La felicità della democrazia. Un dialogo 8842099767, 9788842099765

Pensi davvero che ci sia da temere per la democrazia, anche solo come forma politica? Non ti pare che ormai, nel mondo o

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La felicità della democrazia. Un dialogo
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Table of contents :
Indice......Page 247
Frontespizio......Page 2
Prologo......Page 3
1. Il tempo della democrazia......Page 7
La materialità della democrazia......Page 23
Diritti in cambio di lavoro......Page 33
La violenza in casa......Page 60
Sotto la linea d’ombra del pensiero occidentale......Page 74
«Quest’aiuola che ci fa tanto feroci»......Page 87
La Chiesa nella «nuda piazza pubblica»......Page 115
L’uso del «popolo»......Page 155
Se il potere democratico è fuori dalle regole......Page 166
Egemonia senza cultura......Page 173
«Tecnicamente rivoluzionario»: nuovo ordine e nuove liturgie......Page 185
4. E poi?......Page 201
Epilogo......Page 241
Indice dei nomi......Page 243

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Ezio Mauro Gustavo Zagrebelsky

La felicità della democrazia Un dialogo

Editori Laterza

Prologo

Democrazia: la parola e la cosa. Tra questi due termini stanno le considerazioni raccolte nelle pagine che seguono. La parola è piena di promesse. Dal tempo in cui, duemilacinquecento anni fa in Occidente, si è incominciata la riflessione sull’organizzazione politica delle società umane e di questa riflessione ci è rimasta memoria, la parola democrazia ha fatto un lungo viaggio ideale: indicava allora (basti pensare al libro VIII della Repubblica di Platone) il peggiore flagello che potesse abbattersi su un popolo; indica oggi un’aspirazione che progressivamente si è diffusa fino a diventare universale. La parola democrazia sembra ora contenere tutto ciò che di buono, di giusto e di bello ci si può attendere dalla politica. Per questo ogni giustificazione dell’agire politico deve per forza richiamarsi alla democrazia. Questo è il lato della medaglia dove è iscritta e luccica la parola democrazia. Sull’altro lato della medaglia, c’è la cosa. Ciò che vi vediamo è la frustrazione continua e crescente delle aspettative alimentate dalla parola. Quello che brilla da un lato è opaco dall’altro. La democrazia, per riprendere un’espressione di Norberto Bobbio, ci appare il regime delle «promesse non mantenute»: una fata Morgana che distribuisce illusioni, nel migliore dei casi; nel peggiore, una maga Circe che, dagli esseri umani, adescandoli, tira fuori il lato meno nobile. Dunque, un regime dell’inganno e della corruzione. Anzi, un regime che seduce con l’apparenza per dissimulare una cosa repulsiva: il governo consegnato alla parte peggiore degli esseri umani. ­­­­­3

Tra questi poli – la speranza e la disillusione, l’idealismo e il realismo – si svolge oggi il dibattito. Realisticamente, cioè guardando in faccia non la parola ma la cosa, non la teoria ma la pratica, si è giunti a formulare una domanda: «democrazia, perché?». È un interrogativo retorico, dettato da sfiducia e rassegnazione, che va alla radice, che misura la distanza tra ciò che la democrazia dovrebbe essere e ciò che invece è. È la tensione cui non si può sfuggire se non cedendo ingenuamente alla vuota utopia, o all’abdicazione degli ideali, cioè al realismo senza speranza. L’intento di tener conto insieme dell’essere e del dover essere della democrazia è quello che muoverà anche questo nostro dialogo. Una voce non servirà all’altra; ciascuna non sarà un monologo che si sviluppa per sua logica interna; né avrà l’obiettivo di prevalere sull’altra. Il dialogo – dià lógos equivale a parola trasversale, parola che va e viene – è il discorso che si sviluppa a più voci, a partire da una che si rivolge a un’altra, per ritornare indietro e ricominciare, senza che si sappia dove porterà, e nemmeno se porterà da qualche parte. Potrebbe perfino accadere che, alla fine, ciascuno debba andarsene per la sua strada, come se nulla fosse accaduto. Ogni dialogo veritiero, perciò, è una scommessa. Sebbene presupponga uno scopo cooperativo e una disponibilità a mettere in gioco le proprie idee per cercarne insieme di nuove, l’esito è aperto. Non si sa in anticipo se produrrà accordo o disaccordo; se sarà costruttivo, distruttivo, o vano. Dialogare è difficile: occorre ammettere a priori la possibilità di uscire diversi da come si era all’inizio, di abbandonare convinzioni precedenti, di riconoscere propri errori. Per questo siamo così disabituati al dialogo. Siamo tutti legati alle nostre idee; anzi, le nostre idee ci legano e, al tempo stesso, ci proteggono e danno sicurezza. Ci sembra che, se le si tocca in qualche modo, siamo noi stessi a essere intaccati. Se siamo colti in fallo, non ci sentiamo liberati da un errore, come dovrebbe essere, ma ci sentiamo umiliati. Così sebbene da ogni parte s’invochi il dialogo come toccasana d’ogni difficile convivenza, raramente se ne accettano i presupposti e le ­­­­­4

conseguenze. Spesso si chiama dialogo ciò che è mera giustapposizione di discorsi che non s’incontrano, oppure ciò che è sopraffazione di parole che cercano di prevalere, come nelle dispute politiche davanti a un pubblico che vuole parteggiare, non ragionare. In ogni caso, anche se pare essere, o effettivamente è, inconcludente, ogni dialogo veritiero un risultato positivo lo raggiunge: ingenera il dubbio, che è il tratto distintivo più prezioso e autentico del pensiero umano. Non sarebbe poca cosa, in un’epoca come la nostra in cui, forse come difesa nei confronti degli immani problemi del tempo presente, gli intelletti sono indotti alla rinuncia, cioè al dogma o alla rassegnazione.

1.

Il tempo della democrazia

Ezio Mauro  Per rassicurarci, potremmo cominciare col dire che la «cosa-democrazia» diventa rilevante quando la «parolademocrazia» non è più in discussione. Siamo una democrazia giovane ma ormai consolidata e non revocabile. Non si può ragionevolmente credere che oggi qui, in mezzo all’Europa, qualcuno sia capace di attentare al sistema democratico. Dunque si può ragionare senza rischi e senza ambiguità sul funzionamento delle nostre istituzioni e del meccanismo democratico. Potremmo dire che finalmente la società non si accontenta più di avere la democrazia, non le basta contemplarla, come un orizzonte statico di riferimento immutabile: pretende di misurarla nel suo divenire. C’è per fortuna un’autonomia della società anche rispetto alle regole di funzionamento del sistema che, nel momento in cui vengono riconosciute, sono anche valutate e giudicate. E c’è per fortuna una vitalità della democrazia che si muove e muta insieme con la società che le dà forma. Non si tratta di una fede immobile o, peggio, di un’ideologia. Altrimenti sarebbe inutile misurarla nel tempo. Gustavo Zagrebelsky  Da queste tue prime considerazioni, mi pare di capire che, tra noi due, spetterà a me il ruolo dello scettico, per non dire della Cassandra o dell’uccello del malaugurio. em 

Perché? Che cosa te lo fa pensare?

gz  Il fatto che tu abbia iniziato le tue considerazioni con un «per rassicurarci». Queste parole, mi pare tradiscano un’inquietudine. Se non ci fossero ragioni per essere allarmati, non

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avresti detto così. Almeno, così penso io che forse, rispetto a te, sono un poco meno incline all’ottimismo sul fatto che la democrazia come forma politica sia irrevocabilmente accettata. Capisco che la tua premessa – la democrazia è acquisita – è utile per sgombrare il campo dalle prospettive catastrofiche e, per ragionare pacatamente, senza dal passato evocare fantasmi e alimentare scontri di fedi politiche, e senza contrapporre, in modo manicheo, amici e nemici della democrazia. Ma io sono meno propenso di te, su questo punto, a fare affermazioni categoriche, affermazioni che potrebbero rivelarsi, poi, più che constatazioni consolazioni, più che previsioni speranze. Anche perché parliamo di democrazia, ma che cosa sia precisamente ciò di cui stiamo parlando è tutt’altro che evidente. In ogni caso, proprio il nesso di reciproca dipendenza, che tu giustamente sottolinei, tra valore e sua traduzione pratica mi induce a una certa cautela. em 

Pensi davvero che ci sia da temere per la democrazia, anche solo come forma politica? Non ti pare che ormai, nel mondo occidentale, nessuno oserebbe proclamarsi antidemocratico? Tra le due guerre, in Europa, si sono affermate ideologie apertamente antidemocratiche, costruite sul rovesciamento di tutti i principi-base della democrazia, a incominciare dall’uguaglianza e dalla libertà, sostituite dalla gerarchia e dall’obbedienza, per finire con l’affermazione di miti terribili come l’identità razziale e lo «spazio vitale» dei popoli superiori o il dominio di una classe. Oppressione, guerre, milioni di morti, genocidi si sono alimentati in questo crogiolo di idee mortifere. Ma dove sono, oggi, queste idee? Nessuno oserebbe proclamarle, chiedere consensi, immaginare politiche e alleanze su questi presupposti. Se lo facesse, sarebbe immediatamente collocato fuori dal consesso civile. Farebbe, prima di tutto, il suo male.

gz 

Sì. Credo che tu abbia ragione. La democrazia è l’ideale del nostro tempo. Perfino i dittatori, quando prendono il ­­­­­8

potere, sciolgono il Parlamento, sospendono i diritti, dicono di farlo per restaurare la «vera democrazia», appena possibile. La tua osservazione, tuttavia, forse non considera che la democrazia è un sistema di governo molto compiacente. Può ospitare tante cose, senza abbandonare il suo nome. La classe politica, proprio per la ragione che tu hai indicato, non rinuncerebbe a dirsi democratica. I cittadini comuni, a loro volta, spesso sono, per così dire, di bocca buona e si lasciano persuadere facilmente d’essere loro a tenere in mano le carte del gioco democratico. Ma, se consideriamo i risultati della riflessione critica sulle forme politiche del nostro tempo, siamo sorpresi nel constatare che alla massima estensione spaziale della democrazia corrisponde un’insicurezza, anzi uno scetticismo crescente, diffuso e diffusivo. Solo vent’anni fa le democrazie si distinguevano in relazione al rapporto con la loro base sociale: democrazie liberali, proletarie, sociali, socialiste, per esempio. Erano formulazioni di teoria politica che denotavano, in modo neutro, specie diverse di forme politiche. Ora le democrazie si connotano, in generale, con specificazioni tutte negative. Nella meno impegnativa delle ipotesi, si parla di «post-democrazia»: meno impegnativa perché ci dice che siamo «oltre» la democrazia, senza però chiarire dove siamo andati a finire. Con oscuri presagi e con allusione a processi degenerativi, si parla di «democrazie mature» o «tardo-democrazie»: ancora democrazie, ma al tramonto. Altri parlano di democrazie «di poca o senza qualità». Alludendo poi alla crescita di fattori autoritari dentro le forme della democrazia, si è parlato di «democrazie tenute a bada» (managed democracies), si è coniato il neologismo «democratura», sul cui significato non c’è da spendere parola, e si è giunti infine alle «democrazie senza democrazia». Il «dispotismo democratico» sembra a qualcuno il destino della democrazia di massa preconizzato da Tocqueville. È diventato espressione d’uso comune, che non fa (più) sobbalzare nessuno. Dobbiamo tenere conto che non si tratta di spericolate formule che vogliono colpire l’immaginazione di menti semplici. Sono il risultato di documentati e ragio­­­­­9

nati esami delle condizioni attuali delle società che si autodefiniscono democratiche, condotti da distinti studiosi per mezzo di misurazioni empiriche secondo parametri dettati dall’evidenza (elezioni e loro regolarità, associazionismo politico, pluripartitismo, libertà d’informazione, diritti fondamentali, diritto al dissenso, ecc.). Una volta si misuravano i progressi della democrazia, oggi i regressi. Non è cosa da poco. Non credi che sia un dato su cui lanciare un «allarme democratico»? em 

Una volta, come dici tu, uscivamo dal buio delle dittature, da una guerra che aveva sconfitto l’ipoteca hitleriana sull’Europa e da due decenni di fascismo in Italia. Il secolo europeo – ad Ovest, non a Est – ritrovava insieme libertà e democrazia, le sperimentava come indispensabili l’una all’altra, e i popoli che avevano vissuto nel totalitarismo potevano percepire direttamente, concretamente, il valore della democrazia per differenza. Oggi quegli stessi popoli, direbbe Bobbio, vivono la democrazia se non per convinzione almeno per abitudine o assuefazione. Ne percepiscono meno il valore, probabilmente: ma non potrebbero farne a meno, è diventata una sorta di loro condizione naturale. Stai per dirmi che così la democrazia non li appassiona? Può darsi, ed è certo un problema quando l’unica religione civile superstite è una religione stanca. Ma francamente io non credo che ci sia oggi ragione di allarmarsi per la democrazia, se si intende la sua sorte, la dichiarazione di fallimento anche di quel dio, dopo gli altri dei-impostori del Novecento. C’è motivo di preoccuparsi per la sua salute, se mai, cioè per la sua efficacia, che è poi la sua capacità di mantenere le promesse. Questo giustifica il tuo pessimismo?

gz 

Tu dici pessimismo. Può darsi che sia così. Lo sapremo solo a posteriori, a giochi fatti. Allora ci potremo chiedere se abbiamo visto rosa quando le cose erano nere, o nero quando erano rosa. Per continuare sulla strada delle preoccupazioni, ho altre due osservazioni da sottoporre alla tua attenzione. ­­­­­10

em 

Iniziamo con una. Andiamo piano e non mescoliamo gli argomenti.

gz  A me pare di notare un fatto sorprendente che ha a che vedere con la storia della democrazia. Si tratta di qualcosa di profondo, di uno «scollamento», di un distacco, forse addirittura di un rovesciamento. Sì, forse bisogna parlare proprio di rovesciamento. La democrazia è sempre stata, finora, la rivendicazione degli inermi, degli esclusi. Di quelli che contano poco o nulla e vogliono contare di più, vogliono farsi valere in società che li tengono ai margini. Intuitivamente, significa contestazione delle concentrazioni di potere oligarchico attraverso diffusione e uguaglianza di partecipazione politica. La democrazia dovrebbe stare dalla parte, dovrebbe essere la parola d’ordine dei senza-potere, contro coloro che dispongono di troppo-potere. Dovrebbero essere i primi, non i secondi a esserle amici. Lasciamoci andare, per una volta soltanto, a una frase retorica: la democrazia vuole dare potere a chi non ne ha, vuole potenti gli inermi (i «tapini») e inermi i potenti: «Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles» (Lc 1, 52: «kathéilen dynástas apò thrónon kaí ýpsosen tapeinoús»), dice una lode del Signore che dovrebbe essere il motto d’ogni spirito democratico. Oggi, è così? Mi pare si debba constatare il contrario. Sono i detentori del potere (i dynástai) a fare della democrazia – della parola democrazia – il proprio orpello, a invocarla per rendere indiscutibile il proprio potere sugli inermi. Quanti abusi di potere si giustificano «democraticamente»! La democrazia, intesa come ideologia dei governanti, è una sorta di assoluzione preventiva dell’arbitrio sui deboli, sugli esclusi, sui senza speranza, in nome della forza del numero. em 

In realtà la democrazia liberale dovrebbe tutelare il cittadino proprio dall’arbitrio e dall’abuso di potere. Anzi, lo Stato di diritto dà una cornice istituzionale, costituzionale ai diritti naturali degli individui. In questo modo li garantisce giuridicamente nei confronti degli altri, e anche nei confronti ­­­­­11

del potere, che è finalmente sottoposto alle leggi umane e non solo a quelle divine come accadeva per i sovrani. Per questo noi chiamiamo democratico il potere che riconosce i suoi limiti nei controlli costituzionali, negli equilibri tra le istituzioni, nell’indipendenza della magistratura, nei diritti indisponibili dei cittadini. Ma tu avverti un rischio, mi pare: la coscienza del limite, tipica della democrazia e del liberalismo, cozza contro alcune concezioni correnti del potere come potestà sovraordinata, come comando, come investitura. Come vedi, le parole ci portano vicini alla meta-politica, fuori dal disegno classico dello Stato costituzionale moderno come lo conosciamo. Ma questa è una concezione strumentale della democrazia, un abuso democratico, non è la democrazia che degenera per un suo processo autonomo di decadimento. Scopriamo, piuttosto, che la democrazia è fragile, è delicata, è manipolabile. E mentre lo scopriamo, prendiamo atto che questo è inevitabile, perché per definizione la democrazia è disarmata, o meglio armata solo del diritto, della regolarità istituzionale, della trasparenza davanti al cittadino. gz  Certo, è così. Ma qui non sto parlando di buona o cattiva democrazia, ma semplicemente di un dato di fatto, molto sospetto, cioè che la democrazia come icona politica sta cambiando partito, sta mostrando un volto minaccioso proprio nei confronti di coloro ch’essa è nata per proteggere. Non sto parlando delle guerre per «esportare» democrazie. Sto parlando dell’uso interno, quello diretto a giustificare prepotenze, illegalità, discriminazioni, indecenze d’ogni tipo, fosse anche rivestite dalla forma della legge, in nome del «consenso». Non c’è da stupirsi, allora, per il «disincanto democratico» (chiamiamolo così) che si sta diffondendo sempre di più, e non tra chi appartiene ai giri del potere, ma proprio tra chi ne è escluso. L’astensionismo elettorale (in Italia quasi il 30% alle «politiche» del 2008, molto di più alle «amministrative», per non parlare di quel che accade in altri Paesi) non pone solo ai partiti un problema di «recupero». È il segno che la

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democrazia, come ideale politico, si sta appannando, anzi sta facendo una semi-rotazione: dal basso all’alto. E aggiungo: c’è una regola alla quale obbediscono le parole della politica come democrazia, «libertà», «giustizia», «equità», «progresso», «sviluppo», «legge», «costituzione», ecc. Il loro significato cambia a seconda che chi le pronuncia stia in alto o in basso nella scala del potere sociale. Anzi, dico di più: ciò che esse indicano può apparire bello, buono e giusto, dunque desiderabile, agli uni, ma brutto, cattivo e iniquo, dunque odioso, agli altri. em 

Ma il disincanto democratico – che è una sorta di solitudine repubblicana, e può diventare secessione silenziosa, separatezza, in una parola perdita o vero e proprio smarrimento di cittadinanza –, io non sono sicuro che lo si debba imputare alla democrazia e non piuttosto alla politica. Il confine è incerto. Se i canali di partecipazione sono ostruiti, se la legge elettorale impedisce agli elettori di scegliere i propri rappresentanti ma delega la scelta ai capipartito, se la rappresentanza è debole e incerta, è la politica che deve essere chiamata in causa: la cattiva politica, naturalmente. La cattiva politica, possiamo domandarci, è colpa di una democrazia difettosa, e il difetto si rivela proprio nel principio dell’inclusione? Qui, mi sembra, tu introduci in sostanza un dubbio, che riassumerei così: se da regime di tutti, o almeno dei molti, la democrazia non sia diventata un regime di pochi, dunque una forma di oligarchia.

gz 

Questa è un’osservazione preziosa che propongo di lasciare per ora da parte. La riprenderei più avanti perché credo ci permetterà di portare ad unità una serie di considerazioni che andremo facendo. Intanto, vorrei restare ancora un momento sul destino del significato delle parole citando un passo di Marco Revelli: «In tempi di trasformazione (o di transizione?), come questi, anche il linguaggio come il terreno sociale che ci sta sotto i piedi, trema. Si liquefa. E le paro­­­­­13

le tendono a separarsi dal loro senso consueto. A cambiare, come le cose, ‘destinazione d’uso’. A disseccarsi, alcune, e a uscire fuori corso. O a svuotarsi, e diventare involucri buoni a tutti gli impieghi. O ancora [questo è il caso nostro] a rovesciarsi, e ad assumere un significato opposto a quello originario. Nel sociale, la parola democrazia non si pronuncia più. Sembra che ci si accorga di un inganno, poiché sono gli altri che pronunciano (collocatori di discariche e inceneritori, tav, spianatori di collettività – i Rom –, licenziatori) [...] Se si esce dal circolo chiuso della comunicazione mediaticopolitica [...] e si scala d’un piano, le pieghe della quotidianità vissuta [...] ci si accorgerà con orrore, per quanto mi riguarda, ma con altrettanta evidenza – che essa è diventata un termine quasi impronunciabile. Comunque, sempre meno pronunciato...»*. Impressionante, non è vero? em 

Soprattutto realistico, concreto, basato sui fatti. Dobbiamo però tener sempre presente che la maggioranza ha il diritto di imporre le sue decisioni: un diritto che è anche un dovere, perché chi ha scelto con il voto una parte politica e un programma si attende legittimamente che quella parte, vincendo, attui quel programma su cui si è raccolto il consenso. La democrazia deve produrre effetti; per non essere un vuoto sistema di credenze, deve avere una sua concretezza, un’effettualità, anche perché non è semplice cornice né galateo istituzionale. D’altra parte questo diritto-dovere di decidere governando è – se ci pensi – l’esercizio della responsabilità, una parola fortemente presente nello spirito pubblico americano, e non a caso al centro del discorso d’investitura del presidente Obama. Direi che responsabilità è il dovere di far fronte ai propri compiti nel rispetto del limite e nella coscienza del rendiconto. Anche quest’ultimo concetto è parte ordinaria della cultura demo-

* «Democrazia», parola a rischio. Da cittadini a spettatori, in Controcanto, Chiarelettere, Milano 2010, pp. 146 sgg.

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cratica anglosassone; molto meno della nostra: eppure è ciò che lega il «noi» dei cittadini al «voi» dei dirigenti eletti nelle cariche pubbliche e fa della rappresentanza un circuito attivo perché continuo, trasmettendo l’idea concreta del mandato e persino l’immagine dei vecchi partiti come animali politici vivi e vitali, orizzonte obbligatorio di riferimento anche per leader carismatici e decisionisti. Direi qualcosa di più. Il rendiconto è la base morale di qualsiasi posizione di potere, grande o piccola, privata e soprattutto pubblica; è in questo senso un fondamento della negoziazione democratica occidentale. Proprio per non aver fatto un rendiconto pubblico del comunismo prima della caduta del Muro, la sinistra italiana che viene da quel mondo sta ancora ripulendosi la giacca dai calcinacci di quel crollo che l’ha investita, sia pure nella sua diversità. Eppure tutti avevano letto le pagine finali del Maestro e Margherita di Bulgakov, quando Woland sta per lasciare Mosca e si ferma sui Monti dei Passeri per un ultimo sguardo alla città. «Ebbene – dice in quel momento supremo al Maestro dall’alto del suo cavallo – tutti i conti sono stati pagati? L’addio si è compiuto?». Poi c’è il volo nel buio. Ma solo dopo il rendiconto. gz 

Anche questa – il diritto di decidere per tutti e i suoi limiti – è una questione che dovremo necessariamente riprendere. Lasciami però prima arrivare alla seconda osservazione sulla democrazia. Per secoli, anzi millenni, la democrazia è stata considerata la forma di governo che più di tutte doveva essere evitata perché dava alla feccia della società, al gregge, al bruto numero, l’occasione di assumere funzioni pubbliche. La psicologia della massa che diventa governo e scalza la razionalità delle élites. La democrazia come «governo dei peggiori», e i peggiori si identificavano con le classi povere, incolte, passionali, irresponsabili. Erano gli «ottimati», cioè i ricchi, che si consideravano migliori della massa del popolo minuto. Una critica alla democrazia che si trasforma in una forma esplicita di classismo: ricchi contro poveri, plutocrazia («governo dei ricchi») contro democrazia (governo ­­­­­15

del popolo minuto). Lo esprime benissimo l’inizio lapidario dell’Anonimo cui si attribuisce la Costituzione degli Ateniesi (IV secolo a.C.), che contiene una requisitoria contro la democrazia di Atene, per avere aperto la strada al malgoverno della città e alla sopraffazione della gente per bene da parte dei farabutti. «A me non piace che gli Ateniesi abbiano scelto una costituzione che permette alla canaglia di star meglio della gente per bene». E più avanti: «Dovunque sulla faccia della terra i migliori sono nemici della democrazia; giacché nei migliori c’è il minimo di sfrenatezza e ingiustizia, e il massimo dell’inclinazione al bene. [...] Il popolo non vuol essere schiavo in una città retta dal buongoverno, ma essere libero e comandare: del malgoverno non gliene importa niente». em 

Qui puoi cogliere il sentimento di un’oligarchia spodestata, davanti all’avvento di nuovi soggetti politici. Ma oggi, come stanno le cose? Molti potrebbero tristemente concordare con l’idea del «governo dei peggiori», la «cachistocrazia» (l’opposto della «aristocrazia»), secondo l’espressione che un allievo di Bobbio, Michelangelo Bovero, ha messo in circolazione una decina d’anni fa*. Basterebbe guardarsi intorno, per constatare il decadimento culturale e morale, al limite, certe volte, della connivenza col mondo criminale, dei gruppi dirigenti, anche in democrazie di lunga tradizione. Un tempo sarebbe stata impensabile la misura odierna del degrado. La democrazia ha molte volte promosso i peggiori al governo. Lo sospettavamo da tempo, ma la rivelazione di contenuti di conversazioni private (intercettazioni telefoniche, WikiLeaks, atti giudiziari) ha fatto venir meno le illusioni. Sembra che stia facendosi largo l’idea che in politica non solo si sia, ma anche che si debba essere così, che il vizio sia la nuova virtù. Ma io non ho mai voluto fermarmi a questa lettura, che da un lato sa di rinuncia impotente, dall’altro di superiorità impropria e

*  M. Bovero, Contro il governo dei peggiori. Una grammatica della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2000.

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soprattutto rischia di annegare nel qualunquismo il ruolo che la politica deve avere in una società democratica. È chiaro, credere in una buona democrazia ci impone di denunciare i comportamenti impropri, gli abusi, le forzature. Cercando però di non aprire un varco all’antipolitica, perché solo la politica – e nessun altro potere forte o seducente che sia – può stare a capotavola, può tenere in mano il mazzo, può dare le carte; perché la politica soltanto sa disciplinare il libero scontro tra interessi legittimamente concorrenti in nome dell’interesse generale. Dico, in sostanza, che la democrazia ha bisogno di buona politica, e non bisogna stancarsi di pretenderla. Ma aggiungo che l’antipolitica corrompe la democrazia come la cattiva politica. gz 

Già! Sull’idea della democrazia come «governo dei peggiori» i classici dell’antidemocrazia sarebbero d’accordo. Ma non sull’identificazione dei migliori e dei peggiori. L’esperienza odierna ce ne mostra il rovesciamento: i peggiori non sono più i poveri, i poco istruiti. Non sono populace, Lumpenproletariat. Sono i Prominenten, quelli che dalla società hanno avuto tanto: ricchezza, benessere, potere e tutto questo usano nella dimensione politica estraendo da se stessi il peggio che rispecchia il peggio che c’è nella società: volgarità, incultura, irresponsabilità, rapacità, ecc., e, cosa sorprendente, trovando larghi consensi. L’Anonimo ateniese, se parlasse oggi, potrebbe dire che spesso sono costoro quelli ai quali, del malgoverno, non importa niente. Non credo che si possa rovesciare il millenario pregiudizio aristocratico che assimila il popolo ai poveri, i poveri al volgo e il volgo «a una grandissima bestia» che deve essere tenuta a freno. Neppure, al contrario, credo che saremmo d’accordo nel seguire l’enfasi robespierriana con la quale il popolo incorrotto si innalzava al rango del dio in terra, ornato d’assoluta incorruttibilità. Le virtù politiche però – sembrerebbe di poter dire come constatazione di mero fatto –, spesso si trovano tra i poveri, i derelitti, gli emarginati, gli emigranti, i cosiddetti «clande­­­­­17

stini» (figura e parola obbrobriosa, di cui ogni democratico dovrebbe provare vergogna): lì, talora, troviamo lezioni di solidarietà, di legalità, d’impegno civile e culturale inesistenti altrove, come potrebbero testimoniare non pochi insegnanti nelle nostre scuole multietniche. La denuncia della miseria morale e politica della cosiddetta «classe dirigente» prodotta dalla democrazia, viene sempre più spesso dalla parte della società che sta in basso nella scala del potere. Sono i ricchi, oggi, a essere messi sul banco degli imputati dai poveri. Anche questo rovesciamento, posto che tu condivida la descrizione, non ti pare impressionante? em 

Con una differenza non da poco. Che i «ricchi», come li chiami tu...

gz  No, no! Come li si chiamava nella filosofia politica greca classica, in opposizione al «popolo minuto», il démos. em 

...sono classe dirigente comunque, indipendentemente dalla qualità della politica, dell’economia, della cultura che producono. I «poveri» non sono nulla. Dubito che possano mettere sul banco degli imputati chicchessia e se lo fanno, nessuno se ne accorge. Sto dicendo che oggi sono più poveri. Perché non c’è una classe che li raccolga, un partito che li rappresenti, una società che li consideri, al di là del passaggio sbrigativo dell’elemosina, che non è un incontro. Non li vediamo perché l’esclusione è individuale, si somma soltanto nelle statistiche, non nella visibilità, nella rivendicazione, nella soggettività, neppure nella rabbia. Dunque i «poveri» per la prima volta non fanno nemmeno più paura, e la democrazia può avere la tentazione di poterne prescindere, di escluderli da ogni negoziazione perché non contano socialmente, dunque non pesano politicamente. Non era mai accaduto. Per la prima volta (vedi quante prime volte, a conferma che le crisi non sono neutrali?) i ricchi possono sentirsi non solo ovviamente diversi, ma scissi da un destino comune di società rispetto a quelli che chiamiamo «poveri», con una parola vec­­­­­18

chia, inadeguata perché appunto troppo povera, oggi. D’altra parte rifletti su come siano fuori corso quelle categorie evangeliche che tu usi. Non le utilizza nessuno, nemmeno la Chiesa, che pure abbonda di attenzioni al «bipolarismo» e al «maggioritario». Sembra che abbiamo finito gli aghi e non ci siano più cammelli, da noi: quanto alle crune, dubito che si conosca il termine, il suo significato e soprattutto che qualcuno abbia oggi la fantasia, la follia o anche soltanto la pazienza di pensare a quel gesto impossibile. Dunque, caro mio, non credi, dicendo queste cose, di attirarti la solita accusa di fare il moralista? Peggio, il giacobino. Peggio del peggio, l’«azionista»? gz  Mi interessano poco queste definizioni. Penso che la stessa cosa sia per te. em 

Sai, quando mi dicono «azionista» io rispondo: magari...

gz 

Le definizioni, spesso, sono modi per eludere le cose. Le grandi distinzioni, le distinzioni elementari che muovono le passioni e le azioni dei popoli, da sempre, sono queste. C’è poco da accusare di moralismo coloro che le prendono in considerazione. Trascurarle significherebbe procedere come ciechi. Anzi, poiché queste accuse ai critici del potere vengono da parte di coloro che il potere lo detengono, ognuna di queste accuse è una conferma: il peggio, oggi, spesso sta in alto e chi sta in alto non ama sentirselo dire. em 

Lasciamo stare. Anche su questo – credo – avremo modo di ritornare, quando cercheremo di comprendere le ragioni che spiegano tanta acredine, anzi tanto odio nei confronti di coloro che, nel pensare e nell’agire in politica, danno rilievo alla dimensione morale. Torniamo alle tue osservazioni circa i due rovesciamenti: la democrazia, da regime dei deboli a regime dei forti; i poveri al posto dei ricchi nel primato della virtù politica. ­­­­­19

gz  Naturalmente, sono generalizzazioni, tendenze, spunti. Niente di più. Ma, forse, sarebbe male trascurarli. em 

Infatti. Mi pare che servano a spiegare il disincanto democratico – chiamiamolo così – proprio dei gruppi, degli strati sociali che, teoricamente, dovrebbero essere più interessati alla democrazia. Facciamo un ragionamento semplice: se chi ne ha più bisogno rinuncia alla democrazia come leva, come ambito di libertà nel quale è possibile l’emancipazione, il cambiamento, o anche la semplice affermazione di diritti, allora la democrazia è mutilata, perché parziale. Può funzionare per una parte della società soltanto? Evidentemente no. E dove va chi è deluso dalla democrazia? Non va da nessuna parte, perché non ci si può astenere dalla democrazia, come se fosse un’opzione politica. Dunque i dispersi della democrazia sono un problema, e non sempre coincidono con i naufraghi: molti sono i delusi, e qui il problema diventa anche politico. Perché il sentimento individuale di perdita di cittadinanza in realtà fa venir meno ogni piattaforma identitaria comune, ogni appartenenza sicura, qualsiasi cultura di riferimento. Come se abitare lo spazio politico pubblico fosse inutile, e dunque venisse così a mancare un territorio di tutti e di ognuno, in cui muoversi da cittadini consapevoli dell’ambito di libertà nostro e altrui, ma anche del portato di storia e di tradizione che ci definisce, dei nostri diritti e dei nostri doveri. Insomma, l’orizzonte repubblicano si restringe. È un problema di tutti, sembra non interessi a nessuno.

gz 

Ma, allora, se proprio presso coloro che dovrebbero tenerci di più, la democrazia vacilla, ecco che il tuo bisogno di «rassicurazioni» ha le sue buone ragioni. Presso i potenti, la democrazia può facilmente ridursi alla parola, una parola di cui non si può fare a meno, per necessità ideologica, non per convinzione ideale. Nessuno, nel mondo occidentale e tanto di più in Europa, potrebbe ora (o «per ora») proclamarsi antidemocratico o anche solo a-democratico (come quelli che ­­­­­20

si dicono a-fascisti, essendo fascistoidi) e, allo stesso tempo, potrebbe candidarsi a un ruolo politico significativo. Rimossa la democrazia, non c’è governo che si possa dire legittimo. Democrazia è lo shibboleth d’accesso alla vita politica. Il ricordo dei totalitarismi di destra e di sinistra del secolo scorso è ancora vivo. La loro sconfitta militare o il loro collasso interno equivalgono ancora, nella coscienza di chi mantiene vivo il ricordo, alla vittoria delle democrazie. I principî dell’Unione Europea chiamano in causa la democrazia come valore comune irrinunciabile; quando gli Stati, per esempio quelli della costellazione ex sovietica o la Turchia, chiedono di entrarvi a far parte, sono sottoposti a un «test democratico» e quelli che vi fanno parte non sono esenti da controlli e censure in caso di défaillances democratiche, come accadde all’Austria, all’inizio degli scorsi anni ’90. Jörg Haider, il carismatico capopopolo carinziano non difese la sua politica aggressiva, razzista e xenofoba rivendicando la legittimità di una propria ideologia non democratica. No. Sostenne invece d’essere in linea con gli standard democratici europei e, minacciando di convocare un plebiscito contro le eventuali sanzioni europee, riuscì a farsi dare ragione. La sua stella politica si spense, ma non per la reazione della coscienza democratica d’Europa, ma per un banale incidente d’auto. Quella vicenda dimostra, una volta di più, la grande elasticità della parola democrazia, capace di dilatarsi quasi a piacere. È stato detto cinicamente, al tempo del maccartismo, che se il fascismo si fosse introdotto negli Stati Uniti, lo si sarebbe chiamato democrazia. Tutto mostra l’odierna forza compulsiva della parola: perfino l’antidemocrazia deve vestire i panni della democrazia. Questo punto mi pare possa darsi per assodato. em 

Dunque, secondo te, c’è più di una ragione per contestare le tesi alla Fukuyama, circa la vittoria definitiva della democrazia nel mondo dopo l’89. Non è necessario guardare al terrorismo islamista in guerra contro l’Occidente: basterebbe guardare alle vecchie democrazie malate. ­­­­­21

gz  Proprio così! Direi innanzitutto, che è una vittoria di parole e che, nella cosa-democrazia, sono sempre presenti tendenze oligarchiche che, assolutizzandosi, si risolvono in tirannia politica, ideologica o economica. In questo scontro politico tra gli inclusi e gli esclusi c’è la legge perenne del movimento, nella politica come nelle istituzioni. Una legge di natura. Aggiungo: per fortuna è così. Per fortuna non siamo alla fine della storia. Altrimenti democrazia significherebbe entropia politica. em Spiegati. gz 

La politica è il regno delle opposizioni o, almeno, delle differenziazioni. La stessa cosa vale per le parole della politica e i relativi concetti. Noi ci occupiamo e preoccupiamo della libertà perché sappiamo che c’è il servaggio; dell’uguaglianza perché sappiamo che c’è il privilegio e lo sfruttamento; della pace perché c’è la guerra. Se non fossero possibili i conflitti, non ce ne occuperemmo e, meno ancora, ci daremmo da fare. Non ci sarebbe il concetto e nemmeno la parola. Sarebbe una situazione indistinta, una palude morale d’indifferenza. Per questo, ci sono cose per cui combattiamo e altre contro le quali combattiamo, ma – ripeto – per fortuna, accanto alle prime, ci sono anche queste seconde. L’importante è agire affinché non prevalgano.

2.

Democrazia della vita quotidiana

La materialità della democrazia

Gustavo Zagrebelsky  Di solito, democrazia evoca elezioni, partiti, sistemi elettorali, referendum, parlamenti, diritti politici e altre cose di questo genere. Si pensa cioè a istituzioni politiche. Che cosa c’è alla base, passa sotto silenzio. Sembra che la democrazia viva per conto proprio, che non abbia bisogno di una fondazione sociale, che non ci sia un nesso tra istituzioni e società; che le prime e la seconda vivano di vita propria e indipendente. Coloro che hanno scritto l’articolo 1 della nostra Costituzione, dove leggiamo che l’Italia è una democrazia «fondata sul lavoro», avevano invece chiaro che il nesso esiste. Ancora più chiaro lo avevano nella stesura dell’articolo 3 della Costituzione, a proposito dell’uguaglianza tra cittadini, che è, per così dire, un prolungamento dell’articolo 1: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». In queste enunciazioni, il legame tra democrazia – o qualità della democrazia –, e società – o qualità dei rapporti sociali –, è evidente. Vogliamo iniziare da qui, dal rapporto tra forme e sostanza della democrazia? Ti sembra un «attacco» troppo astratto? Io credo di no e, probabilmente, lo vedremo presto. Credo anche che questo collegamento, con riguardo alle odierne democrazie, alimenti più inquietudini che sicurezze. ­­­­­23

Ezio Mauro  Quello che tu chiami fondazione sociale io lo chiamo «materialità della democrazia». Se ne può fare a meno? È una traduzione della democrazia in concreto e, per così dire, in basso, troppo ardita? Conviene restare sul piano dei principî e dei valori per non contaminare il concetto? Io non credo. Guarda gli esempi che facevi. Nel lavoro come principio fondativo della Repubblica c’è la connessione, implicita ma evidente, tra dignità della persona, sicurezza materiale e libertà politica. Dunque, i principî non sono disincarnati, ma calati nella realtà. E la Costituzione sa bene, all’articolo 3, che ostacoli concreti («economici e sociali») possono intervenire «di fatto», cioè nelle circostanze materiali della vita, a condizionare diritti politici fondamentali come «la libertà e l’uguaglianza» dei cittadini. Non solo: prima ancora del cittadino, c’è il rischio che questi ostacoli frenino lo sviluppo della «persona» umana. Cosa c’è di più sostanziale, di più vivo nella quotidianità, di queste formulazioni? Anche nella vita quotidiana, anzi soprattutto lì, si misura la democrazia dal punto di vista dei cittadini. La materialità della democrazia riguarda la capacità di affrontare i problemi collettivi in termini di giustizia, libertà, coesione sociale, cioè la capacità di tenere insieme una società dove vi sia posto per tutti, aperta al contributo di tutti. Questo ha però delle conseguenze. Misurando la democrazia dal punto di vista della sua produttività pratica, rischiamo di ridurla a politica, a governo, ad amministrazione, mentre è un’altra cosa, con ogni evidenza. Dall’altro lato, le attese che scarichiamo sul sistema trascendono le politiche contingenti, i governi, la loro durata. Se quelle attese sono deluse, e soprattutto se sono fortemente deluse, la democrazia non può evitare di essere chiamata a rispondere in solido con la politica, per la parte che le compete. Anche il paradigma è chiamato in causa, anche la cornice è sotto giudizio. Cito un caso estremo, e tuttavia ineludibile: per tutti coloro che la crisi economica trasforma in esclusi, cos’è la democrazia, in concreto? E l’avvenire incerto che si prospetta alle generazioni dei più giovani – come ha ammonito il presidente della ­­­­­24

Repubblica nel messaggio di fine anno 2010 – non è di per sé un problema di tenuta democratica? Domandiamoci se queste persone possono accontentarsi delle buone regole, dei sani principî, della teorizzazione dei diritti, quando sentono che l’applicazione pratica dell’apparato democratico di corrette intenzioni non li riguarda. Sto dicendo che la democrazia ha necessità di rispondere non solo in astratto e per ipotesi, ma nella vita d’ogni giorno, per me, per te, per tutti, qui e ora. La democrazia, se la personifichiamo come nelle commedie di Aristofane, potrebbe certo rispondere che tra i suoi compiti non c’è quello di sfamare le persone. Suggerirebbe di rivolgersi alla politica perché l’indirizzo giusto è quello. Ma le persone, dal canto loro, potrebbero dirle semplicemente: tu, per me, non vai bene, non hai valore, non mi stai a cuore, anzi perfino mi disgusti, se la vita che mi offri è questa. Non mi interessi. Un bel problema e una grande responsabilità. gz 

Io credo che tu abbia perfettamente ragione nel porre l’accento, come l’hai posto, sul nesso tra democrazia come struttura e democrazia come prestazione politica. Per lo più si tende a scindere, secondo la terminologia tradizionale, la democrazia come governo del popolo (le istituzioni politiche in cui il popolo si fa valere) e governo per il popolo (l’azione politica a favore del popolo). La definizione di democrazia come governo per il popolo è sospetta. Molto sospetta. Sappiamo tutti che, nel secolo scorso, i nemici della democrazia, cioè le dittature di destra e di sinistra, si autodefinivano anch’esse democrazie, anzi le «vere», «reali», «sostanziali», «oneste», «piene» democrazie, contro la democrazia «formale», «vuota», «ingannevole», basata sui diritti politici, il confronto tra partiti, le libere elezioni, l’opinione pubblica, la libertà di stampa, ecc. Si dicevano democratici per poter sfruttare ideologicamente l’idea di libertà che la parola porta con sé e per meglio giungere a distruggere la cosa-democrazia. Ogni governo è, in senso generico, per il popolo: la democrazia come l’autocrazia. Non è dunque questo un carattere ­­­­­25

distintivo. Gaetano Salvemini, nelle «conferenze americane» del 1937, denunciò con forza il carattere fraudolento di questa sostituzione della sostanza alla forma, una sostituzione che permetteva al partito, al Führer, Duce, Caudillo, al leader carismatico di presentarsi al popolo come l’amico che provvede ai suoi interessi. La Chiesa cattolica, all’inizio del ’900, per essere à la page, cioè adeguata alle nuove idee democratiche, si proclamò anch’essa democratica, pur osteggiando l’idea che il governo degli uomini potesse trovare la sua base tra gli uomini stessi. La Chiesa era «teocratica» ma al tempo stesso anche democratica. La «democrazia cristiana» era il paternalismo delle opere di beneficenza. em 

L’equivoco è nei concetti. La democrazia non ha bisogno di qualcuno che agisca «per il popolo» in quanto il popolo è sovrano. O meglio: se il popolo è sovrano, agire per il popolo sta nel mandato dei rappresentanti, non nella loro discrezionalità. Mi pare che qui stia anche l’insidia di un altro concetto, quello della cosiddetta «democrazia compassionevole», che sostituisce la benevolenza individuale e dei gruppi sociali alle strutture dello Stato-benessere, la carità al welfare e ai diritti. Com’è evidente, la beneficenza non ha bisogno della democrazia. Ma in democrazia, la solidarietà sociale ha bisogno di qualcosa di più della beneficenza. Insomma, la forma democratica pretende una sostanza democratica.

