das Herz, come in altri testi, ci imbattiamo in più termini per dire “sentimento” – emozione, affetto, ecc. – che tra loro vengono interscambiati senza chiare delimitazioni di significato. Una spiegazione, come sostiene Stanislaw T. Zarzycki, potrebbe essere lo scarso interesse di Hildebrand per una precisa differenziazione linguistica e una maggiore esigenza di chiarezza a livello di contenuti (cfr. S. Zarzycki, Spiritualität des Herzens, cit.).

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del corpo umano a quelli degli animali. Perché il dolore fisico, il piacere e l’istinto in una persona hanno un carattere fondamentalmente diverso da quello dell’animale. Non si tratta certamente di vissuti spirituali, ma chiaramente personali»7. Le risposte affettive provocano senza dubbio effetti fisici, mentre non si può affermare il contrario alla stessa maniera, non si verifica infatti che effetti fisici comportino risposte affettive. Diversi dalle risposte affettive sono, invece, non solo gli stati non intenzionali8, ma anche le passioni, che come tali fanno parte di un’altra categoria. Spesso queste ultime sono state distinte in qualità di sentimenti spirituali dalla volontà o dalla ragione, se non messe perfino in contraddizione con esse9, ma ciò è inappropriato secondo Hildebrand, poiché quando si parla di passioni, ci si riferisce pur sempre a un certo grado di esperienza affettiva. Le passioni infatti rappresentano una forma inferiore di “essere-fuori-di-sé”, in cui la nostra ragione viene disattivata, lasciando spazio a una certa irrazionalità e a

7.  UH, p. 54. 8.  La differenziazione tra le varie forme di sentimento rispecchia in certo modo quella di Scheler, anche se terminologicamente un po’ modificata. I sentimenti non intenzionali, ad esempio, diventano per Scheler “stati sentimentali”: sono quei sentimenti che per Hildebrand sono strettamente legati al corpo senza avere sempre un oggetto diretto. I sentimenti intenzionali rappresentano il “sentire qualcosa” che ha normalmente dei valori come correlati; «la percezione affettiva (il sentire) tocca invece originariamente un tipo specifico di oggetti, appunto i “valori”» (M. Scheler, Il formalismo, cit., p. 319). Anche la precisa gradazione scheleriana della vita emotiva in sentimenti sensuali, sentimenti vitali, sentimenti dell’anima e sentimenti spirituali esprime analogie con il pensiero hildebrandiano: in ciò entrambi gli Autori mostrano una profonda comprensione della vita emotiva. 9.  Già gli stoici parlano delle passioni come contrappunto alla ragione, ad esempio Zenone o Crisippo, i quali le considerano come dimensione “malata” della facoltà di giudizio. Agostino porta le passioni in contrapposizione con la volontà, più precisamente ritiene che ci sia una relazione di sottomissione dei sentimenti alla volontà.

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una forma di “decadimento” abituale, in istinti schiavizzanti. Decisivo qui è il fatto che la libertà non si faccia più valere, a differenza delle risposte affettive, le quali richiedono una sanzione consapevole e libera da parte del centro della persona. Inoltre, ci sono passioni nel pieno senso della parola come l’ambizione, l’avidità, l’avarizia, che hanno tutte un «carattere oscuro, irragionevole»10. Anche gli istinti possono condurre alla schiavitù e, quindi, agire come le passioni, come nel caso di un alcolizzato o di un giocatore che non sa smettere di giocare e cade così in una vera dipendenza. Oltre a queste manifestazioni delle passioni, ci sono anche risposte affettive capaci di assumere lo stesso carattere, quando raggiungono un’intensità così elevata che agiscono in noi come un torrente inarrestabile, spazzando via quanto c’è di morale e distruggendo la personalità stessa: può essere il caso di un amore che diventa passione schiavizzante, smettendo in tal modo di essere amore. A parte questi casi, però, le passioni e le risposte affettive sono radicalmente diverse tra loro e, in effetti, se si attribuissero tutti i fenomeni affettivi alle sole passioni, l’intera sfera dell’affettività verrebbe sfasata. L’essere umano, infatti, in quanto essere spirituale, ha un atteggiamento intenzionale11 verso le cose, si-

10.  UH, p. 72. 11.  Hildebrand chiarisce in Die geistigen Formen der Affektivität come l’intenzionalità non sia assolutamente da scambiare con l’essere-rivolti, tipico di istinti o impulsi. Evidentemente si è diretti a un oggetto quando si ha un determinato impulso, come nel caso della sete che ha un rapporto diretto con la bevanda che può stillarla. Tuttavia, non si tratta qui di una risposta: la sete non è una personale risposta alla bibita, perché questo impulso o l’istinto non viene direttamente da noi, ma ce lo ritroviamo dentro. «L’intenzionalità, invece, contiene una ratio alla quale, in quanto persone, partecipiamo pienamente perché è la nostra ratio, quella che compiamo» (D. von Hildebrand, Die geistigen Formen der Affektivität, cit., p. 182).

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ano esse fisiche o mentali, attraverso la relazione cosciente stabilita con quelle che fornisce risposte appropriate e fondate. Le risposte affettive richiedono, dunque, sempre una compartecipazione dell’intelletto nell’atto conoscitivo con cui percepiamo l’oggetto e il suo valore, in collaborazione con il libero centro spirituale della persona12. Nella risposta al valore c’è una sorta di allineamento da parte del soggetto con l’oggetto in questione. In effetti, siamo «toccati» da certe cose o eventi e spinti interiormente a rispondervi, a prestare loro attenzione e ad aprire completamente i nostri cuori. Per dirla più concretamente e più chiaramente, noi non abbiamo bisogno della felicità allo stesso modo in cui abbiamo bisogno di cibo. Senza felicità ci svilupperemmo sicuramente in modo differente, eppure questa consapevolezza non ci spinge a cercarla o a desiderarla così come dobbiamo fare per procurarci il cibo. Nel caso di avvenimenti che ci toccano e ci spingono a rompere il recinto della nostra immanenza, mettendoci in relazione con l’oggetto significativo in questione, accade qualcosa di diverso rispetto agli impulsi e agli istinti che, pur riferendosi anch’essi a oggetti, hanno la loro causa nella nostra natura. Nel caso delle risposte affettive al valore la causa risiede nel valore dell’oggetto. Questa disposizione trascendente supera i nostri bisogni personali, perché siamo in grado di «rispondere a un oggetto con il nostro cuore, di interessarci ad esso, non solo quando è un bene oggettivo per noi, ma perché è intrinsecamente prezioso, oppure perché è un bene oggettivo per un’altra persona»13. Infine, il regno dell’affettività include anche i “sentimenti poetici”, cioè sentimenti non formalmente intenzionali, ma che sono comunque in una relazione interiore con il mondo oggettivo.

12.  UH, pp. 75-80. 13.  D. von Hildebrand, Die geistigen Formen der Affektivität, cit., p. 183.

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In questa già grande complessità del mondo affettivo, Hildebrand distingue ancora una sfera speciale: la cosiddetta “affettività delicata”. Essa si manifesta in tutte le categorie di amore: nell’amore per i figli e per i genitori, nell’amicizia, fra fratelli, nell’amore coniugale come pure nell’amore al prossimo. Essa si sviluppa nella commozione, nell’entusiasmo, nella gratitudine, nel dolore profondo e reale, nelle lacrime di gioia e nel rimorso, e contiene la capacità di una nobile dedizione che coinvolge il cuore.14

Questo tipo di affettività rivela il profondo desiderio di penetrare nell’oggetto e di stabilire con esso una reciprocità, che secondo Hildebrand è la forma più vera e alta di affettività, perché è presente in tutte le categorie dell’amore e contiene in sé la più profonda capacità di dedizione. Finché l’affettività rimane circoscritta e non deborda nel regno della volontà o della ragione, tutto si svolgerà ordinatamente. Viceversa, se volontà e ragione prendono il sopravvento e non lasciano spazio al cuore, si genera una sorta di atrofia affettiva15, che non permette alla ricchezza spirituale e alla profondità della persona di dispiegarsi adeguatamente. La soluzione d’equilibrio consiste comunque in un’efficace cooperazione di tutti e tre i centri. Con riferimento a questa trilogia, così definita da Hildebrand, Andrew Tallon cerca di focalizzare nella dimensione del cuore

14.  UH, p. 84. 15.  Hildebrand fornisce diversi esempi di atrofia affettiva, ordinandoli per tipi: c’è l’intellettuale, che fa esperienza di tutto per sola curiosità e pone questa al centro; poi c’è l’utilitarista, che ritiene superfluo tutto ciò che è affettivo; il tipo dell’impiegato ordina tutto secondo regole e compiti senza lasciare alcun posto alla spontaneità; infine, ci sono persone che hanno paura che il loro punto di riferimento morale sia messo in crisi se cedono all’affettività, perciò la collocano appositamente a un livello più basso nella scala di valori della loro vita.

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una figura chiave che, correttamente compresa, consentirebbe una riconciliazione tra la tradizione platonico-agostiniana del cuore e la tradizione intellettualistica aristotelico-tomasiana. Tallon interpreta la dimensione del cuore di Hildebrand non come una terza dimensione, diversa e distinta dalle altre due (volontà e ragione), ma come qualcosa di totalmente aderente alla persona, come una sintesi tra la dimensione fisica, spirituale e operativa della persona o, detta in modo diverso, tra affettività, conoscenza e volontà. Sebbene questa interpretazione circa la visione hildebrandiana del cuore possa essere in qualche modo documentata (effettivamente il cuore gioca un ruolo essenziale nel suo sistema filosofico), tuttavia essa ci sembra sia un po’ affrettata16. Hildebrand insiste su tutte e tre le dimensioni dell’essere umano e non presume che una, l’affettività, prenda il sopravvento sulle altre, anche se il cuore assume nella persona il significato più profondo; questo si deve al fatto che «nella sfera morale, la volontà dice l’ultima, valida parola. Qui si eleva, al di sopra di tutte le altre voci, la voce del libero centro spirituale della persona, poiché è nella volontà che troviamo il nostro vero sé, mentre in molti altri ambiti non la volontà o l’intelletto, ma il cuore costituisce il settore più interno, il midollo, il vero io»17. In sintesi, si può dire che nell’ambito dell’affettività ci si muove su due livelli: un livello inferiore, che comprende stati affetti-

16.  Cfr. A. Tallon, Affection, Cognition, Volition: The Triadic Meaning of Heart in Ethics, in «American Catholic Philosophical Quarterly», LXVIII, n. 2, 1994, pp. 211-232. A nostro parere il fatto che Hildebrand non abbia mai definito l’essere umano come ens amans – cosa che invece fa Scheler, e più tardi anche Husserl – va contro la posizione di Tallon; la persona è, infatti, vista da Hildebrand piuttosto come un intersecarsi di differenti strati che solo nel loro reciproco rapportarsi conducono alla pienezza altrimenti non raggiungibile. 17.  UH, p. 122.

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vi e passioni e un livello superiore, che si presenta come una sorta di dono dall’alto o «voce del cuore». È qui che si trovano anche le risposte affettive provenienti dalla profondità18 più intima dell’anima umana, tali sentimenti sono puri doni, perché l’essere umano non può né evocarli, né manipolarli, pur diventando naturalmente “nostri” una volta che interiormente si sia detto loro il proprio sì. Secondo Hildebrand il compito dell’essere umano è esattamente questo: Una persona può sviluppare in maniera crescente tutta la ricchezza spirituale e la profondità cui è chiamata, soltanto quando è impregnata dei valori che accoglie, quando il suo cuore 18.  L’elemento della profondità ritorna spesso negli scritti hildebrandiani, specialmente in riferimento all’amore, e trova un riferimento intellettuale già in Scheler e Pfänder, come anche in Haecker. Quest’ultimo si riferisce alla profondità come ciò che lega e caratterizza tutti i sentimenti, anzi la stessa parola “sentimento”. Infatti, secondo lui il termine tedesco raccoglie una maggiore ricchezza di significati delle parole “affection” o “sentiment” che hanno meno il carattere di movimento ed eccitazione. Ciò non significa, però, che i sentimenti non abbiano nulla a che vedere con il movimento; solo ai fini di una metafisica dei sentimenti, che vuole dare a questa dimensione il posto che le spetta, si deve concepire il sentire come qualcosa di statico e di appartenente all’Essere; ma questo sentire si può eccitare e mettere in movimento (cfr. Th. Haecker, Metaphysik des Fühlens, cit., pp. 2533). Il carattere della profondità, come localizzazione dei sentimenti umani più profondi, viene sottolineato anche da Friederich Grossart: come Hildebrand, ritiene che i veri sentimenti spirituali stiano nella più profonda natura umana, pur dipendendo anche dalla qualità del singolo soggetto. Poiché i sentimenti più profondi spesso costituiscono il nucleo dell’essere umano, vengono anche meno mostrati, la qual cosa non significa, però, che essi siano sentimenti nascosti. Grossart si lamenta, inoltre, che molti fenomenologi come Stein, Pfänder, Scheler (anche Hildebrand sarebbe uno di questi, pur non essendo esplicitamente nominato) abbiano riconosciuto il fenomeno, ma non vi abbiano dedicato sufficiente attenzione, così che i sentimenti più profondi rappresentano in questi pensatori qualcosa di tautologico (cfr. F. Grossart, Gefühl und Strebung. Wesen und Systematik des Gefühls, Reinhard, München-Basel 1961, parte II).

161 viene conquistato, acceso e quando esplode in risposte di gioia, entusiasmo e amore. È in questo spazio affettivo, nel cuore, che sono custoditi i tesori della vita più personale dell’essere umano. Nel cuore è il mistero della persona umana; qui viene pronunciata la sua parola più intima.19

Anche Gabriel Marcel sostiene questo punto di vista nella sua comprensione della persona e, in particolare nell’aspetto della disponibilità, nella capacità cioè di donarsi a tutto ciò che gli sta di fronte. A suo avviso, la persona – similmente a Hildebrand – è una vocazione, cioè la risposta alla chiamata di un valore incarnato nell’altra persona. L’intreccio dell’essere umano con i valori determina anche il suo stato metafisico: l’essere umano, come abbiamo visto, non solo è in grado di accogliere e accondiscendere ai valori, egli ha un’inclinazione costitutiva per farlo. Ci stiamo avvicinando in questo modo alla domanda, se e in quale misura l’amore, inteso come risposta al valore, possa corrispondere alla costituzione metafisica dell’essere umano in una dimensione così profonda, in altre parole se l’amore sia più di una risposta al valore e se la concezione etica hildebrandiana nasconda una base che consenta sviluppi metafisici.

2. Definizione dell’amore come risposta al valore Un primo passo in questa direzione è la constatazione che l’amo­re implica principalmente e fondamentalmente un’altra persona, poiché gli oggetti – secondo Hildebrand – possono essere “amati” solo in modo analogo, cioè gli oggetti spesso rappresentano qualcosa di piacevole e non un valore, tanto che possono provocare effettivamente una dipendenza, mai una 19.  UH, pp. 108-109.

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relazione d’amore20. In ogni amore, invece, un’altra persona viene percepita come preziosa e amabile ed è a questo valore che l’amore risponde, così che si può dire che l’amore è una risposta al valore, una risposta al valore riconosciuto nell’altro/a. Solo l’interesse per la persona può suscitare l’amore, nel senso che essa viene in rilievo come tale, mentre nella ricerca dell’utile o del dilettevole non è possibile l’amore nel vero senso della parola, perché l’amore, indipendentemente dalla sua forma, include sempre una consapevolezza della preziosità21 dell’altro/a, così che l’attrazione che egli/ella esercita su di me, si fonda su questa percezione della sua qualità di significato. Il «dato valoriale è così connesso con la persona, che nobilita la persona come tale, la rende preziosa, la pone a tema e genera il nostro incanto per lei, e questo vale in misura ancora maggiore per tutti i valori morali e religiosi»22. 20.  Questa definizione dell’amore viene rinforzata da Hildebrand quando vede nella negazione della dimensione personale dell’amore una negazione dell’amore stesso: «Che pensiero infelice quando parlando dell’amore si crede che per essere seri e metafisici si debba rinunciare all’atto di una persona. Ciò che lì si chiama amore deve essere allora un movimento finale che si trova come tale nell’Essere […]. Quali sono, allora, i processi finali di tipo materiale, tutti i movimenti? È polvere e cenere a confronto con un atto dell’amore, di un amore personale, ma al modo umano» (D. von Hildebrand, Das Cogito und die Erkenntnis der realen Welt. Teilveröffentlichung der Salzburger Vorlesungen Hildebrands: Wesen und Wert menschlicher Erkenntnis, in «Aletheia», vol. VI, 1993-1994 [1994], pp. 2-27: p. 18). 21.  Nelle sue trattazioni, Hildebrand utilizza molto spesso il termine – soggetto a diverse significazioni – “preziosità”. Da un lato, lo impiega riferendosi alla rarità, alla bellezza e all’essere-importante-per-sé: in tal senso può essere prezioso anche un oggetto come un gioiello o un’opera d’arte; tuttavia, questi oggetti non possono essere ricondotti a importanza e unicità come una persona, e ci sembra che sia proprio questo il modo di intendere propriamente hildebrandiano della preziosità che può toccarci. La preziosità della persona rappresenta, infatti, qualcosa di unico che non può essere sostituito da nient’altro. 22.  EA, p. 36.

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Diventa, ora, chiaro lo stretto legame fra amore e mondo dei valori; l’amore assume nella risposta l’aspetto di un carattere reattivo più che di un atteggiamento attivo la qual cosa potrebbe essere considerata come una riduzione. In verità, secondo Hildebrand, l’amore non è in nessun modo passivo, piuttosto è costituito da una dimensione dell’accoglienza, per cui viene sperimentato e vissuto come un dono (l’amore non è una scelta e non si può riprodurre), ma anche da una dimensione attiva, che esprime la parte dell’essere umano che afferma ciò che ha valore e, attraverso la sua fedeltà e cura, permette che esso sussista e cresca. A questo proposito ci si può anche chiedere se l’amore abbia un aspetto creativo. Se per “creativo” si intende la genesi dei valori attraverso l’amore, allora la risposta deve essere un chiaro no: l’amore non crea alcun valore, lo trova già e, riconoscendolo, si volge ad esso; ma se per “creativo” si intende l’aspetto di ingegnosità e quello di innovazione, con il quale si supporta l’amato/a nel suo essere autentico, allora l’amore è, per Hildebrand, creativo e costruttivo23.

23.  Su questo punto le posizioni di Hildebrand e Scheler potrebbero distanziarsi se si volesse intendere la definizione di amore dell’uno come contrapposta a quella dell’altro, e cioè proprio per via del carattere creativo riconosciuto da Scheler all’amore. Secondo lui, l’amore ha una natura di movimento e non è una semplice reazione a un valore già presente nell’altro. «L’amore esiste solamente là dove al valore già dato “come reale” nella persona si aggiunge ancora il movimento, l’intenzione verso ulteriori valori “superiori” possibili, valori superiori rispetto a quelli già esistenti e dati – ma non dati di già come qualità positive» (M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 234). Nel movimento verso valori più elevati o verso l’essere-elevato del valore di un oggetto l’amore è al contempo creativo. Anche secondo Scheler l’amore non scopre valori (in tal senso non è perciò creativo), ma vede ciò che è autentico e reale nell’oggetto amato e che nel sentire non è stato ancora dato. È per questo che ci si fa un’immagine ideale dell’amato/a. Al contrario, Hildebrand presuppone che l’amore venga acceso da valori preesistenti e colti come tali e, solo in un secondo momento, assuma un atteggiamento

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A causa del carattere di risposta, si devono anche escludere a priori alcune contro-argomentazioni o interpretazioni errate dell’amore. L’amore, ad esempio, non deve essere confuso con certi atteggiamenti che in realtà sono aspetti collaterali, e non amore in sé, come ad esempio l’orgoglio e il senso di sicurezza. È ovvio che in una relazione d’amore ci si sente sicuri e custoditi, ma questo non tocca sempre e solo l’amore; non è raro, infatti che qualcuno ci trasmetta un senso di sicurezza pur non amandoci. La stessa cosa si può dire dell’orgoglio: quando una madre parla dei suoi figli o due partner parlano l’uno dell’altra, spesso esprimono un senso d’orgoglio, che comunque rimane un effetto collaterale erroneo dell’amore, perché si considera la persona amata come il proprio ego prolungato e non come un essere unico in sé. Una simile interpretazione fuorviante dell’amore crede che esso nasca dalla felicità che ci si aspetta da qualcuno. L’amore certamente rende felici, la felicità è addirittura uno degli aspetti più importanti dell’amore, ma non ne è la ragione, bensì l’effetto che lo accompagna, così come l’orgoglio e il senso di sicurezza. In altre parole: perché ti amo, sono felice o orgogliosa di te e non viceversa. L’amore non si può dedurre dagli atti benefici, poiché questi possono essere rivolti anche a qualcuno che non si ama, ma creativo nel senso scheleriano, portando alla luce gli altri valori che appartengono al vero Essere dell’amato/a. La differenza tra le due posizioni non consiste, dunque, in una comprensione dell’amore come reazione fissata a qualcosa di già dato o come movimento nel senso di un atto creativo di qualcosa che ancora non è dato. Si tratta, piuttosto, del pieno riconoscimento di Hildebrand dell’oggetto nella sua realtà, ovvero della necessaria preesistenza di determinati valori che risvegliano l’amore conducendolo all’affermazione dell’altro/a, che significa anche uno svelare qualcosa di più o maggior essere. Scheler si colloca al secondo livello e rispecchia l’immagine idealistica dell’amore, secondo la quale esso non si accontenta della realtà, ma, in senso platonico, desidera qualcosa di sempre più elevato.

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magari si rispetta o si riverisce. A questo proposito Scheler si esprime ancora più fortemente di Hildebrand, quando afferma che la benevolenza e gli atti benefici sono esattamente l’opposto dell’amore, perché in essi si riscontra una certa distanza tra il beneficiario e il beneficiato24. In effetti nella benevolenza si mescolano molti altri sentimenti e aspettative, come il compiacimento o il desiderio di riconoscimento che inficiano il beneficio in sé, perché al centro non sta la persona alla quale è rivolto il gesto benevolente, ma il gesto stesso e l’effetto che esso ha su di essa. Anche qualora la benevolenza risvegli l’amore, esso deriverà non dai benefici, ma dalla persona benevolente e questo perché ella era in un atteggiamento d’amore. In un atto di benevolenza viene in luce una qualità della persona ed è questa qualità personale che mi tocca e risveglia in me la risposta d’amore. Se si ama, si desidera essere benevoli con l’amato/a, ma ciò non deve comportare un’obbligazione, come non si può dire che l’amore nasca automaticamente dalla benevolenza. Oltre ai fenomeni collaterali ne esistono altri, quali il desiderio sensuale25 o l’orgoglio, la sete disordinata di felicità o l’amore di sé, che vengono erroneamente confusi con l’amore. Nel caso del desiderio puramente sensuale, accade che si trovi l’altra persona attraente e che questa possa trovare a sua volta piacere in noi, ma la tal persona non viene considerata come persona o “tematizzata”. In generale, si può dire che il solo fatto di trovare donne 24.  Cfr. M. Scheler, Il formalismo, cit., pp. 170-173. 25.  Arno Plack rinforza il motivo della esclusività tra amore e desiderio sensuale perché riconosce in quel tipico superar-si dell’amore un’attività, mentre il desiderio sensuale è pura passività. Inoltre, egli sostiene che il desiderio sensuale cosifichi l’oggetto d’amore, come affermano anche Hildebrand e Scheler, sì da poter pervenire alla conclusione che nel desiderio sensuale manchi sin dall’inizio un oggetto personale. Cfr. A. Plack, Die Stellung der Liebe, cit., pp. 50-51.

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o uomini attraenti e desiderabili non significhi automaticamente riconoscerli e amarli come persone nel loro pieno valore. Anche il filosofo francese Gabriel Marcel sostiene una tale distinzione tra desiderio e amore, quando parla dell’effetto dell’amante sull’amato/a attraverso l’amore, e cioè del fatto che l’amore tocca effettivamente l’altra persona, cosa che nel desiderio non accade. «Col desiderio in effetti io tendo a subordinare l’essere amato ai miei propri fini, convertendolo in oggetto»26. La persona piena di sé, orgogliosa, pensa di essere la migliore e al di sopra di tutti. Questo sentimento può essere trasferito all’amato/a, considerandolo/a come un ego prolungato, come parte di se stessi: si proietteranno così in lui/lei ogni sorta di qualità, ma l’apprezzamento di queste qualità non si basa sull’amore per lui/lei, bensì su un’illusione. Si vedrà, quindi, l’altro/a non nella sua vera personalità con qualità e limiti, ma come un ego espanso; ecco perché l’orgoglio non è amore e non può neppure motivarlo. Accade esattamente la stessa cosa quando qualcuno vuole a tutti i costi essere felice; anche qui si è inclini a considerare l’amato/a come modello di bellezza, bontà e perfezione – qualità che l’amato/a potrebbe anche non possedere o, forse, le possiede in scarsa misura – e a confrontare tali qualità con quelle degli altri. Così si misura la propria felicità, per così dire, partendo dagli altri, ciò che non può accadere nel caso del vero amore, perché attraverso l’amore si risponde a un valore nella persona e solo a quello che ha per sé una validità imparagonabile. Infine, vengono menzionate due interpretazioni errate dell’amore, vale a dire gli atteggiamenti secondo i quali l’amore de26.  G. Marcel, Giornale metafisico, tr. it. di F. Spirito, Abete, Roma 1966, p. 112. In consonanza con Marcel, Hildebrand dice che l’amante ama l’ama­ to/a così com’è, con tutte le sue mancanze e limiti e che, per tale ragione, un atteggiamento “pedagogico” di correzione entrerebbe in collisione con l’atteggiamento dell’amore.

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riva dall’appetito27 o dall’amore di sé. Perché l’amore non è derivabile dall’appetito? Perché nell’appetito, secondo la spiegazione di Hildebrand, diversamente dalla risposta al valore, la significatività dell’oggetto consiste nella possibile soddisfazione del bisogno soggettivo, mentre nella risposta al valore l’oggetto stesso è significativo. In questo senso non bisogna confondere questi due fenomeni e non derivare l’amore dall’appetito. Anche se un autentico appetito dovesse renderci più recettivi, sarebbe del tutto falso credere che si debba per questo trovare nell’appetito la radice dell’importanza del bene, ossia che si possa ridurre il valore alla soddisfazione dell’appetito.28

L’amore non è guidato da un desiderio o da un bisogno, come leggiamo nel Simposio; l’intenzione di Hildebrand va esattamente nella direzione opposta, come scrive John F. Crosby nella sua introduzione alla traduzione inglese de L’essenza dell’amore: «Io non sono attratto dall’amato/a perché è una persona che può soddisfare i miei bisogni. Sono attratto dall’amato/a in quanto amabile e per quanto gli/le spetta per diritto e io amo l’altro/a per se stesso/a»29. Ancor diversamente stanno le cose quando si vuole derivare l’amore per gli altri partendo dall’amor di sé, presumendo che si possa amare l’altro perché si ama se stessi e che l’unità che si ha con se stessi si possa mettere a confronto con l’unità con la persona amata.

27.  Cfr. supra, cap. I, §§ 2.1-2.2, su Agostino e Tommaso d’Aquino. 28.  EA, p. 51. 29.  «I am not drawn to the beloved under the aspect of one who can fulfill my need. I am drawn to the beloved as one who is lovable in his or her own right, and I love the other for his or her own sake» (J.F. Crosby, Introductory Study, in D. von Hildebrand, The Nature of Love, St. Augustine’s Press, South Bend [IN] 2009, pp. xiii-xxxvi: p. xxi).

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Questo è secondo Hildebrand un errore, intanto perché l’amore di sé – questa sorta di solidarietà o unità con se stessi – è un atteggiamento di base in ogni essere umano, in secondo luogo perché l’amore non proviene da un’unità preesistente, sebbene conduca ad essa e la desideri. Il rapporto che ogni essere umano ha con se stesso sussiste fin dall’inizio: siamo solidali con noi stessi dal principio della nostra esistenza, senza aver precedentemente acquisito un qualche tipo di conoscenza specifica di noi. Contrariamente, la solidarietà che si prova verso qualcun altro è una conseguenza dell’amore: poiché si ama qualcuno, si è anche solidali con lui/lei. Se tale spiegazione può sembrare plausibile a causa della distinzione tra varie forme di unità o solidarietà, così da poter dire che l’unità con se stessi sussiste a priori, mentre l’unità con l’altro/a è una sfida verso la quale l’amore spinge, è anche vero che così nascono altri problemi, come ad esempio, la necessità di una nuova definizione dell’amor di sé. Al riguardo va detto che Hildebrand, pur non negando che esso sia amore, anzi, rintracciando in esso un chiaro riferimento all’amore al prossimo – da comprendere principalmente nel contesto cristiano – non lo descrive in modo approfondito. La comprensione cristiana dell’amore del prossimo si basa sul comandamento dell’amore: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». Se l’amore verso il prossimo trova la sua misura nell’amore di sé, o amor proprio, sorge allora la domanda sulle differenze e somiglianze tra i due amori.

2.1. La singolarità dell’amore a confronto con altre risposte al valore Dal capitolo precedente sappiamo che la semplice affermazione «l’amore è una risposta al valore» non è in sé particolarmente illuminante, perché esistono diverse risposte al valore;

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il prossimo passo quindi consisterà nel cercare tra le diverse risposte al valore, quella forma che meglio esprime l’amore. Nel percorso iniziale intrapreso attraversando la storia dell’amore in filosofia, ci siamo imbattuti in diversi approcci e letture di tale fenomeno, molti dei quali lo hanno inteso soprattutto come un atto di volontà, anche se la volontà era considerata in senso ampio. All’interno della distinzione operata da Hildebrand tra le risposte volitive e affettive non si può certamente descrivere l’amore come una risposta della volontà, ma come una risposta affettiva al valore, così come il tema della volontà è la realizzazione di uno stato di cose attraverso la persona e il tema delle risposte affettive è a sua volta il valore reale. Tuttavia, anche all’interno delle risposte al valore troviamo differenze significative: senza dubbio ci sono risposte al valore che hanno un carattere di apprezzamento, come ad esempio la stima; tipica di essa è un’empatia ridotta, perché nella stima sussiste una certa distanza tra le due persone. D’altra parte, ci sono risposte al valore, come la venerazione, che vanno oltre l’apprezzamento e implicano un coinvolgimento molto più personale: il soggetto è tanto più coinvolto nella venerazione che nella stima. Nell’amore si mostra un coinvolgimento del cuore ancora più intenso rispetto alle altre risposte affettive al valore. Secondo Hildebrand l’amore è la risposta al valore più soggettiva, perché in essa il soggetto è coinvolto al massimo e sebbene altre risposte al valore come la stima e la venerazione accompagnino a volte l’amore, tuttavia esse non lo possono sostituire. Non è, però, solo il grado di partecipazione personale a distinguere l’amore dalle altre risposte al valore; sono diversi gli aspetti che rendono l’amore una risposta al valore molto speciale: l’amore, ad esempio, è superattuale, in esso si esprime l’incanto per l’amato/a, l’amore possiede un’intenzione unitiva e un’intenzione benevolente come pure un carattere di donazione di sé

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agli altri; l’amore richiede un grande impegno ed è la risposta al valore che più di ogni altra rende felici. Prendiamo ora un aspetto dopo l’altro e cerchiamo di capire in che modo ciascuno rappresenti una “particolarità”. Innanzitutto, l’amore è essenzialmente superattuale. Per capire che cosa significhi dobbiamo distinguere, seguendo Hildebrand, tra due forme di superattualità: da un lato, ci sono prese di posizioni che sono di per sé superattuali, ovvero contengono una posizione persistente rispetto all’oggetto, anche in assenza del medesimo, superando così il momento della presa di posizione stessa. Anche la stima si qualifica attraverso tale superattualità: quando stimiamo una persona, quest’atteggiamento è sempre presente, non solo nei momenti in cui ci troviamo con essa, o quando annoveriamo i motivi della nostra stima. D’altra parte esiste una superattualità, che non corrisponde soltanto alla permanenza della nostra posizione verso l’oggetto; è l’atto stesso della presa di posizione che perdura in noi. Nel caso dell’amore ciò significa che non solo la specifica parola promessa all’altra persona mantiene la sua validità, ma anche la presa di posizione continua ad essere viva nella nostra anima e dà a tutti i nostri vissuti la sua tonalità. Non solo, l’amore spinge verso una sempre nuova attualizzazione. Quando amo qualcuno, quest’amore rimane in me, anche se sono lontana dall’amato/a. Inoltre, non dirò: «amo i miei genitori finché sono con loro e poi non più». Il mio amore per loro dura in me oltre il tempo e lo spazio e mi accompagna nel più profondo, lungo tutto l’arco della mia vita. L’“essere incantati” dell’amato/a caratterizza ogni forma di amore, in particolare l’amore uomo-donna, ma questo non deve essere inteso puramente come piacere su cui si accresce il desiderio. Nell’amore si riconosce l’intero valore della persona amata, così che ad esempio, singoli tratti della sua bellezza vengono visti nel contesto della sua bellezza complessiva. «Il vero

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fondamento valoriale dell’amore nell’amato non è mai, infatti, una determinata qualità valoriale che potrebbe essere indicata come tale, quanto piuttosto un carattere di valore generale che in qualche modo la persona realizza»30. In altre parole, nell’amore si ha sempre davanti a sé il quadro complessivo della persona e non solo il suo determinato carattere, che potrebbe suscitare attrazione e desiderio. Similmente, Edith Stein afferma che l’amante incontra il nucleo dell’altra persona in modo immediato31. Anche la scelta del linguaggio enfatizza questo aspetto, infatti, parlando alla persona cara, diciamo “ti amo” e non “amo il tuo coraggio o la tua sensibilità”. Forse sono stati questo coraggio o la sensibilità a motivare la mia risposta d’amore, ma il mio amore si dirige ora all’intera persona. A questo proposito Hildebrand pensa che la bellezza complessiva dell’altro/a ci sia data intuitivamente e che essa ci debba attrarre (affettare) per poter davvero parlare d’amore32. Se si dovesse rimanere al coraggio o alla sensibilità si proverebbe per l’altro/a simpatia, si avrebbe forse stima per lui/lei, ma la premessa per tut-

30.  MG, p. 80, nota 1. 31.  Cfr. E. Stein, Psicologia e scienze dello spirito, cit., parte II, cap. II, 159-306, pp. 280 ss. 32.  Anche Gabriel Marcel arriva alla stessa conclusione, se pur con altre argomentazioni. Egli sostiene, infatti, che l’amore non rintraccia la parte sconosciuta o irriconoscibile dell’altro/a, ma piuttosto che l’amante vede qualcosa di speciale nel modo in cui egli/ella si rapporta con lui/lei: «invano l’enumererà i caratteri, i meriti dell’essere amato; a priori è evidente che questo inventario non renderà trasparente ai suoi occhi il suo amore. Se anche giungesse a isolare un carattere privilegiato, questo privilegio gli sarebbe ancora inesplicabile» (G. Marcel, Giornale metafisico, cit., p. 120). Quando, però, Hildebrand parla dell’amore come risposta al valore che reagisce alla bellezza complessiva dell’altro/a, intende esattamente che non sono caratteri concreti, specifici a muovere l’amore, ma che l’altro/a in sé viene asserito in modo speciale come pieno di valore.

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to ciò non dovrebbe necessariamente essere il provare amore per la tal persona. Oltre ciò, nell’amore si raggiunge un’incorporazione nel medesimo campo valoriale che altrimenti non si trova in altre risposte al valore: quando si ama qualcuno/a si entra immediatamente nel suo campo valoriale33 e cioè in quello al quale è connesso il carattere valoriale complessivo dell’amato/a. Un’ulteriore carattere dell’amore è la donazione di sé nella dedizione (Hingabe) verso l’amato/a. Essa caratterizza in modo particolare l’amore coniugale e l’amore verso Dio, pur se in maniera differente; ma si trovano tracce di questa dedizione anche nelle altre forme di amore. Ontologicamente parlando, tale dedizione all’altro/a non significa trascurarsi a suo favore. In tale donazione di sé non si sperimenta di essere perduti: «Nell’amare e nel donare se stessi all’amato non c’è alcuna coscienza di rinuncia al proprio carattere in quanto individuo, piuttosto l’atto del donare rende sé stessi veramente sé stessi»34. Questo si esprime in parole come «io sono tuo/a» che in certo modo si ritrovano in ogni amore. Accanto a questa dimensione dell’amore di sé, che ha prevalentemente il carattere del dono, ce n’è una seconda che necessita il nostro sanzionamento, ov33.  L’essere-incorporati in un campo di valori è, obiettivamente parlando, tipico solo dell’essere umano e, cioè, per sua natura. Nel precedente capitolo abbiamo già spiegato che l’essere umano è ordinato verso il mondo dei valori, che ne sia consapevole o meno. Ma ci si può anche decidere consapevolmente per un determinato campo di valori e venire da esso incorporati. Tuttavia, in questo secondo senso, si perviene a un risultato ambivalente: da un lato il campo di valori interessato viene realizzato nella persona – ciò significa che la persona rivolgendosi a tale campo di valori lo lascia diventare in sé reale – dall’altro lato il campo di valori assume la persona in sé. Cfr. MG, pp. 74-103. 34.  «Nell’amare come nel darsi all’amato, non c’è alcuna consapevolezza di rinuncia al proprio carattere in quanto individuo. Piuttosto, l’atto di dare rende più autenticamente se stessi» (MW, p. 23).

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vero il nostro definitivo consenso all’amore. Che cosa significa? Quando mi dono a qualcuno accadono due cose: per un verso, faccio dono della mia persona all’amato/a e, al contempo, ricevo anche io un dono, ovvero l’amore dell’altro/a nei miei confronti. Questo processo non può tuttavia aver luogo se io non acconsento pienamente a quest’amore, se non ho pienamente detto di sì all’altra persona accogliendola35. Un ulteriore aspetto, di cui abbiamo già accennato, è l’ingaggio che si ritrova anche in altre risposte al valore, ma che nell’amo­ re è caratterizzato da un impegno chiaramente più grande. L’ingaggio infatti varierà a seconda delle forme dell’amore; così, per esempio, un aspetto tipico dell’amore genitoriale è l’avere una determinata responsabilità nei confronti dei figli, perciò l’ingaggio acquista qui il tono della responsabilità. Nell’ami­ cizia si tratta piuttosto di un mettersi in gioco per l’amico/a in modo che sappia che si è dalla sua parte, che ci si può fidare e fare conto dell’appoggio. L’amante si impegna sempre per l’amato/a, non importa in quale modo. Infine, bisogna parlare della felicità che l’amore dona in modo unico e attraverso la quale si differenzia nuovamente dalle altre risposte al valore; mentre, infatti, l’entusiasmo rende felici soltanto nel momento del suo compiersi, la felicità dell’amore va ben più in profondità per via del suo continuo permanere, dunque della sua superattualità. La felicità che si sperimenta quando si ama o si viene amati sostiene tutti gli altri aspetti della vita e li colora attraverso l’intero spettro delle esperienze di felicità in tutte le sue sfumature. 35.  Anche Edith Stein vede nell’amore una forma di apprezzamento del­ l’altro/a, anzi ancor più una donazione di sé che consiste nella dedizione rivolta alla risposta d’amore dell’altro/a. Perciò l’amore autentico è solo un amore da persona a persona e si realizza pienamente nell’unità degli amanti; esso «è nello stesso tempo un ricevere e un fare liberi» (E. Stein, Essere finito e essere eterno, cit., p. 466).

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L’amore mira in definitiva, differentemente dalle altre risposte al valore, alla reciprocità36: ammirazione o entusiasmo non sperimentano in tal senso nessuna contro-risposta e possono rimanere unilaterali, ciò nonostante ci rendono felici. Se invece un amore risveglia “un contro-amore” allora la felicità è doppiamente più grande perché è proprio caratteristica dell’amore la sua reciprocità, in partenza come nella sua risposta, un dare e un ricevere. Possiamo chiarire ciò con un esempio: una persona mi entusiasma perché, in una situazione difficile, attraverso il suo ottimismo fa assumere anche a me un atteggiamento positivo. Non mi aspetto che lei senta lo stesso, che si entusiasmi per me e non sono triste se ciò non accade; l’entusiasmo mi riempie e basta già di per sé; se invece non è soltanto l’ottimismo di questa persona ad essere attraente, ma l’intera persona, cosicché l’amore diventa in me la molla interiore, allora la mia felicità sarà molto più grande se questa persona risponde al mio amore e mi sentirò da essa amata. Infine, gli aspetti dell’intenzione unitiva e dell’intenzione benevolente ricevono una più grande attenzione da parte di Hildebrand, poiché rappresentano una parte molto importante della sua filosofia dell’amore, potremmo dire la più importante. Per tale ragione ci dedicheremo ad essi in maniera più estesa nei prossimi paragrafi.

36.  Thomas J. Owens sottolinea questo elemento dell’amore mettendo in primo piano il carattere unificante dell’amore come legame tra l’amante e l’amato/a. Egli collega ciò alla posizione hildebrandiana secondo cui in amore si viene incorporati nel campo dei valori dell’altro/a ed è tale incorporazione valoriale che crea un’unione speciale e unica, che a sua volta emerge da una relazione di reciproco amore (cfr. Th.J. Owens, Phenomenology and Intersubjectivity. Contemporary Interpretations of the Interpersonal Situation, Nijhoff, The Hague 1970, parte III: Dietrich von Hildebrand. The Phenomenology of Love, pp. 111-149).

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3. Ciò che in amore fa la differenza. L’intenzione unitiva e l’intenzione benevolente 3.1. L’intenzione unitiva Secondo Hildebrand non vi è nulla di così importante e indispensabile in relazione all’amore, ma spesso mal interpretato, dell’intenzione unitiva e di quella benevolente. L’intenzione unitiva è stata spesso considerata come un appetitus, come la brama di poter accrescere la propria persona attraverso l’unione con l’amato/a; si pensi al desiderio di Platone nel Simposio che è un desiderio di quella perfezione che eros non possiede. Anche la soddisfazione, tipica dell’intenzione unitiva, può essere fuorviante: l’unione con l’amato/a porta con sé una tale gioia da far credere che la sola intenzione, cioè il desiderio di raggiungerla, corrisponda alla ricerca della propria felicità, così che l’altra persona viene vista come un mezzo per raggiungerla, correndo così il rischio che essa non venga percepita come persona, ma come mezzo. Come abbiamo già sottolineato, però, l’amore vive di dedizione, e sarebbe completamente contraddittorio comprenderlo come un desiderio di felicità per se stessi. L’intenzione unitiva non è un interesse egoistico, né è un privilegio esclusivo dell’amore sponsale37, come si potrebbe pensare; essa è presente in tutte le forme di amore anche se con intensità diverse, e richiede un assoluto riconoscimento della persona. 37.  Questo termine lo incontreremo d’ora innanzi molto spesso quando Hildebrand parla della relazione tra un uomo e una donna come relazione d’amore. Infatti, secondo Hildebrand, oltre all’amicizia che si può avere anche con persone dello stesso sesso, la forma specifica di relazione amorosa tra i sessi è il matrimonio. Relazioni che non sono mosse dalla prospettiva del matrimonio non sono per lui vere e autentiche forme d’amore. Nel corso della trattazione, manterremo questo termine hildebrandiano, pur comprendendolo in un senso più ampio.

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Come per l’amore in generale, anche riguardo l’intenzione unitiva sono possibili varie spiegazioni o modelli, respinte tuttavia da Hildebrand come errate o incomplete. Pertanto vogliamo prima di tutto chiarire che cosa l’unione non è, per poi dedicarci interamente alla sua natura in senso positivo. 3.1.1. Definizione negativa di intenzione unitiva Un primo modello inadeguato, derivato dal mondo delle strutture a-personali soprattutto della fisica, è la fusione: se due parti metalliche si fondono a una certa temperatura e da due diventano una, avranno le stesse proprietà di entrambe le parti, ma in una massa più grande. Qui non si tratterà di unificazione, ma piuttosto di fusione. Il principio stesso secondo cui due entità separate, due individui diventano un’unica entità, contraddice le possibilità concrete oggettive delle persone, sia a livello puramente fisico sia a livello psicologico. Fisicamente le persone sono costituite di corpi solidi, che non possono fondersi o assumere un’altra forma, ma qui non si tratta di una fusione fisica, bensì psicologica o spirituale. Anche per la psiche, tuttavia, questo modello non ha senso, perché pur nella più intensa unione di due persone amanti, non potrà mai essere raggiunta una piena unità, nel senso di una “scomparsa” delle identità precedentemente esistenti al fine di acquistarne una sola. Nel corso della nostra discussione vedremo più in dettaglio in che modo l’unità tra le persone che si amano reciprocamente può effettivamente essere possibile, per cui le rispettive personalità vengono preservate e persino rafforzate. In questi stessi toni ne parla anche Helmut Kuhn che definisce l’amore come una forza fondamentalmente unificante, un processo in cui due diventano uno, ma nel quale i due amanti non cessa-

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no di essere se stessi, diventando invece ancora di più se stessi attraverso il processo dell’amore38. L’unione cosciente riguarda qualcos’altro, perché include «l’in­ contrarsi nell’amore reciproco, un conoscere, un sapere dell’altro e un farsi incontro spirituale reciproco»39. Questa comprensione hildebrandiana dell’unione è in accordo con alcuni psicoanalisti40 moderni che, rispetto al fondatore della psicoanalisi teorica e pratica – Sigmund Freud –, hanno una comprensione dell’amore più ampia e più sostenibile. Il secondo modello nasce dall’unità che le persone possono avere con beni a-personali: per certi aspetti posso essere così toccato da un’opera d’arte che nasce una sorta di unione tra me e l’opera d’arte. Ma anche questa forma non è paragonabile con l’unità tra persone, perché è unilaterale, il movimento 38.  H. Kuhn, Einleitung: Vom Ursprung der Liebe, in Id., «Liebe». Geschichte eines Begriffs, Kösel, München 1975, pp. 9-29. 39.  EA, p. 357. 40.  Ci riferiamo, qui, specialmente ai teorici dell’attaccamento (a partire dal teorizzatore John Bowlby), secondo i quali le persone hanno un innato bisogno di attaccamento/relazione. Cfr. O.C.S. Tzeng (a cura di), Theories of Love Development, Maintenance and Dissolution, Praeger, New York 1992; J. Holmes, La teoria dell’attaccamento. John Bowlby e la sua scuola, tr. it. di S. Federici, G. Nebbiosi e M. Sghirinzetti, Cortina, Milano 20172. Willard Gaylin – psicoanalista – fa proprio il concetto di fusione rigettato da Hildebrand, vedendo in esso una caratteristica decisiva dell’amore. Ciò che intende con questo, tuttavia, non è l’abbandono della propria identità da entrambe le parti per raggiungere una terza parte, ma la perdita della propria identità in quella dell’altro, in modo che la propria identità dipenda in una certa misura dalla persona amata. Secondo Gaylin, ogni amore ha questo potenziale per fondersi, per un’identità unita, perché le persone hanno bisogno di un legame reciproco. Nonostante la sua “origine freudiana”, Gaylin non ignora silenziosamente gli errori e le omissioni di Freud, perché l’amore è stato quasi completamente escluso dalle analisi freudiane, a scapito della stessa psicoanalisi (cfr. W. Gaylin, Caring, Knopf, New York 1976, e Id., Rediscovering Love, Viking, New York 1986, cap. IV, pp. 82-117).

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cioè va dal soggetto all’oggetto; è di per sé un’unità, che in alcuni casi può sembrare persino più intensa dell’unità con una persona, ma è e rimane una nostra esperienza personale, così come l’opera d’arte o la qualsiasi cosa che ha prodotto questa certa unità, rimane un oggetto. L’unità tra le persone si svolge tra due soggetti faccia a faccia, nasce da una situazione del tipo io-tu e vive della reciprocità. Hildebrand spiega questa reciprocità anche con l’immagine dell’Ineinanderblick der Liebe – guardarsi negli occhi o sguardo l’un nell’altro/a41 dell’amore: questo fatto puramente fisico, che diventa visibile ogni qual volta si verifica la situazione io-tu, è in definitiva un’espressione dell’attenzione spirituale di due persone ciascuna verso l’altra e indica il loro incontrarsi come risposta al valore. Arriviamo, infine, al terzo modello inadeguato: ci sono comunità che possono vivere senza unità, o in altre parole: l’amore reciproco non è la caratteristica principale di queste comunità. Hildebrand distingue, infatti, tra due tipi di comunità, quella formale e quella materiale: nella prima si entra con un atto sociale, sono quindi comunità che non si basano sull’amore, ma sullo scopo della comunità stessa, ad esempio un club o un’associazione. Attraverso un atto sociale si ottiene lo stato di socio 41.  Così si esprime Hildebrand in Metaphysik der Gemeinschaft: «Quando l’odio o l’amore vengono dichiarati e così non soltanto colti dall’altra persona, ma accolti e assunti in modo rispondente, […] nello sguardo l’uno nell’altro dell’odio o dell’amore, si costituisce un “rapporto” tra i due, una posizione reciproca durevole, una relazione oggettiva di entrambi, un qualcosa di durevole in modo superattuale, che rappresenta una realtà chiaramente interpersonale» (MG, pp. 124-125). Lo sguardo l’uno nell’altro dell’amore ci porta al superamento della propria sfera interiore, per raggiungere un altro livello, ben più elevato, ovvero la sfera interpersonale. Questo perché la relazione d’amore che si compie nello sguardo l’uno nell’altro sperimenta contemporaneamente un ancoraggio a un comune identico campo di valori dell’incontro/contatto.

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e con gli altri tendiamo a raggiungere e sviluppare l’obiettivo del club e anche i suoi valori. Qui non è importante che i membri si amino; ciò può accadere, ma non è necessario. Le comunità materiali, invece, sono ad esempio la nazione, lo Stato cui si appartiene senza un atto sociale consapevole; anche queste non hanno costituzionalmente bisogno d’amore. La comune appartenenza o il legame del noi che si sperimenta non è l’unità dell’amore, ma un’esperienza sui generis, come dice Hildebrand, perché in questo legame del noi non veniamo neppure a conoscenza di tutti coloro che sono collegati a questa comunità. Persino nel caso della famiglia, dove i singoli membri normalmente si amano, non si può sempre presumere che l’amore reciproco sia centrale e quindi costitutivo; una famiglia non smette di essere tale quando i membri non si amano. Ci sono persino famiglie che non nascono da relazioni amorose, e comunque sono famiglie, cioè comunità in cui i membri si sostengono l’un l’altro – sia pure solo economicamente – e sperimentano un certo grado di appartenenza. Quanto detto sopra non esclude che queste comunità possano sussistere attraverso l’amore dei loro membri e la loro unione; verrebbero tuttavia arricchite o diventerebbero più autentiche se esistesse una relazione più profonda con l’amore. 3.1.2. Definizione positiva di intenzione unitiva Dopo aver trattato questi tre modelli: la fusione, l’unità con strutture non personali e la comunità che non possono essere esplicativi dell’intenzione unitiva, passiamo ora a definirla positivamente. Essa è «un gesto originario dell’amore, una parte essenziale della parola e del “dono dell’amore”»42, essa è dell’amore il desiderio intrinseco d’unione con l’amato/a, come ri42.  EA, p. 375.

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sposta del proprio amore al suo; è quindi il desiderio di dono dell’amore corrisposto. Se l’altro/a non ricambia il nostro amore, l’unione rimane irraggiungibile, pur essendoci altri elementi importanti che la caratterizzano, come la presenza della persona amata o l’essere insieme per condividere e parlarsi. Solo se entrambe le persone agognano l’unione allo stesso modo, potrà realizzarsi ed essere sperimentata felicemente da ciascuna di loro. Ciò significa forse che entrambe debbano provare un amore ugualmente intenso l’un per l’altra? Cosa avviene nel caso in cui una delle due ama più dell’altra? Non in tutte le forme di amore si trova lo stesso amore, pensiamo ad es. all’amore tra genitori e figli: l’amore dei figli è categorialmente diverso dall’amore dei genitori, eppure ha luogo un’unione quando le due parti si incontrano nello sguardo l’un nell’altro/a del loro amore, sono cioè incorporati nello stesso ambito valoriale. Anche nelle amicizie capita spesso che uno dei due ami di più che l’altro/a e, che ciò nonostante, avvenga un’unione personale. Ovviamente l’intenzione unitiva di chi ama di più risulta in certa misura mortificata per la misura minore dell’altro/a, ma finché c’è reciprocità, una unione è sempre possibile. Il caso è diverso nell’amore sponsale, infatti una persona può sposarsi con la coscienza di amare di più dell’altro/a e nonostante la consapevolezza di non venir amata allo stesso modo; nondimeno l’amore sponsale è caratterizzato dal fatto di essere categorialmente identico per entrambe le parti, condizione per realizzare pienamente l’unione desiderata. Secondo Hildebrand si può anche contrarre un matrimonio in cui l’amore non sia ancora pienamente ricambiato, nutrendo la speranza che col tempo l’altra persona risponda all’amore, così da rendere entrambi felici. Rimane comunque la questione della “misurabilità” dell’amore e fino a che punto un amore percepito come debole lo sia anche effettivamente, perché potrebbe trattarsi di

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un’immagine idealizzata dell’amore sponsale, che raramente o mai corrisponde alla realtà. Se osserviamo la natura dell’amore sponsale, è più che evidente che l’atteggiamento degli amanti debba partire da un piano di uguaglianza affinché l’unione desiderata possa assumere la forma corrispondente.

3.2. Intenzione unitiva e desiderio di possesso – il “mio” dell’amore Il quadro appena tracciato non elimina tutti i problemi riguardanti l’intenzione unitiva, poiché sussiste sempre il pericolo di non comprenderla correttamente. Un’interpretazione estremamente pericolosa è, ad esempio, la sua equiparazione con il possesso: si potrebbe pensare che il desiderio di unione con l’amato/a sia caratterizzato, per così dire, dal possesso dell’altro/a, cosa impossibile per le persone; il possesso riguarda esclusivamente beni a-personali. Una persona può possedere qualcosa, esserne cioè proprietaria, ma non può essere essa stessa una proprietà, perché una persona non è una cosa e non può essere dichiarata tale e degradata a quel livello. Martin Buber direbbe che se l’essere umano viene ridotto a un es, non può avere luogo nessuna relazione; la relazione personale è possibile solo nella dimensione io-tu, non nella dimensione io-esso. L’essere umano può essere compreso come persona solo all’interno della relazione, quindi nel desiderio di unione tra gli amanti può verificarsi soltanto una fase temporanea di io-es che però deve immediatamente muoversi al livello io-tu per potersi chiamare amore43. Edith Stein, da parte sua, supporta la visione di Hildebrand aggiungendo che l’essere umano è persona, perché è un essere

43.  M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, cit., pp. 138-164.

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spirituale. La persona differisce dagli altri esseri non spirituali, non ultimo per il fatto che ha la capacità di porre resistenza, non si può prendere infatti possesso di una persona, finché essa si difende e si isola, barricandosi fisicamente o spiritualmente44. Possedere qualcosa comporta una relazione ineguale tra le parti, perché la persona ha un rango ontologicamente più alto rispetto al bene posseduto, anche se in qualche modo gli si dona: se non riconoscessimo il valore della bellezza di un’opera d’arte45, non ci soffermeremmo ad ammirarla pensando poi di comprarla per averla sempre con noi. D’altra parte, si potrebbe obiettare che chi possiede diventa spesso schiavo della sua proprietà e quindi si trova in una posizione inferiore, infatti ogni qual volta permettiamo a una cosa di diventare troppo importante per noi – così da temerne la perdita – corriamo il rischio di essere ridotti in schiavitù dalla cosa stessa. Ma nel caso delle persone è chiaro che l’uguaglianza ontologica non consente di degradare l’altro/a a cosa, perché ciò significherebbe volerlo/a declassare ontologicamente46 e ciò è impos-

44.  E. Stein, La struttura della persona umana, cit., pp. 123-125. 45.  Si pensi qui agli studi steiniani sull’empatia e sul rapporto con quelli che la filosofa nomina “oggetti per soggetti”, riferendosi appunto alle opere d’arte come alla natura. Sono oggetti per soggetti le opere d’arte, in quanto elaborazione di un essere spirituale quale è l’essere umano. Ciascun artista trasfonde in qualche modo la sua anima in un’opera d’arte; è una sua modalità di espressione e, perciò, la visione/contemplazione di una tale opera suscita nello spettatore qualcosa non tanto per l’oggetto in sé, pura materia messa insieme, ma per lo spirito che indirettamente la anima. Cfr. E. Stein, Formazione e sviluppo dell’individualità, in Ead., Opere complete, vol. XVI, tr. it. di A.M. Pezzella e A. Togni, Città Nuova, Roma 2017, e anche il breve studio di P. Manganaro, Empatia, Messaggero, Padova 2014. 46.  Anche Wojtyla sostiene questa visione della persona riferendo dei pericoli o contraddizioni del voler usare una persona. A suo avviso, una persona è «un soggetto pensante e capace di autodeterminazione» e quindi non può mai essere trattata come un mezzo per raggiungere un fine, perché in tal modo

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sibile in sé, è pura illusione. Per tale ragione il voler possedere un essere umano è inimmaginabile per Hildebrand; che poi il possedere una persona sia illusione può essere spiegato anche con l’esempio della schiavitù: diversamente dalle entità non personali, alla fin fine lo schiavo può fare ciò che vuole anche in contraddizione alla volontà del padrone, foss’anche solo con la ribellione interiore. La schiavitù mette, quindi, in luce che le persone non sono cose e che il carattere personale non va mai trascurato, perché è inseparabile dalla persona, motivo per cui non si può considerare nessuna persona come una cosa. Inoltre, sarebbe immorale possedere le persone, perché volerle possedere significa privarle della risposta che meritano. Questo pericolo non è una “questione del passato”, limitata al caso degli schiavi e dei commercianti di schiavi, esso è un pericolo che può insinuarsi in ogni momento, anche nelle relazioni amorose, tra marito e moglie nel matrimonio, quando il marito considera la moglie come una proprietà; può valere anche per i genitori riguardo i figli. I genitori, infatti, si sentono spesso superiori ai figli e, in un certo senso, lo sono, soprattutto perché esercitano su di loro un’autorità dovuta e che è di grande importanza per l’educazione dei figli, essendone responsabili. Ma, quando altre cose diventano più importanti dell’amore per i figli, può capitare di considerare i figli come una proprietà. Questo atteggiamento non solo è sbagliato, ma danneggia la relazione ed è ben lontano dall’essere intenzione unitiva. L’unità tra genitori e figli può avvenire solo quando gli uni considerano gli altri come persone, quando adempiono pienamente ai loro compiti e responsabilità, pur rimanendo aperti all’amore

si userebbe la violenza contro la propria natura (cfr. K. Wojtyla, Amore e responsabilità, cit., p. 43). Per lui, l’amore diventa perciò l’alternativa all’uso dell’essere umano, perché solo l’amore considera l’altro come un soggetto e si presenta come un legame tra due persone che cercano qualcosa di comune.

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che proviene dai figli e da cui essi stessi possono imparare. In tal caso si potrà parlare d’amore, perché: «nell’amore ci si dona all’altro, esso è perciò l’esplicito contrario del possedere»47. Si potrebbe qui obiettare che quando facciamo un regalo, questo diventa proprietà della persona che lo riceve. È chiaro che non possiamo possedere le persone come i regali che facciamo loro. Eppure, Hildebrand afferma che l’amore è dono di sé ed è vero che l’espressione più tipica di una relazione d’amore, dopo il “ti amo”, è “sono tuo/a”. Ma come va compresa questa relazione? Qual è il significato del dono? Che tipo di “possesso” è l’amore? Hildebrand stesso si è posto queste domande, perché in realtà l’aggettivo possessivo “mio” è usato in molti modi. “Questo è mio” è strettamente correlato con l’atteggiamento di possesso, lo diciamo in relazione a cose che ci appartengono e anche le esperienze sono “le mie esperienze” in quanto hanno una connessione diretta con me. Nel dire “le mie esperienze” possiamo individuare diverse dimensioni del “mio/a”48, ma secondo Hildebrand solo una di queste è la dimensione tipica del “mio” che viene dall’amore.

47.  EA, p. 393. 48.  Hildebrand distingue in Essenza dell’amore diverse forme di “mio” di cui non abbiamo trattato. Tra le altre cose, ad esempio, si contempla il “mio” come espressione dell’essere parte di un tutto: apparteniamo a una famiglia, a un paese, a un’associazione, ecc. Esiste poi anche un “mio” di appartenenza a una persona con la quale siamo in una certa relazione di ordine subordinato, superiore o uguale: è la situazione della relazione con il capo di lavoro, lui è il mio capo; ciò vale anche per gli altri dipendenti, che sono anche miei colleghi; e viceversa, quando sono a capo, gli altri sono i miei dipendenti. Infine, esiste un “mio” che può essere utilizzato per descrivere un’esperienza di casa caratterizzata dal tipo di familiarità. La mia città, il mio villaggio, esprimono il nostro senso di sicurezza, profonda conoscenza, familiarità, appartenenza e radicamento che non sperimentiamo allo stesso modo altrove.