gz  Per me, come mi pare anche per te, occorre che forma e sostanza stiano insieme. Le posizioni in campo sono queste. Per qualcuno, la democrazia è solo governo del popolo. Viene vista, per esprimerci così, solo come input. Avrebbe a che vedere con la scelta di chi governa e con il come governa, ma il contenuto, buono o cattivo, delle decisioni di governo sarebbe irrilevante. Per altri, quelli che pensano al governo per il popolo, cioè all’output, ciò che conta è il bene del popolo; tutto il resto – chi sia il «benefattore» e quali siano i metodi che impiega – sono storie. Oggi, mi pare che la maggioran-

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za degli studiosi sia sulla prima delle due posizioni, mentre nella pratica è la seconda a prevalere. Le cosiddette «regole» della democrazia (diritti politici riconosciuti a tutti, controlli sull’abuso del potere, libertà e pluralismo delle opzioni politiche, opinione pubblica formata liberamente, rispetto delle minoranze da parte delle maggioranze, ecc.) non godono di buona salute. Ma, se le regole, cioè la forma o il metodo della politica, sono importanti, non meno importante è il contenuto della politica. Anzi, per «il popolo» – concetto problematico – il contenuto è certamente la cosa più importante. Se si riflette sulla radice profonda della democrazia, si scopre ch’essa consiste in questa semplice idea: che esso – il popolo – è il miglior interprete del proprio interesse. Non è necessariamente «buon interprete»; si può sbagliare (ma la democrazia gli riconosce la possibilità di correggersi); ma ogni altro «interprete» è peggiore. Se si pensa a un bene assoluto, a una verità assoluta, la democrazia è improponibile, come ha dimostrato Hans Kelsen nei suoi fondamentali scritti sulla democrazia. La verità richiede autocrazia affinché essa sia posta fuori discussione. Ma, se non è così, allora si apre la strada alla democrazia, cioè al diritto dei governati di definire essi stessi che cosa è, per loro, il buon governo delle loro società. Orbene, se una democrazia è impotente a produrre buona politica, cioè politica conforme alle attese dei governati (di tutti o di parte), allora viene minata la stessa ragion d’essere della democrazia. Viene a essere, come si dice, «delegittimata» e sarà presto travolta da chi dirà: io, non voi con le vostre regole, le vostre procedure improduttive o controproducenti, sono capace d’intendere i vostri bisogni e dar loro risposta. Scegliete me e sarete felici, o meno infelici di quanto vi fa essere l’inganno della democrazia. Ecco perché forme della democrazia e contenuto delle politiche democratiche sono legate le une all’altro: nelle prime consiste la democrazia; nel secondo, la sua legittimità. Per questo, contro l’opinione corrente che separa democrazia da ­­­­­27

politica democratica, mi pare che tu abbia perfettamente ragione: la cattiva politica democratica si ritorce contro la democrazia stessa. Gli uomini politici che si professano democratici, e tanto più un partito che si auto-qualifica tale, dovrebbero preoccuparsi, e noi con loro, del proprio malgoverno. em 

Allora, se è vero che la sostanza è, sia pure per altro motivo, importante quanto la forma della democrazia, possiamo affrontare un nodo della società occidentale democratica. Lo riassumerei così: stiamo entrando in una fase in cui il problema della qualità della democrazia diventa fondamentale, e soppianta a mio parere il vecchio contrasto tra i fautori e i nemici della democrazia. Oggi il tema è la difesa della sua qualità, che significa via via capacità di inclusione, di tutela, di rappresentanza, garanzia di rispetto dei diritti, dei principî, dei valori che formano il concetto di «bene comune» pubblicamente accettato, anche se dovremo domandarci, ad un certo punto, se esiste ancora una nozione condivisa di «bene comune» o, come diceva Bobbio, un’idea comune di democrazia. Rientra in questo concetto l’attitudine della democrazia a soddisfare quelle che Giovanni Sartori chiama le moderne «spettanze», cioè quei «dovuti» che oggi i cittadini si sentono sempre più in diritto di reclamare, e che in gran parte riguardano l’area del welfare, dal lavoro alla scuola, dalla sanità all’ambiente e ai «beni comuni», dalla pensione alla sicurezza. Qui si misura in concreto la qualità della democrazia, la democrazia nella sua valenza per la vita quotidiana delle persone.

gz 

Hai parlato di «bene comune». Che cos’è il bene comune? È una di quelle cose che, se non t’interroghi, sai che cos’è; se t’interroghi, non lo sai più o ti si riduce a una scatola vuota che ciascuno riempie di quel che vuole. Meglio: ciascuno mette dentro ciò che corrisponde alla propria concezione politica di sfondo. em 

So innanzitutto che il bene comune non appartiene a una parte, che pretenda di farlo accettare come tale agli altri. ­­­­­28

Questo non significa che sia un mediocre comun denominatore, una risultante minima e neutra, conciliante, delle passioni deposte e delle identità ingrigite. No. Io penso che il bene comune sia l’insieme dei valori riconosciuti e accettati da una società e che fanno progredire un Paese. Esistono in democrazia, ovunque, anche in un Paese diviso come il nostro. Il fatto è che da noi non si contestano soltanto i valori (la memoria della liberazione dalla dittatura fascista, ad esempio) ma anche il concetto di «comune». Bobbio, come dicevo, aveva parlato di un’idea comune della democrazia, della costituzione: oggi non va bene neppure questa concezione. D’altra parte, abbiamo già visto che lo spazio pubblico si restringe. Non solo: pubblico e privato in questi anni si sono deformati a vicenda. Il privato viene difeso e rivendicato solo nei confronti del potere pubblico, mentre per tutto il resto viene al contrario esposto e svenduto. Sembriamo divenuti incapaci persino di sentimenti intimi, nel senso che acquistano valore solo se vengono vissuti in pubblico. Ma un sentire individuale esibito in pubblico non diventa collettivo, diventa performance, con un attore che agisce e un pubblico di spettatori, divisi da un palco, un microfono, una telecamera. Bauman sostiene che non siamo più capaci di dare risposte collettive a problemi individuali. Il fatto è che non le cerchiamo più e dunque, non essendoci mercato, non abbiamo più agenzie cultural-politiche che le propongono. Passiamo da un evento a una solitudine, stiamo con gli altri per lavorare, per fruire di qualcosa (uno spettacolo, una notte bianca, una partita, un ponte di calendario), per viaggiare, perché costa meno, non perché c’è una ragione per stare insieme. E poi, vorremmo essere capaci di decifrare e riconoscere il bene comune? Ti faccio una domanda: siamo sicuri che il Paese oggi abbia una percezione comune, ad esempio, del lavoro e del suo valore? gz  No, ma bisognerebbe cercarla insieme, come frutto di un comune lavoro politico-culturale. Nell’antichità il bene comune era un concetto oggettivo. Era la polis a esserne titolare. I

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singoli, che vivevano nella città, ne erano i servi, ciascuno nella posizione che la società gli assegnava. L’etica pubblica coincideva con la totale immedesimazione nel bene della città. Il «bene individuale» non esisteva, se non come riflesso del bene comune. Questa nozione oggettiva è conforme all’idea che la vita individuale non ha senso in sé ma solo come parte della vita comune: è un’idea totalitaria. Aggiungo: è anche un’idea determinata dalle posizioni di dominio e finalizzata al dominio. Menenio Agrippa – racconta Tito Livio – fece cessare la secessione della plebe in nome del bene comune, ma era il bene dei patrizi. Se avesse potuto, la plebe avrebbe presentato il suo, come il bene comune. Questa è la sorte dei concetti politici oggettivi. Sembrano tali, ma in realtà sono mascheramenti in forma ideale o ideologica dell’interesse del più forte o di colui che aspira a diventare il più forte. In qualche forma, questa concezione è ancora viva, per esempio nella «dottrina sociale» della Chiesa cattolica. Tutte le volte che si rivolge ai governanti parla di «bene comune», in una, per dargli contenuto, col tentativo di rivitalizzare l’antica dottrina del diritto naturale cristiano. Oggi questa impostazione è lontana dalle esigenze d’una società libera, responsabile di se stessa, nel bene e nel male. Ma questo non significa che il «bene comune» sia un concetto superfluo che non può essere inteso a vantaggio di tutti. Ha, infatti, cambiato matrice perché sono i singoli, i gruppi, i partiti, secondo i loro progetti di vita comune, a stabilirne i contenuti, cioè le ragioni del loro formare società. Oggi, le tavole – non del «bene comune» in senso antico, ma dei «beni comuni» – sono le costituzioni che i popoli si danno. «Comuni» significa che sono oggetto di uno scambio reciproco di riconoscimento: ciò che è bene per te, lo assumo come bene anche per me; ciò che è bene per me, tu ti impegni a rispettarlo in me, come io m’impegno a rispettare in te ciò che è bene per te. Così inteso, il bene comune non è un concetto autoritario o, peggio, totalitario. Possono trovarvi espressione i punti di vista più diversi: anche i contenuti della nozione antica (non la nozione antica come tale), che possono facilmente intrec­­­­­30

ciarsi convenzionalmente o contrattualmente con contenuti elaborati secondo la nozione moderna. Del resto, la nostra Costituzione, per non andare tanto in là, o la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» approvata nel dicembre 1948 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, sono una espressione eminente di questa possibilità d’incontro e d’intreccio. In questo senso, il bene comune è un concetto indispensabile per evitare la disgregazione sociale, cioè la guerra tra parti che non s’intendono o l’illimitata cura del proprio interesse a scapito di quello degli altri, cioè l’egoismo sopraffattore dei forti sui deboli. Al di là dei testi giuridici, c’è una verità inconfutabile: quando la politica produce non bene comune ma malessere sociale, se non vi si vede un’alternativa, non saranno travolti solo i governanti, ma il sistema nel suo insieme. Se la democrazia funziona male, prima si metteranno sotto accusa «i politici», la «classe politica», poi la democrazia come tale che quei politici e quella classe politica ha prodotto. em 

Mi pare che in questo modo ritorniamo, per altra via, alle prestazioni della democrazia, cioè alle «spettanze», ai «dovuti» di cui parlavo poco fa. Se non si danno risposte, si rischia grosso. Non ti pare, però, che stiamo girando intorno a una questione ovvia: il fatto che esiste un rapporto tra la democrazia come organizzazione e democrazia come prestazione politica, che l’una implica l’altra?

gz  Parrebbe questo anche a me, se non ci fossero queste due ragioni che m’inducono a dubitare dell’ovvietà. La prima è che è in corso una campagna contro il «bene comune», accusato tout court d’essere un concetto totalitario che mortifica le energie degli individui. Per esempio, si accusa la nostra Costituzione d’essere «sovietica» perché, in materia economica, prevede la possibilità di stabilire limiti alla proprietà e all’impresa private in nome della loro «funzione sociale», della «utilità sociale», della «sicurezza, della libertà, della dignità umana». Concetti «sovietici» o, semplicemente,

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preoccupazioni per il «bene comune»? Insofferenza verso un potere totalitario o nostalgia di una società darwiniana, dove non ci sono «beni comuni» ma tutto può essere oggetto di appropriazione privata? La seconda ragione è che, seguendo la nostra impostazione, la sostanza della democrazia, il «bene comune», è il cemento della democrazia, il suo tessuto connettivo. Questo è tutt’altro che scontato nel parlare di democrazia. Le regole, se si tengono insieme forma e sostanza della democrazia, sono il modo di gestione di questo bene. Stavo per dire: sono «solo» il modo di gestione. Mi sono trattenuto perché non è mia intenzione svalutare la democrazia – si dice così – come «regola del gioco» politico e, soprattutto, perché tra sostanza e forma c’è un rapporto di reciproca implicazione. Sono entrambi essenziali. L’una non può esistere senza l’altra. L’idea che i «beni» della democrazia possano essere meglio garantiti in forme non democratiche è una tragica illusione. I dittatori che, nella storia anche recente e anche da noi, si sono proposti per supplire alle carenze della democrazia, hanno sfruttato i difetti della democrazia non per sanarla ma per distruggerla. Diffidiamo dai curatori della democrazia insofferenti ai metodi democratici, cioè diffidiamo di coloro che separano la sostanza dalla forma. Una separazione divenuta, ahimè, moneta corrente nelle discussioni costituzionali di questi anni. È oggi invalsa la tendenza a considerare la «ingegneria istituzionale» (la forma di governo, i sistemi elettorali, ecc.) come «variabile indipendente» dal suo legame con la sostanza democratica, come qualcosa che si giustifica di per sé nella logica del «fare», solo come efficienza. Ma fare che cosa e in che modo? Il «fare per il fare»? Sembra che questa sia diventata una pervasiva ideologia costituzionale, un’ideologia il cui rapporto con la democrazia è problematico, poiché questa è esigente sia rispetto al «che cosa» sia al «come» fare. em 

Mi sembra che sia così. Ma vorrei lasciare i discorsi generali, sui quali è più facile concordare, per entrare nella ­­­­­32

cosa. Quali sono le «spettanze» il cui riconoscimento consideriamo vitale per la democrazia? Usciamo dall’astratto; siamo tutti d’accordo se parliamo di libertà e di uguaglianza, salvo poi rischiare di perderci quando diciamo che cosa ciascuno di noi vede dentro queste parole. Proviamo a ragionare su due temi tragici del nostro tempo: il lavoro e il terrorismo. gz 

D’accordo. Ragioniamo della vita e della morte delle persone. Così potremo forse renderci conto di qual è la posta in gioco, di quanto le questioni di democrazia penetrano nella nostra esistenza. Diritti in cambio di lavoro gz  Il nostro è un tempo peculiarmente drammatico, un tempo in cui tante acquisizioni civili del passato sembrano vacillare o addirittura rovesciarsi nel loro contrario. Preliminarmente è essenziale ricordare che è la Costituzione stessa a stabilire un rapporto tra il lavoro e la democrazia. L’articolo 1 – l’abbiamo già ricordato – recita: «L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro». Coloro che lo hanno scritto avevano chiaro il nesso tra democrazia come forma politica e democrazia come sostanza di rapporti sociali e sapevano che la condizione del lavoro è decisiva. Una «democrazia servile», dove ci sia chi lavora senza diritti, non è una democrazia, ancorché esistano partiti, elezioni, ecc. Ancora più chiara è la celebre proposizione – anch’essa già ricordata – che leggiamo nell’articolo 3, a proposito dell’uguaglianza tra i cittadini. Si tratta, per così dire, di un prolungamento dell’articolo 1: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». L’articolo 4, poi, proclama il

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lavoro come diritto di tutti e impegna le istituzioni a promuovere le condizioni che lo rendano effettivo. Ma cominciamo a vedere come stanno le cose di fatto. em 

Tu sei molto attento alle parole, allo slittamento dei significati. D’altra parte è da qui che prende inizio, mi è ben chiaro, la distinzione tra la parola e la cosa. E ci siamo detti che bisogna badare a questa differenza, soprattutto oggi: si può lasciare intatto il nome della cosa e mutarne la sostanza. Quel che accade per la democrazia, lo verifichiamo per il lavoro. Abbiamo indebolito i concetti primari, lasciando che si spostassero i significati, fino a impoverire la sostanza, e la valutazione pratica che ne facciamo. Provo a spiegarmi. Il concetto di «lavoratori» non fa più parte del lessico comune, sembra confinato al secolo scorso, gli operai sono diventati invisibili. Esiste solo il lavoro. Ma di cosa parliamo quando parliamo di lavoro, qual è il peso sociale, culturale e dunque politico che noi diamo a ciò che stiamo nominando? In realtà, anche il concetto di lavoro viene deviato quasi come se fosse diventato impronunciabile, e dovesse essere intermediato dalle categorie eufemistiche e tutte parziali della professionalità, dei mestieri, delle esperienze, dei saperi: di cui invece si parla moltissimo, senza mai definire l’insieme. Ricordiamo ancora tutti, abbagliati, la meteora del Nordest, dei lavori piccoli o meglio ancora immateriali, la delocalizzazione che spostava il lavoro dal raggio del nostro sguardo, l’economia di carta scambiata per la moneta della modernità, il consumatore collocato al primo posto tra i soggetti sociali, dove una volta c’era il produttore, colui che faceva le cose, le vedeva prendere forma, le toccava con mano perché, come dicevano a Torino, sapeva fare «i baffi alle mosche». Risultato: il lavoro (un certo lavoro) si fa, ma non si dice e dunque si riduce a prestazione, da almeno un decennio. Merce: ne eravamo partiti, ci siamo arrivati. È quando siamo qui, è a questo punto che si comincia a pensare che il lavoro possa essere separato dai diritti: compresa la salute. ­­­­­34

gz  Tu hai verificato questa volatilizzazione del lavoro, divenuto una categoria spersonalizzata che non si misura con le concrete condizioni di vita delle persone in carne e ossa, al tempo della tragedia della Thyssen Krupp. Ne hai scritto su «Repubblica». Era lo scandalo di vedere in quelle carni fiammeggianti, in quelle morti e in quelle vite e famiglie devastate, un «incidente sul lavoro». Una vicenda spettrale alla quale la città di Torino, bisogna dirlo, partecipò a distanza, da spettatrice. em 

Soprattutto, nella distanza della città, della politica, dell’informazione si perdeva secondo me lo specifico della tragedia Thyssen: che veder morire di lavoro – e in quel modo – delle persone per incuria, nella fretta di una ristrutturazione, era molto semplicemente uno scandalo della democrazia. E invece quelle morti rischiavano di essere derubricate ad «incidente», dunque digerite e accantonate come un fatto di cronaca. Ecco: questa divaricazione tra l’astratto e il concreto, tra lavoro e diritti, è nuovissima, non nella pratica naturalmente, ma nella teorizzazione pubblica. Oggi si può teorizzare, si può dire, i tempi sono non soltanto maturi ma evidentemente propizi. E infatti si dice.

gz  Ti interrompo per un’osservazione d’ordine generale, che mi pare di un certo rilievo. Ciò che hai appena accennato è la conseguenza d’un processo, per così dire, di «astrattizzazione». Una cosa è parlare di «lavoratori» e un’altra di «lavoro». Il lavoro è un elemento del processo produttivo, sottoposto alle sue leggi; i lavoratori sono persone alle quali, considerate come tali e non solo come prestatori d’opera, spettano diritti e doveri. Cambiando la parola, cambiano i valori di sfondo. Questa è la conseguenza importante dell’operazione di spersonalizzazione. La stessa cosa accade quando si parla, per esempio, di «precariato» invece che di «lavoratori precari», con la sostituzione di uno status ideale a una condizione reale; oppure quando si parla di «maternità»

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invece che di «madri», con la sostituzione della funzione alle persone. Lo stesso per studenti-istruzione, malato-sanità, ecc. Ma diritti e doveri hanno come soggetti, necessariamente, persone in carne e ossa. Non ci sono diritti e doveri del lavoro, del precariato, della maternità o della sanità. Potremmo sintetizzare la storia del riconoscimento sociale e giuridico del mondo del lavoro, dal primo Ottocento alla fine del Novecento, come l’emergere nella funzione lavorativa delle persone dei lavoratori e, quindi, dei loro diritti, accanto ai doveri. La condizione iniziale era quella in cui solo i proprietari avevano diritti – i giuristi direbbero «diritti potestativi». I lavoratori o aderivano alle condizioni loro proposte oppure non ottenevano o perdevano il lavoro, potendo l’imprenditore attingere al ribasso da un «serbatoio» di forza lavoro in cerca d’occupazione. Il paradossale «diritto» del lavoratore era di non accettare le condizioni, cioè di scegliere la disoccupazione. Stiamo ritornando a questo, in nome del mercato, della «competitività»? Bada che lo dico come semplice constatazione. Del resto, non si dice che i diritti vengono dopo; prima c’è il lavoro; se non c’è lavoro, parlare di diritti dei lavoratori è un vuoto parlare? em 

Assistiamo a un’equazione a due variabili: dammi il tuo lavoro come mi serve – ti darò garanzia di posto e di soldi. Tu garantisci me – io garantisco te con il salario e il posto. Non è cosa da poco in tempo di crisi. Io posso produrre in condizioni di competitività e tu hai il lavoro che ti fa stare nel mondo degli inclusi. Certo, è importante. Però, il resto è mio e non è negoziabile. Via i diritti che impediscono a me, impresa, di investire con certezza di previsioni e, per conseguenza, possono ritorcersi contro di te, se diventano di ostacolo allo sviluppo dell’azienda. Retribuzione in cambio di rinuncia a diritti. I diritti sono una zavorra, sono una «variabile indipendente», quindi sono una posta passiva nel bilancio dell’impresa. Di conseguenza il meccanismo di relazione tra capitale e lavoro si semplifica perché perde ogni cornice (già ha perso quella ­­­­­36

dello Stato nazionale), si riduce e si privatizza dentro la singola fabbrica, anzi il singolo stabilimento... gz 

...è chiaro che stai parlando di Pomigliano e Mirafiori.

em 

...smarrendo ogni valenza generale, dunque simbolica, alla fine politica. Ma non hai appena detto, a partire dall’articolo 1 della Costituzione, che senza libertà materiale – ecco il significato del lavoro per la dignità delle persone – non c’è libertà politica?

gz  Sì, l’abbiamo detto e non credo che chi l’ha scritto prima di noi dovrebbe pentirsene. em 

A me pare che ridurre la questione del lavoro a uno scambio – per quanto virtuoso possa essere – dentro la fabbrica, la amputa della sua valenza generale, per la società nel suo insieme. Ci vedo tre aspetti che investono la società tutta quanta. Ne ho scritto e li ripeto qui. Il primo: il legame tra lavoro e dignità è il legame con la libertà, l’emancipazione, situazioni personali concrete dei lavoratori che vanno ben al di là del salario e implicano, per esempio, la libera scelta della rappresentanza. Il secondo è che i diritti conquistati attraverso il lavoro fanno parte della costruzione della democrazia, sono parte della civiltà realizzata nel nostro Paese, la civiltà di cui tutti usufruiamo positivamente, imprenditori e lavoratori, la civiltà complessiva della società in cui viviamo: potremmo chiamarlo il contesto democratico della nostra esistenza. Il terzo aspetto riguarda la globalizzazione, motore reale e simbolico di questo cambio italiano di stagione che investe il lavoro: dunque apprendiamo che la globalizzazione non è neutra, ma incide sul processo democratico, una novità a cui non eravamo preparati. Forse vale la pena parlarne.

gz  E come no? Vorrei preliminarmente cercare di mettere in luce, ancora una volta, il valore delle parole che usiamo: la globalizzazione è in stretto rapporto con la «astrattizzazione» che

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caratterizza sempre più il nostro parlare. Dicevamo che sempre meno si parla di lavoratori e sempre più di lavoro o «lavori». Nel novembre dell’anno scorso, il ministro del Lavoro ha elaborato una bozza di disegno di legge che, nelle intenzioni, dovrebbe finire per sostituire lo «Statuto dei diritti dei lavoratori» con uno «Statuto dei lavori» che servirebbe, nelle intenzioni, a «esaltare e meglio perseguire i diritti universali della persona e le moderne tutele di matrice promozionale». Qui, io mi trovo già intortato (come direbbero i nostri figli) in paroloni pericolosi che rischiano di non farci vedere il significato di ciò che viene dopo: le «tutele» devono divenire «adattabili, affidate alla contrattazione collettiva e costruite per geometrie variabili e modulabili in funzione dei molteplici parametri tra cui, in particolare, le caratteristiche del lavoratore e le condizioni della azienda, del settore o del territorio di riferimento». Che cosa c’è, dietro questo linguaggio? Apparentemente, è il linguaggio del liberismo. In realtà, traspare il funzionalismo applicato alla persona del lavoratore. Il funzionalismo scalza i diritti e li sostituisce con gli «status». Quelle sono parole che avrebbe potuto pronunciare un Émile Durkheim per descrivere la sorte dei lavoratori nella società industriale, destinata a strutturarsi come un organismo, in cui la posizione di ogni cellula del processo produttivo («le caratteristiche del lavoratore») deve subordinarsi alle condizioni in cui tale processo si svolge. Altro che libertà degli individui: qui è all’opera il pensiero organico allo stato puro. Le esigenze del tutto – l’azienda, la produzione, il lavoro, l’accumulazione, l’innovazione – prevalgono senza residui sui diritti individuali, li possono ridurre («modulare») senza limiti, se ciò è richiesto dalla sopravvivenza di quel tutto. Sia chiaro: una constatazione. Può essere che la globalizzazione imponga tutto questo. Ma almeno siamo consapevoli di qual è la posta in gioco: il rovesciamento di due secoli almeno di storia dell’emancipazione umana. em 

Ecco. Hai detto a modo tuo e drammaticamente quello che sembra anche a me. Oggi ci accorgiamo che i vasi co­­­­­38

municanti della globalizzazione non spingono più solo gli investimenti e le produzioni verso i mercati emergenti per il dumping di diritti e di salari che esiste tra Paesi ricchi e poveri. Il fatto nuovo è che la globalizzazione «resetta» regole, condizioni e diritti del lavoro anche nella nostra parte di mondo, anche nel nostro Paese, dove fino a ieri li consideravamo acquisiti, elementi della nostra civiltà materiale e morale, forma stessa del suo modo d’essere. Ma nello stesso tempo scopriamo che alcune componenti della qualità democratica di una società – i diritti legati al lavoro, appunto e per esempio – possono diventare relativi, perché sono comprimibili. Attenzione. Nessuno di noi sarebbe disponibile a considerare la democrazia come un valore relativo: ma alcuni suoi elementi ecco che diventano relativi, ieri c’erano e oggi non ci sono più. E sono proprio quegli elementi che rispondono a bisogni primari, quindi riguardano i più deboli. L’onda della globalizzazione porta la parola d’ordine della competitività fin qui, fino al livello dei diritti che credevamo ormai acquisito e salvaguardato. Un manager che agisce su scala globale, che risponde al nuovo mercato unico mondiale e non al circuito protetto e garantito italiano ed europeo, che è lui stesso multinazionale, impone la nuova realtà, e soprattutto subordina i nuovi investimenti alle nuove regole. Lui dice che non può fare altrimenti, questo è il nuovo diritto-dovere in cui si eserciterà nel mercato globale la libertà d’impresa, elemento della democrazia. È difficile dargli torto sul suo terreno. gz 

Infatti! Lui stesso potrebbe dire, anzi dice: impongo la nuova realtà perché anch’io la subisco. Non è volontà ma necessità, alla quale io stesso devo piegarmi. em Certo,

«sul suo terreno». Ma «sul terreno di tutti», quello appunto della democrazia, si possono muovere due obiezioni. gz 

Esaminiamole con molta attenzione. La posta in gioco è molto grande. Non senti anche tu come un coro, un sotto­­­­­39

fondo che sempre più cresce fino a diventare senso comune? Dice che il «terreno di tutti» è cosa del secolo scorso. Oggi, ci viene spiegato che siamo ormai «dopo Cristo», che ognuno deve pensare a sopravvivere da sé e che dobbiamo adeguarci. Al diavolo il terreno di tutti! em 

Prima obiezione, l’abbiamo detta e ripetuta in quei giorni: con quale libertà decide nel referendum su Pomigliano o Mirafiori l’operaio che mentre vota sa che solo un risultato è possibile, perché l’altro (il «no») fa saltare l’investimento e dunque il posto di lavoro? È un problema di democrazia sostanziale, questo, non è vero? Lo dico convinto, prima e dopo, che la partecipazione ad un referendum tra i lavoratori sia comunque un dovere di responsabilità, come quello di rispettare il risultato, da parte della Fiom. Seconda obiezione: noi occidentali che esportiamo la democrazia ovunque, perché nel mercato non difendiamo ciò che abbiamo conquistato e costruito insieme, e che ormai è una misura dell’Occidente? Perché non pensiamo che sia nostro dovere operare affinché quei famosi vasi comunicanti tra i mercati ricchi e poveri del nuovo mondo globale si muovano anche in senso opposto, e non solo importando da noi un abbassamento delle regole e delle condizioni di lavoro? La globalizzazione infatti potrebbe (e prima o poi lo farà) estendere ai Paesi di nuova industrializzazione non solo il capitalismo, ma la democrazia dei diritti che l’Occidente ha conquistato in più di un secolo. Non crederlo, non testimoniarlo, significa semplicemente avere una fede intermittente e domestica nella democrazia, considerarla cioè un concetto che vale solo per la mente occidentale e alla sua latitudine, e non ha valore universale.

gz  Tu poni due questioni che superano l’ambito della dimensione puramente contrattuale. Una riguarda le precondizioni di una equa contrattazione. Quale equità può essere invocata se una parte si trova senza alternative di scelta e l’altra

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le ha entrambe? La prima è nella condizione di dover accettare la proposta, pena perdere tutto; l’altra, comunque vada, non perde nulla. Ma chi avrebbe dovuto garantire le condizioni affinché si potesse fare una scelta con equità? Questo è il compito della politica, che è chiamata in causa anche dalla seconda questione che tu poni. A chi spetta, se no, difendere i valori della democrazia e mostrare al mondo globalizzato ch’essi non sono affatto tramontati; che anzi solo questi ci possono salvare dalla catastrofe? em 

Così come tu la riassumi la questione è importante non solo per il lavoro: la procedura democratica – potremmo infatti domandarci – conserva il suo carattere democratico anche in condizioni di fortissima disuguaglianza tra le parti? E ancora: la disuguaglianza tra le parti riguarda soltanto i rapporti di forza, dunque l’apparato negoziale nella sua tecnica strumentale, o piuttosto la procedura deliberativa e la sua sostanza? Ma prima di riprendere questo tema dimmi, perché parli di catastrofe?

gz  Perché mi pare debba temersi che la possibilità di spostare illimitatamente capitali, imprese e lavoro, secondo la logica esclusiva dell’utile e della competitività, si risolva nello sfruttamento intensivo di tutti i fattori della produzione che la terra e l’umanità sulla terra mettono a disposizione. I capitali, le imprese e il lavoro si spostano oculatamente rispetto ai calcoli economici, ma ciecamente rispetto alle conseguenze sociali. L’idea che la globalizzazione potesse accarezzare con benevola, invisibile mano la terra intera, promuovendo ricchezza, diritti e democrazia per tutti, è completamente sbagliata, o è ancora sostenuta da qualche ideologo per interesse. Aree intere del mondo sono desertificate, altre sono impoverite, società un tempo fiorenti sono in declino, le disuguaglianze tra le popolazioni ed entro le popolazioni aumentano. Guarda le immagini che i grandi reporter ci mostrano delle popolazioni dai diversi angoli del mondo, magari proprio là dove, accanto

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alla miseria più nera, sorgono i segni del potere architettonico e urbanistico del capitalismo mondializzato. Non ti pare che si stia creando una distanza persino nella conformazione fisica esteriore tra una super e una infra-umanità? Non è razzismo, perché attraversa tutte le popolazioni d’ogni colore. Ha invece qualcosa di nietzschiano. La ricchezza e la povertà, con l’accesso o l’esclusione a cure, trapianti, trattamenti d’ogni genere, mai forse come ora – o comunque mai visibilmente come ora – si trasformano in differenze di corpi e di prospettive di vita. I corpi dei poveri, spesso bambini, segnati da malattie, incuria, violenza, guerre, talora usati come materiale vivente per trapianti al servizio dei corpi dei ricchi e della loro ricerca d’immortalità! Per non parlare di stili di vita, gusti, bisogni. Possiamo ancora parlare di «umanità», al singolare? Un orrore che non ha nemmeno lontanamente a che vedere con la differenza di vita esistente un tempo tra un proletario e un borghese nelle nostre società. La stirpe umana si sta dividendo tra un sopra e un sotto biologico, come conseguenza d’un sopra-sotto sociale, e questa divisione è a tutti evidente. Che sia questa, oggi e ancor più nel futuro, la «grande divisione»? Fino a qualche tempo fa le comunità nazionali e i loro confini in qualche modo trattenevano questa esplosione delle distanze; le società potevano «allungarsi» solo fino a un certo punto, mentre oggi la possibilità di allungamento – cioè la distanza tra il punto più basso e quello più alto – è diventata quasi incalcolabile. Per chi non ci crede basta che guardi i resoconti fotografici di posti lontani, o anche solo che si guardi attorno. E vuoi che prima o poi questa tensione, una volta che l’ideologia si congiunga con la tecnologia della violenza in una dimensione mondiale, non possa raggiungere un punto di rottura in grado di provocare la catastrofe? em 

Guarda che la tolleranza alle disuguaglianze, o l’insensibilità, come vuoi dire, cresce anche dentro la nostra società, non solo tra società e mondi diversi nello sviluppo. Allora bisogna avere il coraggio di dire che è il concetto stesso di ­­­­­42

uguaglianza che perde peso e significato, diventa sempre più evangelico, sempre meno politico. Abbiamo detto prima che tra i disuguali si rompe il vincolo interdipendente di società, vengono via via meno esperienze condivise, si divaricano i simboli culturali, salta alla fine l’orizzonte comune di destino, l’esigenza di tenersi in gioco – nello stesso gioco – a vicenda, pur dal profondo delle differenze. Il venir meno di questa libera obbligazione reciproca è il dato politico-culturale dell’epoca, il vero software della compressione dei diritti. La politica (meglio: la sinistra) non lo sa nemmeno, eppure questo incide sulla sua identità e sulla sua azione. Il pragmatismo dei tempi non corrompe solo le parole, ma anche le loro modalità d’uso, la loro spendibilità. Sembra che parlare di uguaglianza oggi suoni retorico: ed è probabilmente vero, ma solo perché quel suono non è autentico. In realtà può esistere una sinistra che non definisca se stessa a partire dal concetto di uguaglianza? Anzi, non è questa una delle polarità dei valori di base della democrazia? Ma, ripeto, vale nel piccolo di casa nostra come nel grande del mondo. Perché dunque chiami in causa la globalizzazione? gz 

Osserviamo i segni del tempo. Questo è un tempo apocalittico. Segni premonitori e letteratura, analisi dotte ed elevate (non ciarpame new age o ciarlatani pseudo-religiosi e millenaristi) colgono nel tempo presente segni catastrofistici che spianano la strada a una mentalità apocalittica. Anthony Giddens, per dare una raffigurazione delle forze messe in moto dalla globalizzazione, ricorre all’immagine del carro di Dschagannath che, secondo una tradizione hindu, una volta all’anno trasporta l’immagine del dio Krishna, muovendosi apparentemente senza meta e travolgendo la gente che, in preda all’accecamento dell’estasi religiosa, cerca di afferrarlo, guidarlo, rallentarlo, arrestarlo. È un’immagine che trovo eloquente. Non c’è forse stato come un accecamento anche di fronte alla globalizzazione? Chi sta sul carro è molto oculato nell’approfittarsi delle opportunità, ma chi sta in basso è del ­­­­­43

tutto cieco e subisce le conseguenze. La concentrazione della ricchezza, delle potenzialità e dei godimenti della vita non è mai stata così accentuata. Dall’altra parte, ci sono gli espropriati di quelle stesse cose. L’idea della globalizzazione come età felice del mondo tutto intero è completamente screditata. La globalizzazione, per ora, è un altro modo di dire una grande e crescente ingiustizia che avvolge il mondo. em 

Insisto su un punto. La novità non è a mio parere nella crescita dell’ingiustizia, che era aumentata anche prima della globalizzazione, ma nella nuova qualità politica delle disuguaglianze. Ulrich Beck in questo è radicale: «se il capitalismo globale dissolve il nucleo di valori della società del lavoro – dice – si rompe un’alleanza storica tra capitalismo, Stato sociale e democrazia, che è venuta al mondo in Europa e negli Stati Uniti come democrazia del lavoro». Cosa ne deriva? Che fuori dal vincolo capitale-lavoro-cittadinanza diventa complicato trovare nuove legittimazioni di sistema, per tutti gli attori, il capitalista, l’imprenditore, il lavoratore. Noi occidentali avevamo un modello, da cui discendevano istituzioni – quando e dove servivano – e un’idea di società, con i legami che ne derivano. Adesso nel nuovo sistema mondiale, che prima di tutto non è un sistema in senso classico (perché non ha uno Stato, un’unità territoriale, una società definita, un’idea di nazione o anche solo di alleanza) e tuttavia scarica i suoi effetti e i suoi mutamenti ovunque, perché tutto è centro e insieme è periferia, come riformuliamo il contratto sociale? Come scriviamo la tavola di diritti e doveri, i meccanismi di sicurezza, le protezioni, le opportunità di crescita, le nuove uguaglianze? Aggiungerei: con quale penna, su quale carta? Per domandarci, voglio dire, se siamo proprio sicuri che la nuova legittimazione sarà democratica. Chi ce lo assicura? Anche perché, com’è chiaro, c’è chi comincia a dire: non riscriviamo proprio niente, nessun contratto, nessun vincolo, ma accettiamo la necessità e la spontaneità della fase, che chiamiamo globale. È come annunciare che rinunciamo alla politica. ­­­­­44

gz  Fammi aggiungere questo. L’espansione del sistema di vivere, produrre, consumare dell’Occidente all’intero pianeta, è stata una grande espugnazione (mi ricordo il grande e illuso Solženitsyn che, al tempo della caduta dei regimi del socialismo reale, si immaginava una fecondazione reciproca tra la grande cultura slava con quella occidentale: guardiamo che cosa è stato!). Questa espugnazione ha comportato un effetto di ritorno, una rivincita. La condizione di chi sta in basso, sotto il carro di Dschagannath – per usare ancora questa immagine – è destinata ad allinearsi al livello più basso quanto a diritti, retribuzioni, condizioni di vita. Inutile perfino dire perché. I capitali di coloro che stanno sul carro e competono tra loro vanno dove le condizioni sono più favorevoli, e le condizioni favorevoli non stanno più necessariamente nei Paesi che un tempo sono stati all’avanguardia del progresso sociale. Questa è la condizione in cui la ricchezza può diventare sempre più ricca investendo là dove c’è la povertà sempre più povera. Se non in termini assoluti, questa è destinata ad aumentare in termini relativi. Sotto certi aspetti, e non solo per la produzione a limitata componente tecnologica, stiamo ritornando all’inizio del capitalismo, quando il «padrone» poteva procurarsi la manodopera a basso costo, attingendo al grande serbatoio della disoccupazione, avvantaggiandosi della concorrenza al ribasso che si svolgeva in un mercato del lavoro totalmente destrutturato. Oggi, la stessa cosa accade in un mercato delle opportunità che ha travolto le barriere delle economie nazionali e sul mercato del lavoro non ci sono lavoratori ma Stati, Paesi interi che si offrono a condizioni migliori, cioè meno pretenziose. Non è questa l’incubazione di una grande ed esplosiva tensione? em 

Dovremmo avere fiducia nella democrazia, addirittura nella sua capacità di riproporsi davanti alle nuove esigenze, reinventandosi. I diritti dell’uomo non si sono evoluti, trasformandosi e adattandosi in positivo alle nuove richieste? Certo, la globalizzazione chiede uno sforzo culturale, quando ­­­­­45

ti domanda di riscrivere il contratto dei diritti e dei doveri per la prima volta fuori dal tuo orizzonte biografico, dal tuo spazio d’esperienza. Non solo. È chiaro che servono nuove alleanze, nuovi soggetti transnazionali, nuovi terreni negoziali. Ma pensa solo alla difficoltà di agire in tutto questo spazio e in una contrazione del tempo tipici del mondo globale con la parola «internazionale» completamente fuori uso. Era il concetto – ovviamente parlo di concetto, non di organizzazione, che è un’altra cosa – meno indigeno e autarchico che avevamo inventato, un concetto non solo geopolitico, ma anche morale, perché richiamava la solidarietà. Con il declino dello Stato-nazione, dobbiamo trovare nuovi concetti postinternazionali, dobbiamo pensare a un mondo dove tutto è ubiquo, tutto è contemporaneo, salta l’unità di luogo, cioè l’accumulo progressivo e regolato, prevedibile, di esperienza, valori e tradizione. Insomma, con la globalizzazione la democrazia è veramente alla prova dell’universale. Si vedrà se è solo un prodotto dell’Occidente, se vale soltanto per lo Stato moderno e le società avanzate, o se è un modello che sa adattarsi, e sa ricrescere in forme nuove nei nuovi mondi che via via diventano liberi. Ci sarebbe da aggiungere: e nel frattempo? gz  Nel frattempo, credo che dobbiamo acquisire un atteggiamento nuovo di fronte alle conseguenze che la globalizzazione scarica sui nostri sistemi economici e sociali. Dobbiamo riuscire a interiorizzare, senza panico, l’idea che il futuro non ci consentirà di vivere come finora abbiamo vissuto. La cultura e la politica avrebbero qui un grande compito nel formare una coscienza. Dobbiamo ridurre le nostre pretese complessive di benessere nel senso dell’equità tra i popoli. Un’uguaglianza verso il basso della grande maggioranza delle popolazioni che sta sotto il carro di Dschagannath. Vedi quanto lontani siamo da quando, anche da sinistra, si proclamava che il problema della giustizia sociale non era più di tipo redistributivo; che bastava incrementare lo «sviluppo»

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perché l’onda che cresce avrebbe trasportato tutti più in alto. Oggi, nelle economie nazionali che si impoveriscono, la redistribuzione secondo equità diventa un imperativo non solo in vista della giustizia, ma anche della tenuta delle società. em 

Vuoi dire, controcorrente, che questo dovrebbe essere il tempo di politiche del lavoro? Anch’io sono di questa opinione, anche se mi pare che siamo fuori dal mondo.

gz  Lasciamo stare. Essere controcorrente, in questo momento, forse è addirittura un dovere. Chi sia dentro il mondo e chi fuori; chi renda vivibile e invivibile questo nostro mondo lo vedranno probabilmente i nostri figli e nipoti. Noi, qui e ora, dobbiamo fare uso di intelligenza e responsabilità. em 

Infatti. L’imprenditore ragiona con la regola del «qui e ora», e ho già detto prima che nel mercato globale in cui deve sopravvivere è difficile – qui e ora – dargli torto. Ma qualcuno ha il dovere di guardare più lontano, e di avere un pensiero più profondo: mentre cambia il concetto politico di lavoro, la politica, che fa? C’è come un disegno ideologico e gregario a questo proposito. Gregario a sinistra, dove si sono smarriti i punti cardinali della modernità e della conservazione e dunque si accetta tutto ciò che la cultura intellettuale dominante definisce nuovo, senza alcuna autonomia. Così si arriva a pensare che affrontare la modernità significhi nuotare dentro il senso comune altrui: basta stare a galla. Ma il disegno è gregario e addirittura parassitario a destra, dove ci si muove all’ombra della forza altrui, la forza dell’impresa, per regolare attraverso terzi i conti ideologici del Novecento, rimasti in sospeso per l’incapacità di concluderli per via politica, in quanto manca l’autorità riconosciuta per fare il saldo. In questo c’è il disegno ideologico, che è di classe, ed è sorprendente scoprire questa sopravvivenza negli anni Duemila. Dobbiamo cercare di capirne la profondità e la valenza, direi, costituzionale prima che politica: costituzionale nel senso della «costituzione materiale». Se si accetta come normale lo scambio di diritti contro ­­­­­47

lavoro, alla fine viene meno la distinzione stessa tra politica ed economia. Viene meno, detto in chiaro, la sovranità di fatto e istituzionale della politica, cui tocca – soprattutto su scala europea – definire con le parti la cornice democratica e sociale, che si traduce nella cornice dei diritti reciproci, capace di dare alla libertà indispensabile dell’azione economica anche una valenza d’interesse generale. Al fondo, c’è una domanda capitale per la democrazia: chi si fa carico, a chi tocca farsi carico, degli elementi su cui si regge un sistema democratico? Beck e Bauman hanno spiegato l’importanza del tavolo di compensazione dei conflitti, che fino ad oggi ha tenuto insieme i vincenti e i perdenti della globalizzazione: questo «tenere insieme» secondo me è una necessità che trascende lo scambio tra prestazione produttiva e salario e dovrebbe far parte della coscienza comune che nel lavoro si producono anche dignità, diritti, emancipazione, dunque libertà. gz  Oppure anche il contrario: svendita di dignità e di diritti, sfruttamento, perdita di libertà. È perfino superfluo ricordarlo. em 