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Il “sono tuo/a” dell’amore non significa diventare un possesso per l’altro/a, perché il “mio” amore «è esclusivamente fondato nel fatto che qualcosa diventa un bene oggettivo per me a causa del suo valore e di una speciale affinità con me»49. Non si tratta di qualcosa che mi appartiene in modo scontato, come il mio corpo, oppure che ho acquisito, come una casa, un computer, ecc. Attraverso l’amore, l’altro/a diventa “mio/a” in un modo molto particolare50, diventando cioè un bene oggettivo per me. Inoltre sarà “mio” solo e nella misura in cui anch’io sarò sua, in modo da creare un “mio” comune. Da questo nuovo “mio” nascerà un dare e un incontrarsi e nessuno sarà proprietà dell’altro/a e nessun sarà un ego esteso dell’amante nell’amato/a. Se l’intenzione unitiva è pienamente realizzata in una relazione d’amore, allora l’autodonazione reciproca, lo sguardo l’un nell’altro/a dell’amore è una realtà, così che nel “io sono tuo/a” e nel “tu sei mio/a” si articola la nuova reciproca appartenenza, partecipazione completa l’un all’altro/a. Oltre a questa forma materiale dell’unione, espressa nel “mio”, esiste anche un’unione formale, che costituisce un altro “mio”: è l’unione che nasce da atti sociali espressi da un consenso comune, come il matrimonio. La differenza è che il matrimonio come comunità formale può anche avere luogo senza una comunione d’amore; in questo caso non sarà perfetta, perché manca l’amore reciproco e il desiderio profondo di unione, ma può certamente sussistere come comunità sociale, decisa per mutuo consenso e che così 49.  EA, p. 529. 50.  Tuttavia, Hildebrand non spiega che questo altro tipo di possesso, vale a dire il “mio dell’amore”, può anche essere distinto da altre forme di possesso perché gli oggetti, persino la nazione o lo stato, sono di per sé intercambiabili, cosa che non si applica agli “oggetti d’amore”, e questa è la preziosità dell’individuo amato.

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diventa un’unione puramente formale. Che ci si ami profondamente o meno, si dirà comunque “mio marito” o “mia moglie” e nonostante la relazione formale questo “mio” non significa possesso, bensì l’intera dimensione dell’obbligo nei confronti del partner e la cura per esso, che deriva dalla comune appartenenza. Ciò che manca qui è la dimensione dell’amore come risposta al valore: nell’amore rispondo al valore nell’altro/a, e per questo diventa “mio/a”; viceversa nell’atto sociale l’altro/a diventa “mio/a” come risultato dell’atto stesso. È diverso il caso nell’amore genitore-figli, in cui si deve distinguere: se i genitori attendono i figli con un “amore anticipato” detto con le parole di Hildebrand, il loro amore dopo la nascita è già una risposta al valore di bellezza di queste nuove persone, indipendentemente dalla particolare bellezza che le caratterizzerà. Il fatto che una nuova vita appaia improvvisamente e sia affidata ai genitori è già in sé meritevole di amore. Questo è il motivo per cui il “mio” “disponibile materialmente” è espressione dell’intenzione unitiva dei genitori per il/la bambino/a. A questo si aggiunge il “mio/a” formale delle relazioni sociali che genitori e figli hanno attraverso il legame della famiglia. Le due dimensioni del “mio” sono, per così dire, intrecciate, come nell’amore sponsale. Se poi l’amore dei figli non risponde all’amore dei genitori, decade la dimensione materiale, ma rimane la dimensio­ne formale, vale a dire l’affiliazione oggettiva, proprio come nel matrimonio, che può continuare anche senza amore.

3.3. Si può parlare di intenzione unitiva nell’amore al prossimo? La dimensione dell’unione e del “mio” da essa risultante potrebbero portare alla conclusione che non si può sperimentare l’intenzione unitiva nell’amore al prossimo, perché il “prossi-

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mo” non sempre risponde al nostro amore così da far nascere una reciprocità. Secondo Hildebrand si tratta di un atteggiamento sbagliato. La mutualità si verifica anche nell’amore al prossimo e può svilupparsi in una forma di unione. Il punto di partenza di questa posizione, come già accennato all’inizio del capitolo, è la sua comprensione dell’amore al prossimo come dimensione tipica dell’amore cristiano. Nell’amore al prossimo si ama l’altro/a come creatura di Dio, in sé preziosa. Vedremo in seguito quali implicazioni ciò comporti, per il momento prendiamo la posizione di Hildebrand così com’è: esiste una forma di intenzione unitiva anche nell’amore al prossimo, ma l’unione che potrebbe sopraggiungere dall’amore al prossimo quando divenisse reciproco è qualcosa di diverso da quello delle forme naturali di amore; ha il carattere del «venir coinvolto» nel regno di Dio, perciò si ama l’altro/a per se stesso/a, con una messa da parte della propria persona e della vita propria: tutto ciò rappresenta nell’amore al prossimo il culmine dell’unione. Diventa qui chiara la differenza rispetto agli altri tipi di amore: nell’amore per il partner o per i genitori non si può eliminare completamente se stessi; amare qualcuno senza interesse e pensare che la nostra felicità e i nostri desideri siano irrilevanti o secondari non è amore autentico, perché con un tale atteggiamento non può esserci vera reciprocità. Non si renderà più felice un/a amico/a mettendo da parte la propria felicità e la propria volontà dicendogli: «Tutto quello che vuoi tu, mi sta bene» oppure «ti amo affinché tu solo/a possa essere felice». Dove andrebbe a finire la felicità che deriva dal suo amore per me? Ciò non avrebbe nulla a che fare con l’amore autentico, e si negherebbe l’essenzialità dell’intenzione unitiva per l’amore e la sua capacità di rendere felici. Un amore che rinuncia completamente a se stesso non è amore, perché l’intenzione unitiva punta sempre anche alla propria

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felicità che proviene dall’altro/a51. Ciò significa anche che l’intenzione unitiva include la capacità di amare e di essere amati. Se mettiamo da parte le nostre aspettative di felicità e i nostri desideri per il bene altrui e pensiamo che solo noi amiamo, non potremo permettere alla persona amata di amarci. Ciò porterà a una violazione del diritto dell’amato/a di esprimere se stesso/a con l’amore e quindi non solo di essere amato/a, ma anche di amare. Nell’amore al prossimo invece si può individuare una doppia dimensione di disinteresse52: da un lato nel senso di “abbandonare” la vita propria, “uscendo da se stessi” per avvicinarsi al prossimo, cioè un disinteresse puramente formale; dall’altro nel significato morale di questo disinteresse come contrapposizione a qualsiasi forma di egoismo. Se pensassimo in modo puramente egoistico, non saremmo in grado di amare il prossimo, perché soltanto il soggettivamente soddisfacente sarebbe

51.  Questo viene particolarmente sottolineato da Hildebrand riguardo agli atteggiamenti altruistici in cui veramente si ama, quando ci si dimentica di se stessi e non si mantiene più alcun desiderio per se stessi. Tuttavia, questo tipo di altruismo non solo non è amore, ma non è moralmente prezioso in sé, né tanto meno nell’intenzione cristiana. Crosby e Gorczyca sottolineano questo rifiuto di Hildebrand come un tentativo di evitare una deformazione dell’amore e di rivelare l’essenza stessa dell’amore, vale a dire il suo carattere profondo di reciprocità e come fonte di felicità per gli esseri umani: cfr. J.F. Crosby, Introductory Study, cit., pp. xxv-xxvii, e J. Gorczyca, Zur Metaphysik der Liebe bei Dietrich von Hildebrand, in «Aletheia», vol. V, 1992, pp. 160-169. Su questo aspetto, ma specialmente in relazione all’amore per Dio, cfr. B. Schwarz, Dietrich von Hildebrand on Value, in «Thought», XXIV, n. 95, 1949, pp. 655-676. 52.  Al contrario, l’amore per Dio non ha una dimensione altruistica di unione allo stesso modo che le altre forme di amore, perché in questo amore, secondo Hildebrand, l’altruismo porterebbe all’annientamento di se stessi, che non può corrispondere al desiderio di Dio per noi. Dio vuole unirsi a noi e la devozione, con la conseguente esperienza di felicità, è il culmine di questa relazione con lui.

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interessante e importante per noi. Per il disinteresse che caratterizza l’amore al prossimo, l’intenzione unitiva sembra diversa rispetto alle altre forme di amore. Hildebrand sostiene anche che nell’amore al prossimo l’intenzione unitiva fa da sfondo, anziché essere in primo piano, pur essendo sempre presente. Nel gesto dell’amore per un prossimo è sempre insito il desiderio interiore di esperire da parte dell’altro/a una qualche risposta, fosse anche nella sola forma della sua gratitudine.

3.4. L’intenzione benevolente Oltre al desiderio di unione con l’amato/a, l’amore è sempre accompagnato dal desiderio del suo bene e tutto ciò che è buono per l’amato/a si considera buono per se stessi, vedendo tutto sotto il cappello del bene oggettivo per la persona considerata. Se l’amato, per esempio, viene trattato ingiustamente, se subisce un’ingiustizia da parte di qualcun altro, noi ci opporremo a questo fatto in primo luogo dal punto di vista del valore negativo che sta in esso […]. Possiamo e dobbiamo esserlo, però, anche se non amiamo colui che è trattato ingiustamente. Ma se lo amiamo […] vedremo l’ingiustizia verso l’amato anche dal punto di vista del male oggettivo per lui.53

Il bene54 o il male oggettivo per la persona amata entrano nella nostra vita propria fino al punto che ciò che è buono per lei – sia 53.  EA, p. 415. 54.  Nel capitolo precedente abbiamo trattato in dettaglio le tre categorie di significatività, compreso il bene oggettivo per la persona (cap. II, parte I, §1.3). Qui si può aggiungere che di questo bene oggettivo per la persona ne esistono quattro tipi: 1) i beni non rivolti al vissuto e dei quali non si ha consapevolezza diretta, come il mantenersi in vita; 2) i beni rivolti al vissuto, ovvero quelli che devono essere afferrati dalla persona, come il riconoscimento in campo lavorativo delle proprie prestazioni; 3) cose che non sono buone per la persona a causa dei loro valori, ma solo perché hanno un significato

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esso o no significativo per noi – è buono anche per noi. L’intenzione benevolente trova la sua vera espressione in tutto questo. Peculiare dell’intenzione benevolente è di essere interamente dalla parte dell’amante, perché non si tratta di un bene comune all’amante e all’amato/a, come nel caso dell’amore dei coniugi che gioiscono alla nascita dei loro figli: qui, infatti, si tratta di un’esperienza del noi, cioè dello stesso bene comune che dà gioia a entrambi. Anche in Scheler troviamo questo fenomeno – specificatamente come “sentire insieme” – che lui distingue dal voler bene, intendendolo piuttosto come manifestazione della simpatia55. Nell’intenzione benevolente, invece, si tratta della gioia dell’amante per il bene dell’amato/a, cioè per qualcosa che non rappresenta un bene diretto per l’amante. Ma come fa questi a capire che cosa sia un bene oggettivo per la persona amata? È facile, infatti, scoprire che cosa sia un bene oggettivo per la propria persona, ben altra storia è per ciò che riguarda un’altra persona.

elementare, come cibo, salute, ecc.; 4) cose che possono essere piacevoli per la persona, come scarpe calde e comode o altre cose confortevoli. 55.  Differentemente da Hildebrand, Max Scheler separa nettamente la compassione, con tutte le sue manifestazioni, e l’amore, ovvero la sua descrizione dell’amore si basa sul fatto che questo non può mai essere un compatire, perché la compassione è una reazione, mentre l’amore è un movimento e un atto creativo. Se seguiamo l’esempio dei genitori, che lo stesso Scheler porta, pur in forma diversa, possiamo vedere come Hildebrand separi l’intenzione benevolente da questo tipo di sentire-insieme, perché è una forma superiore di partecipazione all’altro/a. Scheler ritiene inoltre che la compassione non sia amore, perché ad esempio un sentire-insieme non presuppone necessariamente l’amore: anche due persone che si conoscono a malapena possono certamente godere di un bene comune. Ne sono un esempio due tifosi di calcio della stessa squadra che non si conoscono, tuttavia, quando sono seduti uno/a accanto all’altro/a nello stadio, sono felici della vittoria della loro squadra e magari si abbracciano.

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Hildebrand cerca di spiegarlo distinguendo tra bene oggettivo diretto e indiretto: mentre i beni diretti ci riguardano appunto direttamente, i beni oggettivi per l’amato/a ci toccano indirettamente, cioè solo a causa della nostra partecipazione alla sua soggettività. Considerare il bene dell’amato/a non solo come prezioso in sé, ma come un bene oggettivo per lui/lei, non è una cognizione teorica o un empatizzare l’altro/a56, dato che viene sperimentato come un bene o un male oggettivo per l’amato/a. È un’esperienza più profonda della semplice conoscenza che qualcosa faccia bene o male all’amato/a; l’intenzione benevolente è un movimento d’amore che ci fa “sentire” in modo unico ciò che accade all’altro/a. La semplice conoscenza di per sé non richiede né amore, né trascendenza – che invece si sperimentano nell’intenzione benevolente. Nel puro riconoscere che l’altro/a gioisce enormemente nel ricevere una visita non si può parlare ancora di una partecipazione da parte dell’amante, tuttavia se l’amato/a riceve veramente la visita e l’amante coglie dal profondo la sua gioia causata dalla visita rallegrandosi con lui/lei, possiamo davvero parlare di una risposta al bene oggettivo dell’altro/a. Questa è un’esperienza di trascendenza57, l’amante è felice come se avesse ricevuto la visita per sé.

56.  Edith Stein sviluppa abbondantemente il tema dell’empatia pervenendo, poi, alla conclusione che solo l’amore, unito alla conoscenza, conduce alla piena donazione all’altro/a, ovvero a un completo entrare in lui/lei (cfr. E. Stein, Il problema dell’empatia, a cura di E. Costantini e E. Schulze Costantini, Studium, Roma 20142). Anche Scheler si esprime in maniera simile nel suo breve scritto Amore e conoscenza, a cura di E. Simonotti, Morcelliana, Brescia 2009. 57.  Parlando dell’amore, Hildebrand si esprime poco e in maniera alquanto parca sulla trascendenza, tuttavia la sua comprensione a riguardo include alcuni aspetti che fanno della trascendenza un “di più” che caratterizza le ri-

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A questo proposito troviamo una significativa spiegazione in Ludwig Binswanger, che analizza la profondità della parte-­ cipazione (Teilnahme) e che riconosce nel lemma “parte/Teil” il muoversi con lo stesso “passo di destino” dell’amante e del­ l’amato/a: Quindi cosa significa “parte” nella parola partecipare? Significa fare con te lo stesso, proprio identico, “passo di destino”, e consegnarmi con te, amando, al medesimo “qui” del presente come destino. Se condivido questo “qui”, allora sto con te “decisamente” nello stesso destino, se prendo parte, ad esso resto “aperto” al medesimo destino.58

Si potrebbe ora pensare che l’amore perda il suo carattere di risposta al valore attraverso l’intenzione benevolente, riferendosi al bene oggettivo dell’altro/a, che in sé non è un valore, cioè non è qualcosa di significativo in sé. All’opposto sta il fatsposte al valore e specialmente l’amore. Qui la trascendenza va intesa come dedizione che si esprime particolarmente nelle risposte morali al valore, ovvero in riferimento a valori morali; nello specifico dell’amore ciò coinvolge l’amore di Dio e per il prossimo. In queste due forme di amore, come vedremo, sussiste veramente uno speciale “oltre-sé” che non troviamo nelle altre. Devo, infatti, oltrepassare me stessa, la mia vita propria e i miei personali interessi per avvicinarmi al prossimo e incontrarlo con amore. La trascendenza, però, si definisce anche attraverso la partecipazione del cuore che le risposte al valore, rispetto a quelle della volontà, possiedono: è per tale motivo che esse mostrano una più grande dimensione dell’atteggiamento donativo e trascendente. «The remarkable fact that we are able to respond with our heart to an object, not only when it is an objective good for us, but also because of its intrinsic importance, i.e. the moral value, the beauty and sublimity of the act of forgiveness, is one of the most outstanding manifestations of man’s transcendence» (D. von Hildebrand, The Role of Affectivity in Morality, in «Proceedings of the American Catholic Philosophical Association», XXXII, 1958, pp. 85-95: p. 87). A ciò si aggiunge, poi, la dimensione di felicità che le risposte al valore verso beni morali portano con sé. Tutti questi aspetti rendono il senso di trascendenza nell’uso hildebrandiano. 58.  L. Binswanger, Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins, Reinhardt, München-Basel 1973, p. 254.

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to che nell’amore il “per lui/lei” è inseparabile dal valore della preziosità dell’amato/a. Se non riconoscessi il valore dell’altra persona e non vi rispondessi, non prediligerei, né promuoverei il bene per lei. Anche per questo, difronte a situazioni conflittuali che riguardano l’amato/a e nelle quali bisogna scegliere tra un bene oggettivo per l’altro/a maggiore o minore, l’amante opterà di norma per il bene più prezioso per la persona amata. La moglie che nega al marito un pezzo di torta alla crema, perché sa che la torta non gli fa bene o potrebbe essergli persino dannosa, agisce per amore: che sia doloroso per lei rifiutare qualcosa che piace a colui che ama ne è un segno. Se qui agisse in un modo “morale” puramente formale, vale a dire senza amore, non sperimenterebbe alcuna tristezza o disagio. Se invece si trascura il bene oggettivo per l’altro/a e si guarda solo al piacevole e soddisfacente, non si può parlare di amore autentico. Chi non è in grado di optare per ciò che ha valore in sé ed è oggettivamente buono non sa amare, perché l’amore è una risposta al valore, è responsabilità. Ciò si chiarirà ancora meglio, quando vedremo gli aspetti morali dell’amore, ma qui va notato che il problema della scelta tra soggettivamente soddisfacente e bene oggettivo per la persona provoca gravi problemi nelle relazioni d’amore. Se, infatti, è moralmente più facile riconoscere e preferire il bene oggettivo per se stessi, sembra molto più difficile fare lo stesso per la persona amata. L’esempio riportato prima si colloca in una sfera precisa e facilmente riconoscibile. Che cosa fare, però, quando si tratta di lasciare morire la persona amata perché la medicina non ha più soluzioni, o non può più fare nulla ed è ancora alla ricerca di ulteriori opportunità? Hildebrand non fornisce particolari spiegazioni su casi del genere e l’affermazione che il bene oggettivo deve essere in ogni caso preferito non sembra forni-

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re una giustificazione efficace e, in ultima istanza, lascia agire l’amato/a secondo coscienza, indipendentemente dalle conseguenze. Non è questo il luogo per affrontare un argomento così importante e attuale nella discussione etica. Possiamo solo far riferimento ai limiti della visione fenomenologica hildebrandiana, sebbene egli spieghi in dettaglio le mutue influenze tra amore ed etica, come vedremo nel capitolo IV. Tale problema non si pone invece nell’amore al prossimo che nasce soltanto in virtù del valore e del bene oggettivo. Anche nell’amore verso un qualunque prossimo non ci interessa solo il bene puramente oggettivo, ad esempio mostrargli la strada per tornare a casa, ma vogliamo anche che trovi effettivamente la strada di casa e ci arrivi in piena sicurezza. Egli non è fonte della nostra felicità, come nel caso delle altre forme di amore, eppure è per noi pienamente tematico e il suo bene ci riguarda. «Se, per esempio, amiamo qualcuno come amico o con amore sponsale, il godere insieme di grandi beni spirituali è una fonte speciale di felicità. È, però, causa di felicità solo perché si ama l’altro. Fare un bel viaggio o ascoltare una bella musica con qualcuno verso il quale si prova solo amore al prossimo non è una fonte di speciale felicità»59. Questo dipende dal fatto che con una persona cara si hanno molte cose in comune nell’area dei valori, cosa non sempre presente nella relazione con un prossimo. Tuttavia, si può davvero godere di qualcosa insieme, non solo se l’amore è una precondizione, ma anche se l’amato/a ha gli stessi valori dell’amante; prendendo l’esempio di Hildebrand, se ascolta volentieri musica o gli piace viaggiare come l’amante. Si potrebbe, comunque, obiettare che gli amanti spesso intraprendono qualcosa per il bene delle persone amate, anche se non provano alcuna felicità nel farlo o addirittura è in contrad59.  EA, p. 485.

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dizione con i propri gusti e, d’altra parte, può anche succedere che si viva qualcosa con qualcuno che davvero non si conosce e che si ama soltanto per amore al prossimo, facendo con ciò un’esperienza piacevole. Dobbiamo presumere che Hildebrand voglia usare l’esempio per dire qualcos’altro: sicuramente si può sopportare e condividere la sofferenza con il prossimo in modo profondo, o condividere la sua felicità, perché anche l’amore al prossimo non è possibile se non è gratuito, come già detto; ma la situazione è diversa a seconda che riguardi una persona cara o una persona semplicemente toccata con amore al prossimo. Ciò significa che la differenza tra queste forme di amore è da riconoscere nell’intensità dell’aspettativa e dell’esperienza stessa. C’è comunque anche un altro elemento. Poniamo il caso di essere in grado di applicare a tutti lo stesso livello di amore attraverso una piena compartecipazione alla vita propria di ognuno, cosa possibile solo con grande eroismo o santità, rimane comunque aperta la domanda se ciò sia umanamente possibile, se davvero una persona possa amare tutti in modo da immergersi costantemente nella vita propria degli altri senza il pericolo di immolarsi e di bruciarsi. A questo punto si potrebbe obiettare che Hildebrand non dia spazio a un ulteriore elemento dell’amore, quello dell’“offerta”. L’amore richiede sempre una misura di sacrificio, pur in modi diversi, se non altro perché – come sostiene Helmut Kuhn – le persone sono individui che mantengono sempre una parte non del tutto condivisibile. L’unione tra le persone non può mai avvenire completamente senza problemi, indipendentemente dalla categoria dell’amore. La storia ci offre molti esempi, tra cui quello dell’amore di Gesù che donando la propria vita sembra essere il più grande di tutti.

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4. L’amore si esprime in molti modi Finora abbiamo visto che l’amore è caratterizzato in modo molto speciale dall’intenzione unitiva e dall’intenzione benevolente, così da dire che senza la prima non si può parlare di amore, tuttavia nei vari tipi di amore è diverso il modo in cui l’intenzione unitiva accompagna un amore e contribuisce al suo fiorire. Già nel precedente capitolo avevamo brevemente evidenziato la diversità dell’amore sponsale e dell’amore genitoriale, sarà ora opportuno, pertanto, esaminare in dettaglio le diverse forme di amore ed esplorare il modo in cui l’intenzione unitiva si esprime in esse, essendo questo un punto molto cruciale all’interno della questione da noi trattata: l’intenzione unitiva non è direttamente associata a un fare, anzi si manifesta come un desiderio naturale e quasi innato nell’essere umano. In altre parole, essa rappresenta in certo modo la condizione fondamentale, metafisico-ontologica, della persona, perché a nostro parere essa non solo caratterizza l’amore, ma tutta la persona. Con ciò potremmo giungere alla conclusione che stiamo effettivamente affrontando una metafisica dell’amore, che in termini, di contenuto, consente un ulteriore sviluppo in senso ontologico, dato che ci sembra riconoscere nell’intenzione unitiva un aspetto della categoria della reciprocità. Il desiderio di unirsi alla persona amata può basarsi solo sul fatto che la persona è fondamentalmente, cioè ontologicamente un essere che sperimenta il suo pieno sviluppo solo nel e attraverso l’altro/a. Procediamo, però, prima all’analisi delle diverse forme di amore, che apporteranno ulteriori e interessanti elementi al discorso, soprattutto circa la relazione metafisica-etica. Prima di tutto va chiarito che qui non si può parlare delle forme naturali di amore alla stessa maniera della caritas, che Hildebrand non classifica come amore naturale. Assumendo una classica divisione delle forme d’amore, egli distingue tra varie categorie di amore, secondo alcune differenze formali e ma-

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teriali. Se questa divisione sia giustificabile o meno, come annotato criticamente da Terravecchia60, non è rilevante nella nostra analisi, perché Hildebrand si concentra sulle forme più importanti e più comuni di amore, commentando, comunque, in una nota della sua Metafisica quanto segue: «Trattiamo qui solo quelle (categorie di amore) che implicano differenziazioni categoriali dell’amore […], non i tipi particolari di relazioni personali, in cui l’amore assume una nuova coloritura»61. C’è, dunque, un approccio consapevole da parte del Nostro, che può essere di fatto giustificato, visto che quasi tutte le forme d’amore possono essere riassunte nelle categorie da lui menzionate. Ciò che, piuttosto, a nostro avviso risulta quanto mai critico è il fatto che, nella definizione delle categorie, lo stesso Hildebrand qua e là se ne discosti. Confrontando la Metaphysik der Gemeinschaft con l’Essenza dell’amore, ad esempio, si può notare che le categorie d’amore vengono ridotte da nove a sette62, anche se si tratta solo dei tipi fondamentali di amore nelle relazioni interpersonali, quelle che anche Hildebrand chiama forme naturali dell’amore. L’amore di Dio, modellato dalla caritas, così come tutte le altre forme di amore per le strutture a-personali, come cose o altri esseri viventi, non vengono da lui affrontate. L’ultimo tipo non viene neppure inteso come amore in senso pieno, perché in esso manca la reciprocità.

60.  Secondo Terravecchia, si potrebbe parlare ad esempio anche di un amore tra cugini, cioè di una forma diversa dall’amore amicale o tra fratelli (cfr. G.P. Terravecchia, Fenomenologia sociale, cit., pp. 64-65). 61.  MG, p. 46, nota 3. 62. In Essenza dell’amore mancano l’amore “santo tematico” (die thematische heilige Liebe), che può essere anche identificato con la caritas, e l’amore d’intenti (Gesinnungsliebe). Noi, però, li nominiamo, partendo dalla classificazione di Metaphysik der Gemeinschaft, pur se in maniera breve. Cfr. anche G.P. Terravecchia, Fenomenologia sociale, cit., p. 62.

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Su questo punto Hildebrand mostra una comprensione dell’amore diversa rispetto a Scheler, il quale, in Essenza e forme della simpatia, parla di amore per tutto ciò che ha valore; perciò egli non considera una pseudo-forma di amore, quello diretto, ad esempio, verso la natura o gli animali, ecc., proprio in quanto essi sono portatori di valore63.

4.1. Categorie naturali dell’amore Per Hildebrand da un lato esiste una vasta gamma di forme naturali o categorie di amore e dall’altro esistono l’amore per Dio e la caritas. Partiamo, innanzitutto, dalle categorie naturali dell’amore, che non sono completamente diverse l’una dall’altra e, tuttavia, mostrano alcuni elementi importanti che le distinguono come espressioni molto peculiari d’amore. 4.1.1. L’amore genitoriale e l’amore filiale L’amore genitoriale è caratterizzato da un particolare “star di fronte” di genitori e figli, tanto che non mira a una risposta simultanea da ambo le parti. Ciò trova dimostrazione già solo nel fatto che in questo amore stanno, l’una di fronte all’altra, due entità disuguali, vale a dire gli adulti – i genitori – e persone in crescita – i figli – i quali per un certo tempo non percepiscono consapevolmente i genitori. Ecco perché, come dice Hildebrand, lo specifico di questo amore è che figli e genitori stanno “gli uni dietro gli altri”, che significa che i genitori stanno dinanzi ai figli con uno sguardo di benevolenza, sguardo che, pur richiamando una certa forma di unità, è ben diverso rispetto allo sguardo l’un nell’altro/a del 63.  Cfr. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., parte B, pp. 154204; in part. pp. 159-165.

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matrimonio o dell’amicizia: anche i genitori auspicano una risposta al loro amore da parte dei figli, ma ciò si esprime più nel desiderio di stare insieme a loro e nel desiderio di appartenenza. Nell’amore genitoriale si sperimenta anche una fase preliminare dell’intenzione benevolente in vista dell’intenzione unitiva, nel senso che i genitori fanno di tutto per i figli, in modo che possano seguire la propria strada e diventare indipendenti. La grande forza di questo amore si manifesta nella cura e nella benevolenza nei confronti dei figli, ma la loro intensità dipende dall’atteggiamento dei genitori che con grande probabilità vorranno dare ogni bene ai figli, ma non necessariamente il loro essere più intimo. La situazione è diversa nell’amore filiale. In primo luogo, come già indicato sopra, si parla di persone in crescita, che attraversano fasi diverse e nei confronti dei genitori si comportano di conseguenza, soprattutto debbono sviluppare il loro amore. Ma ci sono anche qui elementi interconnessi, che caratterizzano questa categoria di amore come tale, ad esempio la direzione dello sguardo. Contrariamente a quella dei genitori, che è rivolta verso il basso, i figli guardano verso l’alto64, perché i genitori sono per i figli sempre d’orientamento; essi stabiliscono gli standard di comportamento e cercano di trasmetterli ai propri figli. Per dirla ancora più profondamente e con la chia-

64.  Alexander Pfänder differenzia, come Hildebrand, la posizione di quanti sono coinvolti nell’amore (come genericamente in tutti gli ideali attuali), così che ad esempio l’amore dei bambini viene definito come sentimento che “guarda oltre sé”: in ciò non solo la parte genitoriale è sovraordinata al figlio, ma l’amore stesso è rivolto “verso l’alto”. Allo stesso modo, anche un amore per Dio sarebbe, secondo Pfänder rivolto verso l’alto. L’amore dei genitori e tutte le modalità di amore verso “subalterni” è, allora, un amore che guarda “verso il basso” – che non significa che l’oggetto d’amore venga declassato o sottovalutato (cfr. A. Pfänder, Zur Psychologie der Gesinnungen, vol. I, Niemeyer, Halle 1922).

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rezza di Hildebrand: «I genitori sono per i figli in primo luogo “rappresentanti” di Dio e mediatori del mondo dei valori e della conoscenza; sono principalmente i detentori del compito di paternità e maternità e non sono delle individualità»65. Un ulteriore elemento è il fatto che l’amore dei genitori è presupposto dai figli, i quali ne fanno esperienza quando vengono al mondo. Ecco perché qui non c’è un desiderio di reciprocità come nell’amore genitoriale, tuttavia è proprio questa precondizione di amore che porta alle grandi delusioni dei figli, nel caso in cui i genitori non amino o smettano di amare: cresce allora il desiderio di essere amati, perché il/la figlio/a desidera essere riamato/a dai genitori. Hildebrand ritiene che l’intenzione unitiva nell’amore dei figli sia più forte dell’intenzione benevolente e certamente più forte dell’intenzione unitiva dell’amore genitoriale. I figli vogliono stare molto di più con i genitori e sfruttare appieno il loro amore, che non i genitori con i loro figli; tuttavia i figli sono meno interessati alla felicità e al benessere dei loro genitori. Man mano che crescono, poi, l’intenzione unitiva passa in secondo piano e l’intenzione benevolente prende il sopravvento, perché a quel punto i figli si concentrano meno sul compito dei genitori e più sulla loro natura specifica di persone, diventando grati per il loro amore e attenti al loro bene; quando, infine, i figli diventano adulti può instaurarsi anche una relazione amichevole. Se tutto quanto detto finora pare in sé giustificato, vogliamo sottolineare una mancanza nella descrizione che Hildebrand propone, e cioè il non aver messo in evidenza la capacità dei figli – una volta divenuti adulti – di far da genitori ai propri genitori. Se i genitori si ammalano o hanno delle necessità, premesso l’amore fra loro, sono i figli che si prendono cura dei genitori con un atteggiamento che si avvicina molto all’atteg65.  MG, p. 53.

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giamento genitoriale. Questo è il motivo per cui l’amore dei figli per i genitori può diventare non solo un amore amicale, ma anche genitoriale, proprio quello che in origine è stato sperimentato in qualità di figli. Questa è secondo noi la reciprocità, cioè la vera unione tra genitori e figli, che avviene quando una parte si mette completamente nei panni dell’altra e ne accoglie l’amore e altrettanto fa l’altra parte, raggiungendo, in questo modo, l’essenza più profonda dell’intenzione unitiva. Ciò non significa che i figli debbano forzatamente diventare genitori dei loro genitori, o che i genitori diventino figli dei figli; né, tanto meno, si vuole sostenere una “confusione” di ruoli, si tratta piuttosto di richiamare un atteggiamento interiore reciproco pieno di stima nei confronti dell’altro, che dovrebbe sempre caratterizzare queste due forme di amore. 4.1.2. L’amore tra fratelli e sorelle Con l’amore tra fratelli e sorelle incontriamo un’altra prospettiva: non si tratta più di uno “stare uno dietro all’altro” come nell’amore genitoriale e filiale, ma uno “stare fianco a fianco”. Tra fratelli e sorelle, infatti, si sperimenta la tipica esperienza del “noi” o dell’“unione tra noi” vissuta nella consapevolezza di essere connessi gli uni agli altri in modo naturale. Hildebrand afferma che questa familiarità accresce l’amore tra fratelli/sorelle. Insieme a questa primordiale familiarità si instaura una conoscenza quasi completa dell’altro/a, fino alla sfera privata, che in genere rimane nascosta al mondo esterno, a meno che non ci si apra in modo consapevole ad altri. Hildebrand definisce questo stato un relativo esser svelati di chi vi è coinvolto. Non è che i fratelli e le sorelle lo facciano consapevolmente, non esiste infatti uno stato precedente o successivo in cui la loro sfera privata rimanga distante o nascosta tra loro, ma ci si co-

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nosce reciprocamente e ciò ha i suoi effetti sin dall’inizio. Sicuramente qualcosa può cambiare nel tempo, quando i fratelli e le sorelle diventano adulti, perché allora possono decidere in modo consapevole di mantenere qualcosa di sé nascosto e di non rivelarsi, cioè di non mostrarsi completamente “svelati”. Qui può sorgere la domanda se sia possibile parlare ancora d’amore tra fratelli/sorelle o se vada perso qualcosa di tipico e determinante di questo amore. L’“essere-svelati” dei fratelli/sorelle non è, infatti, tematico come nell’amore coniugale o nell’amore amicale, perché non viene primariamente realizzato nell’ambito dell’amore, ma è un dato di fatto ovvio, già presente come prerequisito: la decisione di uno “svelamento” parziale è quindi contrario alla natura dell’amore tra fratelli/sorelle. Di conseguenza, anche il capirsi non è un punto essenziale da raggiungere assolutamente come nel caso dell’amicizia o del matrimonio. Nell’amore tra fratelli e sorelle la familiarità assume più che nell’amore dei figli per i genitori o nelle altre categorie di amore un aspetto metafisico, perché «c’è un’ultima, più profonda appartenenza comune e non un mero “camminare fianco a fianco”»66. L’amore tra fratelli/sorelle può anche diventare amicizia se essi concordano di accogliersi in una reciproca risposta al valore nella loro individualità, e ciò non solo per il fatto di essere fratelli e sorelle. 4.1.3. L’amore amicale Caratteristica dell’amore amicale è un riconoscere l’altro/a nella sua individualità specifica e al contempo si instaura una mutua 66.  MG, p. 56.

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investitura attraverso un compito, una funzione, quella di “essere amici”: si prende cioè la decisione di “essere per l’altro/a” e quindi si assume il “compito” dell’amico/a. Ciò richiede molta familiarità, come nell’amore tra fratelli e sorelle, anche se qui non si tratta di un dato di fatto, ma di una presa di posizione. Si comprende l’amico/a e si sa di essere vicendevolmente compresi, perché esiste una base comune di valori; su di essa entrambi gli amici orientano lo sguardo67 e costruiscono un rapporto, perciò è possibile una certa apertura, un deliberato “svelarsi”, più simile a quello dell’amore coniugale che a quello dell’amore fraterno. All’inizio delle nostre riflessioni avevamo trovato questi aspetti già in Aristotele che, infatti, fornisce una delle prime e più dettagliate descrizioni sull’amore amicale, servita probabilmente allo stesso Hildebrand da riferimento e termine di confronto. In questo amore l’intenzione unitiva e l’intenzione benevolente sono presenti in ugual misura: si vuole solo il meglio per l’amico/a e ci si impegna a fare la propria parte perché ciò che è oggettivamente buono per lui/lei si realizzi; tuttavia non è tanto questione di unificazione, ma di sentirsi vicini alla persona amica. È importante, infatti, essere sicuri dell’amore dell’amico/a, ma non è necessario che il suo amore abbia la stessa intensità del nostro, è sufficiente che esso sia in qualche modo ricambiato e che ci si senta uniti68. Questa visione di Hildebrand 67.  C.S. Lewis si esprime similmente poiché gli amici si pongono, secondo lui, «fianco a fianco» e «i loro occhi sono rivolti in avanti»; e anche: «la meta, o visione, che accomuna gli amici non li assorbe in maniera tale da farli rimanere estranei e dimentichi l’uno dell’altro. Al contrario, essa è proprio il tramite che permette lo sviluppo di una reciproca conoscenza e affetto» (C.S. Lewis, I quattro amori. Affetto, Amicizia, Eros, Carità, tr. it. di M.E. Ruggerini, Jaca Book, Milano 20192, risp. p. 66 e p. 70). 68.  Questo aspetto di unità tra amici viene ben sottolineato anche da Pavel Florenskij, assieme al “luogo di comunanza” che sarebbe il campo valoriale

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incontra alcune contro-argomentazioni, come il fatto che le disuguaglianze nell’amore di amicizia possono portare spesso a conflitti, perché l’amicizia si basa su uno svelarsi consapevole e darsi interamente all’amico/a implica aspettarsi lo stesso atteggiamento in contraccambio. D’altra parte, i toni descrittivi di Hildebrand – almeno fintanto che si sofferma sulla naturale fenomenologia delle diverse categorie di amore – sono di per sé pacati e poco propensi a entusiasmi. È uno sguardo, il suo, realista, pur se positivo, che soltanto in un passaggio successivo arriva a spiegare come un amore amicale, ad esempio, possa superare evidenti limiti e difficoltà legate alla nostra natura umana, quando riferisce della carità come possibile luogo di “colorazione” ulteriore dell’amore. L’amicizia in spirito di carità diventa, allora, espressione di ancor più profonda e perfetta unione con l’altro/a, tanto da poterla descrivere con le parole del filosofo russo, Pavel Florenskij, che dedica una breve lettera proprio all’amicizia: «Una contemplazione di se stesso, attraverso l’Amico, in Dio. L’amicizia è la visione di sé con gli occhi dell’altro, ma al cospetto di un terzo, e precisamente del Terzo. L’Io, rispecchiandosi nell’amico, riconosce nel suo Io il proprio alter ego»69.

di cui parla invece Hildebrand affermando che nell’amore – anche di amicizia – si viene inglobati reciprocamente nel campo valoriale dell’amato/a. «L’unità amicale non può esser chiamata concessione, remissività, perché è appunto unità. L’uno sente, desidera, pensa e parla così non tanto perché così ha sentito, desiderato, pensato e parlato l’altro, ma perché ambedue provano un unico sentimento, nutrono un’unica verità, pensano un unico pensiero, parlano a una voce. Ciascuno vive dell’altro, o meglio la vita dell’uno e dell’altro scaturisce da un unico e comune centro che gli amici con sforzo ascetico creativo pongono davanti a sé» (P.A. Florenskij, L’amicizia, tr. it. di P. Modesto, rev. di R. Zugan e N. Valentini, Castelvecchi, Roma 2013, p. 48). 69.  Ivi, p. 53.

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4.1.4. L’amore in generale Ciò che Hildebrand chiama amore in generale non significa semplicemente amore in senso generico, includente tutti gli altri. Non si tratta neppure dell’amore come viene normalmente inteso con il termine “semplice”, cioè l’unico vero amore; questo termine va, piuttosto, inteso come un amore che si sviluppa verso qualcuno che non solo viene apprezzato e ammirato, ma che viene anche amato senza che si sia sviluppata un’amicizia o una specifica forma d’amore. A cosa sta pensando allora Hildebrand quando parla di amore in generale? A prima vista si potrebbe pensare che, se si escludono le categorie “normali” dell’amore, si debba pensare a un amore per il prossimo, per cui la persona che incontriamo con amore sarebbe solamente un “prossimo”. Eppure, come vedremo, questo tipo di amore non è caratterizzato da una risposta alla specifica individualità dell’altro/a, percepita come preziosa, ma dal riconoscere nella sua individualità una creatura di Dio. Ci si può domandare se ciò non significhi un declassamento della categoria dell’amore al prossimo: Hildebrand lo definisce un amore tematico, perché il prossimo ci interessa dal momento in cui lo consideriamo e ci dedichiamo ad esso. Anche il termine “prossimo” è in realtà un termine generico: ognuno è in sostanza mio prossimo, quando viene in contatto con me in un incontro ravvicinato; anche l’amico/a, il partner, come anche i genitori per i figli e i figli per i genitori sono prossimi in questo senso. Qui i confini sfumano, non si stagliano in modo rigido e lineare, perché alla fin fine si tratta di relazioni spirituali. La descrizione dell’amore in generale non dista troppo dall’amore al prossimo, perché anche nel primo caso l’altra persona è percepita come persona in quanto tale, e non dal punto di vista del suo ruolo speciale o del suo compito, come con l’amore genitoriale, l’amore coniugale ecc. In tal senso questo amore è molto più vicino all’amore amicale, nel quale ci muoviamo

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verso l’altro/a con tutta la nostra persona, anche se in questo caso manca una completa dedizione. È un amore indefinito che non aspetta necessariamente una risposta e non assume una forma fissa. Forse questo è uno dei motivi per cui Hildebrand in Essenza dell’amore non parli più di questo amore; è probabile che egli, nel corso della vita, abbia scoperto che si può parlare dell’amore in generale senza riferirsi ai particolari aspetti categoriali. Semplicemente amore diventa così un termine con il quale si fanno paragoni, come quando alla domanda: “Chi ami di più, tua madre o tua sorella?”, la risposta si riferisce alle persone in quanto tali e non al loro ruolo di madre o sorella. Per questo motivo saremmo dell’avviso di usare il termine di amore generale come un termine che – al di là degli aspetti specifici delle forme categoriali dell’amore – include tutte le forme d’amore. 4.1.5. L’amore sponsale In questa forma di amore troviamo quasi tutte le caratteristiche menzionate finora e presenti nelle altre categorie di amore. Hildebrand lo descrive come la forma più espressiva della comunione io-tu nella quale entrambi gli amanti non solo stanno l’uno/a di fronte all’altro/a; l’amato/a diventa per l’amante persino oggetto di pensiero, sentimento, desiderio, brama, speranza; ognuno diventa il centro della vita dell’altro/a. Questa categoria di amore è ulteriormente caratterizzata da aspetti molto specifici che si possono chiaramente distinguere dalle altre categorie. Prima di tutto, questo amore è sempre preceduto da uno stato peculiare, che si può considerare come uno stadio preliminare: è l’innamoramento, in cui si diventa consapevoli dell’altro/a e vengono alla luce il suo valore e la sua preziosità interiore. «In ogni movimento, in ogni sorriso, nel ritmo della vita dell’altro, nella sua voce, nella sua andatura, ecc., l’essenza dell’altro ci

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parla in tutta la sua magia, l’altro diventa “trasparente”»70. Questa trasparenza si basa sulla particolare capacità dell’innamora­ to/a di percepire l’amato/a in modo profondo, perché l’amore, secondo Hildebrand, non rende affatto ciechi, come è opinione generale, ma piuttosto fa realmente vedere71. L’innamoramento realizza uno stato in cui la persona diventa più percettiva e attenta al mondo dei valori; l’amore opera una sorta di liberazione interiore e ci si sveglia ai valori del bene: l’intera relazione con il mondo cambia, diventa più autentica e più profonda. È per tale ragione che nell’amore sponsale emerge qualcosa di davvero notevole e peculiare, ovvero la capacità di cogliere l’altro/a nella sua interezza, non solo i dettagli, ma tutto ciò che costituisce l’altra persona e la ragione di questo, secondo Hildebrand, è che solo una determinata persona può incontrare un’altra con amore sponsale. Gli altri colgono sempre solo qualcosa di quella persona, un aspetto di essa, ma soltanto una persona la percepisce in modo completo e complessivo. In questo aspetto l’amore sponsale differisce dall’amore amicale: si possono avere diversi amici o si può essere amico/a di più persone; di amore sponsale si può amare, invece, solo una persona. Questa categoria di amore non è “condivisibile” a causa della reciproca donazione totale dei due nella coppia e presuppone una certa pretesa sulla persona amata. Questa esclusività dell’unità completa e chiusa fra due persone è evidente anche nel fatto che questo legame di unità si spezzerebbe se uno dei due amanti amasse un’altra persona con amore sponsale. Di conseguenza la questione della poligamia è obsoleta come principio, e non per ragioni morali, come comunemente si pensa,

70.  MG, p. 63. 71. Cfr. EA, p. 48.

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quanto perché è nella natura dell’amore essere esclusivo e stabilire un’unione72 che non consente “concorrenza”. «A volte si pensa che la poligamia sia proibita dalla legge di Dio, dato che la monogamia non si basa sulla natura del matrimonio o sulla morale naturale. Non c’è niente di più sbagliato di questo. Non soltanto il matrimonio ma l’amore sponsale in sé esclude la poligamia»73. Nella stessa direzione va l’affermazione di Hildebrand che l’amore sponsale è possibile solo tra un uomo e una donna74. Tra persone dello stesso sesso è possibile l’amicizia o l’amore tra fratelli e sorelle, ma non l’amore sponsale. Hildebrand lo motiva non solo con riguardo alla sfera sessuale, bensì anche per la profonda differenza metafisica che sussiste tra uomo e donna: essi, infatti, rappresentano due forme diverse e complementari della persona spirituale: il maschio e la femmina. Tipica della donna è l’unità della personalità più forte, perché in lei cuore, intelletto e temperamento sono integrati più olisticamente che nell’uomo. Questa unità del femminile si riferisce sia alla sfera intima che a quella esterna, unendo anima e

72.  Sul tema si veda G. Dux, Geschlecht und Gesellschaft, cit., e anche E. Fromm, Gli oggetti d’amore, in Id., L’arte di amare, tr. it. di M. Damiani, Mondadori, Milano 20164, pp. 29-50. 73.  «A volte ci si imbatte nell’opinione che la poligamia sia vietata solo da una legge positiva di Dio e che la monogamia non sia necessariamente radicata nella natura del matrimonio né richiesta dalla moralità naturale. Niente di più errato. Non solo il matrimonio effettivo, ma l’amore coniugale in se stesso esclude la poligamia» (MW, p. 20). 74.  Hildebrand apporta differenti motivazioni a sostegno dell’amore sponsale come esclusivamente eterosessuale, tuttavia, riteniamo che la sua visione resti fondamentalmente segnata dalla morale cristiana. Per approfondimenti e spiegazioni sul matrimonio a partire da tale approccio, si veda R.B. Arjonillo Jr., Conjugal Love and the End of the Marriage. A Study of Dietrich von Hildebrand and Herbert Doms in the Light of the Pastoral Constitution Gaudium et Spes, Lang, Bern et al. 1998.

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vita esterna nella loro essenza. Nell’uomo, invece, in genere si incontra una capacità di distanziarsi con l’intelletto più efficacemente dalla sfera affettiva75. Questi esempi dimostrano, a parere di Hildebrand, che la differenza tra uomo e donna non deve essere limitata al campo fisico, perché rappresenta una caratteristica essenziale degli esseri umani, sia in termini di diversità che nella relazione complementare dei sessi tra loro. Uomini e donne sono creati in relazione, sono orientati l’uno per l’altra, nel senso di una reciproca correzione delle rispettive caratteristiche per via di possibili deviazioni, e tale relazione si può raggiungere solo se uomini e donne si incontrano in pieno rispetto e apertura76. Il ragionamento di Hildebrand, di per sé fondato e comprensibile, non offre tuttavia alcuna prova diretta del fatto che l’amore coniugale sia possibile o giustificato solo tra uomini e donne, d’altra parte ci restituisce un quadro aperto e realistico del rapporto uomo-donna nell’amicizia.

75.  Queste idee di Hildebrand trovano nella psicologia argomentazioni precise e fondate. Doris Bischof-Köhler, ad esempio, dedica al tema della diversità e complementarietà dei sessi un intero studio, nel quale sottolinea come le donne si caratterizzino rispetto agli uomini maggiormente per perseveranza, cura e responsabilità e un permanere conservativo. Gli uomini, invece, sarebbero più sistematici e avventurosi, avrebbero una maggiore autostima e capacità di affermarsi. Come sostiene Hildebrand, test fisiologici e psicologici mostrano come le donne siano più predisposte sul piano sentimentale e abbiamo più empatia degli uomini (cfr. D. Bischof-Köhler, Von Natur aus anders. Die Psychologie der Geschlechtsunterschiede, Kohlhammer, Stuttgart 2011). Oltretutto, non possiamo non ricordare anche le conferenze tenute dalla Stein negli anni ’30, poi raccolte e pubblicato nel volume Die Frau, nelle quali la filosofa e carmelitana non soltanto ci restituisce un’interessante lettura del femminile, ma anche del maschile e della relazione tra i due sessi (cfr. E. Stein, La donna. Questioni e riflessioni, in Ead., Opere complete, vol. XIII, tr. it. di O. Nobile e A.M. Pezzella Città Nuova, Roma 2010). 76. Cfr. MW, cap. VII.

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Nella categoria dell’amore sponsale si riscontra anche una forte e duratura decisione per l’altro/a, cosa che non si incontra con la stessa chiarezza e intensità in altre forme di amore; ciò è supportato dalla forte affermazione del “ti amo”, da inscrivere quasi esclusivamente in questa categoria di amore. Da ciò deriva il desiderio di far sperimentare all’amato/a la felicità attraverso il proprio amore, forza trainante della donazione in uno svelamento totale nel quale non viene “donato” solo il cuore, ma l’intera persona. L’autodonazione, che ha luogo in questo amore e che vi si manifesta in modo perfetto, non ha necessariamente solo il carattere dell’unione fisica; anche se l’intenzione unitiva mira a raggiungere l’unità totale sia spirituale che fisica: «Sarebbe un errore grossolano credere che l’amore coniugale sia una combinazione di amicizia, amore e sesso»77. La dimensione fisica di questo amore è di per sé una caratteristica che lo distingue dagli altri, ma è solo un aspetto tra i tanti, come abbiamo visto. Per Hildebrand l’unione fisica78 è uno

77.  MW, p. 42. 78.  Sulla sessualità Hildebrand si esprime sempre positivamente e con l’intento di liberarla da determinati pregiudizi. Essa si pone per lui in una sfera molto profonda dell’essere umano che supera di gran lunga quella dei meri istinti: «Se ci avviciniamo alla sfera del sesso fenomenologicamente, se la guardiamo senza pregiudizi, non possiamo non vedere che differisce completamente da tutti gli altri istinti e appetiti» (MW, p. 49). Ciononostante, la sessualità resta anche un mistero che in definitiva non può essere spiegato. Il più profondo desiderio di unione con l’amato/a all’interno del matrimonio esprime il desiderio di incontrarlo/a fin nel più profondo intimo suo essere. Per tale ragione Hildebrand critica Freud che non avrebbe riconosciuto né il significato dell’amore né del sesso (cfr. D. von Hildebrand, Marriage and Overpopulation, in «Thought», XXXVI, 1961, pp. 81-100: pp. 86-87). Questa posizione freudiana è stata, in effetti, rinforzata da molti suoi allievi, per cui gli psicoanalitici hanno fatto dell’istinto sessuale, della libido, veramente il fattore motivazionale dominante della vita umana tanto da fare diventare l’istinto sessuale la forza motivazionale di ogni attività. L’amore, invece, sa-

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dei momenti più belli che qualificano specificamente l’amore sponsale, ma esso non può essere ridotto a questa dimensione, magari combinata con una porzione di benevolenza e una certa vita in comune. Il corpo degli innamorati ha, senza dubbio, una posizione molto speciale nell’amore sponsale: esso diventa un forziere, il cui contenuto nasconde le caratteristiche personali di ogni persona, preziosa semplicemente per la ragione di essere, ma anche per la bellezza esterna del corpo, pur avendo l’amore sempre l’intera persona davanti a sé e non soltanto il suo corpo79. 4.1.6. L’amore al prossimo e l’amore per un ideale L’amore al prossimo va compreso in due modi: da un lato come amore naturale verso il prossimo che si basa su alti valori, ma non necessariamente sul soprannaturale, perché in esso il prossimo è visto in generale come creatura di Dio; d’altra parte esi-

rebbe un fenomeno di accompagnamento poco importante col risultato che si è avuta non solo una svalutazione dell’amore, ma ironicamente una trivializzazione della sessualità (Cfr. W. Gaylin, Rediscovering Love, cit., p. 9 ss.). Hildebrand cerca di dare proprio a tale trivializzazione una risposta. Tuttavia, negli ultimi decenni, anche nella psicoanalisi si è chiarito quanto tale teoria della libido fosse di per sé riduttiva, soprattutto in relazione all’amore. «L’errore più essenziale della teoria della libido non era solo la strettezza della sua definizione di piacere, che era già sufficientemente problematica, quanto l’assunzione che l’amore, qualunque forma di amore, potesse definirsi esclusivamente in termini di soddisfacimento sessuale» (ivi, p. 83). Si ricordi anche la lettura lacaniana del desiderio e la molteplice declinazione che lo psicanalista ne fa, mettendo in rilievo proprio aspetti specifici di un amore spirituale. Cfr. M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Cortina, Milano 2018. 79. Cfr. supra, cap. I: la distinzione platonica tra amore carnale e spirituale; la liberazione dell’amore sponsale dalla pura sensualità in Plutarco; la comparazione di Ficino del desiderio di bellezza fisica e unione con la sua visione; la battaglia tra sentimenti spirituali e corporei in Rousseau; per citarne qui solo alcuni.

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ste un amore specificamente cristiano, che riconosce nell’altra persona non solo la creatura di Dio, ma una persona amata da Cristo, cosa che immediatamente fa della seconda forma un’espressione di amore sacro80. Qualsiasi sia il modo in cui si accetta e accoglie l’altra persona, comunque, questo amore manca spesso di reciprocità, che non è un suo aspetto tipico. Certamente ci si aspetta una reazione amorevole, ma non si agogna l’amore reciproco in senso pieno, come nelle altre forme naturali di amore. Anche per questo motivo Hildebrand descrive questo amore come eroico e allo stesso tempo invulnerabile; proprio perché non dipende né dalla reciprocità né dalla singola persona, il rischio di delusione è molto basso o nullo. Nell’amore al prossimo non si va verso l’altro/a per unirsi a lui/ lei, ma per fargli qualcosa di buono, quindi l’intenzione benevolente è in esso molto più presente dell’intenzione unitiva. Detto in modo ancora più conciso l’amore al prossimo è caratterizzato da un movimento opposto rispetto alle forme naturali di amore: si inizia da soli, si esce dalla vita propria e ci si avvicina agli altri. Nell’amore naturale è diverso, qui si crea spazio in sé per gli altri: l’altro/a entra nella vita propria e viene a far parte sempre più di essa. Nell’amore al prossimo l’altro/a non diventa parte della nostra stessa vita propria, anche se siamo interessati a lui/lei e lo/la amiamo. 80.  In Metaphysik der Gemeinschaft troviamo questo “amore santo” descritto come una determinata categoria di amore: per Hildebrand con tale termine va inteso un amore in Cristo, nel quale Cristo stesso è tematico. Esso è caratterizzato da una postura frontale, propria del matrimonio come anche dell’intenzione unitiva, che mira al diventare uno, così come alla reciprocità, ma non fino alla sfera sensuale e vitale. Ciò che è determinante qui, però, è la definitiva dedizione nei confronti di Cristo da parte dell’amante che si sente completamente appartenente a Cristo: si ama l’altro/a affinché appartenga completamente a Cristo (cfr. MG, in part., pp. 64-66).

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Ma cosa significa uscire dalla vita propria? Significa allontanarsi per un certo tempo dalle questioni e interessi personali, per dedicarci completamente agli altri; dedicandoci davvero ai loro bisogni, mettendoci nei loro panni, essi diventeranno attuali anche per noi, di più, essi diventeranno parte della nostra stessa vita propria. Va tuttavia notato che, secondo Hildebrand, il segno distintivo di questa categoria di amore è l’uscire dalla vita propria e non l’includere l’altro/a in essa, per il semplice motivo che questa persona non è la fonte della nostra felicità come di solito accade per i genitori o gli amici. Alla domanda, se sia possibile un amore al prossimo senza il riferimento a Dio, Hildebrand dà risposte molto diverse: in Metaphysik der Gemeinschaft sottolinea che non si deve necessariamente credere in Dio per poter amare in questo modo, ma è sufficiente essere aperti ad amare; forse il fondamento ultimo di tale atteggiamento non sarà esplicabile, anche se in linea di principio viene assunto lo stesso nucleo di valori. In tal senso l’amore al prossimo assomiglia a tutte le altre forme naturali di amore. Più tardi, in Essenza dell’amore, Hildebrand si esprime in modo completamente diverso e distingue tra amore naturale e amore cristiano rivolto al prossimo, concludendo che solo la forma cristiana è amore autentico. Le due forme di amore naturale al prossimo che generalmente vengono intese come tali, per il Nostro non lo sono: da un lato c’è l’amore di persone che hanno naturalmente un buon cuore e sono disposte a fare del bene a qualcuno, specialmente ai bisognosi81; dall’altro c’è 81.  Questa forma di amichevolezza e prontezza ad aiutare non va confusa con l’amore al prossimo, perché l’essere umano spesso viene indotto dalla sua inerzia a non dire mai no o – che è lo stesso – a comportarsi verso gli altri sempre in modo benevolente al fine di evitare possibili conflitti. Tali persone non sono mai fondamentalmente preparate ad amare, anzi sarebbero più volentieri sole e preferirebbero essere lasciate in pace, ma se qualcuno

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l’amore di persone che, secondo il loro fondamento etico, sono in grado di riconoscere il bisogno e rispondere alla legittima richiesta degli altri82. Questi due atteggiamenti sono forme di benevolenza, ma non forme di amore reale come l’amore cristiano al prossimo, perché gli aspetti particolari delle altre categorie d’amore – incluso quello verso il prossimo – non sono presenti, ad esempio il tema della persona, la risposta al valore, la specifica parola dell’amore e qualsiasi forma di intenzione unitiva. Sotto il profilo dell’atteggiamento morale, nel caso della benevolenza, la differenza si rende riconoscibile per l’intensità tematica della moralità: precede il reale interesse per l’altro/a, cosicché l’azione verso di lui/lei è una risposta al bisogno specifico o alla sua situazione, piuttosto che risposta alla sua personalità. Persino la benevolenza fatta con il cuore non è una risposta al valore dell’altro/a, alla sua preziosità personale, ma piuttosto una capacità naturale di essere compassionevole. La buona volontà non contiene in sé il carattere della dedizione e del pieno riconoscimento della persona del prossimo, quindi non può essere chiamato amore.

è nelle loro vicinanze allora si rendono pronti a fare tutto pur di non avere problemi. Di per sé non andrebbero mai liberamente incontro a un prossimo, a meno che non possano fare altrimenti. Qui l’interesse per la propria vita e per la propria tranquillità è maggiore che l’interesse per gli altri. Ci sono anche persone che si comportano così semplicemente per il fatto che ciò rientra nella loro “cura dell’immagine” e godono nel venire lodati da altri per il fatto di essere generosi e pronti ad aiutare tutti. 82.  In tal senso l’amore al prossimo, anche nell’antichità, era presente come altruismo basato su una umanità che può essere minacciata da sentimenti di concorrenza o desideri di dominio. In questa forma dell’amore al prossimo è particolarmente tipica la sottomissione della propria felicità: con ciò, però, mancano la relazione specifica alla persona e all’intenzione unitiva dell’amore cristiano al prossimo. Cfr. G. Guttenberger, Nächstenliebe, Kreuz, Stuttgart 2007, pp. 38-49.

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D’altra parte, l’amore cristiano al prossimo mostra una sorta di intenzione unitiva come tutte le altre categorie d’amore e, come già accennato, è una forma di amore santo o intriso di caritas83, come vedremo nel prossimo paragrafo. La tardiva distinzione e ridefinizione dell’amore al prossimo di Hildebrand ha il vantaggio di poter essere interpretata come una forma d’amore molto specifica, basata su Dio, che quindi non ha bisogno di essere “difesa” di fronte alle altre forme d’amore. Rimane, comunque, vero che essa comporta una certa restrizione, nel senso che l’amare tutti diventa, per così dire, monopolio dell’amore cristiano. Ciò nonostante la posizione successiva, quindi sicuramente più elaborata, di Hildebrand rivela un’ampiezza e offre un approccio ragionevole, perché il concetto di amore per il prossimo è in realtà strettamente legato al contesto ebraico-cristiano e ne costituisce uno dei principali comandamenti: “ama il tuo prossimo come te stesso” è considerato, insieme all’amore per Dio, come il primo e il più importante comandamento84. Ciò significa anche che si tratta di un amore comandato, non di un amore naturale e spontaneo. Ma quali sono le implicazioni della comprensione dell’amore come comandamento? Ne Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, Scheler, contrariamen83.  Anche Comte-Sponville lega l’amore al prossimo con l’amore di Dio intravedendo proprio in questo stretto legame la spiegazione per il carattere assoluto dell’amore al prossimo (cfr. A. Comte-Sponville, Ermutigung zum unzeitgemäßen Leben. Ein kleines Brevier der Tugenden und Werte, Rowohlt, Reinbek 1996). 84.  Nel Vangelo, Gesù lega l’amore al prossimo con l’amore di Dio e parla di comandamenti. Quando viene interrogato dai farisei: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?», Gesù risponde: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22,36-40, secondo la traduzione della CEI 2008).

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te a Kant, difende l’impossibilità di comandare l’amore, ma si nota che non nega il comandamento dell’amore al prossimo in quanto tale. Ciò si capisce più profondamente quando si parte dall’invito alla sequela e non dall’ordine con il conseguente obbligo di amare il prossimo. L’amore al prossimo nello spirito di Gesù è, dunque, la misura della forma moralmente più alta dell’amore o almeno dell’ideale d’amore85. Ribaltando i termini, Kierkegaard ritiene – come abbiamo accennato nel capitolo I – che sia proprio la forma del comando a rendere l’amore cristiano qualcosa di speciale rispetto all’amore puramente umano e, di conseguenza, una tale forma di amore è ancorata per lui all’eternità: non può morire e non è soggetta a delusioni e perdite. Di seguito vedremo quanto Hildebrand sia vicino a tale comprensione kierkegaardiana; dal suo punto di vista l’amore al prossimo è tale perché intriso dallo spirito della caritas, fondato in Dio. Tuttavia, lo spirito della caritas influenza non solo l’amore al prossimo, ma tutte le forme di amore nella misura in cui c’è la volontà di accoglierlo; ciò indica una possibile via d’uscita dal problema del comando dell’amore al prossimo e, forse, è per questo motivo che Hildebrand non si esprime al riguardo. Se l’amore al prossimo è caratterizzato dalla caritas, e quest’ultima può influenzare anche le altre forme di amore naturale, allora esso non è un comando, perché altrimenti lo sarebbero anche le altre forme. Il dovere stabilisce, piuttosto – come sostiene Scheler – la più alta forma di moralità dell’amore, quella che non ha limiti e invita al più alto livello di beatitudine. La differenza con Kierkegaard sta nel fatto che Hildebrand non considera l’amore naturale meno prezioso rispetto all’amore del prossimo e ritiene che l’essere umano possa sperimentare la felicità già attraverso le forme naturali d’amore. 85.  Cfr. M. Scheler, Il formalismo, cit., p. 229.