Altro che conservatorismo: l’urto della globalizzazione va condiviso, non può essere a carico dell’imprenditore soltanto, ma si può coniugare il recupero di competitività e di produttività con la tutela dei diritti, ed è la cosa più moderna, più utile al sistema, più occidentale che noi possiamo fare. Qui infatti è il nesso – che mi sta a cuore e ripeto sempre – della modernità occidentale europea come l’abbiamo fin qui vissuta, fino al «dopo Cristo» del lavoro: è il nesso consapevole tra capitalismo, welfare state, opinione pubblica e democrazia. Ecco ciò che noi siamo: bisognerebbe esserne consapevoli.

gz 

Non temi di passare per socialdemocratico?

em 

Socialdemocratico? Quando dal ’92-’93 ho cercato un comun denominatore tra le forze di progresso europee (il laburismo inglese, la socialdemocrazia tedesca, il socialismo ­­­­­48

mediterraneo e nordico, così diversi) ho pensato alla parola «riformismo». Ma ti direi che il punto di vista che mi appassiona è semplicemente occidentale. gz 

Ma lasciamo da parte le etichette e veniamo piuttosto alle questioni che, di questi giorni, toccano da vicino molti lavoratori del nostro Paese e che hanno in Pomigliano e Mirafiori il loro punto d’emersione. Che cosa potremmo dire? Mi pare che anche tu sia dell’opinione che siamo di fronte a una di quelle svolte nei rapporti sociali che possono segnare un’epoca. La politica ha lasciato fare alla forza delle cose. Una parte, per non sapere cosa pensare, decidere e dire. Un’altra parte, perché, come dici tu, si trattava per loro – parlo dei responsabili al governo – di una scelta politica precisa. Si sono chiamati fuori, perché andava loro bene così. Per loro, la libertà è questo. Il mercato senza regole è l’ideale. Chi è forte, bene per lui; chi è debole, peggio per lui. Dalla politica, non ci si aspettano interventi per riequilibrare le forze che operano sul mercato. Si è trattato di una rivincita contro lo Stato sociale – e contro l’articolo 3 della Costituzione –, proprio quello al quale tu ti riferivi. Dunque, una precisa posizione politico-ideologica. Si dice che le ideologie sono morte, ma una ideologia, proprio qui, ha celebrato la sua vittoria, semplicemente lasciando che le cose andassero sulla base di rapporti sociali di forza. em 

Sì, hai detto bene: una posizione ideologica, soprattutto da parte della politica.

gz  Un primo dato che mi pare molto rilevante – non mi risulta sia stato colto come avrebbe meritato – sta in quello che chiamerei «carattere costituente» dell’accordo del 23 dicembre. I contraenti (Fiat, Fim, Uilm, Firmic, Ugl, Associazione capi e quadri), nel sottoscrivere il documento poi sottoposto all’approvazione dei lavoratori, stabiliscono che «l’adesione al presente accordo di terze parti [il riferimento è alla Fiom] è condizionata al consenso di tutte le parti firmatarie». È chiaro che cosa questo significa? Che tra quei soggetti viene

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concordato un sistema di relazioni sindacali chiuso: essi sono i padri fondatori e nessun altro ha il diritto di entrarvi se non per concessione di chi, quel patto lo ha stretto. Applicando i criteri civilistici, si potrà dire che non c’è nulla di strano: in un contratto tra le parti che dispongono dei propri diritti, una clausola del genere è evidentemente ammissibile. Ma qui si dispone dei diritti di tutti i lavoratori, anche di quelli che non sono rappresentati dalle associazioni che hanno scritto l’accordo. Siamo di fronte davvero a un accordo costituente che ha, come primo effetto, di definire il perimetro dei partecipanti. Chi ne è fuori, è alla mercé del diritto potestativo di ciascuno dei contraenti che, con il suo veto, può impedirne l’ingresso: pur se i contenuti dell’accordo riguardano tutti i lavoratori, non solo quelli rappresentati dalle associazioni firmatarie. Ho l’impressione che ci sia qualcosa che non quadra, che ci sia la violazione di qualcosa di fondamentale nelle relazioni sindacali: la prefigurazione di un sistema privilegiario di rappresentanza, a favore di chi partecipa al patto fondativo del sistema. Non è questione solo di adesione a questo o quel contratto, ma di partecipazione al sistema. em 

Il concetto di rappresentanza può trovare un limite nella sua base di legittimità, a mio parere, non in altro: i delegati sindacali sono stati scelti in modo corretto, secondo le norme? Le votazioni sono state regolari? Gli aventi diritto hanno potuto partecipare liberamente? Chiuso, non vedo altro. Nel caso di delegati sindacali, la rappresentanza dovrebbe preoccuparsi di essere la più ampia e la più diretta possibile, non ti pare? Ma qui, non si vota nemmeno. I delegati sono scelti dalle organizzazioni, come i parlamentari sono scelti dai capipartito nella legge elettorale definita «porcata» dal suo inventore, e battezzata porcellum da Giovanni Sartori. Ricordiamoci che Massimo D’Antona, il riformista ammazzato dalle Brigate Rosse, indica nella rappresentanza uno dei quattro pilastri del diritto europeo del lavoro e della sua costituzionalizzazione. ­­­­­50

gz  C’è poi un’altra cosa che mi pare non abbia attirato l’attenzione che forse merita. Leggiamo: «Le parti si danno atto che comportamenti, individuali e/o collettivi dei lavoratori idonei a violare, in tutto o in parte e in misura significativa, le clausole del presente accordo ovvero a rendere inesigibili i diritti o l’esercizio dei poteri riconosciuti da esso all’Azienda, facendo venir meno l’interesse aziendale alla permanenza dello scambio contrattuale e inficiando lo spirito che lo anima, producono per l’Azienda, effetti liberatori». Due osservazioni: la liberazione dell’azienda dagli obblighi contrattuali nei confronti delle Associazioni sindacali firmatarie può derivare dal comportamento di qualunque lavoratore, anche non rappresentato da queste. Qui si vede bene che la portata dell’accordo va al di là dei firmatari, subordina il rispetto degli obblighi statuiti al comportamento di terzi estranei alla pattuizione. Di fatto, tende a vincolare anche costoro, con la conseguenza che i sindacati firmatari, interessati al rispetto dell’accordo da parte dell’azienda, saranno indotti a svolgere una funzione, per così dire, di polizia aziendale nei confronti dei lavoratori non da loro rappresentati: un effetto devastante, di divisione e diffidenza, nelle relazioni tra sindacati. Seconda osservazione: manca una clausola reciproca che preveda che cosa accade se la violazione dell’accordo avviene da parte dell’azienda. La vera contropartita, come si sa, è l’investimento necessario alla ripresa della produzione negli stabilimenti interessati. Se viene a mancare? Se i lavoratori violano l’accordo, l’azienda si riserva di revocare il suo impegno finanziario, ma se l’azienda non tiene fede a questo impegno che cosa possono i lavoratori, secondo quello che si chiama «accordo»? Mi pare che la risposta sia: niente. Delle violazioni da parte dei lavoratori, è giudice senza appello l’altra parte, l’azienda: giudice in causa propria. Quali sarebbero gli «effetti liberatori» corrispettivi, per i lavoratori? Sarebbero «liberi» di perdere il posto di lavoro. Essi non possono giudicare proprio niente. Assurdità e paradossi che dimostrano una cosa soltanto: che la trattativa sotto minaccia di disinvestimento, di trasferimento o di chiusura dell’attività

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non è una trattativa paritaria, cioè non è, tecnicamente, un accordo. È una normazione prodotta dall’azienda, consultando i sindacati, alla quale i lavoratori sono chiamati ad aderire, sotto la pressione di circostanze cogenti (chiusura degli impianti, disoccupazione). Ed è una normazione la cui gestione, in caso di conflitto, è nelle mani di chi l’ha disposta. Che la pressione derivi non dalla volontà soggettiva dell’azienda ma da circostanze oggettive di mercato, non cambia la natura di quel documento che chiamiamo impropriamente accordo. Impropriamente, perché l’accordo presuppone l’uguale libertà delle parti di disporre del proprio consenso mentre qui una parte, l’azienda, è pienamente libera, disponendo di alternative (investire altrove), ma l’altra parte non ha alternative, se non quella catastrofica della perdita del posto di lavoro, ed è quindi pienamente vincolata. Vedi, già qui, come sarebbe stata necessaria la presenza di un’autorità terza – Stato, enti locali – che intervenisse per evitare che si giungesse a una simile stretta finale e si cercasse un riequilibrio tra le posizioni. La politica avrebbe potuto mostrare il suo volto benefico, di forza messa in campo per sottrarci alla forza bruta della necessità, nel nome della giustizia. La globalizzazione ha scatenato imponenti forze ma non è detto che le si debba subire come destino. Prima diserzione della politica. em 

Ma prova a domandarti che cosa doveva essere tutelato, che cosa doveva essere salvaguardato secondo il senso comune italiano di oggi. I diritti sociali non hanno una cittadinanza riconosciuta alla pari dei diritti politici. Non da tutti. Il mercato può determinarli come una forza esterna, perché non poggiando su basi solide definitive – ha scritto Ernesto Galli della Loggia – questi «supposti» diritti hanno per loro natura un contenuto mutevole e il loro godimento «è perlopiù possibile solo se vi è un contesto economico esterno favorevole»: cioè il mercato decide, ed essendo contrattabili, questi «supposti» diritti sono anche comprimibili. Quindi la libertà economica, potremmo dedurne, ha un valore superiore alle libertà che ­­­­­52

nascono dal lavoro. O meglio: quelli che nascono dal lavoro, sono diritti nani, minori e condizionati, anzi subordinati per il loro carattere contrattuale ad un elemento esterno variabile, come se molti altri diritti non fossero nati dal negoziato o dal conflitto. Ma questa concezione nega il concetto stesso di «diritti del lavoro», per superarlo e assorbirlo nel problema della nuda «condizione sociale» dei cittadini: che sarebbe ben più rilevante per lo Stato e soprattutto più proprio, in quanto «in una società democratica non vi sono luoghi politico-simbolici privilegiati» come la fabbrica, né diritti particolari come quelli del lavoro, capaci di dignità ed emancipazione. È una tesi che vale la pena discutere, non credi? gz  C’è solo da prendere atto di un contrasto tra due concezioni dei diritti, nel quale si riflette una profonda frattura politica e culturale. Sono due visioni del rapporto società-Stato che si confrontano, anzi si scontrano. Diritti individuali astratti contro diritti sociali concreti. I primi riguardano il cittadino come tale, come membro della collettività statale, indipendentemente dalla sua collocazione sociale. Indipendentemente cioè dall’essere madre, lavoratore dipendente, disoccupato, licenziato, infortunato, ammalato, handicappato, analfabeta, sfrattato, e così via. Il diritto, secondo la concezione dei diritti come diritti astratti, dovrebbe obbligatoriamente prendere in considerazione solo ciò che rende tutti uguali, cioè il mero essere cittadini, ma dovrebbe o potrebbe trascurare tutto ciò che li distingue per condizione sociale. La posizione sociale è la conseguenza del libero gioco delle forze in campo. Ciascuno per sé e, se nella grande competizione della vita è soccombente, peggio per lui. Nel caso del lavoro, la legge suprema è quella del mercato. Questa è, molto schematicamente, l’idea che fa da sfondo alle concezioni del tipo che hai evocato. Nella versione più radicale, gli interventi pubblici rivolti a «correggere» le condizioni sociali sono vietati, perché la società ha una sua logica normativa intrinseca che è dannoso cercare di correggere. Questa logica è il darwinismo: i più forti e «adatti»

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all’ambiente devono sopravvivere e affermarsi sui più deboli e «disadatti», i quali costituiscono soltanto una zavorra per lo sviluppo dell’intera società. Se scaviamo, nelle posizioni di quanti hanno assistito in modo apparentemente neutrale alle vicende Pomigliano e Mirafiori, troviamo proprio quest’atteggiamento. Poi c’è una posizione meno radicale e meno ideologica che dice: sì agli interventi sociali dello Stato ma facoltativamente, non come controprestazioni di veri e propri diritti, ma come concessioni subordinate alla disponibilità di risorse. Di fatto, in situazioni di risorse scarse, le due versioni coincidono negli effetti. em 

I cosiddetti diritti sociali sono «diritti che costano». Non possiamo negarlo. Se costano, occorre che ce li si possa permettere. È un dato di fatto. Lavoro, previdenza sociale, assistenza sanitaria e istruzione pubblica crescono nei periodi di espansione economica e regrediscono in quelli di recessione. Come rispondere a quest’obiezione, che è anche una constatazione?

gz  Così: che non tutto è denaro, pubblico o privato che sia. Proprio nei momenti di difficoltà economica ci sarebbe bisogno di «politiche» pubbliche rivolte a creare le condizioni dei diritti sociali. La questione è se «la politica» se ne considera responsabile oppure no. La Costituzione, negli articoli che abbiamo più volte citato, dice per l’appunto che non deve disinteressarsene. E invece è proprio ciò che è accaduto. Il disinteresse è stato un’opzione. Si è lasciato che le cose andassero secondo la logica del mercato perché a questa logica ci si è adeguati, volenti o nolenti. L’opposizione politica avrebbe potuto qui cogliere una propria ragione di esistere, se non si fosse limitata a chiedere con voce flebile un «tavolo» per la ripresa del «dialogo» tra parti sociali e governo. Ma questo schema di concertazione triangolare, nel quale la politica avrebbe avuto qualcosa da dire anche rispetto al mercato, è proprio ciò che ideologicamente non piace al governo e che l’opposizione non ha saputo raccogliere.

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È chiaro che la fabbrica non è una fonte normativa, ed è evidente che la democrazia non conosce luoghi privilegiati. Ma a parte – per così dire – la Costituzione, essendo il lavoro il centro della vita associata in quanto tale, come pensare che non ne nascano obbligazioni e diritti? Se è attraverso il lavoro che si crea il vero legame sociale, se è il lavoro che «rende gli uomini liberi – come dice Simone Weil – nella misura in cui è un atto di sottomissione cosciente alla necessità», come pensare che sia un’espressione umana sterile dal punto di vista delle facoltà dell’individuo, dunque delle sue ragioni e delle spettanze che ne nascono? Posso citare ancora D’Antona? «Ci sono dei diritti fondamentali che devono riguardare il lavoratore non in quanto parte attuale di un qualsiasi rapporto contrattuale, ma in quanto persona che sceglie il lavoro come proprio programma di vita, che si aspetta dal lavoro l’identità, il reddito, la sicurezza, cioè i fattori costitutivi della sua vita e della sua personalità». In questo senso, anzi, «è lavoratore non solo chi attualmente ha un rapporto di lavoro di un qualche tipo, ma il cittadino che guarda al mercato del lavoro come ambito di chance di vita. Come lo tuteliamo?». E io aggiungo: come si potrebbe dir meglio?

gz  Condivido. C’è un altro aspetto della vicenda, a mio parere, eminentemente politico, sul quale la politica s’è ben guardata di dire una parola. In una vicenda come quella di Mirafiori era in gioco un interesse non solo aziendale (di datori di lavoro e di lavoratori) ma un interesse cittadino, regionale, addirittura nazionale. La chiusura di Mirafiori cambierebbe il volto di Torino, sconvolgerebbe tutto «l’indotto» dell’auto con effetti diffusivi sull’occupazione in un territorio molto vasto, modificherebbe l’impianto industriale e la vocazione produttiva dell’intero Paese. Ma è successo che il peso di tutto questo è stato letteralmente scaricato sulle spalle e sulle decisioni di quelle poche migliaia di lavoratori addetti agli stabilimenti. In certo senso, sono eroi del nostro tempo. Si sono assunti da soli una responsabilità generale che a me pare sommamente ingiu-

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sto avere accollato esclusivamente a loro. Hanno certamente deciso pensando innanzitutto al proprio posto di lavoro, alla propria famiglia, ai propri figli. Ma hanno deciso per tutti. Sono stati loro i politici della situazione. I professionisti della politica sono stati totalmente assenti, non hanno avuto parole e a me pare una vergogna, soprattutto per quelli che dicono di non accettare la pura e bruta forza del mercato e dicono di volerlo «governare». Seconda diserzione della politica. em 

Un vuoto evidente. Della politica e della governance democratica complessiva. Il processo deliberativo si è ristretto, impoverendosi: non solo la concertazione, dunque, entra in gioco, ma la deliberazione. Non darei anche qui la colpa alla globalizzazione...

gz  La globalizzazione è una vicenda che coinvolge l’intero Paese. Come si usa dire: il «sistema Paese». Per questo, siamo di fronte a situazioni assai diverse da quelle poste dal conflitto capitale/lavoro che ha segnato per due secoli il mondo della produzione e del lavoro. Le conseguenze della globalizzazione si abbattono sul sistema industriale nazionale nel suo insieme. Capitale e lavoro ne sono coinvolti ugualmente e dovrebbero essere alleati nel cercare rimedi. Di per sé, l’accusa alle aziende di praticare politiche di intensificazione dello sfruttamento della forza-lavoro per massimizzare i profitti è frutto di una visione superata dalle circostanze. Ma, se questo è vero, allora la conseguenza è che i sacrifici richiesti dovrebbero essere divisi equamente e non accollati soltanto a una parte. Questo secondo lato della risposta alle sfide della globalizzazione, invece, è completamente mancato. La condizione operaia è modificata in peggio con la promessa di incrementi salariali legati all’incremento della produzione, a sua volta dipendente da future e incerte condizioni generali di mercato; ma la condizione di dirigenti e manager non risulta minimamente intaccata. Nessun senso di solidarietà tra le componenti umane dell’azienda s’è fatto sentire e ciò indubbiamente ha assunto un significato odioso, in

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una trattativa in cui la posta in gioco erano i sacrifici di una sola parte. La crisi industriale non si risolve certo riducendo i compensi del management o ponendo limiti ai bonus sulle attività finanziarie, ma certo anche questa asimmetria che ha raggiunto negli ultimi anni proporzioni impressionanti – penso ai dati raccolti da Revelli nel suo recente Poveri, noi* – non ha fatto che accrescere il sentimento operaio dell’ingiustizia subita. Il «resettamento», insomma, ha gravato solo su una parte, l’altra è rimasta indenne, come se appartenesse ad un’altra sfera, a un altro mondo. Una questione di giustizia sociale come questa è una questione che interpella la società tutta intera, un problema di equità generale; Aristotele avrebbe detto: questione di giustizia distributiva e non commutativa, cioè limitata alle parti dello scambio. Terza diserzione della politica. em 

Fai un passo ancora, e vedi come l’intero non esista ormai più, sotto il peso della crisi e sotto la spinta del mercato globale assunto come regola e legge. Operai e impiegati hanno votato diversamente a Mirafiori. Non solo: hanno votato per il no i reparti di lastratura e montaggio, dove il lavoro in linea è più pesante, i «pipistrelli», come vengono chiamati quelli del turno di notte, hanno scelto il sì in massa. La crisi segmenta, corporativizza e separa, il lavoro non unisce, la condizione comune salta. Luciano Gallino lo aveva in qualche modo detto: nelle ristrutturazioni del decennio, che decentrano e con una brutta parola esternalizzano, è saltato il «tetto» della fabbrica, che teneva uniti, stretti, a portata di voce.

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C’è poi un’ultima defezione della politica. Gli accordi di cui stiamo parlando prefigurano un sistema di relazioni sindacali che, dichiaratamente da parte aziendale, aspira a estendersi in generale come deroga alla logica dell’articolo 39 della Costituzione: contratti decentrati in deroga ai contratti *  Einaudi, Torino 2010, capitolo V.

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nazionali di categoria, rappresentanza sindacale designata dai vertici dei sindacati e non eletta dai lavoratori, diritti sindacali riconosciuti soltanto ai firmatari dell’accordo, diritto di sciopero subordinato alla «procedura di conciliazione» il cui mancato esito positivo autorizza l’azienda a procedere secondo la «clausola di responsabilità». Bisognerà vedere come questa regolamentazione sarà interpretata (soprattutto con riguardo allo sciopero, rispetto all’articolo 40 della Costituzione) e quale sarà l’esito del contenzioso che è facile prevedere si svilupperà circa la legittimità di diversi suoi aspetti, con riguardo ai diritti che spettano ai lavoratori come tali, e non in quanto aderenti a un sindacato. Di questo, non possiamo trattare qui. Qui però si può dire che l’intero sistema si comprende alla stregua di questi principî: azienda e sindacati firmatari formano un sistema; i non firmatari sono fuori del sistema; i lavoratori appartenenti a sindacati non firmatari sono esclusi dall’esercizio di determinati diritti (riunione nella fabbrica, utilizzazione di strutture, ecc.); la gestione delle relazioni sindacali è assorbita dalle strutture di vertice, con esclusione della partecipazione diretta dei lavoratori. Tutto ciò rappresenta un modello: si sancisce la disunione del mondo sindacale a seconda della disponibilità all’accordo con l’azienda; si stringono le maglie della democrazia nel sindacato; si cementifica l’accordo tra azienda e sindacati firmatari. Una vera e propria corporativizzazione delle relazioni sindacali, azienda per azienda, in nome della produzione. Infatti, causa ed effetto, è messa da parte la contrattazione nazionale dove trovano risposte generali i problemi del lavoro nella dimensione che è sempre stata una garanzia soprattutto per i lavoratori di piccole e medie aziende in cui la rappresentanza sindacale è debole. Di fronte a novità di questa portata – un neo-feudale post Christum – come giudicare il silenzio della politica? em 

Abbiamo detto che è una perdita di potestà, per la politica intesa nel suo insieme. Per la sinistra una perdita d’anima: non capisce che questa storia parla di lei. ­­­­­58

gz  Un ultimo punto. Non sono sicuro che i tanti che sono intervenuti sugli accordi di cui stiamo parlando li abbiano letti. I lavoratori la cui condizione di lavoro vi è definita possono essere divisi in due: gli addetti alla catena («addetti alle linee a trazione meccanizzata con scocche in movimento continuo») e gli altri. La condizione dei primi dipende dall’imperativo della totale utilizzazione degli impianti, vera e propria ratio, direbbero i giuristi, degli accordi. La riduzione e la simultaneità del tempo delle pause, la collocazione della refezione alla fine dei turni, le 40 ore settimanali suddivise in 8 ore continuative su tre turni e la loro organizzazione nell’arco della settimana in modo che la catena possa essere in movimento continuo, la disponibilità al lavoro straordinario, ove le esigenze del mercato lo richiedano, ecc., si spiegano così. Può darsi che tutto ciò sia richiesto dalla «produttività». Non sono un esperto di organizzazione del lavoro. Ma una cosa si può dire: in questa prospettiva, il lavoratore è in funzione della catena di montaggio, tende a divenirne, per così dire, una protesi. Come siamo lontani dall’aspirazione «umanistica» della macchina al servizio dell’uomo, aspirazione che nei decenni passati aveva alimentato tentativi di umanizzazione del lavoro ripetitivo in serie, per renderlo in qualche modo creativo e meno alienante. Qui, è l’uomo al servizio della macchina. Questa divisione tra chi sta alle «linee in movimento» e chi no si è manifestata con evidenza nell’esito del referendum a Mirafiori, se è vero che il no all’accordo è prevalso tra i primi, essendo però soverchiato dal sì dei secondi. Il no era sostenuto dal sindacato Fiom, il sì da tutti gli altri. È un dato da non sottovalutare. Non c’è stata una visione unitaria complessiva. E, fin qui, nulla che non potesse accadere. Ma la divisione tra le diverse sigle sindacali è dipesa non dalla visione della fabbrica, ma dagli interessi delle diverse fasce di lavoratori, a partire dalla loro posizione materiale funzionale nel processo produttivo. Una divisione del mondo del lavoro, parte contro parte e nella stessa azienda. Un funesto presagio su dove potrebbe portare la rottura del quadro contrattuale nazionale.

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Si tratta a questo punto di capire se questa è davvero una modernizzazione, come ha detto il governo a più riprese, o piuttosto uno sgretolamento di unità, d’insieme, che può portare a conflittualità, ingovernabilità, e comunque alla parzialità di questa svolta. Attenzione, perché la parzialità che nasce in fabbrica poi cammina fuori, nella società, la divisione diventa fatto politico e culturale, non soltanto sindacale, sociale ed economico. Chi si preoccupa adesso di fare una sintesi, di ritrovare un punto d’incontro? Non certo la politica, mi pare. Eppure, lavoro, libertà economica, globalizzazione, diritti: che occasione democratica...

La violenza in casa gz 

È tempo di volgerci all’altro tema tragico del nostro tempo, il terrorismo. em 

E con questo giungiamo ad affacciarci sull’abisso, su un mondo dove si agitano tante profonde pulsioni che non si possono soltanto esorcizzare o rimuovere, ma devono essere analizzate per quanto è possibile, e che soprattutto rilevano dal punto di vista della risposta che le democrazie possono, anzi devono, dare. La sfida del terrorismo, nostrano e internazionale, è stata la «guerra» della mia generazione; su un fronte e anche sull’altro, purtroppo. In qualche modo, in quegli anni, si è dovuta sviluppare una sorta di dottrina dello Stato, fare i conti con una democrazia molto imperfetta da difendere proprio pochi anni dopo che si pensava di poterla cambiare radicalmente. L’«11 settembre» ci ha portato di nuovo davanti agli occhi e alle coscienze una sfida che avevamo già vissuto nel dopoguerra italiano del benessere, in quelli che sono stati per me gli anni peggiori della nostra vita: la sfida del terrorismo alla democrazia. Insisto: alla democrazia, non solo allo Stato. Allora ero molto giovane e ricordo l’insidia della posizione di chi diceva «né con lo Stato, né con le Br». Hai idea, oggi, di cosa poteva essere allora lo ­­­­­60

Stato per noi, la generazione cresciuta con Piazza Fontana, Brescia, le stragi? gz 

Io sono, per così dire, una mezza generazione davanti alla tua, cioè un poco più vecchio. In quegli anni, la mia vita attiva era a Sassari, in un’Università al di là del mare, in una atmosfera vivacissima e molto impegnata politicamente, ma tutto sommato distante dai risvolti concreti del terrorismo. Certo se ne parlava, ma erano discussioni di teoria e tali restavano. La Sardegna era un altro mondo, rispetto a Torino o Milano. Lì, la violenza politica era quella generata dal mescolamento con antiche aspirazioni indipendentiste, e quindi locali, ed era cosa diversa dal terrorismo di quegli anni. Lo «Stato imperialista delle multinazionali» apparteneva a un altro mondo. Almeno per quel che mi sembra di ricordare. L’irruzione della violenza, non come questione di teoria politica ma come esperienza concreta di vita offesa, l’ho percepita in un momento che tu ricordi benissimo, l’assassinio, nel novembre 1977, di Carlo Casalegno, il vicedirettore della «Stampa», un uomo colto, mite e rigoroso, impegnato a denunciare il carattere nichilistico della violenza terroristica e, per questo, definito «servo dello Stato». Ma procedi tu che, allora, lavoravi alla «Gazzetta del Popolo» e con queste cose avevi a che fare quasi quotidianamente e molto «a caldo». em 

Difficile capire e spiegare adesso che mesi e che anni sono stati quelli, a Torino. Su un tavolo in redazione avevamo un accrocco di compensato che conteneva un apparato radioricevente per captare le conversazioni tra le volanti di polizia e carabinieri con le loro centrali, più i vigili urbani e i vigili del fuoco. C’erano momenti nella giornata in cui quelle radio crepitavano e impazzivano tutte insieme urlando l’indirizzo di un attentato, l’ospedale dove stavano portando la vittima. Si correva, spesso si arrivava insieme coi poliziotti, non ti cacciavano o perché ti conoscevano, o perché tu conoscevi la persona ferita e ti inginocchiavi sulla strada a parlargli, ­­­­­61

oppure perché pensavano che tu fossi un parente. Maurizio Puddu, che diventerà poi presidente dell’Associazione nazionale vittime del terrorismo, cade tra due auto, con le ossa delle gambe esplose per i colpi ravvicinati, non riesce a muoversi, ci chiede solo di andare da suo figlio per avvertirlo che è vivo. Giorgio Coda, lo psichiatra del romanzo di Papuzzi Portami su quello che canta, arriva in barella al pronto soccorso e il medico che lo vede martoriato urla: «Cristo, lo hanno crocifisso». Carlo Casalegno è ancora nell’androne di casa, a terra, e intorno tutti dicono sgomenti «gli hanno sparato alla testa, dunque vogliono uccidere». E poi le case di ringhiera delle vedove degli agenti carcerari ammazzati, giovani ragazze meridionali che aprono la porta con un bambino in braccio a sindaci e prefetti, e quando quella porta si chiude restano sole e dimenticate, senza capire nemmeno quale guerra hanno perduto senza combatterla e per quale Stato, che non si farà vedere mai più. Fortunatamente ciò che ho visto come cronista per le strade di Torino mi ha aiutato a capire, a distinguere, a ragionare. Quando i terroristi hanno sparato al consigliere comunale democristiano Antonio Cocozzello, spezzandogli le gambe alla fermata del tram, mentre gli infermieri dell’ambulanza gli tagliavano con le forbici i pantaloni, per tamponare in qualche modo la devastazione delle rivoltellate, abbiamo visto l’intimità di un uomo violata, le calze, le scarpe consumate, la maglia insanguinata, abbiamo raccolto da terra la cartella di plastica dove c’erano le pratiche per la pensione di qualche operaio da appoggiare al patronato della Cisl. Era la fatica quotidiana, anonima, della democrazia come cornice e libertà della nostra vita, nell’autonoma normalità e anti-eroicità delle nostre scelte. Poi l’ambulanza è partita, io sono tornato al giornale – la «Gazzetta» – e poco dopo ho letto il volantino di rivendicazione dei terroristi, che indicava in Cocozzello il servo delle multinazionali, lo strumento del potere imperialista democristiano. Mentre scrivevo, una parte della mia testa ragionava su quel che avevo visto, e capiva ciò che chiunque al mio posto avrebbe capito: certo il sistema di potere demo­­­­­62

cristiano esisteva, eccome, e io avrei voluto batterlo col voto. Ma col voto, con la politica, non con la violenza. Cos’era questa nuova sproporzione sanguinaria tra la politica e l’assassinio? E che cosa c’entrava quell’uomo steso per terra da una furia cieca, che gli aveva dichiarato guerra senza nemmeno conoscerlo? Come poteva difendersi, da cittadino inerme, che pensava di potersi muovere libero nella sua città in tempo di pace? E comunque, prima di tutto, come si poteva tentare di colpire e ammazzare una persona per le sue idee, per la sua appartenenza politica e ideale? Loro sparavano contro la democrazia, ecco il punto: dunque dovevamo difenderla, qualunque fosse il nostro giudizio politico sullo Stato di allora. Poi venne l’insidiosa superbia intellettuale che si espresse nel motto «né con lo Stato né con le Br». gz 

Fermati un istante qui, prima di passare al tema dello Stato. Hai toccato quello che per me è un punto dirimente, un dilemma ineludibile, e non vorrei che ci lasciassimo sfuggire il momento di parlarne. Il terrorismo è violenza coscientemente, anzi programmaticamente, rivolta non contro il nemico, ma contro chi «non c’entra niente». I criteri di selezione delle vittime da parte dei terroristi erano vari. Certo, in molti casi c’entrava il grado di coinvolgimento nel «sistema» ch’essi attribuivano alle persone scelte come bersaglio: il «colpirne uno per educarne cento». Ma, alla fine, non era nemmeno più questa la logica. Al terrorismo non interessava minimamente sapere alcunché delle vittime designate. Non impersonavano in alcun modo il nemico. Potevano perfino essere, intimamente, dei partigiani dei terroristi, degli attuali o potenziali compagni di strada. Non interessava. I bersagli non erano scelti secondo il motto: chi non è con me è contro di me! La loro importanza stava nell’essere mere vite che potevano essere meramente spente: il loro valore stava nel poter essere messe a morte per seminare terrore. Che aberrazione! Un valore – la vita – che consiste, dal punto di vista del terrorista, nel suo poter essere soppresso, la possibilità di ­­­­­63

morte come valore della vita! Patrizio Peci ha bene descritto questo punto-zero della disumanizzazione, quando ha parlato dell’uccidere in quel contesto come di un «mestiere». Questo è il terrorismo, visto dal punto di vista degli assassini. Dal punto di vista delle vittime, il terrorismo è «orrorismo», secondo il neologismo coniato da Adriana Cavarero con l’intento di rovesciare la prospettiva. Per coloro che esercitano violenza, il terrore è un mezzo per un fine (c’è il terrore che serve al potere, per consolidarlo, o ai nemici del potere, per fiaccarlo); e il fine giustifica il mezzo. Ma per la vittima innocente non è così: la sua vita è semplice occasione o opportunità di morte in mano d’altri per fini che non la riguardano. È l’orrore allo stato puro che non può rivestirsi di alcuna ragione. L’orrore non è una categoria politica, ma morale. Potremmo chiederci se introdurre ragioni morali in questioni politiche non sia moralismo o peggio. La risposta è no. Almeno non lo è in situazioni estreme di questo genere, dove deve tacere la politica con le sue ragioni, dove la massima «i mezzi sono neutri, ciò che vale sono i fini», non può più valere. In questi casi, non c’è ragione politica (l’arte dei fini e dei mezzi per raggiungerli), ma solo ragione morale. Sappiamo bene che in politica la violenza non è affatto esclusa. Anzi, ne è un (per alcuni, è il) Leitmotiv. Ma la democrazia è per l’appunto un sistema che dovrebbe valere a rendere superflua, e quindi vietata, la violenza. Tuttavia, questa sempre cova sotto la cenere: se la democrazia non funziona di fronte al tiranno, si riaffaccia la violenza non solo come possibilità di fatto ma anche come esigenza di giustizia. Vim vi repellere licet, dicevano gli antichi. Ci ritorneremo. em 

Giustifichi allora in questi casi la violenza politica?

gz  L’uso della violenza politica, ci piaccia o no, è un tema che non scopriamo certo noi. Contro il tiranno, in mancanza d’alternative, che cosa si deve fare? Trova posto perfino nella teologia politica cristiana quando non si limita a consigliare

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ai sudditi la preghiera a Dio per la conversione del principe corrotto. Ma qui stiamo parlando di terrorismo, cioè dell’uso della vita di innocenti. E stiamo parlando di terrorismo in un contesto democratico. Stiamo, dunque, parlando d’altro e mi pare che nessun «distinguo» sia lecito. C’è, per me, un limite insuperabile, un delitto radicalmente inescusabile: la violenza intenzionale nei confronti dell’innocente. Ricordi la domanda di Ivan Karamazov al fratello Alëša: è lecito per l’armonia universale – dunque per il fine più nobile – versare una lacrima, fosse anche solo una lacrimuccia, d’un bimbo innocente? La risposta è no. Chi versa una lacrima consapevolmente e intenzionalmente è capace di versare un fiume di sangue. Basta alzare la posta. L’innocenza, il male inferto all’innocente, non può entrare in alcun calcolo di proporzionalità. Che ne pensi? em 

Tu dici che a loro non interessava la vittima. Preciserei: non interessava la persona, in pochi minuti spezzavano una vita per sempre, col gesto più vile e più facile del mondo, perché la vittima designata pensava di vivere in tempo di pace e in un Paese civile, dunque non sapeva come difendersi. Casalegno torna a casa per pranzo dal giornale con soltanto la penna in tasca, quelli non lo conoscono nemmeno, lo chiamano per essere certi che sia il loro bersaglio, lui si volta nell’androne e vede la pistola, sa che morirà, che altro può fare? Per loro – ecco il punto – la vittima è un simbolo scelto una notte nel covo in una riunione di morte, e su quel simbolo scaricano tutto il delirio ideologico dei loro volantini. Questa trasposizione simbolica è cruciale. Solo così riescono a reggere davanti all’innocenza – come dici tu – delle loro vittime, altrimenti non potrebbero: la sproporzione tra l’uomo disarmato con la borsa da lavoro in mano, come Tobagi, e il loro assetto da guerra li avrebbe sopraffatti al primo assalto. E tuttavia, l’innocenza è stata un sentiero per capire. Non subito, purtroppo, e fatico ad ammetterlo. Quando rapiscono il sindacalista della Cisnal Labate, lo rapano e lo legano ai cancelli di Mirafiori, io non comprendo immediata­­­­­65

mente il carico di violenza che c’è in quei gesti. Eppure bastava aver letto Fenoglio, per capire che la violenza sull’inerme non si gradua nel giudizio, non c’è bisogno dell’omicidio per ripudiarla, l’uomo solo e prigioniero che guarda le armi dei suoi carnefici è comunque un innocente per la democrazia, che sta dalla sua parte e non ascolta i giudizi e le sentenze del terrorismo. Ma facciamo un altro passo, fino a quando si trattò non più solo di prendere una posizione morale nei confronti del terrorismo, ma di decidere di sostenere lo Stato – quello Stato – davanti alle Brigate Rosse. Fu il tempo del sequestro di Aldo Moro e della strage della sua scorta. La confusione degli animi fu enorme. Ricordi? Leonardo Sciascia spiegava che lo Stato è un «guscio vuoto». gz 

L’«affare Moro», di per sé, non si lascia confondere col terrorismo, nel senso in cui ne abbiamo parlato. Non si trattava di terrore, puro e semplice. Si mirava soprattutto a ottenere un riconoscimento politico che avrebbe trasformato gli assassini in legittimi combattenti e ridotto lo Stato al loro livello, al livello d’una banda criminale. Ricordo molte cose, a iniziare dal dibattito sul «né con lo Stato, né con le Br», una formula che, nel pari rigetto congiunto dell’uno e delle altre, comportava né più né meno che il raggiungimento dell’obbiettivo delle Brigate Rosse. Su quella espressione si innescò una discussione nella sinistra extraparlamentare che intendeva prendere le distanze dalla lotta armata. Ma la formula esercitò un fascino sinistro fuori da quel mondo, tra chi, senza essere nemmeno lontanamente su posizioni rivoluzionarie, provava però un’aristocratica repulsione per la bassura del sistema di potere che, nello Stato democratico, si era venuto a formare negli anni e che faceva perno sulla Democrazia Cristiana, il cui leader si trovava allora nelle mani dei terroristi. Per costoro, «né con lo Stato, né con le Br» significava la distanza dallo Stato. L’éthos politico che quella formula apparentemente semplice sembrava contenere era invece molto problematico. La ­­­­­66

neutralità significava, in fondo, l’equivalenza delle ragioni e dei torti delle due parti. Ma, da una parte stava una concezione politica che dichiaratamente contemplava l’assassinio tra i suoi mezzi; di fronte, una concezione che dichiaratamente lo rifiutava. Il dilemma era radicale. Nascondersi dietro una falsa neutralità era una viltà. em 

È vero che allora si parlava di terrorismo e di stragi «di Stato». Questo scuoteva le coscienze, ti teneva a distanza. Molti di noi si trovarono quasi automaticamente a pensare che era vero, lo Stato era un guscio vuoto. Ma quel guscio andava in ogni caso difeso: se salta il guscio, salta la democrazia. Oltre il guscio di una democrazia fragile – mi ricordo che ce lo dicevamo allora – che cosa resta? E se non difendiamo questo Stato, che pure non ci piace, come possiamo pensare di cambiarlo?

gz  La confusione raggiunse l’apice sulla questione se si potesse e dovesse trattare per la liberazione di Moro. Su questa tragica scelta, che aveva una vita come posta, quali furono i tuoi pensieri? Quale la tua posizione? em 

Angoscia, non paura ma angoscia. Sembrava che questa sfida non dovesse finire mai, sembrava volerci costringere a fare quotidianamente i conti con la morte, sembrava che Stato e politica fossero impotenti, e la posta si alzava ogni giorno. Con Moro l’elemento simbolico e quello reale si fondevano nell’uomo più importante d’Italia, come disse il giorno del rapimento l’avvocato Agnelli. Eravamo davvero arrivati al cuore dello Stato, il «guscio» era abitato di sostanza umana e non solo di stereotipi, un uomo stava morendo per mano dei nemici della democrazia che lo avevano catturato proprio per imprigionare lo Stato e la sua libertà, cioè la libertà di tutti. Questa, la mia posizione; e la tua?

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Credo, allora, di avere oscillato. Non sull’atteggiamento nei confronti del terrorismo, ma sulla questione: aprire o non ­­­­­67

aprire una trattativa sulla liberazione di Moro. Ricordo chiaramente il clima d’intimidazione intellettuale in cui la discussione si svolse allora. I «non-trattativisti» accusavano i «trattativisti» d’essere quinte colonne che minavano l’autorità dello Stato. I «trattativisti», a loro volta, accusavano i «non-trattativisti» di sfoderare per l’occasione un ipocrita «senso dello Stato» mai manifestato prima e che, nella circostanza, aveva il fine di coprire calcoli politici miserabili che vedevano un vantaggio dalla soppressione d’un uomo che, libero, avrebbe rappresentato un pericolo per l’establishment del tempo. Questa interpretazione del «senso dello Stato» come «ipocrisia di Stato» è avallata nelle lettere che Moro scrisse dal carcere, là dove ripetutamente assicura che, una volta che fosse stato liberato, si sarebbe ritirato a vita privata: non avrebbe arrecato fastidio a nessuno. Sciascia, che poco fa abbiamo ricordato come un ambiguo maestro per il suo (e non solo il suo) «nicodemismo» tra Stato e Br, sulla questione Moro è invece di tagliente e spietata chiarezza nel denunciare l’ipocrisia che avvelenava le posizioni di molti «statisti» di allora. Mi riferisco a L’affaire Moro, pubblicato nel 1978, a ridosso della tragica conclusione della vicenda. em 

Ricordo benissimo anch’io come si formarono i due fronti e come si scontrarono. Fiorivano appelli dall’una e dall’altra parte, firmati anche da persone rispettabilissime e stimatissime. Chi stava da una parte, però, era colpito da chi stava dall’altra con le peggiori insinuazioni. Chi non stava in nessuno dei due cori appariva un disertore. Ma, ripeto la domanda, tu da che parte stavi?

gz  Ripeto, anzi confesso, anch’io ho oscillato. Oggi propenderei per tentare ogni strada pur di salvare una vita in pericolo. Può darsi che sia perché, a distanza di un così lungo tempo, le tante condizioni in cui la discussione allora si svolse sono svaporate e perché mi sono più evidenti di allora le ragioni di principio, ma oggi questa mi pare la posizione più giusta.

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em 

Davvero? Non temi, in questi casi, il rischio del cedimento? Non si sarebbe pregiudicata la sicurezza di tutti, per l’avvenire?

gz  Questo è un argomento di etica pratica che, secondo me, deve essere preso con le molle. Innanzitutto, ha una sinistra somiglianza con la cinica «legge di Caifa», a proposito di Gesù di Nazareth (Gv 11, 50): «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un uomo solo per il popolo e non perisca la nazione intera». Il capro espiatorio è proprio questo: un innocente messo a morte per scaricare su di lui le proprie tensioni e contraddizioni, purificarsi col suo sacrificio e continuare come prima, fino alla prossima occasione. Non so se l’affare Moro sia stato esaminato psicoanaliticamente. Sarebbe un’indagine interessante. In ogni caso, se una cosa contrasta con la democrazia – cioè con l’uguale responsabilità che tutti portano verso la società – questa è proprio la figura del capro espiatorio. Ma questa è una considerazione di principio. Dal punto di vista dell’etica della responsabilità, cioè dal punto di vista delle conseguenze, mi pare che aprire trattative, di per sé, non significhi né cedere né riconoscere l’altra parte come legittima interlocutrice, come erroneamente dissero allora coloro che invocavano la difesa dello Stato, prevalente sulla vita d’un cittadino. L’agire sotto minaccia non comporta alcun «riconoscimento» alla controparte della dignità di interlocutore legittimo. Tant’è che è lecito violare i patti eventualmente stabiliti. Questi patti sono nulli. Del resto – ricorderai – questo è ciò che si fece salvando la vita al giudice Sossi, il pubblico ministero nel processo al gruppo armato genovese XXII ottobre, condannato a morte dai terroristi ma proposto in scambio, a fronte della liberazione di un certo numero di appartenenti all’organizzazione. Il Tribunale accettò certe condizioni e Sossi si salvò, ma il procuratore Francesco Coco non mantenne gli impegni. Fece bene o male? Fece benissimo, e l’8 giugno 1976 pagò con la vita, lui e i due agenti

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della scorta, questo atto, che ben possiamo dire eroico, a difesa dello Stato. A questo punto, però, vorrei io fare una domanda a te. Non credi che ci si debba chiedere che cosa è, per noi, lo Stato? Se pensiamo allo Stato hegeliano, a quel «Dio in terra» che può richiedere ai suoi sudditi tutto – anche il sacrificio della vita – allora si può pensare che fosse giusto il sacrificio della vita di Moro. Il «senso dello Stato» che allora fu invocato mi pare che, consapevolmente o inconsapevolmente, rimandasse a questa concezione, che è una concezione totalitaria. Ma è questo lo Stato che abbiamo in mente? Lo Stato è per i cittadini, in primo luogo, per la difesa della loro vita; non sono i cittadini per lo Stato: ammettere di poterne sacrificare uno, significa che si possono sacrificare tutti. Basta trovare una buona ragione. Anche questo – la vita dei cittadini come fine, la forza dello Stato come mezzo e non viceversa – ha a che vedere con la democrazia, anzi ne è il fondamento. Se non fosse così, dove starebbe la legittimità di uno Stato che ci si presenta col volto di un Moloch? em 

Ma tu ricordi le sensazioni di allora? Noi eravamo in pace e qualcuno ci aveva dichiarato guerra. Non potevamo combattere quella guerra, ma non dovevamo arrenderci. Lo Stato che vogliamo, lo Stato democratico, garantisce una vita civile ai suoi cittadini, un contesto di libertà. Qui era in gioco la nostra libertà. Lo era doppiamente: la libertà prigioniera e minacciata di un uomo che lottava con la sua intelligenza e la sua passione per tornare alla sua famiglia, e la libertà politica e istituzionale – democratica – di uno Stato sovrano nelle sue decisioni, che non poteva cedere questa sovranità. Guarda che quando i taliban hanno rapito Daniele Mastrogiacomo, giornalista di «Repubblica», ho usato in giornate per noi terribili questo stesso schema, scrivendo che bisognava fare di tutto per salvarlo, sapendo però sempre che nella tragedia di un sequestro «c’è lo spazio intero della nostra libertà e della nostra sovranità, dunque dell’autonomia della politica e delle sue scelte». ­­­­­70

gz  «Fare di tutto per salvarlo»: sono d’accordo. Ma non capisco bene che cosa significa «l’autonomia della politica e delle sue scelte». È compreso anche il «non fare di tutto per salvarlo», eventualmente? em 

Significa che va salvaguardata la libertà di una democrazia. La libertà politica, che prende forma anche nella sovranità di un Paese, è un bene da preservare in ogni modo, è una garanzia fondamentale per le altre libertà. Lo Stato può essere ovviamente capace di gesti unilaterali di perdono, come la grazia per cittadini condannati dai suoi tribunali, può varare un’amnistia attraverso le sue leggi e una pubblica deliberazione del parlamento. Ma sono atti pubblici, trasparenti, che lo Stato dispone secondo le procedure democratiche ordinarie del suo ordinamento, e dunque nel pieno esercizio della sua sovranità. Se questa (che è la summa potestas) si smarrisce, viene meno – secondo lo schema di Pier Paolo Portinaro – la garanzia d’indipendenza del collettivo. Ma la sovranità dello Stato è anche sovranità del diritto. Se salta, entriamo in terra incognita, dove tutto è possibile. Soprattutto in tempi di tragedia, di attacco alle istituzioni e alla democrazia, dunque di turbamento della pubblica opinione, quando le scelte sono difficilissime sul piano morale, l’unica garanzia è la libertà e l’autonomia del potere legittimo che deve compiere quelle scelte. Garanzia per tutti: non soltanto per chi combatte contro l’eversione, e non può essere lasciato solo, ma anche per il cittadino che sta rinchiuso a casa e si crede così al riparo, e persino per il prigioniero. Solo nella libera autonomia del potere democratico noi ci possiamo fidare della libertà delle sue decisioni, che possono piacerci oppure no, ma non sono al servizio di altri poteri illegittimi o di costrizioni di convenienza, di paura. Il prigioniero, tu stai per dirmi, vuole che lo Stato lo liberi, e soprattutto vuole vivere, nient’altro. Io capisco che questa richiesta – io non voglio morire, aiutami a vivere – è qualcosa di supremo, che viene prima di tutto, e annichilisce ogni schema razionale, facendolo sembrare fred­­­­­71

do e astratto. Ma è proprio così? Chi viene domani, dopo il prigioniero di oggi? E se io Stato sono alla tua mercé di eversore che lavora per deformarmi e per svuotarmi, dove si fermerà e dove arriverà domani l’arma terribile del tuo ricatto? Quale tragedia sto costruendo rinunciando alla mia libertà politica, dunque decisionale, alla sovranità del diritto, che – sola – garantisce tutti, per oggi e anche per domani? Parlo di tragedia umana, di sangue e morte, non solo di tragedia politica, istituzionale e democratica, che pure non è irrilevante. Insomma, quando tu mi domandi se la difesa della sovranità può impedire di «fare di tutto» per salvare il prigioniero, io ti ho già risposto. Ma voglio essere chiaro, per oggi e per allora: nel dovere di «fare di tutto» per salvare una vita innocente, restando sovrani e liberi, c’è lo spazio per gesti unilaterali, per contatti informali, insomma per iniziative politiche, decise dallo Stato nella sua autonomia. Soprattutto, c’è e ci deve essere il rifiuto di restare tutti prigionieri dentro lo schema che attribuisce a noi il potere di vita e di morte dell’ostaggio, mentre sono i terroristi che hanno la pistola in mano. E c’è infine quel che è mancato: il dovere di prenderli, l’obbligo di credere in un’efficace azione di intelligence e di polizia, senza quella vergogna scandalosa di piduisti, non infiltrati ma ingaggiati espressamente in tutti gli organi formali e informali dello Stato, che avrebbero dovuto difendere la democrazia liberando Moro e sgominando sul campo il terrorismo. gz  Al di là della teoria, hai perfettamente ragione a richiamare le condizioni di fatto in cui la vicenda si svolse. C’erano fattori che agivano, diciamo così, sulla psicologia sociale. Di fronte all’opinione pubblica, la trattativa avrebbe potuto presentarsi senza rischi se lo Stato (i dirigenti dei partiti che erano percepiti come lo Stato di allora) fossero stati sicuri di sé, della propria autorità politica e morale. Questo, all’evidenza, non era. La cattiva coscienza ha celebrato, in quell’occasione, il suo trionfo. Una parte del mondo politico non poteva esporsi alla critica d’aver ceduto per salvare uno dei suoi,

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mentre molti uomini delle forze dell’ordine erano caduti nell’adempimento dei propri doveri. Il «due pesi, due misure» sarebbe stato odioso. Si disse che le forze dell’ordine minacciavano un atto di forza, in caso di «cedimento». Un’altra parte delle forze politiche, forse quella più rigida, non poteva reggere la critica che sarebbe stata rivolta loro se avessero assunto una posizione duttile: sarebbe stata letta come una mancanza di rigore, o addirittura una vicinanza, nei confronti di «compagni che sbagliano»: che sbagliano, ma pur sempre compagni. Si sarebbe dovuto poter dire: dobbiamo salvare la vita di Moro, come quella di qualunque altro cittadino; per questo fine supremo, siamo pronti a tutto, ma questo – sia chiaro – non comporta il cedimento alle ragioni dei terroristi, non significa in alcun modo un loro riconoscimento come controparte legittima. Non cesseremo di combatterli con forza rinnovata. Avrebbero potuto? Sarebbero stati compresi? Non erano, evidentemente, così sicuri di sé, per potersi rivolgere in questo modo all’opinione pubblica. La voce di chi chiedeva di aprire un «fronte umanitario» fu sommersa da una propaganda che non esitava a parlare di cedimento al terrorismo. Sì. Tutto questo è vero e ha alimentato una «ragion pratica» che, secondo me, i principî condannano e che si è giustificata solo con l’insicurezza di coloro che reggevano le sorti dello Stato. Insicurezza che si è tradotta in cinismo. Poi non diciamo che lo Stato non ha «ceduto». Rispetto alla vita di Moro e al dovere di salvarla, non solo ha ceduto, ma ha perso tutto. E forse ha perso qualcosa anche nei confronti dei cittadini. Il lealismo nei confronti dello Stato si basa sulla convinzione ch’esso pone la vita di ognuno di loro al vertice delle sue cure. em 

Dal punto di vista della ragion politica, lo Stato ha perso non riuscendo a liberare Moro, ma ha sconfitto le Br, vincendo la sfida. Ma certo, di quella morte non riusciamo a liberarci. Col passare degli anni, ascoltando le confessioni dei terroristi, rileggendo le lettere che allora si consumavano co­­­­­73

me elementi quotidiani della tragedia, parlando a lungo con il figlio Giovanni, la figura del prigioniero che lottava inerme coi suoi carnefici viene fuori sempre più e ci interpella, ancora oggi. Sento molto di più la tragedia dell’uomo – se riesco a spiegarmi – senza l’incombenza del dramma politico di allora, un dramma della democrazia. Resta l’uomo, e quell’uomo è morto. Non ho cambiato idea, se è ciò che vuoi sapere, ma questo davanti al martirio di Moro che cosa conta? Sotto la linea d’ombra del pensiero occidentale em 

Ma la lezione di quegli anni fu anche un’altra. Ti ricordi la tentazione «emergenzialista», da Stato speciale, una sorta d’eccezione alla normalità delle regole e dei diritti in nome della sfida a cui eravamo sottoposti. Bene, per me la lezione dice questo: la democrazia quando è sotto attacco si deve difendere, sia per non cedere il passo alla barbarie, sia per proteggere i suoi cittadini (che negli Stati democratici hanno concesso al potere pubblico il monopolio della forza in cambio di garanzie), sia per dimostrare l’efficienza dello Stato, sia infine per testimoniare la sua stessa efficacia: perché una democrazia non è un sistema di regole disincarnato, ma, come abbiamo detto più volte, è qualcosa di vivo, che è interpellato dalla storia, cioè dall’insieme delle vicende umane dei suoi cittadini.

gz  Dunque, tu dici che la democrazia deve potersi difendere. Come si potrebbe non essere d’accordo? Pensare il contrario, equivarrebbe a non credere nella democrazia. Anzi: non solo la democrazia, ma lo Stato come tale e quindi anche lo Stato democratico. Il monopolio della forza legittima che i cittadini gli concedono per evitare il disordine, la guerra di tutti contro tutti, ha come corrispettivo che lo Stato stesso usi la forza che ha ricevuto per garantire la sicurezza della vita di coloro che gli si affidano per cercare protezione. Sono nozioni elementari. Ma lo Stato democratico si trova in questa

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situazione: che per essere democratico, incontra limiti all’uso della forza, e questi limiti lo possono rendere inetto. Insomma: per essere ancora se stesso, deve correre il rischio di non essere più. Per difendere la democrazia dai suoi nemici, si può sospendere la democrazia? È la questione dello «stato d’eccezione», della sospensione dei diritti, della concentrazione dei poteri, dell’azione senza controlli, del segreto di Stato, della separazione degli «amici» dai «nemici». em 

Ecco il punto: proprio per sconfiggere la barbarie, distinguendosene, la democrazia secondo me deve difendersi restando se stessa e dunque mai abdicando a quei principî di diritto e di salvaguardia dei diritti, di rispetto delle regole e delle istituzioni che la caratterizzano, le danno forma e sostanza, e la distinguono da altri sistemi. Bene, quest’esigenza, quest’obbligo di cui abbiamo preso coscienza quarant’anni fa con il terrorismo domestico è ritornato davanti a noi con il terrorismo internazionale. Anche qui, quando è minacciata, la democrazia ha il diritto di difendersi, e questo diritto diventa l’esercizio di un dovere davanti ai suoi cittadini in cerca di tutela. Aggiungo quel che ho scritto più volte: so che è controverso, ma a mio parere la democrazia deve difendersi e deve difendere i suoi valori con ogni mezzo, anche con il mezzo estremo e per lei contro-natura della guerra, e se necessario persino con la contraddizione della guerra preventiva, quando non esistano altri strumenti di prevenzione. Ma vige sempre l’obbligo per la democrazia di non trasformarsi per legittima difesa in qualcosa di diverso, finendo per assomigliare alla caricatura deforme che ne fanno i suoi nemici. Vale il diritto, anche sotto attacco, valgono i diritti, anche in emergenza. Le istituzioni di garanzia non si possono bypassare, il diritto internazionale va rispettato.

gz  Queste tue considerazioni ci portano in un territorio dove i ragionamenti, invece che fare chiarezza, confondono le idee. La democrazia è il regime della regolarità: presuppone

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diritti di cui tutti possano disporre normalmente; ha le sue procedure che devono funzionare ordinariamente; ha i suoi mezzi d’intervento in situazioni normali. Ora, sei d’accordo con me nel riconoscere che la più anormale delle situazioni è la guerra. Dici che è «contro-natura». Non si può non concordare. Noi abbiamo una Costituzione in cui è scritto il «ripudio della guerra» (articolo 11): un’espressione molto forte che si spiega non solo per le diecine di milioni di morti la cui ombra pesava sui lavori della Costituente (Dossetti ha scritto che questo peso e l’esigenza del «mai più» furono la convinzione comune che rese possibile l’accordo tra partiti pur così lontani ideologicamente), ma si spiega anche perché la guerra è in sé la negazione della democrazia. È forza scatenata. La guerra libera la violenza, anche quella più turpe, sia contro i nemici esterni (i detenuti in carceri speciali o in «campi» come ad esempio Abu Ghraib o Guantanamo), sia contro gli interni (i «disfattisti»). Non è facile fare la guerra e tenere sotto controllo queste aberrazioni. Coloro che esaltano la guerra come lavacro morale delle nazioni, esaltazione dei buoni sentimenti e della solidarietà, non sanno quello che dicono. Dunque: no alla guerra. Questo dice la teoria e l’esperienza. Ma... Qui, appunto, i ragionamenti incontrano il loro limite. Tu non devi fare guerra. Chiaro. Ma se qualcun altro la fa o la sta preparando contro di te, e con mezzi bellici terribili e definitivi? E se qualcuno usa la violenza contro altri per opprimerli o sterminarli e questi ti chiedono aiuto? Nessuno, credo, negherebbe il diritto alla legittima difesa e nemmeno la Costituzione, in questi casi, lo esclude. Anche i pacifisti più rigorosi non lo negano. Negano invece l’efficacia della violenza per vincere la violenza e propongono mezzi diversi, non violenti. Ma qui siamo nel campo dei convincimenti che si mescolano alle fedi. Per questo, dicevo, i ragionamenti sono inconcludenti. D’altra parte, tu puoi essere pacifista fino all’estremo ed essere disposto al martirio per testimoniare la tua fede, ma ti sentiresti di rimanere inerte quando altri che non partecipano della tua fede sono esposti alla violenza? Ti ­­­­­76

sentiresti di dire loro: in nome di ciò che io credo, tu lasciati massacrare? Non sarebbe questa, a sua volta, un’estrema violenza, per di più rivestita di buoni sentimenti? em 

Sì, mi pare che si possa dire così. Non è forse una macchia indelebile l’atteggiamento attendista, per non dir di più, che gli Alleati tennero nei confronti della Germania nazista, al tempo dello sterminio degli ebrei, una macchia che si cerca di scolorire dicendo: non sapevamo?

gz  Però, sappiamo anche quanta ipocrisia possa esserci nelle «guerre preventive», nelle «guerre umanitarie». Sappiamo che possono coprire i più ignobili interessi, politici ed economici. Possono perfino essere occasioni per la sperimentazione in grande stile della tecnologia bellica. em 

Occorre allora moltiplicare le cautele e i controlli. In concreto: dopo l’11 settembre la risposta politico-militare in Afghanistan ha seguito questo percorso. La guerra in Iraq no. Per questo era sbagliata, anche se ha portato alla liberazione dal dittatore...

gz  ...e le modalità della sua cattura e impiccagione mi sono sembrate una inutile e rivoltante crudeltà, tanto più in quanto mossa dalla nostra civiltà. em 

L’impiccagione ripugna alla democrazia, anche quando è in guerra. Ma in Iraq, stavo dicendo, non c’era la connessione evidente e provata con la lotta al terrorismo, con l’attacco mirato ad al-Qaeda, ed era addirittura fasulla la connessione con le armi speciali da distruggere. Per queste ragioni la democrazia ha danneggiato se stessa, perché si è rivelata ideologica. Ha dovuto ricorrere alla menzogna verso i suoi cittadini per poter essere ideologica. Una colpa rilevante, perché le democrazie hanno parecchi doveri in più rispetto ad altri regimi, e anche nel difendersi devono giustificare ciò che fanno, misurando l’azione alla reazione, i mezzi ai fini. Questo significa che non ­­­­­77

possono – non devono – inventare giustificazioni pretestuose o di comodo ad azioni che non si giustificano da sé. L’ho scritto allora su «Repubblica», ne sono convinto anche oggi: a differenza di quanto è successo a Washington, le democrazie non devono invocare il sostegno del Paese alle scelte più controverse dei governi mistificando i dati di conoscenza e gli elementi di valutazione, perché un consenso costruito su un artificio menzognero inficia lo stesso principio di legittimità del potere, inganna l’opinione dei cittadini, tradisce la fiducia tra elettori ed eletti che sta alla base della rappresentanza. Con il risultato che tutto il meccanismo della deliberazione finisce per essere deviato, e il discorso pubblico – che lega insieme governanti e governati – diventa contraffatto, cioè infedele. gz  Sì, ma purtroppo tenere la guerra sotto il controllo democratico e quindi sotto la legge della verità è un’impresa difficilissima. La guerra è il tempo della propaganda, non della verità. E la propaganda usa la menzogna. L’opinione pubblica è corriva, in questi casi. Sembra avere interiorizzata la scusabilità della menzogna, averla giustificata. Bill Clinton è stato crocefisso per le bugie dette nella sua storia boccaccesca. Bush e Blair, per la guerra costruita su prove falsificate, no. Nessuno ne parla più. Eppure, anche dal punto di vista del diritto internazionale ci sarebbe molto da dire. La questione è chiusa non in diritto, ma in fatto. Hanno vinto la guerra, ma se l’avessero persa, loro, i loro consiglieri e gli affaristi che li spingevano, sarebbero davanti a una Corte penale internazionale. em 

Vedi l’importanza dei vincoli? Com’è infinitamente più difficile procedere per un governo che vive e opera nel sistema democratico? Naturalmente molti diranno che questi sono solo formalismi, pastoie democratiche, e che la democrazia vive nella decisione e nell’immediatezza del comando, altrimenti si corrompe nei mille passaggi che bloccano la spada quando deve essere sguainata, limitandone la forza. Ma questi obblighi ­­­­­78

che qualcuno chiama formalismi, sono in realtà un sistema di garanzia continua, l’unica garanzia che possiamo darci e che per rimanere tale non contempla eccezione. La democrazia è per questo lenta, faticosa e grigia? Ma è grazie a questo sistema di garanzia e ai suoi passaggi obbligati che noi siamo liberi mentre viviamo, riuniamo i parlamenti, mandiamo a scuola i nostri bambini, viaggiamo, preghiamo e leggiamo. La fluidità normale della nostra esistenza, che è poi la naturale velocità della libertà, è frutto e merito di quei passaggi, di quelle regole, di quegli obblighi che noi chiamiamo democratici, perché sono l’unico sistema che consente ai cittadini di partecipare al controllo, di prendere parte, di restare in gioco. gz 

Sì, è verissimo. La democrazia è contraria ai tempi stretti. Deve darsi i suoi tempi, i tempi della deliberazione che devono contemplare informazione, discussione e controlli sulle decisioni. In questo, la democrazia è forte quando può distendersi; è debole quando si rattrappisce. Bisogna accettare la sfida. Abbreviandosi i tempi, è naturale che ci si debba maggiormente fidare di coloro cui si affidano le decisioni, e quali decisioni! Proprio per la loro irrevocabilità, dobbiamo sapere fino in fondo in quali mani ci mettiamo, quali interessi le muovono, se ci sono altri soggetti, invisibili, che le manovrano. C’è più bisogno di verità e meno di messe in scena. Il contrario di quel che abbiamo sotto gli occhi e che spesso è un trompe-l’oeil: non riusciamo a rivelare soprattutto quando la rivelazione sarebbe più importante. em 

C’è però ancora un punto che mi sta molto a cuore, ed è il legame tra la democrazia e l’Occidente. Dico questo non in termini esclusivi naturalmente. Intendo dire che la democrazia così come la penso – dei diritti e delle istituzioni – è intanto la forma dell’Occidente, anche quando non lo sa. Dovrebbe intanto essere ancora più chiaro oggi, quando è finito il lunghissimo dopoguerra che ha confiscato il concetto di Occidente nella categoria riduttiva dell’opposizione (o del ­­­­­79

baluardo) contro il «nemico ereditario», le Russie ideologizzate in sistema totalitario dalla corazza comunista dell’impero sovietico. Io credo e spero che noi possiamo e dobbiamo considerarci occidentali non più per differenza, ma per coscienza: siamo la terra appunto della democrazia dei diritti, della democrazia delle istituzioni, non so dirlo altrimenti, né vorrei. Nient’altro che questo, ma è tantissimo. E guarda che l’11 settembre ci impone questa consapevolezza che sembriamo scordarci, scordandoci di noi stessi. Voglio dire che l’11 settembre ci pone in forma drammatica il tema della democrazia. Possiamo arrivarci anche in altro modo, e il risultato è identico. Perché l’11 settembre e i suoi seguiti diversi ma coerenti come gli attentati di Londra e Madrid ci costringono finalmente a domandarci: chi siamo, oggi? Nel mondo in cui stiamo entrando noi chi siamo davvero, i vincitori tecnologici, economici e culturali o le vittime sacrificali designate? Capisco che è una domanda da finesecolo disorientato, più che da inizio di un nuovo millennio. Ma fammela ripetere. Non avevamo fatto davvero i conti, appagati dall’esito apparente del Novecento, ed eccoci qui, con il secolo che si è aperto nella tragedia mostrandoci che ciò di cui stiamo vivendo è proprio ciò di cui stiamo morendo, ciò di cui fatichiamo a comprendere il valore nelle vecchie categorie della nostra cultura politica sfidata nella sua essenza: l’attacco è infatti alla quotidiana normalità civile, alla semplice democrazia fatta dei gesti di ogni giorno, pubblici e privati, all’ordinaria libertà nella forma simbolica ma viva di due grattacieli a New York, un treno a Madrid, una scuola a Beslan in Ossezia. Dovevamo capire subito che lo scarto tra noi e gli attentatori non era soltanto politico e criminale, ma culturale, dovevamo capire che quell’assalto poteva compiersi in un modo solo, cioè con la semplicità dell’impossibile. Voglio dire che il terrorismo poteva riuscire solo se pensava ciò che la cultura democratica non riesce a concepire. E infatti quegli aerei volati sulle Torri gemelle sono arrivati a centrare il bersaglio proprio perché hanno volato sotto la linea ­­­­­80

d’ombra del pensiero occidentale che è un pensiero democratico, fuori non solo dai vincoli morali di ogni atto politico, ma addirittura dal calcolo cartesiano del rapporto tra costi e benefici, con la vita del kamikaze che non conta nulla rispetto al martirio promesso col fanatismo della strage. gz  Cerco di seguire la tua vivida esposizione. Dici diverse cose. Innanzitutto, dici che oggi è il tempo di essere democratici non per differenza, ma per convinzione. Questo significa, mi pare, esserlo non usando la democrazia come strumento ideologico per condurre guerre o alimentare ideologicamente le contrapposizioni, ma proponendola senza secondi fini come formula di convivenza, aperta a tutti. Intendo bene? em 

Mi pare di sì. Non sei d’accordo?

gz  Certo che sì. Ma allora dobbiamo chiederci perché questa proposta non piace a tutti. Sarebbe facile la risposta, se il rigetto venisse soltanto da autocrati, despoti, oppressori del più vario tipo. Diremmo semplicemente ch’essi sono contro la democrazia perché sono per la loro autocrazia, il loro dispotismo, il loro potere oppressivo. È così ma, purtroppo, non solo così. Il fatto è che la nostra democrazia, la democrazia dell’Occidente, presenta caratteristiche che non piacciono affatto anche alla gente comune. Propone forme di vita quotidiana che a noi sembrano libertà e a loro sembrano violenza: violenza alla loro identità. Ritorneremo sul concetto d’identità. Qui, basta dire: violenza alle loro tradizioni di vita comunitaria ch’essi non necessariamente considerano oppressive ma, al contrario, protettive. Per esempio: la nostra democrazia si basa sull’individuo o sulla persona, come meglio si voglia dire, e sui suoi diritti prevalenti sulla comunità. Ci sembra ovvio. Ma il primato dell’individuo, abbattendo le barriere culturali comunitarie da cui gli individui di gruppi più deboli sono pur sempre protetti sul lato esterno, può creare quella superficie tutta liscia sulla quale scorre l’omologazione illimitata degli esseri umani e li trasforma in informe umanità. Per l’islam può esserci una

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percezione di questo tipo, può esserci il timore che la nostra democrazia distrugga il loro modo di vita comunitario. Quello che per noi è liberazione, per esempio dall’oppressione della componente maschile su quella femminile della vita comunitaria, per altri può essere violenza. È difficile da ammettere dal nostro punto di vista, ma dal loro può essere così. Altro esempio: la democrazia dell’Occidente è, inutile negarlo, la forma di governo della parte ricca del mondo, quella che l’economia capitalistica ha reso ricca. Almeno così è stato storicamente. Noi diciamo: democratizzatevi e vi arricchirete anche voi. Ma loro dicono: vi siete arricchiti sullo sfruttamento nostro, delle nostre risorse, dei nostri popoli e state continuando a distruggere le nostre culture. Non saranno più le forme del colonialismo e dell’imperialismo d’un tempo, ma la storia continua con i regimi che ci opprimono col sostegno dell’Occidente democratico. E, anche se la vostra democrazia ci promette maggiore benessere materiale, il sistema economico su cui si basa distrugge il nostro patrimonio morale. Non è il vostro benessere, quello che ci interessa. Qui non importa dove stiano la ragione e il torto. Importa il fatto che il nostro essere Occidente è visto come portatore di veleni distruttivi ai quali noi per primi dovremmo cercare di porre rimedio. In altri termini, la democrazia come valore universale presuppone molti atti di contrizione da parte nostra per cercare di liberarla da una storia di compromissione col dominio politico, economico e culturale. Non dovremmo stupirci se la nostra democrazia a qualcuno appare un regime odioso, che avvelena proprio la vita quotidiana. Noi dobbiamo difenderci, non c’è dubbio. Ma dobbiamo anche interrogarci. L’Occidente come ideologia ha tanti acritici corifei, ma è un’ideologia di guerra. Abbiamo bisogno di capire quello che, oggi, è l’altro, cioè il mondo islamico e, contemporanea‑ mente, abbiamo bisogno di comprendere noi stessi, in tutti i nostri aspetti, anche quelli che non sappiamo o vogliamo vedere. Del resto, se rileggiamo il grande discorso che Barack Obama ha tenuto all’Università del Cairo il 4 giugno 2009 ­­­­­82

– il «discorso della mano tesa» o «del nuovo inizio» – non vi troviamo chiaramente espressa questa necessità? Fino a qualche decennio fa, la grande divisione era tra l’Occidente democratico e l’Oriente totalitario. Libertà contro il «dispotismo orientale» che si riproponeva nella forma dei regimi comunisti*. Oggi un nuovo contrasto è in atto. Si corre il rischio di sostituire l’islam al comunismo. Tu, poi, ti stupisci degli atti di violenza portati alla normalità della vita nelle nostre società? A me non sembra che ci sia molto da stupire, perché ciò contro cui i terroristi agiscono è, sì, un potere che avvertono come nemico, ma ancor prima è la corruzione della loro concezione della vita quotidiana, che sentono insidiata da modelli per loro inaccettabili. em 

Un conto sono i modelli astratti, un altro conto è la libertà concreta. Vedi, io capisco che spesso non siamo credibili come Stati, come governi e Paesi, per le nostre politiche e le nostre incongruenze. Ma la democrazia, i suoi principî, i suoi diritti e le sue libertà? Io mi sono sempre interrogato, con molta inquietudine, sui terroristi islamisti di seconda generazione. Vorrei sapere se anche tu hai la medesima inquietudine. Com’è possibile, mi domando da anni sul mio giornale, che ragazzi nati a Londra, cresciuti nella civiltà europea, abituati al cosmopolitismo metropolitano e al multiculturalismo quotidiano, scelgano di inabissarsi nel loro passato familiare retrocedendo a una cultura di morte piuttosto di vivere la libertà quotidiana, che molto semplicemente ti permette di studiare, di lavorare, di frequentare la moschea, di scegliere l’ultimo romanzo in libreria, di parlare con una ragazza al pub, di andare a vedere l’Arsenal in curva? Dunque la democrazia non ha una sua naturale, autonoma e spontanea capacità di attrazione, di conversione, e quindi di immunizzazione e di

*  Su questo tema c’è un testo che, mutatis mutandis, sarebbe utile leggere oggi: E. Jünger-C. Schmitt, Il nodo di Gordio – Dialogo su Oriente e Occidente nella storia del mondo, il Mulino, Bologna 1987.

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garanzia? O forse siamo noi occidentali che non abbiamo la capacità di testimoniare la democrazia rendendola credibile, e dunque non sappiamo conquistare altri alla libertà in cui crediamo? E qui nasce la domanda capitale: contro cosa combattono coloro che ci attaccano? Perché siamo diventati loro nemici noi, l’Occidente che ha vinto, i Paesi liberi, le buone vecchie democrazie, gli Stati di diritto liberali? In una parola, chiediamoci che cosa ci lega alla parte oscura del mondo, e rovescia la nostra civiltà in qualcosa da annientare. È una domanda a cui siamo impreparati. Faticosamente, la democrazia proprio qui in Europa è riuscita a fuoruscire dalle ideologie che hanno messo a ferro e fuoco il continente minacciando il mondo, ed è prevalsa con la convinzione di aver compiuto la storia, affermando un modello finalmente universale, l’unico sopravvissuto dopo lo scontro con i totalitarismi. La guerra fredda è finita con la caduta del Muro e dell’Urss, quindi abbiamo pensato, alla fine, che la democrazia non solo avesse vinto, ma che fosse diventata cultura condivisa, egemone. E che dunque potesse aprirsi un periodo di tregua ideologica, con il sistema complessivo capace di governare crisi, lotte e antagonismi dentro il modello culturale democratico, senza più doversi difendere da una sfida e da una minaccia a quel modello. Invece la storia non era compiuta e l’11 settembre l’ha in ogni caso riaperta, sfigurandola. Ho sempre considerato, fin dal primo giorno, l’attacco alle Torri come un attacco non solo all’America ma alla democrazia, in questo senso all’Occidente intero, dunque qualcosa che ci interpellava direttamente. Ecco perché non bastava e non basta dire «siamo tutti americani» (la compassione), ma era giusto e necessario dire «siamo tutti occidentali», cioè assumere la responsabilità di una condivisione. Se vogliamo dare un nome alla fase che apre il secolo col volo sulle Torri, dobbiamo parlare di qualcosa che non avevamo previsto e che cambia l’intero paradigma costruito dopo la caduta del Muro: l’attacco alla democrazia. Diciamolo così: la cultura politico-istituzionale superstite del Novecento, che ­­­­­84

credevamo pacificamente egemone, è sfidata dopo aver vinto e noi vediamo che il vecchio secolo – altro che breve! – non riesce a chiudersi, non riconosce il saldo: o che il nuovo non accetta il suo lascito più importante. Guai dunque a chiederci per chi suona la campana. Davanti agli attentati neppure la comprovata autonomia dei diversi terrorismi può impedirci di fare sequenza, di ragionare su un effetto ogni volta globale perché dovuto a una sorta di coinvolgimento di sistema, alla sensazione di far parte dello stesso mondo scelto a bersaglio da un altro mondo che non consideravamo nemico ma ci sta braccando mentre nega valore – ecco la scoperta inaudita – ai nostri valori più alti e ai nostri gesti minimi. Questo coinvolgimento ci dice che si colpiscono gli Stati, si uccidono gli uomini e le donne, ma la sfida è alla democrazia, un sistema di istituzioni, regole e diritti che a noi sembrava risolto nella sua capacità di garantire la convivenza, e che era comunque il portato delle nostre storie, addirittura il superamento dei nostri errori, e faticosamente si era imposto. La condivisione nasce dalla minaccia a questa costruzione politico-istituzionale-sociale che è insieme il risultato di lotte e conquiste e un sistema condiviso di garanzie, fino a diventare il vero sistema di credenze dell’Occidente, la vera religione secolarizzata. gz  Dici cose terribili che devono scuotere le nostre sicurezze. Non perché noi stessi si debba ripudiare la democrazia, una volta che sia caduta l’illusione sulle sue universali virtù benefiche. Io credo all’universalità dei valori democratici ma, proprio per questo, credo anche che «la nostra democrazia» debba sottoporsi a molte considerazioni autocritiche perché sia capace di generalizzarsi vincendo le diffidenze. Quando chiedi come sia possibile che «ragazzi nati a Londra, cresciuti nella tolleranza della civiltà europea, abituati al cosmopolitismo metropolitano e al multiculturalismo quotidiano, scelgano di inabissarsi nel loro passato familiare retrocedendo a una cultura di morte piuttosto di vivere la libertà quotidiana, che molto semplicemente ti permette di studiare, di lavorare,

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di scegliere l’ultimo romanzo in libreria, di parlare con una ragazza al pub, di andare a vedere l’Arsenal in curva» poni una domanda per noi capitale, alla quale non siamo capaci di dare risposta perché partiamo dal nostro punto di vista. I ragazzi che tu descrivi non sono forse la copia dei figli nostri. Dal nostro punto di vista possiamo solo dire: non comprendiamo. Forse però dovremmo cercare di capire qual è lo sfondo di questo modo di vivere e quali le implicazioni per loro. Lì forse c’è la risposta, una risposta che, a sua volta, pone a noi occidentali non poche domande. em 

Ma tutto questo ci pone di fronte alla scoperta improvvisa del relativismo di un valore per noi assoluto come la democrazia, così relativa da poter essere trasformata da qualcuno in insegna negativa, con cui si marchia quella parte del mondo dove si vuole portare la morte. Questo limite dell’universalismo democratico (Huntington ci aveva già avvertiti), questo ecumenismo democratico che si rivela impossibile, ha però un contraltare: l’attacco ad un Paese democratico diventa universale, mondializza la minaccia, dunque rende la democrazia sistema o addirittura civiltà comune, ci fa capire che siamo cittadini di singoli Stati, di un’Europa che non riesce a compiersi, ma soprattutto di un’unica civiltà democratica da difendere. E qui, in questo contesto, si capisce ancora di più quel che dicevamo prima: l’obbligo per la democrazia di difendersi restando se stessa, senza lasciarsi deformare dalla tentazione dell’emergenza. Non solo: se le democrazie e il loro popolo si sentono «sistema» davanti alle stragi e alla sequenza di attentati, devono ricordare che quel sistema esiste nella realtà e si chiama Occidente, perché questo è il deposito e il risultato dei nostri valori, e per questo viene attaccato e minacciato. Come al-Qaeda è sempre più il preambolo comune di terrorismi tra loro distinti, che sfidano la democrazia occidentale vedendola come una cosa sola, così la democrazia è il carattere fondamentale delle due civiltà politiche in cui viviamo, quella europea e quella americana. Ne consegue qualche ­­­­­86

obbligo. Gli Stati Uniti non possono procedere da soli come hanno fatto per arrivare in Iraq, dividendo l’Europa per usare i singoli Stati invece dell’insieme, interpretando l’Occidente come un sistema di delega per la loro sovranità egemone: anche se fare i conti con l’Europa significa fare i conti con il diritto internazionale, con la politica e non solo con la forza, con gli organismi di garanzia e il loro sigillo di legalità. Dall’altra parte l’Europa deve sapere che se il bersaglio è la democrazia occidentale nel suo insieme, non si può lasciare l’America sola, perché l’11 settembre interpella tutti, e attende anche da noi una risposta. «Quest’aiuola che ci fa tanto feroci» gz  Parlando di lavoro abbiamo già dovuto fare i conti con fenomeni che travalicano i confini dei singoli Paesi. Ma la globalizzazione non è solo quella che muove le ricchezze e lo strato dell’umanità che sta più su. Si è messa in moto la povertà di quelli che stanno più giù e il movimento è inverso. I vasi comunicanti funzionano anche così, non solo per i capitali e i loro investimenti, e non c’è politica di respingimenti, espulsioni, repressioni che possa durare a lungo per proteggerci «a casa nostra» da ospiti non graditi che vengono dai Paesi dove regnano povertà e violenza, spesso, senza che ce ne rendiamo conto, alimentate proprio dalla politica dei Paesi «sviluppati». Dunque, ci piaccia o no – questo lo vedremo dopo – siamo destinati a vivere in un Paese che non ospita più una sola cultura prevalente, una religione prevalente, un colore prevalente, una lingua prevalente, un modo di vivere prevalente. Non credi anche tu che questo, insieme a quello della violenza e del lavoro, sia un grande problema per la democrazia? em 

Certo che lo è e la democrazia deve dare una doppia risposta, che contiene una contraddizione evidente. Deve rassicurare i suoi cittadini nel loro bisogno di sicurezza e d’identità che – spesso a torto, ma qui non importa – sento­­­­­87

no minacciato dall’ondata d’immigrazione. Ma deve anche rispondere alla domanda dei migranti, che è una domanda di disperazione e di libertà. Può la democrazia rimanere insensibile a questi due aspetti e continuare a considerarsi intatta? Soprattutto una democrazia del Primo Mondo, quello sviluppato, che nei G8 si assegna una funzione di leadership e quindi deve pur avvertire qualche responsabilità conseguente. Stiamo considerando categorie primordiali, che riguardano la vita e la morte, la sopravvivenza, la fame e la sete, la condizione di essere umano. Chiamano addirittura in causa la nostra umanità, prima che la nostra democrazia. Ma tanto più la democrazia ha un dovere di risposta, perché le ragioni umanitarie che stanno alla base dei diritti, del concetto di uguaglianza, vengono prima della cittadinanza e ne sono una condizione necessaria. Mettiamo l’uomo in condizione di vivere, poi parleremo del cittadino. gz  Potremmo dire, sotto un certo aspetto, che siamo destinati a perdere o, almeno, allentare la corrispondenza, tipica dello «Stato nazionale», una terra/un popolo, inteso come unità etnica, culturale e politica. Non so dove questo affievolimento del legame giuridico di appartenenza a una terra potrà portare. Certamente, le fondamentali categorie politico-costituzionali del passato – territorio appartenente a un popolo sottoposto a una organizzazione politica sovrana – sono destinate a essere riconsiderate. Nuove categorie dovranno essere elaborate e già lo sono: basti pensare soltanto ai diritti umani la cui garanzia prescinde dal territorio e dall’appartenenza a un popolo o a un altro; alle organizzazioni politiche ed economiche sovranazionali che spesso non hanno solo un raggio d’azione più ampio di quello degli Stati ma ne prescindono totalmente. Se questa è la tendenza – tendenza che supera le barriere tra territori e popoli –, la domanda è se noi in Italia, uno dei Paesi, tra quelli dell’Occidente ricco, meno abituato alla convivenza con persone che, in tutti i sensi, vengono da lontano, siamo preparati a questo grande cambiamento.