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L’ultima categoria di amore è l’amore per un ideale che si basa su un comune mondo di ideali che due persone possono condividere tra loro, ciò significa che l’altra persona non è accettata per la sua individualità o come immagine di Dio, ma è riconosciuta come amabile sulla base dei suoi valori o delle sue idealità. Qui non ci troviamo uno di fronte all’altro, ma in piedi fianco a fianco; è il caso di due persone che si impegnano, ad esempio, per una maggiore giustizia nel mondo del lavoro e si sostengono a vicenda nei loro ideali: l’uno/a riconosce nell’altro/a il suo stesso mondo di valori e vi risponde. Non è l’altra persona a essere tematizzata, ma lo sfondo dei valori, cioè l’idealità condivisa. In effetti non troviamo una spiegazione esplicita del perché tale categoria scompaia dal lavoro di Hildebrand e ci sembra un deficit nella sua analisi, dato che questo amore ha la peculiarità di essere fortemente concentrato sui valori di natura etica e religiosa, ai quali egli stesso ha dato grande rilievo; si può presumere che ciò sia da ricondurre all’eccezionalità di manifestazione di questo amore.

4.2. La caritas – “spirito dell’amore” Finora abbiamo descritto le diverse categorie di amore nelle loro caratteristiche principali e abbiamo visto che per Hildebrand l’amore al prossimo si differenzia in naturale o di benevolenza e in amore cristiano al prossimo; la differenza più profonda ed essenziale tra loro sta, come finora accennato, nella caritas, che si comprende solamente prendendo in considerazione l’amore cristiano al prossimo. In primo luogo, in termini di etica, l’amore cristiano al prossimo è l’asse della moralità naturale e soprannaturale, se non altro perché è un comandamento e perché il suo tema non può essere separato dall’etica, mentre gli altri amori naturali non

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hanno con essa un nesso così stretto. Essi hanno senz’altro un riferimento all’etica, ma non sono risultato di una tensione etica alla stessa maniera dell’amore cristiano al prossimo. Una seconda differenza sta nel fatto che l’amore cristiano al prossimo è un atto della volontà, mentre le forme naturali di amore provengono dal cuore e possono essere vissute come un dono. L’amore al prossimo risponde a valori moralmente significativi e il mondo dei valori costituisce il tema di questo amore. Nel caso dell’amicizia o dell’amore sponsale d’altra parte, non è il mondo dei valori in quanto tale ad essere tematizzato, ma l’amore personale per la determinata persona, per l’amico/a o per il coniuge. Questa peculiarità trova i suoi fondamenti nell’amore per Dio, che presuppone l’amore per il prossimo, mentre questo non è il caso delle altre forme di amore. L’amore cristiano al prossimo non può essere realizzato senza il fondamento dell’amore per Dio, vi è, infatti, un’inscindibile relazione. Nelle forme naturali di amore non esiste un riferimento obbligatorio all’amore per Dio, esso può essere un presupposto, ma non lo è necessariamente. L’amore cristiano al prossimo invece, anche quando prescindiamo dal suo carattere soprannaturale in senso teologico, presuppone necessariamente la rivelazione cristiana e la fede in essa. La risposta al valore rivolta alla preziosità e alla bellezza che è propria di ogni uomo […] presuppone necessariamente che io lo riconosca come “immagine di Dio”, come creato da Dio e chiamato alla comunione eterna con lui.86

Per Hildebrand ciò significa vedere l’altro/a come figlio/a di Dio e per questo motivo amarlo/a, indipendentemente dal fatto che sia interessante o meno, che sia simpatico dal punto di vista umano o meno. La sola fede stabilisce il riconoscimento della 86.  EA, p. 643.

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bellezza e della preziosità dell’altro/a, in quanto proveniente da Dio come ogni creatura. Senza questo background l’amore cristiano sarebbe completamente incomprensibile e di per sé impossibile. Da questo punto di vista è anche comprensibile il motivo per cui si può persino amare i nemici e che questo amore costi un elevato prezzo. Un’altra distinzione è che l’amore al prossimo non consente sentimenti contrastanti; mentre ci si può rapportare a una persona con profonda amicizia e a un’altra con odio, nell’amo­re cristiano ciò non è possibile per la stessa ragione precedentemente menzionata: ognuno/a è amato/a allo stesso modo da Dio, quindi non si può essere affetti da due sentimenti così opposti. Tuttavia, anche nell’intenzione benevolente possiamo trovare una spiegazione adeguata. Nelle forme naturali di amore essa è una conseguenza dell’accettazione dell’altra persona, in definitiva, una risposta al valore a quel particolare individuo: amiamo l’altro/a con amore amicale o sponsale, perché è attraente e perché vogliamo fargli del bene. In altre parole, l’altro/a è decisivo/a per sé perché noi possiamo rispondergli con l’intenzione benevolente. Nel caso dell’amore cristiano al prossimo l’intenzione benevolente è un’espressione della bontà dell’amante ed essa vale non solo per il prossimo, ma per tutti i potenziali prossimi, pur se, come già detto, il singolo prossimo diventa in sé tematico e viene amato interamente come quella data persona. L’amore cristiano al prossimo non è una generalizzazione, per la quale bisogna amare tutti, livellandoli; questo misconoscerebbe o almeno fraintenderebbe il senso più profondo del comandamento. A questo proposito Scheler fa una interessante distinzione tra amore per l’essere umano e amore per l’umanità: il primo riguarda gli esseri umani come razza o come esempio della specie umana ed è quindi uno pseudo-amore; il secondo dice di ama-

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re l’umanità come un individuo, cosa possibile solo nell’ama­re in Deo, che significa solo in Dio. Secondo Scheler è impossibile per l’essere umano cogliere l’umanità come un unico individuo, solo Dio può farlo, per questo l’amore per l’umanità è possibile solo in Dio. Inoltre, l’amore cristiano al prossimo si distingue dalle forme naturali di amore per la relazione tra le due persone interessate: nell’amore al prossimo non esiste la situazione io-tu, piuttosto l’atteggiamento è quello del per lui/lei. Il prossimo è un “egli/ella”, perché il focus non è la relazione, ma il prossimo, la sua persona. Al di là di tutte queste spiegazioni, resta il fatto che la differenza fondamentale tra l’amore cristiano e le forme naturali di amore risiede nella natura dell’amore cristiano stesso e ciò conduce a prendere in considerazione la caritas. Essa viene dall’amore di Dio e l’amore del prossimo è frutto della caritas che, in questo senso, è la divina bontà in sé; l’incontro con il prossimo è un incontro con Dio, anziché un incontro con il cuore dell’amato/a come nel caso dell’amore naturale. L’essere amati caratterizza profondamente tutte le forme naturali di amore e fa sentire la bontà personale dell’amante focalizzata su di sé. Nell’amore cristiano al prossimo, l’amore fa sperimentare l’amore di Dio a noi rivolto, cosicché l’altro/a, in qualche modo, è secondario in quanto canale della divina bontà. L’incontro in Cristo, che si sperimenta attraverso l’amore cristiano genuino, può, però, essere sperimentato anche nelle categorie di amore naturale, se sono immerse nella caritas e vengono da essa trasformate. Perché ciò sia, l’amore deve diventare reciproco: solo se anche l’altra persona desidera un incontro in Cristo, questo incontro può avvenire attraverso l’amore, pur non essendo questo il caso dell’amore al prossimo, perché qui si tratta sempre di un solo prossimo specifico, mentre la carità naturale influenzata dalla caritas può anche

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coinvolgere più persone allo stesso tempo, in modo da arrivare a un “noi”87. L’amore cristiano al prossimo è quindi modellato dalla caritas e per questo si distingue dalle altre categorie d’amore, ma la caritas non è amore al prossimo: è l’amore di Cristo agli uomini, un amore che, come tutte le categorie di amore naturale, è caratterizzato dalla intenzione unitiva, ma è un amore completamente diverso a causa del suo carattere onnicomprensivo, che lo distingue da tutte le forme di amore personale. Ci si potrebbe ora chiedere in cosa consista il di “più” di un amore modellato dalla caritas rispetto all’amore naturale; la risposta sta nel fatto che un amore fondato e plasmato interamente dalla caritas è un amore veramente puro, cioè, liberato da ogni egoismo. L’amore per gli amici e ancor più l’amore degli sposi o l’amore dei genitori corre sempre il rischio di adottare atteggiamenti egoistici o perfino immorali per il bene della persona amata. Se questi amori vengono penetrati dalla caritas, invece, diventano al contempo immuni da questo pericolo, perché l’amante non si lascerà sedurre dall’egoismo e troverà il coraggio di rifiutare o evitare determinati comportamenti. Ciò emerge da un di più d’amore anche quando esso non è direttamente o concretamente rivolto all’amato/a. L’“egoismo per amore” non è paragonabile al normale egoismo che solitamente si sperimenta quando si è concentrati e si pensa solo a se stessi; non si tratta nemmeno dell’egoismo sperimentato in relazione alla persona che si suppone di ama87.  Ciò che Hildebrand vuole qui intendere con un “noi” è il livello di comunità che si fa esperibile; si tratta, cioè, dell’unione in Cristo che supera ogni singolarità. «Nell’amore al prossimo domina sempre un’esplicita situazione io-tu. Si sta sempre di fronte ad un tu individuale. L’amore del “ci ha riuniti in una sola cosa”, invece, può valere anche per molti contemporaneamente. Può riferirsi ad una comunità di più persone. Può anche attualizzarsi in un “noi”, in un noi che si forma per Cristo» (EA, p. 667).

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re considerandola, in qualche modo, come un’estensione del proprio ego. Abbiamo già trattato questo argomento in precedenza, perché molti amanti, specialmente nell’amore genitoriale e nuziale, possono considerare l’amato/a come un io esteso, per cui in realtà non amano l’altra persona, ma se stessi. In questo caso la persona è di per sé egoista ed estende semplicemente questo egoismo alla persona amata. L’egoismo per amore, invece, riguarda il desiderio di fare il meglio per la persona amata, anche a spese degli altri; fenomeno tipico di un amore naturale, nel quale l’amante non è egoista nei propri confronti, ma in relazione alla persona amata, quindi stabilisce standard diversi di comportamento a seconda della persona con la quale ha a che fare; ad esempio, cerca i posti migliori per sé e la persona amata, oppure usa la propria posizione di potere per avvantaggiare la persona amata, sebbene ciò non sia corretto; questi sono tutti atteggiamenti che derivano dall’egoismo dell’amore. La caritas esclude ogni egoismo, ma può essere abbinata a una forma di odio, quello che si ha contro tutto ciò che non ha valore positivo, come l’immoralità o il vizio. Dal punto di vista di Hildebrand tutte le forme naturali di amore trovano la loro perfezione nella caritas, pur mantenendo il loro carattere e rimanendo amori naturali, come abbiamo già spiegato. La caritas, nella tipica comprensione cristiana dell’amore, richiede che tutte le altre forme siano immerse in essa. Ciò non vuol dire che esse trovino così la giusta forma, quanto piuttosto una maggiore perfezione. Tale visione è ovviamente discutibile, anche perché Hildebrand non ce ne fornisce una spiegazione fenomenologica approfondita, tuttavia, è in sé aperta a un più ricco e ampio intreccio tra piano etico e metafisico-ontologico e offre così un elemento-chiave di apertura a un ripensamento dell’amore in termini puramente ontologici.

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4.2.1. Caritas ed eros: amici o nemici? L’argomento del confronto tra caritas ed eros, discusso nel primo capitolo, emerge a questo punto per il fatto che la terminologia può venir usata soltanto se, con Hildebrand, si intende per eros non un amore ridotto alla relazione di coppia e l’erotismo esclusivamente in rapporto alla sessualità; ma riconoscendo nell’eros la naturale capacità d’amore dell’essere umano, indipendentemente dalle specifiche caratteristiche di ogni categoria di amore. Comte-Sponville condivide questa visione quando dice: L’agape è anche oggetto o orizzonte per l’eros […], che proibisce di rimanere prigionieri di se stessi… che obbliga sempre… a superare ogni possibile oggetto, ogni possibile possesso, ogni possibile preferenza, fino a giungere al punto dello spirito o dell’essere, dove non manca più nulla… che Platone chiamava il Bene e che altri hanno chiamato, da duemila anni, Dio.88

In questo senso tutte le categorie di amore naturali sono fenomeni di eros, compreso l’amore dei genitori e l’amore dei figli, nella misura in cui essi non sono essenzialmente per­ meati dalla caritas. In altre parole, caritas non è opposta a eros come l’amor benevolentiae è opposto all’amor concupiscientiae, perché è una capacità soprannaturale di amore basata interamente su Dio. Non si tratta di una contraddizione, perché eros e caritas/agape sono solo due facce diverse della stessa medaglia, vale a dire dell’unico amore. Secondo Hildebrand l’amore è uno, non ci sono diversi amori, ma solo varie forme. Sebbene molto spesso eros e agape siano stati contrapposti e abbia prevalso l’opinione che eros fosse da associare all’appetitus e alla passione – quindi più consono all’amore coniuga88.  A. Comte-Sponville, Ermutigung zum unzeitgemäßen Leben, cit., p. 336.

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le – mentre l’agape fosse da concepire come l’amore sacro, la benevolenza che si può avere verso tutti, Hildebrand, è dell’avviso che eros e caritas siano la stessa cosa, perché tutte le forme naturali di amore nascondono pericoli che possono essere superati solo dalla caritas. Abbiamo già menzionato il pericolo dell’egoismo fra gli amanti, ma ci sono altri pericoli di cui dobbiamo essere consapevoli, come commettere infrazioni per amore della persona amata; quando l’amore amicale o sponsale diretto dalla caritas prende forma, allora il postulato morale che ne deriva sarà prioritario rispetto all’esigenza di fare tutto ciò che l’amico/a o il partner desidera. Ci sono, poi, altri elementi che testimoniano un perfezionamento dell’amore attraverso la caritas: intanto si vede meglio, perché grazie ad essa è possibile riconoscere il bene vero e oggettivo, inoltre si raggiunge una piena trascendenza nel senso di una vera dedizione, un per lui/per lei nel rapporto con l’amato/a; da ultimo, ma non meno importante, è il fatto che la caritas tende al benessere, alla felicità e all’immunità dell’amato/a più che l’unione, non perché la caritas la relativizzi, ma semplicemente perché l’atteggiamento dell’amante è olisticamente sintonizzato sull’amato/a, così che la sua felicità e il suo benessere diventano più importanti e acquistano priorità rispetto all’unione, che del resto coinvolge più direttamente l’amante. Più importante ancora, tuttavia, è la differenza tra amore naturale non permeato dalla caritas e un amore rinnovato e trasformato da essa. Quest’ultimo, infatti, richiede all’amante di non voltare le spalle all’amore, qualsiasi cosa accada, perché quando l’amore amicale o sponsale è innervato dalla caritas, non si può non custodire la fedeltà nei suoi confronti. Infine, si può dire che la caritas, attraverso il suo fondamento nell’amore di Dio, àncora tutte le categorie di amore, l’amore

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cristiano al prossimo, così come l’amore di amicizia, dei genitori, ecc. su questa stessa base89. La distinzione tra caritas come qualità dell’amore e caritas come categoria specifica dell’amore al prossimo è certamente di grande importanza, ma, poiché questa qualità d’amore si fonda solo in Dio e nella risposta che diamo a lui, essa non si può capire se si elimina l’amore di Dio, cioè l’amore che trova il suo modello in Gesù e nel modo in cui egli si è comportato nei confronti di tutti gli esseri umani. È per questo motivo che l’amore cristiano al prossimo può dirigersi anche a nemici e rivali. Nelle forme naturali di amore al prossimo ci si limita ai bisognosi o comunque a coloro che non possono essere potenziali nemici o avversari, altrimenti non ci si comporterebbe nei loro riguardi in maniera benevola.

89.  La comprensione dell’amore di Johannes B. Lotz in questo aspetto si avvicina molto a quella di Hildebrand, infatti anche per Lotz le altre categorie d’amore – da lui riassunte sotto i termini eros e philía – vanno concepite come ben determinate forme d’amore insite nell’essere umano, viste addirittura come premessa all’agape/caritas, senza le quali l’ultima non troverebbe un terreno adatto per mettere radici. Tuttavia, l’agape può completare le altre categorie dell’amore rendendo la vita umana partecipe di quella divina. In tale modo, le tre forme di amore – agape, philía ed eros – rappresentano tre modi di esprimere l’unico amore (cfr. J.B. Lotz, Die Stufen der Liebe. Eros, Philia, Agape, Knecht, Frankfurt a.M. 1971, pp. 90-156).

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Capitolo IV

La dinamica dell’amore e il suo rapporto con l’etica

Dopo aver affrontato i cardini della filosofia dell’amore di Hildebrand, prendiamo ora in esame un aspetto specifico e centrale nell’intero discorso, ovvero la relazione tra amore e moralità. Partendo dall’approfondimento di ciò che sia l’amante che l’amato/a portano nella relazione d’amore (il “dono” dell’amante – la sua “collocazione su un trono” – il “credito di fede”), si arriva alla conclusione che l’amore può essere sperimentato in tre modi: come “esperienza laterale”, nell’atto di amare o nell’atto di essere amati e come “esperienza frontale” tra persone amanti. Tutti e tre i tipi di esperienza si riferiscono alle proprietà dell’amore e, allo stesso tempo, lasciano intravedere problemi e difficoltà che riguardano una volta l’amante, una volta l’amato/a e rimandano a un nesso diretto con la sfera della moralità. La relazione tra amore e moralità suscita secondo Hildebrand due temi correlati: un’influenza negativa dell’amore sull’etica e un effetto positivo dell’etica sull’amore che comporta la considerazione di alcune questioni particolari, quali la necessità di accettare un amore, oppure la sfida di respingerlo. Per quanto riguarda i pericoli specifici dell’amore, la fedeltà gioca un ruolo importante e si vedrà chiaramente che essa non rappresen-

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ta solo un atteggiamento morale, ma può assumere in sé una dimensione metafisico-ontologica. Porta, invece, a un’impasse della moralità l’idea di un ordine da rispettare nell’amore (ordo amoris), secondo il quale tutte le relazioni d’amore sono da regolare in una precisa sequenza. Amare secondo l’ordo amoris significa agire bene e amare correttamente. Alla fine viene ripresa la questione già menzionata della comunità, per dimostrare che il concetto di amore come risposta al valore fornisce una base per lo sviluppo della maggior parte delle comunità. L’intero capitolo appare come un contrappunto al capitolo III e mette in luce i diversi significati dell’amore all’interno del sistema hildebrandiano, con l’intento di dimostrare che elementi pur non combacianti costituiscono i fondamenti di una metaontologia dell’amore, su cui si tornerà nel capitolo V.

1. Il “dono” dell’amore o del contributo attivo dell’amante nella relazione d’amore L’amore è riconoscibile soprattutto attraverso una certa partecipazione che Hildebrand chiama il “dono” dell’amore, dono che non è caratteristico, o lo è in misura limitata, delle altre risposte al valore. La partecipazione al valore dell’amato/a è un aspetto comune di tutte le risposte al valore per la presa di posizione che si assume verso un bene, ma, quando si parla del “dono” dell’amore, si deve pensare a una partecipazione maggiore del soggetto – l’amante – che dà un suo contributo in maniera del tutto particolare. Certamente, il solo fatto di rispondere al bene porta con sé un cambiamento importante nell’amato/a, perché si tratta di una

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consapevole presa di posizione assunta dal soggetto, anche se essa dipende in larga misura dal valore dell’oggetto e del suo carattere. Nella risposta al valore la dedizione al bene porta uno sviluppo della persona: seppure il bene, cioè l’amato/a, venga tematizzato nella risposta al valore dall’amante, anche quest’ultimo/a cresce e si sviluppa in questo processo. Il fattore decisivo nella risposta al valore dell’amore è il ruolo del soggetto, cioè dell’amante, perché questi o risponde alla chiamata dell’altro/a o la ignora: nel momento in cui l’amante coglie il valore dell’altro/a e risponde con amore, porta il suo “dono” alla persona amata. Osservando diverse risposte al valore, come la venerazione, il rispetto o l’entusiasmo, è sorprendente vedere che in esse la personalità dell’amante non abbia un ruolo così determinante come nell’amore: è diverso ricevere amore da una persona profonda e sincera o da una persona superficiale e di poco cuore; invece, nel caso del rispetto, ad esempio, a prescindere dal fatto che non tutti ne sono capaci, non importa se la persona che ci porta rispetto è profondamente spirituale o superficiale. Il tipico gesto di un amante verso l’amato/a è la cosiddetta collocazione su un trono, che dipende definitivamente dal soggetto: è l’amante a vedere tutto il bello e il perfetto della persona amata ponendola idealmente su un trono, innalzando, cioè, colui/lei che per lui/lei ha importanza e supera tutto il resto. Nell’amore mettiamo su un trono l’amato come totalità, indipendentemente da quante carenze egli possa avere; nell’amore egli non è solo trovato, ma anche dichiarato prezioso. Come il dato valoriale che fonda l’amore è sempre la bellezza complessiva di questa personalità individuale, così anche in ogni amore si dà una “collocazione su un trono”.1

1.  EA, pp. 213-215.

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Questo gesto d’amore non è un atto arbitrario2: anche se fosse una sola persona a scoprire la preziosità di un’altra, non necessariamente si dovrebbe pensare quale semplice percezione soggettiva. Anche se l’amore non si può associare con azioni solo arbitrarie, poiché l’arbitrarietà spesso deriva da un atteggiamento interiore di eccessiva sicurezza di sé e di autosufficienza, che vuole mantenere il controllo su di sé; controllo legato alla ricerca dei propri bisogni. Nell’atteggiamento arbitrario, inoltre, si trova non di rado il bisogno di una soddisfazione possibilmente immediata e diretta dei propri bisogni, mentre l’amore è un atteggiamento interiore paziente e costante, volto a legami e obiettivi duraturi. Di conseguenza si dovrebbe dire: per essere nell’amore non si può mai agire in modo arbitrario, ma ciò sarebbe assurdo e non corrisponderebbe alla realtà; qui Hildebrand è piuttosto esclusivo: o si ama e non si agisce arbitrariamente, oppure si lascia libero corso all’arbitrarietà e ciò finirà con il non essere amore autentico. Tornando ora al gesto della cosiddetta “collocazione su un trono”: essa si rivolge all’intera persona, perché l’amante sperimenta la persona amata come preziosa e straordinaria nel suo insieme e l’apprezza come tale, anche se non conosce e non ha sperimentato tutto di lei. La mancanza di arbitrarietà, in 2.  Hildebrand distingue la libertà dall’arbitrio, perché, secondo lui, vengono spesso interscambiati, pur essendo essenzialmente differenti. Il libero arbitrio divide la persona dal logos dell’essente e dal mondo dei valori, così che il volere viene abbassato al livello di un cieco movimento. Un atto di volontà senza oggetto motivante è, di conseguenza, un atto arbitrario e non più un atto libero (cfr. D. von Hildebrand, Motivation und Freiheit, in E, pp. 300302). Per tale ragione l’atteggiamento arbitrario è un atteggiamento puramente soggettivo, rivolto al soggettivamente soddisfacente. Pur contenendo l’amore una dimensione soggettiva, come mostra la “collocazione su un trono”, resta lontano dal libero arbitrio, perché è comunque interpellato e messo in movimento dal valore.

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questo gesto, sta nel fatto che non si traduce in soddisfazione personale e soprattutto perché l’amato/a può onorare questa predilezione o rifiutarla. Riconoscendo la bellezza e l’unicità dell’amato/a in molti aspetti e dettagli del suo essere, compreso tutto ciò che non è stato ancora scoperto, l’amante fa, in un certo senso, un atto di fede. Hildebrand chiama credito di fede3 questo atto cosciente di fede nell’amore; in base ad esso l’amante crede il meglio dell’amato/a, fino a negare gli aspetti negativi che altri potrebbero eventualmente esprimere su di lui/lei. Infatti, ci riferiamo al credito che si dà all’amato per le proprietà del suo essere che non è ancora stato possibile constatare come tali. L’amore […] crede le cose migliori per l’amato. Addirittura, se gli viene detto qualcosa di negativo sull’amato, l’amore inizialmente non crederà che ciò sia vero, o almeno che sia stato interpretato adeguatamente.4

Questo “credito” significa, perciò, che l’amante valuta positivamente ogni cosa della persona amata, tranne che in eventi chiaramente negativi. Rispetto ai lati ancora sconosciuti del­ l’amato/a si può riconoscere qui un’espansione della “collocazione su un trono”, infatti, succedono due cose assieme: l’amante riconosce la bellezza e l’unicità dell’altro/a e lo/la accetta così, 3.  Il significato del termine “credito” potrebbe suscitare sorpresa in un contesto nel quale si parla di amare ed essere amati. Tuttavia, l’origine della parola sta nel latino “credere”, il cui significato è fondamentalmente avere fiducia. Quando Hildebrand parla del credito di fede, riprende la parola fede in modo tutto nuovo e raggiunge così un rafforzamento del concetto, ovvero l’atto del credere e dell’avere piena fiducia da parte di ogni amante. Trattandosi, però, di una parola che è appesantita da un significato esclusivamente economico e che può essere con ciò malintesa (ad esempio in una forma di scambio che deve avvenire tra i due amanti: ti do subito credito – che sei prezioso – e aspetto che tu poi me lo mostri veramente, altrimenti non ti amerò più), la poniamo tra virgolette. 4.  EA, p. 217.

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allo stesso tempo concede alla persona amata la sua fiducia per quanto gli è ancora sconosciuto; è certo/a che la persona amata sia a priori bella e buona. Se due amici si vogliono bene, non significa che sappiano tutto l’uno/a dell’altro/a e abbiano conosciuto completamente tutti i lati del carattere dell’altro/a, ma sono pronti a difendersi e, qualora dovesse verificarsi qualcosa di negativo, a minimizzare o interpretare la cosa come un’incomprensione nei riguardi dell’amico/a. Questa reazione non si basa su un’idea ingenua o idealistica dell’amico/a, al contrario: Hildebrand è dell’avviso che proprio perché l’amante conosce intensamente l’amato/a e gli concede il “credito di fede”, può giudicare più realisticamente di altri5. La persona che ama vede certamente i difetti e le debolezze dell’amato/a e forse non li nega affatto, ma a causa dell’atteggiamento d’amore, considera tutto positivo di principio e crede alla capacità dell’altro/a di poter cambiare o migliorare. Se, ad esempio, un giovane ha un profondo senso per la giustizia e si impegna attivamente nei suoi confronti, i suoi genitori considereranno questo atteggiamento come qualcosa di assolutamente tipico e lodevole del figlio. Se, a un certo punto però, questo figlio commettesse atti sovversivi violenti, i suoi genitori, pur rammaricandosi, poiché si tratta di un innegabile disvalore, allo stesso tempo cercherebbero il positivo nell’atto del figlio, e troverebbero una qualche giustificazione; al contempo avrebbero

5.  Anche in Scheler troviamo simili passaggi concettuali, proprio riguardo alla cecità dell’amore. Non l’amore, ma il desiderio sensuale rende ciechi. L’amore, al contrario, fa vedere, «ciò che rende “ciechi” non è mai l’amore nel moto empirico del sentimento, bensì gli istinti dei sensi che sempre l’accompagnano, e che di fatto inibiscono e limitano l’amore» (M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 239). L’amante, dunque, non ignora gli errori dell’amato/a, ma, come ritiene lo stesso Hildebrand, lo/la ama proprio con i suoi errori.

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un profondo desiderio che il figlio si penta6 e torni a compiere atti conformi alla sua vera natura. L’amante, quindi, considera tutto ciò che non è buono nella persona amata come infedeltà o negazione della sua vera natura, è questo il nucleo del “credito di fede” che solo l’amore può trasmettere. Che ciò sia una chiara conseguenza dell’amore si riconosce dal fatto che, quando si scopre qualcosa di speciale in una persona, bisogna compiere un atto di fede per potersi donare completamente a lei, pena un residuo sentimento di incertezza e il conseguente comportamento non libero, che, a sua volta, sarebbero contraddittori rispetto all’amore7. Questo credito di 6.  Nonostante il pentimento sia un atto moralmente forte, che è il risultato di un reato che in genere tocca altri esseri umani, non compare negli scritti hildebrandiani sull’amore. Egli descrive l’essenza del pentimento come un espresso disconoscimento dell’atto compiuto e un piangerci sopra (cfr. D. Hildebrand, Die Umgestaltung in Christus. Über die christliche Grundhaltung, Benziger, Einsiedeln-Köln 1940, pp. 30-38), non pone, però, il pentimento direttamente in relazione con l’amore. Secondo noi, invece, è possibile comprendere dentro la visione dell’amore in Hildebrand certamente atteggiamenti di pentimento, in special modo in relazione alla dimensione morale delle relazioni d’amore. Quando l’amante ha piena fiducia nell’amato/a, si aspetta che questi resti anche fedele a se stesso/a e si penta di atteggiamenti sbagliati. 7.  Non potremmo affatto costruire relazioni autentiche se avessimo costantemente un atteggiamento di sospetto verso gli altri o se fossimo del parere che dietro ogni essere umano si possa celare qualcosa di negativo. Sotto questo livello minimo comune anche Nicolai Hartmann considera la fede come aspetto essenziale per tutte le relazioni umane e quale valore eminentemente comunitario: «La fede è la capacità di comunione» (cfr. N. Hartmann, Ethik, cit., p. 471). Inoltre, le riconosce un carattere di rischiosità per il suo essere cieca, ma, allo stesso tempo, la sua analisi evidenzia come la fede nasconda in sé una forza tale da essere capace da sola di trasformare gli esseri umani, nel bene come nel male. In rapporto all’amore, per Hartmann, non sussiste un coinvolgimento stretto della fede, perché un amore sussiste totalmente senza fede. Tuttavia, mentre per Hildebrand l’amore e l’amicizia sono sussumibili in un’unica categoria, egli li distingue affermando che solo l’amicizia presuppone la fede, essendo fondata in modo più ogget-

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fede non ha quindi nulla a che fare con l’idealismo o la glorificazione romantica, ma è collegato a un lato realistico dell’amore che non implica un atteggiamento razionalistico. Noi siamo dell’avviso – e ciò corrisponde certamente alla visione dell’amore di Hildebrand – che gli amanti non siano degli illusi che negano la realtà. È vero che nell’amore si è più attenti alla persona amata che non ad altre persone, perché si ha un interesse maggiore e più profondo per lei rispetto a qualsiasi altra persona e si desidera solo il meglio per essa. In tal senso, la fede senza riserve nella persona amata è un dono dell’amante, è la sua parte attiva nella relazione d’amore. Essa comprende la chiara visione della persona amata, escludendo quanto vi fosse di negativo, in modo che possa correggersi, migliorare e ritornare completamente alla sua vera natura, a ciò che l’amante ha “visto”. Un’altra caratteristica dell’amore, in cui si esprime il dono del­ l’amante, è il chiaro orientamento della risposta al valore: essa vale solo per una determinata persona a causa del valore che si percepisce in essa. L’amore in noi viene acceso da qualcosa che viene percepito come preciso e prezioso, ma poi il nostro amore si indirizza a chi porta questo valore, non in quanto portatore/trice di valore, bensì come persona: doniamo ad essa non un valore astratto, ma il nostro cuore. In sintesi, si può dire che la presa di posizione di fronte alla bellezza complessiva di una persona, la sua collocazione su un trono e il credito di fede devono essere considerati come aspetti dell’amore nel senso di “dono”, cioè del dono8 dell’amante

tivo dell’amore; l’amicizia si realizza nell’amore, ma non si basa su di esso. È evidente che il concetto di fede e di credito di fede in Hildebrand è ben più profondo e ampio. 8.  Anche Hartmann parla di un dono dell’amante, ma più profondamente, o meglio in forma più espressiva di quanto non faccia il Nostro, perché a li-

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all’amato/a; da ciò risulta evidente che l’amore differisce significativamente dalle altre risposte al valore.

1.1. La categoria di “dono”: un portato della scuola fenomenologica? Il fatto che Hildebrand dedichi una breve parte delle sue analisi fenomenologiche sull’amore al tema del dono non può lasciarci indifferenti. Si tratta, infatti, per un verso di una presenza minimale nella vasta trattazione che viene riservata all’essenza dell’amore, e per un altro di un tema di grande rilevanza presso fenomenologi/ghe e non solo – se pur non da tutti approfondito o curato con diretta riflessione. Il discorso hildebrandiano sul dono è in effetti alquanto marginale e ci sembra che l’uso da lui fatto del termine Gabe/dono sia limitato a intercettare e inquadrare alcune declinazioni dell’amore che individuano nell’amante – che potremmo anche chiamare donatore/trice – il polo di donazione, ovvero l’elemento attivo che porta, fa il dono all’amato/a – il/la donatario/a. Non c’è dunque spazio per la reazione di quest’ultimo; dovrebbe ormai esser chiaro, però, che nella visione hildebrandiana, che concepisce come amore pieno e realizzato soltanto quello reciproco, evidentemente il/la donatario/a non può far altro che rispondere al dono donando a sua volta, ma in qualità di amante-­donatore/trice, dunque con un nuovo e differente dono. E se il dono è far emergere il meglio dell’altro/a, metterne in luce quelle qualità e caratteristiche uniche che lo/la rendono speciale – potremmo anche dire, il suo “dover essere” – esso sposta l’asse relazionale completamente nel Tu e si vello di significato entrambi vogliono dire la stessa cosa: l’amante è, infatti, «specchio e riempimento di significato dell’essenza personale (dell’amato)» (N. Hartmann, Ethik, cit., p. 534). Su ciò si basa, secondo Hartmann, l’esclusività dell’amore sottolineata anche Hildebrand.

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realizza pienamente in quanto dono perché il/la donatore/trice scompare perché l’altro/a sia. Ritroviamo alcune interessanti riflessioni a riguardo nel piccolo scritto di Bernhard Welte Dialettica dell’amore. Qui si parla, in modo molto simile a Hildebrand, di “carattere di dono”; Welte sostiene, infatti, che «l’amore è sostanzialmente una sorta di dono»: non, dunque, l’amante fa dono, ma è l’amore stesso ad essere dono, perché «ciò che l’amante fa, lo riceve come dono»9. In questa prospettiva si sottolinea, perciò, il carattere di donatività dell’amore in quanto tale, per cui né l’amante né l’amato/a, diventato/a a sua volta amante, “fanno” qualcosa perché ci sia un dono, bensì entrambi lo ricevono. Una contrapposizione al discorso hildebrandiano? A ben guardare no, perché anche Hildebrand lascia intuire, pur volendo a tutti i costi salvaguardare la naturalezza delle espressioni di amore, che l’amore – nella sua massima espressione e realizzazione – viene da altro, non è cioè fattura di esseri umani, se non come dono primariamente ricevuto e poi “soltanto” a sua volta donato10. E possiamo aggiungere che ogni approccio fenomenologico al reale non può non partire dalla pura costatazione che etwas ist gegeben (qualcosa è dato/donato), che in primis la nostra vita non è una nostra produzione, bensì un dato/dono che riceviamo e che siamo chiamati a riconoscere, accettare e accogliere in quanto tale. Che cosa sono, allora, le declinazioni del dono dell’amante di cui abbiamo parlato – collocazione su un trono e credito di fede – se non dono del dono che, perciò, fa essere l’altro/a pie-

9.  B. Welte, Dialettica dell’amore, cit., p. 21. 10.  Infra, nel cap. VI, approfondiremo questo discorso, in particolare analizzando Il fenomeno erotico di Jean-Luc Marion, il quale, tra i fenomenologi, maggiormente ha contribuito a sviluppare una vera fenomenologia della donazione.

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namente se stesso/a? Riprenderemo la questione nell’ultimo capitolo, con un confronto anche più approfondito con lo stesso Welte; in questo passaggio ci preme soffermarci sulla dimensione donativa in sé, per coglierne il senso reale che sta dietro il discorso di Hildebrand. Il fatto che questi parli soltanto di dono dell’amante, allora, non è una mancanza, né un sottintendere la reazione dell’al­ tro/a come fosse scontata – come sopra si è accennato – bensì un’intenzionale declinazione della categoria di dono, con il solo limite, a nostro parere, di non averne fatto una chiave di lettura centrale dell’amore. Se, infatti, riprendiamo alcuni studi su questa categoria ci imbattiamo proprio nella discussione, spesso irrisolta o irrisolvibile, del movimento ambiguo del dono tra gratuità – se il dono è tale, deve essere assolutamente gratuito, non può attendere risposta, pena il ricadere nello scambio – e la reciprocità che esso pur desidera innescare – e che appunto Hildebrand sottolinea come necessaria alla realizzazione dell’amore. È difficile restare completamente gratuiti quando si fa un dono a un’altra persona; anche negli atteggiamenti più sinceri di distacco da sé, è implicito nella natura umana desiderare un qualche ritorno, foss’anche solo in forma di “grazie”. Eppure, come viene sottolineato dagli studiosi del dono11, se viene meno questo aspetto e nel donare ci si aspetta qualcosa, allora scompare il dono e si fa un regalo che vuole essere un’affermazione dell’Io più che del Tu. 11.  La letteratura al riguardo è molto ampia. Rinviamo qui esclusivamente agli studi sociologici di Mauss e a quelli filosofici di Jean-Luc Marion, oltre a uno degli ultimi lavori di Susi Zanardo che opera una sintesi di alcuni approcci filosofici sul dono offrendone una chiave interpretativa di ridefinizione della relazione interumana come relazione di dono: cfr. M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, tr. it. di F. Zannino, Einaudi, Torino 2002; J.-L. Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione, tr. it. di R. Caldarone, SEI, Torino 2001; S. Zanardo, Il legame del dono, Vita e Pensiero, Milano 2007.

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Questa è, appunto, la questione nodale del dono: può essere tale soltanto in un atteggiamento del “per altri”12, per dirla con Lévinas, ovvero in quello sbilanciamento cui già accennavamo dal sé al Tu. Ci sembra, perciò, che il dono d’amore di cui parla Hildebrand non possa effettivamente sussistere come tale se non perché supportato da altro. Naturalmente parlando l’amante non potrà non desiderare a sua volta che l’amato/a gli/le faccia dono di sé, mettendolo/a a sua volta su un trono e credendo pienamente nel suo essere migliore. Emerge qui chiaramente la profonda portata di ciò, ma al contempo la mancanza di approfondimento da parte di Hildebrand. Non è un caso, infatti, che abbiamo collocato tale aspetto in questa sezione dedicata al rapporto tra amore e moralità, perché la dimensione etica subentra proprio nella regolazione delle nostre relazioni interumane, per il limite e la fragilità cui sottostanno. In realtà riteniamo che proprio la categoria di dono, come Welte dimostra più chiaramente, e contrariamente ad altri pensatori che rinchiudono il dono nelle maglie dell’etica, si offre a declinare un’ontologia dell’amore. Nell’ultima sezione di questo lavoro proveremo a tirarne alcune conclusioni.

2. La felicità dell’amore: amare e essere amati Visto il contributo dell’amante nella relazione d’amore, ci possiamo porre alcune domande: si può dire che ci sia più valore nell’amare che nell’essere amati? In che modo queste due esperienze contribuiscono alla nostra felicità?

12.  E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 19902, in part. sez. III, Il volto e l’esteriorità, pp. 191-253.

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In generale possiamo convenire con Hildebrand che in realtà è possibile sperimentare l’amore a vario livello: guardando coloro che si amano, amando in prima persona, oppure essendo amati da altri. Distinguendo queste tre forme di esperienza viene sviluppato il tema della felicità strettamente connesso con l’amore. Già nel capitolo III si è detto di come attraverso l’intenzione unitiva l’amore susciti felicità nell’amante; è l’esperienza dell’amore che Hildebrand chiama “esperienza laterale”, che può essere spiegata come segue: compiendo determinati atti, li interiorizziamo e li inseriamo nell’orizzonte dei nostri vissuti che, a sua volta, ci dota di una determinata conoscenza. In relazione all’amore ciò significa che nell’atto di amare impariamo a conoscere l’amore, ovvero ne facciamo sempre più esperienza.. Osservare l’amore esistente tra altre persone è invece una “esperienza frontale”, perché quali spettatori rimaniamo al di fuori dell’esperienza, pur cogliendone diversi aspetti come la gioia, la dedizione, ecc. Essere amati ci porta a sua volta a percepire l’amore come un’esperienza laterale, come nel caso in cui noi stessi amiamo, pur in altro modo, perché siamo influenzati dall’amore dell’altro/a. Potremmo definire queste due esperienze laterali come l’esperienza attiva e l’esperienza passiva dell’amore, perché amando siamo attivamente in gioco rivolgendo l’attenzione all’altro/a; mentre nell’essere amati siamo passivi ricevendo amore e attenzione da parte di altri. Attraverso i diversi tipi di esperienza d’amore facciamo poi diverse esperienze di felicità. Essere attratti dalla bellezza e dalla preziosità di una persona, per esempio, può darci una sensazione più profonda di felicità rispetto ad altre risposte al valore affettivo, perché l’amato/a rappresenta un “tu” e non un “egli/ ella” e ci si rivolge a lui/lei con un “tu”; allo stesso tempo è l’intero suo essere in quanto tale, e non tratti particolari o caratteristiche speciali, a renderci felici.

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D’altra parte, la felicità nell’amare è molto diversa dalle altre risposte al valore: attraverso la nostra totale dedizione l’atto d’amore è origine di un nuovo tipo di trascendenza. Amare significa partecipare alla vita dell’altro/a e «determina una più autentica forma di esistenza personale – un’incomparabile destarsi, un trovare il proprio vero sé – che è in sé causa di felicità»13. Come sottolineato da Plutarco nel suo dialogo Sull’amore, nel­ l’amore siamo più attenti al mondo dei valori e questo ci rende felici, ma anche tutte le risonanze dell’amore ricevuto ci rendono felici, perché a causa dell’amore sperimentato, le percepiamo con un più attento atteggiamento interiore. Più importante di qualsiasi altra cosa è la piena realizzazione della propria persona nella donazione all’amato, perché è alla persona, al suo essere più intimo, che nell’amore ci si dedica in modo fondamentalmente pieno. I motivi per cui Hildebrand arriva a un’affermazione così forte e concisa non sono del tutto chiari. Certamente il fatto di essere umani include un atteggiamento di apertura e di custodia nei confronti di determinate persone, nell’intero processo di riproduzione e cura della prole si costata la dedizione personale e un donarsi che è reso visibile sia nel seme dell’uomo che nel sacrificio della madre per il figlio, ma ciò è tipico anche degli animali e gli esseri umani qui non se ne distinguono essenzialmente. Per il Nostro esiste una dimensione più profonda del dono di sé, dono orientato a tutti coloro che si amano, ma che d’altra parte può essere compresa solo come “dover essere”. Dal punto di vista hildebrandiano, infatti, gli esseri umani sono chiamati ad amare e l’amore rispecchia il nostro essere più

13.  EA, p. 617.

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proprio; attraverso di esso possiamo realizzarci e svilupparci pienamente14. Sperimentare la felicità nell’amore non significa che si ami mossi dal desiderio di essere felici; la felicità infatti non è una caratteristica essenziale dell’amore, bensì una sua conseguenza, un effetto collaterale. Si può dire che si ama, perché ciò è essenzialmente umano e ci realizza completamente; la felicità che si può sperimentare può portare, a sua volta, a intensificare l’atteggiamento amoroso. L’aspetto della felicità si può spiegare anche attraverso un altro aspetto dell’amore, il fatto cioè che con esso la nostra vita prende più colore. Lo avevamo già visto nel capitolo precedente: poiché l’amore è “superattuale”, esso colora anche tutti gli altri momenti della vita che non hanno una connessione diretta con la relazione d’amore. Questa è la dimensione di felicità che si espande quando ci viene ricambiato l’amore e all’amore si unisce l’essere riamati. Amare qualcuno e non sentire risposta al nostro amore è un’esperienza molto dolorosa e può diventare fonte di profonda infelicità, tanto più profonda quanto più forte è l’amore. In una situazione del genere la felicità che deriva dall’amare non svanisce, ma conduce alla strana situazione in cui felicità – l’amare – e infelicità – il non essere riamati – convivono in noi. Se, invece, l’amore è ricambiato, la felicità è molto più grande di quella propria dell’amore attivo, perché nell’essere amati, noi sperimentiamo di essere “restituiti a noi stessi”15 e, quindi,

14.  Dello stesso pensiero è il filosofo francese Nédoncelle, che riconosce nell’amore la vocazione della persona. Possedersi completamente per potersi donare, dare e ricevere amore: questa è la vocazione della persona (cfr. M. Nédoncelle, La réciprocité des consciences. Essai sur la nature de la personne, Aubier-Montaigne, Paris 1942). 15. Cfr. EA, pp. 625-629.

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non solo di esistere, ma di dover esserci, perché acquistiamo importanza per qualcuno e per quella persona dobbiamo continuare ad esistere. In altre parole, essere amati significa trovare il significato della propria esistenza, o almeno una traccia di significato. Mentre l’esperienza dell’amare crea in noi felicità e ci mostra di cosa siamo capaci, l’esperienza dell’essere amati rivela chi siamo e quanto sia importante che esistiamo. Hildebrand ha lasciato questo tema aperto, rinviando a una discussione dettagliata in una futura opera rimasta poi incompiuta, per questo motivo non è davvero possibile spiegare esattamente cosa intendesse riguardo a ciò. In ogni caso ci pare di scoprire in esso un varco, un nesso tra etica e ontologia, che permette di riconoscere nell’amore la dimensione metafisica più profonda dell’essere umano. Entrambe le esperienze, l’amare e l’essere amati, sono fonte di gioia in se stesse e ambedue rivelano qualcosa della qualità dell’amore. Hildebrand sembra misurarle in modo completamente equivalente, giungendo alla conclusione che sono tutte e due necessarie per sperimentare l’amore e farlo crescere. La persona è per sua natura un essere capace di amore: ella dovrebbe essere costantemente nella posizione di amare e di esperire l’amore di altri e ciò incrementa di volta in volta la motivazione per l’amore. Sorgono in tal modo alcuni problemi etici che Hildebrand, tuttavia, non considera, salvo l’accenno alla situazione in cui l’amore diventi un peso se l’amante è troppo esigente, o quando non soddisfa tutte le idee e i desideri dell’amato/a. In questa accezione l’amore deve essere inteso come responsabilità: chi ama di più dovrebbe meglio orientarsi alla persona amata e non rendere la relazione un peso per l’altro/a; se invece fa pesare il proprio amore rispetto a quello dell’amato/a, l’amore si oscurerà e l’amato/a sarà costantemente spronato a dover amare di più e potrebbe non essere in grado di farlo. In questo caso l’amore

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diventa un problema non certo trascurabile, visto che le relazioni asimmetriche, in cui amare ed essere amati sono sbilanciati e creano pressione, diventano un grave peso psicologico, che può distruggere anche una relazione o in generale compromettere la capacità di costruire relazioni d’amore durature16. Un altro problema sorge quando ci si domanda se si possa pretendere l’amore, come sottolinea Hildebrand qui e là, sebbene esso sia una risposta spontanea a un valore con riferimenti moralmente rilevanti. Si aggiungono, poi, anche difficoltà metafisiche, perché l’equiparazione tra amare ed essere amati – specialmente in un sistema filosofico improntato sia intellettualmente che spiritualmente dal cristianesimo – non rimane senza conseguenze; infatti, la dimensione dell’essere amati da Dio è a priori e logicamente ancor prima dell’amore dell’essere umano per Dio, fatto questo di notevole importanza. Ciò significherebbe, allora, che l’amore interpersonale deve corrispondere a questo modello? Che la differenza tra la caritas e le forme d’amore naturale fondi, in definitiva, su uno spac-

16.  Dalla prospettiva della psicologia sappiamo quanto sia importante l’esperienza dell’amore per poter sviluppare in sé questo potenziale; sappiamo, ad esempio, che i bambini che nei loro primissimi anni di vita non abbiano fatto alcuna esperienza d’amore – specialmente da parte dei genitori – siano da adulti incapaci di amare. Tuttavia anche nel decorso della vita le esperienze di amore che si raccolgono sono decisive per lo sviluppo e la fioritura della propria personalità. Al riguardo, cfr. W. Gaylin, Redi­ scovering Love, cit., cap. II, pp. 25-43. Massimo Recalcati, riferendo sulla teoria del desiderio di Jacques Lacan, descrive il desiderio dell’altro proprio come desiderio nel/la bambino/a di essere riconosciuto/a dal padre, di essere chiamato/a per nome, «il desiderio come desiderio dell’Altro desidera l’Altro desiderio, desidera di essere desiderato dal desiderio dell’Altro; […] è desiderio di essere amato dall’Altro» (M. Recalcati, Ritratti del desiderio, cit., p. 36). In riferimento alla vita di coppia e all’importanza del/la compagno/a per poter sviluppare il proprio potenziale, cfr. J. Willi, Psychologie der Liebe. Persönliche Entwicklung durch Partnerbeziehungen, Rowohlt, Reinbek 2004, cap. II.

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cato tra un amore che si basa sull’essere amati da Dio – la caritas – e un amore che è primariamente risposta a un amore umano – un amore naturale? Sono questioni che tratteremo in modo più dettagliato nell’ultimo capitolo. Ultima, ma non meno importante è la domanda se si possa mettere in discussione l’equivalenza di amare e di essere amati, visto che l’esperienza manifesta una forte tendenza a voler essere amati più che ad amare.

3. Quale etica dell’amore? L’amore sperimenta pericoli e problemi, accennati finora solo a motivo delle difficoltà di uno sbilanciamento dell’amore e delle sue contraddizioni, specialmente nelle categorie di amore naturali. Ora vogliamo dedicarci più profondamente a questo tema per trovare una risposta alla domanda sul rapporto tra etica e amore o alle forme naturali di amore, visto che abbiamo già chiarito un po’ la connessione tra caritas e moralità. Nel fare ciò ci domanderemo se l’amore sia solo un aspetto dell’etica17 all’interno del sistema di Hildebrand, o se ci si trovi di fronte a una metafisica dell’amore con possibili approcci ontologici. 17.  La relazione tra amore e moralità viene elaborata in modo approfondito da Arno Plack. Il suo confronto con Scheler, Hartmann e Hildebrand mira a motivare l’amore all’interno di un sistema etico e con ciò a sviluppare un ethos dell’amore. In proposito, chiarisce come sia possibile parlare di un ethos dell’amore, non perché nell’amore sia presente una dimensione di dovere – infatti l’amore non può essere comandato, come asserisce esplicitamente Hildebrand – quanto perché i valori portano in sé una dimensione del “dover-essere”. Nel suo rapporto con i valori l’amore diviene, allora, un ethos in quanto realizzazione dell’aspetto di dovere del singolo valore (cfr. A. Plack, Die Stellung der Liebe, cit., Grundzüge einer Ethik der Liebe, pp. 182-212).

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Nella riflessione di Hildebrand sull’amore la moralità occupa uno spazio molto ampio ed è di grande importanza, perché la natura umana mostra una forte tendenza ad aggrapparsi al bene e a fare tutto il possibile per ottenerlo o per difenderlo e custodirlo. Questa tendenza si esprime non solo nelle azioni e decisioni che ci riguardano in prima persona, ma anche in relazione alle persone che amiamo. Accade di dover scegliere tra il bene per l’amato/a, la cui realizzazione viola la moralità, e compiere un atto morale che non contribuisce al bene immediato dell’amato/a o è addirittura diretto contro di lui/lei. In quale misura queste difficoltà si riferiscono a tutte le categorie di amore naturale e in che misura costituiscono un aspetto ontologico della persona? Hildebrand intravede una doppia relazione dell’etica con l’amore: una negativa e una positiva. La relazione negativa consiste nei pericoli dell’amore – a cui abbiamo già accennato – cioè in tutti quei casi in cui l’amore viola la moralità; la relazione positiva, a sua volta, ci mostra quanto la moralità possa essere proficua per l’amore, perché essa non solo ha una possibile funzione inibitoria in relazione all’amore, ma può arricchire enormemente l’amore e renderlo più perfetto.

3.1. I comuni pericoli dell’amore Parlando dei pericoli dell’amore si sarebbe tentati dall’immaginare soprattutto relazioni moralmente inaccettabili tra uomini e donne, l’infedeltà e le sue conseguenze, ma non solo l’amore sponsale è esposto a pericoli morali. Tutte le forme di amore possono essere a rischio, perché in linea di principio noi umani ci aggrappiamo in misura tale ai beni, da non essere disposti a perderli, anche se fosse moralmente richiesto. Non si tratta di beni ai quali siamo attaccati per superbia o desiderio, cosa in sé chiaramente immorale rispetto ai beni

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superiori, ma di una questione di beni morali, ai quali si dovrebbe rinunciare per una valenza morale superiore, come nel caso ad esempio di una decisione più comoda per se stessi, ma svantaggiosa per la persona amata, in altre parole: in un legittimo atteggiamento ego-centrato al posto di uno tu-centrato. Se, invece, preferiamo commettere un’ingiustizia piuttosto che perdere l’amore18, si svilupperà, secondo Hildebrand, un amore disordinato, dove il pericolo non si troverà nell’amore o nella persona amata, ma, come già detto, nella tendenza umana che fa fatica a rinunciare a un bene per rispondere a un appello morale in modo adeguato. Hildebrand parla in questo contesto di amore disordinato, che si verifica quando le esigenze etiche e morali non sono al di sopra di ogni altra cosa e neanche al di sopra dell’amore19. Seppure l’amore disordinato violi lo spirito dell’amore, esso non è di per sé un pericolo morale: non è neppure uno specifico amore ad essere pericoloso, bensì la disordinata sete di felicità che sorge con esso e che è moralmente ingiustificabile e in contraddizione con l’amore stesso.

18.  Un esempio dalla letteratura potrebbe essere il dramma di Pirandello Enrico IV, nel quale prima Belcredi fa cadere Enrico IV da cavallo per eliminare così un rivale nel suo amore verso Matilde di Spina, poi, lo stesso Enrico IV compie un’azione ancora più tragica con l’uccisione di Belcredi perché questo ha veramente sposato Matilde di Spina. Un caso simile è la situazione di Nora nell’omonimo pezzo teatrale di Ibsen: Nora compie uno scambio per rendere possibile al marito un viaggio necessario e al contempo proteggere suo padre dalle preoccupazioni per la figlia. 19.  Questo principio nella sua forma positiva si basa fondamentalmente sulla constatazione della dipendenza umana dai beni; la richiesta morale diventa, allora, cercare il moralmente buono e, nel caso di una scelta tra il soggettivamente soddisfacente e l’oggettivamente buono, dare la precedenza sempre a ciò che è moralmente più elevato. Questo principio generale riguarda anche l’amore (cfr. EA, pp. 742-748).

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Ciò accade, ad esempio, quando crediamo di perdere l’amore facendo qualcosa che è obiettivamente rivolto contro l’amato/a o che non gli apporti vantaggi diretti, perché nella nostra percezione è più coerente; ingannare o disprezzare qualcuno per ottenere un bene per la persona amata o per mantenere il suo amore sarebbe una violazione morale contro l’amore. Si potrebbe obiettare che tale visione è contraddetta da molti esempi concreti, dove si compiono atti criminali proprio per amore. In realtà, tali casi non sarebbero veri esempi di relazioni amorose nel senso di Hildebrand, poiché l’amore in sé non sopporta sentimenti o atteggiamenti negativi e questo la dice lunga su come l’amore influisca profondamente nella vita di una persona, e non solo per ragioni puramente etiche e morali. Quando si ama, infatti, l’intera persona ne è coinvolta e non solo il corpo o la mente o alcune sue caratteristiche. L’atteggiamento amorevole verso una persona include anche un atteggiamento amorevole verso il mondo e tutte le altre persone, pur con un’intensità ovviamente diversa. Un altro pericolo comune dell’amore può essere la cattiva influenza dell’amante sull’amato/a, cosa che può verificarsi in tutte le categorie d’amore, perché è tipica dell’amore l’apertura fiduciosa verso l’amante e l’esserne influenzati. Tale influenza è buona in sé e può certamente essere di aiuto nella vita come pure anche nell’orientamento al bene, ma se l’influenza proviene da qualcuno il cui agire morale è discutibile, essa può essere negativa, in termini di contenuto o di modi. Un classico esempio preso dalla letteratura, citato dallo stesso Hildebrand, è il Faust di Goethe: Gretchen, influenzata da Faust in modo molto negativo, è condotta a compiere azioni precedentemente a lei estranee, che non solo hanno conseguenze drammatiche, ma anche immorali. Un altro esempio, seppur opposto, è la storia di Julie in Fräulein Julie di

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Strindberg. Qui Julie agisce contro se stessa suicidandosi, per l’impossibilità di continuare la relazione con il servitore Jean, ma lo farà guidata dallo stesso Jean20. L’influenza di una persona può non solo essere cattiva in termini di contenuto, ma anche immorale nel modo in cui viene esercitata. «Ogni “lavaggio del cervello”, ogni brutale influenza sul meccanismo dell’associazione di idee e sulla sfera dell’immaginazione umana sono influenze illegittime, perché altrettanto depersonalizzanti»21. Se un coniuge facesse violentemente pressione sul partner per convincerlo di qualcosa a ogni costo, anche se la cosa in sé fosse buona, l’atto sarebbe moralmente negativo, perché il coniuge non avrebbe più uno sguardo d’amore verso l’altra persona, ma solo la volontà di affermare il proprio potere. L’amore, invece, è il pieno sostegno dell’altro/a nella sua fioritura e sviluppo come persona con tutto ciò che questo comporta, anche quando si ritenesse qualcosa, almeno dal proprio punto di vista, inferiore o semplicemente diverso da ciò che la data persona dovrebbe per se stessa sviluppare. Voler cambiare l’altro/a secondo quanto è giusto per sé non è amore, perché in questo modo si modella la persona amata secondo le proprie idee egoistiche, cosa fondamentalmente contraria alla bellezza e all’uni-

20.  Tale tematica rappresenta uno dei motivi di fondo di molti drammi e tragedie della letteratura mondiale, dall’antichità ai giorni nostri; lo stesso Hildebrand si riferisce, ad esempio, alla Carmen di Bizet e ai tanti misfatti di Giovanni legati all’incontro con Carmen e al suo amore appassionato per lei. O ancora Anna Karenina che, nell’omonimo romanzo di Tolstoj, compie adulterio nei confronti di Wronskij. Troviamo questa problematica anche nelle opere di Schiller (Maria Stuarda) o Grillparzer (Fortuna e caduta del re Ottokar), per citare solo alcuni esempi. Tali storie rappresentano la singolare tragedia dell’intera storia dell’umanità, il cui inizio si potrebbe individuare già nel racconto genesiaco di Adamo ed Eva. 21.  EA, pp. 751-753.

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cità posseduta da ciascun essere umano e ovviamente diversa da quella del partner. Espressioni violente, volte a terrorizzare o intimidire e l’eccesso di potere, per esempio, sono in totale contraddizione con le esigenze morali dell’amore. Sebbene Hildebrand non ne parli, a questo proposito si può qui accennare al tema della verità o della veridicità dell’amore: se si ama qualcuno gli si dice di sì con tutto ciò che consegue, inclusi errori o decisioni sbagliate. Ciò significa amare persino nella verità dell’impotenza che ferisce. Un’influenza cosciente della persona amata in senso negativo o anche in senso positivo sarebbe di per sé una negazione della verità che risiede nell’atteggiamento di stima originaria nei suoi confronti. Di conseguenza il problema dell’influenzamento su altre persone si può in definitiva ricondurre all’atteggiamento adottato verso la persona22. Se si guarda alla persona amata sempre come a una persona prendendola sul serio, allora l’influenza sarà positiva perché si vorrà davvero solo il meglio per lei. In realtà quando amiamo qualcuno, acquisiamo molti valori che altrimenti ci rimarrebbero sconosciuti. Anche il fenomeno della dipendenza, che può verificarsi in tutte le relazioni, è di per sé contrario all’amore. Il fatto che l’amante rispetto all’amato/a abbia un’autorità personale maggiore non contraddice la relazione in sé e non dovrebbe creare alcuna difficoltà nel rapporto, ma se l’amante sfruttasse la sua autorità, appropriandosi del diritto di esercitare una maggiore influenza sull’amato/a e di determinare la relazione con una conseguente sottomissione del/la medesimo/a, non si comporterebbe più per amore nei suoi confronti. 22. Già supra, cap. III, le prese di posizioni della “benevolenza”, della superbia e del desiderio passionale nei confronti dell’altro/a sono state bollate come false e incomplete rispetto all’amore come risposta al valore.

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3.1.1. I pericoli specifici del rapporto d’amore La vita insieme è soggetta a molteplici influssi negativi, a vario livello e nelle differenti espressioni della vita comunitaria: forme di terrore più o meno sottile, che possono provenire da un genitore o coniuge, nonché da un insegnante o da un politico; oppure varie forme di dipendenza dagli altri. L’amore naturale può, quindi, essere senz’altro influenzato da esempi come quelli menzionati in precedenza, ma è soprattutto esposto ad altri pericoli, veramente caratteristici dell’amore come, ad esempio, una relazione fisica moralmente inaccettabile tra un uomo e una donna: un marito che si innamora di un’altra donna ed è completamente abbagliato dalla passione fino a commettere adulterio, non solo agisce immoralmente23, ma viola il profondo spirito di unione. Il fallimento è dovuto, in questa situazione, non all’intensità dell’amore, ma alla mancanza di vigilanza morale da parte dell’uomo e a una degenerazione nella comprensione dell’unione coniugale; una tale relazione illecita è quindi anche un tradimento all’amore in generale. I pericoli specifici dell’amore coniugale nascondono anche la sua trasformazione in pura passione e gelosia, sebbene quest’ultima sia presente in forma meno pronunciata anche nelle altre categorie di amore, come l’amore genitoriale o amicale. Anche qui il confine tra un amore vero e uno apparente24 è uno spazio sottile, perché nell’amore si desidera tutta l’attenzione dell’amato/a per sé e tutto ciò che può impedirlo è in qual23.  Il caso presuppone naturalmente una società che sostenga e protegga il valore del matrimonio non soltanto al livello religioso bensì anche a quello politico e sociale. 24.  Questo termine non va confuso con l’utilizzo scheleriano di una forma apparente dell’amore, perché esso si riferisce al malinteso dell’amore verso “oggetti” non umani per i quali si sviluppa un’empatia antropopatica. Noi intendiamo qui, invece, un amore non autentico, nel senso hildebrandiano, ovvero non rivolto a strutture personali.

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che misura un fattore disturbante, anche se normale in sé ed espressione dell’intenzione unitiva. Il problema sorge non appena si nota, con dolore, che una terza persona subentra accanto alla persona amata con le stesse pretese, oppure quando l’infedeltà si trasforma in amara gelosia. Ciò può condurre a una serie di reazioni, come ben illustra l’esempio di Otello. La negatività della gelosia sta per Hildebrand nella sua stessa natura25. L’atteggiamento amaro e sospettoso nei confronti della persona amata e l’atteggiamento ostile nei confronti di chi si sospetta nemico sono moralmente negativi e si basano su un disvalore, ossia la diffidenza. Il pensiero di aver perso la persona amata o di non essere più unici nella sua vita può far impazzire l’amante o condurlo/a a una sfiducia assoluta e profonda con forti dubbi, ma da questo dolore non deve derivare necessariamente un atteggiamento di rabbia e odio, che potrebbe fare ancora più danni alla relazione d’amore quando la gelosia dell’amante, come spesso accade, si basa su paure infondate. Per Hildebrand un amore senza il minimo di gelosia non solo è moralmente neutro, ma anche non valido, perché l’assenza di qualsiasi forma di gelosia è un segno di amore falso o super-

25.  Al riguardo, Hildebrand distingue la gelosia dall’invidia: la gelosia è un fenomeno che accompagna l’amore, mentre l’invidia non può essere assolutamente posta in relazione con l’amore. L’invidia è un atteggiamento che nasce dalla superbia, nella quale ci si pone di fronte a qualcuno pieni di risentimento per il fatto che questi possegga dei beni che noi non possediamo. L’invidioso/a trova soddisfazione quando l’invidiato/a perde i suoi beni o gli succede una disgrazia; per tale motivo l’invidia si pone in reale antitesi con l’amore che gioisce per i beni altrui. Al contrario, la gelosia è sempre accompagnata dal dolore e il/la geloso/a sperimenta contemporaneamente rabbia, dolore, dubbio, amore e odio verso l’amato/a. Chi è geloso ama il suo oggetto ed è per questo colto/a da gelosia; chi, invece, prova invidia odia il suo oggetto e ne desidera solo la sua distruzione. Infine, l’invidia coinvolge normalmente due persone, mentre la gelosia almeno tre (cfr. EA, pp. 764-770).

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ficiale26. Egli non spiega, tuttavia, quest’affermazione e, dopo aver classificato la natura della gelosia come negativa, si contraddice nei termini. Una spiegazione potrebbe esser data dal fatto che Hildebrand vede qualcosa di negativo e intrinsecamente cattivo nella natura della gelosia, anche se conosce molti casi in cui una gelosia non patologica può essere segno di amore e non un fattore distruttivo della relazione; così i casi negativi potrebbero essere visti come forme eccessive di protezione per la persona amata contro altre espressioni moderate e non patologiche. Tuttavia, Hildebrand non si addentra negli abissi patologici della gelosia – quali l’insicurezza, la mancanza di fiducia e di autostima – che stanno nello spaccato tra l’aberrante della natura della gelosia e la sua positività come segno di amore. Quando afferma che l’amore non è reale senza gelosia, avvicinandosi

26.  Nonostante la contraddittorietà di questa affermazione hildebrandiana ritroviamo una comprensione positiva della gelosia in quanto “segno d’amore” anche in Jean-Luc Marion, il quale, tuttavia, argomenta in modo differente. Distingue, infatti, diverse figure della gelosia: 1. parto dal presupposto di amare l’altro meglio di chiunque altro, ma l’altro non mi ama e dunque provo risentimento; 2. «amo qualcun altro che fa finta di amarmi (o lo fa credere) ma che di fatto, mi tradisce, sia perché semplicemente non mi ama, sia perché ama un altro al mio posto» (J.-L. Marion, Il fenomeno erotico. Sei meditazioni, tr. it. di L. Tasso, Cantagalli, Siena 2007, p. 219). Entrambe le figure si smascherano secondo Marion come dei malintesi dell’amore, poiché nel primo caso si tratta in realtà solo di desiderio passionale, nel secondo caso si tratta di una vera bugia e di cattiveria. Tuttavia, se si prende la gelosia di Dio come esempio, essa va compresa diversamente rendendo così riconoscibile un’importante funzione: il geloso è infatti colui che «chiede con insistenza che l’altro divenga o rimanga lui stesso sincero […], che faccia l’amore o, avendolo fatto, che non se ne liberi» (ivi, p. 221). In definitiva, secondo Marion, il geloso difende l’onore dell’amore e la veridicità dell’altro/a: mediante la gelosia l’amante vuole svegliare l’amato/a e riportarlo/a prima a se stesso/a e poi anche a sé come amante. Tale visione della gelosia non ci sembra né difendere, né fondare il carattere patologico della stessa.

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così alla giustificazione psicologica, la sua attenzione si concentra sull’amante e i suoi possibili errori, quali fattori scatenanti il comportamento geloso. L’affermazione di Hildebrand «la gelosia scaturisce, da parte sua, da un rimanere-fissi-in sé, che si manifesta in generale nel modo con cui si reagisse a un’ingiustizia oggettiva che qualcuno ci ha fatto»27 presuppone una ragione esterna, cioè una situazione che non è direttamente correlata alla persona gelosa. Dal punto di vista delle scienze psicologiche la gelosia è considerata un disinnescamento da se stessi, quindi dalla persona gelosa e non dall’altra, perché il/la geloso/a è in realtà insicuro/a di sé e si mette costantemente sotto stress per essere migliore, più bello/a, più intelligente, al fine di non perdere la persona amata. La psicologia insegna anche che il fenomeno viene eliminato o diminuito, se l’interessato/a acquista sicurezza e fiducia in se stesso/a. Sebbene le terapie possano essere appropriate e anche necessarie, il punto focale per la guarigione rimane comunque l’amante, perché più di chiunque altro egli/ella può ridare fiducia e autostima all’altra persona e quindi aiutarla28. Quanto appena esplicitato è ciò che potrebbe intendere Hildebrand quando afferma che solo la caritas può superare la gelosia, cioè che l’amore naturale immerso nella caritas libera 27.  EA, p. 777. 28.  Peter Lauster collega la gelosia al voler possedere, esigenza della nostra società dei consumi: è la paura di perdere gli altri, cioè, come proprietà che richiama pensieri e intenzioni gelose. La gelosia può perciò emergere solo in società orientate al consumo e per questo un geloso è anche un egoista; per liberarsi dalla gelosia bisognerebbe riconoscere il vero carattere dell’amore, che comporta che in esso ci si rinnovi costantemente e si venga sempre di nuovo apprezzati (cfr. P. Lauster, Die Liebe. Psychologie eines Phänomens, Rowohlt, Reinbek 1986, pp. 44-48 e 156-158). Questa prospettiva psicologica rafforza la posizione di Hildebrand che bolla l’essenza della gelosia come negativa e al contempo aumenta l’infondatezza di vedere nella gelosia “un segno d’amore”.

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dalla gelosia falsa o immorale per aprirsi a una dimensione ancora più profonda dell’amore. In essa il desiderio più intimo di unione con l’amato/a potenzierà tutte le capacità dell’amante per raggiungere tale unione in senso positivo. Un uomo che continua ad amare la moglie gelosa con piena dedizione e fa il possibile per aiutarla a uscire dal circolo vizioso della gelosia a costo di soffrire la sfiducia della moglie, la ama con la misura della caritas e non più soltanto con amore sponsale. Qui si comprende meglio la natura della caritas e l’importanza della sua inerenza nelle forme naturali di amore. Un allontanamento parziale o temporaneo dell’amato/a a causa di una terza persona può innescare la gelosia, ma il volgersi definitivo e totale dell’amante verso altri può diventare infedeltà. Anche questo è un pericolo per l’amore, in particolar modo per l’amore nuziale. L’infedeltà che Hildebrand ha in mente non è quella basata sul desiderio puramente sensuale. Il vero pericolo per l’amore nuziale sorge quando un amore profondo per una persona viene distrutto dall’amore per un’altra. Un esempio è l’infedeltà per un’infatuazione temporanea, dove l’infedeltà consiste nella disattenzione verso la persona amata, quindi in una distrazione interiore e non in un “puro” atto concreto, come nel caso di una reale relazione con qualcun altro29.

3.2. Influenze positive. Valori etici e differenti espressioni dell’amore Il rapporto tra etica e amore non vive soltanto dei casi in cui l’amore viola la moralità, ma può sperimentare anche una feconda reciprocità, uscendone quindi rafforzato. L’amore, in quanto risposta al valore, cresce con la conoscenza di un valo29.  Hildebrand indica altre differenti forme di espressione dell’infedeltà. Per un approfondimento a riguardo cfr. EA, pp. 780-792.

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re, quindi la sua relazione con l’etica ne è parte integrante, pur se non tutti i tipi di amore si riferiscono agli stessi valori morali, perché la risposta al valore può essere motivata da valori qualitativamente diversi. A questo punto sorge la domanda su quali valori accendano l’amore. Una prima importante costatazione è che l’amore si nutre sia dei valori dell’amato/a che dei valori dell’amante stesso. Abbiamo già sottolineato quanto sia decisiva la personalità dell’amante in una relazione d’amore, insieme alla gamma dei valori di cui si nutre. Poiché l’amore tende alla reciprocità, entrambi gli elementi, l’amante e l’amato/a, svolgono un ruolo molto importante per lo sviluppo dell’amore, indipendentemente dalla forma in cui esso si esprime. Nel ritorno dell’amore l’amante diventa a sua volta amato/a e l’amato/a a sua volta diventa amante. La bellezza complessiva di una persona si basa non solo su valori morali, ma anche su valori vitali ed estetici. A seconda della gamma dei valori incarnati, l’amore assume un colorito speciale e si rivelerà più o meno elevato o più o meno profondo in termini di moralità. Se la bellezza complessiva di una persona è nutrita principalmente da valori etici, anche l’amore per quella persona avrà un carattere etico; se invece la bellezza della persona è nutrita più da valori vitali, l’amore può avere accesso ai valori etici solo attraverso l’amante, anche se i valori morali possono svolgere un ruolo di sottofondo se non sono direttamente correlati al campo di valori degli amanti. Questo vale soprattutto per l’amore nuziale e l’amicizia: Questo lo vediamo soprattutto quando pensiamo a qualcuno che né è una grande personalità morale, né è particolarmente in pericolo dal punto di vista morale […] qualcuno relativamente mediocre, convenzionale, decente, al quale viene improvvisamente donato un amore intenso, che si innamora di una fanciulla. Allora si può vedere chiaramente l’“effetto” libera-

256 torio dell’amore; si può vedere come egli, seppure solo temporaneamente, viene elevato ad un livello superiore di vita, come diventa più capace di vedere i valori in generale, […] come la sua anima diventa “più bella” di quanto fosse in precedenza.30

A seconda, quindi, dei valori morali che l’amante incarna, l’amore avrà un effetto diverso sull’amato/a e su tutta la sua persona. Non si tratta di casi individuali, ma dell’influenza che l’amante esercita, perché l’amore influenza l’intera persona e non “parti” di essa, avviando in lei un cambiamento. Quanto più matura la personalità dell’amante, maggiore sarà il suo amore e l’impegno conseguente. Hildebrand afferma in modo ancora più pregnante che «l’influenza decisiva della personalità di colui che ama si ripercuote soprattutto su che cosa egli investe nel suo amore»31; in ciò avvistiamo un ulteriore carattere specifico dell’amore, il coinvolgimento dell’intera persona. Quando Hildebrand parla di “investimento”, giustamente tra virgolette, usa un linguaggio economico32 per sottolineare fino a che punto l’amore non sia solo spontaneità, ma soprattutto impegno. La situazione è diversa per i genitori, perché il loro amore è sempre motivato dal valore ontologico del figlio o della figlia come essere umano. Successivamente, quando questi ha sviluppato una personalità distinta, l’amore dei genitori si può estendere ad una relazione anche etica, sebbene il valore ontologico

30.  EA, p. 837. 31.  EA, p. 831. 32.  Facendo uso di questo linguaggio, che sembra di per sé molto lontano dall’amore e rivolto a un campo ben specifico della vita umana, Hildebrand ci sembra esplicitare che l’amore non sia limitato a singoli e determinati campi. Nella sua definizione della risposta al valore si potrebbero addirittura ricercare spunti che fanno dell’amore un fattore di completamento dell’economia; non l’amore verrebbe abbassato ai livelli di riferimento dell’economia, ma al contrario l’economia verrebbe valutata secondo i criteri dell’amore, divenendo così più umana e forse anche più giusta nei confronti di ogni essere umano.

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dei figli rimanga nell’amore sempre in primo piano. Questo spiega perché i genitori potrebbero continuare ad amare i propri figli, anche quando questi non ne fossero meritevoli – parlandone in termini etici o misurandolo secondo criteri esterni. In questo senso l’amore genitoriale è il modello dell’amore per eccellenza, cioè l’amore che non subisce cambiamenti radicali a causa delle fluttuazioni del valore; infatti, il valore ontologico rimane intrinsecamente indiscusso e non in relazione al singolo come persona specifica, ma in quanto essere umano, ovvero in quanto tale. Anche se la persona in questione si sviluppasse malamente e non agisse sempre moralmente, ciò non cambierebbe nulla rispetto all’amore, perché come persona è e rimane preziosa. Ci domandiamo, pertanto, se questo atteggiamento, tipico dei genitori nei confronti dei figli, non possa modellare le altre categorie di amore naturale, trovando così una soluzione anche ai pericoli degli amori naturali. Hildebrand ci ricorda a questo proposito che l’amore genitoriale può essere a rischio se, ad esempio, i genitori considerano i figli come un ego esteso oppure ne sono gelosi. Inoltre, anche i valori ontologici della persona sono correlati al mondo morale dei valori. Se ciò è vero, saremmo dell’avviso che l’amore genitoriale sia da annoverare – tra le forme naturali di amore – come la forma più perfetta e matura tra esseri umani, perché la sua qualità particolare lo rende indipendente o per lo meno non subissato da obblighi morali e dai pericoli associati. A questo proposito ci si può tuttavia chiedere, specialmente per quanto riguarda l’amore dei genitori, se è moralmente necessario o importante che essi trattino i propri figli con amore, domanda di grande importanza, perché ci riporta nuovamente al tema del “pretendere l’amore”. Se, come abbiamo ormai acquisito, l’amore nasce come una risposta a un valore, esso viene vissuto come un dono e non come un atto di volontà. La spontaneità dell’amore comporta il fatto

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che non può essere preteso, almeno per quanto riguarda le relazioni d’amore naturali; infatti, non si può ordinare categoricamente che i genitori amino i propri figli e se il crescere i figli e prendersi cura di loro è di fatto obbligo morale, ciò non significa che tali creature vengano amate esclusivamente per tale ragione33. Lo stesso vale per l’amicizia o per l’amore nuziale: deve esserci qualcosa che ci colpisca nella bellezza complessiva di una persona e accenda in noi l’amore per lei, altrimenti non possiamo amare questa persona di amore naturale, al massimo potremo portarle rispetto o ammirazione. 3.2.1. Accogliere l’amore/rifiutare l’amore: una questione solo morale? Ci si potrebbe allora chiedere: bisogna proprio amare qualcuno che ci ha veramente toccato e colpito profondamente, oppure l’amore si può anche negare? A rigor di logica bisognerebbe rispondere di sì, l’amore si può sempre rifiutare ed è in nostro potere accogliere il valore che ci ha colpito o rifiutarlo. Tuttavia non ci si sente davvero liberi: quando il cuore viene toccato profondamente, il rifiuto dell’amore non solo è privazione del valore dell’altro/a, ma in certo qual modo anche violenza su noi stessi. Quindi la domanda non è tanto accettare o rifiutare l’amore, ma: perché si vuole negare un amore e quali motivi conducono a ciò? Non è facile rispondere, perché guardando le cose 33.  È interessante notare come nella storia del pensiero, sin dall’antichità, ci siano state riflessioni su forme “alternative” al naturale o biologico contesto familiare per la cura e la crescita dei bambini. Tra tutti la più nota proposta platonica della Repubblica, nella quale i figli vengono allevati insieme e non dalle rispettive famiglie per garantire un’educazione uguale per tutti (cfr. Platone, La Repubblica, a cura di G. Lozza, Mondadori, Milano 1990, libro V, VII-IX). Negli ultimi decenni uno scenario di affidamenti non naturali di figli ha trovato spazio in romanzi come The Giver di Lois Lowry.

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più da vicino si deve distinguere tra situazioni in cui non accettare l’amore è un dovere morale e situazioni in cui non sia così, oppure vi siano condizioni diverse. Nel caso dell’amore sponsale esistono situazioni in cui c’è un chiaro divieto morale di accettare l’amore, come nel caso di un marito che incontra un’altra donna e ha una relazione con lei, pur avendo promesso solennemente a sua moglie di amarla e, per responsabilità intrinseca, sia obbligato a farlo; o quando un uomo ami una donna pur sapendo dei suoi gravi problemi psicologici che la rendono labile per una relazione e una famiglia futura34. Solo in circostanze del genere il rifiuto dell’amore è moralmente richiesto e quindi legittimo; altrimenti l’amore richiede di essere accettato e curato sempre e, quando ci si impegna in esso, vale l’obbligo morale di rimanervi fedele. In definitiva, questo è il carattere morale dell’amore che secondo Arno Plack rappresenta il “lato comandato” dell’amore: poiché l’amore si basa su valori e perciò mantiene uno sguardo attento, nel senso di saper riconoscere l’autenticità di ogni essere, esso non nega le zone d’ombra e le difficoltà. Il suo carattere di risposta al valore lo obbliga alla sincerità e, se necessario, ad essere “un amore senza pietà”35. Un amore che non sa distinguere e magari sostiene disvalori è un concetto assurdo, sarebbe una passione o benevolenza o altruismo.

34.  Non intendiamo qui che la moglie non debba essere amata, ma che l’amore coinvolge anche la responsabilità: stringere amicizia con lei sarebbe di per sé buono, perché si tratterebbe di una relazione tra due persone adulte, anzi sarebbe un segno di reale risposta al valore riconoscere qualcosa in lei al di là di una fragilità psichica. Sarebbe, però, diverso se la si volesse sposare nonostante il sospetto che non possa corrispondere alle esigenze di un matrimonio, soprattutto in riferimento a terzi coinvolti da questo tipo di relazione, ovvero i possibili figli che si troverebbero magari a crescere in un ambiente instabile o addirittura insano. 35.  Cfr. S. Žižek, Die gnadenlose Liebe, tr. ted. di N.G. Schneider, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2001.

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Tutti questi aspetti illustrano la profonda relazione tra amore e moralità, non solo nel senso di un arricchimento di valore, ma anche di autorealizzazione e dimostrano che questa relazione non sta in contrapposizione al carattere donativo dell’amore. È vero che l’amore non è causato da noi stessi, esso è un dono, ma accettandolo, sia nell’atteggiamento dell’amare che nell’esperienza dell’essere amati, ci impegniamo a fare la nostra parte di fronte ad esso, in modo che possa vivere, fiorire e svilupparsi. Hildebrand parla della “cooperazione” che ci è richiesta e che rappresenta l’aspetto attivo dell’amore, che anche altri pensatori come Max Scheler esprimono, descrivendo l’amore come azione o movimento36. L’amore rende più attenti e più vivi a prescindere dalle sue forme; si diventa persino più belli, più liberi da abitudini e convenzioni stabilite. L’amante diventa più umile attraverso l’amore, perché è costantemente dedicato/a alla persona amata e perché capisce che l’amore donatogli è qualcosa di più grande di se stesso/a: in altre parole, l’amore opera nella persona lo sviluppo dei tratti morali. Pensiamo, ad esempio, a una persona che trova improvvisamente un amico/a, mentre prima non ne aveva. Essendo amata e iniziando ad amare a sua volta, fioriscono in lei tutte quelle disposizioni e tratti positivi che in passato non aveva; era 36.  Cfr. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., pp. 159-166. Scheler rimarca come l’amore sia fondamentalmente un movimento intenzionale in contrapposizione a una pura reazione a un valore già esistente. L’amore non scopre di per sé valori, ma risponde ai valori riconosciuti mettendosi in movimento verso possibili valori più elevati. Questa positività o attività dell’amore sembra trovare un pendant in ciò che Hildebrand considera la parte attiva dell’amante che si ingaggia per lo sviluppo dell’altro/a. Anche Pfänder e Hartmann si trovano sulla stessa linea quando definiscono l’amore come un movimento centrifugo dall’amante verso l’amato/a e perciò spontaneo e attivo (cfr. A. Pfänder, Zur Psychologie der Gesinnungen, cit.; N. Hartmann, Ethik, cit.).

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forse introversa, non interessata agli altri e perseguiva principalmente i propri obiettivi. Attraverso l’amicizia ora scopre i valori dell’amico/a e ne viene coinvolto/a, inoltre diventa più vigile, perché vuole condividere la vita dell’amico/a, quindi si apre interiormente verso di lui/lei e di conseguenza anche verso gli altri; poco a poco camminerà non più come introverso, ma aprendosi, si avvicinerà agli altri in modo amichevole. Sono questi alcuni effetti dell’amore che, a seconda della sua profondità e delle sue dimensioni, si sviluppano in modo diverso, come sopra spiegato. Lo scrittore Stefan Andres li ha riassunti come segue: «L’amore ha il potere di trasformare»37. Non da ultimo, il rapporto tra amore ed etica consente l’apprendimento e l’approfondimento di entrambi. L’amore è caratteristico di noi umani e impregna la nostra vita, dandole significato, ma la capacità di apprenderlo e di espanderlo può essere appresa e sviluppata, e per questo gli altri sono importanti, anzi indispensabili38. La psicologia moderna sottolinea e giustifica questo aspetto, poiché l’esperienza umana mostra quanto l’amore sia importante e necessario per tutti e quanto il suo apprendimento dipenda dall’ambiente in cui si vive, costituito principalmente da persone con cui siamo in contatto39. Significa, forse, che la capacità di amare è una misura per definire l’essere umano in quanto tale? E può, forse, essere sviluppata o messa a tacere attraverso la relazione e l’esempio di

37.  La citazione è presa da: G. Hartl (a cura di), Wo Liebe sich freut, ist ein Fest, Neue Stadt, München-Zürich-Wien 1997, p. 53. 38.  Erich Fromm si dedica a questo tema nella sua famosa opera L’arte di amare, nella quale parla dell’amore come un’arte da apprendere e il cui processo di apprendimento consta di due parti, teoria e pratica (cfr. E. Fromm, L’arte di amare, cit., p. 20). 39.  Cfr. W. Gaylin, Caring, cit.

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altre persone? È possibile concepire l’amore assolutamente slegato dall’etica o non è questa, forse, un’altra indicazione per un fondamento ontologico dell’amore? In realtà l’amore, nella sua relazione ai valori, non è concepibile al di fuori della sfera morale, come abbiamo visto finora, tuttavia l’etica è solo un aspetto della nostra vita. Una visione complessiva dell’amore e della persona umana non deve fermarsi ad essa, ma espandersi.

3.3. La responsabilità dell’amore attraverso l’accettazione legittima o illegittima Abbiamo già sottolineato che l’amore può essere rifiutato anche quando è già sbocciato. La decisione a favore o contro un amore ha un enorme impatto morale, perché non ogni amore può essere accettato o rifiutato a piacere. Secondo Hildebrand si riscontrano chiari esempi di decisioni legittime e illegittime che riflettono il carattere di responsabilità dell’amore. Nell’ultimo paragrafo abbiamo menzionato alcuni aspetti illegittimi che avallano la negazione dell’amore, tuttavia, ci sono anche situazioni in cui il rifiuto o l’accettazione di un amore sono illegittimi o moralmente pesanti, come nel caso di persone che, per indolenza, non vogliono essere coinvolte in un amore. Ci sono, ad esempio, persone con un atteggiamento egoistico, riluttanti a rinunciare alle loro comodità e abitudini; ci sono altri che hanno paura di sentimenti grandi e profondi, o hanno paura di essere delusi e feriti se si impegnano nell’amore. Ci sono, poi, persone che non sono in grado di rinunciare alla propria indipendenza – Hildebrand li chiama i tipici scapoli – che si muovono rapidamente da un’avventura all’altra senza donarsi completamente e legarsi. Oltre a ciò ci possono essere altre ragioni che inducono a non legarsi, riconducibili alla storia personale: è il caso, ad esempio, di persone che hanno già

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sperimentato una forte delusione o sono state abbandonate da una persona cara, oppure non hanno modelli di vero amore da imitare. Anche qui costatiamo il profondo impatto dell’amore sulla personalità di ogni persona in entrambe le direzioni, come amante e come amato/a. Ciò lega fortemente l’amore alla moralità, perché a seconda del mondo dei valori da cui si è circondati, la capacità di amare si esprimerà in modo diverso o non sarà presente affatto40. Ma si può parlare di un obbligo morale nei riguardi dell’amore in condizioni normali di salute? Se guardiamo all’amicizia e all’amore genitoriale si nota una profonda differenza, la domanda è quindi legittima. Hildebrand risponde distinguendo tra due possibili comprensioni dell’obbligo di amare: l’obbligo può intendersi come un comportamento amorevole nei confronti della persona amata, presente in ogni categoria d’amore. Un obbligo tipico è per i genitori essere amorevoli, premurosi e attenti nei confronti dei loro bambini. Allo stesso modo, l’amore dei figli è caratterizzato da un atteggiamento riverente e rispettoso nei confronti dei genitori. Pensando all’amore per gli amici o all’amore sponsale, ciò è diverso, perché non si può quantificare la misura in cui un amico/a debba essere amato/a o quanta cura sia moralmente appropriata e buona in un matrimonio41. 40.  Non consideriamo qui tutti i casi riconducibili a determinate malattie psichiche e che conseguenzialmente portano a un’incapacità di amare e ancor più di riconoscere i valori. 41.  Hildebrand spiega questa differenza sulla base della comunità oggettivamente preesistente che è tipica nel caso dell’amore per i genitori, per i figli e tra fratelli e sorelle. Queste comunità non nascono da un diretto risveglio dell’amore; lo avevamo visto nel capitolo precedente: per i genitori il figlio è il “loro” figlio soltanto al livello di coscienza, aldilà che lo amino o meno, e lo stesso vale per i figli verso i genitori e per i fratelli e le sorelle tra loro. L’amicizia e il valore sponsale non si ritrovano l’amico/a o il partner semplicemente dato, cioè la comunità non precede l’amore; piuttosto essa si origina

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Se pensiamo al dono del cuore, alla dedizione che eleva l’altro/a al posto più importante nella vita, si capisce che l’obbligo morale è alla base di tutte le categorie di amore, pur con una diversa comprensione di obbligo, perché amare in questo modo non è legato a una certa comunità oggettiva. Ognuno è degno di essere amato/a profondamente e completamente e se qualcuno rifiuta di amare o di essere amato/a in questo modo – se non ha validi motivi per farlo – agisce in modo moralmente negativo, pur con tutte le attenuanti necessarie, per evitare che un fenomeno così vitale come l’amore finisca nello schema di una casistica. Tuttavia, non si può considerare l’offerta di amore come morale in senso stretto. L’invito all’amore – descritto da Hildebrand come dono d’amore – non può essere classificato alla stessa stregua come l’invito a rispettare la natura e a non gettare immondizia per strada. Se non rispetto l’ambiente, violerò una norma moralmente vincolante e cioè: “non sei sola al mondo, quindi, non inquinarlo, perché gli altri hanno diritto di vivere in un ambiente pulito”. Nel caso dell’amore, non violo alcuna legge rifiutandolo, in altre parole: non ne sono colpevole, tuttavia, per la moralità non è irrilevante se si mortifica un amore senza una buona ragione. Si potrebbe, piuttosto, dire che negare l’amore è un’occasione mancata per capire e realizzare se stessi oltre che per perfezionarsi, già che viviamo necessariamente in relazione con altri. Horkheimer esprime efficacemente ciò, quando considera l’amore per una certa persona come un’unità del generale e del particolare e quindi, secondo la nostra interpretazione, affida all’amore la capacità dello sviluppo proprio e altrui, in una dialettica costante tra io e tu, che sottostà a tutta la realtà.

nel momento in cui si è riconosciuto l’altro/a mediante una risposta d’amore come amico/a o come partner.

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«Amando questa persona particolare, tu ami ciò che è in tutte le persone, anzi in tutte le creature, perché amare l’umanità o in definitiva la vita si può fare solo in termini concreti e individuali – amare esclusivamente l’umanità si contraddice in termini»42. Ecco perché l’amore è soggetto a un’esigenza determinata, in quanto siamo responsabili di noi stessi e degli altri. Hildebrand lo confronta con i talenti: avere un talento musicale e non usarlo o non svilupparlo pienamente, è irresponsabile rispetto a se stessi e alla comunità, anche se in questo caso non si tratta di moralità come nel caso dell’amore. Meglio sarebbe comunque parlare di un appello piuttosto che di una richiesta: ogni amore è un appello al nostro centro personale, per confermarlo e donarsi ad esso in tutte le possibili sfumature. Leggiamo, in definitiva, l’intento hildebrandiano di evidenziare i pericoli e le difficoltà dell’amore come un voler sottolineare la sua natura “esigente” e sostanziale. È per il fatto che l’amore permea la nostra esistenza e ci caratterizza più propriamente in quanto persone, che rifiutarlo o maltrattarlo richiama a una responsabilità di non corrispondenza. L’etica viene qui in soccorso e sopperisce, a nostro avviso, a un grande limite del pensiero occidentale in generale, ovvero la mancanza di coraggio nei riguardi della categoria dell’amore e dell’essere, con la conseguente deviazione moderna verso una civiltà del pensiero solamente razionale e categorico. L’amore dimostra chiaramente – e in questo l’analisi hildebrandiana ha grandemente contribuito – di sfuggire alle classiche determinazioni metafisiche dell’essere (principio di non contraddizione, del terzo escluso, di identità), richiamando a un salto su terreni meno delineati, dove i confini si fanno attraversamenti del medesimo territorio, sottili diaframmi dell’unica datità. 42.  M. Horkheimer, Die besondere Exklusivität der Liebe, in Id., Gesammelte Schriften, vol. VI, Zur Kritik der instrumentellen Vernunft und Notizen 1949-1969, a cura di A. Schmidt, Fischer, Frankfurt a.M. 1991, pp. 209-210.

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4. La fedeltà tra etica e metafisica Un trait d’union che ci fa muovere su un territorio “mobile” è la fedeltà. La risposta alla chiamata dell’amore si è detta spontanea e immediata, a condizione di riconoscere il valore dell’al­ tro/a e di venirne affetto. Se si risponde positivamente si instaurerà una forte aspettativa morale per entrambi gli amanti, quella di rimanere fedeli l’un l’altra. Secondo Hildebrand la fedeltà rappresenta uno degli elementi più importanti dell’amore e si colloca nel contesto della moralità. La fedeltà è una virtù che si ha, ma si può anche apprendere nel corso della vita e acquisire sempre più. In genere, si parla di fedeltà43 con particolare riferimento all’amore coniugale, si presume cioè che davanti a una comunità due persone si promettano di rimanere unite nel matrimonio, di prendersi cura l’uno dell’altra e di amarsi con amore sponsale. Da entrambi ci si aspetta che siano e restino fedeli gli uni agli altri e alla loro promessa ufficiale anche quando divenisse difficile o le condizioni esterne e interne dovessero cambiare. 43.  Nel dizionario filosofico leggiamo la definizione di fedeltà data da F. Royce, da egli assunta come principio generale della sua etica: «La volontaria, pratica, completa devozione di una persona a una causa». La fedeltà include un principio di solidarietà con gli altri esseri umani riuniti in comunità. Cfr. la voce Fedeltà, in N. Abbagnano - G. Fornero, Dizionario di filosofia, cit., p. 467. Già presso i Greci si trova un generico utilizzo di questo termine e lo stesso Aristotele fa della fedeltà un elemento dell’amicizia. Nella Roma imperiale viene sviluppato, invece, il carattere giuridico della fedeltà, particolarmente legato a contratti e obblighi. Nell’Antico e Nuovo Testamento la fedeltà viene considerata come una caratteristica importante di Dio nella relazione verso il suo popolo o in generale verso l’essere umano, e d’altra parte anche per indicare quella dell’essere umano verso Dio. A partire dal XVIII secolo la fedeltà viene introdotta come termine filosofico, per esempio con Schlegel, che ne fa il principio interno della moralità: fedeltà verso se stessi diventa presupposto per la possibile fedeltà verso gli altri e specialmente verso Dio. Cfr. J. Ritter - K. Gründer - G. Gabriel (a cura di), Historisches Wörterbuch der Philosophie, vol. X, Schwabe, Basel 1998, pp. 1473-1478.

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Hildebrand estende questo concetto, rendendo la fedeltà un obbligo morale dell’amore in tutte le categorie. Come già detto, ogni forma di amore è una chiamata che può restare anche senza risposta come tutte le altre comunicazioni che fanno a noi appello. Una volta, però, che si sia risposto, si instaura l’obbligo di rimanere fedeli. Facciamo un esempio concreto e quotidiano non legato direttamente all’amore. Il telefono squilla e ho due opzioni: rispondere al telefono cogliendo la chiamata e così aprendomi alla conversazione con la persona all’altro capo, oppure ignorarlo e continuare come se nulla fosse. Nel momento in cui ho deciso di rispondere alla chiamata e alzare la cornetta, sono anche obbligata interiormente, foss’anche solo per rispetto dell’altra persona, a dedicarmi interamente a questa conversazione e ad accettare il chiamante. Non posso improvvisamente riattaccare nel mezzo della conversazione o dedicarmi a qualcos’altro o volgermi a un altro messaggio, congedandomi dalla chiamata. In questo esempio, che non tratta di fedeltà in senso stretto, la plasticità della situazione può forse aiutarci a capire meglio fino a che punto la fedeltà sia importante e formativa per l’amore, perché in una relazione d’amore accade qualcosa di simile; si tratta, infatti, di non allontanarsi da qualcosa/qualcuno, al quale ci si è promessi. In generale la fedeltà, nel senso di Hildebrand, è una virtù morale o un atteggiamento fondamentale44 che si basa sulla continuità45. Inoltre, secondo Hildebrand, si possono distinguere

44.  EA, pp. 869 ss. 45.  Per “continuità” Hildebrand intende qualcosa di fondamentale per l’essere umano, qualcosa che gli rende possibile la crescita e lo sviluppo in campo spirituale. Essa «è qualcosa di molto più generale della fedeltà […]. È condizione di ogni crescita spirituale, di ogni sviluppo nell’autentica vita

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un senso lato e un senso più stretto della fedeltà. «La fedeltà in senso ampio è il perseverare nella risposta superattuale al valore rivolta a tutti i beni che sono supporto di alti valori»46. Si tratta della custodia di valori e verità comunicateci, vale a dire l’adesione alla risposta al valore insignita a un bene elevato, nel senso della sua natura superattuale47, perché il carattere superattuale di una risposta al valore continua ad esistere indipendentemente dall’impatto specifico col bene motivante. La fedeltà in questo senso più ampio è quindi un atteggiamento fondamentale che deriva dalla risposta al valore superattuale e si impegna nel suo mantenimento. La persona fedele è, allora, una persona costante, affidabile, che sa assumersi la responsabilità di ciò che fa o ha fatto, una persona moralmente vitale e

personale» (EA, p. 870). La continuità ha qualcosa in comune con la durata, perché la certezza del momento presente non rende possibile un tale sviluppo e con esso una crescita. 46.  EA, p. 871. 47.  Dell’essere umano la superattualità ci dice che possiede in sé differenti strati di profondità, secondo i quali la sua intera vita interiore si struttura e sviluppa. C’è uno strato esterno nel quale si colloca la coscienza attuale e uno strato più profondo nel quale viene catturata e continua a sussistere un’impressione passata, nonostante l’attuale atteggiamento cosciente sia rivolto verso altro. Nel cap. II è stato già dimostrato come l’amore in quanto risposta al valore possegga un carattere sovrattuale, che significa che continua a vivere nello strato più profondo dell’essere umano, anche quando questi non se ne possa direttamente occupare. È chiaro che senza questa profondità, in verità, nessun evento rimarrebbe impresso in noi a lungo termine, perché ciascuno verrebbe continuamente dissolto nel successivo; allo stesso modo non potrebbe svilupparsi neanche una personalità. Ciononostante, non tutti gli esseri umani posseggono una stessa profondità di vita interiore, perché alcuni vivono più o meno nello strato esteriore della vita di coscienza e i loro vissuti vanno perduti; altri vivono dalla profondità del loro esperire così che i loro vissuti non vadano perduti ma diventino possesso dell’essere umano, su cui è poi possibile costruire qualcosa di nuovo (cfr. SG, pp. 25-39).

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attiva. Ecco perché la fedeltà è un atteggiamento fondamentale senza il quale la comunità non sarebbe possibile. Vista in senso stretto essa riguarda meno l’obbligo, quanto piuttosto il comportamento verso un bene, non dovuto a motivi morali, ma al vincolo che si sente una volta che si è accondisceso. Si tratta fondamentalmente della fedeltà verso le persone: l’affetto e la dedizione una volta date a qualcuno, rimangono anche in seguito, indipendentemente da problemi o difficoltà esterne o interne. L’infedeltà sorge quando ci si ritira per qualunque motivo48 dalla costante dedizione e dall’affetto e ciò non sempre per un evento esterno concreto. Hildebrand comprende la fedeltà in un modo ancora più specifico, ossia nell’attenersi alla parola promessa all’amato/a, perché «pronunciare questa speciale parola dell’amore verso quest’uomo non era obbligatorio. Non era una risposta al valore moralmente dovuta. Ma una volta che viene pronunciata, si dà un obbligo morale a non “dimenticarla”, a non permettere che si volatilizzi; e quest’obbligo è ciò che è specifico della fedeltà»49. In questo senso la fedeltà verso persone, soprattutto nel contesto delle relazioni amorose, è molto più che coscienziosità o coerenza con quanto è stato promesso. Ci sono persone che si mantengono fedeli non per amore e lealtà, ma per legami sociali che rispettano, o perché di carattere affidabile. Un amico/a affettuoso/a, che intraprende diverse cose con noi, non è necessariamente l’amico/a fedele se verso di noi non mantiene interiormente un atteggiamento d’amore;

48.  Qui non si tratta dei casi nei quali sarebbe possibile e addirittura moralmente consigliabile sottrarsi all’amore di qualcuno, come i casi nei quali è permesso rifiutarlo sin dall’inizio. 49.  EA, p. 873.

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un/a amico/a che in una certa situazione non viene in aiuto per paura delle conseguenze della sua decisione, non è per questo infedele, magari ci amerà come prima, ma può aver paura di prendere una certa posizione nei nostri confronti. Anche se in alcuni casi, come nel matrimonio, la fedeltà è soggetta al legame interiore e personale, ma al contempo sociale50, da ciò non si può desumere che la fedeltà riguardi esclusivamente relazioni sociali51. «La fedeltà è così intrinsecamente legata all’amore, che ciascuno, fintanto che ama, deve intendere la sua attenzione duratura. Questo vale per ogni amore, per l’amore di genitori e figli, per l’amore di amici e coniugi. Più è profondo l’amore, più è fedele»52. Ma fino a che punto gli esseri umani sono in grado di essere fedeli? Come si può essere sicuri di avere domani lo stesso atteggiamento o gli stessi sentimenti espressi oggi nella promessa di fedeltà? Non espressa ma presente e coniata su una precisa riflessione e certezza, è l’idea di Hildebrand, peraltro non condotta in alcun dibattito filosofico, che la fedeltà umana sia possibile solo se si basa sulla fede in un essere assoluto.

50.  Esempi a riguardo sono la relazione tra i servitori e il padrone, tra i discepoli e il maestro, tra i seguaci e i santi; cfr. EA, pp. 875-877. 51.  Georg Simmel distingue, per esempio, tra amore e fedeltà e spiega come la fedeltà sia, nella sua struttura, un affetto sociologicamente orientato, differentemente dall’amore. Il significato della fedeltà consiste perciò nel mantenere la relazione con l’altro/a; il suo carattere specificatamente sociologico si basa sulla sua esigenza altamente morale: con ciò essa può essere vista come responsabile della pacificazione del dualismo umano tra interiorità individuale e socializzazione (cfr. G. Simmel, Exkurs über Treue und Dankbarkeit, in Id., Gesamtausgabe, vol. XI, Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung, a cura di O. Rammstedt, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1992, pp. 652-663). 52.  SG, p. 36.

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Un esame più approfondito del fenomeno della fedeltà non è irrilevante nel contesto di una possibile metafisica dell’amore. Se la fedeltà è parte essenziale dell’amore e si basa sul fondamento di un assoluto, senza il quale l’amore non sarebbe affatto possibile, ciò ha conseguenze per l’amore stesso, perché significherebbe che non solo la caritas e l’amore cristiano al prossimo si basano su Dio, ma tutte le categorie d’amore, per cui l’amore non sarebbe comprensibile senza Dio53. Le conseguenze sono chiare, anche le più estreme e, a questo proposito troviamo in Gabriel Marcel – con un fondamento molto simile a quello di Hildebrand – alcuni approcci che possono aiutarci a capire se e come la fedeltà possa essere pensata indipendentemente dalla moralità. Sviluppando alcune considerazioni sul significato di una promessa, ovvero della fedeltà, che riferendosi al futuro non è nelle nostre mani e quindi non è in nostro potere – non essendo noi sicuri dei nostri pensieri e sentimenti futuri – Marcel conclude che la base della fedeltà implica almeno un appello a qualcosa di fondamentale che ci dà speranza54. Poiché la fe-

53.  Con motivazioni simili Rafael Bello argomenta circa l’etica hildebrandiana: egli ritiene che la sua ultima motivazione deve essere trovata in Dio e questo perché Hildebrand àncora il male nella “natura spezzata” dell’essere umano, vale a dire nella sua incapacità di scegliere sempre il bene, anche se ciò non è tematizzato né argomentato direttamente. Secondo Bello un’etica che faccia riferimento alla natura fragile dell’essere umano, infatti, deve dimostrare un fondamento in Dio e di conseguenza nella teologia (cfr. R.E. Bello, Dietrich von Hildebrand’s “Christian Ethics” and the Problem of the Ultimate Foundation of Morality, in «Aletheia», vol. V, 1992, pp. 77-94). 54.  «In forza di ciò la fedeltà rivela la sua vera natura che consiste nell’essere una testimonianza, un’attestazione; in forza di ciò anche un’etica che ne faccia il proprio fulcro è portata ad aggrapparsi a qualcosa di sovrumano, a quella volontà che in noi è l’esigenza e il segno stesso dell’Assoluto» (cfr.

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deltà è associata all’impegno e non è fattibile con le nostre sole forze, ci si apre a un assoluto con completa fiducia55. Tuttavia, Marcel ha una comprensione della fedeltà diversa da quella di Hildebrand, perché la fedeltà, per quanto genuina, è anche creativa e non solo in relazione a chi la sta vivendo, ma anche a chi ne beneficia. Questo carattere creativo è a sua volta segno di un’istanza superiore, perché l’essere umano da solo non è in grado di promettere fedeltà e mantenerla56. Ciò significa che la fedeltà nel senso più vero è strettamente correlata all’essere ed è un elemento della trascendenza57 umana. In sé e per sé l’essere umano non ha alcuna possibilità di pilotare e determinare azioni e sentimenti futuri e, quando fa una promessa e non può mantenerla, entra in un conflitto interiore, perché la situazione è cambiata rispetto all’inizio. Tale conflitto può solo essere risolto ancorando la fedeltà a qualcosa che non può cambiare e che ci supera.

G. Marcel, Homo viator. Prolegomeni ad una metafisica della speranza, tr. it. di L. Castiglione e M. Rettori, Borla, Torino 1967, p. 156). 55.  Cfr. G. Marcel, Homo viator, cit., pp. 156 ss., e Id., Essere e avere, a cura di I. Poma, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1999, p. 75. 56.  Cfr. G. Marcel, Ubbidienza e fedeltà, in Id., Homo viator, cit., pp. 145-158. 57.  Arno Plack arriva alla stessa conclusione quando, partendo dal concetto di fedeltà in Hildebrand e in altri pensatori, descrive la fedeltà in quattro modi: 1. come la continuità dell’amore attuale; 2. come atteggiamento di fondo di un amore; 3. come ciò che di un atteggiamento attuale continua a sussistere nella profondità; 4. «come il diventare uno dei legami verso i quali siamo profondamente riconoscenti per il nostro essere persona» (A. Plack, Die Stellung der Liebe, cit., p. 171). Mediante l’aspetto sottolineato al punto 3, la fedeltà guadagna un carattere molto più ampio e si rende indipendente dall’amore per riferirsi in modo più universale all’Essere. L’amore come atteggiamento di fondo della persona viene riconosciuto da Plack in quanto tipica prospettiva hildebrandiana, dove invece N. Hartmann, per esempio, sviluppa prevalentemente l’aspetto giuridico; cfr. ivi, pp. 161-173.

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4.1. Le qualità della fedeltà nella relazione amorosa Senza determinate premesse che la caratterizzano, la fedeltà non può realizzarsi. La prima premessa è la già menzionata continuità; infatti le persone che vivono solo nel presente e lasciano cadere nell’oblio il passato non possono essere fedeli, perché si disperdono in nuovi eventi emotivi e “dimenticano” le persone amate, soprattutto quando non sono più visibili. Hildebrand definisce l’atteggiamento di queste persone una “discontinuità”, che può essere basata sull’indolenza o su una vita periferica, uno stato in cui il valore attuale prende ingiustificatamente il sopravvento. La continuità, quindi, ci dice che la fedeltà comprende le esigenze dell’amato/a, è in grado di valutare adeguatamente il momento presente, non evita la superattualità, non si lascia distrarre dall’assenza dell’amato/a e non lo/la dimentica. Ciò si edifica nella parte più profonda della vita interiore di una persona: se essa si muove solo negli strati esterni della propria coscienza, salta da un momento all’altro senza salvare in sé alcuna esperienza, così da essere distratta da ogni nuova impressione. Ciò porta a muoversi a scatti, in una vita che appare come un fotogramma discontinuo. Questo aspetto richiama la temporalità che, in relazione alla fedeltà, si ritrova contemplata anche da Gabriel Marcel, pur se maggiormente concentrata nella dimensione del futuro. A suo avviso la fedeltà richiede la capacità umana di impegnarsi per il futuro ed è proprio sulla sua incertezza che si basa il valore della fedeltà. Il suo rapporto con il passato risiede nel suo essere «riconoscimento di qualcosa di permanente […]. Permanenza di ciò che dura e che implica la storia, in opposizione alla permanenza di un’essenza o di un accordo formale»58. L’atto di

58.  G. Marcel, Essere e avere, cit., p. 74.

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fedeltà riporta al presente ciò che è apparentemente passato e si fonde con il futuro attraverso la speranza59. La fedeltà si riconosce anche perché non si lascia influenzare negativamente da altre opinioni sull’amato/a. È in virtù della fedeltà, infatti, che si prende posizione per la persona amata, si tratti di un amico/a o di un/a compagno/a di vita, rimanendogli/le affezionati indipendentemente da ciò che si dice di lui/ lei o nonostante un giudizio negativo di altri. Rimangono qui esclusi, comunque, i casi in cui secondo Hildebrand la nostra attenzione è attirata su quanto di lui/lei potremmo aver visto in modo sbagliato e che invece è oggettivamente vero. Lo stesso vale quando si è tentati di osservare le relazioni dal­ l’esterno, quasi che essendo coinvolti non si fosse più in grado di obiettività per valutare in modo appropriato determinate situazioni riguardanti l’altra persona, mentre l’amore fa esattamente il contrario, cioè ha una visione dall’interno. Guardare agli elementi esterni può diventare una tentazione, che induce a lasciarsi influenzare da essi; se, invece, l’atteggiamento nei confronti dell’amato/a è fedele, lo/la si guarda dal di dentro e non ci si lascia indurre ad atteggiamenti erronei nei suoi confronti. Oltre alla continuità e all’integrità, sono ulteriori caratteristiche della fedeltà la disponibilità al sacrificio, la già nominata speranza e la fede. La disponibilità a sacrificarsi si esprime nel rimaner leali alla persona amata nel caso di pericolo per lei o per la relazione. Sarà proprio la fedeltà verso questa persona che ci spingerà a fare tutto il possibile per salvare la situazione o la persona amata, indipendentemente dal prezzo da pagare. Tanto più si è fedeli, quanto più si è disposti a dare 59.  Cfr. V. Berning, Das Wagnis der Treue. Gabriel Marcels Weg zu einer konkreten Philosophie des Schöpferischen, Alber, Freiburg i.Br.-München 1973, p. 237.

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tutto per la persona amata e a difenderla a proprio rischio e pericolo. Di speranza nell’amore si parla spesso, con particolare riguardo a situazioni in cui uno degli innamorati è in pericolo di vita, o apparentemente spacciato, o è coinvolto in qualche grande difficoltà: in tali momenti è proprio la fedeltà che crea spazio alla speranza. Un esempio classico è una madre che, contro tutte le circostanze e le opinioni degli altri, spera ancora che il figlio si affranchi dalle difficoltà e dagli errori nei quali è caduto per condurre di nuovo una vita buona. Ciò è collegato a sua volta alla fede (nel senso di fiducia) nell’amato/a. Come si vede, tutti questi aspetti della fedeltà possono essere sommati sotto un denominatore comune: l’adesione piena e incrollabile alla persona amata. Se si ama qualcuno si vorrà fare di tutto per lui/lei: dalla fedeltà si svilupperanno fiducia, speranza, sacrificio e ci si proteggerà da false influenze esterne.

5. L’ordo amoris Sotto gli aspetti etici del discorso sull’amore troviamo poi l’ordo amoris (l’ordine dell’amore); non una novità filosofica sviluppata da Hildebrand, ma un topos che si incontra in Agostino60 60.  La comprensione dell’amore in Agostino si sviluppa in una doppia dimensione orientata ai beni. L’amore va visto come libera disposizione dell’anima e, al contempo, come risposta a un comando dall’esterno. Secondo la gerarchia oggettiva degli esseri viventi e dei beni – dai più bassi fino a Dio che è il Sommo Bene – l’amore trova il suo filo conduttore come approvazione oggettiva di questo ordine e la sua partecipazione ad esso lo lascia anche partecipare alla bellezza e all’armonia delle forme. Tuttavia, c’è un secondo lato dell’ordo amoris, che secondo Remo Bodei viene considerato meno, ovvero il lato del comando o dell’obbedienza che pure appartengono a un ordine. In tal senso anche una condanna, un annientamento e una distruzione

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e in Tommaso d’Aquino61 e che viene ripreso, all’epoca di Hildebrand, da Max Scheler62. In generale o in senso più ampio, sotto ordo amoris si può comprendere «tutto l’ordine della preferenza e il dovere di tener conto della gerarchia dei valori nella nostra risposta»63. Ciò significa che nel nostro agire e nelle risposte concrete ai beni i

di ciò che è vecchio o di ciò che gli è avverso sono compresi dall’amore; la qual cosa, però, non significa che l’amore origini inquietudine, al contrario: l’amore garantisce sicurezza proprio in virtù del suo ordine. A seconda della direzione verso la quale tendiamo, ovvero a seconda di quali beni desideriamo, il nostro amore si riduce a cupidità o si eleva alla carità, che effettivamente desidera il sommo bene, Dio. L’ordine dell’amore non rappresenta però un sistema rigido – altrimenti l’amore non potrebbe veramente essere una libera disposizione dell’anima – quanto un ordine in movimento che libera tutte le cose dal caso, orientandosi ad esse nella giusta determinazione. Ciò significa anche che l’amore rivolto a Dio riconosce tutte le cose nel loro autentico esserci, o meglio, quando guarda ad esse attraverso la cupidità non è più capace di riconoscerne la loro vera essenza; per tale ragione la cupidità si basa sull’incertezza e la carità sulla certezza (cfr. R. Bodei, Ordo amoris, cit., cap. II, pp. 113-157). 61.  Sull’origine e il significato del concetto di ordo in Tommaso d’Aquino e in Agostino si veda G.F. Gässler, Der Ordo-Gedanke unter besonderer Berücksichtigung von Augustinus und Thomas von Aquino, Academia, Sankt Augustin 1994. 62.  Nel breve scritto intitolato proprio Ordo amoris, così lo definisce Max Scheler: «L’ordo amoris è il nucleo del mondo in quanto ordine di Dio. In questo ordine del mondo sta anche l’uomo. Vi sta come il più degno di servire e il più libero servitore di Dio». L’ordo amoris ha per Scheler non soltanto una valenza universale, ma indica qualcosa di assolutamente individuale perché ogni essere umano ha il suo ordo amoris che si inserisce nel generale ordine dell’universo. Ciò deriva dal fatto che ogni persona ha una propria determinazione individuale che può trovarsi in armonia con l’ambiente circostante e il proprio destino, oppure in conflitto: è perciò che siamo mossi verso differenti beni e il nostro amore può “colorarsi” in maniera varia – rispondendo o meno all’ordine prestabilito e corrispondente. Cfr. M. Scheler, Ordo amoris, cit., p. 127. 63.  EA, p. 921.

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valori più elevati ci pongono la richiesta di essere preferiti ai valori più bassi. Questa ulteriore dimensione dell’ordo amoris comprende quindi varie aree, come l’ordine della volontà nel quadro delle azioni, la gerarchia dei beni oggettivi e l’ordo amoris nel senso più stretto, cioè quello riferito all’amore. Max Scheler comprende l’ordo amoris solo nella dimensione più ampia, perché l’amore riguarda non solo le persone, ma anche le entità impersonali; ci offre, perciò, la classifica strettamente obiettiva e indipendente dall’essere umano della bontà di tutte le cose che noi possiamo in effetti solo riconoscere e non creare o inventare. Sebbene l’ordo amoris valga per il singolo, come ritiene anche Hildebrand – non esiste nessun ordo amoris generale nel senso di una graduatoria dei tipi di amore valida per tutte le persone –, esso non perde con ciò la sua obiettività, perché non può essere determinato dall’individuo soltanto, ma con l’aiuto di altri64. Secondo Scheler dall’ordine dell’amore possiamo riconoscere che le effettive propensioni e gli atti d’amore reali dell’essere umano possono corrispondere o meno con l’ordine dell’amabilità; il che significa che ogni persona può esprimere o meno il proprio ordo amoris. Quindi, attraverso il suo modo di amore, l’essere umano può corrispondere al modo di amare di Dio, perché l’ordo amoris è in definitiva «il nucleo dell’ordine del mondo in quanto ordine di Dio»65. Ogni essere occupa un posto specifico sulla scala dell’ordo amoris e ciò corrisponde a un movimento dell’animo verso tale essere o a una risposta adeguata, come direbbe Hildebrand: se l’essere umano riconosce questo movimento d’animo e lo re-

64.  Cfr. M. Scheler, Ordo amoris, cit., pp. 109 ss. 65.  Ivi, p. 127.

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alizza, ama in modo autentico e “ordinato”, altrimenti lo fa in modo equivoco66. All’interno della nostra questione ci interessa quanto si definisce nell’area più immediata dell’ordo amoris, dove cioè si pone la domanda della persona che dovremmo amare più degli altri e per quale ragione. Tale domanda, se si debba amare o meno qualcuno, suona come un amore comandato e ci porta a pensare che qui si tratti soltanto di amore per il prossimo o per Dio. Chiedersi se l’amore e l’attenzione donata al prossimo siano state sufficienti o se si è investito troppo poco rispetto ad altri, è legittimo e sensato, ma Hildebrand ritiene che l’ordo amoris non sia limitato a queste categorie d’amore, bensì si estenda anche alle categorie d’amore naturale e in questo senso è più che comprensibile chiedersi con quali criteri decidere a chi rivolgere più amore. Non si tratta certamente di atteggiamenti e preferenze soggettive e personali, ma di aspetti oggettivi che caratterizzano la persona amata rispetto ad altre persone: innanzitutto il livello di valore del bene, ossia tanto in quanto una persona è amabile tanto più le si deve dimostrare amore. La classifica dei valori presenti nell’amato/a è, quindi, il fattore decisivo per amarlo/la più degli altri e ciò non solo nell’amore al prossimo, ma in tutti i tipi naturali di amore: qui ci scontriamo con una contraddizione. Se può essere comprensibile dal punto di vista morale e ontologico amare Dio più di una persona, semplicemente per il fatto che è Dio, quindi molto al di sopra di tutti i valori umani, non è altrettanto chiaro perché una per66.  La “giustezza” riposa qui su diversi elementi che si avvicinano molto a quelli che anche Hildebrand prende in considerazione come, ad esempio, concedere un valore più basso a un amore per il quale varrebbe un valore più alto – che significa la venerazione verso Dio –; oppure quando a un valore più basso si antepone uno più alto.

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sona debba essere amata più di un’altra, soltanto perché è moralmente migliore di quella. Ci chiediamo, allora, quale posto abbia la misericordia cristiana e in generale la comprensione dell’amore come capacità di riconoscere il valore dell’altro/a e di portarlo al suo pieno sviluppo, a prescindere da altre cose o persone preziose. Nell’ordo amoris una persona migliore si colloca sicuramente più in alto di una mediocre, indipendentemente dal fatto se si tratta di due figli o due amici: per Hildebrand è increscioso che i genitori non preferiscano il/la figlio/a buono/a e affidabile a quello/a meno capace e lo/la amino di più. In termini puramente morali si può certamente affermare che il bambino affidabile e amorevole merita più amore di un bambino violento e inaffidabile, ma il fatto è che l’amore, nella sua forma più pura, deve superare tali differenze per le stesse ragioni per cui Hildebrand vi vede una necessità di amore. L’esperienza d’amore, come chiarito nel III capitolo, è essenziale per tutti e si nutre di entrambe le dimensioni dell’amare e dell’essere amati; tuttavia, se una persona ottiene meno amore rispetto a un’altra – semplicemente perché non è “brava” come l’altra – non si potrà sviluppare molto neanche la sua capacità di amare e, al contempo, le sue qualità negative piuttosto che migliorare si consolideranno. Qui ci imbattiamo in un limite della teoria di Hildebrand, che a nostro avviso si basa sulla rigida separazione tra forme naturali di amore e l’amore al prossimo, in modo che sembri impossibile trattare una persona con amore e poi sviluppare un rapporto amichevole con essa. Amare una persona moralmente non buona è un bene perfino moralmente richiesto (ciò corrisponde al caso estremo del comando di Gesù di amare il nemico). Amare, invece, quella stessa persona con un amore di amicizia è per Hildebrand moralmente sbagliato e immorale! Significa, allora, che solo un amore fondato sulla caritas pos-

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siede l’ampiezza d’amare oltre l’ordo amoris? Oppure si tratta di un limite dell’amore all’interno di un ordine morale di tipo quantitativo? Prima di trarre delle conclusioni dobbiamo vedere che cosa è incluso esattamente nel concetto di ordo amoris. Ci sembra molto importante e fondata la comprensione di ordo amoris come un dover amare di più67 all’interno di un rapporto d’amore, nel quale una persona venga amata di meno di quanto richiederebbe la sua dignità e per quanto sia nelle possibilità dell’amante. Se una moglie ama il marito di meno di quanto in realtà potrebbe, ciò è moralmente rilevante, perché appartiene all’amore sponsale trattare il coniuge con una certa qualità di amore e dedizione; ma se non fosse così, è corretto dire che questa donna debba amare di più di quanto già non faccia? C’è un altro fattore rilevante secondo Hildebrand, vale a dire la correlazione oggettiva che si ha con gli altri in un determinato rapporto come, ad esempio, quello dei figli verso i genitori. Inoltre, esiste anche un altro tipo di correlazione che deriva dalla parola che si sono dati ad esempio due amici che, come 67.  Hildebrand distingue la dimensione del “più” indicando le differenze tra l’intensità di uno stato di fatto (come un dolore fisico) e quella negli atti spirituali intenzionali (come le risposte affettive). Non si può, dunque, intendere la stessa cosa quando, ad esempio, si parla di avere più mal di testa di ieri e di amare una persona più di un’altra. Eppure, la stessa intensità, il “più” dell’amore, non è sempre uguale, perché a ciò contribuiscono diversi fattori, come il potenziale dell’amore della persona, il ruolo che un amore gioca nella vita di un essere umano e l’irradiazione dell’amore stesso. Inoltre, esistono differenze anche all’interno della stessa persona, perché l’intensità del nostro amore varia anche a seconda della nostra condizione fisica e spirituale, a seconda del nostro livello di attenzione ecc. (cfr. D. von Hildebrand, Das Wesen der Hierarchie, in Id., Rehabilitierung der Philosophie. Festgabe für Balduin Schwarz zum 70. Geburtstag, Habbel, Regensburg 1974, pp. 1329). Ciò significa che l’ordine di grado dell’amore dipende da molti fattori dei quali alcuni possono essere direttamente modificati da noi; la domanda morale dell’ordo amoris è, corrispondentemente, se possiamo amare di più dove sarebbe necessario, ma non lo facciamo.