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Siamo poco preparati, e si capisce perché. Abbiamo cancellato dalla nostra memoria il ricordo e l’impronta delle nostre migrazioni, in cerca di lavoro e di futuro, perché cancelliamo i segni della nostra povertà, familiare e nazionale. Come se fosse una vergogna, come se non fosse storia, la nostra storia. Guarda come abbiamo perso collettivamente ogni nozione del legame fortissimo con l’America latina, a differenza della Spagna, nonostante esistano intere comunità in quei Paesi che portano i nostri cognomi, parlano ancora qualche parola dei nostri dialetti. Non abbiamo una cultura plurale, sembra che la diversità non ci arricchisca, il presente domina su tutto, persino sui 150 anni di unità nazionale la politica riesce a dividersi. Osserva bene l’ultima polemica: l’anniversario dell’unità è per la Lega un capitolo della polemica politica, non della storia patria o dell’identità. Se non sappiamo chi siamo, è facile cadere dentro identità fantasmatiche, ideologiche, utili all’uso e all’abuso politico, non al confronto con le culture degli altri.

gz  A fianco del nostro provincialismo, c’è il mondo che si muove. Basterebbe consultare costituzioni, leggi, convenzioni internazionali, trattati giuridici, repertori di giurisprudenza per convincerci facilmente che esiste ormai, sia pure in formazione, un ordinamento sovranazionale, che aspira a diventare cosmopolitico, che assegna a ogni essere umano un nucleo fondamentale di diritti e di doveri. Non dobbiamo pensare a un compito ultimato. Tutt’altro. La distanza tra proclamazioni e realtà è enorme, come testimonia la monumentale sintesi in sei volumi pubblicata dalla Utet nel 2007, a cura di Marcello Flores, sotto il titolo Diritti umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell’epoca della globalizzazione. Se ricordo quest’opera, è perché può essere di grande aiuto per capire le distanze siderali che separano, di fatto, le condizioni di vita dell’umanità nelle diverse parti del mondo. Certe per noi ovvie acquisizioni, tanto che le nostre costituzioni nemmeno se ne occupano, come il venire al mondo

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e sopravvivere nelle prime settimane, il mangiare e il bere, l’igiene, il vivere fuori dalle «riserve», dai campi di concentramento e di lavoro, il non far portare armi ai bambini e altre cose di questo genere, altrove sono oggetto di rivendicazioni perché di fatto sono negate. em 

Stai dicendo che viviamo nel post-moderno, dove ragioniamo di diritti chiamati dai sociologi non a caso postmaterialistici, quelli cioè che nascono quando è risolto il problema del pane e del tetto, e le esigenze primordiali sono già soddisfatte. Ma basta guardare al Mediterraneo, senza andare troppo lontani, per capire come quelle esigenze spingano migliaia di disgraziati a salire sui barconi che vedono l’Italia come una speranza, in molti casi l’unica speranza. Quando è arrivata a Lampedusa quella barca disperata che aveva vagato senza benzina per 21 giorni e 21 notti, scaricando in mare 73 cadaveri, sono andato a parlare con l’unica donna sopravvissuta, proprio per comprendere la genesi di questa forza disperata. E ho capito che niente potrà fermare la spinta vitale – sto parlando esattamente della vita, in senso proprio – di chi affronta la violenza, i soprusi, i rischi di morte, un mese sul mare alla deriva pur di appoggiare il proprio figlio e il suo futuro su una terra libera, su cui potrà crescere da uomo libero. Tu pensa che quando sono stati portati a terra, stremati da un mese senza cibo e acqua, quella ragazza e i suoi quattro compagni eritrei superstiti – cinque fantasmi in fin di vita – sono diventati gli ultimi, modernissimi criminali italiani, colpevoli del nuovissimo reato d’immigrazione clandestina; prodotto inconsapevole della crudeltà ideologica che ha travolto la civiltà italiana in cui siamo cresciuti, e che si fa legge. Non ti pare che anche la nostra Costituzione sia in ritardo, consentendo queste misure?

gz  La Costituzione contiene una norma approvata senza discussione, cioè del tutto «naturalmente», che svela, da sola, l’atteggiamento mentale di allora: «la condizione giuridica

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dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali» (articolo 10). Questa norma distingue nettamente gli stranieri dai cittadini, poiché li considera come appartenenti a due mondi separati. Norme specifiche, riferendosi a «tutti», «chiunque», «nessuno», ecc., si riferiscono agli esseri umani come tali. La norma che ho ricordato presuppone invece una netta differenziazione nel godimento dei diritti, basata sull’appartenenza alla comunità nazionale. E quando, negli anni scorsi, la Corte costituzionale si è occupata di garanzie contro le espulsioni arbitrarie degli stranieri irregolari, un anziano, scrupoloso membro della Assemblea costituente, Luigi Preti, scrisse più volte al presidente della Corte: si ricordi che, quando approvammo l’articolo 13 sulla libertà personale, nessuno pensava agli stranieri! Aveva certo ragione con riguardo a quel tempo, ma non teneva conto che nel frattempo la mentalità e il contesto giuridico erano cambiati. Il processo di emancipazione dei diritti dalla cittadinanza è andato molto avanti. Oggi, per ragioni costituzionali e non solo di opportunità, perfino rispetto ai diritti politici si discute sulla necessità di una loro estensione ai non cittadini, in presenza di certe condizioni di radicamento in Italia. Mi riferisco a quei diritti che, come quello di voto, più tenacemente hanno resistito all’universalizzazione, essendo legati a quello che una volta si chiamava il rapporto di sudditanza (oggi di cittadinanza). em 

Ma prima di pensare alla cittadinanza, io credo che si debba dire la verità sull’accoglienza. Ci sono intere parti del Paese che sono spaventate dall’ondata d’immigrazione. È una paura, per chiamarla così, che interpella la politica e anche la democrazia. Pensa ai piccoli paesi di campagna e di montagna, dove molti abitanti non avevano mai scambiato una parola con un uomo o una donna di colore, non avevano mai viaggiato nei loro mondi, e all’improvviso – negli ultimi dieci anni – se li trovano sulla porta di casa, ai giardini pubblici, nelle scuole, con i loro abiti e i loro colori, la lingua e le usanze, la loro diversità, in un ambiente chiuso. Devi ragionare, ­­­­­91

devi capire e spiegare che quelle persone scappano dall’oppressione e dalla miseria, che noi siamo per loro la vita, che cercano un futuro attraverso il lavoro, tra l’altro spesso un lavoro che noi non vogliamo più fare. Ma la prima reazione è di paura, quasi sempre immotivata e non razionale, davanti alla nuovissima forma del peccato originale: il peccato di origine. Una paura della diversità, un’incertezza di identità, una perdita di sicurezza di fronte alla perdita di uniformità. Il tutto ingigantito, quando serve, dalla propaganda politica, che si fa imprenditrice di quella paura, dipingendo un Paese spaventoso e spaventato, capace di «rendere gli esseri umani superflui», come diceva Hannah Arendt. Il risultato è ciò che Bauman chiama la «paura ufficiale», la percezione di perdere riferimenti tradizionali, omogenei, costanti, in un mondo già di per sé complicato dal fatto che «niente dura abbastanza a lungo da essere pienamente acquisito» e viene meno la coesione comunitaria di fili biografici tra loro intrecciati, in una unità di luogo, di esperienza, di condivisione e di scambio. Capisci che già la paura dell’idraulico polacco, cioè la gelosia del potenziale posto di lavoro e della nuova concorrenza dell’immigrazione, è un passo avanti. Perché esce dalle chiusure individuali, entra nello spazio pubblico, diventa una paura negoziabile, amministrabile, in qualche modo politica. Ci sono, dunque, modi diversi di aver paura, per così dire, dello straniero. gz  Intanto un primo passo sostanziale, che però risponde solo in parte ai problemi che tu sollevi, è capire che nel momento in cui i diritti (e i doveri) diventano universali, non ci sono più «stranieri»: tutti apparteniamo alla stessa koiné, sul piede d’uguaglianza rispetto ai diritti. Riflettiamo sulle parole, in particolare sulla parola straniero. Essa suona diversamente a seconda di dove è collocato colui che la pronuncia. Per lo straniero, l’essere sopra o sotto nella scala si combina coll’essere dentro o fuori. Quelli che, come noi, stanno dalla parte di gran lunga privilegiata del mondo che sentono come «casa

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loro», hanno forse perso il significato drammatico della parola straniero, dei quasi sinonimi odierni – migrante, immigrato, extracomunitario, clandestino. Vale anche per straniero la legge generale della doppiezza che regna su tutte le parole della politica. Straniero è parola di diffidenza – istinto di diffidenza – dal punto di vista di chi «è dentro»; è parola di accoglienza – di bisogno di accoglienza – dal punto di vista di chi «sta fuori». Non ci ricordiamo sempre che la distanza tra gli uni e gli altri, la tensione che ne deriva e la violenza che alimenta sono determinate dalle disuguaglianze nelle condizioni minime essenziali della vita (cibo, lavoro, malattie, ecc.). Sono queste condizioni che insidiano l’ordinata vita delle comunità di arrivo e sono determinate da squilibri rispetto ai diritti. Se non fosse così, le differenze etnico-culturali sarebbero solo una piacevole variante che rallegra la monotonia della nostra vita quotidiana, arricchendola di qualche tratto esotico. Perché altrimenti lo straniero è avvertito come pericolo e il pericolo appare grave proprio a chi sta in condizioni di inferiorità nella società «di arrivo»? Per quale ragione sono i lavoratori salariati o i piccoli artigiani (lo abbiamo visto qualche anno fa in Inghilterra o in Francia) ad ostacolare l’accoglienza dei lavoratori stranieri? Perché portano via lavoro, offrendolo a condizioni più basse. Ma se le disuguaglianze non fossero così grandi, tutto questo non si verificherebbe. Non in questa misura. em 

C’è poi, anche qui, l’uso di una parola astratta che copre condizioni di vita e differenze concrete, che ne vengono oscurate. In realtà, se ci fermiamo a riflettere, ci accorgiamo che la parola straniero non la usiamo più. Implicava conoscenza reciproca, o almeno scoperta, curiosità. Voglio dire che era un concetto culturale, non etnico, geografico e politico soltanto. Dietro di sé aveva l’idea del viaggio, dell’esperienza, del racconto. Era comunque un riconoscimento di dignità – una dignità «altra» – e naturalmente di identità. Tutto questo va perduto nella categoria quasi geometrica di «extra». Un concetto impolitico, e anche impreciso. Sa di muri, per di più politici, ­­­­­93

artificiali, non naturali. Riduce il problema a una dimensione binaria, dentro-fuori. E fatalmente va in crisi quando avviene il passaggio tra le due dimensioni. L’extra(comunitario) quando è «dentro», quando è entrato, è tra noi, può ancora essere ridotto in quella dimensione spaziale, e basta? gz 

È lo stesso procedimento disincarnante che abbiamo già osservato a proposito del lavoro. La concretezza dei problemi o, diciamo così, la loro umanità passano in secondo piano. Parliamo di extracomunitari come categoria, come se non fossero tutti quei singoli volti che vediamo sui barconi alla deriva, come se non fossero quelle singole persone che si lanciano in mare dalle fiancate delle carrette dei mari. Ci dispensiamo dall’immaginare chi è morto ed è stato scaricato come un’inutile zavorra durante il tragitto. Parliamo di rom e ci esentiamo dal peso di considerare i bambini la cui baracca è rasa al suolo dal bulldozer inviato dal sindaco. Parliamo di clandestini e non pensiamo che sono «stagionali» ridotti a lavoro servile, sfruttato da soggetti che votano, non pagano le tasse, si fanno beffe dei diritti degli altri. Ora è chiaro che di parole e di categorie generali abbiamo bisogno. Senza di esse, la politica e la legge sarebbero impossibili. E senza la politica e le leggi resterebbe solo soccorso o beneficenza individuale e, soprattutto, nessuna forma di uguaglianza potrebbe essere stabilmente perseguita. Però, è molto diverso se alle categorie e alle parole generali si arriva a partire dalle condizioni concrete degli esseri umani, oppure se si arriva agli esseri umani a partire da concetti e parole assunte a priori. Nel primo caso, la politica è al servizio dell’umanità; nel secondo, l’umanità è materiale inerte della politica. Una politica consapevole delle sue conseguenze in concreto presuppone conoscenza ed esperienza diretta. Ma quanti dei nostri uomini politici possono dire di averne a sufficienza?

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È ovvio che le grandi e altisonanti proclamazioni dei diritti umani non bastano. Infatti tu chiami in causa la politica, e ­­­­­94

giustamente. Ma la politica, secondo me, entra in gioco anche come grande pedagoga mancata. Per l’educazione civica necessaria, e perduta. Stiamo parlando d’immigrazione e non abbiamo ancora ricordato il caso più clamoroso degli ultimi anni, quegli spari contro i neri, anzi i negri, a Rosarno. Proviamo a ripensarci. Uomini – sto parlando di cittadini italiani – che girano di notte sul bordo dei ghetti dove dormono e sopravvivono i lavoranti africani, venuti fin qui per il raccolto stagionale delle arance. Quegli uomini stanno cercando «i negri» nel buio, hanno il fucile posato sul pianale della loro macchina, come in un romanzo fuori tempo di Harper Lee, e li cercano per farli saltare per aria con le loro pallottole, come si fa con i barattoli, come qualcuno fa con i gatti. Fermati un momento: c’è la caccia al nero, una xenofobia fisica, antropologica che le città italiane non avevano mai praticato in questi anni d’immigrazione. Ma guardiamo dall’altra parte del fucile, per favore: chi lo ha caricato, chi lo punta, chi spara, chi lo accompagna facendo da palo, vedetta, segnapunti? Guardalo: è il fantasma dell’uomo bianco, qualcosa che in Italia non avevamo finora mai conosciuto. Ecco, ci siamo arrivati. Com’è possibile che la politica dopo questo episodio non abbia trasformato Rosarno nel suo palcoscenico nazionale, che la sinistra non sia partita subito alla riconquista, portando qui i suoi parlamentari, i suoi leader, riunendo qui le sue Direzioni o, come diavolo si chiamano oggi, i suoi organismi di vertice, costringendo quindi i riflettori della tv a illuminare la scena e il Paese a conoscere, a parlarne? gz 

Hai ragione a ricordare Rosarno. Bisognerebbe pensare a quante altre Rosarno esistono senza che si sappia e si voglia sapere. Quegli avvenimenti sono stati uno scandalo, vergogna per quel che abbiamo veduto e per quel che è accaduto e rabbia per quel che non è accaduto, per le assenze e le rimozioni. Anch’io mi sarei aspettato una grande mobilitazione soprattutto da quanti parlano di accoglienza, bellezza della diversità, diritti umani e poi fanno finta di non vedere esseri ­­­­­95

umani che vivono come bestie e sono cacciati come bestie. Vergogna, poi, perché l’appello alla legalità è venuto proprio da quella gente che noi teniamo ai margini. Che la salvezza, alla fine, venga da loro? È vero comunque che le grandi e altisonanti proclamazioni dei diritti umani non bastano. Tuttavia, per quanto la distanza tra fatto e diritto sia enorme, già queste proclamazioni rappresentano un progresso dell’umanità. Esse spronano ad agire, mettono in mora la cattiva coscienza dei popoli più ricchi, promuovono iniziative, delegittimano certe politiche e ne legittimano altre. Consideriamo il punto di partenza. Le società antiche vivevano nella paura dello straniero. Lo straniero era il nemico per definizione (hospes-hostis), poteva essere depredato e privato della vita se non avesse goduto di qualche titolo speciale di protezione. Il presupposto era l’idea che l’umanità è per natura divisa in comunità umane separate, ognuna sospettosa verso le altre. Lo straniero era visto come longa manus di potenze nemiche; una minaccia subdola, insinuante, che poteva mettere a rischio la solidità delle famiglie, insidiarne la prole, impadronirsi di case e terre: in una parola, aveva un potere disgregante. Ci sono voluti secoli perché, prima le relazioni commerciali e poi l’umanesimo cristiano e laico aprissero i confini. Ma l’ostilità tra i gruppi umani non è finita. Ha preso ad alimentarsi ad altre sorgenti: le differenze di cultura e ideologia, di religione, di sangue o di razza, l’interesse economico e commerciale, le mire espansionistiche, solo per fare qualche esempio. Le discriminazioni e i massacri che «i noi» perpetrano nei confronti dei «non noi» sono continuati su larga scala. L’immagine e l’ossessione dello straniero, del nemico che è tra noi, hanno sempre covato sotto la cenere, pronti a rinascere e a essere utilizzati quando occorra, per affermare «legittimamente» l’esistenza di una casa solo nostra, nella quale possiamo – anzi dobbiamo – «fare pulizia» degli intrusi che minacciano il nostro éthnos, il nostro éthos, il nostro ordine, il nostro benessere, la nostra qualunque cosa. I regimi totalitari del secolo passato vi hanno fatto brutale ricorso. Un esempio solo, per re­­­­­96

stare da noi: la «Carta di Verona», manifesto costituzionale del fascismo repubblicano di Salò, all’articolo 7 dichiarava laconicamente: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri», e ciò fu il prodromo della confisca dei beni e dello sterminio delle vite. Una sola parola, terribili conseguenze. em 

Ricordiamolo. Per ricordarci che abbiamo potuto tranquillamente far convivere dentro di noi la tradizione italiana dell’accoglienza, dell’emigrazione, del confronto, con il razzismo vero e proprio. Punto e basta. La potenza dell’ideologismo può fare questo e altro, visto che l’ideologia è da Voltaire in poi «l’impostura» di una classe sociale che si assicura il dominio attraverso un insieme di credenze erronee e di pregiudizi. Tutto questo dovrebbe appartenere al passato. Ma vedi bene quanta ideologia c’è nel mercato della paura che certa politica coltiva sui temi dell’immigrazione.

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Infatti: dovrebbe appartenere al passato. Si può ben dire che, dopo le tragedie xenofobe della guerra, la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» del dicembre 1948 – una testimonianza dello spirito umano tanto più elevata quanto più infame è la storia che le stava appena alle spalle – rappresenti, nell’essenziale, la condanna definitiva di quel modo di concepire l’umanità per comparti sociali e territoriali stagni, chiusi su se stessi e ostili tra loro. L’essenziale è contenuto già nell’articolo 1: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti». L’appartenenza a uno Stato o a una società, piuttosto che a un’altra, passa in secondo piano e non può più essere motivo di discriminazione. Ciò che conta è l’uguale appartenenza al genere umano. La fratellanza in diritti e dignità non conosce confini geografici, etnici e politici. In una parola: non conosce stranieri. em 

Qui metti in crisi la mia convinzione identitaria sull’Europa e l’Occidente come terra della democrazia dei diritti, oltre che della democrazia delle istituzioni. In termini concreti: le rivoluzioni di piazza che trasformano il 2011 nell’anno di ­­­­­97

crisi dei regimi nordafricani ci mostrano tutte le nostre contraddizioni tra principî e politica, tra la teoria della democrazia e la coerenza della sua applicazione. Noi abbiamo creduto, col governo di destra, di risolvere il problema dell’immigrazione con i respingimenti. A questo fine abbiamo finanziato i dittatori di confine nordafricani, dunque abbiamo sostenuto attivamente le loro politiche repressive, i campi-lager, il contenimento forzato. In questo l’Occidente europeo non ci ha mai fermati, perché paradossalmente – un paradosso della democrazia, stiamo attenti – quei regimi stendevano una cintura di sicurezza rispetto alle paure continentali dell’immigrazione. Quando il popolo di quei regimi si è ribellato, come in Tunisia, in Egitto e in Libia, ed è sceso in piazza, l’Occidente tutto e l’Europa in particolare sono stati infilzati nelle loro contraddizioni, perché il paradosso si è rovesciato in qualcosa di insostenibile. Le piazze nordafricane chiedevano libertà. Noi, terra della libertà e della democrazia, eravamo titubanti, perché temevamo le conseguenze. Diciamola tutta: temevamo le conseguenze proprio ed esattamente della libertà. E se poi la deriva della liberazione porta ad un islamismo integralista? E se intanto la fine dei regimi polizieschi alza le paratoie e rovescia sulle nostre sponde un’ondata di immigrati? Dunque? Vogliamo forse dire che per la democrazia indigena dell’Occidente è meglio la dittatura esterna? Che pur di garantire la nostra sicurezza democratica chiudiamo un occhio o anche due su quel che accade in casa dei nostri vicini? I dubbi sugli esiti delle rivoluzioni e sui pericoli sono legittimi, ma la riconquista della libertà viene prima e non è condizionabile. Ne parlo con passione perché mi ci sono trovato in mezzo con i primi segni di disgregazione dell’impero sovietico, nel 1989-90. Esattamente le stesse cautele occidentali, le stesse contraddizioni democratiche, la buona vecchia Realpolitik dei più forti, spazzate via dalla forza della libertà, quando torna a portata di mano dei popoli e dei cittadini. gz Racconta.

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Quando a Vilnius, in Lituania, vidi un milione di persone in piazza dietro una croce, simbolo supremo di ribellione e di riconquista nell’impero comunista e sovietico, andai a parlare con il leader della protesta, il professor Vytautas Landsberghis. Ero con due colleghi americani, come me corrispondenti da Mosca. Non crede – gli domandammo – che forzando troppo la protesta si rischi di mettere in crisi la perestrojka di Gorbaciov, riportando al Cremlino le forze più conservatrici del regime comunista? Lui aprì la porta principale del Conservatorio dove insegnava, e ci mostrò la statua di Lenin, alta nel suo cappotto di pietra, protesa lì di fronte. «Per settant’anni ha puntato il dito contro di noi – disse –. Adesso possiamo girare quel braccio e quella minaccia da un’altra parte, possiamo compiere il nostro destino. E dovremmo fermarci per non disturbare gli equilibri geopolitici della vostra tranquillità di europei e americani? Noi non vogliamo sacrificarci per voi. Perché noi? Perché non prova qualcun altro? Vogliamo semplicemente i diritti dell’uomo: che portano ai diritti dei popoli. Non è un obiettivo, nemmeno una scelta: per noi è un obbligo». Era chiaro che aveva ragione. La democrazia non si può dosare, nel tempo e nella quantità. Noi non possiamo farlo. Salvo entrare in contraddizione con noi stessi. E qui, scusami per l’analogia, ma nella corsa a Lampedusa per bloccare le barche che arrivano dalla rivoluzione e soprattutto per rassicurare gli italiani dalle loro paure, com’è giusto, non c’è la minima considerazione pubblica dei diritti che nascono dalla libertà riconquistata. Non vogliamo essere parte di questo evento, non sappiamo condividerlo. Eppure le piazze arabe di oggi, come quella di Vilnius ieri, sono un test non solo per quei Paesi, ma anche per la democrazia dell’Ovest, per noi. Perché la superiorità della nostra democrazia rispetto al sistema sovietico ieri e alle autocrazie nordafricane oggi deve essere prima di tutto morale. Dunque deve resistere nella difesa dei principî anche contro il calcolo spicciolo degli interessi di comodo: appunto, la Realpolitik. ­­­­­99

gz  Non dobbiamo però nasconderci il fatto che le concezioni politiche legittime, cioè liberamente accettate e non imposte con la forza o con la suggestione, possono essere diverse e non coincidere con quelle che a noi, figli della storia europea, sembrano ovvie, senza alternative possibili. Vedi, i diritti e i doveri, per esempio, non sono concepiti allo stesso modo nei Paesi di tradizione occidentale, o in Africa, nell’Oriente asiatico. Vi sono carte dei diritti di portata regionale. L’influenza di culture millenarie, spesso molto più antiche delle nostre, si fa sentire come ostilità nei confronti di un Occidente percepito, e non certo a torto, come produttivistico, consumistico, edonistico. Il punto di divisione è senza dubbio rappresentato dalla concezione della società: individualista, quella occidentale; comunitaria, quelle orientali e africane. L’individualismo dell’Occidente è percepito come una minaccia disgregatrice di società che concepiscono se stesse come organismi vitali collettivi. Quello che per noi è sinonimo di libertà e autonomia dei singoli, per loro è sinonimo di distruzione delle identità di gruppo. Se non si riconoscono e rispettano queste differenze, l’Occidente non cessa d’essere imperialistico, sia pure con mezzi diversi da quelli d’un tempo, apparentemente non violenti, perfino allettanti, come l’induzione a un bisogno compulsivo al consumo. Da questo punto di vista, globalizzazione può essere un altro modo di dire occidentalizzazione. Tuttavia, esiste un punto di convergenza, un minimo comune denominatore al quale nessuno è straniero: il rifiuto della prevaricazione e della violenza nelle relazioni umane. Che cosa questo rifiuto comporti nei casi particolari, può essere discutibile. Lo vedremo. Ma il principio, ripeto, è indiscutibile. em 

Huntington lo aveva detto con una formula, che più o meno suona così: gli occidentali considerano universale ciò che per i non occidentali non è affatto universale, ma è soltanto occidentale. E cioè, le altre culture ci ricacciano nella nostra parzialità, ci ricordano il relativismo dei nostri ­­­­­100

assoluti. Questo lo abbiamo imparato da soli e a nostre spese con le ideologie. Ma ci è difficile accettare il relativismo della democrazia, non dico nemmeno come forma di società politica, dico semplicemente come insieme di valori. Per noi – e per fortuna – è complicato accettare che l’uguaglianza degli esseri umani non sia da testimoniare dovunque, come la parità tra uomo e donna, o la libertà religiosa o di opinione. Ma come abbiamo appena detto, dobbiamo dare credibilità a quell’universale che vogliamo testimoniare, per renderlo autentico. Le nostre contraddizioni, le contraddizioni dell’Occidente, sono impedimenti ed ostacoli alla democrazia, come i suoi nemici esterni. gz  Infatti! La difficoltà, come possiamo osservare, non è solo italiana. Ci saremmo aspettati, solo qualche anno fa, la nascita di partiti e movimenti xenofobi in Paesi che avremmo creduto aperti al mondo, come la Svezia o l’Olanda? Che cosa succede in Francia, il Paese dell’illuminismo cosmopolitico, l’abbiamo sotto gli occhi da tempo. Per non parlare dei rigurgiti nazistoidi di certo mondo di lingua tedesca o di certo sottoproletariato in Paesi appena sortiti dal comunismo. Inutile nascondercelo: a onta di tutte le dichiarazioni ufficiali, l’universalizzazione della cittadinanza appare di fatto, tuttora, come qualcosa contro natura, contro l’attaccamento sentimentale alla terra in cui siamo nati e che altri minacciano di sottrarci. Sarà anche, questa, una copertura di qualcosa di molto meno sentimentale e molto più materiale. Ma a me pare indubbio che, se gli interessi materiali si alimentano di miti e preconcetti impressi nella psicologia collettiva, vuol dire ch’essi fanno presa e fanno massa immediata: l’idea dell’essere umano come animale stanziale, un animale che, come altri, ha il suo territorio e lo difende dalle intromissioni, deve essere un’idea del profondo. Gli etologi avrebbero molto da dire in proposito. La terra, questa «aiuola che ci fa tanto feroci» (Par. XXII, 151), l’abbiamo divisa in tante parti e ce ne siamo impossessati, popolo per popolo,

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come cosa nostra, e ci pare normale, naturale, l’idea di straniero, di colui che passa o tenta di passare da un’aiuola all’altra, turbando le sicurezze che riponiamo «in casa nostra». Quante volte abbiamo sentito ripetere anche da noi, come se fosse ovvia e innocente, questa espressione! Non siamo forse destinati, in certo senso, a diventare tutti stranieri, una volta che le case che una volta erano di ciascuno di noi siano divenute «case di tutti», cioè non più di qualcuno in particolare? Forse, lo stesso concetto di straniero è destinato a perdere di significato, se il mescolamento degli esseri umani proseguirà. Basta porre queste domande per rendersi conto di quale turbamento può provocare la prospettiva della scomparsa dello straniero, cui corrisponderebbe il pauroso riconoscimento d’essere tutti, paradossalmente, «ospiti» (nel doppio senso di ospitanti e ospitati) in quella ch’è stata un tempo la «casa propria». em 

La perdita di luogo della globalizzazione, la nuova geografia delle reti che avviluppa e governa il mondo, o almeno lo rende intelligibile a se stesso, il cosmopolitismo navigante dei ragazzi producono alla fine un esito che può sembrare rovesciato: il sentimento geopolitico, culturale e quindi politico del «posto», delle radici, del local, un micromondo di tradizioni e biografie condivise, che conferma identità, appartenenze e alla fine sicurezze. Qui anche i concetti più universali di umanità e di cittadinanza, per non dire di uguaglianza, si spezzano e si ricompongono attraverso categorie comunitarie che uniscono all’interno e separano dal resto, dal mondo più grande, dal Paese, dalla repubblica. L’Europa conosce le due grandi tradizioni interculturale e multiculturale (non a caso imperiale una e post-coloniale l’altra) di Francia e Inghilterra, che proprio oggi vengono rimesse in discussione. Come a dire che nessun modello è sicuro, nessuno schema è perfetto. L’Europa non sa, nel 2011, se le pareti dei suoi edifici pubblici devono essere nude, perché nessuna fede è testimoniata dall’istituzione come privilegiata e prescelta, o piene di sim­­­­­102

boli, perché ognuno può appendere il suo e la democrazia è com-presenza, somma ed accumulo. gz  In realtà mi pare che ci siano tre possibilità, tre modelli, a ciascuno dei quali, coscienti o non coscienti che si sia, si finisce per aderire. Ciascuno di questi si basa su un atteggiamento, spesso su un sentimento nei confronti dello straniero: insicurezza e paura, presunzione e senso di superiorità, rispetto e curiosità. em 

Uno per uno.

gz  Sì, ma prima mi sembra necessaria una precisazione terminologica e concettuale che ci renda consapevoli della difficoltà del problema che abbiamo davanti a noi, ovvero il problema delle società multiculturali. «Multicultura» è parola entrata nell’uso da quando, nel 1982, la Carta dei diritti e delle libertà del Canada – uno dei Paesi in cui questo problema è avvertito con maggiore acutezza – ha parlato (articolo 27) di «patrimonio multiculturale dei Canadesi». Il multiculturalismo non è il pluralismo. Per noi europei, è qualcosa di nuovo, di inedito. La società pluralistica è quella composta di parti (ceti e classi sociali, movimenti culturali e religiosi, gruppi d’interesse, ecc.) che si riconoscono in un tutto come suoi elementi costitutivi: un tutto che viene da una storia talora lontana e anche molto conflittuale (pensiamo al conflitto di classe o alle guerre di religione), ma, ciò nondimeno, una storia comune. Le parti possono esprimere, sulla vita politica e sui modi di vita, punti di vista diversi tra loro e possono avere interessi materiali concorrenziali, ma non antagonisti al punto che si sia disposti allo scontro, quando questo potrebbe avere esiti distruttivi per tutti. Nel contesto pluralista, il quadro unitario, per quanto sempre a rischio e perciò sempre di nuovo perseguito e da perseguire attraverso sintesi e compromessi, non viene messo in discussione come tale. Potremmo dire così: la garanzia del pluralismo sta nelle interdipendenze e nel reciproco bisogno, l’uno dell’altro, sia

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pure, anzi spesso, proprio perché diversi. Non così il multiculturalismo. La società multiculturale tiene al suo interno le diverse culture, ma l’una di fronte all’altra come sistemi di valori e visioni del mondo chiusi, ciascuno in sé sufficiente a fornire il quadro etico completo e bastante all’esistenza dei suoi membri. Onde, potrebbe dirsi che il pluralismo tende a un orizzonte comune di senso, per quanto composito; mentre il multiculturalismo no, si ferma a una giustapposizione delle diverse culture, nella migliore delle ipotesi estranee l’una all’altra; nella peggiore, conflittuali. em 

Aggiungiamo che mentre nelle società tradizionali il legame tra la cultura d’appartenenza e l’identità è fortissimo, nelle società più aperte l’identità è in movimento e in trasformazione continua grazie alla complessità crescente del sociale, alla molteplicità dei contatti, dunque alla pluralità e alla confusione delle appartenenze a gruppi. Siamo parte di culture o almeno di subculture diverse, nelle società democratiche. Il multiculturalismo schiera e somma queste diversità, le guarda e le fa vedere, e attraverso questi apporti differenziati e distinti compone il quadro d’insieme, in una concezione a mosaico della società. Partiamo da qui per analizzare i tuoi tre schemi?

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Ne ho parlato già nel libro-intervista con Geminello Preterossi, La virtù del dubbio*. Siccome mi pare che nessuno se ne sia accorto, mi fa piacere che tu mi dia l’occasione di ritornare in tema. Il primo schema è la separazione, cioè la coesistenza senza con-vivenza. Il pregiudizio del separatismo è che le culture siano e debbano essere identità spirituali chiuse e che le relazioni interculturali nascondano di per sé pericoli di contaminazione o contagio, per la purezza, in primo luogo, della comunità di arrivo, ma anche di quelle in arrivo. Il punto di partenza è, dunque, la paura unita all’insicurezza. *  Laterza, Roma-Bari 20074.

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Popolazioni diverse vengano dunque, se proprio non si riesce a fermarle alle frontiere o ci è utile accoglierle in quote, ma stiano per conto loro. La separazione tra le popolazioni è l’unico modo di evitare lo scontro tra realtà inconciliabili, lo «scontro di civiltà». Noi non cerchiamo contatti con loro e loro non cerchino contatti con noi. L’optimum sarebbe renderci invisibili gli uni agli altri, vivere come se fossimo soli. Di diritto, questa è stata la condizione, per esempio, degli ebrei della diaspora fino alla chiusura dei ghetti, dei neri nel Sudafrica fino alla fine dell’apartheid, dei neri in America fino alle sentenze e alle leggi antisegregazioniste degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. In America, questa posizione aveva trovato espressione nel motto «separati ma uguali» che per quasi cent’anni ha regolato i rapporti tra bianchi e neri negli Stati Uniti. In teoria, il pregiudizio separatista potrebbe condividersi perfettamente da entrambe le parti, autoctoni e migranti, ed essere così un’ideologia simmetrica. Alcune comunità ebraiche, ad esempio, per difendere la propria integrità accettarono il ghetto, considerando la sua abolizione un pericolo. Siamo diversi, punto e basta. In pratica, tuttavia, quando una parte (l’autoctona) è più forte dell’altra (la migrante), la separazione si muta in segregazione, cioè in violenza discriminatrice. Il Ku Klux Klan può facilmente accontentarsi di essere separatista, poiché tutto il resto vien da sé. È celebre il doll test, assunto come argomento nella celeberrima sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel Brown Case che, nel 1954, diede avvio all’integrazione scolastica. A sedici bimbe nere, messe di fronte a bambole identiche in tutto salvo nel colore bianco e nero, fu chiesto, con domande multiple, quale preferissero. Undici qualificarono la nera come brutta e cattiva, nove la bianca come bella e buona. Il risultato del test mostra che la separazione, a causa dell’insoddisfatto bisogno di riconoscimento dei più deboli, genera in loro auto-disistima e desiderio di identificazione nei più forti. In condizioni sociali di disuguaglianza, il riconoscimento negato può essere di per sé una forma sot­­­­­105

tile e molto efficace di oppressione che le vittime interiorizzano come effetto di una propria inferiorità naturale. A loro volta, i forti vi trovano ragioni per coltivare, dietro la paura, un proprio senso di superiorità e così «schiavo e padrone finiscono per corrompersi l’un l’altro», secondo l’espressione di Jean-Jacques Rousseau nell’Émile. All’inferiorità psicologica corrispondono condizioni di vita – di fatto e di diritto – segreganti: privazione dei diritti civili e politici, scuole separate, servizi sociali peggiori o inesistenti, lavori non qualificati e sottopagati, vita in quartieri-ghetto; in una parola, uno status sociale degradato. Ricordi la vicenda della mensa scolastica negata ai figli degli emigranti e riservata ai figli autoctoni? Una cosa disgustosa che è accaduta nella civile Italia e che si «giustifica» nella mentalità separatista; la mentalità che, temo, è quella che domina in una buona parte delle nostre contrade, tanto più quanto è maggiore la gelosia della propria identità e civiltà. È quella mentalità che riduce al minimo i momenti di contatto con l’altra parte e se proprio ci devono essere che almeno siano i meno onerosi possibile. Sappiamo bene che la discriminazione non ha bisogno di norme giuridiche. Bastano le leggi dell’economia di mercato e le mentalità piccolo-borghesi a creare esclusioni, umiliazioni, segregazioni; quartieri monoculturali, disperazione e violenza; barriere invisibili ma ferree tra persone e luoghi. Il test delle bambole negli Stati Uniti è stato ripetuto due anni fa, con analogo risultato. em 

Mi sembra che se vogliamo risalire a una categoria generale dobbiamo parlare in questi casi di «comunitarismo». Si tratta non solo di un riconoscimento delle differenze culturali tra i diversi gruppi, ma della sottolineatura marcata di queste differenze, come tratto d’identità, quasi a voler riprodurre la dimensione delle tribù dentro il contesto moderno della globalizzazione. L’identità dell’individuo conta e rileva per la società in quanto relativa al gruppo d’appartenenza, e poco altro. Queste differenze possono prendere rilievo ­­­­­106

normativo, quando i gruppi sono ufficializzati, e addirittura spaziale, attraverso la creazione di quartieri, spazi pubblici, luoghi d’espressione che rispettino l’omogeneità culturale del gruppo, grande o piccolo che sia. Il problema, secondo me, nasce proprio qui. Quelle culture che coabitano nel comunitarismo sono concepite come statiche, conservate in sé per non mutare, dunque chiuse e possibilmente immobili. L’utilità sociale – per tutti – del multiculturalismo sta invece a mio parere in una coabitazione esposta al contagio attraverso la conoscenza, dinamica, capace di mettere le diverse culture dei diversi gruppi in movimento. Tu sottolinei alcuni casi italiani – potremmo dire – di normativa «comunitaria», e addirittura di gerarchizzazione delle diverse comunità attraverso leggi, ordinanze e regolamenti. Certo, la cultura della separazione, che io chiamo comunitaria, può essere una stazione intermedia per arrivare al pericolo che tu indichi. Ma non credo che il comunitarismo spinto fino alla separazione fisica sia il modello italiano. O almeno, non ancora. gz  Ufficialmente no. Nessuno si riconoscerebbe «segregazionista», così come nessuno si dice razzista: «Io non sono razzista, però gli zingari...». Per lo più ci si dice «integrazionisti». Ma la separazione è all’opera, non solo nei casi più evidenti: nella creazione nelle nostre città di nuovi ghetti per immigrati, o nelle proposte di formazione nelle scuole di classi separate per immigrati e autoctoni, ma soprattutto in quelli taciuti, il cui esempio più chiaro e crudele è rappresentato dai cosiddetti «clandestini». Rispetto ai clandestini, è all’opera quel «comunitarismo» chiuso di cui tu parli, ma a senso unico. Solo noi abbiamo o siamo comunità. I clandestini non sono nulla. Non possono avere legami comunitari o identitari che valgano a loro difesa. L’esistenza di questo esercito di persone invisibili è uno scandalo delle nostre società. È difficile dire come vi si possa ovviare, ma ciò non esime dal dovere di denunciare l’abdicazione non solo al dovere di solidarietà, ma anche ai fondamentali principî della nostra civiltà giuridica.

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Vogliamo dire che viviamo sullo stesso suolo, nello stesso contesto democratico, sottoposti dunque alla medesima sovranità e a leggi identiche, ma con due livelli di cittadinanza? Tutto questo lo accettiamo quotidianamente, non solo le differenze sociali, ma anche le differenze nei diritti, dunque nella sostanza ugualitaria di base, che dovrebbe reggere le nostre democrazie, nel concetto universale di umanità che è a fondamento del discorso democratico. Lo scandalo, dunque, è evidente e accettato.

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Non si tratta di due livelli di cittadinanza. Queste persone sono dei senza diritti. Per loro, cittadinanza non ha significato. Qualche tempo fa, uno studente mi ha proposto una tesi di laurea dal titolo: «La condizione giuridica del clandestino»: una proposizione paradossale. Lo svolgimento avrebbe potuto ridursi a questo: il clandestino è privo di condizione giuridica. Inutile perfino parlarne. Il clandestino incomincia paradossalmente a essere qualcuno, a essere soggetto giuridico, solo per essere colpito dalla pena (l’espulsione) quando viene portata alla luce la sua clandestinità, cioè quando viene «scoperto» nella sua condizione illegale e, in certo senso, cessa d’essere clandestino. Prima non è nulla e dopo neppure. Prima: è nulla poiché tutto o quasi egli deve sopportare per scongiurare la sua sorte: se scoperto verrà di nuovo allontanato nei Paesi dai quali era scappato per sfuggire a carestie, persecuzioni, guerre, ecc. Dopo: è ugualmente nulla, perché ce ne sbarazziamo come una cosa indesiderata. Il clandestino è lo straniero totale, prima e dopo: uno che la legge condanna a essere privo d’ogni diritto. em 

Fai un passo in più. Ancora una volta la democrazia non è sostanza per una categoria di persone che pure vivono in mezzo a noi, noi i democraticamente garantiti. Se guardiamo la democrazia coi loro occhi, la vediamo come un privilegio altrui, che comporta un’esclusione. Dunque un’idea parziale, nient’affatto universale e nemmeno neutrale, ma anzi stru­­­­­108

mentale, perché serve in particolare ad alcuni, che possono avvantaggiarsene. La stessa cosa, permettimi, si potrebbe dire per l’altro universalismo a cui facciamo riferimento tutti i giorni, quello dei diritti umani. Non avevi detto poco fa che ormai i diritti umani esistono per tutti, quale che sia la propria condizione sociale e il luogo in cui si vive? gz 

Sì, ma solo teoricamente. Teoricamente anche il clandestino ha diritto alle cure primarie, le cure cosiddette salvavita. I suoi figli hanno diritto di andare a scuola, perché anche l’istruzione è un diritto che spetta a tutti e, innanzitutto, a chi, come i bambini, non ha nulla da rimproverarsi. Ma tu andresti a farti curare, sapendo o temendo che, al contatto con la struttura pubblica, qualcuno potrebbe chiederti il permesso di soggiorno che non hai; e manderesti tuo figlio a scuola, temendo la stessa cosa? Non ti è capitato di assistere a un incidente per strada, dove l’infortunato è uno di quelli che viene di lontano e ti scongiura di non chiamare la polizia della strada e nemmeno l’autoambulanza? A me, forse anche a te e ad altri che usano il treno, sarà capitato d’essere in uno scompartimento con una persona d’altro colore o d’altra lingua e vedere arrivare un agente della polizia ferroviaria che chiede i documenti. Il terrore sulla faccia di chi non è in regola non ti ha fatto vergognare? Tu, non lui, avrai abbassato il tuo sguardo per evitare d’incontrare il suo. em 

Vedi, mi ostino a credere nell’universalità dei valori di democrazia e di uguaglianza. Ma da qualche tempo faccio i conti con i nostri tradimenti di quei valori, i nostri errori e lo scarto – che è politico, e morale – tra ciò in cui diciamo di credere e il modo in cui viviamo e operiamo. Siamo dei democratici infedeli. E questo può spiegare perché fuori dall’Occidente spesso i valori che noi predichiamo non vengano vissuti come autentici e convincenti, capaci di convertire alla democrazia. Siamo noi, in sostanza, che indeboliamo ciò che noi siamo, ciò in cui crediamo. ­­­­­109

gz  Prendi il concetto di integrazione, il secondo modello. È la moneta corrente nei nostri discorsi, la parola con cui ci laviamo la coscienza. L’integrazione mira alla società omogenea, in cui le differenze culturali si attenuino fino a scomparire. Il suo presupposto è che, con la seduzione o con la forza, le culture possano cambiarsi confluendo l’una nell’altra. L’atteggiamento può essere quello dell’accoglienza. Tuttavia, l’integrazione rinvia alla dinamica tra una cultura che integra e una che è integrata, cioè a una asimmetria tra una, più vitale, e un’altra, meno. L’integrazionismo è così, fatalmente, ideologia della cultura dominante e, prima o poi, manifesta la sua vera natura, che è l’assimilazionismo. Questo, presupponendo la superiorità di una cultura sulle altre, è una versione mite di razzismo culturale che giustifica la pretesa di fagocitare culture recessive e così di cancellarle dalla faccia della terra o, al più, di lasciarle sopravvivere come folklore. Claude LéviStrauss, nel suo capolavoro Tristes Tropiques, parla in proposito di «antropo-fagia culturale», contrapponendo questo atteggiamento all’«antropoèmia culturale», cioè al rigetto che richiama il nostro primo modello*. Voltaire e Marx pensavano a una soluzione di questo tipo per la «questione ebraica». Ma può tradursi anche in azione violenta: se la cultura diversa «non è integrabile» o si dice che così sia (come si diceva nella Germania nazista, prima per gli «ebrei dell’est» e poi per gli ebrei tout court, o come dice oggi qualcuno per le comunità islamiche e i rom), la società omogenea dominante si sente autorizzata a praticare politiche di segregazione, respingimento o espulsione (l’annientamento, la Vernichtung, appartenendo, per ora, ai mezzi del passato). L’integrazionismo si traduce in atteggiamenti pratici opposti a quelli separatisti che abbiamo visto prima. Anziché valorizzare gli aspetti comunitari delle diverse culture, per poi contrapporli e tenerli lontani, esso mira alla distruzione delle comunità diverse e

*  Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano 1999, p. 376.

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alla riduzione dei loro membri a soli individui sradicati, allo scopo di poterli assorbire. C’è però un paradosso o una contraddizione: integrazione è parola d’ordine delle comunità organiche culturalmente omogenee. Si può essere contro le comunità quando si parla d’altri, per cercare d’assorbirli, e non quando si parla di sé? La contraddizione risulta evidente, per esempio, nella celebre relazione al governo francese della Commissione Stasi del 2004, ispiratrice di una legislazione che, tra l’altro, pone divieti all’uso pubblico del velo islamico: si propone di combattere il pericolo del «mosaico culturale», cioè della giustapposizione di comunità chiuse, ma – a questo fine – propone un quadro culturale, un’identità a tinta unica, senza contrasti, l’azzurro «repubblicano». em 

Dicevi Marx e Voltaire, per dire che si tratta d’un atteggiamento che non ha imprimatur particolari. Del resto a me pare che non si distacchi di molto dalla posizione di certi «atei devoti», consonanti con certe posizioni che albergano nella Chiesa cattolica.

gz  Per fortuna, non tutta la Chiesa sta con gli atei devoti; anzi, mi pare che non siano più sulla cresta dell’onda, come sono stati qualche anno fa. em 

Vedremo. Intanto fammi citare la Lettera a Joseph Ratzinger di Marcello Pera che ti ricordo è stato presidente del Senato italiano*. Senti questo passo: «Per integrare qualcuno bisogna prima avere ben chiaro e fermo ciò entro cui lo si vuole integrare. Non lo si può integrare dicendogli che la nostra casa è tanto ospitale, tanto larga, tanto priva di insegne proprie (a cominciare dal Crocefisso), che può accogliere lui come qualunque altro e lasciarlo libero di fare qualunque cosa. Così, come Lei

*  Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Mondadori, Milano 2004, p. 81.

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[il cardinale Ratzinger] dice, ci si dà solo alla ‘fuga dalle cose proprie’. Integrare è diverso da aggregare, profondamente diverso: l’integrazione presuppone un dialogo a partire dalla mia posizione (‘a partire dai valori propri’, come Lei dice), l’aggregazione presuppone solo l’accondiscendenza». gz  C’è, al fondo, il terrore per il cosiddetto relativismo, la bestia nera di tutti i difensori di un Occidente immaginato a loro uso e consumo. em 

Io credo sia possibile non viversi semplicemente accanto, con le diverse culture vicine ma separate come se fossero appese e ordinate dentro lo Stato-armadio. E non credo alla cultura come dominio, che assimila e riduce a sé il nuovo e il diverso. A questi nuovi soggetti, la cultura occidentale può offrire invece dei valori, come la democrazia e l’uguaglianza, e un metodo per farli valere nella vita associata, cioè la cittadinanza. C’è quindi una distinzione di base: il nostro modo di vivere occidentale, europeo, è una cultura e come tale è negoziabile, è mobile, è mutevole e influenzabile dalla convivenza e dal confronto con altre culture. Nella convinzione che le culture non sono siti archeologici da salvaguardare nella loro integrità immutabile, ma sistemi in movimento, come dicevamo prima, che crescono e deperiscono, si rafforzano e si deformano nel gioco reciproco dello scambio, del dialogo e del conflitto. Ma la democrazia non è una cultura, è un valore di riferimento, su cui si regge lo Stato. Che è neutro rispetto alle culture ma non può esserlo rispetto ai valori democratici, alla base delle sue istituzioni, delle sue leggi e della sua Costituzione. La tua terza via passa da queste parti?