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già affermato, si basa su una reciprocità d’amore. In questo caso esiste un certo ordine d’amore secondo cui si dovrebbe amare l’amico/a più di altri, proprio per la preferenza d’amore promessa mediante la “parola” che ci si è dati. Qualcosa del genere si dà anche in un amore unilaterale, cosa non irrilevante nell’ordo amoris: se si è riconosciuta la bellezza dell’altra persona, si deve anche amare a prescindere se si è riamati allo stesso modo, e questo dovere non si fonda su un comando, come già spiegato in precedenza, ma è piuttosto il risultato della stessa risposta al valore. È, cioè, il riconoscimento dei valori che di per sé ci obbliga a non rimanere indifferenti difronte ai medesimi, ma a rispondere ad essi adeguatamente, indipendentemente dai beni stessi che ne sono portatori e da un eventuale ritorno. Cosa che, però, non vuole negare l’incompletezza di un amore unilaterale e che pone, perciò, all’amato/a una richiesta: rivolgersi con amore a colui/lei che lo/la ama, con una misura maggiore rispetto a coloro che egli/ella ama e dai quali non è ricambiato/a con quella misura propria dell’amante. Si tratta qui di una determinata situazione, nella quale veniamo amati in modo speciale da una persona che noi, invece, non amiamo. La domanda, allora, è quanto questo amore ci obblighi a rivolgerci anche noi con amore a questa persona, pur non sentendoci da essa particolarmente attratti. Hildebrand ammette che non si devono stringere amicizie se non esistono le condizioni adatte, mentre si potrà, comunque, dimostrare un certo affetto e dedicare tempo e attenzione, perché rimane il fatto che quella persona ha scoperto qualcosa di speciale in noi e ci si è affezionata. Solo per questo motivo si dovrebbe amarla di più di altre persone che magari hanno uno stretto rapporto con noi, ma non ci amano così. È solo una questione di attenzione e dedizione concrete: in ciò sta in definitiva l’esigenza dell’ordine dell’amore. La domanda dell’ordo amoris si estende anche alle caratteristiche categoriali di ciascuna forma di amore, da una parte come

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domanda sul loro ordine di grado – se il marito, ad esempio, per la particolarità dell’amore sponsale, si ritrovi a un livello superiore rispetto a figli o genitori – dall’altra all’interno della stessa caratteristica categoriale, se si ami a sufficienza o meno, ovvero se si dia la risposta appropriata. Chi dobbiamo amare di più? Chi ha il diritto di avere il primo posto nel nostro cuore? Se l’ordo amoris si diversifica all’interno delle categorie di amo­ re naturale, fornendo così alcuni fattori di impatto decisivo sulla priorità di un amore o di una persona, dandole un posto di privilegio rispetto ad altri esseri amati, significa che si deve applicare un ordine generale in relazione a tutte le categorie di amore naturale, secondo il quale, a parte singole particolarità, si preferiranno alcune persone ad altre, che non amiamo direttamente. Da un punto di vista etico la persona che amo è sempre al di sopra dello sconosciuto, a meno che quest’ultimo non abbia un diritto particolare legato a circostanze esterne. In sintesi, secondo Hildebrand, esiste un ordine d’amore per il quale le persone che amiamo possono certamente avvalersi di un diritto da rispettare; occorre, però, che si tenga conto anche dell’esistenza di un ordine etico per cui i valori più alti sono preferibili a quelli più bassi, perfino a spese delle persone che amiamo. Ritorna, qui, la caritas nella sua funzione di completamento di tutti i tipi di amore naturale. Caritas significa, allora, amare il marito o i figli fino alle sfumature più raffinate dell’amore, perché se non si è in grado di amare i più vicini, non si è affatto capaci di amare, né nel senso delle cosiddette forme naturali di amore, né tanto meno nel senso della vera caritas. Essa stessa ci fa mettere da parte i bisogni e le richieste dei nostri amati, non appena un’altra persona richiede la nostra piena attenzione e disponibilità in una situazione particolare. La caritas dà alle nostre relazioni lo spazio che esse meritano nella nostra vita, le coordina e organizza armoniosamente.

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6. Solo l’amore genera comunità L’amore è molto esigente e influenza tutta la vita di una persona. Dalla classificazione dei valori in gioco in esso possiamo desumere il grado di felicità o infelicità sperimentabile, con la consapevolezza che si può essere veramente felici, soprattutto se, seguendo le riflessioni hildebrandiane, si ama secondo l’ordo amoris. Non solo le relazioni individuali devono la loro esistenza all’amore, ma anche la maggior parte delle comunità68 sono costrui­ te grazie ad esso. Nel capitolo II, nella breve presentazione dell’antropologia di Hildebrand, è stato fatto riferimento al carattere paradossale dell’essere umano, indipendente in sé e

68.  Alla comunità e al suo significato metafisico è interamente dedicata l’opera già spesso citata Metaphysik der Gemeinschaft. In essa – pubblicata nel 1955, quando Hildebrand era già da molti anni negli Stati Uniti – il fenomenologo tedesco approfondisce il tema partendo dalla persona e dai vari livelli di incontro/contatto/relazione interpersonali e, passando dalla differenziazione delle diverse categorie d’amore, giunge a un’analisi dettagliata sull’essenza della comunità e sulla relazione esistente tra più comunità. Lo studio si conclude, infine, con uno sguardo al valore della comunità e ai valori che la contraddistinguono, tra cui per prima è considerata l’unità. Tale valore, assieme alla considerazione del profondo legame tra persona e comunità, viene particolarmente sottolineato da molti fenomenologi, tra cui Stein, Scheler, Welte e Hemmerle. Ci permettiamo qui di rinviare a un nostro breve commento circa la simile eppur differente visione tra Hildebrand, Stein e Hemmerle in Individualità e comunitarietà – poli di una dinamica umanodivina, in K. Hemmerle, Un pensare ri-conoscente. Scritti sulla relazione tra filosofia e teologia, testo tedesco a fronte, intr., tr. e chiavi di lettura a cura di V. Gaudiano, Città Nuova, Roma 2018, pp. 443-447. Hemmerle sviluppa, in un breve testo, il tema della relazione domandandosi se l’automatica derivazione della persona fatta da chi parla di comunità, possa implicare il legame inverso, ovvero che dire persona significhi dire anche comunione. Si tratta proprio dell’approccio hildebrandiano, che, partendo dalla persona, spiega il senso e significato della comunità che ne deriva e che è pensabile solamente a partire dalla persona. Cfr. K. Hemmerle, Persona e comunione – una riflessione filosofica e teologica, ivi, pp. 414-442.

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allo stesso tempo proiettato a una vita in comunità con altre persone69. È, in effetti, proprio l’amore a distinguere i semplici contatti fra le persone (le espressioni formali, le richieste, i comandi) dalle relazioni autentiche, cioè da quegli incontri che sono caratterizzati dallo sguardo l’uno per l’altro dell’amore. In tale senso, già la relazione tra due persone è una forma di comunità. Se l’odio o l’amore vengono dichiarati ed essi non solo sono recepiti e accettati in modo corrispondente dalla persona estranea […], nello sguardo l’uno per l’altro dell’odio o dell’amore si stabilisce una “relazione” tra di loro: una reciproca posizione permanente, una relazione obiettiva e un qualcosa di duraturo nella superattualità che rappresenta fino in fondo una realtà interpersonale.70

A parte l’odio, che non abbiamo finora trattato, è vero che due o più persone – siano essi amici, una coppia, genitori e figli o addirittura compagni di avventure, ecc. – sono legati da un vincolo per l’amore accolto e ricambiato, vincolo che l’amore ha creato e reso possibile. Per questo si può descrivere l’amore come una forza creativa, infatti i legami sociali non sono soggetti a una libera scelta e sono in qualche modo predeterminati; ad esempio non scegliamo i/le colleghi/e di lavoro o i/le compagni/e in una associazione. Persino le grandi strutture sociali nelle quali ci muoviamo, come la nazione o la società, esistono prima di noi e noi ci tro-

69.  Questo aspetto della comunità diventa per Hildebrand più centrale ed essenziale dell’aspetto umano dell’essere-mondo-per-sé. La sua filosofia può, perciò, essere definita come “Filosofia della comunità”, come sostiene Vincent Miceli, nella quale l’elemento comunitario cresce dall’amore (cfr. V. Miceli, Von Hildebrand and Marcel: Philosophers of Communion, in «Aletheia», vol. V, 1992, pp. 250-257). 70.  MG, pp. 124-125.

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viamo in esse senza poterle scegliere71. Solo quando all’interno di tali strutture ci si rivolge all’altro/a in un atteggiamento d’amore e l’amore viene corrisposto, allora si può parlare di una vera comunità, sebbene ciò non corrisponderà mai all’intera nazione o alla vita economica complessiva, trattandosi di realtà e strutture troppo grandi da un punto di vista puramente numerico, nelle quali non è possibile che tutti i membri siano in rapporto d’amore l’un con l’altro/a. Il termine “comunità” può creare confusione, perché è compreso differentemente non solo in base al contesto in cui viene menzionata la comunità – quale contesto politico, sociologico, economico o religioso – ma perché può essere compreso in modo diverso anche a seconda dei cambiamenti culturali ed epocali. Siamo ovviamente interessati a ciò che Hildebrand intende con comunità e in quale rapporto essa stia con l’amore. Per prima cosa bisogna distinguere due significati di comunità: in senso lato Hildebrand intende come comunità una qualsiasi convivenza tra persone; in senso più stretto egli intende quelle strutture che hanno un carattere sostanziale di insieme. Sulla base di questi due tipi di comprensione si possono distinguere e caratterizzare, perciò, diverse comunità, anche se esse contengono ulteriori elementi determinanti che portano a differenziazioni. Ci sono, ad esempio, alcune comunità che richiedono un vero legame d’amore, come l’amore sponsale, l’amore amicale o familiare. Decisivo per esse è che nascano dallo sguardo l’un per l’altro/a dell’amore e dalla virtù unitiva dei valori. Altre for71.  Qui facciamo riferimento alla situazione originaria di ogni essere umano che nasce in una nazione, in una famiglia, in una determinata società. Che poi più tardi una persona adulta possa decidere di andare a vivere altrove appartenendo così ad altre società o a un’altra nazione, non è rilevante per il nostro tema.

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me di comunità nascono solo dalla virtù unitiva dei valori o da atti puramente sociali e solo il matrimonio esprime una “forma mista” perché è composto di tutti gli elementi: lo sguardo l’un per l’altro/a dell’amore, la virtù unitiva dei valori e l’atto sociale dell’unione. Possiamo definire la differenza fra le comunità anche formale o materiale: le comunità formali sono costituite da atti formali e quelle materiali sorgono per lo sguardo l’un per l’altro/a dell’amore. Esempi di comunità formali sono le associazioni, le nazioni, gli Stati. Questa distinzione ci sembra importante perché illustra una sorta di dipendenza o di ordine: le comunità formali, quelle più grandi e complesse, possono essere formate solo sulla base di comunità materiali preesistenti. Questa è un’evidente verità sociologica, confermata spesso dalla storia, ma dietro c’è senza dubbio un messaggio, che si potrebbe riassumere come segue: senza amore non esiste, di fatto, nessuna comunità nel senso sostanziale del termine. Formalmente possono esistere molte comunità, anche se manca l’amore, ma non formano un tutto sostanziale nel senso di Hildebrand; rimangono, per così dire, aggregati di esseri umani, senza mai giungere a un’unità. La metafisica della comunità di Hildebrand non affronta questi risultati, né li esprime direttamente in questo modo72, ma la base rimane l’amore, perché se solo poche forme naturali di amore costruiscono comunità reali e si offrono, per così dire, come materia prima per altre comunità formali – uno Stato o una nazione sono costituiti da relazioni d’amore duo-personali

72. Nella Metaphysik der Gemeinschaft Hildebrand fa riferimento soltanto a un ruolo più grande dell’amore all’interno del matrimonio, piuttosto che all’interno della famiglia, dello stato o della nazione: implicitamente si riferisce a tutte queste strutture comunitarie e al fatto che esse siano tutte costituite da una certa quantità di amore (cfr. MG, p. 330).

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preesistenti, da famiglie e gruppi di amici – si può dire almeno che l’amore al prossimo sia la fonte innominata della nazione e dello Stato. L’umanità stessa realizza il valore dell’essere uniti e dell’amore e, per quanto essa non sia frutto dell’amore reciproco tra tutte le persone, è pur sempre «realizzata come un’unità attraverso la materia dell’amore»73 a causa della costituzione metafisica dell’essere umano. La comune appartenenza originaria ordina gli esseri umani in un legame d’amore reciproco e fa dell’amore il valore fondamentale dell’umanità. Secondo Hildebrand si tratta di un’unità molto più profonda di quella familiare o di quella statale e nazionale, perché comprende tutti gli esseri umani. In questa visione metafisica essi non sono solo individui singoli, ma un complesso, appunto l’umanità, e come tale subordinati al valore di tutti i valori, ovvero Dio. Se il significato del matrimonio, della famiglia, dell’amicizia e persino dell’umanità è l’amore, esso vale, secondo Hildebrand, anche per lo Stato, pur in modo meno pronunciato di quanto non sia il caso delle suddette comunità. Lo Stato si basa sul rispetto e questo è un elemento dell’amore, inoltre, promuove indirettamente valori tipici per le comunità d’amore, basti pensare alla sicurezza sociale, ma anche al supporto della giustizia e dell’ordine nello spazio pubblico; sono questi gli aspetti che creano le condizioni necessarie affinché i matrimoni, le famiglie e le amicizie possano crescere e svilupparsi. Anche se gli Stati reali non sempre corrispondono a queste idealità, immaginare una situazione senza di essi svelerebbe chiaramente quanto sia essenziale il compito di promuovere alti beni e valori oltre a rendere evidente in quale osmosi lo Stato e le comunità

73.  ID, p. 343.

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di amore siano legate fra loro: il primo non è possibile senza le seconde, ma queste devono essere promosse e sostenute allo stesso tempo dallo Stato. L’amore gioca, quindi, un ruolo centrale in quasi tutte le comunità e per tanto profondo e alto sia l’ambito unificante dei valori, questa connessione sarà rafforzata dalle persone appartenenti a una comunità quanto più esse si ameranno reciprocamente e ameranno la comunità stessa74. L’amore all’interno di una comunità ha caratteristiche molto diverse e a seconda del tipo di comunità si parlerà di amore primario o amore secondario; nel primo caso, in una forma specifica e, nel secondo, attraverso atteggiamenti che si relazionano all’obiettivo. L’amore può, inoltre, essere inteso come amore reciproco tra i membri della comunità, come amore del singolo per la comunità e infine come amore della comunità per il singolo. A questo proposito Hildebrand solleva alcune domande riguardanti, ad esempio, una possibile consapevolezza di comunità senza amore, oppure se una comunità richiede, per sua natura, l’amore e in quale misura debba farlo. Una risposta esatta a queste domande necessita un’analisi più dettagliata delle singole comunità75, cosa che richiederebbe 74.  Questa comprensione dell’essenza della comunità viene intesa da Terravecchia come un aspetto molto rilevante per la filosofia della comunità, perché la risposta al valore comprende consapevolezza e conoscenza e l’amore ha conseguenze durature e motivanti sull’elemento comunitario. Nello specifico esso guadagna stabilità, a paragone con la visione scheleriana delle relazioni, in cui la comunità nasce da atti e motivi di tipo reattivo (cfr. G.P. Terravecchia, Fenomenologia sociale, cit., pp. 77-79). 75.  Rinviamo qui, però, agli studi steiniani sulla comunità, nei quali la filosofa ha sviluppato il tema comunitario in stretta relazione all’antropologia, operando un chiaro parallelismo tra individuo e comunità, fino a poter paragonare le relazioni interpersonali di singoli individui e quelle intercomunitarie tra due o più comunità. Cfr. E. Stein, Psicologia e scienze dello spirito, cit.; Ead., Una ricerca sullo Stato, a cura di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 19992.

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una trattazione separata. In ogni caso, si può dire che, secondo Hildebrand, l’amore tra i membri è in qualche modo presente in tutte le forme di comunità, fosse anche solo – come nel caso delle comunità esclusivamente formali – in qualità di attenzione o in una forma non specifica; perciò una coscienza comunitaria senza amore sembra essere impossibile. Anche da parte dell’individuo è richiesto amore per la comunità, pur con opportune differenze, perché nel caso dello Stato si richiede rispetto e riconoscimento da parte del singolo. Questo vale ancora di più per quanto riguarda la nazione: se ciascun membro non solo la riconosce, ma la ama, essa non esiste più soltanto come tale. Per le comunità materiali o le comunità d’amore è chiaro che l’amore reciproco sia prioritario, la cosa più importante; ma ugualmente è richiesto l’amore dell’individuo per la comunità, perché si tratta non solo dell’esistenza della stessa – come ad esempio nelle comunità formali – ma in modo specifico dell’amore. Alla fin fine l’amore della comunità per i membri dipende dal tipo d’interesse conseguito. In sintesi: nel suo carattere di risposta al valore l’amore svolge effettivamente un ruolo importante, anzi essenziale, nella formazione delle comunità e, in questo senso, penetra più profondamente a livello metafisico che etico. Inoltre, si apre all’ontologia e, secondo noi, abbandona l’orizzonte puramente etico, sebbene questo rimanga un aspetto molto importante dell’amore.

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Capitolo V

Dell’amore e dell’essere a partire da Hildebrand

1. Camminando su confini. Questioni aperte Dall’osservazione fenomenologica di Hildebrand è finora emerso cosa sia l’amore, in che misura influenzi la vita dell’essere umano e, addirittura, lo realizzi. Tuttavia, la considerazione di questo fenomeno ha lasciato aperte alcune domande e problemi, di cui abbiamo accennato nel corso delle precedenti riflessioni. Ora è il momento di riprenderle, per valutare se, al di là delle reali mancanze e possibili debolezze nella filosofia dell’amore di Dietrich von Hildebrand, si offrano possibili piste ulteriormente percorribili. Alcune domande controverse forniscono materiale per un dialogo tra Hildebrand e altri filosofi e, in questo capitolo ne sceglieremo alcune, provando a camminare sul loro confine, in dialogo con questi altri pensatori. Prima, però, di inoltrarci in quest’ultimo tratto del cammino, dedichiamo brevi affondi a un paio di tematiche che trovano nella stessa filosofia hildebrandiana chiavi di lettura ulteriori, ma non ancora emerse. Con esse si vedrà ancor più chiaramente quanto diversificato e articolato sia il fenomeno dell’amore; della sua stessa natura è una certa volatilità quasi insuperabile, come di qualcosa che va perso o trascurato quando se ne vo-

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glia individuare un lato particolare, quando si voglia provare ad afferrarlo e costringerlo entro ben delimitate caselle definitorie. È per questo che una visione esaustiva dell’amore non può essere raggiunta in questo nostro percorso che, d’altro canto, non ne ha mai avuto la pretesa; suo intento è, invece, di presentare la filosofia dell’amore di Hildebrand nei suoi aspetti salienti, mantenendo aperta sullo sfondo la domanda se essa si offra esclusivamente come un’analisi morale di un sentimento o se si celi in essa una metafisica dell’amore con prospettive ontologiche. Nello specifico di questa sezione che precede il dialogo con altri pensatori – che evidentemente anche qui non è del tutto escluso – vogliamo esaminare gli aspetti dell’amore relativi alla persona, per verificare se essi vengano limitati dalla definizione dell’amore di Hildebrand. Affronteremo, poi, il tema dell’amore al prossimo in relazione all’amore di sé infine, apriremo alle due questioni più marginali della filosofia dell’amore hildebrandiana, ovvero la corporeità e la dimensione temporale.

1.1. Persona: unico riferimento dell’amore? Una delle prime tesi della nostra discussione sul tema dell’amo­ re in Hildebrand era stata la sua delimitazione a un fenomeno legato alla persona. Secondo il nostro autore l’amore è possibile solo da persona a persona e parlare di amore per gli animali o di amore per la patria, per citare solo due esempi, significa per lui non parlare di vero amore. Scheler si muove, ad esempio, in una direzione diversa1, inducendoci ad esaminare più da vicino le motivazioni di Hilde-

1.  Ci riferiamo qui alle affermazioni del filosofo riguardo a un autentico amore per la natura o a un autentico amore per l’arte che si mostrano in un atteggiamento del “per se stesso”; con ciò Scheler intende che altre forme

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brand. Il motivo più profondo per la sua posizione sta nel fatto che l’amore si basa sulla reciprocità, che a sua volta presuppone esseri spirituali in grado di esprimersi nell’amore gli uni verso gli altri, da pari a pari. Sotto questo punto di vista diventa quindi chiaro che l’amore per l’arte, ad esempio, non può essere paragonato all’amore tra due persone e, anche se Hildebrand ammette che gli esseri umani possano rifiutare l’amore, i prerequisiti per la reciprocità sono comunque presenti in esso. Con gli oggetti poi non è come con l’arte, poiché l’amore per l’arte sarà più simile alla stima o all’ammirazione. Tuttavia, si può con Scheler parlare di amore per le cose e, persino Hildebrand ci offre degli elementi per un’argomentazione del genere. L’amore, infatti, è una risposta al valore, l’affermazione del valore totale dell’altro/a e ciò vale per la persona, ma può valere anche per l’arte, la patria, la natura, ecc. Riconoscere la bellezza dell’arte significa apprezzarla nel suo valore, quindi è come amare una persona. Anche l’impegno di cui parla Hildebrand si può orientare a oggetti, basta vedere quante persone si impegnano per la protezione e preservazione della natura e per lo più non per interesse personale o utilitaristico (il che non significa che qualcosa del genere non possa sempre accadere); queste persone provano un profondo amore per la natura in tutte le sue forme e ciò risveglia in loro la necessità di agire attivamente, impegnandosi. Va di conseguenza che l’ele­ mento dell’amore non è in conflitto con l’amore per strutture non personali. Ancora, il carattere di superattualità dell’amore preclude una limitazione di esso, tanto che avvicinando le persone e il mondo in un atteggiamento fondamentalmente amorevole, l’amore riempie e soddisfa la vita e ci accompagna in tutto ciò che facciamo e sperimentiamo, anche se ciò non di amore non orientate a strutture personali, come le suddette, hanno il loro statuto non deducibile dall’essere umano (cfr. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., pp. 236-237).

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è direttamente correlato con l’oggetto d’amore. Pure il tema della felicità è connesso a questo: gli animali possono renderci felici come lo fanno le persone. Abbiamo, dunque, chiarito come la maggior parte degli elementi dell’amore sia correlata oltre che all’amore tra gli esseri umani anche ad altre possibili strutture. Tuttavia, le caratteristiche più importanti dell’amore sono l’intenzione unitiva e l’intenzione benevolente, tra le quali solo la seconda è in certo modo rintracciabile nell’amore per altri esseri (la benevolenza è un atteggiamento tipico tra gli amanti degli animali, mentre nei confronti dell’arte risulterebbe strano parlare di un atteggiamento benevolente). L’intenzione unitiva rimane essenzialmente connessa all’amore tra le persone, a questo proposito ha ragione Hildebrand quando parla di amore nel «senso diretto e immediato» solo tra le persone, ovvero tra esseri umani e tra loro e Dio. Rimane controversa la sua definizione di altre forme di amore per le strutture impersonali, viste solo per analogia in relazione all’amore fra le persone, come se esse fossero improprie, la qual cosa porta a un conseguente svilimento di questi altri tipi di amore. È esattamente ciò che anche Scheler e Pfänder contestano, soprattutto nell’amore per gli animali e le piante. Pfänder sottolinea che esiste chiaramente il rischio di concepire gli animali come umani e amarli in tal modo, ma la direzione dell’amore, il suo flusso centrifugo è anche qui indiscusso, si può quindi eccepire che queste forme di amore siano considerate alla stessa stregua dell’amore verso le persone2.

2.  Cfr. A. Pfänder, Zur Psychologie der Gesinnungen, cit., pp. 337-339. Pfänder arriva alla conclusione che l’orientamento all’amore comprende praticamente tutti gli oggetti pensabili.

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1.2. Amore al prossimo e amore di sé: alleanza necessaria o contrasto voluto? Un secondo problema derivante dalla comprensione dell’amore al prossimo in Hildebrand riguarda il rapporto con l’amore di sé e la questione della felicità, nonché l’“eroismo” nell’amore al prossimo. L’amore di sé non ha alcun punto di riferimento con l’amore per gli altri e quest’ultimo non può derivare dal primo, perché si tratta di entità diverse3. Anche Scheler afferma che l’amore di sé e l’amore per l’altro/a sono due fenomeni ugualmente primigeni, perché l’amore è indipendente dall’orientamento verso qualcosa o qualcuno, quindi l’amore per la persona non si può automaticamente definire altruista, perché con se stessi non si è altruisti. Originariamente, quindi, l’essere umano ama se stesso allo stesso modo di come ama gli altri4. Per Hildebrand la cosa è diversa, egli parla dell’amore di sé come di un’unità con se stessi, ugualmente originaria come in Scheler, eppure sussistente originariamente, ossia senza la partecipazione attiva della persona, com’è invece nel caso dell’amore. Se questa è la ragione per cui si afferma che l’amore di sé non

3.  Su questo tema si può prendere in considerazione la posizione di Pfänder che distingue l’amore per sé dall’amore per gli estranei e che vede impossibile scindere il secondo dal primo per il fatto che nell’amore per l’estraneo va sempre visto un amore per se stessi. Questo corrisponderebbe maggiormente alla posizione di Rousseau; in realtà è chiaro però che ci sono casi nei quali i moti dell’amore non hanno nulla a che vedere con il sé e sono effettivamente rivolti soltanto all’altro (cfr. ivi, pp. 335-336). 4.  Troviamo l’esatto contrario in Aristotele, così come in Rousseau e in altri che sostengono che l’amore per sé è il primo amore in assoluto e che solo in un secondo momento l’essere umano sviluppi l’amore per l’estraneo; cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, cit., vol. II, IX, 8, 1168a-1169b, pp. 799-807; J.-J. Rousseau, Emilio, cit., pp. 297 ss.; S. Kierkegaard, Atti dell’amore, cit., pp. 187-195.

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possa essere il modello dell’amore per gli altri, cosicché posso amare questi perché conosco tale originaria unità con me, alcuni fraintendimenti riguardo all’amor di sé saranno inevitabili. Io mi amo a priori, semplicemente perché sono legata a me stessa, formo appunto un’unità. Eppure ciò non è una risposta al valore, perché non richiede la conoscenza/il riconoscimento del valore in noi. Che cos’è allora l’amore di sé? Si può forse presumere che Hildebrand apprezzi l’amor di sé almeno tanto quanto l’amore per l’altro/a, ma che poi non veda alcun motivo per considerarlo alla stessa stregua delle altre categorie dell’amore? In realtà, non è così, perché altrimenti ci si dovrebbe chiedere perché egli lo distingua dall’amore per l’altro/a, sulla base dell’unità con se stessi, assunzione che a sua volta mette in discussione l’amore. Per lui l’amore di sé rimane pura solidarietà verso se stessi, originaria e indipendente dall’amore per l’altro/a, come viceversa questo da quello; e può essere detto amore solo in modo analogo all’amore al prossimo, mancando di dedizione e benevolenza, vere caratteristiche dell’amore. Con ciò si chiarisce come l’amore di sé sia qualcosa di positivo in sé5, ma in modo diverso dall’amore al prossimo e, nello stesso tempo, si ammette che tale l’amore sia il punto di partenza dell’amore cristiano verso il prossimo. Se dobbiamo amare il prossimo come noi stessi, ma l’amore a se stessi non è vero amore – perché manca di dedizione e benevolenza – significa 5.  La posizione di Hildebrand in riferimento all’amore per il prossimo e all’amore di sé si allontana qui dalla visione di Anders Nygren, che bandisce definitivamente l’amore di sé dalle categorie dell’amore: secondo lui nella comprensione cristiana (l’amore per il prossimo è cristiano, in ciò Hildebrand e Nygren sono d’accordo) non c’è alcun posto per l’amore di sé, anzi esso è in completa contraddizione con l’amore per il prossimo e con l’amore per Dio; va, perciò, superato orientandosi al proprio rinnegamento in questi altri amori (cfr. A. Nygren, Eros e agape, cit., pp. 78-79).

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che la comprensione dell’amore di Hildebrand contraddice il comando cristiano espresso nei Vangeli. Come affermato in precedenza, Hildebrand non fornisce una descrizione diretta e dettagliata dell’amore di sé, ragion per cui non abbiamo altra scelta che cercare di interpretare il suo pensiero. Partendo dall’assunzione che l’amore è una risposta al valore, cercheremo di definire e illuminare la relazione tra amore di sé e amore al prossimo. La carità cristiana è la risposta/il riconoscimento dell’altra persona come figlio/a di Dio e ciò provoca la dedizione amorevole e la stima riconoscente, non perché l’altra persona sia intrinsecamente, personalmente preziosa (come è altrimenti il caso nelle categorie d’amore naturale), ma perché è amata da Dio allo stesso modo in cui lo siamo noi. Così riconosciamo il valore negli altri come ciò che tutti ci unisce. Noi tutti siamo preziosi, quindi amabili, semplicemente perché creati da Dio e amati personalmente da lui. L’amore di sé dovrebbe in realtà essere il riconoscimento di ciò che è prezioso in me e che mi aiuta ad accettare la mia persona. Questo però non è sempre possibile: noi possiamo percepire noi stessi, guardarci allo specchio e costatare un’apparenza più o meno bella, ma esterna; certamente possiamo pensare e immaginare molto con la fantasia6, tuttavia ciò non ci rivelerà ancora il valore che abbiamo e non ci offrirà alcun motivo per amarci. Solo il contatto con l’altro/a ci permette di sperimentare profondamente noi stessi, perché l’altro/a riconosce, afferma e apprezza ciò che è prezioso e valido in noi. Da ciò ne

6.  Abbiamo qui presente particolarmente la costituzione fenomenologica dell’ego. Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, 2 voll., a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002; Id., Meditazioni cartesiane con l’aggiunta dei Discorsi parigini, a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 19973.

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consegue che si deve comprendere l’amore di sé come risultato dell’amore agli altri7 e, quindi, mettere in discussione la solidarietà originaria con noi stessi, cosa che contraddirebbe il comandamento dell’amore; infatti, come potremmo essere in grado di amare il prossimo come noi stessi, se non siamo in grado di amarci prima che il prossimo ci ami? L’opposto sarebbe di concepire l’amore di sé come pura solidarietà con se stessi, come fa Hildebrand, quindi non come amore, la qual cosa ci porterebbe nuovamente davanti a una contraddizione con il comandamento evangelico. Una possibile via d’uscita da questo vicolo cieco consiste nel separare l’amore al prossimo dall’amore di sé, cioè di non prendere il “come” del comandamento dell’amore – ama il prossimo come te stesso – quale misura dell’amore stesso, perché in quel caso dovremmo amare l’altro/a esattamente come amiamo noi stessi, augurarci e fare all’altro/a ciò che auguriamo e facciamo per noi stessi, con ciò però correremmo il pericolo di non amare il prossimo, bensì di strumentalizzarlo facendo di lui/lei un’estensione del nostro ego. Che cosa significa allora questo “come” del comandamento, se non è un termine di paragone? Troviamo in Hildebrand una risposta indiretta, quando àncora l’amore al prossimo nella fi7.  Questa sarebbe la conclusione di Jean-Luc Marion. La riduzione fenomenologica, da lui concepita anche come riduzione erotica, ci mostra come originariamente non si faccia alcuna esperienza di amore di sé quanto piuttosto di odio di sé, che può essere superato soltanto attraverso l’amore, quando cioè l’altro mi vede come qualcosa di valore e mi fa diventare o mi riconosce tale. Poiché è l’altro/a che mi fa fare l’esperienza dell’amabilità, posso allora amare me stesso; tuttavia anche questa posizione di Marion contiene un problema proprio in riferimento all’amore al prossimo, ovvero, l’esatto contrario del nostro: se l’amore di sé trova giustificazione solo attraverso l’amore per l’estraneo, è ancor più difficile comprendere il comando dell’amore perché non si ha più la piena misura d’amore. Se mi odio non posso amare il prossimo come me a meno che non si presuppone l’amore di Dio (cfr. J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, cit., Del terzo che arriva, pp. 235-283).

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gliolanza di Dio, perché è quello il riferimento decisivo del comandamento dell’amore: l’altro/a è voluto/a e amato/a da Dio proprio come noi, quindi è di per sé amabile. L’amore al prossimo può venire, quindi, espresso nella forma più lata del comandamento: “ama il tuo prossimo perché egli/ella è amato/a da Dio proprio come te” e “il prossimo è amabile quanto lo sei tu: amalo quindi come te stesso”. Ritorniamo così alla definizione di Scheler sull’originarietà del­l’amore di sé e dell’amore per gli altri, per cui essi sono entrambi originari a causa del loro valore di base, comune a tutti gli esseri umani e, tuttavia, da considerare come a sé stanti, perché ogni persona porta con sé anche un valore proprio che la qualifica rispetto agli altri. Inoltre, l’amore per gli altri, che non è sempre equiparabile all’amore per il prossimo, mira proprio a questo valore. Un altro punto connesso a ciò è il tema della felicità. Hildebrand distingue l’amore al prossimo dalle forme naturali di amore considerando il primo indipendente dalla felicità, mentre valuta fonti di essa le altre forme. La ragione sta nell’atteggiamento diverso verso il prossimo e verso la persona amata come pure il differente modo di partecipazione. Nel caso del­ l’amore al prossimo ci muoviamo verso di lui/lei, ma egli/ella non diventa parte della nostra vita propria; nelle forme d’amore naturali, invece, creiamo spazio in noi stessi per l’altro/a rendendolo/la parte di essa. Ne consegue che solo colui/lei che trova spazio in noi diventa per noi fonte di felicità. A questo punto dobbiamo in parte contraddire Hildebrand, partendo dalle sue stesse affermazioni, infatti, anche il prossimo può essere fonte di felicità, perché amare rende felici quanto l’essere amati e quindi l’esperienza di amare un prossimo può renderci in certi momenti anche più felici dell’essere amati da un amico/a ad esempio per il solo fatto che l’atteggiamento di amare ci riempie di felicità. È comprensibile che

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Hildebrand consideri l’amore reciproco come la più grande fonte di felicità, pur non essendo la reciprocità una caratteristica specifica dell’amore al prossimo, ma se l’amore stesso crea felicità, allora l’oggetto di quell’amore, il prossimo, è in certo modo veramente “marginale”. Che abbia quel determinato grado di amabilità che sola fa scattare un amore naturale per lui/lei, questo non è importante per colui/lei che vuole amare, perché il suo amore troverà pieno compimento nell’atto stesso di amare. Hildebrand si riferisce, comunque, al tema della felicità anche perché vede l’altro, l’oggetto d’amore, come fonte di felicità, indipendentemente dalla direzione dell’amore (amare – essere amati). Quindi dovremmo distinguere e parlare di una graduale intensità di felicità che si sperimenta attraverso l’amore al prossimo o attraverso l’amore naturale, perché la felicità che un amante evoca in noi si basa su diversi elementi, non solo sul nostro amore per lui/lei, ma anche in modo speciale sulla sua bellezza e sull’amore che riceviamo da lui/lei, che agisce costantemente in noi (l’amato/a è quindi fonte di felicità – il prossimo di per sé non è fonte di felicità). La felicità che un prossimo ci procura è temporanea e si basa principalmente sul nostro atteggiamento di amore (amare crea felicità proprio come l’essere amati). Di conseguenza si potrebbe affermare che l’amore al prossimo sia eroico? Se si guarda al fatto che esso non sia fonte di felicità tanto quanto i tipi naturali di amore e che richieda un costante andare verso l’altro/a – cosa che può portare all’esaurimento di sé – si deve rispondere positivamente e affermare che l’amore al prossimo ha in sé qualcosa di eroico. È così comprensibile il motivo per cui Hildebrand distingue tra un amore naturale e un amore cristiano, che nella sua visione è amore in senso pieno, perché solo la fede in Dio supporta una forte fiducia negli esseri umani e garantisce che tutti siano visti come preziosi in sé.

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In questo contesto la posizione di Hildebrand è in contrasto con la visione di Hartmann, che nega la connessione tra amore al prossimo e fede, basandosi sulla convinzione che il valore del prossimo sia chiaramente riconoscibile da parte di tutti8, affermazione tuttavia contestabile. Ci sono molte persone che non possiedono un codice etico e, l’amore al prossimo visto da Hildebrand, differentemente da Hartmann, è proprio l’asse dell’etica. È vero che esiste una cecità morale che non consente di riconoscere il valore altrui, e anche nel quadro della moralità è già stato dimostrato quanto l’amore al prossimo, spesso non sia altro che una pura attitudine o una virtù basata sull’educazione o pura benevolenza, ma tutto ciò non è amore nel senso più profondo. Ci sembra, quindi, che abbia senso e sia giustificata la distinzione hildebrandiana tra l’amore al prossimo profondamente ancorato alla fede e altre forme di benevolenza, positive e preziose in se stesse, ma non al punto da essere definite amore.

1.3. La corporeità Un punto molto importante nel contesto di un’indagine sul fenomeno dell’amore è la dimensione della corporeità. Sebbene Hildebrand si occupi ampiamente delle varie categorie di amore, non ci siamo imbattuti in specifiche riflessioni sull’aspetto della corporeità, né tanto meno in considerazioni a margine. Ciò che emerge nei suoi scritti è indubbiamente la chiara opposizione alla frequente equiparazione dell’amore con la sensualità9, ma non si pone la questione del ruolo che la sensualità effettivamente svolga nelle varie forme di amore.

8.  Cfr. N. Hartmann, Ethik, cit., § VI, pp. 449-460. 9.  Su questo tema si veda ad esempio A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, testo tedesco a fronte, a cura di S. Giametta,

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Dove troviamo un esplicito riferimento al ruolo del corpo al­ l’interno delle relazioni d’amore è esclusivamente nell’ambito dell’amore sponsale/coniugale, nello specifico nel piccolo libretto Man and Woman, dedicato in generale al maschile e al femminile e al loro modo di relazionarsi. Qui Hildebrand afferma la centralità del corpo dell’amato/a con il/la quale si desidera un’unione che comprende la persona nella sua totalità, fino all’unione dei corpi fisici: Nell’amore sponsale, il corpo dell’amato assume un fascino unico, come il vessillo dell’anima di questa persona, come se incarnasse in modo unico il fascino generale e l’attrazione che la femminilità ha per l’uomo, o la virilità ha per la donna. L’amore sponsale aspira all’unione corporea come appagamento specifico della totale unione, come unica, profonda, mutua donazione di sé. Se qualcuno ama un’altra persona con amore sponsale, realizza il mistero dell’unione corporea e aspira ad essa, perché ama l’altra persona.10

L’amore per l’altra persona fa desiderare la completa unione con la medesima, unione che è corporea nel senso più pieno del termine tedesco leiblich: non si guarda, perciò, a un mero Körper (corpo materiale), un contenitore che può apportare godimento, bensì a un corpo vivente, cioè un corpo animato, attraversato non soltanto dal soffio vivente, ma da tutte le dimensioni propriamente umane di intelletto, volontà e affetti. Scorporare la pura fisicità dall’interiorità di un essere umano significa per Hildebrand automaticamente declassarlo e non considerarlo più una persona; ma l’amore è rivolto solo ad esseri personali che vengono riconosciuti e trattati come tali. Dunque, desiderare il solo corpo dell’altro/a, senza voler anche raggiungere una reale unione spirituale con lui/lei non può Bompiani, Milano 2006, Supplementi al Quarto Libro, cap. 44, Metafisica dell’amore sessuale, pp. 1991-2057. 10.  MW, p. 47.

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essere espressione di amore, ma solo di mero ego-centrismo, puro desiderio narcisistico volto ad “usare” l’altro/a per il proprio godimento e la propria felicità. La stessa sfera sessuale, guardata fenomenologicamente, rivela per il Nostro una differenza dai puri istinti e appetiti: Ha un tipo di profondità che non possiede né la sete né la fame né il bisogno di dormire né alcun desiderio di altri piaceri corporei. Il sesso ha un carattere misterioso, qualcosa che irradia nella nostra vita psichica e che non si trova né nel desiderio di mangiare né nel piacere che procura la soddisfazione di questo desiderio.11

Si tratta dell’unità assoluta che l’essere umano rappresenta nei suoi strati corporei, per cui la sessualità risulta espressione di psiche e spirito oltre che della genitalità. Hildebrand si muove sul comune territorio delle analisi fenomenologiche già condotte da Husserl e particolarmente sviluppate dall’antropologia steiniana con un esplicito riferimento alla lettura cristiana, di matrice prevalentemente tomista. Non c’è moto fisiologico che non abbia delle parallele espressioni psichiche e viceversa, e in più la dimensione del Geist/spirito non può che esprimersi se non mediante il corpo e, quindi, anch’essa in profonda unità di Leib/corpo vivente. Il sesso esprime qualcosa di assolutamente intimo, che non ritroviamo in nessuno degli altri istinti, neanche nella sofferenza che, a detta di Hildebrand, risulta meno intima della sessualità e più condivisibile. Ciò è legato a una profondità che abita la sessualità rendendola in qualche modo misteriosa; ecco perché essa spinge a una completa e intima – segreta direbbe Hildebrand – unione con l’amato/a. Perciò, tutto quanto deriva dal corpo fa parte del gioco d’amore tra un uomo e una donna, ovvero il fascino e l’attrazione dei corpi per la loro fisi11.  MW, p. 49.

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cità, ma non ammette pubblico: non provare senso di vergogna nella propria espressione corporea, svendendola in pubblico12, significa muoversi a un basso livello valoriale, o meglio nella sola sfera dei valori vitali e annullare, così, la sfera di quelli spirituali con le conseguenze di non poter/saper amare – anche quando si sia stati mossi da amore a scegliere una persona e a sposarsi con questa13. Effettivamente, Hildebrand non trova accordo nella sua visione della sessualità neanche con alcuni pensatori cristiani che ridurrebbero la sessualità a un istinto o a un fatto puramente biologico, legato alla sola procreazione14. L’intento di Hildebrand è, invece, rimarcare l’imprescindibile unità della persona e quindi il profondo valore della sfera sessuale come espressione del sé più intimo e perciò anche ricerca di quella unione 12.  Basti pensare a come nella nostra società occidentale il corpo, fondamentalmente quello femminile – tra l’altro –, sia appunto svenduto in un uso pubblicitario, come oggetto allusivo di piaceri e conseguenti soddisfazioni; per non parlare poi della sfera del pornografico e tutto quanto essa produce. Se si legge qualche intervista o racconto di attrici di film porno è evidente la chiara dissociazione che devono operare sulla propria persona, tagliando via tutta la sfera psichico-spirituale per poter usare il proprio corpo fisico: in questi casi si può certamente equiparare l’istinto sessuale – che chiamerei anche solo genitale per rendere giustizia ai differenti piani dell’umano – a un qualsiasi altro istinto (cfr. M. Marzano, La fine del desiderio. Riflessioni sulla pornografia, Mondadori, Milano 2012). Hildebrand esprime ciò affermando: «Appena non ci si vergogna più a proiettare questa sfera nel pubblico regno, non appena la si affronti come se fosse solo un problema biologico che può essere discusso pubblicamente come qualsiasi problema medico, inevitabilmente si uccide il vero fascino e il carattere misterioso che il sesso possiede» (MW, p. 50). 13. Cfr. MW, p. 51. 14.  Questa posizione, per un periodo storico anche progressista, non implica la non considerazione da parte di Hildebrand della dimensione di moralità legata alla sessualità. In Man and Woman, infatti, dedica un piccolo capitoletto proprio ad affrontare i problemi morali legati a un cattivo uso del nostro corpo (cfr. MW, cap. VI: The Moral Implications of Sexuality, pp. 75-81).

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che solo gli autentici amanti desiderano e cercano come totale self-donation, donazione di sé. Il corpo da solo non esprime la persona umana e poiché l’amore dice persona, non può essere slegato dalla corporeità, pur con le differenti gradazioni e possibilità di espressione della medesima. Infatti, come già accennavamo, l’espressione puramente fisica dell’unione matrimoniale può arrivare soltanto come un’espressione della medesima e dopo che sia già avvenuta quella spirituale tra i due amanti. In definitiva, la corporeità gioca un ruolo fondamentale per l’amore, essendo una dimensione intrinseca dell’essere persona; tuttavia, cogliendo i “non-detti” di Hildebrand, riteniamo che questa sfera non sia ingaggiata in amore soltanto quando si intende l’amore sponsale, ovvero quell’unica specifica categoria di amore umano, per la quale troviamo un’esplicita tematizzazione, ma vi riconosciamo quel luogo nel quale solamente l’amore umano in generale si possa comprendere e sperimentare. Parlando, infatti di psiche e di spirito, ovvero di tutti quegli aspetti incontrati nel percorso fatto, – il riconoscimento della bellezza dell’altro/a (che non è prerogativa dell’amore sponsale, ma dell’amore in quanto tale), la ricerca del suo bene e della sua felicità, lo sguardo l’un nell’altro/a, il condividere esperienze, la cura dell’altro/a, ecc. – non possiamo ritenere che il corpo ne sia separato. Tutta la persona partecipa con gesti, sguardi, parole, azioni e, per logica conseguenza, non possiamo non derivare dal desiderio di unione e di benevolenza – asse centrale dell’amore naturale – tutto questo emisfero di espressioni corporee; anzi, immaginiamo che quanto più sia autentica e forte la risposta al valore di amabilità di una persona (al di là della tipologia di relazione che si possa instaurare), tanto più differenziate e ricercate saranno le espressioni corporee che la accompagneranno rendendola a sua volta esplicita per l’amato/a. Il confronto con Karol Wojtyla renderà espliciti questi ultimi aspetti andando ad arricchire così la visione dell’amore già ampiamente esplicitata da Hildebrand.

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1.4. Il tempo in amore Un altro aspetto brevemente accennato e, a nostro avviso di grande rilevanza per l’amore, è la dimensione del tempo, infatti, l’amore nella storia umana ha sempre avuto un legame essenziale con la temporalità, specialmente in relazione all’eternità. Hildebrand sottolinea l’importanza di un passato ed evidenzia un aspetto negativo del momento presente, ma non spiega come l’amore sia legato al tempo e, in particolare, fino a che punto il carattere superattuale dell’amore abbia, ad esempio, a che fare con la “durabilità” e di conseguenza se le forme di amore possano essere distinte anche in termini di tempo. L’argomento viene sfiorato, ma non esplicitato, perché l’analisi fenomenologica dell’amore ce lo restituisce quasi in un’istantanea che lo ritrae nelle sue fattezze atemporali, se non per quanto riguarda una caratterizzazione dell’amore che è la superattualità. Ne abbiamo già brevemente parlato, ma riprendiamo ora la questione per provare a scavare maggiormente sulla sua eventuale incisività rispetto al fenomeno dell’amore. Quando diciamo che una certa presa di posizione è superattuale, intendiamo primariamente che essa non ha un carattere di pura istantaneità, nel senso che una volta presa non viene meno; è, come afferma Hildebrand stesso, «la durata della validità della persona pronunciata nella presa di posizione»15. Ciò significa che le nostre prese di posizione di fronte a persone, ma anche a oggetti – nello specifico, nelle analisi hildebrandiane, torna l’esempio della stima – permangono, durano in noi dal momento in cui le abbiamo espresse e non necessitano di continui stimoli per essere riconfermate: se, appunto, provo stima per una data persona, non smetterò di farlo nel momento in cui questa persona non è più in mia presenza o se dovesse compiere un errore. L’amore non è una risposta superattuale in questo senso, perché la per15.  EA, p. 159.

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manenza non riguarda più soltanto la validità della parola data, ma l’atto stesso, così che l’amore continua a vivere nella nostra anima, al di sopra e oltre la pura attualità che l’ha fatta scaturire e anche oltre le singole attualità che la potranno riattualizzare per la presenza dell’amato/a. La superattualità dell’amore è dunque una durata di profondità, potremmo quasi definirla un tempo nel tempo, perché tale risposta al valore si colloca nella profondità del nostro spirito16, crea lo sfondo a tutte le altre attività che possiamo svolgere, tutti i vissuti attuali, giocando così un ruolo materiale e formale per tutta la vita spirituale. Quindi, chi ama vive e si realizza come persona in maniera del tutto diversa da chi non ama, perché tutto ciò che fa e dice esprime presenza o assenza di amore. Ora, questo carattere di continuità che assume l’amore in qualità di risposta al valore, ci dice che esso vive, in un certo senso, di attimi, perché c’è un momento ben preciso nel quale l’incontro con una persona fa sorgere in noi una risposta al suo valore, ma questo momento, divenendo superattuale, viene a costituire una costante di durata che tende a riattualizzarsi e, con ciò, a vivere di sempre nuovi momenti con l’amato/a che rendono viva o “ripetono” quella parola detta la prima volta. Perciò, l’amore sembra non avere un passato e un futuro, ma vive di un perenne presente, dunque, in una circolarità che muove verso un fine specifico, ma in ogni istante ridice tutto ciò che una risposta d’amore esprime (collocazione su un trono, credito di fede, ecc.). Eppure, l’amore umano non è eterno ed è soggetto a una linearità che da un passato muove nel presente verso un con16.  Non va, però, per questo confusa con l’inconscio, come Hildebrand avverte; infatti «le prese di posizione nella sfera superattuale ci sono pienamente coscienti nel senso che ne siamo consapevoli, ci sono note […]. E formano un netto contrasto con i vissuti subconsci o addirittura “rimossi”» (EA, p. 163). Anzi, Hildebrand propone di chiamare i vissuti superattuali sovraconscio, per sottolineare quanto siano a noi presenti.

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tinuo divenire futuro, fino a un momento finale, in cui non ci sarà più un giorno futuro. Se, l’amore è risposta superattuale non può che seguirne una sua “eternizzazione”, ovvero il perenne riattualizzarsi che non necessita di una costante presenza dell’amato/a; l’amore, quindi, non potrà che continuare a persistere anche nel momento in cui l’amato/a non potrà più tornare a rendersi presente in carne e ossa. Probabilmente, i drammi d’amore legati al tempo finito – tanto ben espressi dalle correnti Romantiche – restano per Hildebrand relegati alle sole forme di amore naturale che non si lasciano innervare dalla carità e quindi ancorare in Dio; quando, cioè, lo sguardo per l’amato/a non è così spossessato di sé e sbilanciato nel tu da permanere la necessità di incontro, contatto, presenza. Ma può questa spiegazione davvero bastare? Vedremo a questo proposito quanto alcune considerazioni di Ortega y Gasset, Solov’ëv e Marion siano arricchenti se messe in dialogo con quanto detto.

1.5. Amare: una questione di responsabilità? Quando abbiamo menzionato gli aspetti etici dell’amore abbiamo chiarito anche l’importante influenza dell’amante sulla persona amata, puntualizzando che Hildebrand ritiene deprecabile qualsiasi tipo di compromesso tra il bene morale e il bene oggettivo per l’amato/a a spese del bene morale. Ciò include il senso di responsabilità, termine usato sempre in modo parco da Hildebrand. Ma qual è il significato di questa responsabilità d’amore? È un atteggiamento puramente morale, che trova posto nel contesto etico o va compreso più in profondità? Inoltre, verso chi è diretta veramente la nostra responsabilità? In effetti, quando Hildebrand dedica la sua attenzione alla responsabilità lo fa in termini chiaramente etici, sostenendo che essa sia propriamente espressione di un agire e vivere morali, oltre che più specifi-

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camente la base di una vita religiosa. La responsabilità, viene, infatti, affiancata alla riverenza come attitudini di base per una concezione religiosa del mondo. Allora non si tratta soltanto di un atteggiamento etico legato a delle norme di convivenza – in tal senso si potrebbe intendere, ad esempio, la responsabilità di un marito per una moglie o verso dei figli, nel prendersi cura di loro, a seguito del contratto sociale sottoscritto – bensì di un qualcosa di profondamente radicato nella natura umana, per la sua facoltà di conoscere e accogliere valori. La persona è consapevole della responsabilità di tributo verso un valore e la mancanza che ne deriva. È sempre un atteggiamento etico, ma ci sembra più intrinseco alla persona per quanto definita portatrice di valori: «solo l’essere umano con tale coscienza della responsabilità può giustamente apprezzare l’impatto della richiesta che viene dal mondo dei valori»17. In tal senso la responsabilità è profondamente legata all’amore sia come “obbligo morale” di rispondere a un valore riconosciuto e quindi non negare l’amore (di cui abbiamo ampiamente discusso nel precedente capitolo), sia come espressione di fedeltà interiore al valore riconosciuto e alla risposta ad esso data. Questo ci sembra sia l’aspetto più profondo della responsabilità, così come è intesa da Hildebrand, qualcosa di metafisico che dice la profondità dell’essere umano; infatti, è legato al riconoscimento della serietà della vita, al coglimento non solo dello splendore e della bellezza interiore del mondo dei valori, ma della sua oggettiva sovranità. Wojtyla stabilisce una forte connessione etica con l’amore, in particolare tra responsabilità e amore sessuale. Dall’altra parte Welte e Marion rimandano in modo più esplicito a un più profondo senso della responsabilità all’interno dell’amore con un compito metafisico. 17.  D. von Hildebrand - A. von Hildebrand, The Art of Living, Hildebrand Project, Steubenville (OH) 2017, p. 20.

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2. Hildebrand in dialogo con alcuni pensatori del nostro tempo: sinfonia di voci In questa sezione finale riprendiamo qualche problema già menzionato, leggendolo in un confronto tra Hildebrand e alcuni filosofi del nostro tempo, quali Wojtyla, Solov’ëv, Ortega y Gasset, Welte e Marion, per aprire, infine, la strada all’ultimo passo, vale a dire a una prospettiva ontologica del­l’amore. Le prossime pagine sono intese come un primo tentativo di tematizzare e possibilmente interpretare la potenziale fecondità della filosofia di Hildebrand in relazione all’amore, ma anche dell’amore in generale come focus nuovo e significativo per la filosofia.

2.1. Amore come affermazione della persona: Hildebrand e Wojtyla Sebbene entrambe le ricerche filosofiche di Hildebrand e Wojtyla18 siano legate alla fenomenologia di Scheler e basate sulla sua etica del valore, i loro studi sull’amore danno vita a due approcci molto diversi. Hildebrand vorrebbe fare «un decisivo passo avanti nella ricerca filosofica sull’essenza dell’amo­re»19, da parte sua Wojtyla affronta nel suo libro Amore e responsabilità la questione etica dell’amore, come amore tra uomo e donna, con particolare riguardo all’insegnamento della Chiesa cattolica. Tuttavia, si possono scoprire molte somiglian-

18.  Karol Wojtyla (1920-2005), filosofo e teologo polacco prevalentemente noto come papa Giovanni Paolo II, si è ispirato nei suoi studi alla fenomenologia, in particolare all’approccio scheleriano. Nella sua breve carriera intellettuale, limitata dai difficili tempi di guerra, nonché dalla vocazione sacerdotale che gli richiese altri impegni, l’attenzione è volta particolarmente alle questioni antropologiche ed etiche. 19.  EA, p. 981.

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ze, che possono apparire diverse in termini di espressione, specialmente per quanto riguarda il tema della corporeità e sessualità, come pure la questione etica della responsabilità, ma che in sintesi giungono a risultati simili. Nella stessa prospettiva di Hildebrand, Wojtyla comprende l’amore come direttamente connesso alla persona, perciò «ammetteremo come punto di partenza che l’amore sia sempre un rapporto reciproco di persone»20, e questo perché solo la persona ha la capacità di cercare consapevolmente con gli altri un bene comune e di sottomettervisi. Con particolare enfasi sull’amore tra uomo e donna, argomento principale della sua indagine, Wojtyla vede una stretta connessione tra spiritualità e sessualità come elementi essenziali dell’amore nuziale. Se l’amore è caratterizzato da benevolenza in risposta al particolare valore di una persona, da un intenso desiderio come caratteristica tipica dell’amore tra uomo e donna, intesa in senso platonico21, dalla benevolenza come amor – o con le parole di Hildebrand – come intenzione benevolente, e non per ultimo dalla piena affermazione del valore della persona in quanto tale, è proprio nell’amore nuziale che entra in gioco il carattere di dedizione completa di sé. Solo in questa forma di amore accade qualcosa di straordinario, vale a dire il completo dono di una persona a un’altra. Questa donazione si esprime in modo spirituale e nell’amore nuziale con l’unione fisica.

20.  K. Wojtyla, Amore e responsabilità, cit., p. 63. 21.  L’uomo e la donna sono di per sé incompleti, hanno i loro limiti e si necessitano reciprocamente per completarsi; «questo bisogno oggettivo si manifesta attraverso la tendenza sessuale sulla cui base tra loro nasce l’amore» (ivi, p. 70). A motivo della mancanza da ambo le parti, l’amore di desiderio è di per sé buono perché di fatto non è un puro bramare, in quanto l’uomo e la donna stanno uno di fronte all’altra come un bene uno per l’altra. In modo simile anche Tommaso d’Aquino concepisce l’amore come un desiderio che può essere compreso differentemente.

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2.1.1. La dimensione del corpo vivo Wojtyla si concentra su una differenziazione tra la sensualità e la tenerezza che ritroviamo anche in Hildebrand22 seppur con accenti diversi. Wojtyla parte dal fatto che già soltanto per la simpatia che si può provare per tutti gli esseri viventi, fosse anche solo mediante una descrizione immaginaria dell’esperienza interiore – come nel caso dell’animale o della pianta – si può fare esperienza di una forma di tenerezza. Ma poiché gli esseri umani ci sono più vicini degli altri esseri viventi, la tenerezza è di solito espressa verso di loro, o sono loro più probabilmente a evocare in noi questo sentimento. La tenerezza «consiste in una tendenza a far propri gli stati d’animo di un altro»23, ma questa tendenza non rimane chiusa in noi, cioè come esperienza interiore, perché desideriamo in genere far sapere agli altri di voler partecipare alla loro vita; per questo la tenerezza cerca la propria espressione mediante il corpo. Attraverso vari atti, che sono tra loro molto differenti si esprime la stessa cosa, ovvero la vicinanza interiore all’altro/a; tra essi risultano: «il gesto di serrare qualcuno contro di sé, di abbracciarlo, o semplicemente di prenderlo sottobraccio, […] certe forme di bacio»24. Secondo Wojtyla fa parte dell’essenza della tenerezza anche una certa intimità con il partner, poiché si tratta di qualcosa di personale, intimo, privato, che si può esprimere e donare soltanto a chi sa accoglierlo e al/la quale lo si voglia donare. Hildebrand si esprime in modo simile quando riflette sull’amore nuziale e sulle sue implicazioni etiche nell’area della sensualità. A suo avviso la tenerezza rappresenta un ambito diverso

22. Cfr. RJ, pp. 88-119. 23.  K. Wojtyla, Amore e responsabilità, cit., p. 187. 24.  Ibidem.

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della sensualità, essa non è presente solo nell’amore nuziale, ma svolge in esso una funzione tutta speciale, cioè “trasfigurare” la sensualità. Contrariamente a Wojtyla, la tenerezza di Hildebrand è una di quelle espressioni dell’amore che hanno raggiunto una qualità tale25, da non apparire singolarmente, ma sempre come espressione dell’amore nel suo complesso. Ne conseguono una sorta di distensione e un sentimento di dolcezza che s’impadroniscono dell’amante quando l’intenzione benevolente è più forte dell’intenzione unitiva. «In un modo del tutto particolare si desidera raggiungere l’altro con l’“elixir” dell’amore benevolo, lo si vuole rivestire e avvolgere in esso»26. Le espressioni concrete di questo affetto interiore sono qui secondarie, sebbene rappresentino chiaramente una via più diretta, come ad esempio gli atti concreti di benevolenza. I gesti di tenerezza raggiungono immediatamente l’altro/a e cancellano le distanze tra coloro che si amano. Questa immediatezza dell’amore, che si fa strada nella tenerezza, supera tutti gli altri modi di “raggiungere” l’altro/a, come, ad esempio, con oggetti che creano uno spazio intermedio e perciò non esprimono una immediatezza della relazione. Non tutte le espressioni di tenerezza sono, però, soltanto espressione di bontà; il bacio, ad esempio, è un’espressione dell’intenzione unitiva, anche se ciò non si limita all’amore nuziale. Esso si riscontra anche nell’amicizia e nell’amore tra genitori e

25.  Hildebrand spiega in altro luogo cosa va inteso per “determinate qualità”. La tenerezza può comparire soltanto se la benevolenza nell’amore non è troppo debole e l’amore è veramente tematico: solo quando un amore è tematico si ha anche l’esigenza di tali effusioni dirette quali quelle della tenerezza e solo allora un tale trattenersi con l’altro/a è particolarmente pregnante e ha conseguenze per la relazione (cfr. RJ, pp. 113-114). 26. Cfr. RJ, p. 11.

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figli; in ogni forma di amore il bacio ha una diversa connotazione, ma nell’essenza è sempre uno speciale tocco spirituale27 fra due persone, esso esprime in modo particolare lo sguardo l’un per l’altro/a dell’amore. Le espressioni di tenerezza hanno, dunque, in Hildebrand un doppio significato: trasmissione dell’essenza della bontà e realizzazione dell’intenzione unitiva. Tali elementi fanno riferimento a una caratteristica tipica della persona, perché solo gli esseri umani che sperimentano una piena compenetrazione di corpo e anima sono anche capaci di autentica tenerezza. Come chiarito all’inizio, la tenerezza rappresenta qualcosa di peculiare nel campo della sensualità e Wojtyla lo sottolinea quando afferma che essa è possibile solo tra persone, come esperienza di presenza e vicinanza, mentre la sensualità è orientata al sesso e al corpo fisico. Tuttavia, anche la tenerezza può trasformarsi in sensualità e perdere il suo orientamento interiore verso l’altro/a e la dedizione a lui/lei. 27.  Non è raro ritrovare proprio il bacio come una tipica espressione mistica di contatto tra una persona e Dio. Il bacio è espressione di donazione e comunicazione speciale tra amanti che vengono interpretati come “manifestazioni simboliche” di Dio e del suo popolo nel Cantico dei Cantici. Da lì ha tratto ispirazione tanta letteratura mistica (Giovanni della Croce, Teresa D’Avila, ecc.) nella quale il bacio rappresenta prevalentemente il legame sponsale tra l’anima e Dio, dunque il matrimonio spirituale; tuttavia, se ne possono individuare due usi: «Nella terminologia mistica c’è un duplice significato. Può essere un tocco sostanziale di Dio all’anima che le fa sperimentare il più alto grado di orazione contemplativa; però è una grazia attuale di tempo limitato e che si esaurisce, lasciando la persona nel desiderio di risperimentarlo. Quando il b. invece designa uno stato di intimità vitale tra l’anima e Cristo, tra l’anima e Dio, allora può essere descritto come una condizione stabile di pace e di rapporto amoroso che rende la persona estranea alle turbolenze del mondo, tranquilla nell’area della propria sensualità, felice in Dio» (G.G. Pesenti, voce Bacio, in L. Borriello et al. [a cura di], Dizionario di Mistica, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 1998, p. 191).