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Credo di sì. È quella che possiamo indicare facendo cadere la «g» dall’integrazione: la interazione. Una piccola lettera in meno e un grande cambio di prospettiva. Il postulato dell’interazione è la necessità e la capacità delle culture di entrare in rapporto per definire se stesse e la disponibilità a costruire insieme e, eventualmente, a imparare l’una dall’al­­­­­112

tra. In questa disponibilità a rinnovarsi apprendendo reciprocamente (spregiativamente e stupidamente, con un tocco di razzismo biologico, si è parlato di ibridazione e meticciamento), c’è il contrario del separatismo. Ma c’è anche il contrario dell’integrazionismo: si tratta di riconoscersi l’un l’altro il diritto di esistere e di svolgere la propria opera di acculturazione, senza posizioni dominanti. L’éthos dell’interazione è anti-fondamentalista ma non nichilista. Per aversi interazione non basta la tolleranza, intesa come indifferenza, noncuranza, disinteresse. Occorre che ciascuna parte riconosca le altre come competitori-collaboratori nella ricerca della giustizia, senza rinunciare a priori ai propri ideali e valori. Solo, occorre che nessuno assuma il monopolio di verità possedute una volta per sempre, quantomeno nel campo della condotta morale e dei rapporti civili. La concezione non cristallizzata della cultura comporta soprattutto che le diverse comunità, all’esterno, siano aperte al confronto e al mutamento per reciproca influenza e, all’interno, rispettino la soggettività morale dei propri membri e il diritto di decidere autonomamente di restarvi o, eventualmente, di uscirne. em 

Noi abbiamo l’enorme vantaggio di muoverci nella teoria. Realizzare questo sistema che prevede idee forti ancorate a culture vitali che convivono arricchendosi, senza la pretesa di egemonia, riconoscendosi nella cornice dello Stato democratico, oggi è difficile ovunque, ed è molto complicato in Italia. Devi ammetterlo.

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Dare tempo al tempo. Quello che conta è l’atteggiamento. I frutti matureranno. La difficoltà maggiore mi sembra stare nel postulato: la libertà morale di ciascun membro di ciascuna comunità. Se manca questa premessa, l’interazione è impossibile a priori. Ogni comunità si stringe su se stessa per imporre ortodossia e impedire i contatti esterni che possono modificare credenze, costumi, scale di valori. Abbiamo davanti agli occhi, per fare solo un esempio, ­­­­­113

le tragedie che nascono dal tentativo di ragazze islamiche di stabilire rapporti sentimentali fuori del loro mondo. La comunità d’appartenenza vi può vedere un attentato alla propria identità. Ma, allora, vuol dire che è all’opera il primo schema: la separazione, con ciò che di tragico e violento comporta. Chi, da noi, si richiama alla separazione, dovrebbe essere coerente e restare indifferente di fronte a quella violenza, come cosa che non lo riguarda. Chi assume invece l’idea dell’integrazione, dovrebbe coerentemente auspicare e promuovere questo genere di legami interculturali. Se non lo fa, è perché in fondo non ci crede e pensa che l’integrazione, in questi casi sia destinata a fallire o a corrompere la sua identità. Nessuno nega le difficoltà, ma è difficile non pensare a una sorta di razzismo culturale: l’integrazione va bene fino a quando siamo sicuri di poter essere noi a integrare gli altri e non viceversa. Infine, chi si ispira all’interazione, non dovrebbe né promuovere né ostacolare, ma semplicemente garantire le condizioni di sicurezza, incolumità, dignità di tutti nei confronti di tutti, affinché si possano liberamente gettare ponti, stabilire contatti e impostare relazioni che vadano oltre le proprie comunità d’appartenenza. Si tratta, cioè, culturalmente e giuridicamente, di vietare la violenza interna ai gruppi, di liberare le possibilità di affrancarsi dalle culture d’origine, quando l’appartenenza viene vissuta come violenza, ma anche di rimanervi attaccati, quando l’appartenenza è liberamente accettata: garantire tutto a tutti senza imporre nulla a nessuno, fino a quando non si incontra il limite della violenza. E poi si tratta di avere fiducia negli esseri umani e nella fecondità dell’incontro tra persone e culture diverse. La grettezza risentita non è un bene. Il mescolamento delle culture, dei colori, delle abitudini può essere molto più bello della monotonia e della monocromia: basta sostare all’uscita delle scuole e guardare la varietà di certe classi di scuola materna ed elementare. Non voglio scadere in considerazioni estetizzanti e moralistiche, ma proprio a Torino ci sono esempi positivi di convivenza ­­­­­114

multiculturale, se è vero che certe scuole in certi quartieri, un tempo quartieri-ghetto, sono diventate attraenti per i figli di famiglie di quartieri diversi. em 

Hai fatto un esempio – le relazioni sentimentali – per mostrare come funzionano i tuoi schemi. Applicazioni in tutti i campi di frizione: i requisiti per l’ingresso in Italia, i simboli, la formazione delle classi di studenti, l’abbigliamento, perfino le scelte urbanistiche. Riconosciamo che non è facile. Il caso di Hina, la ragazza di vent’anni ammazzata nel Bresciano da suo padre con lo zio e due cognati e sepolta nel giardino di casa proprio perché, da immigrata pakistana di seconda generazione, voleva uscire dai codici culturali e familiari d’origine, vivendo all’occidentale, rappresenta secondo me la frontiera. Nella stessa famiglia, nella stessa casa circondata dal paesaggio italiano più comune e ordinario, convivono due culture irriducibili a se stesse, fino al delitto. So che è un esempio estremo quello di un padre che ammazza la figlia. Ma l’omicidio, paradossalmente, è ciò che emerge in pubblico, ciò che ci coinvolge perché è qualcosa che vediamo. E prima? Che conflitto, che incomprensione, che fatica di vivere e convivere c’è prima del delitto, dietro quella porta chiusa? Per chi vede l’immigrazione solo come un problema, proprio questo dovrebbe essere il pericolo: che sotto la normalità si alimenti e cresca una differenza così radicale nella sua ghettizzazione (e autoghettizzazione, naturalmente) da diventare non più sopportabile. Solo l’emancipazione attraverso il lavoro e attraverso la cittadinanza è il rimedio, e la possibile salvaguardia. Torniamo alle povere garanzie che noi – in mezzo al ciclone – possiamo dare a noi stessi, a quella che chiamiamo la democrazia della vita quotidiana.

La Chiesa nella «nuda piazza pubblica» gz 

Il discorso sulle questioni connesse con la presenza nel Paese di nuove culture e di religioni diverse da quella domi­­­­­115

nante ci ha portato a fare riferimento ad alcune posizioni della Chiesa cattolica. E questo richiama inevitabilmente una quantità di interrogativi nevralgici per la qualità della democrazia. em 

Infatti. Scienza e fede sono ritornate a confrontarsi pubblicamente, dopo che il progresso ha riaperto la grande questione che circonda il momento dell’inizio della vita e il momento della morte. La democrazia, teoricamente, potrebbe assistere neutrale a questo confronto perché non riguarda direttamente ciò che lei amministra: le istituzioni, il diritto, i diritti, l’uguaglianza. Ma in realtà il confronto tra la Verità e le verità chiama in gioco un criterio di lettura e decifrazione del mondo, di comprensione dei fenomeni, e per questo interessa il cittadino in quanto soggetto centrale della democrazia, e il suo diritto a conoscere e a sapere per poter partecipare e decidere. Dunque la democrazia non può mai farsi i fatti suoi, perché i fatti sono suoi, se li consideriamo come elementi di crescita della coscienza e della consapevolezza del cittadino, attraverso l’intelligenza degli avvenimenti. Sto dicendo, in sostanza, che la democrazia non può essere indifferente al concetto di verità, dunque alla sua definizione e quindi alla trasparenza. Per conseguenza la democrazia è investita dal problema della menzogna e della mistificazione, perché questa non soltanto confonde il cittadino, ma altera la libertà della sua valutazione e del suo giudizio finale: oltre ad incidere su sentimenti e risentimenti individuali e collettivi, creando una cornice ingannevole che influenza il libero formarsi del consenso e del dissenso.

gz  Il rapporto di cui parli è tanto più importante e problematico per il fatto che in Italia ogni discussione su religione e politica, Chiesa e Stato, società religiosa e società civile si svolge nel segno della reciproca diffidenza e del sospetto. Non siamo un’eccezione. Anche altrove è così, ma forse non negli stessi termini e gradi. Il mondo laico vive un retaggio avvelenato da secoli d’incomprensione, di persecuzione e d’in-

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quisizione che non si lascia cancellare da tardivi – sebbene importanti – riconoscimenti di colpa. Questi riconoscimenti – penso alla «purificazione della memoria» di cui ha parlato Giovanni Paolo II nella bolla di indizione del Giubileo del 2000, o al documento Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato della Commissione Teologica Internazionale, dello stesso anno – al mondo laico in generale non sembrano sufficienti a cancellare quelle ombre, anche per il fatto che la domanda di perdono rivolta a Dio ha messo in causa solo la responsabilità di alcuni «suoi figli» e non la Chiesa come tale. La Chiesa come autorità dogmatica non è mai stata, per così dire, «relativizzata» in modo da cessare d’essere una potenziale minaccia per la libertà della società civile. Per i laici, dunque, le ragioni del sospetto e della diffidenza si radicano nell’esperienza del passato e, non risolte, si proiettano nel futuro attraverso il presente. Per i cattolici, invece, le ragioni del sospetto e della diffidenza riguardano soprattutto le prospettive del futuro. Il motivo del timore non è più tanto la ragione filosofica, come è stato nei secoli scorsi, quanto la ragione scientifica. Questa è l’insidia. La scienza, per essere interamente fedele a se stessa, è pienamente secolarizzata e così si pone in rapporto di autonomia rispetto alle verità della Chiesa. Il campo della fede si riduce progressivamente perché si estende quello della conoscenza scientifica. La fisica, essenzialmente laica, insidia la metafisica, essenzialmente religiosa. Laici e cattolici si parlano perché devono pur coesistere, ma – in definitiva – si temono. em 

Sebbene una corretta lettura della realtà distingua tra storia e mito, tra leggenda e accadimento, e ovviamente tra il dogma e la scienza, non necessariamente deve distinguere tra la ragione e la fede, io credo: nel senso che possono procedere insieme, almeno fino ad un certo punto. Quel punto, riguarda il deposito di autorità dottrinaria nelle mani della gerarchia di una Chiesa, che lo amministra, decide gli aggiornamenti e le caducità, impone il dogma, dà un nome quotidiano al Bene ­­­­­117

e al Male e parla da titolare della Verità. Cioè il punto critico tra fede e ragione, a mio parere, è il passaggio dalla coscienza religiosa individuale al canone dottrinario dell’autorità. gz  Ratio e fides non si lasciano confondere in un solo pasticcio in cui ci sia posto per entrambe sullo stesso piano. E il motivo è sostanziale: entrambe vogliono essere esperienze conoscitive, ricercano la verità, ma sono antitetiche nel metodo, nello «statuto»: l’una procede, anzi si sviluppa a partire dall’esperienza, attraverso prove, correzioni, ipotesi e smentite che non conoscono argomenti ex auctoritate ma solo «dubbi metodici». L’altra procede, anzi discende dalla parola di Dio, amministrata da un’autorità che si fonda sulla sua infallibilità. L’incompatibilità dei procedimenti è radicale e i risultati lo possono essere altrettanto. Al di sotto delle dichiarazioni di mutuo rispetto, credo che ci sia proprio una grande, incolmabile distanza. Tanto più che lo sviluppo della ricerca scientifica intacca oggi anche le questioni che fino a poco tempo fa si consideravano insondabili razionalmente ed erano appannaggio delle verità di fede. Mi riferisco alle questioni relative all’origine del mondo e della vita e non solo. Nelle possibilità delle cosiddette neuroscienze rientra perfino la spiegazione – secondo leggi di competenza della biologia, della chimica, della neurologia, ecc. – delle esperienze della psiche, fino a ora ascritte al campo di ciò che chiamiamo spirito o anima. L’esito della battaglia della scienza per il «disincantamento» della vita degli esseri umani non è inimmaginabile. Ratio e fides: l’una o l’altra deve prevalere. L’idea che ragione e fede possano «dimorare insieme come il lupo e l’agnello», non mi pare appartenere al tempo che viviamo; semmai apparterrà al tempo, se mai ci sarà, in cui tutte le contraddizioni andranno a ricomporsi, il tempo apocalittico. L’insegnamento odierno della Chiesa con Joseph Ratzinger, prima segretario della Congregazione per la dottrina della fede e poi sommo Pontefice, cerca di evitare il problema, ma

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non mi pare che il suo tentativo si possa dire riuscito. Nei fatti, la Chiesa e la scienza proclamano entrambe, quando si ritengono competenti, la supremazia dell’una sull’altra. Anche il tentativo – operato nel celebre dialogo Habermas-Ratzinger alla Katholische Akademie in Bayern nel gennaio 2004 – di attribuire alla ragione la funzione di «purificare» la fede dal pericolo del fanatismo e alla fede la funzione di difendere la scienza dalla tentazione dell’onnipotenza, per quanto animato dalle migliori intenzioni, mi pare inconcludente. Dato che queste due «funzioni» vengono attivate in caso di contrasto tra due forme di «conoscenza» eterogenee e ciascuna delle due parti è, per così dire, giudice in causa propria, scienza e Chiesa possono sempre prendere la parola in nome delle rispettive pretese per mettere l’altra nell’angolo e nessuno può imparzialmente distribuire ragioni e torti. em 

Ci stai portando fuori strada. Il nostro non è un discorso filosofico.

gz  Hai ragione. E poi tali questioni sono molto complesse e noi vi ci siamo introdotti imprudentemente. Non so se sapremmo andare molto oltre queste prime impressioni. em 

Parliamo dunque dell’Italia e della particolarità, per la nostra democrazia, determinata dalla presenza della Chiesa cattolica nel nostro Paese. Prima, però, mi togli una curiosità. Tu ti ascrivi, o ti ascrivono, al campo laico. Ti ci riconosci? Sono messo in sospetto dal fatto che qui e altrove abbondi in citazioni di passi biblici e non solo in funzione esornativa ma anche in funzione argomentativa. Te lo domando per un problema di responsabilità: chi siamo noi, che parliamo di Chiesa e democrazia? Siamo dentro o siamo fuori?

gz  Così ancora una volta rischiamo di andare fuori strada. Cerco però di rispondere a questa domanda molto intima, che si potrebbe pensare costringa a fare i conti con quella cosa che chiamiamo fede, solo perché forse, nella risposta,

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si può trovare una prospettiva di non-inimicizia tra mondo laico e mondo cattolico (con le altre confessioni religiose, il problema non si pone). Ma sappi che, dopo, la stessa domanda la rivolgerò io stesso a te, se vorrai rispondere. em D’accordo. gz  Un luogo comune è che la lettura dei testi biblici debba essere riservata a chi appartiene alla Chiesa. La Chiesa stessa alimenta questa idea quando dice che l’interpretazione corretta può darsi solo dentro la tradizione di cui il magistero ecclesiastico è custode. La conseguenza di questo arroccamento è molto importante e, a mio parere, molto negativa: il monopolio e la separazione. em 

Per esempio, non si ammette un insegnamento e un apprendimento laico della Bibbia nelle scuole. L’«ora di religione» a che cosa si è ridotta: posti d’insegnamento a disposizione delle curie vescovili, piuttosto che tempi di formazione spirituale e culturale.

gz  È così. La Chiesa osteggia l’inserimento della storia del cristianesimo o delle religioni in generale nei programmi scolastici e, invece, vuole che vi sia una materia confessionale, «dispensata» da insegnanti cui essa possa dare il suo «nulla osta». Proposte di apertura sono state fatte. Per esempio, dall’associazione di credenti e non credenti – «Biblia» – che da anni si muove nella direzione che dicevo. Ma si è sempre scontrata con l’ostilità difensiva della Chiesa. em 

Quindi, tu dici che i testi sacri del cristianesimo possono parlare al di là della cerchia dei credenti. E io sono ovviamente d’accordo. Così come la grande letteratura può spingerti a riflettere su Dio, attraverso strade che non portano alla conoscenza ma, potremmo dire, alla coscienza, all’illuminazione, o al dubbio. Prendiamo di nuovo Bulgakov. Che cosa dice il Demonio appena arrivato a Mosca, quando sulla panchina de­­­­­120

gli stagni Patriaršie ascolta il dialogo sull’ateismo tra Berljoz e Bezdomnyj? Lui, che era sul Golgota e ovunque, dice semplicemente: «Tengano presente che Gesù Cristo è esistito». Tu sai che questo dato storico dell’esistenza di Gesù distingue il cristianesimo dalle filosofie religiose. È un punto di forza per chi crede. Don Giussani ad esempio, fondatore di Comunione e Liberazione, ha basato qui tutto il suo pensiero di fede, spiegando che il cristianesimo non si fonda su una cultura ma su un «avvenimento», qualcosa che è accaduto concretamente in un punto definito nel tempo (duemila anni fa) e nello spazio (Betlemme). Naturalmente ciò che è accaduto è la nascita di un uomo chiamato Gesù, che dicevano fosse il figlio di Dio. Credere che lo sia è questione diversa, perché è questione di fede. Solo se credi nel Dio incarnato sulla terra tu «non potrai più mangiare e bere come prima», e si capisce perché. Ma questo richiamo all’«avvenimento» è importante a mio parere anche per altre ragioni, oggi molto attuali, che riguardano il nostro discorso sulla democrazia. Se il cristianesimo si basa su questo fatto preciso e prende forma e ragione ritornando continuamente a questo fatto storico, non può essere ridotto a filosofia, a cultura, a precettistica, a ideologia. Non è dunque una costruzione intellettuale, un sistema di filosofia morale, un manuale politico e culturale di buona convivenza. No, per chi crede è l’opposto. Ciò in cui crede è «accaduto», resurrezione compresa, è realtà: anzi, ci crede perché è accaduto. Gli «atei devoti» che senza credere usano il cattolicesimo come arma politica e come ideologismo di difesa e d’attacco, sono proprio la negazione dell’«avvenimento» cristiano. Gli basta il sistema di credenze, brandito e svalutato nel suo valore d’uso quotidiano, dunque svuotato del suo vero senso. Ma scusa, sono andato oltre. E tu, partendo dai tuoi testi sacri, dove arrivi? gz  Da molte parti! Lo starec Zosima de I fratelli Karamazov splendidamente definisce le Scritture in questo modo: «una specie di bassorilievo del mondo e dell’uomo e dei caratteri umani, dove tutto ha il suo nome e la sua connotazione per i

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secoli dei secoli»*. Un bassorilievo dove c’è tutto un mondo, a saperlo interpretare; non solo il mondo della fede. Si tratta di far parlare gli eventi narrati dalle Scritture per quel che ci dicono oggi e lasciarci sorprendere dalla vitalità di quelle narrazioni. Secondo l’espressione di un grande e libero cristiano quale è stato Sergio Quinzio, esse sono lì come una mano tesa che non cessa di indicarci prospettive sempre nuove e vitali, del tutto indipendentemente dalla fede cristiana. Vi si possono cercare valori artistico-letterari, informazioni storiche per la ricostruzione della vita politica e sociale in quei luoghi e in quel tempo, insegnamenti per una visione morale della vita e parole che ci dicono di Dio per farne una teologia. Sono evidentemente prospettive indipendenti, pongono problemi diversi e richiedono metodi interpretativi adeguati ai loro propri fini. Solo così, si può uscire dal recinto della catechesi, che chiude, separa e impoverisce la grande ricchezza delle Scritture. Insomma, sono testi «sapienziali» al massimo grado. Tutto qua! Da questo punto di vista, non interessa né la veridicità storica degli eventi narrati né la loro matrice divina. Si tratta, direi così, di spirito umano consolidato nel confronto plurimillenario con l’esperienza umana, di generazione in generazione. Non c’è nessuna ragione per negare a questo spirito consolidato una sua realtà e una sua verità come a qualsiasi altro. Per esempio: la narrazione del processo e della condanna di Gesù di Nazareth che leggiamo nei quattro evangeli è piena di contraddizioni. Se fosse presentata come atto d’accusa giudiziario contro Pilato, contro il Gran Sinedrio o contro il popolo di Gerusalemme, ogni giudice rigoroso la considererebbe «non probante». Eppure, quale ricchezza di contenuti che spiegano le dinamiche del potere e le motivazioni che muovono gli uomini del potere, religioso e politico! em 

Vuoi dire che quei venerabili testi hanno una loro «verità» indipendentemente dalla storia e dalla teologia? *  Einaudi, Torino 1993, p. 338.

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gz  Dici bene. Si potrebbe anzi arrivare a sostenere, per nulla paradossalmente, che la potenza paradigmatica delle narrazioni che vi leggiamo sarebbe addirittura accresciuta se si potesse provare che nulla di ciò che vi si dice è accaduto realmente. Quanto ai vangeli, si potrebbe dare importanza alla totale assenza di fonti religiose ebraiche che parlino di Gesù; oppure, ci si potrebbe limitare ad accettare come nucleo storico inoppugnabile quanto dice Tacito, al limitato scopo di spiegare l’origine del nome «cristiano»*, o Flavio Giuseppe nel cosiddetto Testimonium flavianum**, in due passi fortemente sospettati peraltro di una non disinteressata interpolazione. Oppure, si potrebbe ritenere che non esiste alcuna possibilità di ricostruire un «testo originario», una narrazione primigenia che faccia premio su successive manipolazioni abusive. Tutto questo riguarda la critica storica e filologica. Non scalfirebbe il fatto, anzi lo esalterebbe, del valore di parole che hanno parlato e parlano con profondità allo spirito umano. em 

ma.

Come uno dei grandi «classici» della letteratura, insom-

gz  Così. Con l’aggiunta che, a mio parere, si tratta non di un grande, ma di un grandissimo classico. em 

Tutto qui? In questo «grandissimo», c’è per te un passaggio dall’ambito della cultura del mondo a qualcosa di diverso, alla fede nel divino?

gz 

Su questo non ti rispondo. Se c’è un punto della coscienza che non si presta a risposte definitive e che, comunque, non dovrebbe essere messo in piazza è proprio questo: il punto dell’eventuale passaggio dalla ragione alla fede. *  Annali, XV, 44, 2-3: «L’autore di quel nome, Cristo, era stato condannato a morte sotto Tiberio dal procuratore Ponzio Pilato». **  Antichità giudaiche, XVIII, 63-64, ove si narra di Gesù che «Pilato condannò alla croce, in base alla denuncia dei nostri [degli ebrei] notabili».

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Innanzitutto, quello che chiamiamo fede non si presta a essere oggetto di possesso, come se fosse «una cosa»: la fede «non si ha». Si può «essere di fede», con tutte le incertezze e le oscillazioni che accompagnano sempre e comunque l’umana esistenza. Chi su questo punto non tace con ritegno rischia l’ipocrisia, come è per tanti uomini pubblici che ostentano improbabili fedi cristiane per i beni mondani che ne possono derivare; oppure che, ancora più incredibilmente, per la stessa ragione – per ricercare la benevolenza dei potentati ecclesiastici – si dichiarano impegnati nella «ricerca» del divino. Dovrebbero essere evangelicamente fulminati dal Dio che fanno finta di avere a cuore, il quale chiede «opere», non belati: «Signore, Signore» (Mt 7, 21). La domanda che invece ha senso, e alla quale si può dare una risposta, è se si appartiene alla Chiesa, se se ne accettano i dogmi, l’autorità, il magistero: in una parola, se si appartiene alla Chiesa come potenza mondana. Fede e Chiesa, cristianesimo e «cristianismo» sono due cose diverse. Si può essere uomini e donne di fede indipendentemente dalla Chiesa e si può appartenere alla Chiesa indipendentemente dalla fede. Inutile perfino fare esempi del primo tipo: la storia del cristianesimo ne è piena; esempi del secondo tipo sono gli «atei cattolici» come il fascista, fondatore della Action Française, Charles Maurras, i «cristiani atei» come Mussolini e come i loro epigoni nostrani, i cosiddetti «atei devoti», ai quali hai già fatto un importante accenno. Essi, trovando tanto più ascolto quanto più si sale nella gerarchia ecclesiastica, si rivolgono alla Chiesa per rivestire le loro aggressive idee politiche della forza della religione, nella battaglia che hanno dichiarato contro coloro ch’essi stessi additano come nemici d’una da loro presunta «identità cristiana» dell’Occidente. Ora, se tu mi chiedi se io mi considero appartenere alla Chiesa, la risposta è no. Aggiungo anzi, in generale, che una religione come quella di Gesù di Nazareth, che è una religione della libertà, mi pare macroscopicamente in contrasto con la Chiesa cattolica romana come istituzione di potere, quale si è venuta a determinare nel corso di vicende plurisecolari, istituzione che ha permesso e spesso ­­­­­124

alimentato invereconde commistioni tra poteri d’ogni genere. E ora a te la parola. em 

Non ho molto da dire su di me. Io, appunto, tengo presente che Gesù Cristo è esistito. Voglio dire che sono cresciuto con l’educazione cattolica di mia madre e ne ho rispetto dentro di me. Cerco di studiare, per capire: mi interessa molto, ad esempio, la figura del Padre. Ma da fuori, da solo. Non riconosco autorità alla Chiesa, nel piccolo spazio che mi riguarda. Le dedico molta attenzione, per lavoro e per interesse culturale. Nient’altro. Ti basta?

gz 

Non spetta a me rispondere sì o no.

em 

Riprendiamo allora il cammino, lasciato per questa digressione. Riprendiamolo dal tuo accenno all’identità cristiana dell’Europa. Su questo, è aperto un dibattito che mi pare abbia una doppia posta in gioco: il riconoscimento del cristianesimo come pilastro dell’auto-comprensione che gli europei dovrebbero avere di se stessi e che dovrebbe essere sancito nella futuribile Costituzione del nostro continente; l’assunzione del cristianesimo dalle nostre società come fattore di coesione civile. A me pare che non si debba segnare la Carta costituzionale di un continente (che abbraccia storie, popolazioni e culture diverse, e deve proiettarsi negli anni e nelle generazioni che verranno) con l’impronta di una religione particolare. Questo non significa negare l’influenza che il cristianesimo ha avuto sulla civiltà europea. Ma ciò che noi siamo, non nasce da una religione, bensì da un insieme di vicende storiche di cui le fedi sono parte. Certo, quando anni fa ho sentito un leader turco parlare dell’Europa come di «una cricca di cristiani», mi sono detto che questa identità è avvertita più dagli altri che da noi. Io credo dunque che si debba dichiarare esplicitamente che il cristianesimo ha segnato l’Europa. Ma la Costituzione non ha radici nella fede, non la riconosce come antecedente culturale, è in qualche modo autosufficiente. La nostra statualità è debitrice nei con­­­­­125

fronti della storia del continente, anzi delle sue storie, delle varie fedi e delle culture, ma è libera e autonoma. L’obiezione, di regola, riguarda il richiamo esplicito al Creatore nella Dichiarazione americana d’indipendenza. Ma è un’affermazione che vuole sottolineare l’uguaglianza di tutti gli uomini, facendola discendere da Dio, come dal diritto naturale. E poi, il richiamo a Dio è diverso dal rilievo specifico dato ad una religione rispetto alle altre. gz 

L’identità è un concetto pericoloso, se lo trattiamo con leggerezza. Può diventare l’involucro in cui stanno racchiuse le pretese all’omogeneità di cultura, religione, etnia, perfino sangue e razza. La stessa omogeneità in nome della quale si rivendica quel diritto di dire «a casa mia» di cui già abbiamo parlato, e che è il presupposto per politiche difensive e aggressive nei confronti dei «diversi». Su questo, filosofi, storici, antropologi hanno da tempo richiamato l’attenzione con dovizia di argomenti. Quello che è chiaro, è che l’identità non è un concetto neutro, obbiettivo, puramente descrittivo. È un concetto selettivo e, al tempo stesso, normativo. Selettivo, perché in riferimento a una popolazione e, ancor di più, a un intero continente, che cosa si deve assumere per definire la loro identità? Tutto ciò che essi sono stati, la loro intera esperienza protratta nel corso della storia? Per l’Italia, il fascismo e l’antifascismo, la laicità e il clericalismo, la cultura elitaria e l’ignoranza plebea, la democrazia e il clientelismo? Sono solo esempi. Molte cose ci sono nella nostra storia, ma non tutte possiamo assumerle a elemento costitutivo dell’identità. La stessa cosa per l’Europa, un continente di diverse centinaia di milioni d’abitanti che molto ha tentato, sopportato, inventato. L’identità europea è l’Umanesimo o il tomismo, il cristianesimo, l’ateismo o il teismo, è la tolleranza o la Santa Inquisizione, il cattolicesimo o la Riforma, il dogma religioso o la libertà di coscienza, i diritti individuali o la potenza dello Stato organico, l’universalismo o il «sangue e suolo», l’individualismo o il totalitarismo, l’uguaglianza dei cittadini, i ceti o ­­­­­126

le classi sociali? Come è chiaro, tutto questo – anzi, il conflitto tra tutto questo – ci ha portato fin qua, ma per definirci non potremmo dire che questo «tutto» è una identità: è un tale caos di fattori che – a riportarli semplicemente – dovremmo concluderne che non abbiamo alcuna identità. em 

Allora? Siamo obbligati a rinunciare al concetto e, con questa rinuncia, a concludere che non sappiamo né possiamo sapere chi siamo, così esponendo le nostre società, senza difese, alle incursioni e alla sconfitta da parte di chi invece dal canto suo lo sa benissimo? Penso ai diversi integralismi che agitano il mondo: ad esempio, all’integralismo islamico o al «pensiero unico» funzionale al liberismo assoluto. Non credo che l’Europa possa rassegnarsi ad essere solo un’espressione geografica, a concepire se stessa come un semplice contenitore e nemmeno come un esito storiografico. Né può essere la sola moneta l’espressione unitaria del continente, una moneta tra l’altro senza esercito e senza politica estera, senza sovrano perché senza politica: altro che identità.

gz  No. Per me, l’identità è importantissima. In fondo, dire identità significa dire chi siamo. Senza sapere chi siamo non possiamo vivere in quanto esseri umani, come individui e come società, e nemmeno entrare in un contatto costruttivo gli uni con gli altri. Saremmo ridotti allo stato animalesco: gli animali infatti – almeno così crediamo di loro – sono incapaci di autocoscienza. Ma l’identità non è quel che siamo, ma quel che vogliamo essere. Ecco il concetto normativo. Il passato ci offre tante possibilità. Sta a noi fare la selezione e decidere che cosa coltivare per il presente e per il futuro, e che cosa invece vogliamo lasciar cadere. Tuttavia, per alcuni è degno d’essere salvato quello che ad altri pare indegno, e viceversa. Per questo l’identità che, a prima vista, sembra il discorso della concordia, il discorso su «che cosa tutti quanti ci accomuna», diventa invece il terreno dei conflitti più aspri, il conflitto tra diverse visioni di ciò che siamo stati, siamo e decideremo di essere.

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em 

L’identità non è la natura delle cose. È il risultato della natura, del contesto e della scelta, dunque è un concetto in movimento – non solo ciò che siamo, ma ciò che siamo diventati – un’idea politica di sé. In questo senso, come avrai visto, io abuso del concetto di Occidente. Penso che sia la forma d’identità politico-culturale che le nostre democrazie proiettano sulla geografia e sulla storia delle nostre nazioni. Lo lego alla democrazia dei diritti e alla democrazia delle istituzioni. Dunque, da un lato ritengo quel concetto attuale e vitale, anche dopo la caduta del Muro, perché quell’identità che ieri affermavamo per differenza rispetto all’Est comunista oggi la possiamo affermare per scelta risolta, come nostra natura definitiva; dall’altro lato, l’identità di un Occidente consapevole della democrazia è utile anche per l’Italia, è una cornice e un obbligo. Qui dentro, certo, c’è lo specifico europeo. L’Europa è Occidente, ma è anche se stessa. E tu non hai ancora risposto: come risolvi il problema delle «radici cristiane» dell’Europa? Cosa implica, a questo proposito, il tuo ragionamento sull’identità?

gz  Implica, apparentemente, un’inclusione; effettivamente un’esclusione. em Cioè? gz  Se è vero, come abbiamo detto, che ogni identificazione identitaria implica una selezione, s’io lego l’immagine dell’Europa alla sua storia cristiana – che nessuno nega esistere, anche se il giudizio sul valore di questa storia può essere, tra noi, legittimamente anche molto diverso – significa ch’io devo trascurare altri legami o, almeno, declassarli rispetto a quella storia. Tutti non li posso assumere nella stessa misura, perché sennò non ne verrebbe fuori nessuna identità, ma un volto sfregiato in cui nessuno potrebbe riconoscersi. Il Trattato costituzionale europeo, nel Preambolo, dice di ispirarsi «alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della per-

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sona, della democrazia, dell’uguaglianza, della libertà e dello Stato di diritto»; l’articolo I-52, a sua volta, prescrive il rispetto e il «dialogo aperto, trasparente e regolare» con tutte le chiese e le associazioni, comunità religiose nonché con le «organizzazioni filosofiche e non confessionali». Qui c’è tutto! Il che vuol dire che la «identità europea», in questo campo, coincide con la «non identificazione» in niente. Il rilievo specifico e speciale dato alle «radici cristiane» significherebbe il declassamento di tutto il resto. Sarebbe un privilegio e una discriminazione. Si comprendono allora le reazioni negative. em 

Queste considerazioni valgono dal punto di vista delle Chiese, confessioni, organizzazioni filosofiche e non confessionali, come dicono i passi che hai citato con un linguaggio che vuole abbracciare ogni manifestazione organizzata dello spirito, e sullo stesso piano. Ma domandiamoci, a questo punto, se la Chiesa cattolica può, ad esempio, ammettere d’essere messa alla pari della massoneria o di una setta teosofica.

gz  Per l’appunto! Vedi dove si va a finire con questo genere di discorsi: nel conflitto. em 

Ma oggi il rapporto privilegiato della società civile con la religione – la religione cattolica – viene proposto per un’altra ragione. Non è la Chiesa a chiedere aiuto alla società, ma la società alla Chiesa. Faccio solo due esempi: il costituzionalista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, con l’intento nobile di promuovere una più intensa partecipazione dei cattolici alla vita pubblica; gli atei devoti, con l’intento meno nobile di stabilire un’alleanza di potere, una volta si sarebbe detto tra trono e altare. La Chiesa naturalmente concorda. Ma la società cos’ha da dire in proposito? La frase di Böckenförde è molto impegnativa: «Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non è in grado di garantire». Vale a dire che senza la dimensione dell’ultraterreno l’umano si perde e si smarrisce. Non solo, ma significa anche che il nostro orizzonte non dipende da noi. Anzi: persino l’orizzonte della ­­­­­129

quotidianità, delle nostre opere e dei nostri pensieri acquista un senso soltanto nel legame con la trascendenza, nella capacità, o nell’umiltà, comunque nella consapevolezza di ancorare i valori umani, civili, culturali e politici a un valore morale superiore, necessario per dare significato al tutto. L’intera costruzione materiale e morale dell’uomo non solo è finita, per definizione e come sappiamo, ma è irrimediabilmente parziale, incompleta, dunque inane, quasi inutile. Io non credo che sia così. Non credo che per essere capaci di dare un senso alla vita noi dobbiamo per forza cercare fuori da noi una verità rivelata, perché le nostre verità sono tutte deludenti e inabili. Guarda che per questa strada si finisce per relativizzare anche la democrazia, la sovranità, l’autonomia della politica e degli Stati: tutti soggetti ad un deposito di valori ultimo ed esterno, non discutibile, non negoziabile, che parla al singolo e alla collettività statuale attraverso un’autorità anch’essa separata e distinta, la Chiesa. Capisco la convenienza della Chiesa, non del cittadino, peraltro gerarchizzato inevitabilmente tra chi crede – e quindi esercita naturalmente questo vincolo di garanzia alla Verità extraterrena – e chi non crede, e si sente dire che il suo sforzo civile e morale, anche spirituale, può essere sincero e nobile, può durare tutta la vita ma non garantisce il sistema di convivenza in cui opera, per una sua insufficienza intrinseca: che non potrei definire altrimenti che umana. gz 

Sì, ma farei una precisazione: la Chiesa come organizzazione di potere cerca qui le sue convenienze, non certo così tutte le comunità cristiane che, più che nel potere, sono impegnate nelle opere di carità cristiana e nella evangelizzazione delle coscienze. C’è una differenza di cui dovremmo e dovremo tenere conto. Quello che tu sottoponi alla nostra attenzione è il tema della «religione civile» o, meglio, della religione come religione civile. Non è una precisazione di poco conto. Di «religione civile» si parla da un punto di vista laico: l’etica, la dedizione al bene comune, la subordinazione degli interessi personali all’interes­­­­­130

se pubblico, il senso dello Stato e delle istituzioni, la virtù repubblicana, l’ossequio alla Costituzione e il rispetto delle leggi, ecc., sono tutti aspetti della «religione civile». Ma qui parliamo della religione come religione civile, cioè del trasferimento delle obbligazioni religiose nel campo delle obbligazioni civili: cioè della loro sostituzione alla religione civile nel senso sopra detto o, almeno, della loro mobilitazione in soccorso delle obbligazioni civili. La compattezza delle società occidentali pare intaccata dal pericolo di disgregazione. La Chiesa si propone in funzione tutelare, offrendosi come dispensatrice di quel «consenso etico di fondo» che sembra mancare. Che la religione cristiana possa servire a questo scopo e non invece al contrario, a creare, semmai, inquietudine nel mondo in nome di valori non mondani, a me pare a prima vista cosa assai curiosa, per non dir di più. Ma questa è una considerazione che può avere rilievo dal punto di vista dell’essere credenti in Gesù, il Cristo. Per quanto ci riguarda qui, questa profferta chiama in causa il rapporto tra Stato e Chiesa, cioè tra società civile e società religiosa. em 

E qui, dobbiamo dire che in questi anni abbiamo assistito, non solo in Italia, al gran ritorno della religione nel discorso pubblico e nello spazio politico, dopo che sembrava confinata in una dimensione privata di fedeltà e di testimonianza individuale. Ma da noi – ecco il punto – non si entra nel post-secolarismo attraverso il «fatto» cristiano, e cioè il messaggio della Rivelazione e la recita del Credo, ma attraverso la precettistica e la dottrina morale. Una specie di guida religiosa ai comportamenti privati, soprattutto per quanto riguarda i momenti cardinali dell’inizio della vita e della sua fine, la procreazione e quindi la sessualità. Ciò avviene nella convinzione che i precetti e la morale della Chiesa rispecchino la Verità superiore e dunque offrano una profondità e un’autenticità di significato che le verità laiche non possono avere, limitate come sono dalla natura umana, dunque finite e per forza di cose relative, incapaci di comprendere l’assoluto. Ma la Chiesa dice ­­­­­131

anche che la sua precettistica e la sua morale coincidono con il diritto naturale per la connessione tra l’ordine della Creazione e della Redenzione. La riconquista della società italiana muove quindi dall’etica, con i precetti della Chiesa che danno corpo ad una sorta di sovrastruttura della fede, attraverso la quale il cattolicesimo da religione delle persone rischia di diventare religione civile. Il presupposto è che le società democratiche non sappiano ormai più pensare se stesse né provvedere al proprio futuro per l’insufficienza del loro fondamento etico. Come se la democrazia stessa avesse bisogno di un supporto esterno, di una risorsa estranea di verità, di un orizzonte di destino più ampio di quello che è in grado di concepire autonomamente. Di una supplenza cristiana. gz  Stiamo parlando di una questione sulla quale si fanno confusioni. Potremmo dire molte cose sulla legittimità dell’offerta che la Chiesa fa della sua autorità, per rafforzare la compagine sociale, e dell’attitudine delle autorità dello Stato ad accettarla. Dal punto di vista della religione di Gesù, a me pare un’aberrazione, se è vero che quella è la religione della libertà delle coscienze, non dell’ordine costituito. Il Cristo e il suo messaggio trasformati in cemento sociale! La Chiesa stessa, quando proclama ed esige ciò ch’essa definisce la libertas Ecclesiae, una libertà speciale, la cui sorte non deve coincidere con la libertà in generale (questa è la ragione per la quale essa richiede la disciplina concordataria dei rapporti con gli Stati, cioè una disciplina che fa eccezione al diritto comune): la Chiesa stessa – dicevo – quando serve, si presenta come un’autorità trascendente, non di collaborazione del potere ma di critica e, se occorre, di contestazione del potere. Che da quattordici secoli, in forme storicamente diverse ma simili nella sostanza, sia accaduto il contrario, cioè che dal tempo di Costantino e Teodosio la Chiesa abbia offerto le sue prestazioni per il reggimento, per il governo, per il dominio delle società, significa solo che da molto tempo la «buona novella» è stata corrotta. Ora, la purificazione dal potere sembra perfino impensabi-

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le. Coloro che la predicano dall’interno sono, come sempre sono stati, messi ai margini e ridotti al silenzio. Dal punto di vista della società civile, rappresentata dallo Stato, c’è poi l’abdicazione della sua funzione che è quella di organizzare e assicurare la convivenza dei cittadini in base al loro «essere cittadini», cioè con le loro stesse forze. Il fatto che invece vi sia chi invoca o accetta il supporto della Chiesa è semplicemente la confessione della propria inadeguatezza al compito che in democrazia è assegnato a ogni cittadino e, massime, ai cittadini che ricoprono cariche pubbliche. Più terra terra, è anche un calcolo politico di potere e la Chiesa che non si sottrae finisce per invischiarsi in faccende torbide che, comunque, non le competerebbero. In breve: la religione come religione civile o politica è un tradimento, da qualunque parte la si guardi, dalla parte della Chiesa e dalla parte dello Stato. Occorre però distinguere la Chiesa come struttura di potere organizzato e la Chiesa come insieme di credenti che ­appartengono alla società civile, alla stessa stregua di tutti gli altri cittadini. La comunità dei credenti-cittadini ha tutti i diritti e i doveri di partecipare alla costruzione della vita socia­le, alla pari di chiunque altro, portando in questa le sue forze, ora coesive ora contestative, a seconda delle circostanze sociali e del loro giudizio su di esse. Ora, il motto di Böcken­förde («Lo Stato secolarizzato basato sulla libertà vive di presupposti che non può garantire. Questo è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà».)*, nel contesto in cui è inserito, vale come appello ai cristiani affinché si considerino parte attiva della società in cui vivono, mettendo da parte atteggiamenti di indifferenza per le sorti del mondo e dando il contributo che la loro fede può dare alla vita sociale. È stato inteso invece, dalla gerarchia cattolica, che ci si è buttata a pesce, come un’autorevole e dotta autorizzazione all’intromissione della Chiesa-istituzione nella vita civile e politica. * In La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, Morcelliana, Brescia 2006, p. 68.