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In direzione completamente diversa va la posizione di Hildebrand, quando parla della tenerezza come “trasfigurazione” della sensualità, pur vissuta nella relazione tra uomo e donna come realizzazione dell’intenzione unitiva. In essa è certamente espresso un atteggiamento positivo nei confronti della corporeità e del suo ruolo speciale nell’amore, perché amare qualcuno comporta il desiderio di esprimersi fisicamente – non tanto e non solo per soddisfare un bisogno puramente fisico – che sarebbe in contraddizione con l’amore, che secondo Hildebrand non è in alcun modo un desiderio carnale, ma che Wojtyla invece presuppone, almeno per quanto riguarda l’amore nuziale. La tenerezza rappresenta anche per Hildebrand un aspetto essenziale dell’amore e dà un contributo molto importante, purché sia “educata” moralmente al fine di evitare all’amore alcuni dei suoi pericoli. Con ciò egli limita il giudizio positivo, impartendo alla tenerezza un compito quasi religioso, che invece non si incontra in Wojtyla. Il valore della sensualità nella concezione hildebrandiana dell’amore occupa di conseguenza un posto28 diverso rispetto a Wojtyla e mostra ancora quanto sia profondo e onnicomprensivo l’amore – che d’altro canto sottostà alle intenzioni stesse con le quali i due pensatori affrontano il tema. La dimensione della corporeità è, infatti, coinvolta fin dall’inizio, come abbiamo visto in precedenza, perché essenzialmente umana; il nostro corpo è la via per uscire fuori e, proprio grazie alla percezione dei sensi, possiamo sperimentare ed esprimere l’amore in modo del tutto peculiare. 28.  Comune a entrambi gli autori è certamente il background etico cristiano; infatti, entrambi vedono nella sensualità un elemento completo e importante per l’amore tra uomo e donna, elemento che viene inserito però nel matrimonio – dunque in una relazione stabile – nel quale i due amanti, in reciproca responsabilità, hanno già preso una decisione l’uno per l’altra. Solo quando la sensualità proviene pienamente dall’amore, esso è espressione della piena e reciproca dedizione. Cfr. nello specifico: RJ e MW; per Wojtyla, cfr. Amore e responsabilità, cit., cap. I, pp. 9-59.

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La sfera specifica della sensualità29 può, comunque, anche essere vista indipendentemente dalla corporeità e, in tal senso, non è necessaria per comprendere il fenomeno dell’amore: «Possiamo chiarire la natura dell’amore senza alcun riferimento all’esistenza di una sfera sensuale, anzi solo allora possiamo comprendere appieno la qualità del vero atto d’amore»30. In questo modo l’amore tra uomo e donna non ha un “ruolo speciale” all’interno delle forme di amore e, pur con il suo carattere e le sue qualità inconfondibili, rimane una categoria di amore naturale accanto alle altre e, come tutte le altre, esposta ai pericoli dell’amore. 2.1.2. La molla dell’amore: il piacere Potrebbe essere questo il motivo per cui Hildebrand trascura o esclude il carattere del piacere nell’amore? Abbiamo sopra brevemente descritto che cosa faccia scattare l’amore secondo Wojtyla, e non solo tra uomo e donna, e come il piacere assuma dal suo punto di vista il primo posto; esso è un aspetto essenziale dell’amore quasi sempre collegato a una prima impressione sensuale. In ciò giocano un ruolo importante le emozioni e la volontà, perché i valori percepiti nell’altra persona, producendo il piacere della simpatia, chiamano un’accettazione positiva e consapevole da parte della persona, cioè una volontà di piacere. In questo senso il piacere è il primo stadio dell’amore: “Trovo piacere nell’altro/a” è in qualche modo 29.  Hildebrand spiega a riguardo come la sfera della sensualità sia di per sé da distinguere dal generico concetto della corporeità, perché la sensualità è essenzialmente più profonda delle altre esperienze corporee: le percezioni della corporeità afferrano l’anima così che corpo e anima si toccano. In questa sfera si raggiunge perciò un’intimità che istintivamente si nasconderebbe agli altri (cfr. RJ, pp. 13-18). 30.  RJ, p. 20.

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una forma di amore, anche se l’amore non deve essere inteso come mera attrazione. A questo livello emozionale, tuttavia, ci si muove come ciechi, perché, dato che il piacere in genere nasce spontaneamente e inaspettatamente, esso può favorire, ma anche ostacolare l’amore, perché la prima impressione che si ottiene dell’altro/a può tradursi in un quadro sfasato e non corrispondente alla realtà o, comunque, incompleto per cui non si riconosce l’altra persona nella verità e non le si rende giustizia. Pertanto, il piacere deve essere legato all’esperienza dei valori, in modo che la nostra risposta non sia solo risposta a determinate qualità, ma anche e soprattutto al valore della persona in quanto tale. A questo proposito il piacere sembra svolgere un ruolo molto speciale nell’amore tra uomo e donna, tanto che Wojtyla ammette che esso sia la prima molla di attrazione31, cui fa seguito il riconoscimento del valore della persona in quanto tale. Hildebrand, molto probabilmente, ha trascurato il piacere, perché non lo considerava un aspetto essenziale dell’amore, dato che non si riscontra in tutte le categorie di amore naturale (pensiamo all’amore dei genitori o dei figli): qui la miccia dell’amore non è il piacere, ma il valore della persona. L’elemento del piacere o simpatia distinguerebbe troppo fortemente l’amore nuziale dalle altre categorie d’amore e porterebbe a considerazioni psicologiche sull’amore che Hildebrand, invece, ignora completamente e riteniamo che lo faccia a ragione, in quanto in uno studio etico esse svolgerebbero un ruolo più ampio che in una metafisica dell’amore.

31.  Nel prediligere il piacere Wojtyla non è solo lontano dalla posizione di Hildebrand, ma ancor di più da Scheler, perché l’elemento del piacere rappresenta un carattere reattivo dell’amore. Quando si è primariamente attratti da qualcosa di determinato, qualcosa che ci piace e col quale siamo in accordo, allora l’amore è una semplice reazione. Con ciò l’amore perde definitivamente di spontaneità. La spontaneità e il carattere attivo sono, però, proprio gli elementi decisivi che secondo Scheler costituiscono l’amore.

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D’altra parte, è immaginabile che nel caso dell’amore nuziale, dietro il valore della bellezza e preziosità dell’altro/a, che cogliamo e a cui reagiamo nell’atto d’amore, agisca anche il piacere, perché deve “piacere” ciò che è speciale e unico nell’altro/a, per innescare in noi l’amore. Tuttavia, la risposta al valore non è reattiva, perché sebbene la “chiamata” provenga dall’altra persona, rispondere a questa chiamata rimane attività nostra, avviene cioè una scelta e l’apertura ad accettare questa chiamata. Tutto ciò implica volontà, nel senso che vogliamo ascoltare la chiamata dell’altro/a e aprirci di conseguenza ad essa. 2.1.3. La problematica questione della volontà Eccoci a un altro punto controverso circa la comprensione dell’amore in Wojtyla e in Hildebrand, cioè quale ruolo giochi la volontà nell’amore. Wojtyla ne parla spesso, specialmente in relazione all’amicizia e all’amore nuziale; egli è dell’opinione che «l’amicizia esige un impegno serio della volontà, oggettivamente fondato»32, perché si vuole per l’amico/a lo stesso bene che per se stessi e ci si impegnerà per esso attivamente33. Hildebrand d’altra parte, fin dall’inizio della sua fenomenologia dell’amore, mette la volontà fuori gioco e non la considera, perché il bene per l’altro/a, l’intenzione benevolente, è innanzitutto un elemento comune a tutte le categorie di amore e non solo all’amicizia e poi non è l’elemento più importante. La perplessità di J.F. Crosby al riguardo induce a un allargamento dell’interpretazione su entrambi i pensatori per quanto concerne il ruolo della volontà, apertura cui è stata ancora pre32.  K. Wojtyla, Amore e responsabilità, cit., p. 81. 33.  Qui si potrebbero sostituire le parole di Wojtyla con quelle di Aristotele, tanto sono vicine le posizioni dei due filosofi.

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stata poca attenzione34. La base etica di Wojtyla sottende che l’amore non sia solo esperienza, ma anche virtù e come tale va ancorata alla volontà. In questo senso, attraverso la volontà, l’amore è pienamente orientato al valore della persona. «È dunque la volontà la fonte di questa affermazione, che permea tutte le reazioni, tutto ciò che si sente, tutto il comportamento»35. Senza la volontà l’essere umano è, secondo il pensatore polacco, completamente in balia dei suoi istinti e non può quindi sviluppare un vero amore, rimanendo costantemente soggetto al pericolo dell’egoismo e dell’utilitarismo. Ciò non significa che l’amore secondo Wojtyla sia una risposta della volontà, cosa che Hildebrand non accetta affatto, ma è vero che il carattere etico della virtù sembra essere più essenziale di altri elementi. D’altro canto, l’importanza data da Hildebrand all’impegno dell’amante nei confronti della persona amata, nonché all’intenzione benevolente, a ben guardare mostra una presenza necessaria della volontà, perché altrimenti sia l’impegno che la benevolenza sarebbero impossibili. È anche vero che proprio perché amiamo l’altro/a, vogliamo il suo bene36 e questo atteggiamento è così essenziale per il suo carattere di risposta al valore che, secondo noi, esclude la considerazione dell’amore come virtù, anzi deve escluderla, per essere coerente. Se si ama davvero, si è completamente rivolti verso l’altro/a e in questo volgersi verso di lui/lei, che in fondo è dedizione, si desidera il suo bene, quindi la volontà gioca, sì, un ruolo importante, ma in un secondo momento, come decisione di rimanere fedele a questo impegno. Ciò significa che il problema

34.  Cfr. J.F. Crosby, Introductory Study, cit., pp. xxxi-xxxii. 35.  K. Wojtyla, Amore e responsabilità, cit., p. 111. 36.  Già soltanto le espressioni linguistiche fanno chiarezza: non si dice “sento che ti debba andare bene” perché sarebbe una contraddizione in termini, ma piuttosto “desidero/voglio che tu stia bene”.

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della volontà sopra menzionato, come atto deliberato di aprirsi alla chiamata dell’altra persona, non è sostanzialmente in contraddizione con il carattere di risposta all’amore, perché la volontà non muove prima dell’amore, ma sopraggiunge come espressione di un atteggiamento personale. In pratica, non si tratta del “voler” amare questa persona e poi un’altra, ma del volere essere fondamentalmente aperti all’amore (oppure no). Solo dopo aver avuto un certo rapporto d’amore con una persona, quando cioè le abbiamo risposto affermando il suo valore, la volontà è chiamata a prendere posizione e, come già evidenziato, a sostenere l’impegno con l’altra persona e la fedeltà nei suoi confronti. Se nel differente modo di vedere il fenomeno dell’amore si individua la ragione principale della considerazione contraria che i due pensatori hanno della volontà, le conseguenze non sembrano così irrilevanti; ad esempio, ne deriverà una maggiore o minore spontaneità37 dell’amore. Sebbene l’amore naturale sia soggetto a vari pericoli, a meno che la caritas non lo permei completamente, Hildebrand ritiene che in esso si mantenga la spontaneità dell’atto essenzialmente personale che consiste nella risposta al valore, nella conferma verso l’altro/a: “è bello che ci sei!”. Ciò mostra il carattere evidentemente metafisico della riflessione hildebrandiana, a differenza di quello esclusivamente etico di Wojtyla il quale, a causa della messa in campo della categoria di virtù applicata al fenomeno amore, relega a una faccenda morale anche una delle forme di amore naturale come quello sponsale. 37.  Nicolai Hartmann identifica la spontaneità dell’amore con il suo carattere di tendenza; l’amore è per lui, infatti, l’originaria tendenza che afferma, che si dona e che costruisce; perciò non si può presupporre dietro di esso una volontà (un amore di volontà non è un amore vero), ma certamente un aspetto della volontà nell’amore stesso, come ad esempio nel desiderio per il bene dell’amato/a: in ciò, a nostro parere, Hartmann e Hildebrand concordano (cfr. N. Hartmann, Ethik, cit., pp. 536-537).

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2.1.4. Quadro di sintesi Dal dialogo tra Hildebrand e Wojtyla possiamo richiamare i seguenti aspetti: in primo luogo, il valore della sensualità, attraverso la tenerezza che caratterizza e perfeziona tutte le categorie di amore e che ha, per Hildebrand, una notevole carica positiva rispetto a Wojtyla. In secondo luogo, abbiamo chiarito quanto sia indipendente il fenomeno dell’amore dalla sensualità, sebbene essa abbia un ruolo importante. La comprensione di Hildebrand dell’amore come risposta al valore, piuttosto che risposta di desiderio come in Wojtyla, aiuta a comprendere meglio l’amore senza la necessità di un riferimento a un modello categoriale specifico. In terzo luogo, abbiamo affrontato direttamente la questione della volontà, alla quale Wojtyla attribuisce un ruolo più decisivo di Hildebrand; abbiamo poi costatato che il carattere della risposta al valore, se da una parte preclude la volontà come condizione, la include dall’altra come aspetto essenziale all’interno della relazione d’amore. L’amore mantiene così un carattere più spontaneo, contrariamente a quanto si possa riscontrare nel pensiero di Wojtyla.

2.2. Il “significato dell’amore”: Hildebrand e Solov’ëv Pur seguendo basi metodologiche diverse – l’uno fenomenologo, l’altro idealista, proveniente dalla scuola di Schelling – gli studi sull’amore di Hildebrand e Vladimir Solov’ëv38 si presentano simili.

38.  Vladimir Sergeevič Solov’ëv (1853-1900), pensatore russo di fine ’800, ha contribuito al pensiero cristiano ortodosso con la sua teosofia, da lui intesa come un processo integrativo dei saperi (filosofia e teologia, assieme alla

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Il filosofo russo si occupa della questione del significato/senso dell’amore, una domanda, quindi, chiaramente metafisica, che include in sé il principio ultimo. Hildebrand vuole innanzitutto portare alla luce l’essenza dell’amore, sebbene il fondamento metafisico dell’amore faccia sempre da sfondo. Detto altrimenti: Solov’ëv si chiede il “per che cosa” dell’amore e arriva alla risposta considerando anche la natura dell’amore; Hildebrand, invece, si chiede il “che cosa” (che fenomenologicamente parlando è anche un “come funziona”) dell’amore, trovandone poi il significato. Nella trattazione del tema, all’interno di un breve testo titolato Il significato dell’amore, Solov’ëv considera principalmente una forma di amore – quello tra uomo e donna – come esemplare per tutte le manifestazioni dell’amore. Hildebrand, invece, considera tutte le forme di amore portandole a un comune denominatore. L’orizzonte comune di entrambi poggia sull’esperienza cristiana che li ha formati non solo nella vita personale, ma anche come filosofi39. Attraverso la domanda diretta sul senso dell’amore Solov’ëv arriva a una risposta interessante, cioè che solo l’amore può superare la morte. La problematizzazione del tempo e della sensualità è il livello su cui le posizioni di Hildebrand e Solov’ëv possono essere reciprocamente integrate.

mistica) che porta a una conoscenza unitaria. Categorie centrali del suo pensiero sono la Divina Sapienza o Sophia, l’Unitotalità e l’Amore. 39.  John V. Walsh si confronta con entrambi i pensatori partendo dall’elemento originario della filosofia come amore per la sapienza e dal suo carattere perduto, che egli ritrova nell’esperienza religiosa di Solov’ëv e di Hildebrand. Egli dedica anche una particolare attenzione al tema della sessualità e della purezza che affrontano entrambi dandogli un significato eminente. Cfr. J.V. Walsh, Love and Philosophy, in B.V. Schwarz (a cura di), The Human Person and The World of Values. A Tribute to Dietrich von Hildebrand by his Friends in Philosophy, Fordham University Press, New York 1960, pp. 36-48.

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2.2.1. Compiti e limiti di un amore. L’amore sessuale Partendo dalla ricerca del significato dell’amore sessuale, Solov’ëv esclude sia la verifica attraverso la prole che l’impatto di questo amore sulla storia40, spostando, così, la domanda sulla persona che ama. L’essere umano sembra differire dagli altri esseri viventi per la capacità di verità, nel senso che è il solo a riconoscere e praticare la verità; anche se, a causa dell’egoismo, non ne ha piena consapevolezza. Per superare l’egoismo è necessaria una forza simile, ma opposta; altrimenti, l’essere umano vive come un animale e la verità non gli si rivela. Secondo Solov’ëv l’amore ha tale forza, perché soltanto esso preserva l’individualità senza annullarla, di conseguenza «il significato dell’amore umano in generale è la giustificazione e la salvezza dell’individualità attraverso il sacrificio dell’egoismo»41. Come può esserne capace l’amore sessuale? Permettendoci di riconoscere il significato assolutamente necessario dell’altro/a nei termini del sentire interiore e del volere pratico. Andare oltre i nostri limiti verso gli altri ci rivela la nostra verità e proprio nel momento in cui sembra che rinneghiamo noi stessi e ci mettiamo in seconda linea, in quel momento realizziamo noi stessi. 40.  Solov’ëv inizia la sua riflessione sull’amore sessuale partendo dalla costatazione abituale che il suo significato stia nella moltiplicazione della specie e, poiché ritiene che tale affermazione sia falsa, la esamina confrontando l’essere umano con l’animale; la conclusione a cui giunge è che «porre il significato dell’amore sessuale nella procreazione di una prole conforme a un determinato scopo significa vedere questo significato solo là dove l’amore è del tutto assente e privarlo, invece, là dove esiste, di ogni significato e di ogni giustificazione» (V.S. Solov’ëv, Il significato dell’amore, tr. it. e intr. di A. Dell’Asta, Edilibri, Milano 2003, p. 71). Anche l’osservazione della storia conduce allo stesso risultato, ovvero che l’amore sessuale non abbia direttamente influenza su ciò. Per un approfondimento facciamo riferimento ai primi due paragrafi del testo succitato. 41.  Ivi, p. 16.

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Questa conoscenza profonda – che in Hildebrand costituisce la base non solo dell’amore sessuale, ma di tutti i tipi di amore – si basa sull’unione di due esseri, che conduce da ambo le parti al divenire di un nuovo essere umano. In realtà è l’intenzione unitiva a portare gli amanti a una tale unione e a creare quel qualcosa di nuovo che perfeziona entrambi, in modo diverso in ciascuna categoria di amore. Secondo Solov’ëv, però, solo l’amore sessuale può soddisfare due requisiti fondamentali, essenziali per il completo superamento dell’egoismo: l’uguaglianza e la diversità totale delle proprietà complementari. Se questo è fondamentalmente vero, cioè se i due requisiti fondamentali di uguaglianza e diversità sono presenti solo nell’amore tra uomo e donna – perché, in effetti, uomo e donna a paragone, ad esempio, con uomo adulto e bambino, sono uguali e complementarmente diversi – rimane la domanda sul perché solo queste due componenti possano sconfiggere l’egoismo alle sue radici. Solov’ëv spiega che l’amore dei genitori non può, ad esempio, ottemperare a questo compito, non solo a causa della disuguaglianza delle parti – adulti e bambini – che Hildebrand a sua volta riconosce come fattore determinante e differenziante la qualità dell’amore dei genitori e dei figli42, ma perché a volte i genitori sostengono persino l’egoismo dei propri figli. A questo punto Hildebrand obietterebbe certamente che, in primo luogo, questo pericolo è superato facilmente, visto che i figli di solito devono cimentarsi con fratelli/sorelle43, che han42. Cfr. supra, cap. III, § 4.1.1, per la distinzione hildebrandiana della direzione di sguardo dell’amore genitoriale e dell’amore filiale verso il basso/ verso l’alto. 43.  Un’obiezione di Solov’ëv potrebbe essere qui il caso del figlio unico che non può condividere il suo amore genitoriale con fratelli e sorelle. La tendenza che aumenti l’egoismo nel/la bambino/a, perché i genitori sono concentrati completamente ed esclusivamente sull’unico/a figlio/a è incontestabile; nonostante il fattore educativo giochi all’interno dell’amore genitoriale un ruolo importante che dovrebbe promuovere nei figli l’apertura agli altri proprio a

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no pure diritto all’amore dei genitori e, secondariamente, perché l’amore sessuale ha comunque i suoi pericoli, non di rado riflettenti l’egoismo44. L’amicizia si presta ancora meno a questo, perché esclude la diversità degli amanti. Solov’ëv non ammette la possibilità di un’amicizia tra uomini e donne e un’amicizia molto intensa tra persone dello stesso sesso rappresenterebbe un “surrogato innaturale dell’amore sessuale”. Hildebrand ci mostra, al contrario, quanto possa essere importante e naturale l’amicizia tra uomini e donne45, perché contiene le stesse basi dell’amore sessuale, ma senza l’unione fisica e la specifica esclusività, che caratterizza solo l’amore sessuale. Inoltre, anche nell’amore amicale c’è un orientamento verso l’altro/a che porta a superare se stessi: l’amico/a – e non più il sé con i suoi bisogni – è al centro dell’attenzione e l’intenzione unitiva è altrettanto presente, sebbene con altre sfumature. Alla fin fine, rimane difficile salvaguardare l’individualità seguendo il modello dell’amore sessuale teorizzato da Solov’ëv. Affermare, giustamente, che in fondo tutte le forme di amore, in quanto amore, contengono in sé la capacità di condurre l’essere umano ad attribuire all’altro/a un’importanza centrale – cosa che l’egoismo renderebbe impossibile – e, poi, attribuire esclusivamente all’amore sessuale una forte intensità e una reciprocità totalizzante, significa ridurre la natura stessa dell’amore. partire dall’esperienza d’amore con i propri genitori. Ad ogni modo, sembra che nell’amore genitoriale la componente etica dei genitori non sia senza problemi per cui la critica hildebrandiana non risulta avere una giustificazione. 44. Cfr. supra, cap IV. § 3.1.1. Questo secondo argomento di Hildebrand ci sembra essere meno problematico del primo e di per sé più giustificato, perché non contesta l’egoismo in quanto tale. 45.  Per un approfondimento, cfr. MW, cap. VII, Friendship between Man and Woman, pp. 83-101.

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Su cosa si basa esattamente quest’idea? La risposta si può trovare nella sua teoria dell’“unità-del-tutto” e nell’idea che l’essere umano è chiamato a ripristinare l’unità originale dell’“unità-del-tutto” (Dio) nell’unione del maschile con il femminile. Il vero essere umano non è solo uomo o solamente donna, ma l’unità dei due ed è compito dell’amore ripristinare questa unione46. Lo sfondo concettuale e mitico del Simposio platonico47 e la narrazione biblica48 della creazione dell’essere umano sono chiaramente riconoscibili come base della sua motivazione per cui l’amore sessuale diventa il legame o la forza, come lo chiama Solov’ëv, che riporta l’essere umano alla sua forma originale. Ciò che Solov’ëv vuole giustificare e salvare è la comunità contro l’individualità, l’altruismo contro l’egoismo, così che l’amore 46.  Fichte parla di un’ipseità divisa che deve ritrovare la sua interezza mediante l’amore (cfr. supra, cap. I, § 4.1). 47.  Qui si intende il mito di Aristofane, che nel Simposio racconta dell’origine dell’essere umano come essere sferico, composto di due parti, che essendo troppo forte e pericoloso per le divinità venne diviso. Fu così che ebbero origine il femminile e il maschile, che, essendo dapprincipio un tutto, continuano ad anelare a quella forma primeva. L’amore tra i sessi, quindi, viene spiegato come tentativo di ricostituire quell’unità (cfr. Platone, Simposio, cit., 189d-193b, pp. 500-503). 48.  Nei primi capitoli del libro della Genesi si parla della creazione del mondo e dell’essere umano secondo due racconti. In Gen 1,26-31 assistiamo prima alla creazione del solo Adam e poi alla benedizione di Dio al plurale: maschio e femmina li creò. L’Adam indica di per sé l’essere umano, perché i termini per dire maschio e femmina sono [‘ish] e [‘ishah]. In Gen 2,18-25 si specifica che Dio si accorge della solitudine di Adam e non ritenendo bene che rimanesse da solo, crea la donna dall’Adam come sua parte. Da entrambi i racconti biblici si evince, perciò, che originariamente l’essere umano (Adam) consta del maschile e del femminile insieme e raggiunge la pienezza nell’unione dei due. A ciò si riferisce Solov’ëv ne Il significato dell’amore, cit., pp. 112-113.

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espliciti il senso dell’essere umano, di una «solitudine chiamata all’amore»49. Affinché gli uomini vivano in unità tra loro e con Dio – piano che corrisponde all’“unità-del-tutto”50 e porta gioia e pace – essi devono andare oltre se stessi, al punto di riconoscere nell’altro/a l’uguaglianza e l’insostituibilità, perché solo con ciò si può superare l’egoismo e ridurlo al silenzio. In effetti, Solov’ëv giunge alla conclusione che l’unione raggiunta tra uomo e donna non è sufficiente e può persino portare alla loro rovina se non si aprono vicendevolmente: «L’uomo singolo può salvarsi realmente, può cioè rigenerare e perpetuare la propria vita individuale nell’amore autentico, solo se vive in comunione e insieme con tutti»51. Il semplice fatto che l’unione di due esseri complementari sia la più profonda espressione dell’amore non è una ragione per gli amanti di separarsi dagli altri, perché ciò significherebbe persino la loro rovina, considerando anche che l’amore sessuale è 49.  T. Styczen, Das Problem des Menschen als Problem und Drama seiner Liebe. Ein Beitrag zur Selbstidentifikation des Menschen als Menschen, in C. Breuer (a cura di), Ethik der Tugenden, cit., pp. 65-88: p. 81. 50.  In tal modo l’amore umano viene trasformato mediante la comprensione dell’amore di Dio, cosa che si avvicina alla posizione di Scheler, come evidenzia Helmut Dahm. Entrambi i filosofi sviluppano una filosofia dell’eros, che trascende alla fine la conoscenza, e ciò perché Scheler postula un con-amare che, in definitiva, è un compimento dell’amore di Dio per raggiungere il valore morale della persona. Solov’ëv, per parte sua, ritiene che l’essere umano debba amare l’amato/a secondo il modo di Dio per poterlo/a in qualche modo raggiungere nella sua realtà (cfr. H. Dahm, Vladimir Solov’ev und Max Scheler, Pustet, München-Salzburg 1971). Per un completo confronto con la filosofia di Solov’ëv in relazione all’essere umano e ai suoi rapporti o alle sue possibilità di sviluppo, cfr. E. Klum, Natur, Kunst und Liebe in der Philosophie Vladimir Solov’evs. Eine religionsphilosophische Untersuchung, Sagner, München 1965. Cfr. anche A. Mattiazzo, «Quello che abbiamo di più caro… Gesù Cristo». Saggio sul mistero di Cristo negli scritti di Vladimir Solov’ëv, Messaggero-Facoltà Teologica del Triveneto, Padova 2016. 51.  W. Solov’ëv, Il significato dell’amore, cit., p. 125.

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limitato nel tempo e passeggero. Così ci imbattiamo di nuovo nella questione del tempo in relazione all’amore. Il grande problema di Solov’ëv è l’impenetrabilità degli esseri da intendersi in due aspetti: in primo luogo nel tempo, perché ogni momento dell’essere non conserva in sé il passato e, in secondo luogo, nello spazio, perché ogni corpo occupa uno spazio e due corpi non possono occupare lo stesso posto contemporaneamente. Questo problema della doppia impenetrabilità costituisce un argomento molto specifico nella filosofia di Solov’ëv, che si dovrebbe effettivamente affrontare in modo più dettagliato. Per motivi tematici entreremo solo nel primo aspetto dell’impenetrabilità, cioè il tempo. 2.2.2. Desiderio di eternità e limiti temporali Con Hildebrand abbiamo preso atto che il desiderio più profondo dell’amore è l’esistenza ininterrotta dell’amato/a. Affermare il valore dell’altro/a, come fa l’amore, si riflette nel dover essere di questo valore così che, all’espressione “è bello che tu ci sia”, segue “tu devi essere”. L’amore apre i nostri occhi all’altro/a, facendoci desiderare la necessità del suo dover essere52, che si esprime nel desiderio della sua immortalità. L’amante può, allora, secondo Solov’ëv, guardare l’amato/a solo dall’eternità, eppure in realtà si trova di fronte alla separazione da lui/lei attraverso la morte, così che l’amore vive nella costante tensione tra l’orientamento verso l’eternità, dove l’amore non avrà fine, e le sue coordinate temporali concrete, che limitano l’amore e lo portano verso un termine53. Il dramma metafisico 52.  Riguardo al dover essere dei valori cfr. supra, cap. II, §§ 1.4 e 3. 53.  Già Søren Kierkegaard si è confrontato con questa polarità dell’amore – intesa quale desiderio di eternità che non porta con sé alcuna variazione e può essere perciò anche una garanzia dell’amore – e con la finitudine

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dell’essere umano si rispecchia nei sentimenti e nelle affermazioni contradditorie sull’amore che hanno trovato espressione nel corso della nostra storia. Ma è proprio vero che l’amore è limitato dalle coordinate temporali e che il sogno dell’eternità è fondamentalmente solo un’amara bugia, escogitata per soppiantare i nostri limiti? E se fosse così, tutti quei coniugi che hanno perso il partner e non vogliono aprirsi a un nuovo amore per motivi di fedeltà verso il/la defunto/a, vivono in un’illusione? Può il tempo influenzare significativamente l’amore? Con Hildebrand abbiamo scoperto il carattere superattuale dell’amore e capito come grazie ad esso l’amore continui in noi; potremmo dire che l’amore non “è” da un momento all’altro, ma “cresce” e “diventa” costantemente in noi. Questa continuità dell’amore, però, non significa rigidità, bensì processo dinamico, perché in ogni momento deve avere nuovamente luogo l’affermazione dell’altro/a, in quanto l’amato/a non ci si mostra immediatamente in tutte le sue sfumature. L’atto d’amore è anche un atto di fede. Certamente l’amante vede più degli altri, vede la verità (preziosa, insostituibile) dell’altro/a nella sua interezza, ma ciò non significa che conosca davvero gli angoli nascosti dell’altro/a: quindi, il tempo è positivo e necessario per l’amore perché possa crescere e condurre gli amanti alla piena realizzazione. D’altra parte il tempo è un’incognita imprevedibile, perché la fine ci rimane nascosta e la stessa risposta al valore è in sé limitata e fallace come l’amato/a è limitato/a e imperfetto/a.

del tempo nella quale vivono gli amanti e che include, invece, cambiamenti. La sua soluzione consiste nell’ancorare l’amore all’eternità, tuttavia, diversamente da Solov’ëv e Hildebrand, questa eternità si chiama per lui dovere (cfr. supra, cap. I, § 5).

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Comunque, se il tempo fa parte dell’amore, semplicemente perché l’amore ha luogo nel tempo, la sua pretesa di eternità deve essere respinta, a meno che non si ancori in Dio. Da questo punto di vista Hildebrand e Solov’ëv sono vicini. Questi trova in Dio una risposta alla morte, perché attraverso la fede l’essere umano pratica l’amore per Dio e davanti a Dio e solo Dio può dargli la forza di superare la morte. Un amore solo materiale o solo sociale è condannato a finire e a morire. La fede offre all’amante una prospettiva “nuova”, cosicché, nonostante la caducità e l’imperfezione della sua natura e di quella dell’amato/a, egli/ella può vedere ciò che Dio vede: vede e ama l’altro/a in Dio54, come lo/la ama Dio. In tal modo, l’essere umano partecipa dell’amore di Dio e della potenza del suo amore, permettendo al proprio di trovare un aggancio all’eternità. Hildebrand, invece, non parla di una “soluzione contro la morte”, perché non problematizza direttamente tale questione, tuttavia nella caritas, che nasce dall’amore di Dio, egli riconosce la possibilità di superare i pericoli e i limiti della vita in ogni forma naturale di amore. Anche per lui solo Dio è garante dell’amore nella sua forma più perfetta, perché solo un amore che contiene e riflette il suo amore non sarà soggetto a illusioni e delusioni. Alla fine, dunque, entrambi i filosofi si trovano davanti a una muraglia, che può essere superata solo con il salto nella fede e, la stessa filosofia nella sua impotenza fallisce davanti all’amore, fenomeno semplice solo in apparenza. Circa la questione specifica della vedovanza, non sembra esserci risposta se non nell’ambito degli atteggiamenti morali. Se qual54.  Anche Scheler parla di un amare in Deo, inteso come la massima forma dell’amore di Dio: non amare Dio, quanto piuttosto far proprio il suo amore verso il mondo, ovvero amare il mondo e le sue creature così come egli le ama, questo significa amare in Deo (cfr. M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., pp. 246-247).

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cuno ama al punto da arrivare dopo la morte del partner a credere che non esistano altri da poter amare con lo stesso amore nuziale, ma nello stesso tempo si apre all’amore nelle sue diverse espressioni, questa persona esprime in tal modo il suo amore “eterno”. Se, invece, dopo la perdita della persona amata, nonostante il forte amore precedente si è in grado di aprirsi a un nuovo amore sponsale, ciò non significa dimenticare la persona amata, ma “perpetuare” questo amore, riversandolo su un’altra persona. Dal punto di vista dell’amore nessuna delle due posizioni è migliore o più corretta dell’altra, perché l’ampiezza dell’amore non è essenzialmente legata allo spazio e al tempo, bensì all’atteggiamento interiore dell’essere umano; più precisamente essa trova il suo posto e la sua espressione nell’affermazione interiore dell’altro/a, che va oltre lo spazio e il tempo55. In conclusione, si può dire che l’amore vive nel momento e del momento presente, non ancorato a un passato irrevocabilmente perduto o orientato alla chimera di un futuro non determinabile, ma nella consapevolezza della sua dimensione temporale; esso si espande di momento in momento in una durevolezza, che nasconde un pezzo di eternità. La questione della limitatezza/infinitezza dell’amore porta sia Solov’ëv che Hildebrand a riconoscere in Dio il fondamento originario dell’amore, senza tuttavia negare la qualità dell’amore puramente umano. Questo è un merito particolare di Hildebrand che, in relazione ai tipi naturali di amore e alla caritas, non parla di amore giusto e sbagliato o di amore genuino e falso. Le forme natu-

55.  Si può argomentare con Marion che l’eventuale “spaccatura interiore” motivata da un secondo amore sponsale non può essere assolutamente presente perché ogni amore – che sia amore matrimoniale, di amicizia o genitoriale – ci cambia lasciando dietro di sé sempre una propria impronta. Dicendo di sì al nuovo amore senza confrontarlo con l’altro, si continua a dire di sì anche al precedente amore perché se ne portano in sé le tracce e si vive anche a partire da quest’amore.

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rali di amore sono intrinsecamente buone e valide, ma limitate dall’imperfezione umana e, quindi, più vulnerabili di quei tipi di amore che sono nutriti dalla caritas. Essa contiene le caratteristiche del divino e sfugge per tale ragione ai pericoli del tempo e della materialità, nonché dell’egoismo nei confronti della persona amata, dando così sicurezza ai tipi naturali di amore, senza privarli della loro identità: L’essere impregnato da questo flusso della carità di tutte le altre categorie di amore, da questo tipo del tutto nuovo di dedizione e di bontà, ha un carattere del tutto organico; porta alla sua perfezione la specifica proprietà categoriale di ogni amore e conferisce all’“intenzione benevolente” e all’“intenzione unitiva” di ciascun amore un carattere incomparabilmente più genuino, anzi lo riveste di una sublimità del tutto nuova.56

Cosa significa concretamente? Come prima cosa la caritas apre gli occhi al vero bene oggettivo, perché vede tutto in Deo; in secondo luogo la piena trascendenza consente di raggiungere “ciò che rende l’altro/a felice”; in terzo luogo essa pone il benessere, la salvezza e la felicità dell’altro/a davanti all’intenzione unitiva. Per raggiungere questo obiettivo la caritas non pratica un livellamento delle categorie dell’amore, ma richiede di soddisfare le esigenze di ogni amore, pur incontrandosi in Dio. Un amore modellato dalla caritas, che è allo stesso tempo un incontro vicendevole in Cristo, si distingue come amore santo e anticipa in certo modo l’eternità. Da ciò Hildebrand conclude che le forme naturali e “non battezzate” di amore possono semplicemente essere considerate come finite nella loro qualità e sotto la categoria dell’eros; mentre la caritas e con essa l’amore cristiano al prossimo sono “infiniti”, perché ancorati direttamente a Dio e, quindi, le forme di amore naturale “battezzate” nella caritas si raccolgono sotto la categoria dell’agape. Eros e agape formano le due facce di una singola moneta, 56.  EA, p. 701.

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perché l’amore in quanto amore rimane lo stesso in entrambi. Possiamo anche dire che esiste un solo amore che si esprime e si spiega in eros/agape: i lati rivolti all’eros sono limitati nel tempo, transitori, quindi scompaiono; i lati rivolti all’agape durano per sempre: «l’amore autentico è inseparabilmente ascendente e discendente (amor ascendens e amor discendens) ossia quelle due Afroditi che Platone bene distinse e male divise»57. Quando due persone si amano in Dio, ciò non è solo un miglioramento spirituale, la qual cosa risulterebbe innaturale trattandosi di persone in carne e ossa, bensì si amano in due modi: da un lato amano l’immagine ideale dell’altro/a58, nel senso del vero essere e, d’altra parte, amano l’essere naturale, concreto, la persona vivente, che si presta alla realizzazione dell’immagine ideale. 2.2.3. Quadro di sintesi Solov’ëv ha posto la domanda sul significato dell’amore e la sua risposta è che esso consiste nel raggiungimento della perfezione come essere umano: l’amore è una forza speciale, che 57.  W.S. Solov’ëv, Il significato dell’amore, cit., p. 119. Qui Solov’ëv si riferisce espressamente al mito platonico delle due Afroditi, criticando il fatto che vengano concepite da Platone come due forme di amore tra di loro contrapposte (cfr. Platone, Simposio, cit., 179d-185e, pp. 492-496). In ciò troviamo anche la radice di quella posizione storica di molti pensatori che contrappongono eros e agape come due differenti modi dell’amore. 58.  Anche Scheler si esprime in modo simile: «l’amore predelinea, per così dire, un’immagine “ideale” di valore della persona data empiricamente, immagine che però viene afferrata unitariamente come il suo “vero” e “reale”, autentico esistere ed essere di valore, solo non ancora dato nel sentire» (M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 160). L’amore vede quest’immagine di valore nella persona reale empirica, ma le appartiene come “il suo autentico”, come ciò che non è ancora venuto alla luce; al contempo Scheler non nega assolutamente che si ami la persona data empiricamente con tutte le sue concrete caratteristiche.

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può superare l’egoismo e, con lo stesso movimento, colui/lei che ama giunge alla “negazione” di sé per il bene dell’altro/a, compiendo così la propria realizzazione. Contrariamente a Solov’ëv, tuttavia, giungiamo alla conclusione che questa forza svolge il suo compito non solo nell’amore sessuale, ma anche nelle altre categorie di amore, a causa dell’intenzione unitiva. L’affermazione di Solov’ëv, secondo cui esiste un divario insormontabile tra il desiderio di amare per l’eternità e i limiti fissati dalla dimensione temporale, che trova la sua tragica espressione nella morte, è stata per noi la ragione per considerare il rapporto tra temporalità e amore. L’aspetto della superattualità dell’amore ha dimostrato che l’amore si muove e vive nel tempo. L’unico modo per sfuggire alla morte o “rendere eterno l’amore” è ancorarlo in Dio; Hildebrand e Solov’ëv ci conducono alla stessa conclusione. L’amore vive nel momento e del momento presente e, muovendosi da un momento all’altro, crea una durabilità che è un assaggio di eternità. La limitatezza della dimensione metafisica degli esseri umani riconduce a un essere assoluto, il solo che può essere garante dell’amore stesso e del suo carattere unificante. Così eros e agape si mostrano come un unico amore in due diverse espressioni.

2.3. Intenzione unitiva e unione degli amanti: Hildebrand e Ortega y Gasset Mentre Solov’ëv vede l’amore sessuale come via per preservare l’individualità dell’essere umano e assegna ad esso un compito escatologico, diversa è la prospettiva di José Ortega y Gasset59 59.  Ortega y Gasset (1883-1955), filosofo spagnolo del Novecento, trova particolare ispirazione in Husserl, Dilthey e Heidegger, pur non rientrando

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che osserva il fenomeno dell’amore nel suo ancoraggio sociologico e quindi influenzabile. Egli lo concepisce quale portatore di storia che impregna la cultura; a suo avviso, infatti, la scelta amorosa tra uomini e donne si trasferisce attraverso le generazioni e, a seconda del tipo di donna preferito dall’uomo e viceversa60, prevede la cultura nell’epoca che seguirà. Ortega y Gasset ci fornisce, quindi, un ulteriore sguardo sul fenomeno dell’amore, assente nelle analisi hildebrandiane. Certamente, i caratteri intellettuali e culturali di Ortega y Gasset e Hildebrand sono molto diversi ed è una prospettiva storico-sociologica con un orientamento esistenzialista a costituire il centro dell’interesse del primo, cosa che non si può attribuire al Nostro, tuttavia i due filosofi si avvicinano moltissimo. Nel suo Sull’amore, Ortega y Gasset cerca di avvicinarsi fenomenologicamente all’amore, prestando anche lui particolare attenzione all’amore sessuale e alla differenza tra amore e innamoramento. In generale, come Hildebrand, egli distingue l’amore dalla tensione e dal desiderio, perché l’amore è un’attività in cui si esprime un’eterna insoddisfazione; esso non cerca di catturare il suo oggetto, ma gli si rivolge interamente: «amando abbandoniamo la tranquillità e la prudenza che erano in noi ed emigriamo virtualmente verso l’oggetto. E questo costante emigrare è amare»61. esplicitamente nella scuola fenomenologica. La sua filosofia esprime l’anima laica del pensiero spagnolo, in cerca di felicità e realizzazione piena in questo mondo concreto che abitiamo. Facendo suo il riferimento husserliano al “mondo della vita”, punta chiaramente su un forte realismo; ne deriva una riflessione sulla relazione tra io e circostanza, o mondo circostanziale, vissuta dall’essere umano come qualcosa di estraneo e anche ostile, nel quale si viene costantemente catapultati. In un periodo successivo di riflessione approda, poi, allo storicismo, passando, così, da una ragione vitale a una ragione storica. 60.  Cfr. J. Ortega y Gasset, Sull’amore, tr. it. di L. Rossi, SugarCo, Carnago 1994, pp. 87-92 e 114-122. 61.  Ivi, p. 17.

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2.3.1. I chiaroscuri dell’amore Ci sono tre aspetti essenziali nell’amore che abbiamo già trovato nell’analisi di Hildebrand: un movimento centrifugo (la risposta al valore è il movimento verso l’esterno, l’affermazione della persona amata da parte dell’amante); l’incessante dedizione interiore verso la persona amata (desiderio di stare con lei, anche se nelle categorie naturali dell’amore Hildebrand parla di fare spazio dentro di sé più che di fuoriuscire da se stessi); la durabilità dell’amore (la bontà e l’affetto traboccanti verso la persona amata). La positività dell’amore si esprime nella sua affermazione del­ l’oggetto e nel desiderio interiore di circondarlo costantemente di bontà, di espressioni di stima e di tenerezza «in un’atmosfera favorevole»62. Per questo l’amore è anche unione e massima concordia, non solo fisicamente. La profondità di questo atto emotivo rende l’amore indipendente dalla corporeità in tutte le sue manifestazioni, cosa che Hildebrand esprime a sua volta nell’idea dell’intenzione unitiva. Tuttavia, esiste per Ortega y Gasset anche un elemento che collega tutte le forme di amore, non solo i tipi di amore interpersonale, ma anche l’amore per la patria o l’amore per la natura e l’amore per la scienza: «L’amore perviene alla visione dilatata dell’oggetto e si impegna in un lavoro invisibile, ma divino, il più sollecito possibile: si impegna ad affermare l’oggetto»63, non con un atto cognitivo o di desiderio, ma con un moto assertivo verso l’oggetto64; è, quindi, comprensibile che la parte62.  Ivi, p. 18. 63.  Ivi, p. 19. 64.  In ciò si trova in pieno consenso con Pfänder (la corrente di luce che fluisce dall’amante all’amato) e Scheler (il movimento intenzionale verso il valore più elevato dell’oggetto). Cfr. A. Pfänder, Psychologie der Gesinnungen, cit., parte I, pp. 332-335; M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., cap. B, pp. 159 ss.

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cipazione all’essere di un altro vale in se stessa sia nei riguardi di una persona che di un’occupazione o della natura. L’amore fra gli esseri umani ha certamente un tipico carattere personale e continua ad essere la più alta espressione dell’amo­ re proprio a causa della reciprocità, ma Ortega y Gasset non vi dimostra un particolare interesse, perché la sua analisi dell’amore si limita alla distinzione fra innamoramento e amore sessuale e alla caratterizzazione di quest’ultimo per la susseguente scelta dell’amante. In ogni caso difendere il concetto di amore in relazione a diversi rapporti non solo interumani, ci sembra fornire un ampliamento importante dell’amore stesso. Le osservazioni mirate di Ortega y Gasset mettono in evidenza altri aspetti essenziali dell’amore come il dolore, l’immortalità dell’amore e il suo carattere creativo, affrontati parzialmente o indirettamente da Hildebrand. Per quanto riguarda il dolore, Ortega y Gasset afferma che il vero amore si può riconoscere dalla sua capacità di soffrire: più si è disposti ad accettare il dolore inflitto dall’amato/a, e persino lo si apprezza in confronto ad atteggiamenti indifferenti, più intensamente si ama l’altro/a; ci sembra che tale aspetto dell’amore non corrisposto tra uomo e donna sia visto da una prospettiva piuttosto romantica, anche se, in ogni caso il “fattore dolore”65 si trovi in tutte le categorie

65.  Secondo Scheler: «Così come l’amore vitale e la morte si dimostrano allo stesso modo coappartenenti come morte e dolore lo sono con la formazione del legame, così anche amore e dolore dipendono intimamente e in modo necessario l’uno dall’altro» (M. Scheler, Vom Sinn des Leiden, in Id., Liebe und Erkenntnis, Francke, Bern-München 1970, p. 39). L’amore è la forza originaria per ogni forma di legame umano e di riproduzione; di essa si nutre la predisposizione al sacrificio dell’essere umano che in definitiva fa presagire il dolore e la morte. Ancora Scheler: «la vittima contiene entrambe: la gioia dell’amore e il dolore della consegna della vita di ciò che si ama» (ivi, p. 40). Qui egli si riferisce tra l’altro anche all’insegnamento cristiano del legame tra sofferenza e amore per cui la “comunità di croce” e la comunità d’amore sono in questo senso identiche.

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d’amore tra persone. Hildebrand, invece, che ugualmente affronta questo tema quando tratta i pericoli dell’amore, non parla di una volontà di soffrire come coessenziale all’amore. Se la sola dichiarazione d’amore rivela l’io in modo irrevocabile, in una sorta di resa di fronte all’altro/a, ciò implica anche la disposizione dell’amante a non essere ricambiato/a di conseguenza, o a incorrere, magari, nella derisione e nella manipolazione. Tali esperienze, ovviamente, tutt’altro dall’essere piacevoli, si rivelano dolorose per coloro che le vivono; qualora, invece, l’amore venga ricambiato e nasca una vera relazione reciproca, ci sarà sempre il rischio di essere abbandonati o maltrattati dall’altro/a; in ogni caso l’amante dovrà sopportare le debolezze altrui anche fino al punto che esse diventino un vero peso. Hildebrand riconosce in queste situazioni dei pericoli comuni ai tipi naturali di amore per via dell’egoismo e suggerisce che solo un amore “trasfigurato” può superarli; la qual cosa significa, quindi, che solo la fede in Dio può liberare le relazioni d’amore dai limiti della nostra natura umana. Ortega y Gasset non sembra cercare ragioni assolute all’amore e, senza tentarne una giustificazione, e limitandosi a una semplice costatazione, osserva che nell’amore sessuale si riscontra una volontà di soffrire. Altrove dice ancora: «Nell’atto amoroso la persona esce fuori di sé: è forse la massima prova che la natura dispone affinché ciascuno esca da se stesso verso un’altra cosa. Non la cosa è attratta da me, bensì io sono attratto dalla cosa»66. Lo stesso movimento di uscire da sé implica già il superamento dei propri limiti e fondamentalmente si tratta di un rischio67, perché non se ne può prevedere lo sviluppo e neanche si cono66.  Ortega y Gasset, Sull’amore, cit., p. 15. 67.  Hartmann si esprime allo stesso modo quando parla del rischio della fiducia; ma la fiducia e l’amore sono strettamente legati tra loro e nell’incertezza, che porta con sé un amore che si mette a nudo, sta ugualmente il vero rischio

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sce la reazione dell’amato/a. In un certo senso, l’amore rompe i confini filosofici e richiede un salto nella fede, o almeno un appiglio, per quanto riguarda la sua ultima giustificazione; a prescindere, infatti, da una convinzione religiosa, il fatto di correre questo rischio non spiega affatto la ragione di questo modo di agire. Solo un essere assoluto può dare all’essere umano una dimensione più completa, che al contempo gli dia la forza e la capacità di sopportare il dolore e di arrivare, una volta superato, alla perfezione. Perfezione che sta nella dimensione superiore dell’essere assoluto, il quale è il definitivo senso dell’essere umano. Su questo rischio la vita può perdurare, in quanto l’amante sente l’obbligo interiore di continuare ad amare la persona amata, vuole che essa esista e non sa pensare il mondo senza di lei. A questo punto l’amore diventa un compito, una meta, affinché l’amato/a possa, da un lato, svilupparsi nella sua vera natura (Hildebrand) e, dall’altro, continuare a esistere (Ortega y Gasset). L’amore è, quindi, donatore di vita e custode dell’amato/a, come dice Ortega y Gasset e altresì eterno. Chi ama autenticamente potrà, perciò, attraversare alti e bassi, stare con la persona amata o esserle lontano/a, comunque rimarrà sempre ontologicamente con la persona amata e il suo amore non morirà. Infatti, ogni tipo di separazione, di spazio o di tempo, rappresenta una piccola morte ed è come tale un attacco all’amore: affrontando queste sfide, però, attraversando queste piccole morti con un amore forte, anche l’ultima separazione causata dalla morte effettiva non potrà davvero danneggiare l’amore, perché esso crea una connessione che va al di là di ogni cosa esterna. Ortega y Gasset conferma Hildebrand nella sua visione del carattere superattuale dell’amore, consistente in momenti non

della fiducia in quanto l’altro/a, anche quando non dovesse ricambiare l’amore, non mi procurerà intenzionalmente dolore approfittando di questa fiducia.

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puntuali che si compenetrano, ma costantemente presenti nel­ l’anima dell’amante e, quindi, senza tempo. Per il filosofo spagnolo, l’amore sessuale sperimenta anche una certa “trasparenza” tra gli amanti, perché, quando si viene toccati da una qualità dell’altro/a, si accende l’amore e con esso il desiderio di perdere la propria individualità in quella dell’altro/a e, all’inverso, assumere quella dell’altro/a interamente nella propria: L’amante prova una strana urgenza di dissolvere la sua individualità in quella dell’altro e, viceversa, assorbire nella sua quella dell’essere amato. Misteriosa inquietudine! La delizia dell’amore consiste nel sentirsi metafisicamente porosi nei confronti dell’altro individuo, di modo che solo nella confusione di entrambi, solo in una “individualità a due”, abbia soddisfazione.68

Ciò dà origine al desiderio di incarnare visibilmente questa unione in un figlio69 che continui in sé la perfezione dell’ama­ to/a. Il/la figlio/a rappresenta, infatti, qualcosa di nuovo, che non è né il padre, né la madre, ma è il frutto dell’unità di entrambi. In tal modo Ortega y Gasset conferisce nuovo splendore alla teoria platonica della creazione della bellezza; tuttavia, non possiamo tacere l’osservazione critica di Hildebrand, secondo cui il desiderio di compenetrazione espresso nell’intenzione unitiva non è limitato all’amore sessuale, ma è parte essenziale di tutte le forme d’amore.

68.  Ortega y Gasset, Sull’amore, cit., p. 32. 69.  Mentre Ortega y Gasset vede nel/la figlio/a ciò che permette all’amore – e, con esso, alle caratteristiche dell’amato/a – di sopravvivere (il/la figlio/a è, dunque, una possibilità di garantire eternità all’amato/a), Marion lo concepisce come quella figura chiave, garante dello stesso legame d’amore. Questi, infatti, ricorda agli amanti il legame che li tiene insieme, il loro reciproco amore e, anche quando esso dovesse sembrare alla fine, è testimone in particolare di quei momenti in cui si sono amati (cfr. J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, cit., Del terzo che arriva, §§ 36-42, pp. 235-283).

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2.3.2. La scelta nell’amore A differenza di Hildebrand, Ortega y Gasset attribuisce all’amore sessuale una capacità di scelta, fortemente influenzata dalle caratteristiche del maschile e del femminile. Il punto di partenza per questo è la costatazione che l’essere umano è «un sistema naturale di preferenza e rifiuto» e che nella scelta dell’amore egli rivela l’essenza della sua anima. Per quale motivo? Poiché la scelta dell’amore sorge dalla profondità dell’anima, cioè dal centro della persona, i principi di selezione devono corrispondere alle più intime misure valoriali, che corrispondono al loro carattere. «Nella scelta dell’amata e in quella dell’amato, l’uomo e la donna rivelano la loro indole essenziale. Il tipo di umanità che preferiscono nell’altro essere traccia il profilo del nostro cuore»70 e rivela il carattere più profondo di una persona. Ortega y Gasset esprime in tal modo la visione platonica, secondo cui l’amore è desiderio di bellezza nel senso di perfezione, verso il quale tutti sono alla ricerca per la piena realizzazione; tuttavia, questa scelta d’amore non è una scelta libera e consapevole, ma nasce dalla più profonda terra inconscia dell’anima e dipende dal carattere di fondo dell’individuo. Per questo l’amore ha una funzione di servizio, di guida, per riconoscere i motivi morali di una persona e, allo stesso tempo, ha un effetto determinante nella sua storia, perché solo alcune tra le possibili concretizzazioni vengono portate avanti, a differenza di altre che non lo sono affatto. In questo senso l’amore crea una connessione così stretta e unilaterale di tutti gli individui in una comunità, che essi non riescono a percepire completamente i cambiamenti d’influenza reciproca. Secondo Ortega y Gasset, la scelta dell’amore è, per così dire, il termometro di un’epoca e mostra le sue correnti di fondo; 70.  Ortega y Gasset, Sull’amore, cit., p. 63.

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essa non è, infatti, limitata a due individui, ma decide anche dell’esistenza di intere generazioni, specialmente per la scelta d’amore della donna, poiché è lei che modella in modo speciale la vita interiore della sua famiglia e, di conseguenza, quella di tutti coloro che vivono in casa71 e creano la società. A prescindere dagli sviluppi sociologici dell’amore, che possono essere discutibili, la sottolineatura del suo aspetto selettivo non è poi così lontana dal carattere di risposta dell’amore, almeno in relazione all’amore sessuale. Se la scelta dell’amore è in qualche modo inconscia, come pensa Ortega y Gasset, cioè non avviene tramite una decisione deliberata, essa può anche essere risposta al valore totale specifico dell’altra persona che attira e chiama all’amore. Anche l’influenza del proprio carattere nelle relazioni amorose trova risonanza in Hildebrand quando, ad esempio, distingue un amore più profondo da un amore superficiale, a motivo dei rispettivi ambiti valoriali in cui si muovono l’amante e l’amato/a. Per quanto riguarda l’influenza della scelta dell’amore sulla storia dell’umanità, Hildebrand reclamerebbe l’ampiezza dell’amore e sarebbe per lui una limitazione se la storia venisse davvero solo influenzata dall’amore sessuale. A spiegazione di ciò, l’argomento addotto sarebbe che ogni amore, nel senso hildebrandiano, conduce allo sviluppo del sé e non soltanto l’amore tra uomo e donna; il che significa che ci si ritrova negli altri e a partire dagli altri: non, come pensa Ortega y Gasset, perdersi nell’altro/a o inglobare l’altro/a in me, ma nel perdere portare l’altro/a allo sviluppo, per riceversi nuovamente da lui/lei. L’intenzione unitiva, in realtà, assume un ruolo essenzialmente più importante di tutti gli altri aspetti dell’amore, perché solo essa dimostra la possibile reciproca dipendenza degli amanti senza possedersi, e ciò fino alla reciproca realizzazione. 71.  Rimandiamo qui alle ultime pagine di Sull’amore, cit., pp. 61-93.

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2.4. La dialettica dell’amore: Hildebrand e Welte sugli effetti ontologici dell’amore Il piccolo volume di Bernhard Welte72 Dialettica dell’amore appare negli stessi anni in cui Hildebrand sta lavorando alla pubblicazione del suo Essenza dell’amore73. I due filosofi sono abbastanza vicini nelle loro posizioni, sebbene Welte fornisca solo un breve schizzo sul fenomeno dell’amore e in questo senso il suo intento non può certo essere paragonato all’opera di Hildebrand. Eppure, ci sembra che a suo modo, anche Welte getti nuova luce sul fenomeno dell’amore e possa stimolare ulteriori considerazioni critiche, in particolare per quanto riguarda la relazione tra l’io e il tu e il dono essenzialmente reciproco dell’Essere, rendendo ancor più esplicita la relazione ontologica che sottostà all’amore. 2.4.1. L’io-tu dell’amore Come Hildebrand, anche Welte, si concentra sul fenomeno dell’amore tra le persone caratterizzandolo come una relazione io-tu: dal tu parte “l’invito” all’io che si mette in movimento verso il tu. Siamo attratti dall’altra persona come da una “originaria alterità del tu”, dalla sua preziosità e dignità e scopriamo che l’altra persona è amabile74. Proprio nell’esperienza dell’a-

72.  Bernhard Welte (1906-1983), teologo e filosofo tedesco, è considerato tra i maggiori filosofi della religione del Novecento. Formatosi nella Facoltà teologica dell’Università di Friburgo i.Br. con una approfondita lettura di Tommaso d’Aquino – da lui ritenuto grande pensatore e che accompagna di fatto tutta la sua produzione –, segue successivamente le lezioni di Heidegger assumendone la metodologia e la visione ontologica, che gli permette di dialogare con la filosofia cristiana di stampo tomista. 73.  Il lavoro di Hildebrand viene pubblicato per la prima volta nel 1971 e il volumetto di Welte esce sul mercato esattamente due anni dopo, nel 1973. 74.  Cfr. B. Welte, Dialettica dell’amore, cit., pp. 24-26.