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em 

Il passo in più, proprio in questi ultimi anni, e più volte, è stato il tentativo di pretendere che la legge civile basasse la sua forza sulla coincidenza con la morale cattolica, con l’affermazione di fatto di un’idea politica della religione cristiana, quasi un’ideologia, che non a caso è stata chiamata «cristianismo». L’etica cristiana, i suoi precetti, sono dunque diventati in senso largo strumenti di azione politica, dando forma al disegno del cardinal Ruini, quando nel 2002 profilava il cristianesimo come seconda «natura» italiana, concludendo che proprio per questo può essere trasgredito solo da leggi in qualche modo contro natura, e perciò contestabili alla radice. Senza più la classica distinzione repubblicana tra la legge del Creatore e la legge delle creature: che in caso di contrasto deve prevalere perché tutela i diritti fondamentali (tutti, dunque anche la libertà religiosa), ma di tutti, anche di chi non ha una norma divina di riferimento supremo. Guardiamo il percorso storico in cui questo passaggio si compie. Siamo alla terza fase: prima, la Chiesa poteva presumere di essere il tutto, affidando ad un unico soggetto politico – la Democrazia Cristiana – la traduzione nel codice statuale dei suoi precetti e la tutela dei suoi timori. Poi, all’apogeo di un papato universale come quello di Wojtyla, ecco la coscienza per la Chiesa di essere finita in minoranza in un Paese cattolico per battesimo ma scristianizzato nei fatti, improvvisamente «terra di missione» per una riconquista che dopo secoli vede la Chiesa da «tutto» diventare parte. Oggi infine la Chiesa avverte che le è consentito, nei fatti, ciò che nella repubblica non è permesso alle altre parti.

gz  «Nei fatti», appunto. «In diritto» non dovrebbe essere così. Oggi, ci pieghiamo ai fatti. em 

«In diritto» ogni componente della società, ogni identità culturale, nella sua autonomia deve riconoscere un insieme in cui le parti si ricompongono liberamente nella loro distinzione vitale: lo Stato. Ma è come se la Chiesa, mentre ammette per dichiarazione dei suoi vescovi, dal Giubileo in poi, di esse­­­­­134

re diventata minoranza nei numeri, non accettasse di veder andare in minoranza i suoi valori e faticasse a stare dentro la regola democratica della maggioranza e dei parlamenti mettendo in forse il principio per cui in democrazia le verità sono tutte parziali, perché lo Stato non contempla l’assoluto e i voti si contano e non si pesano. Per questa via la riconquista cos’è? Recupero dell’egemonia, con la Chiesa che separa infine il grano dal loglio costituendo un nuovo protettorato dei valori, nell’esercizio di un potere non più temporale, ma culturale. Ti è chiaro che questo progetto – in atto – può compiersi solo davanti ad un sistema politico gregario e disperso, incapace di testimoniare l’autonomia di un sentimento civile della repubblica, svuotato di identità al punto da vedere nella Chiesa l’ultima agenzia di valori perenni e universali dopo la morte delle ideologie e il deperimento fisico delle storie politiche che le avevano incarnate, oltre che un leggendario deposito di voti. Ti sembra troppo? Ti ricordo che solo pochi anni fa, nel 2001, il cardinal Segretario di Stato Sodano annunciò di voler fare un esame di congruità agli uomini politici italiani, esaminandoli sui cinque punti delle norme relative «alla vita, alla famiglia, alla gioventù, alla libertà scolastica, alla solidarietà». gz 

Prova a immaginare il contrario. Se, per assurdo che sia, un capo di governo un giorno chiedesse che si sottoponessero a un esame di coerenza ai principî costituzionali gli uomini di Chiesa. In fondo, sarebbe la stessa cosa, solo rovesciata. Ma una cosa può dirsi, senza che nessuno protesti per rivendicare l’autonomia dello Stato dalla Chiesa, l’altra è, invece, totalmente impensabile e, nel caso non lo fosse, immagina quale coro di proteste si leverebbe in nome della libertas Ecclesiae. Altro che Stato e Chiesa, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, come dice l’articolo 7 della Costituzione, nella sua prima proposizione. em 

Dobbiamo tener presente che la Chiesa ha davanti a sé partiti tutti nati recentemente, senza un deposito di storia e ­­­­­135

di tradizione, senza un portato di valori consolidati a cui far riferimento. Una politica, dunque, dove molto è prassi, tutto è contemporaneo, ogni approdo è provvisorio, l’identità è incerta. A sinistra, per la tragica eredità del comunismo, la tradizione è inservibile, come se fosse tutta radioattiva e il nuovismo spesso è scambiato per politica e addirittura la sostituisce, mentre dovrebbe servirla. A destra, da anni s’avanza uno «strano cristiano», così l’ho battezzato su «Repubblica», incapace di far nascere un nuovo sistema culturale che dia un codice moderno e davvero europeo a moderati e a conservatori, pronto a suggerire alla prassi di potere della nuova destra di prendere a prestito le idee forti nel deposito di tradizione della Chiesa italiana. La destra cerca un pensiero, la Chiesa cerca la forza perduta e nell’incontro di convenienze il verbo si fa carne, anche se pagana e vagamente idolatra. In questo quadro non possiamo non vedere la novità: la «riconquista» dei vescovi è quasi un Dio italiano che cammina, una sorta di via italiana al cattolicesimo in un Paese che non l’aveva mai avuta, nella presunzione di essere «naturalmente cristiano», e nella surroga papale. Il rifiuto ratzingeriano del relativismo tradotto dal linguaggio culturale a quello politico arriva fin qui: con l’intercapedine politica fragile o gregaria, la Chiesa scopre la tentazione di raggiungere direttamente il legislatore, o di bypassarlo. Ricordi il caso Eluana? gz  Come no? Spero che il ricordo e la riflessione in proposito non si spengano facilmente. Cerchiamo di ravvivare l’uno e l’altra. em 

Due cose, oltre alla pietà e al dubbio che hanno colpito e travagliato tutti, mi restano da chiarire. La prima riguarda il rapporto tra lo Stato e le vicende più intime, supreme degli individui, addirittura – se non fosse un azzardo – tra amore e democrazia. Perché l’amore, il rispetto per la persona, sembravano stare interamente dalla parte di chi si opponeva alle scelte del padre di Eluana. Quel padre – padre, capisci? ­­­­­136

– veniva visto e denunciato solo come strumento di morte. Ma in quel padre, mi sono trovato a pensare e a scrivere in quei giorni, per i 17 anni passati al capezzale di sua figlia incosciente si sommano il massimo dell’amore e del dolore. Non voglio dire che da questo debba nascere un suo diritto automatico a decidere che cosa è giusto. No. Ma so che attraverso questa esposizione suprema al dolore e all’amore per Eluana lui ha qualcosa in più del diritto, ecco, ha la coscienza per recuperare le volontà espresse un giorno da sua figlia e metterle a confronto con la sua stessa volontà, quella cosa che gli è cresciuta dentro durante una vita passata in un ospedale, accanto a un letto, in un tragitto che appartiene soltanto a lui e non è spiegabile a nessuno perché nasce dal mistero del rapporto più intimo e più autentico di un padre con una figlia, nei momenti supremi. Questo non avviene un giorno, all’improvviso. È il frutto della passione ostinata e dolorosa per la vita di sua figlia, e della risposta contraddittoria che talvolta gli viene da quel corpo inerte: che sia comunque una sopravvivenza, un modo di esserci; e al contrario che una vita così non è vita. Quante volte deve affrontare le due risposte, le due opposte rivelazioni di Eluana? Solo lui sa l’andirivieni tra il sentimento di speranza e d’inutilità, tra il senso del dovere e quello della sconfitta, tra una carezza e la memoria. Figurati. Potrebbe risolvere il suo problema senza farne un caso, nel silenzio dell’ospedale, chiedere magari pietà una notte, un giorno fare un gesto d’intesa con un medico, allargare le braccia e arrendersi. Ma ciò che ha davanti non è «un problema». È sua figlia. Quel legame domina su tutto, non sa come crescere e dare frutti, non sa come sciogliersi. È tutta la sua esistenza, unita per sempre a quella incosciente di Eluana, che non sanno dove dirigersi nell’immobilità di quella stanza, non concepiscono di lasciarsi. È tutto talmente più grande di lui che deve diventare un problema di tutti, o almeno un problema pubblico. Solo in questo modo uscirà da quella camera chiusa, e i 17 anni acquisteranno un senso anche per gli altri, per tutti. È così che Englaro chiede allo ­­­­­137

Stato di non nutrire più artificialmente sua figlia. Non vuole essere solo davanti ad una scelta che lo sovrasta. Ancora una volta, insisto: sovrasta la sua umanità, tutta improntata a quella devozione dolente. Come si può non vedere che si tratta di un gesto d’amore estremo e impotente, come si può non considerare il tormento appassionato da cui nasce? Vedo benissimo che quell’urlo verso lo Stato, dunque verso la democrazia, è violento: dimmi cosa devo fare, dimmi cosa posso fare, dimmi qualcosa, io sono solo ma resto cittadino, un tuo cittadino, e ho il diritto di farti questa domanda. Ma vedo un’altra cosa che non è stata detta in quei giorni: questa richiesta nasce dall’interno di una famiglia. Ci hai pensato? gz  Mi verrebbe da dire: con che diritto ne parliamo? La prova che la vita non ha risparmiato a quel padre e a quella figlia, noi non l’abbiamo sperimentata. Non sappiamo veramente di che cosa parliamo. Tuttavia, bisogna. Un grande problema, non solo giuridico, ma di etica pubblica è stato sollevato. Dunque, non sfuggiamo. Ma parliamone con la cautela e il rispetto necessario. Cautela e rispetto che, certo, non è stato di tutti. Ricordi? Era adeguata al dramma la penosa discussione se l’alimentazione attraverso il sondino naso-gastrico fosse da qualificare come alimentazione o come terapia? Come se da ciò potesse derivare il criterio decisivo di condotta nei confronti di quella ragazza. Ricordi la non meno penosa mobilitazione «a favore della vita» di quelli che, sotto le finestre della clinica, esibivano panini e bottiglie d’acqua? E come non ricordare la disgustosa sceneggiata in Parlamento di quell’ateo devoto, al momento della notizia del decesso, che si è, per un solo momento, stracciato la veste lanciando minacce di vendetta per una vita soppressa. E come dimenticare la parola «assassinio» pronunciata da un alto prelato della Curia romana, cui peraltro – è giusto ricordare anche questo – hanno fatto da contraltare le espressioni di umana e calda comprensione pronunciate dall’arcivescovo di Milano, il cardinale Tettamanzi. Questo che dico non riguarda soltan-

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to l’atteggiamento dello spirito di ciascuno di noi, di fronte a drammi di questa natura. Va al di là e investe la stessa possibilità o la liceità di una loro trattazione in termini generali e astratti: che cosa sono la vita o la «vera» vita, la morte, il dare la morte o il lasciare che la morte sopraggiunga naturalmente, i doveri del medico, ecc. Investe perfino la questione dei limiti della legge: la legge che, per definizione, è fatta di parole generali e astratte. Questi casi estremi si prestano a una trattazione legislativa? Io credo che, tra le tante cose di questa tragedia, si debba dire che è stata l’apoteosi dell’ipocrisia. Sarà accaduto anche a te, com’è accaduto a me, di sentir chiedere – uso la tua espressione – perché quel padre non ha risolto tutto in silenzio, senza clamore, con un gesto d’intesa al medico. Perché ne ha fatto «un caso»? Addirittura, si è insinuato che quella povera ragazza, nella condizione in cui si trovava, fosse strumentalizzata per provocare clamore, se non addirittura per procurare notorietà. E sai da chi venivano queste obiezioni e queste insinuazioni? Questo tacito invito, in casi analoghi, a risolvere da sé la questione, senza tante storie? Proprio da coloro che, pubblicamente, sostenevano con veemenza le «ragioni della vita», conformemente alla posizione della Chiesa, come se gli altri, il padre innanzitutto, fossero dalla parte della morte. Ho avuto la fortuna di incontrare la mite persona che è il signor Englaro e posso immaginare il dolore per queste insinuazioni e ammiro la forza d’animo che l’ha sostenuto in tutti quegli anni. Ma cosa chiedeva veramente, posto che, se avesse voluto, avrebbe potuto farla finita senza dare fastidio a nessuno e che nessuno avrebbe dato fastidio a lui? Credo di poter rispondere così: chiedeva di essere al tempo stesso cittadino e padre, di non violare le leggi dello Stato per adempiere le leggi dell’amore paterno e, al contrario, di adempiere le leggi dell’amore paterno senza violare le leggi dello Stato. Sembrava che le une andassero in direzione opposta alle altre. Alla fine, le sue ragioni hanno avuto la meglio. I due lati del suo dramma si sono composti in unità. Si sarà certo posto dall’ipotetico punto di vista della ­­­­­139

figlia che per 17 anni non poteva rispondergli. Conoscendone l’indole e le convinzioni, avrà risposto per lei che piegarsi all’ipocrisia non sarebbe stato degno di loro, di quanto detto al tempo della vita familiare, una vita che, a quanto è dato capire, deve essere stata eccezionalmente ricca di condivisione. Nell’eccezionalità del loro agire da cittadini responsabili, così intransigenti e distanti da quello che è comprensibile secondo l’etica media del nostro Paese, devono certo meritare la nostra ammirazione e la nostra gratitudine. em 

Fammi spiegare quel che penso io. Bisogna provare a entrare in quella famiglia. Quell’uomo si muove ogni giorno tra una moglie malata che chiede notizie perché ogni volta spera, e una figlia che non ha coscienza: lo fa da un numero d’anni che noi non sappiamo nemmeno contare. Che diritto abbiamo di immaginare dalle nostre case la portata della sua angoscia, l’alto e il basso dei pensieri, la tenerezza per il trasalimento di una palpebra, un breve scatto della mano che sembra un movimento, la disperazione che magari lo assale mentre guida, se riflette, quando prova a dormire? In questo muoversi doloroso tra una moglie e una figlia lui disegna ogni giorno l’ambito della sua famiglia, la tiene insieme. Ciò che resta, puoi dire. Ma anche ciò che è, ciò che significa concretamente, per 17 anni. Sai dirmi se c’è una famiglia italiana più «famiglia» di questa? Spostandosi, sedendosi accanto, lui parla con le sue due donne, riporta inutilmente ad Eluana quel che dice la madre, più spesso parla nella mente. La famiglia esiste non soltanto per il legame fisico di quel viaggio continuo di un padre tra madre e figlia, ma anche a livello spirituale, la comunione dei sentimenti, la premura del cuore, parlare, abbracciare, ravviare i capelli con una mano a chi non può farlo, come se ne avesse bisogno. Ti ho detto tutto questo per arrivare a ciò che più conta e che nessuno considera: la scelta che il padre compie, si forma nel profondo dell’amore, non della disperazione soltanto, e in ogni caso viene pronunciata in nome e per conto della sua famiglia. Viene il giorno in cui quella famiglia appassionata sente che ­­­­­140

Eluana non può andare avanti così. Nessuno di noi saprà se nella sensibilità assoluta della sua pena il padre decide questo per un ultimo riguardo alla figlia, prendendosi cura anche di ciò che sarà di lei alla fine, oppure perché non ce la fa più. Se lui non ce la fa più, è la famiglia che si ferma e non sa andare oltre. Loro sono insieme. Lo Stato è anche amministrazione, lo so bene, deve considerare norme, regolamenti, prassi: ma come può la democrazia non lasciarsi investire da tutto questo e non farsene carico (non sto chiedendo soluzioni: ma condivisioni), come può un governo parlare incredibilmente di «gravame», com’è possibile ideologizzare una prova come questa per ragioni politiche? gz 

Ipocrisia e ragioni politiche stanno spesso insieme nel nostro Paese, dove si tollera tutto nel segreto, purché non si mettano in discussione i poteri – civili e religiosi – nel pubblico. em 

E qui c’è un’altra questione che resta da chiarire, per me. Abbiamo parlato del conflitto di coscienza di quella famiglia, adesso parliamo della coscienza di tutti, e arriviamo alla democrazia. Quando si avvicina il momento finale il cardinale di Torino Poletto (che ha parole di rispetto e di preghiera per Beppino Englaro) si rivolge ai medici del Piemonte e li invita all’obiezione di coscienza, perché si rifiutino di sospendere l’alimentazione forzata ad Eluana, rigettando la richiesta della famiglia e disubbidendo alla sentenza che la accoglie. Per me è evidente che qualsiasi coscienza individuale può sottrarsi alla decisione di staccare la spina, come si dice con un linguaggio che parla solo di strumenti e non di persone: e un medico – credente o non credente – può legittimamente rifiutarsi di partecipare a questo processo finale per il malato. Quel medico dovrà affrontare in cuor suo il dilemma tra il proprio ruolo in un ospedale pubblico, al servizio dei cittadini malati e delle loro sofferenze, e ciò che sente come un preciso obbligo morale per la sua condotta di vita. Quel dilemma si può risolvere con ­­­­­141

scelte anche radicali ma rispettabili, fino all‘obiezione rispetto al proprio dovere professionale e pubblico, perché la coscienza dell’individuo in quella circostanza non lo consente, a nessun costo. Ma scusa: è molto diverso il caso in cui un cardinale impartisce il comando collettivo ai credenti medici, come se fossero una categoria confessionale più che professionale, da muovere sindacalmente. E il comando dice di mobilitarsi nella stessa occasione e dovunque per vanificare la sentenza di un tribunale della Repubblica, indipendentemente dalla storia, dalla cultura, dalle circostanze in cui ciascuno vive e opera. Indipendentemente, soprattutto, dall’elaborazione morale più intima, personale e unica di ogni persona, dal modo individuale di intendere e interpretare la pietà e la carità cristiana, pur dentro un comune orizzonte di fede. Se siamo sinceri, qui non possiamo chiamare in causa l’obiezione di coscienza, piuttosto l’obbligazione di appartenenza, perché è in quanto appartenente alla comunità cattolica che quei medici vengono mossi da parte del cardinale con una pretesa gerarchica, per mandare a vuoto dall’altare una pronuncia dello Stato. È quella che io chiamo la doppia obbedienza. Lo Stato moderno, libero «dalla» Chiesa mentre la rende «libera» nei suoi confronti, distingue tra il comando degli uomini, attraverso la legge, e il comandamento di Dio. Per la Chiesa invece la legge divina non può mai essere contro l’uomo che Dio ha creato a sua immagine e somiglianza, dunque pronunciarsi contro la norma religiosa significa pronunciarsi contro l’uomo. Se le due leggi confliggono, «è perché la legge umana non è una buona legge» e il cattolico può trasgredirla. Non ti pare che nasca qualche problema qui? gz  Io, come certamente anche tu, ho grande rispetto per coloro che si ribellano alla legge positiva in nome di una legge più alta. Il legislatore può essere sommamente ingiusto. Allora è giusto obbedire non alla sua legge ma a quella che ci vincola in ultima istanza. Questo vale anche in democrazia. La democrazia presuppone un patto tacito che lega tutti i cittadini, un

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patto che ha, come contenuto, l’impegno a obbedire alla legge democraticamente deliberata. Ma, poiché sappiamo bene, anche per diretta esperienza o, almeno, per ricordo, che anche la deliberazione democratica può violare quella che per noi è la legge più alta, ecco che si presenta il sempiterno problema del rapporto tra la legge positiva (posta da chi ha il potere di statuirla) e la legge di coscienza (che può avere una radice religiosa ma anche non religiosa: non c’è un’esclusiva, è una condizione comune a tutti gli esseri umani dotati di un senso morale). È il conflitto tragico tra Antigone e Creonte: Antigone, che si richiama a «i sacri limiti delle leggi non scritte e non mutabili, che non sono di ieri né di oggi, ma vivono da sempre, ed è ignoto il tempo in cui vennero a rivelarsi»; Creonte, che rivendica a sé solo il potere della legge, poiché «di ogni legge può usare, sia per i morti che per i vivi». Questo conflitto tra le due leggi è costitutivo della nostra civiltà giuridica e non è mai esorcizzabile una volta per tutte. Abbiamo proclamato i diritti inviolabili e i principî di giustizia e li abbiamo iscritti nelle costituzioni; abbiamo anche inventato il modo per annullare le leggi che li violano, impugnandole di fronte ad appositi tribunali costituzionali. Ma sappiamo bene che queste possono non essere garanzie sufficienti, in momenti drammatici, a evitare che il diritto sia trasformato in delitto da chi dispone del potere di fare la legge. Quindi guardiamo con simpatia a chi si ribella alla legge che trasforma il delitto in diritto. Ma a condizione che se ne assuma la responsabilità, che la sua sia una ribellione pubblica, che serva come leva per cambiare la legge. Molta minore simpatia ho per la cosiddetta «obiezione di coscienza» legalizzata, ciò che il mondo cattolico richiede, in materie «eticamente sensibili» (per esempio, l’aborto per i medici e paramedici, o il commercio di contraccettivi per i farmacisti). Di fronte a obbligazioni generali, si vogliono stabilire zone franche. L’obiezione di coscienza legalizzata riconosce come diritto il non prestare ossequio alla legge comune, dunque il sottrarsi alla koiné democratica, e quindi a quel patto fondante tacito di cui parlavo prima, senza assumersene le rispettive responsabi­­­­­143

lità. Questo è un cuneo piantato nella sovranità dello Stato. Ed è già un problema. Se poi in questo cuneo non s’inseriscono le decisioni dei singoli prese in coscienza ma il comandamento della gerarchia ecclesiastica, ciò che si determina è lo stravolgimento dei rapporti tra Stato e Chiesa. Dunque, in sintesi, direi così: ciascuno di noi è sempre in bilico tra la legge positiva e la legge della coscienza. C’è, in democrazia, un dovere di lealtà verso la legge positiva. Questo dovere può eccezionalmente cedere di fronte al dovere morale. In questo caso, è morale anche accollarsi il prezzo della violazione. Ma l’obiezione di coscienza legalizzata è un modo per liberarsi della responsabilità della scelta morale; in sostanza, è una soluzione immorale ai problemi morali. Se poi, nello spazio aperto da questa deresponsabilizzazione, s’inserisce qualche autorità aliena allo Stato (religiosa o non religiosa, non fa differenza), è lo Stato stesso, cioè la struttura che deve garantire i diritti e i doveri di tutti verso tutti, a essere messo in pericolo. em 

Siamo dunque al dunque: la questione della laicità. In questi ultimi tempi sembra diventata una questione cruciale soprattutto nei Paesi dove la Chiesa ha intrapreso un suo progetto di «riconquista cristiana» di società largamente secolarizzate. Cruciale e, al tempo stesso, confusa. Anche le parole che si moltiplicano per stabilire distinzioni, prese di distanza, connotazioni, sembrano fatte apposta per confondere le idee: laicità e laicismo; laicità senza aggettivi e «nuova», «sana» laicità. Non c’è nessuno che non si proclami a favore della laicità. Come per la democrazia: tutti sono a favore della parola, ma poi sui contenuti vediamo che le distinzioni e le differenze esistono, eccome. Il risultato è la debolezza. Nel confronto delle idee manca oggi una cultura laica consapevole di sé e dei suoi valori, capace di dare una sua sostanza al metodo politico, alla discussione pubblica e anche alla forma istituzionale repubblicana. Capace cioè di testimoniare valori morali che dipendono dalla coscienza individuale, di distinguere le competenze della repubblica e quelle delle Chiese, di sapere che le visioni del ­­­­­144

mondo (anche le più nobili) possono ispirare e muovere cittadini singoli e in gruppo, ma non lo Stato. Capace, infine, di scindere la ricerca del giusto e la ricerca del bene. gz 

Le parole, anche qui, sono pericolose. Non ci facciamo stringere da lacci ingannevoli. Laicità ha un significato preciso, indica un contenuto sine quo non, un significato minimo essenziale che è venuto assumendosi e consolidandosi in secoli di lotte per la libertà religiosa in Europa. Le confessioni religiose, Chiesa cattolica compresa, sono organizzazioni parziali di coloro che professano la stessa fede; lo Stato è l’organizzazione generale di tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro appartenenza (o non-appartenenza) a una confessione religiosa. Diamo una definizione in negativo: la laicità è minacciata tutte le volte che una confessione religiosa pretende che il suo punto di vista valga al di là della cerchia dei suoi appartenenti; ed è violata tutte le volte in cui lo Stato comunque accede al punto di vista di una chiesa o della Chiesa facendosene – come si diceva un tempo – «braccio secolare». È in questione la libertà di coscienza per coloro che non appartengono a quella confessione religiosa. In questo significato semplice, non equivoco e minimo essenziale, c’è la laicità e basta. Distinguere laicità da laicismo, laicità buona da cattiva, vecchia da nuova, sana da malata, ecc. non ha senso. È solo un modo per mettere in difficoltà l’interlocutore, il quale è così costretto sulla difensiva a dire all’inizio d’ogni discorso: «non sono laicista, ma laico» e così, per il sol fatto, è indotto a fare concessioni che incrinano il concetto. em 

Ma questo tuo discorso non prevede l’eventualità che un punto di vista che è della Chiesa sia fatto proprio dallo Stato autonomamente, secondo le sue procedure, e sia sancito in legge con un libero voto parlamentare. In questo caso, la Chiesa può dire: sei tu, Stato, che autonomamente accedi al mio punto di vista, io non impongo proprio nulla. ­­­­­145

gz  Sono di opinione diversa. Questo sarebbe, per l’appunto, il caso dello Stato che si fa spontaneamente e democraticamente braccio secolare. Vorrà dire che democraticamente, cioè con un voto a maggioranza, un punto di vista religioso si è imposto a quanti non condividono questo punto di vista. In questo caso, si avrà violazione non della democrazia, ma della laicità. Sono due cose diverse che non devono sovrapporsi o confondersi. La laicità sarebbe violata anche quando – volendo ragionare tendendo l’argomento all’estremo – una decisione dettata da ragioni di fede fosse imposta a uno dall’unanimità di tutti gli altri meno quell’uno. La laicità, ripeto, ha a che vedere con la libertà, non con la democrazia. Quella tale decisione, democraticamente impeccabile, violerebbe la libertà di una coscienza. Ci può essere (nel senso che è di fatto possibile) una democrazia clericale. em 

Però in termini di principio lo Stato può decidere liberamente di legiferare con posizioni che coincidono con quelle di questa o quella Chiesa, e non per questo diventa braccio secolare. Il problema, secondo me, è l’autonomia della politica, dunque dei parlamenti, quindi dello Stato.

gz  Mi pare che anche qui ci sia un equivoco. Il tema della laicità, come abbiamo appena visto, non coincide con quello della democrazia, ma neppure coincide con quello dell’autonomia dello Stato dalla Chiesa. La laicità è un imperativo al quale deve ubbidire lo Stato per ragioni sue, se vuol essere laico: interferenze o non interferenze che ci possano essere. Se ci fosse interferenza avremmo una violazione diversa: la violazione della sua sovranità. Si violerebbe il primo comma dell’articolo 7 della Costituzione: «Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». em 

Tu hai appena detto che la laicità ha a che vedere con il contenuto delle leggi dello Stato, indipendentemente da eventuali interferenze. E hai aggiunto che la laicità è minacciata ogni volta che una confessione vuole imporre il suo punto di vista ol­­­­­146

tre la cerchia dei suoi appartenenti. Ma la laicità, a mio parere, è minacciata anche da quella che prima ho chiamato la «doppia obbedienza». Perché se il cattolico osservante può ricevere in qualsiasi momento l’ordine dal suo vescovo di disubbidire alle norme dello Stato (in quanto la legge di Dio prevale sulla legge dell’uomo e soprattutto prevale l’obbedienza alla Chiesa) dovremo pur interrogarci sul suo grado di cittadinanza. Intendo dire: che cittadino è e vuole essere? Subito dopo dovremo chiederci qual è la concezione della democrazia da parte della Chiesa italiana. Noi abbiamo appena visto un cittadino, che è anche medico, a cui si comanda di obiettare rispetto allo Stato in nome di una terza identità, quella di cattolico, che viene considerata prevalente su tutto. Ma è l’autonoma coscienza del singolo cittadino che decide, in questo caso, o è un’autorità esterna allo Stato che prevale sulla legge, imponendo obbedienza ad una Verità assoluta? La convivenza è regolata dal fatto che in democrazia non ci sono assoluti e anche le fedi religiose che professano la Verità sono relative a chi crede, non valgono per gli altri. Lo hai scritto tu in un tuo libro e cito a senso, come ricordo: non esiste una riserva superiore di verità esterna al libero gioco democratico, il quale – aggiungo io – deve naturalmente garantire la piena libertà per ogni religione di pronunciarsi su qualsiasi materia, anche di competenza dello Stato, per ribadire la sua dottrina. Questo diritto, secondo il Concilio Vaticano II, è addirittura un dovere. Ma bisogna trovarsi d’accordo su un punto: la Chiesa parla alla coscienza dei credenti e di chi le riconosce un’autorità morale, ma la decisione politica concreta e la scelta spettano all’autonoma decisione dei laici, credenti e non credenti, sotto la loro responsabilità. Ecco questa parola che ritorna, anche per la laicità. gz 

Scusami se insisto ancora su un punto. L’«ordine» dello Stato che voglia essere laico è quello in cui c’è posto per tutti coloro che accettano la tolleranza come valore. La Chiesa, e in generale tutti coloro che si considerano possessori e custodi della verità, anzi della Verità, possono essere tolleranti? ­­­­­147

em 

Mi sembrava che la Chiesa avendo riconosciuto come diritto la libertà di coscienza, avesse con ciò riconosciuto la tolleranza...

gz  Non mi sentirei di condividere una equivalenza così impegnativa. Innanzitutto, la dichiarazione Dignitatis humanae (ti riferisci a questa, credo) ha a che vedere, non con la libertà della coscienza tout court, ma con la libertà della coscienza religiosa. Che «gli esseri umani [debbano] essere immuni dalla coercizione [...] così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa» (pt. I, § 2) sembra ovvio a ogni spirito laico. Per la Chiesa è stato il frutto di un grandissimo travaglio, discusso approfonditamente da E.-W. Böckenförde*, e di grandi conflitti, di cui lo scisma lefebvriano è stato un effetto. Siamo sicuri che questo riconoscimento pluralistico sia un punto di non ritorno, nella dottrina della Chiesa? La dichiarazione Dominus Iesus della Congregazione per la dottrina della fede, dell’anno 2000 (la Dignitatis humanae è del 1965), di cui il sottotitolo è «Della unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa», giustifica i dubbi. Ma il laico va al di là, chiede molto di più: chiede la libertà di credenti e non credenti. La Chiesa non parla del diritto di libertà di coscienza dei non credenti. Perché? Non hanno anch’essi una coscienza? In questo quadro, che cos’è la tolleranza per la Chiesa cattolica? em 

Esistono forse modi d’essere tolleranti diversi da quello di Locke e di Voltaire?

gz  Ebbene, sì. Anche qui, attenzione alle parole e agli inganni che contengono. La tolleranza curiale è il «male minore». Ci si adatta alla tolleranza solo per non subire mali mag-

* In Cristianesimo, libertà, democrazia, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2007.

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giori, i mali che deriverebbero dallo scontro frontale. È un atteggiamento opportunistico. La tolleranza liberale, invece, è un «bene maggiore». Chi la pensa diversamente da noi non viene «tollerato» solo perché non se ne può fare a meno, ma perché la diversità delle opinioni, delle credenze, delle fedi è un valore intangibile che deriva dalla dignità degli esseri umani. È impossibile essere tolleranti allo stesso modo se si crede di possedere la verità e, invece, se si pensa che la verità è troppo più grande di ciascuno di noi per essere posseduta integralmente da qualcuno. em 

Ritorniamo alla laicità e alle interferenze chiesastiche. Noi siamo abituati a reagire in nome della laicità proprio contro le «interferenze» della Chiesa. Tu hai detto che la laicità ha a che vedere con il contenuto delle leggi dello Stato, indipendentemente da eventuali interferenze.

gz  Se ci sono interferenze, come dicevo prima, è naturale pensare che queste mirino a ottenere privilegi e i privilegi, in questa materia, direttamente o indirettamente, si traducono in violazioni della pari tutela dei diritti di coscienza di tutti i cittadini, cioè in violazione di un aspetto della laicità. Ma, facciamo un’ipotesi, un’ipotesi del terzo tipo. Supponiamo che la Chiesa eserciti pressioni per ottenere «leggi laiche», cioè parimenti rispettose della libertà di tutti, e queste leggi fossero effettivamente approvate dal Parlamento: noi diremmo che vi è violazione della sovranità dello Stato, ma non certo che lo Stato ha violato il principio di laicità. em 

Ma, allora, quale dovrebbe essere, secondo te, l’atteggiamento di un legislatore laico nelle materie in cui è in questione la libertà di coscienza?

gz  Ti rispondo con le parole di quello che è stato il mio «maestro» (si usa ancora questa parola?) di diritto costituzionale, Leopoldo Elia, pronunciate non molto prima della sua morte nell’ottobre 2008, nell’ultimo incontro generale dei costitu-

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zionalisti italiani dedicato, per l’appunto, ai temi della laicità. Sono parole di un cattolico non clericale che vedeva nella libertà delle coscienze un bene anche per la diffusione del messaggio cristiano. «Si può pensare – disse – a leggi che consentano di ricorrere a taluni istituti in via del tutto facoltativa; sicché, in base ai convincimenti morali di diverso orientamento, le Chiese possano dissuadere i loro fedeli dal fare ricorso a rimedi predisposti da leggi permissive in senso proprio [...] nel senso del giurista Modestino secondo la formula riportata nel Digesto: ‘Legis virtus est imperare, vetare, permittere, punire’». «Permittere», dunque: magari prevedendo procedure cautelative affinché la permissione sia messa in atto consapevolmente, prudentemente. Ma questo consiglio, per essere accettato, presupporrebbe una Chiesa sicura di sé, autorevole punto di riferimento e orientamento morale per i suoi fedeli e anche al di là di questi. Ma ciò, a quanto sembra, non è; ed allora ecco ch’essa chiede allo Stato leggi con le quali «vetare». Chiede, cioè, allo Stato di rinforzare i precetti morali che sono solo suoi propri, con sanzioni civili. em 

Mentre dovrebbe essere chiaro a tutti che in democrazia non esiste una forma di «obbligazione religiosa» a fondamento delle leggi di uno Stato libero e autonomo, così come non esiste un privilegio di verità a favore di qualche soggetto, che ne è investito. Se viene meno questo principio, allora sì, è chiara la confusione tra i due «ordini», quello religioso e quello civile.

gz  Dici bene. Un aspetto di quel «supremo principio» che è la laicità sta proprio in questo: le obbligazioni civili non devono usarsi per rinforzare quelle religiose e, corrispondentemente, le obbligazioni religiose non devono usarsi per rinforzare quelle civili. Oggi, prevalentemente, in questione è il primo divieto: pensiamo alle pretese della Chiesa circa la legislazione in materia di famiglia, di fine-vita, di sperimentazione medica, ecc. Ma in passato la confusione aveva anche il segno opposto: si usava chiamare in causa Dio come garante

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nella formula del giuramento richiesto, ad esempio, a coloro che testimoniavano nei processi. Il timor di Dio era evocato a sostegno del dire la verità davanti al giudice. Questa chiamata è oggi caduta, per opera della Corte costituzionale, proprio in virtù della laicità. Ognuno faccia la sua parte. em 

Quanto siamo venuti dicendo è un’implicita ripulsa della religione come religione civile, mi pare. È «laicista» questa affermazione? Perché? Qualcuno dovrà pur ricordare che nella separazione tra Stato e Chiesa, dopo l’unione pagana delle funzioni del sacerdote col magistrato civile, la religione non fa più parte dello jus publicum, la legge umana non deriva dai comandamenti divini, le istituzioni pubbliche e i loro atti sono autonomi dalle cattedre dei vescovi e dal magistero confessionale, e viceversa. Benedetto XVI ricorda come sia stato il cristianesimo a togliere allo Stato la sua sacralità, separando Dio da Cesare e ammettendo di poter pregare per l’imperatore ma rifiutando di offrirgli sacrifici sacri: con questo, aggiunge René Girard, il cristianesimo ci ha portati dentro la modernità.

gz  Quel che stiamo dicendo è la ripulsa dell’ingerenza della Chiesa negli affari civili, in quanto Chiesa-istituzione, Chiesapotere. Non certo la ripulsa della libera presenza dei credenti e delle loro convinzioni etiche nella vita d’ogni giorno della democrazia. Questa è una distinzione da avere ben chiara e da tenere ben ferma. Si fanno confusioni interessate, in proposito. Quando si protesta per le ingerenze della gerarchia cattolica nelle vicende politiche e legislative, subito si alza un lamento: volete tappare la bocca ai cattolici, volete ridurli a vivere nelle sagrestie, volete che la luce della loro fede «sia collocata sotto il moggio» e «non risplenda davanti agli uomini» (Mt 5, 14-16). No, la presenza viva dei cattolici, dei loro valori e delle loro opere nella vita pubblica non solo è un’ovvia conseguenza della libertà che vale per loro come per tutti, ma è anche una risorsa della democrazia e una ricchezza per tutti. Purché sia una presenza di cittadini cattolici – diremmo

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di «cattolici adulti» disposti al confronto con le ragioni degli altri e a trovare con questi i possibili punti di convergenza: primo fra tutti quel «permittere» di cui abbiamo detto sopra, quando su temi di rilevanza etica si manifestano nella società legittime divergenze. La differenza è con i clericali, che accettano di farsi longa manus della Chiesa e agiscono in esecuzione di decisioni prese nei palazzi vaticani, dalle eminenze grigie della politica vaticana. em 

Tu parli di longa manus. Ma ti potrebbero rispondere che ciò che fanno lo fanno in perfetta libertà, perché sono osservanti, perché liberamente accettano l’autorità della Chiesa, perché il loro servizio è volontario: che le imposizioni, dunque, non c’entrano affatto.

gz  Davvero dicono così? Non ci posso credere! Come possono loro, come possiamo noi, non vedere l’enorme potere – potere mondano –, di cui la Chiesa – la Chiesa-potere – dispone in Italia? E come si può non vedere che lo usa per far cadere governi e metterne in piedi altri; per sostenere partiti od osteggiarli; per dare o negare imprimatur a questo o quell’uomo politico; per promettere sostegno in cambio di favori o minacciare ostilità in cambio di favori mancati: favori che nulla hanno a che vedere con la fede ma molto con privilegi nel campo fiscale, finanziario, educativo, politico. Non so! Si può non vedere tutto questo? E tu dici che qualcuno sostiene che chi accetta questo sistema di relazioni tra istituzioni civili e istituzioni religiose è libero, lo fa per fede, disinteressatamente? Per rispetto della sua intelligenza, se non della sua buona fede, non ci voglio credere. Guardando poi certi esempi, non ci posso credere. em 

Il sistema politico, la legge elettorale, hanno la loro responsabilità. Ma mi capita spesso di pensare che la prima repubblica, dove regnava un partito chiamato Democrazia Cristiana, fosse nel suo insieme più laica, o forse più autonoma, senza essere magari più laica. Con più coscienza dello Stato, senso delle istituzioni: già solo il suono di questa for­­­­­152

mula, oggi, appartiene a un’altra epoca. Il partito cattolico, paradossalmente, rappresentava, ma in qualche modo circoscriveva questa influenza che oggi è pervasiva. gz  Sì. Si ha un bel discettare in astratto, come abbiamo fatto anche noi qui, di laicità, di società civile e società religiosa, Stato e cattolicesimo, ecc. Ma il macigno è molto concreto. È l’enorme concentrazione di potere – potere mondano non spirituale – di cui la Chiesa dispone, che mira a difendere e anzi ad accrescere, in misura inversamente proporzionale alla sua influenza morale sulla società. C’è una sorta di conflitto di interessi (religiosi e mondani) che vale e affligge anche la Chiesa cattolica. È questo che fa problema, problema di laicità, sovranità e democrazia. Perché i problemi che discutiamo con riguardo alla Chiesa cattolica non si pongono con riguardo ad altre confessioni religiose? em 

Per una sorta di statuto privilegiato, che va al di là dei Concordati, viene dall’atteggiamento gregario della politica complessivamente intesa, che scambia il rispetto per subalternità, o comunque per mancanza di autonomia, nell’incertezza dell’identità. Se oggi chiedi a un leader politico se è laico, ti chiede tre giorni per pensare, prima di rispondere. Vedi, anche per questo manca un’effettiva parità morale nella discussione pubblica, capace di superare il pregiudizio postsecolare per cui la democrazia, lo Stato moderno e la cultura civica che ne derivano non sono autosufficienti ma carenti senza il legame con la trascendenza del pensiero cristiano e la sua eternità, sono insufficienti nel fondamento. Come se per i laici che parlano di libertà la vita non fosse un valore, come se difendendo i diritti praticassero la cultura della morte. Come se il rispetto per una famiglia dilaniata, la fraternità per un padre davanti ad una prova suprema, la condivisione per un dolore non immaginabile non contassero nulla. Come se la coscienza italiana – è il punto che non accetto – fosse soltanto cattolica, e l’incontro tra i doveri e i diritti non potesse avvenire nello Stato, ma solo nella Chiesa e sotto la sua garanzia. ­­­­­153

gz  Ci fa meraviglia allora ch’essa, lungi dall’essere «fuoco in terra» (Lc 12, 49) sia parte integrante dell’establishment? Perché stupirci di trovare coinvolto, per diritto o per rovescio, negli scandali maggiori del potere, qualche «principe della Chiesa»; che la voce profetica sia rinsecchita; che la gerarchia ecclesiastica abbia sostenuto e ancora sostenga, in attesa di vedere come andrà a finire, la più anticristica coalizione d’interessi e la più materialistica concezione della vita che l’Italia abbia forse mai conosciuto? È la concentrazione di potere nel mondo che la rende potente: ma, appunto, potente nel mondo. E ciò la rende afona, molesta e perfino imbarazzante presso molti cristiani che non dimenticano la domanda e il dubbio di Gesù: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18, 8). em 

Mentre per paradosso si alza forte la voce «politica» della Chiesa, una voce di potere tra i poteri mondani, che attraversa culture politiche incompiute o spaventate o spodestate, direi estenuate, o mai nate. Una voce che denuncia la nuova religione europea del politicamente corretto, l’adorazione pagana della sinistra per i diritti subentrati ai valori, il vecchio cuore socialdemocratico del Novecento compromesso con lo statalismo e la laicità, mentre si propone come protagonista perfetta del post-moderno (lo teorizza Richard Neuhaus), in grado di sfidare la laicità per diventare interprete di una nuova identità nazionale, capace di rivestire di valori cristiani «la nuda piazza pubblica». Così la Chiesa rischia di diventare attore politico diretto, anzi qualcosa di più. Rischia di aprire per la prima volta un fronte religioso nella battaglia politica italiana, una faglia inedita. Tu non stavi dicendo l’opposto, e cioè che la prima «purificazione» della Chiesa di cui tutti, cattolici e non, avremmo bisogno, è la purificazione dai beni della terra e soprattutto dal potere sulla terra?

gz 

Dici benissimo. Proprio all’inizio parlavo di sospetto. Qui ce n’è un altro motivo. ­­­­­154

3.