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mare entrambe le parti conferiscono l’una all’altra il proprio vero senso, attraverso l’amore il tu diventa un tu personale e l’io si scopre nell’amore e si accetta, accettando il tu. Tuttavia, l’esperienza dell’amore non rimane limitata ai due, perché l’io che ama, ama non solo il tu, ma tutto e, accettando un tu, accoglie sostanzialmente l’intero “esserci”. Tale posizione è da intendersi simile all’affermazione di Hildebrand: chi ama non può allo stesso tempo odiare qualcun altro, perché l’amore non lo consente. Welte, però, indaga più a fondo e nello stesso movimento d’amore verso l’amato/a vede coinvolto il mondo intero e, cioè, nell’unico movimento dell’amore da un io amante a un tu amato/a. Sviluppando ulteriormente il pensiero di Welte, si può concludere che una relazione d’amore da sola sarebbe sufficiente a sviluppare un atteggiamento d’amore verso il mondo intero. Non si parla qui tanto di una decisione obbligatoria e cosciente, semplicemente fa parte essenziale dell’amore il donare quest’apertura interiore, perché l’amore è un dono e, contrariamente all’affermazione di Solov’ëv, secondo la quale la coppia deve consapevolmente aprirsi per sopravvivere e non perire, nella prospettiva di Welte e di Hildebrand l’amore sembra possedere una forza maggiore, anche se ciò causa qualche contraddizione. Esaminiamo, allora, più da vicino se alcuni elementi dell’amore stesso confermano o no questa posizione. Una cosa certa, già accennata, è che dal tu parte qualcosa di immediato che giunge all’io, lo tocca e lo mette in movimento. L’io scopre il tu come amabile, unico nella sua “originaria alterità”, in altre parole lo ama in quanto esiste, perché c’è, indipendentemente da tutti i compiti e ruoli che può avere nella vita. Tutto è sostituibile, ma non il tu e la sua bellezza, compresa da Welte e Hildebrand non solo in senso estetico; infatti è una bellezza che si combina con il bene, perché un amore vero e serio può essere mosso solo dal veramente bello e la di-

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mensione della moralità è immediatamente presente, perché appartiene alla persona. Per quanto riguarda la persona, Welte fa un’osservazione profonda che a nostro parere può gettar luce ulteriore sul fenomeno dell’amore, per confermarne la non solo ipotizzata, ma essenziale contraddizione: la persona non è soltanto un risultato compiuto, ma pur sempre un essere in divenire, e come tale è possibilità, progetto. Se la persona è un “divenire” nasconde un potenziale non ancora completamente sviluppato; ciò vale a dire che la vita di tutti contiene sempre un carattere di speranza. Questa è un’affermazione importante in relazione all’amore, perché significa che tutti gli esseri umani sono amabili in sé, che lo si sia scoperto o meno. «Nessuno è così cattivo che non gli rimangono delle possibilità e non ci sia per lui più nulla da sperare. L’amore è capace di scoprire anche dietro un tu divenuto così oscuro possibilità e speranze nascoste»75. Questa è precisamente quella capacità dell’amore di vedere, di cui parlano Scheler e Hildebrand quando dicono che l’amore vede di più, perché vede ciò che è nascosto nell’altro/a e costituisce il suo vero essere. Poiché l’amore detiene questo grande potenziale, esso svolge, secondo Welte, un ruolo importante nella vita umana, perché dona l’essere nella dimensione dell’“essere amati”; infatti, una volta che l’io, in un atteggiamento passivo, viene accolto dal tu, l’amore lo pone immediatamente in un atteggiamento attivo nei confronti del tu, non solo in quanto accoglie il bello e il buono del tu, ma anche perché gli dona una nuova dimensione dell’essere. Secondo la dottrina platonica della carenza di ogni essere, anche Welte sostiene che prima di essere amata, ogni perso-

75.  Ivi, p. 31.

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na soffre di una mancanza di essere. In altre parole, oltre alla dimensione esistenziale dell’esserci, esiste una dimensione dell’essere amati che realizza l’essere umano e che può svilupparsi solo attraverso l’amore. È questo, dunque, il suo grande compito: quello di confermare l’essere nella sua piena forza. 2.4.2. Amore come dono d’essere – un compito Già Hildebrand ci aveva dimostrato come la dimensione del dover essere dell’amato/a sia essenziale per l’amore, perché l’amante desidera ardentemente che l’amato/a ci sia e viva; tuttavia, egli rimane saldamente ancorato alla sua visione fenomenologica. Welte, invece, osa addentrarsi nel fenomeno amore e trova altre parole per quel determinato momento dove l’amore raggiunge il suo pieno sviluppo. Afferma, infatti, che l’amo­re dona al tu amato il suo essere, pur essendo stato messo in movimento dallo stesso essere e dalla sua bellezza. Ma cosa significa esattamente che l’amore conferisce essere o meglio che esso porta l’essere già esistente al suo pieno sviluppo? Si assume quanto segue: non c’è solo la contrapposizione tra essere e non-essere, che viene espressa in quella tra esistenza/ non-esistenza, ovvero l’esserci76, quanto l’essere vero dell’esse-

76.  Si parla qui in maniera limitata dell’essere, pur essendo chiaro che già la sola parola “essere” non può sottostare a una precisa, definitiva e univoca definizione. Nel corso della storia della filosofia sono stati dati al termine molteplici significati, ma si può fondamentalmente parlare di essere nel senso dell’esistente, ed è ciò cui ci riferiamo, o nel senso delle caratteristiche che fanno un essente (in particolare secondo Kant, Kierkegaard, Frege). Si può, però, intendere l’essere anche nel senso del platonismo o di Hegel, come gradazione dei modi nei quali l’essere si esprime: l’essere viene con ciò graduato secondo fenomeni di apparizione, fenomeni di fantasia, secondo ciò che è realmente esistente, ecc. Anche la stessa parola “esistenza” ha differenti spiegazioni, come ad esempio l’esistenza umana e l’esistenza di oggetti, che non sono da scambiare. A volte, in rapporto all’essere, vengono utilizza-

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re, che sta nella dialettica tra essere e non essere, inteso come sviluppo dell’essere verso la sua piena veridicità. Soltanto l’amore può contribuire a questo sviluppo, perché pur non creando nulla all’interno delle categorie esistenza/non esistenza, può certamente far emergere la visibilità dell’esser possibile. Ciò significa anche che l’esistenza di un essere può, in un certo senso, restare monca o incompleta, finché non è di nuovo regalata dall’amore che si manifesta nel fatto di essere amati. Non si può, tuttavia, negare un fattore di rischio che Hildebrand ha indicato dopo attenta analisi e cioè che l’amore può essere esposto al pericolo o può diventare esso stesso un pericolo. A questo proposito anche Welte è estremamente chiaro quando dice che nell’amore il sé, per così dire, si sveste; chiunque ami mette il proprio cuore a nudo, nelle mani dell’altro/a, mentre chi viene amato viene messo a nudo dall’altro/a fino agli angoli più intimi e nascosti. Nell’atto di mettere a nudo, l’amore ci

te le modalità della possibilità, della necessità e della realtà per distinguere i modi dell’essere. Infine, nella logica e nelle filosofie del linguaggio l’essere viene concepito come copula o come essere predicativo di un’asserzione su un soggetto. Cfr. la voce Essere, in N. Abbagnano - G. Fornero, Dizionario di filosofia, cit., pp. 408-418. All’interno della tradizione fenomenologica, l’essere di Husserl come essere della coscienza viene distinto dall’essere trascendentale che si fa presente nella coscienza; ma Husserl utilizza il termine anche per indicare il soggetto-io o il significato. Conrad-Martius vede nell’essere reale (esserci) il significato fondamentale a partire dal quale tutti gli altri significati di essere vengono definiti in modo analogo. Ciò interessa l’essere categoriale come quello ideale, ai quali appartengono anche l’essere essenziale e l’essere casuale. La Conrad-Martius riconosce all’essere reale due sostanze, una iletica – che riguarda solo la realtà naturale empirica – e una pneumatica, che definisce le nature spirituali. Heidegger mette in evidenza piuttosto l’esserci (Dasein) e vede nella fenomenologia la via per spiegare il rapporto tra esserci ed essente, dove l’essere umano viene concepito come colui/lei che è esposto alla verità dell’essere. Cfr. la voce Sein, in H. Vetter (a cura di), Wörterbuch der phänomenologischen Begriffe, Meiner, Hamburg 2004, pp. 479-483.

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mostra la nostra vulnerabilità77, nell’amore, infatti, non sappiamo mai a priori se noi ricambieremo l’amore o in che modo gli altri tratteranno il nostro amore. Nell’amore è, perciò, sempre incluso il rischio. Secondo Welte è quindi comprensibile che alcuni abbiano paura dell’amore, sia davanti all’esperienza di amare che di essere amati, ma questo fa parte dell’amore, perché fa parte della dimensione metafisica dell’essere umano: l’abbiamo visto prima, l’amore e il dolore sono l’uno parte dell’altro e Welte riconosce nella paura il secondo elemento, cioè il dolore. L’amore non è un atto puntuale, bensì un movimento costante oppure un raggio, come afferma Ortega y Gasset, che deve trovare un nuovo equilibrio tra le esigenze dell’io e del tu, o meglio, tra il volersi donare e il volersi conservare. Sembrerebbe, allora, un circolo vizioso al quale si può sfuggire soltanto attraverso un atto di fiducia, fiducia che comprende la responsabilità quale chiave che dà accesso non solo al vero essere degli altri, ma anche al proprio. In che modo essere sicuri che l’altra persona non tradirà o che noi non lo faremo? La risposta è che non si potrà mai avere una completa sicurezza. Welte qui giunge alla stessa conclusione di Hildebrand: i pericoli esistono e accompagnano sempre le relazioni d’amore nella nostra vita. L’amore deve assumere su di sé la condizione di finitezza e contemporaneamente avere il coraggio di affrontare la realtà in tutte le sue sfumature78.

77.  Cfr. B. Welte, Dialettica dell’amore, cit., pp. 36-40. 78.  Al riguardo, Johannes B. Lotz parla dell’amore come un compenetrarsi di due correnti che rispecchiano due orizzonti: da un lato, l’orizzonte relativo al proprio sé, dunque un amore auto-riferito che ama a partire da sé medesimo e in relazione a sé; dall’altro, un orizzonte assoluto dell’essere in pienezza, nel quale si può sviluppare un amore liberato dal sé, un amore che non guarda più a se stesso, ma agli altri e al loro bene. Quando l’amore di-

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Inoltre, Welte non ha paura di nominare l’aspetto della verità dell’amore e di metterlo in primo piano, cosa che Hildebrand non fa. Che cosa dà all’amore il coraggio di affrontare questo rischio? Soltanto il riferimento a qualcosa di superiore che ci trascende e con cui si stabilisce un’alleanza. Solo così dall’amore può nascere la fiducia che l’amore abbia senso, che l’altro/a possa svilupparsi ancora e che ciò implichi anche la nostra crescita. Nella fede in un assoluto, anche la fedeltà sopravvive alle fluttuazioni e ai cambiamenti del tempo e, da entrambe, può nascere la speranza che l’amore sia sempre capace di rinnovarsi e, nonostante i pericoli, possa diventare un vero dono. In questo senso l’amore è sempre una promessa e una profezia: promessa che si continuerà ad essere fedeli nella dedizione donativa verso gli altri che implica anche decisione – non si fanno prove in amore – ed è profezia, perché mediante la promessa viene al contempo anticipato qualcosa che non è nelle sue mani. «Nell’amore si mostra la concordanza (e certamente la pericolosa oscillazione dell’equilibrio) tra l’io e il tu, e in questa oscillante concordanza la concordanza con tutto il mondo e la concordanza dell’elemento terreno con la vita sovraterrenadivina»79. Con queste parole Welte pone l’amore su un livello meta-ontologico, nel quale esso riveste l’importante compito di situare le persone e, attraverso di loro, il mondo intero nella loro essenzialità e, quindi, di svelarne il significato più profondo, quello del dono reciproco nella dinamica del perdere e del riguadagnare, del dare e del prendere. Tuttavia, ciò è per Welte possibile solo in Dio, in Lui l’essere umano può liberarsi interiormente dalla dimensione puramente mondana e trovare

sinteressato riesce a farsi strada, oltre l’amore legato a sé, anche il sé viene accolto e l’essere umano vive della forza dell’Essere (cfr. J.B. Lotz, Die drei Stufen der Liebe, cit., pp. 55-58). 79.  B. Welte, Dialettica dell’amore, cit., p. 23.

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nell’assoluto la sua ragione di essere. La visione fenomenologica di Welte sfocia, in tal modo, nella teologia. 2.4.3. Quadro di sintesi La Dialettica dell’amore di Welte ci offre un’estensione del concetto di risposta al valore e assegna all’amore il compito di portare a realizzazione l’essere dell’altro/a, incluso il mondo intero. L’atteggiamento affermativo della risposta al valore non raggiunge solo l’individuo, ma attraverso di lui include tutto il mondo. In un certo senso Hildebrand ha percepito questo aspetto, quando afferma che un amante non può provare sentimenti opposti all’amore, perché contraddirebbe l’amore stesso; ecco perché l’amore possiede un enorme potere, essendo dono-disé (Hildebrand) come dono dell’amante alla persona amata, ma anche dono di sé nel senso che l’amante restituisce il sé all’amato/a (Welte). Con Welte ci siamo imbattuti, quindi, in una nuova dimensione dell’essere che si esprime come essere-possibile nel senso di essere amati e che consente un’espansione del concetto di amore. La dinamica dell’amore, inoltre, evidenzia anche il carattere irrevocabile del medesimo, già nell’atto stesso dell’amare; a differenza di Hildebrand, Welte sottolinea, come Ortega y Gasset e Solov’ëv, la dimensione della sofferenza come un’esperienza inerente a ogni amore, come suo elemento di base e non come semplice episodio. Nella risposta al valore dell’altro/a avviene uno spogliamento che ci mette in balia dell’altro/a, non c’è più ritorno, c’è solo una decisione da prendere, vale a dire: o vivere l’amore così, pur sapendolo esposto in futuro a vari pericoli, o ancorarlo in Dio (attraverso la caritas – Hildebrand/in armonia con il soprannaturale – Welte).

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2.5. La dimensione erotica tra amare e essere amati: Hildebrand e Marion Una discussione ancora più fruttuosa sul fenomeno dell’amore emerge nel confronto tra Hildebrand e Marion80, come ha già affermato J.F. Crosby in alcuni suoi brevi accenni81. Sulla comune base della fenomenologia, entrambi questi autori sono mossi dalla ricerca dell’essenza dell’amore o, come lo definisce Marion l’erotico. A differenza di Hildebrand, la fenomenologia dell’erotico vuole essere per Marion una chiara e decisa alternativa alla metafisica e all’ontologia, si pone, perciò, in un atteggiamento sfidante nei confronti della filosofia, dichiarata, a parer nostro ingiustamente, colpevole della dimenticanza e persino della negazione82 dell’amore. Come siamo arrivati a tutto ciò? È la domanda di Marion all’inizio della sua ricerca. La risposta è che la filosofia semplicemente non possiede più concetti per l’amore, cosa che tuttavia non la esime dall’assumersi il compito a lei preposto di indagare sull’amore e, in nuova istanza, di cercare un concetto di amore che superi la sua negazione nella storia della filosofia. Secondo Marion, il concetto di amore dovrà rappresentare qualcosa di unificante (si intende l’amore sempre sotto fenomeni apparentemente opposti: eros/agape, desiderio possessivo e benevolenza altruistica) perché «univoco, l’amore si dice 80.  Jean-Luc Marion (1946-), filosofo francese contemporaneo, ha in parte seguito la tradizione dei pensatori direttamente a lui precedenti, come Paul Ricoeur, Jacques Derrida, Emmanuel Lévinas, accogliendo la fenomenologia husserliana e l’esistenzialismo heideggeriano con un confronto continuo con la società del suo tempo. Nel suo percorso di studio ha maturato una fenomenologia della donazione che pone al centro il dato in qualità di donato, riflettendo sulla dinamica donativa in sé e la relazione tra dono e adonato (colui che accoglie il dono). 81.  Cfr. J.F. Crosby, Introductory Study, cit., pp. xxxii-xxxiv. 82.  Cfr. J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, cit., Il silenzio dell’amore, pp. 5-16.

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solo in un senso unico»83. Il concetto di amore dovrà dimostrare una propria razionalità84, diversa e più vasta della ragione delle cose, perché si avvicina alla follia85. Infine, bisogna liberare l’amore da ogni orizzonte, pensarlo indipendentemente dall’essere; l’essere umano si rivela meglio nella modalità dell’erotico che nel pensiero, perché è proprio l’amore che lo distingue maggiormente e principalmente da tutti gli altri esseri viventi86. 2.5.1. La riduzione erotica. Sono amato – a partire da altrove? Secondo Marion una filosofia che renda giustizia al fenomeno dell’amore deve avviare una nuova riduzione, la riduzione 83. Ivi, p. 10. 84.  Robyn Horner, nella sua introduzione al pensiero di Marion, mette in risalto il carattere dell’amore capace di dimostrare una propria razionalità, che di per sé porta anche un altro tipo di conoscenza rispetto a quella che avviene sul piano puramente razionale. Per Marion, la razionalità dell’amore sussiste di per sé e la filosofia può decidersi solo a favore o contro, nella consapevolezza che essa non rappresenta nulla di insensato per il solo fatto di condurre a un altro tipo di sapere rispetto all’intelletto. Per un approfondimento del tema del rapporto tra amore e conoscenza in Marion, cfr. R. Horner, Jean-Luc Marion. A Theo-logical Introduction, Ashgate, Aldershot (EN)-Burlington (VT) 2005, pp. 66-71. 85.  Abbiamo già incontrato questo possibile rapporto dell’amore con la follia in Platone. Nel Fedro è Socrate che ne esplicita quattro differenti forme, dalla follia malata a quella divina, che a sua volta si suddivide in quattro modi: la follia mantica, quella mistica, quella poetica e quella erotica. La follia divina degli amanti viene considerata in senso positivo. Cfr. Platone, Fedro, in Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, pp. 535-594: 244a-245b e 265a-266b, risp. pp. 553-554 e pp. 571-572. 86.  «L’uomo ama, cosa che lo distingue da tutti gli altri enti finiti, ad eccezione degli angeli. L’uomo non si definisce né attraverso il logos, né attraverso l’essere che è in lui, ma per il fatto che ama, o odia, che lo voglia o no» (J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, cit., p. 12).

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erotica, perché, in definitiva, è la nullità che spiega la consapevolezza come impotenza difronte alla domanda di sicurezza del mio essere. Non è più la questione dell’essere che ci custodisce dal nulla, ma la questione dell’amore che Marion, attraverso le sue meditazioni fenomenologiche, rimanda sempre oltre dal: «sono amato – da altrove?» a «posso amare per primo?» fino all’ultima radicalizzazione della riduzione erotica del: «tu mi hai amato per primo»87. Tuttavia, si potrebbe rimproverare a Marion di non rinunciare definitivamente all’essere, visto che egli prende la questione della nullità come punto di partenza delle sue considerazioni. Se la questione metafisico-ontologica dell’essere come contrapposizione al non-essere non mi assicura dal nulla, o meglio se la domanda “perché l’uno invece dell’altro?” non mi svela il senso del mio essere; la domanda dell’amore come salvaguardia del mio essere rimane pur sempre una domanda metafisica. La riduzione erotica non esclude l’approccio ontologico, ma per questo è necessario elaborare una nuova definizione dell’essere, riconducibile all’amore. Addentriamoci, prima, nella riduzione erotica. Per Hildebrand la domanda se sia necessario conoscere l’oggetto d’amore per poterlo amare è particolarmente stimolante per comprendere l’amore più profondamente. Ora, a parte l’affermazione di Marion, secondo cui l’amore rende l’essere umano davvero più umano e lo rivela nel suo vero significato – cosa che Hildebrand condivide – troviamo una contraddizione fondamentale tra la definizione basilare di amore in Hildebrand come risposta al valore e la concezione di Marion che parla di atto spontaneo che ignora tutto dell’amato/a.

87.  Cfr. ivi, pp. 274 ss.

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Marion rinuncia alla conoscenza88, rendendo l’amore indipendente da essa, nel momento in cui afferma che l’amante decide spontaneamente e volontariamente di amare l’altro/a, prima ancora di conoscerlo/la e conosce solo nell’atto di amare. Come sottolinea anche Crosby, si potrebbe avvertire qui un’accusa contro Hildebrand che, comprendendo l’amore come una risposta al valore, l’àncora alla conoscenza del valore stesso, infatti – come già sappiamo – l’amore è sempre preceduto da un 88.  Il rapporto tra amore e conoscenza si presenta, nella storia della filosofia, con approcci anche molto differenti tra loro. Si pensi soltanto ad Aristotele, Agostino, Plutarco o Tommaso d’Aquino – per citarne solo alcuni –, i quali fanno della conoscenza la premessa per l’amore. La conoscenza, per questi autori, deve precedere ogni amore perché si ama ciò che si conosce. Contro questa posizione si pone, invece, Scheler, il quale sostiene che sia l’amore a precedere la conoscenza, poiché l’amore è un movimento verso il livello massimo di ogni valore e, dunque, spontaneo e indipendente dalla conoscenza. È l’amore che procura una conoscenza dell’oggetto. Sempre Scheler ritiene che Agostino – almeno nella lettura che ne fa Leonardy – sia il primo pensatore cristiano che inizia a voltare le spalle alla vecchia tradizione greca, ovvero alla comprensione dell’amore come qualcosa che precede la conoscenza (cfr. H. Leonardy, Liebe und Person. Max Schelers Versuch eines “Phänomenologischen” Personalismus, Nijhoff, Den Haag 1976, cap. II, § 5: Liebe und Erkenntnis. – Die Liebe als nicht-intellektualistische Grundpotenz, pp. 94-103). Hildebrand stesso si pone nel solco della grande tradizione, anteponendo la conoscenza all’amore, nonostante l’amore venga compreso esso stesso come via di conoscenza. Tuttavia, l’opposizione tra Scheler/Marion e Hildebrand è, a nostro avviso, del tutto apparente. Infatti, la relazione tra amore e conoscenza ci sembra non vada tanto intesa in senso temporale, ovvero di una precedenza nel tempo dell’uno o dell’altra, né tanto meno logica. Si tratta, piuttosto, di una relazione che Klaus Hemmerle chiamerebbe pericoretica, ovvero di mutua inabitazione, che genera un novum. L’amore e la conoscenza sono espressioni della trascendenza umana, ovvero implicano un movimento interiore di uscita da sé che opera in qualche modo il medesimo; se conoscere, in realtà, non è altro che un ri-conoscere in cui il cuore è implicato, e se amare è una forma di conoscenza, in quanto apertura e accoglimento del reale, allora non sussiste opposizione: conoscendo si ama e amando si conosce. Cfr. K. Hemmerle, Verità e amore - un rapporto pericoretico, in Id., Un pensare ri-conoscente, cit., pp. 368-403.

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atto di riconoscimento del valore dell’altro/a, perché è proprio questo che risveglia l’amore in noi. Il punto di partenza della riduzione erotica è il fatto che la certezza sul mondo che viene dall’intimo di noi, non garantisce a noi stessi sicurezza, perché noi non siamo come le cose del mondo, nel senso che per essere ciò che siamo, dobbiamo assumere di essere anche diversi da ciò che siamo, perciò non possiamo rimanere statici come le cose del mondo. Non ci dobbiamo chiedere, allora, “perché esisto?”, ma: “sono amato/a?”, perché solo la possibilità dell’erotico risponde davvero a noi stessi, appunto nella possibilità di essere amati/odiati “da altrove”. Nella prima fase della riduzione erotica, l’amor di sé si rivela impossibile punto di sicurezza per l’ego, ragion per cui si perviene all’“altrove”, infatti la sola domanda «sono amato/a?» richiama un’istanza al di fuori di noi, fondando così una dipendenza da essa. L’amore di sé può essere proclamato come un fatto, ma non si compie in modo performativo89, per non parlare, comunque, della contraddizione insita nell’espressione dell’amor di sé come risposta alla domanda: “sono amato/a da altrove?”. Se questo altrove fosse un’istanza esterna, si dovrebbe raddoppiare il proprio sé per assicurarsi di essere amati, prima di tutto come premessa, perché questa istanza dovrebbe stare di fronte o accanto per amare, essere dunque in qualche modo esterna all’ente amato. L’amore richiede un’estroversione non solo temporanea, ma costante e rivendica distanza90, percorrendo la distanza: non

89.  «L’amore per sé si può sicuramente proclamare, ma non si può “performare”» (J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, cit., p. 59). 90.  Si è già parlato di distanza all’interno della definizione personalistica dell’essere umano (cfr. supra, cap. III, parte II, § 1), ma si trovano anche interessanti prospettive al riguardo in Arno Plack, il quale, partendo dalle filo-

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possiamo né superare noi stessi, né correre davanti a noi stessi, né distanziarci da noi stessi, per questo non possiamo veramente parlare di amore di sé e non possiamo in alcun modo ottenere da questo pseudo-amore una risposta alla domanda: “sono amato/a – da altrove?”. L’amor di sé è ancor meno un punto di partenza, perché in realtà più che provare qualcosa che assomigli all’amore, ci odiamo, altrimenti non si spiegherebbe il desiderio di amarci. Secondo Marion l’amor di sé conferma semplicemente il fatto che non abbiamo sicurezze e che viviamo nella tensione paradossale tra ciò che non siamo – amabili – e ciò che non dovremmo diventare – odiosi. Sebbene con altri argomenti, Marion conferma, dunque, quanto anche Hildebrand sostiene, cioè che l’amore non può essere derivato dall’amor di sé, pur non negandolo in quanto tale. Dunque, neanche Marion sofie dell’amore di Hartmann, Scheler e Hildebrand, parla di un Ethos della distanza che caratterizzerebbe l’amore in senso pieno. Per distanza, in riferimento all’amore, non va inteso un voler-prendere-le-distanze dall’amato/a o un voltarsi via da lui/lei, quanto invece un rispettare, un avere attenzione alla specifica personalità del medesimo. Per Plack lo stesso amare sarebbe fondato su una distanza dagli altri, intesa come un fare-spazio-all’altro/a e un non-voler-dominar-l’altro/a. Tuttavia, questa distanza va di pari passo con la vicinanza, per cui il movimento dell’amore sarebbe la tendenza contemporanea di distanziarsi e avvicinarsi. Ciò esprimerebbe anche quanto Marion intende quando parla di una distanza e di un ripercorrere la distanza. E anche Hildebrand esprime in qualche modo questo concetto unitario di distanza e avvicinamento, pur non tematizzandolo in modo esplicito e diretto. La più piena unione non è, infatti, mai perdita di una certa distanza tra gli amanti, poiché non si tratta di fusione, ma di unificazione di due entità il cui fondamento ultimo resta nascosto a entrambe. L’amore non è “distruzione” del singolo e Hildebrand difende con veemenza questo punto: per raggiungere l’unione bisogna essere se stessi e stare nell’atteggiamento del perder-si senza rinunciare a sé. Cosa che, però, Plack mal intende vedendo nella teoria dell’intenzione unitiva un pericolo, quello appunto della fusione degli amanti, che deve portare al venir meno o a un “doppio omicidio” (cfr. A. Plack, Die Stellung der Liebe, cit., parte VI, pp. 143-153).

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giunge a questo estremo, perché alla fine della sua riduzione erotica l’amor di sé viene nuovamente preso in considerazione, anche se sotto una luce diversa. 2.5.2. Posso amare per primo/a? La situazione dell’odio di sé, tuttavia, non può restare così, come indifferente riconoscimento e accettazione da parte del­ l’ego, infatti, non appena esso incontra una persona che riceve amore, sorge la domanda: “perché lui/lei e non io?”, e l’odio si sposta verso l’altro/a. Il punto di partenza della domanda: “sono amato/a – da altrove?” conduce a un vicolo cieco, perché considera solo un ego che richiede sicurezza, che, cioè, vuole essere amato dagli altri. L’ego si aspetta uno scambio, cioè una reciprocità che, secondo un calcolo economico, dà solo dopo aver ottenuto, dunque, come conseguenza. L’amore, però, non ha nulla da barattare e funziona in modo diverso dal commercio91, occorre, quindi, radicalizzare la riduzione erotica e sostituire la domanda: “sono amato/a – da altrove?” – ancora troppo fortemente attaccata alla mentalità della reciprocità – con un’altra domanda che non teme aporie. Questa nuova domanda è: “posso amare per primo/a?”. Da qui in poi cambia la prospettiva: lasciamo quella dell’amato/a, per assumere quella dell’amante che dona, in una situazione che non conosce contro-argomentazioni: se si ponesse il caso limite per cui nessuno ci amasse, potremmo ancora continuare ad amare e il nostro stato di amanti non dipenderebbe da nessun altro se non da noi stessi.

91.  Alcuni approfondimenti su questo aspetto dell’amore inteso come dono anziché scambio si possono trovare nel volume Von der Ursprünglichkeit der Gabe, nel quale diversi pensatori si confrontano con la filosofia di Marion. Cfr. M. Gabel - H. Joas (a cura di), Von der Ursprünglichkeit der Gabe. Jean-Luc Marions Phänomenologie in der Diskussion, Alber, Freiburg i.Br.München 2007.

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L’amore è quindi un atto e, come tale, non perde mai, non teme alcuna perdita, perché più dà – e apparentemente perde – più vince, perché si concentra sullo stato di amante. L’amore non ha nulla a che fare con il baratto e il profitto, al contrario: un amore illimitato è la prova di un vero amore. Anche su questo punto, Marion e Hildebrand concordano, sebbene il secondo potrebbe sollevare dubbi, in particolare per quanto riguarda la questione del compimento della gioia e della felicità nell’amore, che è solo nella reciprocità, mentre non si incontra nell’amore unilaterale. Con Hildebrand, chiediamo a Marion da dove deduca la presunta sicurezza di sé: se il movimento originale di riduzione erotica sta nella ricerca della sicurezza dell’ego e l’ego ama col rischio di non venire mai amato e sempre e solo nell’atteggiamento di perdere se stesso, che cosa lo assicura? Lo stesso Marion si pone questa domanda e vi risponde ricordando che la riduzione erotica non riguarda più l’essere e, quindi, non riguarda la garanzia dell’esistenza continua, ma solo la sicurezza dell’amore. «Alla domanda “Posso amare io per primo?”, ricevo certo una rassicurazione, quella che amo sicuramente, che amo da amante deciso»92 e, poiché l’amore ci protegge dal nulla, perché trascende il nulla (per esempio possiamo amare i morti che non sono più fisicamente presenti o i non ancora nati, come un bimbo che può venire al mondo), troviamo un senso nell’amare. Sorge, però, un’ulteriore domanda: perché dovrei essere il/la primo/a ad amare? Quale il motivo per prendere l’iniziativa? Se tutti danno nell’aspettativa di ottenere qualcosa in cambio, o danno solo perché hanno ricevuto, la logica dell’amante come primo/a che ama senza interesse personale o precondizioni, non si adatta allo schema e, in realtà, non costituisce una 92.  J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, cit., p. 97.

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ragione per il suo amore. Anche Marion costata che l’amante ama senza motivo; in un certo senso, quindi, l’amore manca di ragione, non perché ignori la ragione, ma perché le sfugge. Qui ovviamente si tratta solo di quella ragione razionale che pensa in termini di causa ed effetto e con ciò misura e giudica tutto. L’amore ha una sua razionalità e lavora su una scala che fa parte della sola sfera affettiva, come ha già dimostrato Hildebrand, e con lui Scheler, basandosi sulle ragioni del cuore di Pascal: le cœur a ses raisons. Nella comprensione di Marion, l’amante dimostra che non ha bisogno di una ragione “razionale” per amare e che quindi è completamente libero di scegliere a favore o contro l’amore: posso amare o no – nessuno mi costringe a farlo – se nessuno si aspetta qualcosa da me e se io non mi aspetto nulla dagli altri. In questo senso non c’è davvero bisogno di conoscere la persona per amare per primi, non importa chi essa sia e come sia, per lo stesso motivo per cui non agiamo in previsione di una prestazione in cambio; di conseguenza Marion afferma: «la conoscenza non rende possibile l’amore perché ne deriva. L’amante rende visibile ciò che ama e, in mancanza di questo amore, non gli apparirebbe alcunché. Quindi, in senso stretto, l’amante non conosce ciò che ama se non in quanto lo ama»93. Qui arriviamo al punto cruciale in cui Hildebrand e Marion potrebbero allontanarsi l’uno dall’altro. Marion afferma che l’altro/a, cioè l’amato/a, appare al mio amore solo nell’atto e nel modo in cui lo/la amo. Sarei io, l’amante, o colui/lei che ama per prima, a mettere in luce l’altro/a e non viceversa. Ciò significa che, secondo Marion, nessuna conoscenza dell’amore lo precede, ma lo segue94; non l’amato/a, perché amabile, 93.  Ivi, p. 112. 94.  In senso contrario a ciò sta il presupposto dell’amore di “piacere”. Cfr. supra, in questo capitolo, § 2.1.

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accende l’amore in me con la mia successiva risposta al suo valore, come pensa Hildebrand, ma l’amante scopre l’amabile dell’altro/a nel momento in cui decide di amare e lo fa emergere. Solo l’amante vede davvero l’altro/a come tale, liberato/a da calcoli economici e regole sociali, vede cioè davvero lui/lei, e solo lui/lei – potremmo dire che vede la sua “nuda” verità. La prospettiva dalla quale Marion argomenta è l’amore che non ha, davanti a sé, alcun oggetto del mondo da definire in termini di misura e qualità, ma una persona che non si presenta come oggetto di percezione95; l’amante ama l’altro/a indipendentemente da tutte le sue qualità e, attraverso il suo amore, lo/la fa apparire nel suo splendore. Hildebrand, invece, afferma che l’amante ama l’altro/a nella sua preziosità, non classificata in base a qualità misurabili, ma nel suo essere persona; il che significa che questa bellezza o preziosità specifica esistono già in quella persona e l’amante, scoprendole, viene motivato/a a darvi una risposta adeguata. Una forma di conoscenza è quindi già presente nell’amore, sebbene la relazione tra conoscenza e amore sia reciproca, come sottolinea Crosby: da un lato è la bellezza nell’altro/a che muove l’amante a rivolgersi a lui/lei con amore, dall’altro è anche vero che la bellezza dell’amato/a diventa più evidente, perché l’amante vede in modo più profondo aldilà della sua bellezza96.

95.  Scheler intende lo stesso quando distingue gli “oggetti” d’amore tra oggetti e esseri umani. L’essere umano colto come persona non è mai dato come un oggetto, ciò si costata non solo nell’amore, bensì anche in altri atti. «La persona può essermi data solamente in quanto io ne co-eseguo gli atti – cognitivamente nel “comprendere” e nel “rivivere” la sua esperienza, moralmente invece nella “sequela”» (M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 250). Secondo questa posizione la persona viene capita soltanto nell’atto di amare, cosa che anche Marion pone come presupposto alla sua riduzione erotica. 96.  Cfr. F.J. Crosby, Introductory Study, cit., p. xxxiii.

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In effetti, entrambe le visioni sono vere, perché nessuno può negare l’esperienza di amare qualcuno perché lo percepisce meraviglioso e bello e che questa bellezza ha risvegliato l’amore. Riconosciamo la preziosità altrui, perché aperti all’amore; essendo, quindi, in un atteggiamento amorevole siamo in grado di rivelare la bellezza97 altrui, che forse nessun’altra persona aveva visto prima o che non si era mostrata in precedenza ad alcuno. Marion contesta questo principio molto probabilmente a causa della paura di ricadere in un’aspettativa “economica” di baratto, da cui vuole liberare l’amore. L’amore è un dono, è una grazia e questa è la base della sua filosofia. Se ammettiamo che l’amante risponda a una bellezza che percepisce, potrebbe accadere che si aspetti qualcosa in particolare e che ami per tale ragione, l’amore, allora, non sarebbe più un puro dono. Ciò significherebbe non amare affatto l’altro/a, perché l’amore è altruista: se scopriamo qualcosa di specifico che desideriamo in qualcuno, qualcosa che abbiamo sempre desiderato, e attraverso cui speriamo di compensare una mancanza, non amiamo affatto questo qualcuno, perché lo usiamo per il nostro tornaconto. Dovrebbe essere chiaro a questo punto che ciò non è amore, perché l’amore vuole il bene degli altri, vuole che possano svilupparsi pienamente e non guarda a se stesso. Anche se il desiderio più profondo dell’amore è l’intenzione unitiva, che include la propria felicità, questa si colloca sempre dietro il bene altrui. Il problema di Marion non si pone per Hildebrand, perché nella sua comprensione dell’amore non c’è posto per un pensiero di baratto e il valore stesso non può essere compreso nell’ac97.  Secondo Ortega y Gasset, «a ben vedere, possiamo dire che chi si innamora vuole innamorarsi» (cfr. J. Ortega y Gasset, Sull’amore, cit., p. 45). Ciò non va inteso, a nostro avviso, come atto della volontà, quanto come la prontezza o la decisione di amare di cui abbiamo parlato nel contesto del tema della volontà in Wojtyla e Hildebrand (cfr. supra, cap. V. § 2.1).

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cezione del commercio e del mercato. Non perché l’altro/a è prezioso/a e bello/a ai nostri occhi lo/la amiamo, perché altrimenti amiamo per interesse; piuttosto, lo/la amiamo perché è bello/a e prezioso/a in sé, perché capiamo che è amabile ed è bene amarlo/a. Ci sembra però che la posizione di Marion sia offuscata da una cecità, dovuta al non voler vedere dell’amante, che invece, non appena ama, si trasforma immediatamente in una maggiore capacità visiva del suo orizzonte. Fondamentalmente il primo passo dell’amore è un rischio e la stessa incertezza mi conferma come amante nell’atto di amare, ma può anche condannarmi alla sventura. La posizione di Hildebrand d’altra parte manca di spontaneità, perché l’amante si muove solo quando ha scoperto la bellezza dell’altro/a, cioè in un atteggiamento di risposta che, allo stesso tempo, cela qualcosa di passivo. Esprimendo ciò in modo diverso, possiamo dire che per Marion tutto proviene dall’amante, è lui/lei che si decide per l’amore, indipendentemente dall’altro/a e dalla sua dignità; mentre per Hildebrand è l’altro/a che chiama l’amante a fare un passo verso di lui/lei, cioè ad amare. Queste due prospettive possono essere riconciliate? Sì e no. Sì, perché costatare che l’altra persona fa di me un amante, chiamandomi attraverso la sua bellezza a diventare tale e ad apprezzare la sua bellezza, trova spazio anche in Marion, il quale, nel processo della riduzione erotica, giunto a un ulteriore blocco, deve passare all’ultima e definitiva posizione di partenza della riduzione, ovvero alla costatazione che «tu mi hai amato per primo». È il riconoscimento che l’altra persona si è donata a me e, quindi mi ha reso allo stesso tempo amante, proprio perché mi ha riconosciuto come tale, portandomi ad esserlo. Senza l’altra persona che mi rende espressamente amante, non saprò mai che

363 dopo tutto, e dopo tutti gli altri, anch’io potrei meritare di essere amato da altrove […]. Alla fine io amo persino me stesso, perché l’altro amante, attraverso il suo farsi avanti, ha reso me stesso amante, quindi amabile ai suoi occhi […]. Se posso finalmente pensare di compiere a fondo la riduzione erotica finendo per non odiarmi più e per amare persino me stesso, lo devo all’altro amante, quindi alla sua anteriorità su di me.98

2.5.3. Tu mi hai amato per primo – l’amore come dono In definitiva, la prospettiva, sia di Hildebrand che di Marion, è in un primo momento interamente dalla parte di colui/lei che sperimenta l’amore, quindi l’amato/a, che allo stesso tempo è un/a possibile amante. L’asse dell’amore è costituito da due poli: io e tu – l’amante e l’amato/a – che devono essere in equilibrio affinché l’amore possa giungere al suo pieno sviluppo. In questa dinamica sono presenti allo stesso tempo il dare e il ricevere, ovviamente non nel senso di calcoli economici, perché il dono dell’amore – che mi ridà il mio vero io – non è calcolabile, ma si basa sulla logica dell’amore: tu mi dai me stesso, chiamandomi a essere amante; io ti restituisco a te, rispondendo alla tua chiamata e rendendoti amato/a. Ma se l’amore diventa reciproco, anche tu mi rendi amato/a ed io, a mia volta, ti rendo amante. Ecco così risolto il problema della risposta al valore e della spontaneità dell’amore. Marion non si spinge fino al riconoscimento della conoscenza come fa Hildebrand, ma i vari elementi della sua riduzione erotica muovono oltre, così da cancellare le incompatibilità tra le due posizioni. In particolare, il riconoscere che ciò che è amabile in ognuno è allo stesso tempo base e frutto dell’amore può essere ritrovato nella definizione di amore come risposta al valore, che a sua volta, rimane libero e spontaneo, dato che la decisione finale di restituire un 98.  J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, cit., pp. 272-273.

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amore rimane sempre personale e inoltre non siamo costretti ad amare qualcuno semplicemente perché ne abbiamo riconosciuto la bellezza. L’incorporazione nel regno dei valori è puramente oggettiva e tipica per gli esseri umani, secondo la loro stessa natura; abbiamo, infatti, mostrato che l’essere umano è orientato al mondo dei valori, ne sia consapevole o meno. Rivolgendosi coscientemente a determinate aree di valore, può lasciarvisi incorporare e, in questo caso, ciò porta a un doppio risultato: da un lato, l’ambito dei valori viene realizzato nella persona, cioè la persona rende reali i valori stessi, orientandosi ad essi; dall’altro, l’ambito dei valori accoglie in sé la persona. La cieca avventura dell’amante nel primo passo verso l’altro/a è stata già preceduta dai primi passi di molti altri, indicando che la strada verso la riduzione erotica non può essere così cieca, perché siamo circondati non solo da esempi di persone amanti, ma anche dal fatto che noi stessi siamo stati da lungo tempo amati. Marion parla chiaro riguardo alla questione dell’amare e del­ l’essere amati: la riduzione erotica può spiegare come ogni persona sia sempre stata amata da qualcun altro e sia quindi diventata essa stessa amante. Secondo il filosofo francese il fatto di essere amati si trova, allora, all’inizio della riduzione, ma non spiega chi abbia iniziato ad amare per primo, in modo tale da avere la certezza di essere amati. Nella questione dell’amare e dell’essere amati ci ritroviamo, perciò, in una situazione di impasse che rende difficile sostenere chi venga per primo, perché nel momento in cui si comincia ad amare, si sperimenta già la risposta dell’altra persona e la stessa cosa accade alla persona che ha iniziato ad amare. Un piccolo esperimento mentale ci può aiutare: diamo a qualcuno – chiamato “uomo originario” – il compito di innescare

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la riduzione erotica di Marion. L’uomo originario è inserito nel mondo, circondato da piante e animali, ma non si conosce. Egli sperimenta le cose del mondo mediante il suo corpo, perché gli fanno resistenza, infatti non può prendere il posto di un albero o attraversare una montagna, le cose sono per lui impenetrabili99. Un giorno incontra altri esseri umani e, così innesca verso di loro la riduzione erotica, agisce da amante nei confronti di una persona che incontra e che non conosce. In lui si accende la speranza di trovare una controparte che possa confermarlo e dargli quel significato che non ha potuto altrimenti ricevere dagli oggetti e da altri esseri viventi. Attraverso questa azione egli saggia la propria corporeità, perché solo una persona con un corpo vivente e non un corpo materiale, può restituirgli il suo corpo vivente100. La riduzione erotica è, infatti, un’erotizzazione del corpo vivente101, nella quale erotizziamo il corpo vivente dell’altro/a e viceversa, perché solo il corpo vivente di una persona non pone resistenza come gli altri corpi del mondo, in maniera passiva, ma attivamente e, pur volendo, possiamo prenderne il posto solo nella misura in cui questi ci permette di farlo. 99.  Lasciamo qui intenzionalmente da parte l’esempio dell’acqua, anche se pure l’acqua rappresenta un corpo e può in qualche modo opporre resistenza; tuttavia, la cosa è ben diversa rispetto ai corpi materiali duri. Nell’esperimento mentale non ci sembra, però, di rilievo approfondire la questione delle caratteristiche fisiche degli oggetti e il loro darsi, perché un paio di esempi bastano a rendere comprensibile la riduzione di cui qui si sta parlando. 100.  Come accennato nel precedente capitolo, ciò è possibile perché il corpo vivente è quello che sente, ha una percezione sensitiva che muove non soltanto dai sensi esterni, bensì anche da quelli interni. 101.  La traduzione de Le phénomène érotique utilizza il termine “carne” per tradurre il francese chair. Noi preferiamo, per continuità linguistica con il resto della trattazione, utilizzare il termine in uso nelle traduzioni di testi fenomenologici dal tedesco, ovvero corpo vivo/vivente in contrapposizione a corpo materiale.

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«Laddove sento che quella (la carne) non mi resiste e che, lungi dal rimandarmi a me, si ritira, si fa da parte e mi fa posto, in poche parole quella si apre, so che si tratta di una carne o, meglio, di una carne diversa dalla mia, della carne di un altro»102. Nell’atto di aprirsi e creare uno spazio per l’altro/a avviene la restituzione del corpo vivente, che permette di sperimentare il proprio corpo vivente, cosa che altrimenti non sarebbe possibile. Improvvisamente si avverte contemporaneamente il proprio corpo vivente e quello altrui, che non pone resistenza e permette di “penetrare” nel suo corpo vivente: è l’erotizzazione che risveglia l’altro/a. Così accade che l’altro/a mi da ciò che non ha, il mio corpo vivente e che io gli do ciò che non ho, ovvero il suo corpo vivente103. Marion esclude, quindi, qualsiasi forma di amore solo spirituale, perché l’amore tra le persone non può ignorare il corpo vivente, il concetto stesso di amore spirituale è per lui una contraddizione in termini, perché non significa nulla e finisce nel vuoto. Tuttavia, la corporeità nell’amore non significa necessariamente sensualità, perché il diventare corpo vivente, di cui si fa esperienza nell’intuizione reciproca dei corpi, non è limitata a un toccare o a un semplice vedere, non è – per dirla con Marion – una messa a nudo del corpo altrui – perché ciò ridurrebbe quel corpo vivente al livello di un corpo materiale104; infatti, amiamo con tutto noi stessi: tutto ama in me, non c’è parte di me che rimanga esclusa dall’amore, o come dice

102.  Cfr. J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, cit., p. 152. 103.  Ivi, p. 155. 104.  A tal proposito Marion sottolinea che l’erotizzazione non va confusa con la sessualità: «non vi sono organi erotici, ma soltanto sessuali» (ivi, p. 163), perciò, l’erotizzazione delle carni non avviene per mezzo di specifici organi. La sessualità rappresenta solo una parte dell’erotizzazione, certamente con un ruolo molto importante e per il quale gli organi genitali svolgono una loro funzione rilevante, ma la sola sessualità non è capace di avviare alcuna ero-

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Hildebrand, quando amiamo tutta la vita si colora e tutta la persona ne rimane coinvolta. Ora, torniamo al nostro “uomo originario”: egli viene erotizzato dall’altro/a, percepisce il proprio corpo vivente da lui/lei e diventa così amante, ma allo stesso tempo deve lui stesso dare all’altro/a il suo corpo vivente, cioè deve amarlo/a in modo che possa fare esperienza di se stesso: questo è quanto Marion chiama l’«incrocio delle carni», ovvero quel processo nel quale «siamo in comunione, ma nella distanza delle nostre due carni. Esse si incrociano, attraverso la stessa riduzione erotica, in un unico fenomeno amoroso: ciascuno appare all’altro senza mai confondersi con lui»105. Si tratta di un processo destinato a iterarsi indefinitamente, affinché ciascuno abbia il suo corpo vivente, ma che di fatto non è eterno e può venir improvvisamente interrotto106, perché o l’una o l’altra persona smette di erotizzare e quindi di donare all’altra persona il suo corpo vivente. Quando l’uno/a si ferma, si ferma anche l’altro/a e i corpi viventi scompaiono diventando semplicemente corpi materiali. Perdiamo il nostro corpo, perché perdiamo l’accesso al corpo dell’altro/a – non nel senso della capacità sensitiva verso il mondo – e il corpo dell’altro/a diventa problematico. Perché succede questo? Perché il corpo si rende indipendente e si può erotizzare automaticamente quando e come vuole. Marion porta l’esempio dello stupro mentale per costringere l’altro/a all’erotizzazione contro il suo volere, facendo sperimentare la tizzazione, anzi, alle volte si può svolgere una erotizzazione proprio dove gli organi genitali sono inattivi (cfr. ivi, pp. 150-155). 105.  Ivi, p. 172. 106.  Marion parla di una interruzione, perché il processo si arresta e con esso la reciproca erotizzazione degli amanti, che di per sé non dovrebbe mai concludersi; perciò essa è come un colpo che accade «all’improvviso, non resta più nulla» (ivi, p. 173). In ciò, l’interruzione mostra la contingenza dell’erotizzazione e la necessità di andare incontro a una fine.

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finitezza, perché il corpo vivente si muoverà come un automa e il processo di erotizzazione finirà a un certo punto senza chiedere permesso. Bisognerà ripetere il processo, perché l’erotizzazione, nella sua finitezza, porta l’amante a ricominciare sempre da capo. L’uomo originario, che ha iniziato la riduzione erotica, ha dunque scoperto di non averla fatta volontariamente, perché il suo corpo vivente ha deciso di farlo, senza interpellarlo e il suo desiderio di infinito, di maggiore sicurezza, viene deluso, perché il processo stesso è condannato alla fine e, nella sua ripetizione facoltativa egli mette in dubbio il processo stesso. La riduzione erotica, infatti, non raggiunge la persona, rimane sempre un divario tra i due. L’altra persona diventa quindi uno qualunque e l’amore accade quale processo involontario senza la propria persona, con la conseguenza dei problemi noti alle relazioni d’amore: bugie, puro desiderio sessuale, tradimenti e tutte le perversioni possibili e immaginabili107. La persona108 non deve andar persa, e ciò è possibile solo se l’erotizzazione avviene volontariamente e non più automaticamente, in modo che il processo possa condurre fino alla persona, senza paura dell’interruzione che l’automatismo del corpo altrimenti causerebbe. L’erotizzazione scelta liberamente è possibile anche senza il contatto fisico di due corpi, come abbiamo già chiarito: fare 107.  Marion dedica un intero capitolo a questo “lato oscuro” dell’amore, ivi: Della menzogna e della veridicità, pp. 193-234. 108.  Marion tematizza questo concetto non tanto all’interno del processo della riduzione erotica, ma dà bene a intendere cosa ci si debba immaginare con esso. La persona, nella sua insostituibilità, si pone in contrapposizione a un puro “ruolo”; essa è il determinato, reale individuo che si definisce mediante caratteristiche – valori, per dirla nel linguaggio hildebrandiano – ed è come tale preziosa e insostituibile, nonostante o proprio grazie a tutte le sue mancanze.

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l’amore significa donarsi l’uno/a all’altro/a, darsi all’altro/a e riceverlo/a e questo può avvenire anche senza contatto fisico, ma ad esempio con la parola. La parola che rivolgo a qualcuno è il primo contatto con lui/lei, grazie a questa parola che parla di me e di noi, cioè di ciò che sta accadendo tra di noi, possiamo raggiungere l’altra persona e restituirle il suo corpo, perché la parola tocca il suo cuore e, quindi, tutta la persona. Successivamente può anche verificarsi un contatto fisico, in qualsiasi forma, che tuttavia non è indispensabile in linea di principio. L’uomo originario comincia, perciò, ad amare parlando con l’altra persona, rivolgendosi a lei attraverso la parola, per donarle il suo corpo. Se questa non rispondesse e ignorasse la parola rivoltale, l’uomo primitivo rimarrebbe solo e la riduzione erotica non potrebbe avvenire. È vero, è stato il primo ad amare, ma può esserne sicuro solo se l’altra persona gli restituisce la parola. L’amore è sempre un’esperienza a due e l’amante diventa se stesso/a, perché l’altro amante gli/le assicura il suo significato109. Anche qui Hildebrand e Marion si danno la mano in pieno accordo. Come risolvere, però, il problema del primo passo? Dobbiamo supporre che non solo un uomo, l’uomo originario ha avuto l’idea di cercare sicurezza e di fare il primo passo verso l’altro/a, ma che tutti vogliamo farlo, così che fin dall’inizio due persone nell’incontro fra loro, abbiano fatto contemporaneamente il primo passo. Accade allora che nel momento in cui si ardisce di amare l’altro/a per libera scelta, l’amore di questa persona ha già risposto, facendo sperimentare l’amore, facendolo/a sentire amato/a e allo stesso tempo amante. L’amore vive solo di reciprocità, come sottolinea espressamente Hildebrand, ma non ha aspettative, perché pone l’altro/a al centro. Per ogni amante è l’altro/a a trovarsi in primo piano, 109.  Cfr. la posizione di Marsilio Ficino, supra, cap. I, § 2.3.

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non il proprio ego con i suoi desideri e bisogni, pur ammettendo che questo ego ha bisogno di sicurezza, che alla fine gli viene data solo dall’altro/a. Nel donarci recuperiamo noi stessi, in quanto altri si sono già messi sulla nostra strada e ci hanno restituito a noi stessi. 2.5.4. Il rischio dell’amore e l’ultima sua sicurezza Nelle considerazioni di Hildebrand e Marion l’amore sembra svolgere non solo un ruolo estremamente importante nelle nostre vite, ma le costituisce interamente, perché, nell’atto di donarci reciprocamente, ci rende più noi stessi e, nella perdita di noi stessi, ci fa ricevere di nuovo dalle mani degli altri. Per questo fatto l’amore non è mai una perdita, a meno che non lo si voglia guardare con le classiche categorie della metafisica, secondo cui l’essere è, e il non-essere non è, quindi l’avere cade nel non-avere non appena si dà quello che si ha. Secondo le categorie dell’amore, al contrario, siamo noi stessi – nel senso più vero – quando perdiamo noi stessi nell’altro/a: non sono più quello che ero fino ad ora, quando amo qualcuno, perché mi dono a lui/lei, e sono ciò che ricevo da lui/lei. Purtroppo ciò significa che l’amore, nella finitezza della nostra vita, rimane sempre un rischio condannato al fallimento, perché può accadere che l’altra persona non voglia o non possa restituire l’amore, semplicemente perché si stanca o perché viene a mancare e, così, l’essere umano non raggiunge una volta per tutte la sua forma perfetta, ma deve aprirsi e donarsi sempre di nuovo e in modo molteplice. E anche se il dono è già stato accettato e l’amore ricambiato, non si potrà afferrare il dono ricevuto come una preda, perché in quello stesso momento, in cui si volesse farlo, esso si perderebbe e si diventerebbe incapaci di amare, ricadendo, secondo Marion, nell’automatismo del corpo materiale che non ci permette più di trovare e diventare noi stessi.

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Non si può amare temporaneamente e non si possono fare “prove generali”; se si ama si ama “per sempre” (Ortega y Gasset), anche solo nell’intenzione, perché un amore temporaneo in sé non può essere amore, sarebbe una contraddizione in termini. Chi o che cosa può garantirci, allora, di non sbagliare più e di non lasciarci sfuggire la vita? Marion, come Marcel, indica nella fedeltà un modo per uscire da questo circolo vizioso. Anche Hildebrand vede nella fedeltà un elemento essenziale dell’amore, sebbene essa si limiti più o meno alla sfera etica/ morale. Marion considera la fedeltà come qualcosa di più profondo, qualcosa che da un punto di vista fenomenologico consente al fenomeno erotico di affermarsi nel tempo e allo stesso tempo di diventare permanente e visibile, perché presuppone l’eternità. La fedeltà assicura all’amore l’eternità, non solo garantendo il futuro, ma anche il passato e il presente: il passato è assicurato perché, volenti o nolenti nelle relazioni d’amore dobbiamo rimanere fedeli; la parola una volta data non viene annullata, perché sarà l’altra persona a testimoniarla sempre in modo unico. L’amore ci cambia, ridandoci un pezzo di noi stessi e anche se questo amore finisce, noi resteremo cambiati per sempre, e per questo ha senso la fedeltà a questa parte di noi, sviluppata dall’altro/a. Perciò «serbo per sempre in me tutti i miei atti di amante, o meglio, essi serbano me in loro e tutelano la mia irrecusabile dignità di amante»110, altrimenti una parte di me andrebbe persa. Ne consegue che un amore negato è allo stesso tempo una negazione della persona e la sua condanna all’imperfezione o al non essere. Anche la presenza del nostro amore è assicurata dalla nostra stessa fedeltà, che diventa criterio di fedeltà per gli altri. Infatti, pure nell’esperienza d’amore bisogna fermarsi di fron110.  J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, cit., p. 240.

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te alla porta della visione interiore e dell’esperienza cosciente dell’altro/a, nessuno ci potrà mai assicurare il suo amore e la sua fedeltà, perché, come sappiamo dalle analisi di Hildebrand, la fedeltà non ha nulla a che fare con gesti e forme di espressione puramente esteriori111. La fedeltà diventa, così, un vissuto reciproco degli amanti, nel quale si potrà giudicare e rafforzare la fedeltà altrui, solo nella misura in cui si sarà primariamente fedeli e si rafforzerà la propria fedeltà e l’altro/a rafforzerà la sua, se lo desidera, e nella misura in cui vorrà e saprà essere fedele112. Quindi, non solo riceviamo il nostro corpo e la nostra fedeltà dagli altri, ma noi stessi, perché alla fin fine è l’amore il punto di identificazione. Tutto di noi, infatti, si può in qualche modo ripetere, alcune qualità potrebbero averle anche altri, ma le persone che abbiamo amato o che amiamo, le promesse di fedeltà fatte e tutti coloro che ci amano non sono intercambiabili, si riferiscono solo a noi e ci rendono noi stessi, non possiamo liberarcene senza perdere e negare una parte di noi stessi. Il processo dell’amore richiede, però, sempre una costante ripresa per raggiungere se stessi e tenersi in vita; come già emergeva in precedenza, il tempo sembra farsi nemico e fatalità dell’amore, perché il momento successivo richiede una nuova creazione nella riduzione erotica e così in ogni momento. L’amore è, dunque, abbandonato al tempo e, quindi, anche la piena realizzazione delle nostre possibilità come persone gli sta difronte senza difese? Hildebrand, pur non chiamando in causa il tempo, sostiene che l’unica possibilità di dare garanzia all’amore e alla nostra persona è di far confluire l’amore nella 111. Cfr. supra, cap. IV, § 4.1. 112.  Cfr. J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, cit., p. 242: «ognuno decide della fedeltà dell’altro, mentre non sa nulla della propria, in un corso di temporalizzazione che, in linea di massima, non ha fine».

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caritas. Solo la caritas può scavalcare le coordinate limitate di tempo e spazio e darci sicurezza. Dal punto di vista di Marion, invece, la fedeltà è l’unico modo di garantire il patto promesso (la parola data in senso hildebrandiano) dagli amanti e, quando il momento volge al termine ed è quindi esposto al nulla, ci si dovrà promettere di nuovo fedeltà e ripetere questo processo all’infinito, nonostante il pericolo di fallire nel caso che uno dei due amanti arranchi e si fermi. L’attimo, inteso come ciò che passa, non è una buona ragione quindi per la perdita dell’amore e questa è anche la visione di Hildebrand. L’unica possibilità è di invertire il processo, amando ogni momento come fosse l’ultimo, come fosse quello in cui la morte ci incontrerà: sarà questo momento a compiere il nostro amore. Marion si esprime in questo modo: «Ama adesso come se il tuo prossimo atto d’amore compisse la tua ultima possibilità di amare. Ama adesso, come se non avessi mai più altri istanti per amare»113. Il momento presente diventa, così, un’istanza escatologica e l’amante giunge al massimo della sua capacità di essere amante in qualsiasi momento, senza aspettare la fine, ma presupponendo l’eternità. Il momento escatologico diventa così il garante del presente, perché sappiamo sempre chi amiamo ora, ma ciò vale anche per il futuro, perché solo l’eternità del momento mi dà l’opportunità di dimostrare all’infinito il mio amore a colui/lei che amo. Infine, ciò vale anche per il passato, perché gli amanti si possono dire che cosa li ha uniti e cosa può ancora accendere l’amore l’uno/a per l’altro/a, nonostante tutto.

113.  Ivi, p. 265.

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Si tratta di amare ora o mai più, ora per sempre e in eterno. Hildebrand obietterebbe che ciò non è realmente possibile per l’amore naturale, o meglio all’interno di un amore naturale non ci può essere amore nel senso perfetto. L’amore richiede una ragione finale al di fuori della dimensione finita dell’essere umano, una ragione che non è nelle nostre mani. Come ammette la riduzione erotica di Marion, quando iniziamo ad amare ci accorgiamo di essere già stati amati e iniziamo ad amare perché abbiamo sperimentato questo amore di altri e viceversa, ma la realizzazione di questo amore è nella sua trascendenza in Dio114. Dio si presenta come l’ultima istanza115, come il primo e l’ultimo testimone di tutto l’amore, come l’unico che non si tira indietro e non inganna. Nell’amore di Dio, nella caritas/agape ogni altro amore trova la sua perfezione, pur trattandosi di un unico fenomeno: eros e agape sono nella visione di Hildebrand e di Marion come due tipi di dedizione (Hildebrand) o due nomi (Marion) dello stesso fenomeno: l’amore.

114.  Kurt Wolf spiega questa transizione come risposta alla domanda rimossa sull’origine del dono della vita (Marion), che muove o verso un donatore non indifferente nei confronti del mondo (Lévinas e altri pensatori ebraici), oppure verso un donatore che si è fatto egli stesso dono (Henry, Marion, Hildebrand). Cfr. K. Wolf, Philosophie der Gabe. Meditationen über die Liebe in der französischen Gegenwartsphilosophie, Kohlhammer, Stuttgart 2006, p. 196. 115.  Marion riconosce in Dio il primo, ma tale relazione delle forme di amore umano a un Dio che ama per primo ci ricorda il Dio primo creatore e forza movente. Perciò, l’iniziale critica alla metafisica si conclude in una meta-teologia di per sé problematica, non trovando una motivazione. Robyn Horner rintraccia qui un problema specifico legato alle altre opere di Marion, oltre la tematica stessa che lascia sfociare la riduzione erotica in una teologia dogmatica (cfr. R. Horner, Jean-Luc Marion, cit., pp. 135-146).

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3. Fenomenologia e metafisica: l’amore come nuova categoria dell’essere? Accompagnati dalle analisi fenomenologiche di Hildebrand e confrontando queste con alcuni altri pensatori del nostro tempo, abbiamo potuto guardare più attentamente al fenomeno dell’amore e comprenderne qualcosa della sua natura. La necessità di ricorrere anche a un’analisi degli aspetti etici e morali dell’amore116 ci sembra contenga una seria determinazione a non trascurare nulla di ciò che appartiene a questo fenomeno e di portarlo alla luce in pienezza. Siamo, perciò, convinti che Hildebrand abbia voluto restituire all’amore il suo giusto posto nella filosofia e chiarire il compito di quest’ultima – in un tempo che ha decisamente voluto rinunciare alla metafisica – anche come metafisica, non solo per dar voce al significato di un essere superiore, la cui “morte dichiarata” non ha giovato a un effettivo miglioramento né delle esistenze, né tanto meno delle discipline filosofiche, ma per riproporre la questione dell’esistenza di diverse entità date, tutte parimenti degne di attenzione. Dobbiamo, dunque, concludere che la filosofia dell’amore di Hildebrand è metafisica? Se si capisce la metafisica come la domanda su «entità inesauribilmente ricche e diverse»117, che non si limita solo a entità superiori, ma include anche gli ambiti più bassi dell’essere, allora la filosofia dell’amore di Hildebrand è 116.  Si potrebbe dire che, poiché l’amore non è né virtù, né dovere in tutte le sue espressioni, perché lo stesso amore al prossimo, in quanto comando, trova il suo significato non nella norma ma nel modello della sequela, esso non è neanche «buono o cattivo, né pienezza né mancanza» (R. Bittner, Liebe – eine Pflicht? eine Tugend? Keins von beiden?, in S.A. Döring - V. Mayer [a cura di], Die Moralität der Gefühle, cit., pp. 229-237); tuttavia, i singoli e concreti modi dell’amore sono per l’etica certamente importanti e sottostanno, in quanto tali, a un giudizio morale. 117.  J. Seifert, Die verschiedenen Bedeutungen von “Sein”, cit., p. 313.

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davvero metafisica e lo stesso Hildebrand ci sembra concepirla così. Illuminando la natura dell’amore dall’interno con l’indagine sulla sua natura, il fenomenologo tedesco ha contribuito a colmare un vuoto esistente che si era aperto nella storia della filosofia degli ultimi secoli e che solo le indagini di Scheler avevano esplicitamente individuato. Per questo non ci sembra giustificabile l’attacco di Marion alla metafisica a causa della sua «incompetenza erotica»118 o, quantomeno, andrebbe relativizzato. Infatti, la sua critica si basa sulla comprensione dell’amo­ re come un “fenomeno senza essere”, come già accennato, ma la sua riduzione erotica ha bisogno di un orizzonte, in cui è necessario iscrivere l’amore. L’indagine metafisica di Hildebrand presuppone l’essere e si muove nell’orizzonte dell’essere, sebbene inteso in senso più ampio. Come Josef Seifert119 chiarisce, Hildebrand fa un uso molto vario del termine essere. La distinzione husserliana/heideggeriana tra “essere così/Sosein” e “esserci/Dasein” si allarga, infatti, secondo Hildebrand – in un implicito richiamo all’affermazione aristotelica che l’essere si dice in molti modi – a una gradualità, per la quale sotto essere, al contrario di nonessere, si deve comprendere non solo l’intellegibile, ma anche il reale (come realmente esistente), l’essere in sé (in contrasto con i fenomeni che presuppongono sempre un soggetto), il non appariscente e il prezioso (o anche il dover essere). Poiché ogni essere è in sé una determinata unità di significato, Hildebrand riconosce una gradualità nelle unità di significato, in modo da distinguere un’unità puramente casuale (un mucchio di pietre, un mazzo di fiori) da un livello di unità più alto, entro lo stesso tipo di genere reale (un albero, una

118.  J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, cit., p. 11. 119.  Cfr. J. Seifert, Die verschiedenen Bedeutungen von “Sein”, cit., pp. 301332.

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casa), ed entrambi possono ulteriormente essere differenziati nell’unità superiore dell’unità internamente imprescindibile dell’“essere così”, che include fenomeni come la persona, il tempo o l’amore120. Al contrario di Marion per cui la deduzione fenomenologica dell’amore fa emergere la sua fenomenalità nel contesto dell’esistenza della persona, è comprensibile il motivo per cui Hildebrand non rinuncia all’orizzonte dell’essere come esistente, poiché l’essere ha significati diversi. Quindi l’amore è collegato all’essere, perché nasce dalla necessità interiore d’unità dell’essere-così della persona, anzi l’amore si rende custode dell’essere, essendo unità dell’essere-così nell’affermazione dell’altro essere, che dice: “è bene che tu sia qui!”, un’espressione affermativa dell’essere, nel senso dell’esistenza reale e concreta di una persona. Tuttavia, questa conferma è un’opzione gratuita dell’amore e, se trascuriamo questa chiamata all’amore, non solo perdiamo l’occasione di amare qualcuno, ma perdiamo l’essere stesso121, non solo l’essere dell’altro/a, ma il nostro stesso essere122.

120.  Cfr. ivi, p. 315. 121.  Con parole ancora più drastiche, Tadeusz Styczen descrive un processo similare. Prendendo la domanda circa l’autoidentificazione dell’essere umano in quanto tale, egli perviene alla conclusione che solo nella negazione dell’Io si raggiunga l’autorealizzazione: «Se, dunque, nel “sì” della richiesta resta l’unica possibilità per l’autorealizzazione, allora il soggetto, con il suo “no” restringe non solo la dignità della persona cui è indirizzato l’agire, ancor più la propria dignità – e questo con inesorabile efficacia […]. La violenza dell’amore si dimostra, in ultima istanza, come atto di violenza verso se stessi» (T. Styczen, Das Problem des Menschen als Problem und Drama seiner Liebe, cit., pp. 6588). Conseguentemente, la domanda dell’amore – amare o non amare – diventa anche domanda circa la comprensione dell’essere: essere o non essere. 122.  Si vedano le conclusioni al termine della riflessione su accettazione/ rifiuto di un amore: supra, cap. IV, § 3.3. Similmente, Scheler ritiene che chiunque neghi l’amore a qualcuno/a non solo fa l’errore di omettere un

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Se l’amore è dedizione123, esso è sempre in primo luogo una perdita del proprio per il bene degli altri. Per donarci all’altra persona come dono dobbiamo perderci, perché non possiamo rimanere incapsulati in noi stessi e allo stesso tempo aprirci all’altro/a. Questa perdita dell’amore si rivela, però, un guadagno se l’altra persona fa lo stesso e si dà a noi: il dono reciproco degli amanti è una conferma reciproca della preziosità di entrambi e quindi un dono dell’essere. Il fatto che “io sono” nel senso di un essere reale come essere esistente, non significa che io sia completa, cioè liberata dalla nullità, per la possibilità, sempre presente, di ricadere nella nullità di non essere preziosa. Proprio come l’esistenza proviene da “altrove” – per parlare con Marion – perché non ce la siamo data da noi, allo stesso modo non possiamo riconoscere da noi stessi il nostro valore: qualcun altro deve poterci dare ciò che non abbiamo ancora e che però ci appartiene. Solo l’altro/a può riconoscerci preziosi e comunicarcelo espressamente, solo l’altra persona ci fa sapere che siamo amabili. Possiamo costatare di esistere realmente attraverso la nostra percezione e i nostri sensi, a prescindere dalla presenza di altre persone, possiamo benissimo assumere che sia una cosa buona essere al mondo e convincercene anche da soli, ma la massima “sicurezza” ce la dà soltanto un’altra persona che ci dice: “È bello/bene che ci sei”124. proprio atto, ma è anche responsabile della non esistenza dell’atto positivo del contro amore dell’altro/a (cfr. M. Scheler, L’idea cristiana dell’amore e il mondo contemporaneo. Una conferenza, in Id., L’eterno nell’uomo, a cura di P. Premoli De Marchi, Bompiani, Milano 2009, pp. 879-982). 123.  Secondo Hildebrand, la dedizione va capita in tre modi: 1. come un uscire dalla vita propria andando verso l’altro/a; 2. come trasfigurazione della vita propria, ovvero donazione della bontà; 3. come donazione della vita propria facendo in sé spazio ad altri. La prima forma di dedizione non tollera le altre due e si distingue in fondo da queste per la sola mancanza di intenzione unitiva. 124.  All’interno della riduzione fenomenologica, Edith Stein descrive come si possa raggiungere se stessi mediante entropatia con gli altri. Questo fa sì

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In che modo l’altra persona può convincerci di questo? Con il suo atteggiamento amorevole. L’atto d’amore diventa così un atto di conferimento d’essere; l’amore come risposta al valore è una conferma del valore che incarniamo e portiamo dentro di noi, valore che viene in luce con l’atto di apprezzamento dell’altro/a o con la sua erotizzazione dell’altrui corpo vivente. L’amore nei confronti dell’essere è, dunque, creativo e, nel suo atteggiamento di donazione, liberato dalla nullità, perché unisce i due estremi: quando ti amo non sono più, perché non sono più presso di me, ma presso te, eppure sono, proprio perché ti amo125. La fenomenalità dell’amore messa in luce da Hildebrand, e non solo, evidenzia la posizione centrale dell’amore nel mondo della filosofia e il suo ruolo speciale nel contesto di un’ontologia dell’essere, come essere-così che è allo stesso tempo dover-essere-così. Questo essere, però, lo abbiamo già detto, non va inteso come una sostanza rigida in opposizione fatale al non-essere, perché ciò porterebbe alla conclusione di Marion che rinuncia a quell’essere che non è più in grado di restituirci in pienezza la realtà, tra cui l’amore. L’amore è, infatti – come egli spiega – possibile anche per il “non essere”, che alcune esperienze proprie non siano più necessarie, poiché le si guadagna appunto attraverso il processo entropatico con gli altri. La Stein porta anche un esempio concreto dell’esperienza religiosa: per capire tale esperienza nell’altro/a non è necessario che io l’abbia fatta in precedenza. Se l’entropatia è la via che attraverso altri ci conduce a noi stessi – cosa che Scheler mette in discussione – non è sufficiente derivarla da ciò che è di valore (cfr. E. Stein, Il problema dell’empatia, cit., pp. 224-227). Se è possibile fare esperienza dell’essere amati entropatizzando quanto altri sperimentano nel viverlo, non è possibile cogliere il proprio valore o la propria preziosità dal valore dell’altra persona, e ciò proprio perché non si è lei, ma se stessi. 125.  Compreso in questo modo, prendendo in considerazione il carattere recettivo della risposta al valore ed elevandolo a recettività dell’essere, potremo immaginarci, con Helmut Kuhn, l’essere umano come essere della risposta, che può compiersi pienamente soltanto perdendosi (cfr. H. Kuhn, Eine Philosophie des Sich-Verlierens, cit.).

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perché non solo amo ciò che è, ovvero ciò che esiste qui e ora, ma posso amare anche chi ancora non è (ad es., un bambino che potrà esserci) o chi non c’è più (ad es., un defunto)126, e posso amare – aggiungiamo noi – anche chi non si rende presente fisicamente o sotto le sole sembianze umane, come Dio. Di conseguenza, l’alternativa tra essere e non essere – classicamente formulata nella domanda originaria della metafisica: “perché l’essere e non il non essere?” – potrebbe venire riformulata come alternativa tra essere-così e essere diversi venendo in tal modo compresa non come esclusività, ma come possibile inclusione di essere e non essere? Il nostro essere-così come essere reale si mostra nella sua possibilità di dispiegarsi, come ha sottolineato Bernhard Welte, e l’amore può dispiegare questo essere reale, perché solo nell’amore l’io della persona reale è presente in prima persona e in modo insostituibile, come sottolinea criticamente Marion127. Io amo e vengo amata, nessuno può farlo al mio posto né sperimentarlo; perciò anche la mia esperienza d’amore non è interscambiabile con quella degli altri. Al contrario, le caratteristiche dell’essere-così sono in sé intercambiabili: avere i capelli castani o biondi, essere intelligente o meno, svolgere un ruolo importante nella società o vivere al limite, niente di ciò è costitutivo, anche se in un certo modo forma l’individuo (vale a dire come realmente esistente128, esattamente quello che è, con questa o quella caratteristica), ma non rende la persona distinguibile e decisamente insostituibile, cosa che invece è.

126.  Cfr. J.-L. Marion, Il fenomeno erotico, cit., pp. 10-11. 127.  Cfr. ivi, p. 15: «si deve parlare di amore come si deve amare: in prima persona. La caratteristica propria dell’amare è che si dice e si fa solo in proprio, in prima linea e senza possibili sostituzioni». 128.  Si potrebbe dire che il mio essere-reale venga definito da determinati accidenti o caratteristiche che rendono la mia sostanza individuale.

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Ciò proviene solo e assolutamente dalle esperienze d’amore: ogni persona che si rivolge a noi con amore ci conferma nel nostro essere, non nell’aspetto esteriore o nella funzione sociale, ovvero non nei nostri accidenti, ma come esser-amato/a perché in sé amabile. Certamente il carattere di risposta al valore dell’amore ha una certa connessione con le caratteristiche di ognuno di noi, ma anche queste servono all’amore solo come scintilla iniziale, non costituendo del tutto l’amore. Hildebrand sottolinea ripetutamente che il nostro amore agli altri non deve essere compromesso dalle peculiarità specifiche della persona, altrimenti non saremmo in grado di vederla in tutta la sua bellezza e aiutarla a rimanere fedele al suo vero essere. Quanto più e quanto più intensamente amiamo, tanto più ci sviluppiamo in vista del nostro vero essere; quindi, siamo, ossia siamo preziosi/amabili. È necessaria, dunque, una nuova ontologia per accogliere e declinare appieno l’amore, una ontologia che non muova più dal singolo, dall’Io, bensì prenda le mosse dal Tu della relazione d’amore; che si sbarazzi definitivamente delle maglie del “sostantivo” per liberare la forza del verbo, come Franz Rosenzweig invita a fare nel suo Nuovo pensare129 e Hemmerle rilancia nelle Tesi di ontologia trinitaria. In quella sede, il filosofo e teologo di Friburgo propone proprio di ripensare l’ontologia partendo da una fenomenologia dell’amore e prendendo sul serio il messaggio cristiano: «l’approccio dall’amore, dal darsi, è approccio dall’accadere, dal compiersi»130. Muovendosi con il processo dell’amare e non stando in sé, si acquisisce una prospettiva sul proprio essere identitario che appunto

129.  F. Rosenzweig, Il nuovo pensiero, tr. it. di G. Bonola, Arsenale, Venezia 1983. 130.  K. Hemmerle, Tesi di ontologia trinitaria. Per un rinnovamento del pensiero cristiano, tr. it. di T. Franzosi, Città Nuova, Roma 1996, p. 51.

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è tale (nel senso dell’esser-così) proprio in quanto e nel movimento dell’uscire da sé e perdersi non essendo più ciò che credeva di essere131. In ogni caso, la natura limitata della nostra condizione umana non potrà garantire il “successo” di tale movimento d’essere, perché siamo sempre soggetti al fallimento: «che noi con ciò giungiamo al nostro essere autentico, è un’aggiunta e un dono sovrabbondante»132. L’amore rimane, quindi, un rischio – che è anche rischio dell’essere – da bilanciare tra l’esser-così del nostro esserci e l’essere-­ diversi del nostro essere amati e con ciò a noi restituiti da altri. Amare o non amare diventerà il compito del singolo individuo in vista della perfezione reciproca o del suo fallimento. Per questo motivo la tensione alla reciprocità è essenziale all’amore, come sottolinea Hildebrand, e non è comprensibile senza la responsabilità, come evidenzia Wojtyla. Per garantire ciò, l’amore deve ancorarsi a un assoluto, che a sua volta contiene in sé l’unità nella diversità e si espone in prima persona al processo del perdere se stesso per riceversi di nuovo da altri. Questa possibilità è offerta da Dio, dal Dio trinitario del Cristianesimo, e consiste nell’io e nel tu e nella relazione di reciproca donazione tra i due che matura in un terzo, a sua volta donatore/donato. Su questo punto Hildebrand si trova in pieno accordo con molti altri pensatori del secolo scorso – come abbiamo cercato di illustrare – ma rimane ancorato a un vecchio modello ontologico.

131.  Rinviamo in questa sede a un breve approfondimento sull’ontologia trinitaria e la “presa sul serio” del messaggio della Rivelazione in un nostro breve articolo: V. Gaudiano, Stein e Hemmerle in dialogo: percorsi di ontologia trinitaria, in «Teresianum», LXVIII, n. 2, 2017, pp. 363-388. 132.  EA, p. 619.

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Sebbene, dunque, l’Essenza dell’amore, il poderoso lavoro che ha fatto da sfondo a questa trattazione, ci sembra offrire una feconda base fenomenologica per guardare all’orizzonte dell’amore aprendo nuove strade nel pensiero e nuovi percorsi nella direzione di una ontologia dell’amore – soprattutto se arricchita e messa in dialogo con altre fonti –, quest’ultima è stata più coraggiosamente tentata da altri pensatori, che, però, non hanno a loro volta sviluppato la proposta con un proficuo sguardo alla categoria di amore. Resta, perciò, aperta la sfida di una metafisica dell’amore che, facendo riferimento a una nuova comprensione dell’ontologia come viene proposta da Hemmerle, si riproponga all’essere dalla prospettiva dell’amore133 non temendo più il suo mistero e le sue contraddizioni, ma assumendole come dato ineludibile dell’essere stesso e creando, in tal modo, nuove categorie di pensiero e di vita all’altezza del nostro tempo e degli attuali compiti della filosofia.

133.  Rimandiamo qui al piccolo libretto pubblicato recentemente da Beck che, alla stregua del Principio speranza di Bloch e del Principio responsabilità di Jonas, si propone al riguardo di fondare l’amore come nuovo principio dell’essere. Sullo sfondo una prospettiva elaborata in anni di studio e ricerca di una Ontotriadik che si avvicina all’ontologia trinitaria di Hemmerle e che prende chiaramente il Dio trinitario come “paradigma” di riferimento. L’amore, analizzato in riferimento al processo evolutivo, alla conoscenza e all’agire, si dimostra, secondo Beck, veramente come una forza che lega, un principio di riferimento per ogni ambito dell’essere. Cfr. H. Beck, Das Prinzip Liebe. Ein philosophischer Entwurf, Lang, Berlin-Bern-Wien 2018.

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409

Indice analitico

Affettività:  147, 149, 151, 152, 156-159. Agape:  15-16, 18, 21, 30-31, 3334, 42, 51, 75, 77, 223-225, 296, 332-334, 351, 374. Altruismo:  134, 188, 214, 259, 326. Amante:  33, 42, 48, 50, 53-55, 57-60, 67, 71-72, 100, 110, 164, 166, 171, 173-174, 185, 190-194, 206, 212, 219, 220222, 224, 227-232, 234-239, 242, 247, 249, 251, 252-256, 260, 263, 267, 280-281, 300, 308, 313, 319, 328-330, 336340, 342, 344, 346, 350, 354, 357-369, 371, 373. Amato/a:  41, 48, 50, 53, 56-57, 59, 71, 74, 80, 100, 114, 119, 150, 163-167, 169-170, 172175, 179, 181, 185, 188-194, 200, 204, 206-207, 210, 219222, 224, 227-229, 231-233, 235-236, 238-239, 242, 245,

247, 249-250, 252, 254-256, 260, 263-264, 269, 273-275, 278, 281, 299-300, 302-303, 305, 307-308, 320, 327-330, 337, 339, 340, 342, 344, 346, 350, 353, 355-357, 359-360, 363, 369, 381. Amicizia:  19-20, 25-26, 29, 3541, 51-53, 66-67, 81, 138, 158, 173, 175, 199, 202-205, 208210, 218-219, 225, 233-234, 255, 258-259, 261, 263, 266, 279, 287, 313, 318, 325, 331. Amor proprio:  48, 71, 78-79, 168. Amore al prossimo:  30, 42, 4647, 53, 71, 76-79, 81-82, 134, 158, 168, 186-189, 194-195, 205, 211-221, 225, 278-279, 287, 292, 295-301, 375. Amore amicale:  18, 34-37, 3940, 53, 79, 197, 201-205, 207, 219, 224, 285, 325. Amore filiale:  18, 198-199, 324.

410 Amore fraterno (tra fratelli/sorelle):  37, 40, 201-203. Amore genitoriale:  18, 173, 196, 198-201, 205, 222, 250, 257, 263, 324-325. Amore in generale: 176, 205206, 250, 310. Amore nuziale: 254-255, 258, 311-313, 315, 317-318, 331. Amore per sé:  38-39, 42, 45, 48, 116, 295, 355. Amore per un ideale:  211, 217. Amore sessuale:  29, 68, 71, 7576, 79, 302, 309, 323-327, 334335, 337-338, 340-342. Amore sponsale: 18, 175-178, 180-181, 186, 194, 196, 206208, 210-211, 218, 245, 254, 259, 263, 266, 280, 282, 285, 302, 305, 331. Appetito/appetitus:  44, 46, 116, 167, 175. Arte:  92, 116, 177, 178, 182, 261, 292, 293, 294. Atteggiamento di fondo: 109, 111, 272. Atteggiamento: 36-37, 41, 45, 66, 87, 102-103, 109-111, 113, 118, 121-122, 134, 137, 144, 156, 163, 165-166, 168, 170, 174, 181, 183-184, 187, 192, 199, 200-201, 204, 213-214, 220, 224, 228, 230, 232-234, 238, 240-241, 246-247, 249, 251, 257, 260, 262-263, 267270, 272-274, 285, 292-294, 299-300, 308-309, 315, 319-

320, 331, 344-345, 350-351, 356, 358, 361-362, 379. Atto:  36, 52, 76, 79, 88, 94-95, 106, 108, 110, 115, 119, 120, 121-122, 137, 139, 152, 157, 162, 164-165, 169-170, 172, 178-179, 186, 190, 227, 230233, 240, 245, 248, 254, 257, 273, 286, 300, 307, 316, 318, 320, 328, 329, 336, 338, 347348, 350, 353-355, 358-362, 366, 370, 373, 378-379, 382. Autodonazione/donazione di sé: 169, 172-173, 185, 210, 302, 305. Azione:  36, 92-93, 106, 108, 110, 143, 148, 214, 246, 365. Bellezza:  30, 31, 33, 40-42, 5558, 70, 97, 99, 146-147, 162, 166, 170-171, 186, 211, 218219, 229, 231, 234, 239, 248, 255, 258, 275, 281, 293, 300, 305, 309, 318, 340-341, 344, 346, 360-362, 364, 381. Bene:  36, 37, 39, 43-47, 50-53, 63-66, 78, 86-90, 92, 93, 95, 97, 99-101, 104, 106-111, 117122, 124, 126, 128, 130-132, 136, 140, 145, 148, 150, 152, 157, 167, 182, 185, 187-194, 199-200, 207, 213, 219, 221, 223-224, 228-229, 232-233, 245-247, 268-269, 271, 275276, 278-279, 305, 308, 311, 318-320, 326, 332-344, 348, 361, 362, 368, 377-378.

411 Benevolenza:  21, 36, 61, 66, 165, 198-199, 211, 214, 217, 224, 249, 259, 294, 296, 301, 305, 311, 313, 319, 351. Caritas:  16, 19-21, 29, 31, 43-48, 52, 83, 150-151, 196-198, 215217, 220-222, 224-225, 243244, 253, 254, 271, 279, 282, 320, 330-332, 350, 370, 374. Categorie d’amore:  48, 197, 214215, 221, 225, 247, 271, 278, 283, 297, 317. Collocazione su un trono:  227, 229-231, 234. Comando:  77, 82, 112, 216, 275, 279, 281, 297, 298, 375. Compito:  33, 54, 59, 73, 92-93, 160, 200, 203, 205, 287, 309, 315, 324, 326, 334, 339, 346, 349-351, 364, 375, 382. Comunità:  26, 64-65, 87, 102, 122-123, 127, 129, 131, 133, 135, 140, 149, 178-179, 185, 221, 228, 233, 250, 263-265, 266, 269, 283-289, 326, 337, 341. Conoscenza:  32-33, 47, 52, 56, 63-64, 69, 86-87, 90-91, 93-94, 101-102, 107, 110, 115, 117118, 120, 128, 131, 132, 137, 151, 159, 168, 179, 184, 191, 200-201, 203, 239, 254, 288, 296, 322, 324, 327, 352, 354, 359-360, 363, 383. Contatto:  35, 90, 115, 128-130, 132, 136-139, 154, 178, 205,

261, 283, 297, 308, 314, 368369. Corpo:  12, 31-32, 34, 40, 56, 63, 68, 106, 137, 150, 152, 154155, 185, 211, 247, 302-305, 312, 314-316, 328, 365-370, 372, 379. Corporeità:  292, 301, 305, 311, 315-316, 336, 365-366. Credito di fede:  231-234, 236, 307. Cuore:  13, 69-70, 72, 77, 85, 116, 149, 151-153, 157-161, 169, 192, 208, 210, 213-215, 218, 220, 229, 234, 258, 264, 282, 341, 347, 354, 359, 369. Dedizione:  81, 110, 118, 132, 158, 172-173, 175, 192, 206, 212, 214, 224, 229, 239-240, 254, 264, 269, 280-281, 296297, 311, 314-315, 319, 332, 336, 349, 374, 378. Desiderare:  36, 47, 50, 67, 92, 94, 110, 112, 116, 132, 237, 238, 302, 328. Dichiarazione:  138-140, 143, 338. Dio: 20, 30-31, 34-35, 40-41, 43-49, 56, 58-59, 62-65, 6971, 73-75, 78, 81-82, 102, 108, 118, 126, 130, 135-136, 143144, 148, 151, 172, 187-188, 192, 197-200, 204-205, 208, 211-213, 215-220, 223-225, 243-244, 252, 266, 271, 276278, 287, 294, 296-300, 308, 314, 326-327, 330-334, 338, 349-350, 374, 380, 382-383.

412 Distanza:  37, 57, 98, 128, 165, 169, 355-356, 367. Dolore:  60-61, 66, 74, 155, 158, 251, 280, 337, 339, 348. Dono:  42, 118, 125, 137, 142, 160, 163, 172-173, 179, 180, 184, 218, 227-229, 234-238, 240, 257, 260, 264, 311, 343344, 346, 349-351, 357, 361, 363, 370, 374, 378, 382. Dover-essere:  77, 80-82, 93, 110112, 216, 244, 259, 276, 281, 329, 375. Dovere:  111, 244, 379. Egoismo:  134, 188, 221-222, 224, 319, 323-327, 332, 334, 338. Eros:  15-16, 18, 20-21, 29-35, 40-42, 44, 51, 55-57, 73, 75, 77, 103, 124, 175, 203, 223296, 327, 332-334, 351, 374. Esistenza:  12, 16-17, 20, 43, 65, 73-74, 76, 101-105, 115, 118, 123, 131, 133, 135, 168, 240, 242, 265, 282-283, 289, 316, 328, 342, 346-347, 358, 375, 377-378. Esperienza:  12, 17, 47, 65-66, 68-69, 74, 95-97, 102, 112113, 115-117, 125, 133, 136, 143, 150, 155, 158, 178, 179, 184, 188, 190-191, 195, 200, 201, 227, 239, 241-244, 260261, 273, 279, 298-299, 312, 314, 317, 319, 322, 325, 343344, 348, 350, 360-361, 366367, 369, 371-372, 379, 380.

Essente: 51, 93, 95, 101-104, 118, 230, 346-347. Essenza:  11, 22, 46, 59-60, 67, 72, 86, 101, 104, 106, 112, 118, 123, 133, 135, 163, 167, 184, 188, 197-198, 201, 206, 209, 213, 232-233, 235, 253, 260, 273, 276, 283, 288, 293, 310, 312, 314, 322, 330, 333, 336, 341, 343, 351, 360, 382. Esser-così:  101, 382. Esserci:  54, 98, 105-107, 187, 242, 258, 276, 330, 344, 347, 376, 380, 382. Essere:  12, 13, 17-23, 25, 30-38, 41, 43-47, 49-50, 52-54, 55, 57-65, 67-82, 85-90, 92-98, 101-109, 111-147, 149-165, 159-166, 168, 170-177, 179185, 187-190, 193, 195-197, 199-203, 207-211, 213-220, 222-225, 227, 230-231, 233253, 255-268, 270-273, 275280, 283-289, 291-293, 295306, 309, 311, 314, 316-317, 319-320, 322-335, 337-353, 355-358, 360-364, 370-383. Eternità:  44-45, 63, 77, 79-81, 130, 216, 306, 328-332, 334, 340, 371, 373. Etica:  87, 91-94, 111-112, 120, 126, 161, 194, 196, 217-218, 238, 242, 244, 254, 256, 261, 266, 295, 309-311, 319, 325, 371. Fede:  17, 25, 47, 70, 75, 114, 126, 218, 231-234, 236, 274-

413 275, 300-301, 307, 329-330, 338-339, 349. Fedeltà:  37-38, 41, 70, 163, 224, 227, 266-275, 309, 320, 329, 349, 371-373. Felicità:  29, 35, 42, 47, 60, 96, 119, 133, 136, 152, 157, 164166, 173-175, 187-188, 194195, 200, 210, 213-214, 216, 224, 238-242, 246, 283, 294295, 299-300, 303, 305, 332, 335, 358, 361. Fenomeno:  13, 15, 18-19, 21, 23, 29, 31, 39, 68-69, 80, 85, 96, 110-111, 129, 149, 153, 160, 169, 190, 211, 222, 236, 249, 251-253, 264, 271, 291-292, 298, 301, 306, 316, 320-321, 330, 335, 340, 343, 345-346, 351-352, 355, 358, 363, 366367, 371-372, 374-376, 380. Fenomenologia:  24, 67, 78, 94, 124, 128, 130, 197, 204, 236237, 288, 297, 310, 318, 347, 351, 375, 381. Gelosia:  67, 80, 250-254. Individuo:  59, 99, 123, 126, 134, 172, 219-220, 288, 340, 368, 382. Innamoramento:  206-207, 335, 337. Intenzione benevolente: 150, 169, 174-175, 189-192, 196, 199-200, 203, 212, 219, 294, 311, 313, 318-319, 332.

Intenzione unitiva: 150, 176, 179, 181, 183, 186-187, 214215, 221. Io:  39, 73-74, 81-82, 97, 124-125, 127, 137, 139, 159, 166-167, 172-173, 178, 181, 185, 204, 206, 218, 220-222, 264, 296, 335, 338, 343-344, 347, 360, 363, 366, 378-380. Libertà:  17, 26, 44, 46, 65, 75, 80, 87, 97, 106, 122-124, 136, 140-148, 156, 230. Male:  12, 27, 38, 44, 63, 88, 9293, 107, 110-111, 121-122, 145, 148, 189, 191, 233, 271, 333. Metafisica:  15, 18, 22-23, 26, 2931, 34-35, 43-44, 71, 85, 105, 110, 124, 127, 133-135, 150, 160-161, 196-197, 208, 242, 244, 266, 271-272, 286-287, 292, 302, 317, 322, 334, 348, 351, 353, 370, 374-376, 380, 383. Mio:  11, 43, 113, 137, 170-171, 174, 181, 184-186, 205, 252253, 259, 263, 266, 273, 279280. Momento presente: 268, 273, 306, 331, 334, 373. Moralità:  22, 25, 35, 40, 56, 68, 75, 87, 93, 106, 109, 111, 114, 121, 123, 140, 144, 147, 208, 214, 216-217, 227-228, 238, 244-245, 254-255, 260, 263266, 271, 301, 304, 345.

414 Morte:  12, 27, 43, 57, 322, 328, 330-331, 334, 337, 339, 373, 375. Obbligo: 111, 121, 216, 258, 263-264, 267, 269, 309. Odio:  61-62, 66-67, 80, 154, 219, 222, 251, 298. Oggetto:  21, 44, 50, 58, 61, 66, 74, 88, 90-91, 94, 96-97, 112115, 117, 124, 128, 137, 139, 141, 146, 153, 155-157, 162163, 165-166, 178, 206, 223, 230, 251, 304, 335, 360. Ontologia:  19, 242, 381-382. Ordo amoris:  38, 42, 44, 46, 228, 276-277, 280. Orgoglio:  18, 86, 108, 126, 223, 348, 352, 362, 376. Orizzonte: 165-166. Passione:  41, 49, 51, 62, 65, 68, 81, 152, 156, 223, 250, 259. Percezione: 23, 90-91, 94-95, 114, 131, 155, 162, 230, 247, 315, 360, 365, 378. Pericolo:  26-27, 67, 69, 98, 181, 183, 195, 221, 224, 246-247, 254-255, 274-275, 298, 319, 324, 347, 356, 373. Persona:  11, 13, 17, 22, 28, 36, 41, 47-48, 50-51, 56, 60-61, 6668, 73-74, 76, 78-79, 81, 86-90, 92, 97, 99-104, 106, 108-109, 111-113, 116-117, 121, 123143, 145-149, 152, 155-163, 165-175, 177-178, 180-184, 187-190, 193-196, 203, 205-

208, 210-214, 217-222, 224, 229-234, 237, 239-242, 245249, 251-260, 262-268, 272285, 292-293, 295, 297, 299, 302, 304-307, 309-311, 314, 316-320, 323, 327, 331, 333, 336-339, 341-343, 345, 348, 350, 357, 359, 360-362, 364365, 367-372, 377-382. Personalismo:  17, 70, 123-125, 130-131. Portatore di valori:  108, 124. Preziosità:  162, 175, 193, 206, 214, 218-219, 230, 239, 318, 343, 360-361, 378-379. Profondità:  30, 77, 146-147, 158, 160, 173, 192, 261, 268, 272, 303, 307-309, 336, 341. Reciprocità:  31, 35-36, 64, 139, 158, 174, 178, 180, 187-188, 196-197, 200-201, 212, 237, 254-255, 281, 293, 300, 325, 337, 357-358, 369, 382. Relazione:  21, 29, 31, 34, 3840, 42, 46-49, 51-52, 56, 58, 64, 75, 81-82, 87-88, 90-91, 94, 97-98, 101-102, 104-105, 107-109, 112-114, 116-120, 124-126, 128-129, 132-137, 139-140, 145-146, 150, 155, 157, 162, 164, 174-175, 177179, 181-186, 188, 194, 196, 200, 207, 209, 211, 214, 218, 220-223, 227-228, 233-234, 237-239, 241-245, 248-252, 254-257, 259-262, 264, 266267, 270, 272-274, 282-284,

415 288, 292, 294, 297, 305-306, 310, 313, 315, 318, 321, 327328, 331, 336, 337-338, 342345, 348, 351, 354, 360, 374, 381-382. Responsabilità:  38, 106, 124, 126, 140, 145, 173, 183, 193, 209, 242, 259, 262, 265, 268, 308312, 315, 318-319, 348, 382383. Rischio:  175, 182, 212, 221, 233, 245, 257, 275, 294, 338-339, 347-349, 358, 362, 370, 382. Risposta al valore:  19, 22-23, 59, 75, 85-87, 97, 109, 112, 117122, 125, 132, 134-135, 145, 150-151, 157, 161-162, 167171, 178, 186, 192-193, 202, 214, 218-219, 228-229, 234, 239, 254-256, 259, 268-269, 281, 288-289, 293, 296-297, 305, 307, 318-231, 329, 336, 342, 350, 353-354, 363, 379, 381. Risposta:  12, 38, 48-49, 61, 79, 88, 92-93, 96-98, 105, 107, 111, 113-115, 117, 119-122, 137, 141, 144, 148, 153, 156, 161, 163-165, 169, 171, 173174, 189, 191, 198-199, 205206, 211, 214, 221, 225, 237, 243-244, 249, 264, 266-268, 275-277, 282, 288, 297-298, 306-309, 311, 317, 319-322, 326, 342, 348, 351, 355-356, 360, 362, 364, 374, 379. Sanzione:  147-148, 156.

Sensualità:  1, 211, 301, 312-316, 321-322, 366. Sentimento:  20, 66, 98, 151, 153155, 160, 166, 199, 204, 206, 232-233, 251-252, 292, 312313. Sguardo l’un nell’altro/a: 178, 180, 185, 198, 285-286, 305, 314. Sicurezza:  80, 98, 164, 184, 194, 230, 253, 276, 287, 332, 348, 353, 355, 357-358, 368-370, 373, 378. Significatività:  88-90, 95-96, 100, 105, 111, 115, 121, 144, 167, 189. Soggetto: 24, 90, 93-96, 100, 105, 110-111, 114-115, 119, 126, 128, 137, 154, 157, 160, 169, 178, 182-183, 228-229, 265, 307, 319-320, 330, 347, 376-377. Stato di cose:  115, 169. Superattualità: 119, 170, 173, 268, 273, 284, 293, 306-307, 334. Tempo:  11-13, 17-18, 20-21, 25, 31, 33, 37, 40, 43-45, 49, 54, 57, 59, 61, 67, 71, 76-77, 90, 100-101, 126, 129, 139, 149151, 170, 173, 180, 198, 202, 212-213, 221, 227, 232-233, 239, 281, 284, 288, 296, 306308, 310, 314, 322, 328-334, 339-341, 344, 349, 351, 354, 362-364, 367, 369, 371-373, 375, 377-379, 383.

416 Tenerezza:  312-315, 321, 336. Trascendenza:  28, 33, 70, 108, 118, 133-136, 140, 191-192, 224, 240, 272, 332, 354, 374. Tu:  77, 81-82, 111, 124-125, 137, 139, 178, 181, 185, 187, 206, 220-221, 231, 235, 238-239, 246, 264-265, 299, 308, 319, 328, 343-346, 348-349, 353, 362-363, 377, 381-382. Unione:  48-51, 53, 68, 74-75, 119, 124-125, 128-129, 150, 174, 177, 179-181, 185-189, 195, 201, 204, 208, 210-211, 221, 224, 250, 254, 286, 302305, 311, 324-327, 334, 336, 340, 356, 367. Valore:  11, 16, 18-19, 21-23, 2527, 32, 36, 43, 53, 55, 59, 75, 82, 85-112, 117-123, 125, 132, 134-136, 145, 147-148, 150151, 157, 161-163, 166-174, 178, 182, 185-186, 189, 192194, 198, 202, 206, 214, 218219, 222, 228-230, 232-235, 238-240, 243-244, 249-251, 254-260, 263, 266, 268-269, 273, 278-279, 281, 283, 287289, 293, 296-299, 301, 304305, 307, 309-311, 315, 317321, 327-329, 333, 336, 342, 350, 353-355, 360-361, 363364, 378-379, 381. Vissuto:  124, 152, 163, 189, 257, 372.

Vita propria:  133-135, 187-189, 192, 195, 212-213, 299, 378. Volontà:  36, 49, 52, 60, 65-66, 75, 79, 88, 92, 96, 100-101, 106, 108, 110, 115-116, 120123, 141-144, 147-149, 151153, 155, 158-159, 169, 183, 187, 192, 214, 216, 218, 230, 248, 257, 266, 271, 277, 301302, 316, 318-321, 338, 354, 361, 368.

417

Indice dei nomi

Abbagnano, N.:  88 n., 124 n., 266 n., 347 n. Adorno, Th.W.:  82 n. Aersten, J.A.: 50-51 n. Agostino d’Ippona:  30, 42, 43 e n., 44-45 n., 46-47 e n., 48-49, 52, 58, 66, 72 n., 75, 120, 155 n., 167 n., 275-276 n., 354 n. Ales Bello, A.:  288 n. Andres, S.:  261. Arendt, H.:  42 n., 44 e n., 45 n. Aristotele:  29, 34-35 e n., 36, 3739 e n., 41-42, 46 n., 52 n., 5354, 72 n., 92 n., 105 n., 116 n., 120, 152 e n., 203, 266  n., 295 n., 318 n., 354 n. Arjonillo Jr., R.B.:  208 n. Ayer, A.J.:  98 n. Bartuschat, W.:  63 n. Basso, P.:  94 n. Beck, H.:  383 n. Beethoven, L. van:  97. Bello, R.:  271 n.

Ben-Ze’ev, A.:  154 n. Berlinger, R.:  25 n. Berning, V.:  127 e n., 128 n., 130 e n., 274 n. Berti Milanoli, A.:  126 n. Beschin, G.:  47 n. Binswanger, L.:  192 e n. Bischof-Köhler, D.:  209 n. Bittner, R.:  375 n. Bizet, G.:  248 n. Bloch, E.:  383 n. Bodei, R.:  42 n., 44 n., 46 n., 275-276 n. Boella, L.:  42 n. Boezio:  123 n. Bolgiani, F.:  16 n. Boros, G.:  63 n. Bowlby, J.:  177 n. Brechtken, J.:  52 n. Breuer, C.:  109 n., 327 n. Brungs, A.:  51 n. Buber, M.:  81-82 n., 126 n., 129, 181 e n.

418 Caldarone, R.:  237 n. Canziani, G.:  55, 56 n., 58 e n. Carena, C.:  43 n. Caronello, G.:  70 n. Castiglione, L.:  272 n. Chervin, R.:  27 n., 109 n. Comte-Sponville, A.:  215 n., 223 e n. Conrad-Martius, H.:  24 e n., 347 n. Conrad, Th.:  24. Coriando, P.-L.:  69-70 n., 72 e n. Costa, F.:  297 n. Costa, V.:  297 n. Costantini, E.:  191 n. Crisippo:  155 n. Crosby, J.F.:  97 n., 145 n., 167 e n., 188 n., 318, 319 n., 351 e n., 354, 360 e n. D’Ambra M.:  128 n. Dahm, H.:  327 n. Damiani, M.:  208 n. Daubert, J.:  23. De Caro, M.:  143 n. De Dijn, H.:  63 n. De Monticelli, R.:  126 n. De Sousa, P.:  154 n. Del Corno, D.:  32 n. Dionigi Aeropagita:  51 n. Dollfuß, E.:  26. Döring, S.A.:  98 n., 375 n. Drummond, J.J.:  97 n. Duns Scoto, G.:  119-120 e n., 141 n. Düsing, E.:  35 n., 51 n., 124 n. Düsing, K.:  35 n. Dux, G.:  68 n., 208 n.

Ebbersmeyer, S.:  56 n. Eccles, J.C.:  143 e n. Embree, L.:  97 n. Engstler, A.:  62 n. Fabbianelli, F.:  95 n. Fabro, C.:  78 n. Federici, S.:  177 n. Fichte, J.G.:  30, 59, 72, 73 e n., 74, 75 e n., 76, 326 n. Ficino, M.:  54, 55-56 e n., 57, 58 n., 59 e n., 211 n., 369 n. Fimiani, A.:  77 n. Florenskij, P.A.:  Fornero, G.:  88 n., 124 n., 266 n., 347 n. Forster, K.:  133 n. Franzosi, T.:  381 n. Frege, G.:  346 n. Freud, S.:  148, 177 e n., 210 n. Fromm, E.:  68, 208 n., 261 n. Gabel, M.:  357 n. Gabriel, G.:  266 n. Gander, H.-H.:  95 n. Gardiner, P.:  81 n. Garin, E.:  66 n. Garin, M.:  66 n. Gässler, G.F.:  276 n. Gaudiano, V.:  137 n., 283 n., 382 n. Gay, N.:  16 n. Gaylin, W.:  177 n., 211 n., 243 n., 261 n. Geiger, M.:  23, 126 n. Gesù:  195, 215 n. 216, 225, 279. Geyer, Ch.:  142 n. Giancotti, E.:  61 n.

419 Glanzmann, S.:  55 n., 57 e n., 58 n., 59. Goethe, J.W.:  247. Goldie, P.:  154 n. Gorczyca, J.:  188 n. Grillparzer, F.:  248 n. Grossart, F.:  160 n. Gründer, K.:  266 n. Guardini, R.:  126 n. Guttenberger, G.:  214 n. Haecker, Th.:  153 n., 160 n. Häring, B.:  125-126 n. Hartmann, N.:  123 n., 125 n., 233-235 n., 244 n., 260 n., 272 n., 301 e n., 320 n., 338 n., 356 n. Hegel, G.W.F.:  87 n., 346 n. Heller, Á.:  154 n. Hemmerle, K.:  283 n., 354 n., 381 e n., 383 e n. Hering, J.:  24. Heschel, A.J.H.:  126 n. Hildebrand, A. von:  27 n., 309 n. Hoeres, W.:  119-120 n. Holmes, J.:  177 n. Horkheimer, M.:  264, 265 n. Horner, R.:  352 n., 374 n. Hover, W.:  71 n. Husserl, E.:  23, 24 e n., 89, 91 n., 93 n., 94 e n., 95, 103 n., 111, 112 n., 159 n., 297 n., 303, 334 n., 347 n. Iannascoli, L.:  42 n. Ilien, A.:  51-52 n. Joas, H.:  357 n.

Jonas, H.:  126 n., 383 n. Jourdan, A.:  27 n. Kahlefeld, H.:  133 n. Kant, I.:  93 n., 110-111 e n., 112 n., 120, 123 n., 124 n., 153 n., 216, 346 n. Kierkegaard, S.:  30, 76-82 e n., 216, 295 n., 328 n., 346 n. Klein, H.-D.:  35 n., 51 n., 124 n. Klum, E.:  327 n. Kobusch, Th.:  124 n. Kolmer, P.:  88 n., 154 n. Koppel-Ellfeld, I.:  23. Koyré, A.:  24. Krüger, G.:  33 e n. Kuhn, H.:  25 n., 26 e n., 133 n., 176, 177 n., 195, 379 n. Lacan, J.:  243 n. Lauster, P.:  253 n. Lavazza, A.:  143 n. Lemmens, W.:  63 n. Leonardy, H.:  354 n. Lévinas, E.:  126 n., 238 e n., 351 n., 374 n. Levy, N.:  143 n. Lewis, C.S.:  203 n. Lipps, H.:  23-24. Lo Sapio, L.:  143 n. Locke, J.:  123 n. Longoni, V.:  32 n. Lotz, J.B.:  225 n., 348-349 n. Lowry, L.:  258 n. Lozza, G.:  258 n. Manganaro, P.:  182 n. Manz, H.G. von:  75 n.

420 Marcel, G.:  17 n., 25, 161, 166 e n., 171 n., 271, 272-273 e n., 371. Marion, J.-L.:  23, 236-237 n., 252 n., 298 n., 308-310, 311 n., 340 n., 351-352 e n., 353, 354 e n., 355 n., 356 e n., 357 n., 358 e n., 359, 360 e n., 361-362, 363 e n., 364-365, 366-367 e n., 368 n., 369-370, 371 e n., 372 n., 373, 374 e n., 376 e n., 377-379, 380 e n. Maritain, J.:  17 e n., 25, 126 n., 130 e n. Marra, W.:  27 n. Marzano, M.:  304 n. Mattiazzo, A.:  327 n. Mauss, M.:  237 n. Mayer, V.:  98 n., 375 n. Mazzolani, M.:  126 n. Melchiorre, V.:  126 n. Mertens, K.:  25 n., 129 n. Metz, W.:  35 n. Miceli, V.:  284 n. Michel, E.:  49-51 n. Modesto, P.:  204 n. Mondin, B.:  125-126 n. Moors, M.:  63 n. Mora, F.:  143 n. Mori, M.:  143 n. Morra, G.:  59 n. Mounier, E.:  17 e n., 126 n. Muñoz Fonnegra, S.:  77 n., 79 n., 82 n. Nardi, E.:  67 n. Nebbiosi, G.:  177 n.

Nédoncelle, M.:  17 e n., 126 n., 241 n. Nobile, O.:  209 n. Nuzzo, A.:  62 n. Nygren, A.:  15 e n., 21 e n., 31 n., 33 e n., 34 n., 42 n., 296 n. Ortega y Gasset, J.:  23, 308, 310, 334-335 e n., 336-337, 338 e n., 339, 340 e n., 341 e n., 342, 348, 350, 361 n., 371. Owens, Th.J.:  174 n. Panezio (di Rodi):  123 n. Pascal, B.:  30, 69-70 e n., 71, 72 e n., 74, 359. Pera, C.:  51 n. Pezzella, A.M.:  128 n., 182 n., 209 n. Pfänder, A.:  23, 126 n., 160 n., 199 n., 260 n., 294 e n., 295 n., 336 n. Pickavé, M.:  56 n. Pieper, J.:  19 e n. Pirandello, L.:  246 n. Plack, A.:  152 n., 165 n., 244 n., 259, 272 n., 355-356 n. Platone:  15 n., 16, 20, 30-31, 3233 n., 34, 42, 47 e n., 54, 55 e n., 56 n., 57, 59, 73 n., 76 n., 152, 175, 223, 258 n., 326 n., 333 e n., 352 n. Plutarco:  29, 32 n., 33, 37 n., 40 e n., 41 e n., 42, 51 n., 72 n., 211 n., 240, 354 n. Poletti, G.:  19 n. Poma, A.:  82 n.

421 Poma, I.:  272 n. Pongratz, L.J.:  24 n. Premoli De Marchi, P.:  11, 131 e n., 133 n., 147 n., 378 n. Pusci, L.:  59 n. Rammstedt, O.:  270 n. Reale, G.:  33-34 n., 352 n. Recalcati, M.:  211 n., 243 n. Reinach, A.:  23, 24 n., 25. Rensi, G.:  56 n. Restak, R.M.:  154 n. Rettori, M.:  272 n. Rigobello, A.:  126 n. Rini, E.:  143 n. Ritter, J.:  266 n. Rosenzweig, F.:  381 e n. Rossi, L.:  335 n. Roth, G.:  142 n., 148 n. Rousseau, J.-J.:  30, 65-67 e n., 68-69, 211 n., 295 n. Royce, F.:  266 n. Ruggerini, M.E.:  203 n. Ruggiu, L.:  143 n. Santambrogio, G.:  19 n. Sartori, G.:  143 n. Scandiani, G.:  130 n. Scheler, M.:  16, 17 n., 21, 24 e n., 25, 42 n., 46 n., 59 n., 67 n., 70 e n., 89, 91 n., 93 e n., 95 e n., 98 n., 101 n., 106 n., 110 n., 111 e n., 112 n., 120 n., 126 e n., 130 n., 133 n., 145 n., 151 n., 153, 154 n., 155 n., 159 n., 160 n., 163 n., 164 n., 165 e n., 190 e n., 191 n., 198 e n., 215, 216 e n., 219-220, 232 n.,

244 n., 260 e n., 276 e n., 277 e n., 283 n., 292-293 e n., 294295, 299, 310, 317 n., 327 n., 330 n., 333 n., 336 n., 337 n., 345, 354 n., 356 n., 359, 360 n., 376, 377-379 n. Schelling, F.W.J.:  59, 76, 321. Scheuermann-Peilicke, W.:  56 n. Schiavone, M.:  55 e n. Schiller, J.Ch.F.:  248 n. Schmidt, A.:  265 n. Schnepf, R.:  62 n. Scholz, H.:  16 e n., 29 e n., 31 n., 34. Schopenhauer, A.:  301 n., Schulz, P.:  20 n., 39 n. Schulze Costantini, E.:  :  191 n. Schwarz, B.:  25 n., 27 n., 101 n., 109 n., 136 n., 188 n., 322 n. Seifert, J.:  85 e n., 92 n., 99-101 n., 105 n., 109 n., 120 e n., 375 n., 376 e n. Sghirinzetti, M.:  177 n. Shapiro, L.:  56 n. Siemens, N. von:  39 n. Simmel, G.:  270 n. Singer, I.:  47 n., 67 n., 69. Singer, W.:  142 n. Socrate:  31, 352 n. Solov’ëv, V.S.:  23, 308, 310, 321324 e n., 325, 326-327 n., 328, 329 n., 330-331, 333 e n., 334, 344, 350. Spinicci, P.:  94 n. Spinoza, B.:  30, 60-63 e n., 6465. Stefanini, L.:  126 n.

422 Stein, E.:  24, 126 n., 128 n., 137 n., 141.142 n., 144 n., 160 n., 171 e n., 173 n., 181, 182 n., 191 n., 209 n., 283 n., 288 n., 378-379 n. Steinfath, H.:  98 n. Stewart Shank, J.:  135 n. Stewart-Williams, S.:  143 n. Stöcklein, P.:  25 n. Strindberg A.:  248. Styczen, T.:  327 n., 377. Suchla, B.R.:  51 n. Tallon, A.:  158, 159 e n. Tasso, L.:  252 n. Terravecchia, G.P.:  138 n., 197 e n., 288 n. Theunissen, M.:  129 e n. Togni, A.:  182 n. Tolstoj, L.:  248 n. Tommaso d’Aquino:  30, 49, 5052 e n., 53, 92 n., 116 n., 136 n., 141 n., 167 n., 276 n., 311 n., 343 n., 354 n. Trendelenburg, F.A.:  123 n. Tzeng, O.C.S.:  177 n. Valentini, N.:  204 n. Vendrell Ferran, Í.:  154 n. Vigone, L.:  142 n. Walsh, J.V.:  322 n. Welte, B.:  23, 126 n., 130 n., 236 n., 237-238, 283 n., 309-310, 343 e n., 344-347, 348-349 e n., 350, 380. Wenisch, B.:  136 n. Wildfeuer, A.G.:  88 n., 154 n.

Willi, J.:  243 n. Wodarzik, U.F.:  75 n. Wojtyla, K.:  17 e n., 21, 23, 126 e n., 182-183 n., 305, 309, 310312 e n., 313-314, 315 e n., 316, 317-319 e n., 320-321, 361 n., 382. Wolf, K.:  374 n. Wulf, C.M.:  142 n. Wurm, A.:  32 n., 34 n., 55 n. Zanardo, S.:  237 n. Zanatta, M.:  35 n. Zannino, F.:  237 n. Zarzycki, S.T.:  151 n., 154 n. Zenone: :  155 n. Zhok, A.:  143 n. Žižek, S.:  259 n. Zoli, M.:  143 n. Zöller, G.:  75 n. Zugan, R.:  204 n.

Indice

Abbreviazioni delle opere di Dietrich von Hildebrand citate frequentemente Prefazione

p. 9 p. 11

Introduzione 1.  Il fenomeno amore tra etica e metafisica 2.  Diversi termini per dire un solo fenomeno? 3.  Struttura dell’opera 4.  Vita e opere di Dietrich von Hildebrand

p. 15 p. 19 p. 22 p. 23

Capitolo I Il fenomeno “amore” dalla prospettiva dei filosofi Breve excursus storico

p. 29

1.  La visione dell’amore nel mondo antico: un elogio di eros e philía 1.1.  L’eros platonico – una riflessione metafisica 1.2.  La dimensione cosmica dell’eros e l’amore amicale in Aristotele 1.3.  Plutarco. Un elogio dell’amore coniugale 2.  Il pensiero cristiano del Medioevo e la tematizzazione dell’agape 2.1.  Agostino: la molteplicità dell’amore

p. 30 p. 34 p. 40

p. 42

2.2.  Tommaso d’Aquino: dell’amore e dell’odio 2.3.  Marsilio Ficino: l’erotica di Platone letta in chiave cristiana 3.  L’età moderna: l’amore come affetto 3.1.  L’Etica di Spinoza e l’amor Dei intellectualis 3.2.  Jean-Jacques Rousseau. L’esperienza dell’amore di sé e per gli altri come processo di sviluppo umano 3.3.  Pascal e le “ragioni” del cuore 4.  L’Idealismo del XVIII secolo. L’amore fichtiano come forza cosmica 5.  L’amore come atto. Del senso dell’amore al prossimo in Kierkegaard Capitolo II L’etica di Dietrich von Hildebrand Parte I – Il significato dei valori 1.  Etica e conoscenza etica del valore: la questione del bene 1.1.  Chiarificazione dei termini 1.2.  Il primo compito dell’etica: la comprensione consapevole dei “dati morali” 1.3.  I diversi significati del bene. Le tre categorie della significatività 2.  Il mondo dei valori 3.  Valore e moralità 4.  La risposta al valore 4.1.  Distinzione fra risposte e atti cognitivi: la risposta al valore 4.2.  Le caratteristiche della risposta al valore

p. 49 p. 54

p. 60 p. 65 p. 69 p. 72 p. 76 p. 85

p. 87 p. 92 p. 95 p. 101 p. 106

p. 112 p. 118

4.3.  La relazione tra risposta al valore ed etica: la coscienza morale e la “volontà di essere buoni” Parte II – I fondamenti dell’etica e il personalismo hildebrandiano 1.  La persona: “mondo a sé” versus essere comunitario 1.1.  Lo sviluppo della persona come essere comunitario 1.2.  La persona spirituale a partire dal contatto e dalla relazione 2.  La libertà Capitolo III Primi tratti essenziali della filosofia dell’amore in Hildebrand 1.  La dimensione dell’affettività e il ruolo del cuore 2.  Definizione dell’amore come risposta al valore 2.1.  La singolarità dell’amore a confronto con altre risposte al valore 3.  Ciò che in amore fa la differenza. L’intenzione unitiva e l’intenzione benevolente 3.1.  L’intenzione unitiva 3.1.1. Definizione negativa di intenzione unitiva 3.1.2. Definizione positiva di intenzione unitiva 3.2.  Intenzione unitiva e desiderio di possesso – il “mio” dell’amore 3.3.  Si può parlare di intenzione unitiva nell’amore al prossimo? 3.4.  L’intenzione benevolente

p. 120

p. 123 p. 131 p. 136 p. 140

p. 149 p. 151 p. 161 p. 168

p. 175 p. 176 p. 179 p. 181 p. 186 p. 189

4.  L’amore si esprime in molti modi 4.1.  Categorie naturali dell’amore 4.1.1. L’amore genitoriale e l’amore filiale 4.1.2. L’amore tra fratelli e sorelle 4.1.3. L’amore amicale 4.1.4. L’amore in generale 4.1.5. L’amore sponsale 4.1.6. L’amore al prossimo e l’amore per un ideale 4.2. La caritas – “spirito dell’amore” 4.2.1. Caritas ed eros: amici o nemici? Capitolo IV La dinamica dell’amore e il suo rapporto con l’etica 1.  Il “dono” dell’amore o del contributo attivo dell’amante nella relazione d’amore 1.1.  La categoria di “dono”: un portato della scuola fenomenologica? 2.  La felicità dell’amore: amare e essere amati 3.  Quale etica dell’amore? 3.1.  I comuni pericoli dell’amore 3.2.  Influenze positive. Valori etici e differenti espressioni dell’amore 3.3.  La responsabilità dell’amore attraverso l’accettazione legittima o illegittima 4.  La fedeltà tra etica e metafisica 4.1.  Le qualità della fedeltà nella relazione amorosa 5.  L’ordo amoris 6.  Solo l’amore genera comunità

p. 196 p. 198 p. 198 p. 201 p. 202 p. 205 p. 206 p. 211 p. 217 p. 223

p. 227 p. 228 p. 235 p. 238 p. 244 p. 245 p. 254 p. 262 p. 266 p. 273 p. 275 p. 283

Capitolo V Dell’amore e dell’essere a partire da Hildebrand 1.  Camminando su confini. Questioni aperte 1.1.  Persona: unico riferimento dell’amore? 1.2.  Amore al prossimo e amore di sé: alleanza necessaria o contrasto voluto? 1.3.  La corporeità 1.4.  Il tempo in amore 1.5.  Amare: una questione di responsabilità? 2.  Hildebrand in dialogo con alcuni pensatori del nostro tempo: sinfonia di voci 2.1.  Amore come affermazione della persona: Hildebrand e Wojtyla 2.2.  Il “significato dell’amore”: Hildebrand e Solov’ëv 2.3.  Intenzione unitiva e unione degli amanti: Hildebrand e Ortega y Gasset 2.4.  La dialettica dell’amore: Hildebrand e Welte sugli effetti ontologici dell’amore 2.5.  La dimensione erotica tra amare e essere amati: Hildebrand e Marion 3.  Fenomenologia e metafisica: l’amore come nuova categoria dell’essere?

p. 291 p. 292

Bibliografia

p. 385

Indice analitico

p. 409

Indice dei nomi

p. 417

p. 295 p. 301 p. 306 p. 308 p. 310 p. 310 p. 321 p. 334 p. 343 p. 351 p. 375

Zeugma

Lineamenti di Filosofia italiana | Proposte Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ

1. Francesco Valagussa, La scienza incerta. Vico nel Novecento. 2. Alfredo Gatto, René Descartes e il teatro della modernità. 3. Fabio Vander, Ortologia della contraddizione. Critica di Heidegger interprete di Aristotele. 4. Ernesto Forcellino (a cura di), Verità dell’Europa. 5. Lucilla Guidi, Il rovescio del performativo. Studio sulla fenomenologia di Heidegger. 6. Armando d’Ippolito, Arte e metafisica delle forme. Creazione. Crisi. Destino. 7. Guido Bianchini, L’inquietudine dell’Altro. Ebraismo e cristianesimo. 8.  Pedro Manuel Bortoluzzi, Carlo Michelstaedter e la testimonianza della verità dell’essere. 9. Antonio Branca (a cura di), Possibilità. Dell’uomo e delle cose. 10. Federico Croci, Deus Terribilis. Quattro studi su onnipotenza e me-ontologia nel Medioevo.

11. Federica Buongiorno, La linea del tempo. Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl. 12. Giuseppe Pintus (a cura di), Figure dell’alterità. 13. Marco Martino, Il sistema dei bisogni di Hegel. Un possibile itinerario. 14.  Maria Teresa Pansera, La specificità dell’umano. Percorsi di antropologia filosofica. 15. Massimo Donà - Francesco Valagussa (a cura di), Alterità e negazione. 16. Giuseppe Pintus (a cura di), Relazione e alterità. 17.  Maurizio Maria Malimpensa, La scienza inquieta. Sistema e nichilismo nella Wissenschaftslehre di Fichte. 18. Marco Bruni, La natura divisa. Hans Jonas e la questione del dualismo. 19. Nazareno Pastorino, Destino ed eternità di tutti gli enti. L’opera di Emanuele Severino. 20. Massimo Adinolfi, Qui, accanto. Movimenti del pensiero. 21. Giuseppe Gris, L’escatologia del destino. L’apocalisse del linguaggio nell’opera di Emanuele Severino. 22. Michele Ricciotti, Provare l’Io. Julius Evola e la filosofia. 23. Valentina Gaudiano, La filosofia dell’amore in Dietrich von Hildebrand. Spunti per una ontologia dell’amore.

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 23 - Proposte

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

Nel panorama filosofico del Novecento sono fiorite tante riflessioni e analisi sulle emozioni e sui sentimenti, tra cui l’amore. Dietrich von Hildebrand ha contributo a ciò ponendo l’accento sul fenomeno “amore” osservato fenomenologicamente nel suo darsi e accadere. Non un puro sentimento, bensì un atto che afferisce alla sfera dei valori. Ciò che, infatti, accade nell’amante è il riconoscimento dell’unicità dell’altro/a in quanto bene che lo/la tocca generando un atteggiamento di donazione verso di lui/lei. Il compimento di tale atto è raggiunto nella reciprocità; quando, cioè, non si limita al solo donare, ma viene donato (nel senso di un ricevere il dono). “In ogni amore vive un gesto di donazione di se stessi. L’amante che nel suo amore si dona all’amato (…) diviene in questa donazione più se stesso; vive in maniera più piena e autentica”. In tale dinamica di donazione il processo amoroso fiorisce in donazione d’essere che, tuttavia, sottostà ad un continuo “mancare il segno”, a meno che non si ponga in un orizzonte di senso assoluto. Valentina Gaudiano è ricercatrice presso l’Istituto Universitario Sophia (Loppiano). Si occupa prevalentemente di fenomenologia tedesca, teorie della conoscenza e questioni antropologiche. Tra le sue pubblicazioni: K. Hemmerle, Un pensare ri-conoscente. Scritti sulla relazione tra filosofia e teologia, introduzione, traduzioni e chiavi di lettura a cura di V. Gaudiano, (2018); «L’apporto della filosofia nel dialogo con la teologia», in: Sulla soglia tra filosofia e teologia, a cura di V. Gaudiano/A. Clemenzia, (2019); Der Mensch zwischen Natur und Kultur: in Natur und Kosmos, a cura di H.R. Sepp, (2020).

ISBN ebook ISBN e-book 9788855290685 9788855290517 € 14,00