La politica e la democrazia

L’uso del «popolo»

Gustavo Zagrebelsky  La democrazia, se non come formula politica, almeno come esperienza – abbiamo detto – non è in difficoltà solo in Italia. Ma è indubbio che l’Italia sia in una condizione speciale. Tu stesso hai spesso parlato di anomalia. Prendi dunque tu in mano il filo del discorso. Ezio Mauro  Anche qui, una confusione di parole e di concetti. Per semplificare, direi che oggi la destra considera la democrazia italiana insufficiente, perché non consente al potere legittimato dal voto di farsi potere supremo, in nome della «unzione sacra» rappresentata dal suffragio popolare. La sinistra invece, se fosse possibile considerarla unitariamente, considera la nostra democrazia debole per ragioni esattamente opposte, vale a dire perché si lascia troppo facilmente deformare a vantaggio del vincitore delle elezioni. I bilanciamenti, i controlli, le garanzie di fronte allo strapotere legittimato dal voto stentano a dispiegarsi come dovrebbero. Insomma, la democrazia italiana non soddisfa chi le chiede troppo, mentre delude chi già crede che abbia concesso molto più del dovuto al più forte. gz 

Insomma: o troppo o troppo poco. Mi pare che questa alternativa rispecchi fedelmente i due lati verso i quali la democrazia, la povera democrazia del momento attuale in Italia, si trova strattonata e, comprensibilmente, frastornata. Non so, però, se l’identificazione che tu fai delle due posi­­­­­155

zioni, rispettivamente, con la destra e con la sinistra, sia del tutto convincente. Forse l’avversione nei confronti dei limiti e dei controlli è, indifferentemente, di tutti coloro che sono o aspirano al potere. Al contrario, chi non è al potere spera di trovare, nei limiti e nei controlli, protezione. Ai tempi della Costituente, quando la sinistra contava su un’affermazione elettorale e la destra la temeva, le parti erano invertite. Aveva ragione Montesquieu quando, per argomentare la necessità di dividere il potere e bilanciarlo, osservava che, indipendentemente da chi lo detiene, è nella sua natura tendere a farsi assoluto se non c’è qualcuno che può fermarlo. Il potere deve poter arrestare il potere. A me pare che ci troviamo di fronte a due concezioni, l’una che si richiama alla tradizione del costituzionalismo classico, che è un’espressione del governo moderato, e l’altra che coltiva le pulsioni di tipo demagogico da sempre, e particolarmente nella nostra epoca, attive nel seno della democrazia. Questa divisione corrisponde oggi alla sinistra e alla destra, ma solo grosso modo. Per fortuna non c’è piena corrispondenza e identificazione, perché la possibilità di coinvolgere nella medesima visione della democrazia parti della destra e parti della sinistra è la premessa per evitare che la questione democratica diventi oggetto di scontro tra partiti, mentre evidentemente dovrebbe essere questione di molti, al di sopra delle parti. Detto in chiaro, sulla difesa della democrazia dai pericoli della «democratura» (riprendo un’espressione che abbiamo usato all’inizio), cioè della sua degenerazione personalistica e populistica, possono convergere parti che, dal punto di vista politico, stanno in schieramenti opposti. em 

Comunque sia, qualcuno potrebbe però dire che se le critiche sono simmetriche e opposte la democrazia è nel giusto. Non mi sentirei, però, di avallare questa tesi. A mio parere, la democrazia italiana è sotto la pressione di un potere legittimo, perché ha vinto le elezioni, che tuttavia è incapace di usare appieno questa legittimità rispettandone i limiti. Per questo è ­­­­­156

continuamente alla ricerca di legittimazioni ulteriori, non previste dalla Costituzione: dunque si cerca nella materialità di un rapporto con «il proprio popolo» – un rapporto personalistico materiale, forzato, empirico e casuale – un supplemento di forza che ha nel leader insieme la fonte esclusiva e il beneficiario ultimo. Un premier a cui non basta la premiership e che si trasforma in Capo, non accontentandosi del suo ruolo e degli spazi suoi propri nell’equilibrio con gli altri poteri, ma vuole il primato assoluto e pretende supremazia. Tutto questo provoca tensioni nel tessuto della democrazia, e in qualche caso torsioni. Ma dico subito che non sono d’accordo con chi sostiene che l’Italia oggi non è una democrazia, o usa paragoni impropri con regimi del passato che per me non sono accettabili, sia per le profonde differenze di sistema sia perché i cortocircuiti mentali non aiutano a capire, e in questo caso nemmeno a reagire e ad agire. Dire che siamo comunque una democrazia, significa dire tra l’altro che l’oggi e il domani dipendono anche da noi, dunque ci impegnano, perché abbiamo la possibilità di contare. Occorre dunque fare uno sforzo in più, di decifrazione e d’intelligenza, anche per definire con chiarezza la fase e le necessarie contromisure. Non accetto di semplificare urlando alla dittatura da un lato, e immiserendo dall’altro questo passaggio storico con un calandrinismo impolitico che scherzando sui difetti fisici e sui nomi delle persone – come se non ci fosse altro da fare e da dire, soprattutto da pensare – finisce per rompere la cornice drammatica in cui si compie questa prova di forza. Chiediamoci piuttosto qual è la qualità della nostra democrazia, e perché degrada. A me sembra una questione sufficiente per preoccuparci, non ti pare? gz  Sono d’accordo nel non usare le categorie del bianco e del nero e nel non fare accostamenti avventati al passato, che non aiutano a capire. D’altra parte, che cosa è la democrazia? Siamo arrivati fino a qui, parlando di democrazia, ma non abbiamo formulato una definizione. Non abbiamo nemmeno tentato, e forse abbiamo fatto bene. Ma, se non abbiamo una

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definizione per mezzo della quale poter dire ciò che sta di qua e ciò che sta al di là del confine, è chiaro che è questione di gradi. Ma, anche a non voler essere manichei, come quelli che gridano al «regime», ce ne è abbastanza per preoccuparsi molto e per lanciare un allarme. em 

Si pone qui un problema centrale per il nostro ragionamento. Lo sintetizzo così: quando un potere legittimo tende a obiettivi illegittimi, cessa di essere tale? In questi anni, nel piccolo del caso italiano, abbiamo assistito a qualcosa del genere. È legittimo disconoscere i limiti di sovranità fissati dal sistema, aggirare il principio per cui la legge è uguale per tutti sottraendosi con astuzie legislative al proprio giudice, disconoscere l’autorità degli organi di garanzia e di controllo?

gz 

Hai ragione a porre queste domande. L’illegittimità dei regimi politici è stata studiata dai classici soprattutto con riferimento alla tirannia, il regime illegittimo per eccellenza. Non cado, sia chiaro, nella tentazione, nell’errore che abbiamo appena condannato, di appiccicare etichette per eccitare gli animi e ottundere intelligenze. Se parlo di tirannia è perché a questo riguardo si è fatta una distinzione, che può essere utile, tra il tiranno secundum titulum e il tiranno quoad exercitium. em 

Spiega il tuo latinetto.

gz  Non è mio. Viene dalla filosofia scolastica, capostipite san Tommaso, che ha riflettuto sul diritto di resistenza dei popoli contro il potere arbitrario. Potere arbitrario che può derivare (continuo col latinetto) da un defectus tituli, cioè dall’abuso che riguarda l’investitura – è il caso dell’usurpatore –, oppure dall’abuso che riguarda il modo di governare, l’exercitium – è il caso dell’uso del potere contro l’interesse del popolo da parte del malversatore e dell’oppressore. In entrambi i casi il potere è illegittimo e si giustifica il diritto di resistenza, fino alle soluzioni più radicali. Ora, quando tu dici

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che chi governa esercita un potere legittimo perché ha vinto le elezioni (le elezioni sono in democrazia ciò che nei regimi autocratici era la successione dinastica), parli di legittimità secundum titulum. Ma questo non dice nulla circa la legittimità dell’exercitium del potere acquisito. Le tue ultime considerazioni in forma di domanda riguardano proprio questo punto. Onde non siamo più così sicuri di vivere sotto un potere legittimo. Non basta avere vinto le elezioni. Occorre anche non abusare del potere. Oltretutto, qualora – per esempio e per ipotesi – l’abuso delle posizioni di potere interferisse nella libera formazione dell’opinione pubblica (conflitto d’interessi, diffamazione come arma contro avversari politici, pressioni e ricatti di vario genere), potrebbe rendere discutibile anche il titulum. Non ti pare? Ribadisco: per ipotesi. em 

A mio parere, il potere che si mette su questa strada compie tecnicamente degli abusi, cioè usa la legittimità della sua investitura contro la legalità, scambia l’autorità con la forza e la potestà con il dominio, forzando i limiti. Con questo, non perde la sua legittimità iniziale, che si basa sul libero consenso ottenuto nelle libere elezioni, ma rischia di cambiare natura, indebolendo significativamente il suo carattere democratico. Il sistema che è sottoposto alle forzature di cui stiamo parlando, non cambia per questo natura.

gz  Sempre che l’uso arbitrario del potere, per quanto legittimamente detenuto, non superi un certo livello di guardia. I governanti devono fare attenzione alla goccia che fa traboccare il vaso. em 

Comunque, anche prima che quella goccia fatidica sia versata, la cifra della democrazia, la sua qualità, il suo peso specifico risultano fortemente indeboliti. Qui siamo, oggi. Naturalmente questa mia tesi incontra l’obiezione classica di questi anni a destra: non è un indebolimento, ma un rafforzamento della democrazia cercare di renderla effettivamente governante, sciogliendo cioè l’esecutivo e il suo premier da ­­­­­159

lacci esterni e lacciuoli impropri, per renderlo davvero e compiutamente Capo del Paese, liberando tutte le potenzialità del programma e della leadership che hanno vinto le elezioni. Siamo davanti ad una disputa concettuale che ha come posta in gioco la legittimazione di una prassi che è andata molto avanti in questi anni. La destra pensa che il moderno populismo carismatico sia una cultura politica come le altre, solo più adatta ai tempi e alle loro esigenze, perché capace di fondare un nuovo ordine democratico attorno al leader, con una continua e feconda sollecitazione della costituzione materiale secondo le necessità e le intuizioni del Capo. Io credo al contrario che si stiano saggiando, disordinatamente ma con la coerenza di un disegno ideologico, i limiti del sistema, forzandolo nella pratica quotidiana per farlo aderire alle emergenze e alle tentazioni di una condotta istituzionale anomala rispetto alla norma occidentale, e dunque fondatrice via via più consapevolmente di un ordine nuovo. Una sorta di democrazia carismatica, il che è quasi un ossimoro. Ecco, ho citato gli elementi attivi di questa fondazione: emergenze, tentazioni, prassi, ideologia, unite a una cultura politica che io definisco come a-occidentale. Se provo a dare un nome alla cosa che abbiamo davanti a noi: io dico che questo potere in fieri prende la forma e la denominazione di un moderno populismo carismatico. gz  Nel libro Democrazie senza democrazia*, il nostro comune amico Massimo Salvadori ha parlato di «oligarchie elettive». Il tuo «populismo carismatico» mette l’accento sull’unicità del capo. Quest’altra formula allude al giro di potere che si muove attorno al capo. È una differenza che ti segnalo. Teniamola a mente, perché forse vale la pena di discuterla, a tempo debito. em 

La mia formula potrebbe sembrare a prima vista superata, troppo vecchia per un fenomeno moderno e mediatico. Ma *  Laterza, Roma-Bari 2009.

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proprio la capacità di rappresentare la tradizione e insieme la novità è in realtà caratteristico della cultura di cui parliamo, sotto forme diverse. Il neopopulismo, nel XXI secolo, è una figura antica e modernissima, che nasce in Italia ma può proporsi all’Europa come accomodamento finale di democrazie esauste, incapaci di trovare in se stesse e nelle loro procedure classiche l’energia politica e la forza di partecipazione che rende un sistema efficiente, governante, seducente. Vedi che siamo già subito al limite del lessico politico-istituzionale, perché qui entra in gioco non tanto la determinazione del singolo cittadino, quanto la psicologia della massa, dell’insieme, dei «molti», per dirlo alla tedesca. Ma io presterei attenzione al fenomeno, che può sembrare primitivo e invece è multiforme, duttile e capace di riformularsi secondo le esigenze dei tempi, aggiornando le categorie primarie e fondamentali dell’amore e dell’odio, dell’irrazionalità, del velleitarismo e del sentimento. In un’epoca di decadenza, quand’è tipico – lo dice Nietzsche – «scegliere istintivamente ciò che è nocivo», farsi sedurre «da motivazioni non finalizzate», preferire «al reale l’artificiale», perdere «le capacità spontanee di autoregolazione collettive o individuali», il populismo può diventare addirittura una tentazione per l’Occidente, la sua scorciatoia. Ti sembra troppo? gz  No, non mi sembra troppo. Mi sembra però una storia alla quale abbiamo già assistito, anche se l’abbiamo dimenticata. È la storia del potere come seduzione. Abbiamo detto che non dobbiamo cadere in affrettate identificazioni. Va bene: consideriamo le differenze ma non ignoriamo le analogie. Ci sarà concesso di dire che la seduzione delle folle è stato uno degli ingredienti dei regimi totalitari del secolo scorso e che, dunque, almeno sotto questo aspetto, l’analogia c’è. Hai citato la psicologia della massa. Così hai evocato Sigmund Freud e il suo saggio su La psicologia delle masse e l’analisi dell’io del 1921, un breve testo che potrebbe valere da efficace antidoto alla malattia mortale della democrazia, il cupio dissolvi della ragione critica che hai così bene rappresentato.

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Aggiungerei il Thomas Mann del racconto, spesso citato ma pochissimo letto, Mario e il mago dove si narra di uno spettacolo allucinatorio, ambientato nell’atmosfera d’una vacanza nella Versilia del 1930, durante il quale un ciarlatano, torbido manipolatore delle coscienze, conquista il pubblico ipnotizzandolo e costringendolo, ma col suo consenso, anzi con la sua adesione, a ballare al sibilo del suo scudiscio. Fino al tragico finale, al momento del risveglio. È descritto un impasto di identificazione di massa, violenza psicologica, adesione fanatica, coscienze pervertite che si offrono al seduttore senza sapersi sottrarre all’illusione perché il risveglio è più doloroso della soggezione: un impasto che sfocia nella tragedia. Anche questa è una lettura illuminante, una volta che si aggiornino i riferimenti: per esempio ci si chieda in che cosa consiste, oggi, lo scudiscio. Freud e Mann, due testi che sarebbero da leggere quando si parla a scuola di «educazione civica». em 

Bobbio spiegava che la politica è nata per faticare a sciogliere i nodi complicati della contemporaneità, mentre oggi il populismo lascia credere di saperli tagliare direttamente con la spada sguainata del comando, solo che la si lasci libera di agire. Guarda la potenza politica della suggestione. In un’epoca di complessità, di spaesamento, di perdita di possesso del proprio territorio identitario, nazionale e individuale, ecco che il populismo agisce come una rassicurazione e soprattutto una semplificazione. Insisto su questo punto che spiega da solo molte cose. La «semplificazione governante» condensa le categorie astratte e sfuocate della politica e delle istituzioni in una figura sola, precisa e forte, che offre immedesimazione mentre la chiede e intanto sorride, promette e perdona, cioè abbraccia in un sentimento nazionale collettivo e inclusivo le solitudini private sparse e disperse, e lo stesso concetto di politica. Ho detto una cultura, perché c’è una tecnica, un racconto, una mitologia d’uso comune, un disegno, una dotazione di mezzi. Tutto questo sa entrare in sintonia col fastidio diffuso per la burocrazia, l’insufficienza, gli sprechi, con la generica ­­­­­162

insofferenza per le tasse, lo Stato, la politica come professione. Cioè con un mondo vecchio e nuovo di teorici imprenditori di se stessi, che rifiutano intermediazioni politiche e cercano appunto semplificazioni simboliche, dentro un racconto di ribellismo borghese. E qui c’è, naturalmente e soprattutto, la figura centrale e indispensabile del leader, che incarna quella cultura e la impersona, e qualche volta non solo la invera nei fatti, ma la crea e la aggiorna, trasformandola. Siamo, dunque, davanti ad un esperimento vero e proprio, capace di rispondere a quella «rivolta dell’uomo comune», teorizzata da Del Noce, contro le élites e il professionismo politico: il populismo come forma politica della destra nel nuovo secolo. gz 

Dalle tue parole, il capo populista ci si mostra come un eroe. L’uomo comune, l’essere senza qualità che avverte il suo spaesamento, trova in questa figura la compensazione del suo vuoto esistenziale. È quasi un curatore d’anime alla deriva. Non pensi che il quadro possa rovesciarsi facilmente e quello, che un momento prima ci sembrava un eroe del nostro tempo, potrà sembrarci, un momento dopo, un clown? E che ci si possa chiedere, increduli di se stessi, come sia stato possibile l’abbaglio? em 

Richiamerei la tua attenzione su un punto. La cifra di questa politica è la dismisura, che nel pubblico diventa abuso di potere, nel privato incoscienza del limite. Ma ecco che il populismo si nutre necessariamente di dismisura, ne è il veicolo necessario e perfetto. Non può farne a meno. È infatti una concezione titanica della leadership, un’affabulazione del reale e del leggendario mescolati in una mitologia del contemporaneo, dove la storia scorre soltanto nella direzione eroica, di successo in successo, e non sono previsti dubbi, semplici pause e incertezze. In questa continua tensione emotiva, scandita con una logica elementare e binaria (il Bene e il Male, l’Amore e l’Odio, i Nemici e gli Amici) e veicolata con una tecnica sofisticatissima del mezzo e del messaggio, ogni ­­­­­163

esagerazione diventa accettabile e anzi coerente, ogni gigantismo è compatibile per accumulo, il «troppo» è indispensabile, l’eccesso non è solo consentito ma applaudito: come elemento costitutivo specifico della storia epica di cui abbiamo la fortuna d’essere comprimari, forse testimoni, comunque spettatori. Ecco perché tutto è accettato, nulla indigna e il Paese digerisce ogni forzatura. Perché il disegno complessivo – la cultura populista – rende compatibile e plausibile ogni nuovo strappo, ogni singola forzatura, e il quadro dilatato e sproporzionato che ne deriva, con il Paese tenuto in sollecitazione permanente, non per un fine, ma come mezzo. Solo, una domanda: cosa c’entra con tutto questo la politica? gz 

Hai ragione. Questa concezione del potere implica una legge che con la democrazia non ha nulla a che fare. Dico la democrazia come forma politica critica e autocritica, basata su prove, riprove e correzioni, sul riconoscimento degli errori e la possibilità di ricominciare da capo. In fondo, le elezioni, la scelta tra programmi e uomini di governo, la sostituzione di una maggioranza vecchia con una nuova, i controlli: tutto questo ha a che vedere con una concezione critica della politica. Ciò che hai descritto è il contrario: una formula del potere che procede per accumulo. Tu la definisci «gigantismo». Non sono previste né marce indietro, né autocritiche. Anche gli errori devono accumularsi presentandosi come successi. Al primo accenno di debolezza, inizia la corsa sempre più veloce verso la fine. Chiedi giustamente che cosa c’entra tutto ciò con la politica. Se non con la politica, con che cosa ha a che fare? Dovremmo guardare sotto le apparenze. em 

Mi sembra un caso concreto in cui la forma rischia di fagocitare la sostanza. Il neo-populismo della destra italiana prende ormai il posto della politica, le dà fondamento e indirizzo, la determina: dal tono alla retorica, al linguaggio, ai proclami, all’iconografia, fino alle gerarchie, alle nomenklature, alle alleanze, alle strategie. La politica è diventata que­­­­­164

sto: uno spazio di potestà del Capo che parla al suo popolo in forma diretta, agisce saltando istituzioni e mediazioni, in un dialogo mai interrotto. Un dialogo che nella realtà è a senso unico (tanto che nasce come messaggio televisivo in cassetta, e oggi prosegue come audio incorporeo che cala dall’etere) ma, nello stesso tempo, è attento ad avvolgersi sempre nella mistica della sovranità popolare, come potere continuamente costituente del comando. La politica è il risultato e la proiezione di questo format, la destra è la sostanza ideologica, il populismo è il cuore e la natura di tutto. gz 

Dici che la forma, cioè l’esteriorità, la rappresentazione del potere «smisurato» rischia di fagocitare la sostanza. Se vuoi dire che l’effetto è la scomparsa della sostanza, mangiata dalla forma, ti propongo una precisazione: la politica come sostanza non si vede più. Il nostro Paese è in crisi di politica e questo spiega tante cose, a incominciare dalla diffusa indifferenza dei cittadini, dettata oggi non più da ragioni qualunquiste, ma dalla sfiducia nella politica come tale. La politica è libera scelta dei fini. Ma, oggi, dov’è questa libertà? Al massimo la politica esprime la gestione (buona o cattiva) dell’esistente. La gestione non scalda i cuori e può essere lasciata ai tecnici, ai burocrati (riprenderemo questo argomento). Ma se sotto la forma non si intravede la politica, qualche cosa tuttavia c’è, e non dovremmo farci ingannare dalle apparenze. A mio parere, la politica come rappresentazione tende a deviare da quello che c’è sotto, e sotto c’è il potere, il potere per il potere; il potere che per sua natura tende a diventare «smisurato» – come hai detto – perché questa è la logica del potere. Ma che genere di potere? Il potere non è mai concentrato in una sola persona, nemmeno nei regimi più «personalizzati». La persona in vista è sempre e solo la punta di un iceberg. Sotto la superficie c’è un «giro di potere» di natura oligarchica che sostiene il suo simbolo visibile, lo «spende» in pubblico e, al tempo stesso, lo condiziona perché gli è necessario. Naturalmente, il condizionamento è reciproco e dipende dalle ­­­­­165

risorse politiche ed economiche di cui si dispone. Ma, certo, esiste sempre. Oggi più che mai, sarebbe necessario gettare uno sguardo su questo retrobottega del potere per poterne comprendere la natura, le ramificazioni, gli interessi. E per combatterlo, non solo perché è una degenerazione oligarchica della democrazia, ma anche perché è quasi sempre al limite della legalità. La corruzione lo nutre. La corruzione, quando vogliamo vedere che cosa è, scopriamo che è appropriazione privata di risorse pubbliche. L’Italia, caro Ezio, nella parte che ancora non è occupata, è in svendita, come non mai. In questo, probabilmente, è solo un’avanguardia d’una tendenza mondiale di quello che si chiama il trentennio neoliberista, che abbiamo dietro di noi. Ecco qual è la sostanza di cui la nostra forma politica è il guscio. Il guscio di un «grande saccheggio», per usare il titolo di un libro recente*. Se il potere democratico è fuori dalle regole em 

Sono partito dal populismo per l’analisi della nuova destra italiana perché, come abbiamo detto, è il cuore e la cornice di questa forma di potere che chiamiamo berlusconismo, è la sua cultura pratica e dominante.

gz  Non per essere petulante: dobbiamo proprio, anche noi, usare questa parola, «berlusconismo»? Non credi che si contribuisca, per così dire, a monumentalizzare qualcosa che alla fine si rivelerà come un bluff? Non ti pare un poco prematura la parola di nuovo conio? Tanto più che si tratta di un prodotto di alterazioni, degenerazioni: anomalie, appunto. Un sistema di anomalie merita un nuovo «ismo»? Berluscon-ismo, accanto a costituzional-ismo, liberal-ismo, social-ismo, ecc., non ci sembra un po’ fuori misura? Non si trasforma così l’eccentricità in modello? C’è stato il pe­

*  P. Bevilacqua, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, Roma-Bari 2011.

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ronismo, il tito-ismo, lo stalin-ismo, ma questi erano davvero categorie politiche definibili più per quel che erano, che non per quel che non erano, in confronto a riconosciuti modelli classici. Ma lasciamo perdere: mi rendo conto io stesso d’essere pedante. em 

Tu dici in sostanza che l’«ismo» bisogna guadagnarselo, e hai ragione. Ma vediamo le mie – mie perché ne parlo e ne scrivo spesso – quattro anomalie, e proviamo a capire. Sono costitutive – perché presenti fin dall’inizio di questa avventura, tanto da caratterizzarne la prima identità –, e nello stesso tempo permanenti – perché inscindibili dalla natura stessa di questo fenomeno, per come si manifesta e si realizza. Si tratta del conflitto d’interessi, dello strapotere economico e mediatico, della legislazione ad personam, e naturalmente del populismo. Le chiamo anomalie perché non esistono esperienze simili nelle democrazie occidentali, dunque rappresentano un unicum che non ha precedenti, nemmeno nel nostro Paese. In più, non si tratta di una concentrazione casuale d’eccezioni, perché le quattro anomalie interagiscono tra di loro, si sostengono e si potenziano, dando vita ad una «singolarità» politica che si appoggia a una licenza privilegiata e continua, ne trae uno status speciale che già di per sé squilibra i rapporti di forza e l’uguaglianza della competizione politica. Dicevamo prima che la dismisura è la cifra di questo esperimento: e infatti l’abuso quotidiano che deriva dall’esercizio abituale delle quattro anomalie è patente, anzi ostentato e quasi rivendicato dall’unico beneficiario. In qualche modo, le anomalie costituiscono un recinto di privilegio che, nella specialità delle prerogative di cui il potere si circonda, connota chi l’esercita come diverso dagli altri per sua stessa natura, per condizione di nascita e dote di partenza. Il berlusconismo – lasciami dire ancora una volta – nasce disuguale perché si concepisce fuori delle regole e si attrezza per essere sproporzionato. Riuscendoci. Questa originalità del peccato viene sottovalutata. Pensaci. Le disuguaglianze, quindi la ­­­­­167

sproporzione, sono originarie, costitutive. Quando parliamo della scarsa capacità di reazione dei cittadini a queste forzature, ricordiamoci che hanno visto nascere così la nuova destra, così l’hanno conosciuta, e questa sorta di privilegio originale la rende – se mi spiego – quasi «innocente» nei suoi atti successivi: come se seguisse una sua natura, che la obbliga. In più il populismo «vende» ogni comportamento non conforme come una novità politica, un atto di dilettantismo puro e sapiente, una rottura rispetto all’élite, dunque una variante di modernità nel discorso pubblico. Ricordiamoci di questo imprinting all’insegna della disuguaglianza, dell’abuso e dell’anticonformismo. Questo è il codice genetico della nuova destra italiana, che la rende molto poco europea, niente affatto occidentale già solo per il suo modo di essere, prima ancora che per il suo modo di pensare: salvo che qualcuno mi dimostri il contrario. gz  È vero. Nell’origine è compresa l’assoluzione per tutto quello che sarebbe seguito, conformemente alla promessa iniziale. Per me, l’atto simbolico originario, che ha spalancato le porte, è stato il famoso discorso della «discesa in campo». Ricordi? Era il 26 gennaio 1994, l’inizio dell’avventura, quando fu dato «l’annuncio», l’annuncio della «chiamata»: «Ho sentito una specie di responsabilità che non poteva essere elusa e [...] mi sono sentito nella condizione di chi, dovendo partire per un bel viaggio, si è trovato improvvisamente davanti qualcuno bisognoso d’aiuto. Ecco, nonostante la prospettiva del viaggio, nonostante la vacanza programmata, non sarebbe stato possibile girare la testa dall’altra parte, si sarebbe trattato di una vera e propria omissione di soccorso. È per questo – perché ci sentiamo tutti responsabili, chiamati a uscire dal nostro egoismo per fare quanto possiamo per il nostro Paese – che siamo qui, che abbiamo risposto a questa chiamata alle armi». Qui c’è già tutto: l’uomo potente che si rivolge al Paese dolente per offrirgli soccorso gratuitamente, anzi col sacrificio della propria vita beata, e che si presenta come portatore

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d’una missione salvifica per la quale chiama a raccolta i suoi, anzi li chiama alle armi, come una Giovanna d’Arco Pulzella d’Orléans dei nostri tempi. Ti prego di immaginare se in altri Paesi un discorso così si sarebbe potuto immaginare. Avrebbe provocato solo risate. Invece l’Italia rispose e, in questa risposta, c’era un’autorizzazione e un’assoluzione preventiva. La missione salvifica non sa che farsi di regole, limiti, divieti che valgono per i comuni mortali e rappresentano la cornice entro la quale si agitano quelli del «teatrino della politica», quelli che tanto male ci hanno fatto e ch’egli è venuto, giustappunto, a spazzare via. C’è una mitologia, una sorta di teologia politica involgarita, in tutto questo. em 

Il vissuto mitologico di questa incarnazione moderna della destra comincia proprio da qui, dalle anomalie proiettate alla nazione come elementi di una specialità antropologica ben prima che politica del Capo, peculiarità esclusive che connotano il potere berlusconiano e lo separano dal resto, rendendolo così diverso da diventare irraggiungibile. Lo strapotere economico è la fonte leggendaria del mito originario, con il miliardario che si camuffa da outsider; il fondamento del carisma extrapolitico del tycoon che si è fatto da sé e che, dunque, oggi può ben «rifare» lo Stato e il Paese. Lo strapotere mediatico è la reiterazione quotidiana e permanente di questo racconto carismatico, impiantato su un paesaggio virtuale di comodo, dove la realtà viene ogni giorno cancellata o rimodellata per adattarsi al formato psicopolitico dominante. Fino alla reinvenzione televisiva del contesto, come se la vera operazione politica del quindicennio fosse la confezione quotidiana di un palinsesto unico della vita nazionale: un copione dove, come dice Massimo Cacciari, «l’agire politico tradizionale decade di minuto in minuto» e cresce in proporzione la funzione dell’annuncio, della promessa, «della ricerca a breve del consenso». Ma non mi hai ancora detto se sei d’accordo sulle mie quattro anomalie. Mie, cioè sue, naturalmente. ­­­­­169

gz  Come no? Le si potrebbe esprimere anche in questo altro modo che si richiama alla visione tri-funzionale delle società. Semplifico una teoria che ha impegnato studiosi di storia, antropologia, filosofia, mitologia. Meno i costituzionalisti, ed è male. Qualunque società – dice questa teoria – ha bisogno di economia, politica e cultura. Si tratta di produrre beni materiali, di assicurare l’ordine e la sicurezza, di legare spiritualmente gli esseri viventi tra loro e tra le generazioni in un’identità comune. Se queste funzioni sono reciprocamente autonome – cioè se non ci sono confusioni tra chi opera in questi tre campi – la vita collettiva si svolge secondo un certo equilibrio. Noto tra parentesi che la tripartizione dei poteri di Montesquieu si radicava in una società, quella francese dell’Antico Regime, in cui questa separazione funzionale della società era ancora presente nei cosiddetti tre «stati». Oggi non è più così, ma ugualmente i rischi per l’ordinata e libera vita sociale derivano ancora dalla confusione delle tre funzioni e dalla loro unificazione in un solo centro di potere o in un sol uomo. Perché? Perché il successo, cioè il potere, acquisito in uno dei tre campi dell’attività sociale, se viene «speso» in un altro produce due effetti: una concentrazione eccessiva di potere e la corruzione dell’éthos proprio di ciascuna funzione. Pensa, solo per esempio, che cosa può succedere se un ricco imprenditore si impadronisce del potere politico e, usandolo a suo vantaggio (è cosa umanamente comprensibile), altera le leggi della concorrenza. Non sarebbe un cattivo politico e, allo stesso tempo, un cattivo imprenditore? em 

Senza dubbio.

gz  E, sempre per esempio, se quello stesso potente imprenditore, che è anche politico, potesse fondare e acquistare case editrici di libri e giornali, creare reti televisive, ingaggiare giornalisti e uomini di pensiero e di spettacolo chiedendo loro di immaginare e di produrre informazione e spettacoli orientati a promuovere nell’opinione pubblica adesione alla sua visione della vita e quindi, in definitiva, al suo potere, non

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diresti che anch’egli è nocivo alla politica e alla cultura, così come immaginiamo che debbano essere: la politica rispettosa della cultura e la cultura indipendente dalla politica? em 

Ma certamente. Sarebbero tutti conflitti d’interesse.

gz  Dal punto di vista tuo e mio, diciamo conflitti perché pensiamo che gli interessi obbiettivi che devono muovere economia, politica e cultura sono diversi e, se si concentrano in uno, entrano in conflitto. Ma, dal punto di vista di quell’uno, potente in tutte e tre le funzioni, non c’è affatto conflitto, c’è concorso: concorso d’interessi. Non credo che questo concorso generi quella fastidiosa sensazione – l’io diviso – che prova chi si trova a rispondere a opposte fedeltà. Genera invece un accumulo di potere, non solo abnorme, fuori misura, ma anche corruttivo dell’etica propria di ciascuna funzione. Il super-omismo, il sentimento d’onnipotenza, l’insofferenza alle regole, l’atteggiamento paternalistico nei confronti degli altri se gli sono clienti, il desiderio di piacere e d’essere amato a ogni costo, la ferocia nei confronti di chi non accetta la sua benevolenza e la sua protezione, la manipolazione della verità dei fatti quando ostacolano la sua figura di grande protettore, la riduzione dei cittadini a minorenni politici: in breve, tutto ciò che tu hai richiamato per definire il populismo del nostro tempo non sarebbe possibile in una società equilibrata, dove i confini delle tre funzioni fossero saldamente presidiati da leggi impeditive e repressive delle abusive contaminazioni e concentrazioni. em 

In effetti, il conflitto – o il concorso – d’interessi porta tutto questo a invadere il campo dello Stato e del governo, attraverso la politica e le istituzioni, ibridando entrambe con misure finanziarie ed economiche protette e finalizzate. Questa dotazione illegittima di politica commista a imprenditoria, finanza e potenza comunicativa moltiplica e ingigantisce il potenziale di controllo improprio, di consenso disuguale, di dominio privilegiato e alla fine di seduzione o di attacco, quando serve. L’altra ­­­­­171

anomalia, le leggi ad personam, è trasfigurazione in legge dello Stato del privilegio di uno solo, l’inserimento nella universalità democratica della giurisdizione, nata come uguale garanzia per tutti, di un’eccezione permanente, che diventa norma. Ma eccoci alla quarta anomalia, che ci riporta al punto dal quale sono partito: perché è il populismo, nella sua cultura e nella sua prassi, che rende tutto ciò possibile per il Capo e plausibile per il cittadino. Il populismo è la teorizzazione preventiva, e poi costante, di tutto ciò che doveva accadere, e che stiamo infatti vivendo. È la raffigurazione dell’anomalia permanente come necessità, come prova e conferma della sovranità disuguale, dunque privilegiata e addirittura predestinata. È il sigillo culturale, divulgato come azione politica, di un potere nuovo e diverso, così incongruo da creare un rapporto naturalmente gerarchico, tanto che ogni relazione è possibile solo dal basso verso l’alto, soltanto fra disuguali, come nell’età dei sovrani. Potremmo dire che il populismo crea il leader come «altro» (concetto eterodosso in democrazia) che abita un «altrove», irraggiungibile. L’iconografia ufficiale televisiva ne è la certificazione: il tricolore dirottato dentro i fondali della mitologia domestica di Arcore e Palazzo Grazioli, nuove capitali di uno Stato personalizzato, non soltanto luoghi privati d’incontri e decisioni pubbliche, ma ben di più: luoghi dove la sovranità pubblica si privatizza e dove il privato si esibisce sovranamente. Accettata questa alterità del potere, sarà facile un minuto dopo accettare che è per sempre invincibile. gz  Già! Se esaminassimo per intero il discorso della «discesa in campo» che ho già citato, vi troveremmo il germe di quella «sovranità disuguale», come l’hai definita; della concezione del potere che promana dall’alto, mentre dal basso si aspetta soltanto approvazione; della confusione nella persona del Capo di pubblico e di privato. Va bene! Diciamo che siamo in democrazia perché ci sono le elezioni. Ma bastano perché sia una democrazia che ci piace?

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Egemonia senza cultura em 

Hai visto che faccio un continuo riferimento alle culture, per spiegare il fenomeno della nuova destra italiana. Non si capisce nulla guardando solo alla prassi, all’istinto del leader, al rapporto di forza, al plusvalore televisivo, e neppure alla pura politica. Certo, non li sottovalutiamo. Ma nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza la conquista dell’egemonia culturale. Qui è avvenuto un cambio epocale. Di cui Berlusconi è certo protagonista, ma protagonista finale, e quindi soprattutto beneficiario. Si è sempre pensato che fosse beneficiario diretto del crollo di sistema politico prodotto da Tangentopoli, e certo è così. Ma ha beneficiato anche di un’altra rottura, altrettanto importante, nel sistema di valori riconosciuti, condivisi e accettati che avevano retto tutta la prima repubblica.

gz  Sì. Senza il cambio dei paradigmi collettivi, non saremmo a questo punto. Il populismo di cui abbiamo parlato ha bisogno di una cultura populista, così come la democrazia ha bisogno d’una cultura democratica. Ogni tipo di organizzazione sociale ha bisogno di un éthos corrispondente. Questo punto a me pare particolarmente chiaro. Ma evidentemente sbaglio. Quando, di recente, è venuta una delle tante proposte di rinverdire nelle nostre scuole la «educazione civica», fondata sui grandi principî della democrazia – libertà, uguaglianza, solidarietà, responsabilità – s’è detto che questo sarebbe stato «indottrinamento»: cosa evidentemente in contrasto con la democrazia stessa. S’è detto che la democrazia è il sistema politico degli «uomini così come sono», non «così come dovrebbero essere». Si è evocato lo spettro dello «Stato etico», del giacobinismo, dell’«uomo nuovo» caro a tutti i totalitarismi. em 

...infatti, hai scritto un libretto intitolato Imparare democrazia* e ti hanno detto che sei un fascista, magari inconsapevole d’esserlo, mascherato da democratico... *  Einaudi, Torino 2007.

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gz  Ma, ti chiedo, in una società servile ci può essere democrazia? Al contrario, in una società libertaria ci può essere autocrazia? Non è forse necessario che esista un éthos coerente tra sostanza sociale e forma politica? em 

Non stai parlando proprio di ciò che oggi è perduto? Manca un comune sentire repubblicano, una cultura condivisa della democrazia, dei rapporti tra il cittadino e lo Stato.

gz  La questione è antica. I rivoluzionari in Francia che, a differenza degli Stati Uniti d’America, avevano a che fare con un popolo abituato da secoli al servaggio, si sono posti il problema nel momento in cui la Repubblica creava il suo sistema scolastico. I cittadini non devono essere «indottrinati», dice Condorcet nei suoi Mémoires sull’istruzione pubblica (1792). Ciò non di meno, la Repubblica ha bisogno di cittadini avvezzi alle virtù repubblicane. E allora? La risposta è nella separazione dell’istruzione dall’educazione. L’istruzione è compito dello Stato; l’educazione, della società. Così distinguendo, Condorcet prendeva le distanze dai giacobini che invece volevano lo Stato-educatore, progenitore dello Stato etico. Credo che la distinzione – problematica nella sua linea di confine – sia giusta nella sua ispirazione. Se è giusta, allora il compito di alimentare lo spirito democratico, in definitiva il compito di alimentare la democrazia nella sua dimensione ideale – sempre che ci si creda – spetta a coloro che, nella società, svolgono compiti rilevanti nella formazione della cultura. Si capisce così l’importanza delle professioni intellettuali e, al tempo stesso, la necessità che coloro che le esercitano operino in libertà, cioè senza prostituirsi e senza prostituirle alle ragioni della politica o dell’economia. Certo, la cultura non è un gioco fine a se stesso; non è una divagazione dalla vita, dai suoi problemi e anche dalle sue bassure; non è il vuoto privilegio di chi può permettersi di parlare della vita degli altri senza viverla lui stesso. È l’assunzione di una pesante responsabilità. Può essere, anzi deve essere «militante», ma

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non può militare per interessi estranei alla sua ragion d’essere che è la libertà del giudizio. La trahison des clercs di cui, nel 1927, ha parlato Julien Benda nella sua celebre denuncia della vigliaccheria degli intellettuali al tempo della grande crisi europea e dell’avvento dei fascismi, si può consumare per due opposte ragioni: disimpegno e asservimento. Cosa dire per l’Italia del tempo della nostra democrazia? em 

Abbiamo assistito a un mutamento che parte da lontano. Lo schema a cui faccio riferimento nella discussione giornalistica è questo: è chiaro che nel lungo dopoguerra italiano la cultura guardava a sinistra, in un Paese politicamente moderato. Ed è chiaro anche che chi più si è giovato di questo clima intellettuale è stato il Pci, gramscianamente (prima e più di Togliatti) educato a cogliere quei frutti. La cultura di sinistra (in gran parte libera cultura di sinistra, da Bobbio a Pasolini) in un’Italia democristiana è stata uno degli ingredienti della crescita e della modernizzazione del Paese, una sorta di correzione laica, di bipartitismo culturale in un Paese dal bipartitismo politico imperfetto. Certo l’egemonia culturale di sinistra ha perpetuato alcuni «blocchi» nel dibattito italiano, come la lettura di una Resistenza incentrata sui comunisti, il silenzio sulle foibe e sulla vendetta dei vincitori nel dopoguerra. E un’ipocrisia o, peggio, una mistificazione nei confronti dei crimini del comunismo, in Urss e negli altri Paesi dove era andato al potere, nella convinzione colpevole che la verità, come dice Martin Amis, «poteva sempre essere posticipata». Teniamo conto che quell’egemonia nasceva nella cultura, non nella politica, ma nell’opera individuale di scrittori, registi, intellettuali orientati a sinistra, però non longa manus di un partito. E ricordiamo in ogni caso, come fa Eugenio Scalfari, che in quello stesso dopoguerra i giornali, i rotocalchi, la radio e la televisione – cioè le strutture culturali portanti – sono sempre stati nelle mani dei partiti di governo e dei poteri cosiddetti forti, che allora lo erano davvero e che quei partiti fiancheggiavano totalmente. In ogni caso, per ­­­­­175

comodità assumiamo pure lo schema all’ingrosso: egemonia politica moderata per tutta la prima repubblica, egemonia culturale di sinistra. Bene, questo schema è cambiato. Sei d’accordo? gz  Mi pare che la tua immagine di un «bipartitismo culturale», una sorta di contraltare al bipartitismo partitico, sia di quelle felici che ci inducono a pensare. Innanzitutto, ci sono stati «partiti culturali»? A destra, c’è stato un «partito culturale»? Direi di no, per difetto. Il fascismo culturale era nell’angolo e, d’altra parte, non avrebbe potuto «fare partito» con la gloriosa tradizione liberale, che pur continuava a esistere (basti il nome di Luigi Einaudi). Il mondo cattolico ha espresso cultura civile, cioè non proveniente dal magistero della Chiesa? Sì, certo: padre Balducci, don Milani, Franco Rodano, Felice Balbo, per fare solo qualche esempio, ma stavano a sinistra. A destra, c’era il pensiero impervio, e perciò solitario, di Augusto Del Noce e non mi pare molto altro. Quanto alla sinistra, non credo che si possa parlare di partito culturale, almeno nel senso che questa parola suggerisce. Se a destra c’era un difetto, qui c’era un eccesso. Parlerei piuttosto di orientamento: antifascismo, democrazia (peraltro in senso piuttosto generico), rinnovamento della vita civile e politica nel senso della giustizia sociale (in senso ancora più generico). Che cosa univa la visione della democrazia liberaldemocratica a quella democratico-progressiva? Come stavano insieme i diritti individuali e la laicità dello Stato con l’organicismo della democrazia di massa, che non aveva troppi problemi a stabilire accordi politici con la Chiesa? La stessa visione della storia era opposta: per gli uni, sarebbe dovuta essere una strada senza fine verso una società di individui liberi, con la giustizia come ancella; per gli altri, l’approdo alla società giusta, che avrebbe non soppresso, ma resa superflua la libertà in cui credevano i primi. La polemica di Togliatti contro il Bobbio di Politica e cultura (1955), una polemica dotta e civile ma anche radicale e veemente, rappresentò la

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sintesi del vecchio contrasto che costituirà fino a oggi il prodromo di ogni successivo furore contro gli «azionisti». Come vuoi che queste divisioni producessero «un partito»! em 

Ma, allora, neghi anche che ci sia stata un’egemonia culturale di sinistra?

gz  Parlerei di prevalenza, dovuta principalmente all’inconsistenza dell’altro fronte. Anche per la cultura, vale la legge del potere: si espande fino a dove non trova un argine, una forza (culturale) contraria. Questa è la spiegazione in generale della prevalenza. Non certo l’esistenza di qualche oscuro disegno programmatico di potere e, tantomeno, cospiratorio. Certamente, come tu dici, i partiti di sinistra – il Partito comunista in particolare – furono i beneficiari delle opere di quella cultura e si occuparono di «politica culturale», nel senso della strumentalizzazione della cultura a fini politicopartitici. Mi pare ovvio. Strano sarebbe se non fosse stato così. Ma, a parte eccezioni di intellettuali organici, affascinati dall’idea leninista del partito come «intellettuale collettivo», i nomi più rappresentativi della cultura di sinistra ci parlano di spiriti liberi. Hai citato Pasolini, ma quanti altri si potrebbero ricordare, nell’ambito del pensiero liberal-democratico, in quello socialista, in quello cristiano-sociale! Per questo, userei «prevalenza», piuttosto che «egemonia». Egemonia, da noi, richiama immediatamente Antonio Gramsci, che usava questa espressione per indicare la supremazia di un gruppo sociale, che si manifesta come «dominio» e come «direzione intellettuale e morale». Posto che ci sia stata allora una qualche prevalenza intellettuale e morale della cultura di sinistra, certamente non c’è stato «dominio» e neppure «direzione». Tu hai ricordato come le leve del potere politico ed economico (l’egemonia gramsciana comporta anche la presenza nel «nucleo decisivo dell’attività economica») fossero in altre mani. Ricordi la polemica contro il «culturame» di Mario Scelba? Insomma, da noi la cultura non è mai stata al potere, non è mai stata «egemone». Nell’ambito marginale della cul-

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tura, quella di sinistra è stata prevalente. Questo sì. Però, qui non farei il pignolo. Egemonia, con le precisazioni opportune, rende l’idea di quel che vogliamo dire e serve benissimo per descrivere il passaggio da una fase a un’altra, il prima che eravamo e il dopo che non siamo più. em 

Gli elementi del cambio di egemonia sono molti, e sono chiari. Intanto una delle caratteristiche della sinistra contemporanea è la debolezza identitaria, non certo la sua forza: s’interroga sul suo destino e non capisce che dipende dalla sua natura, spesso non sa cosa dire perché in realtà non sa che cos’è, nel senso che non sa quali sono le sue radici culturali spendibili oggi, che nuovo nome hanno i suoi lari e i suoi penati superstiti dopo che in ritardo, in gravissimo ritardo, ha scoperto che il tabernacolo comunista era vuoto e menzognero. Per il resto, l’Einaudi fa parte dell’universo proprietario berlusconiano, nel cinema italiano i cinepanettoni hanno sostituito il «riso amaro», i giornali – salvo qualche eccezione – sono più o meno omogenei al nuovo mondo di destra, tanto da essere ogni volta disorientati dalle reazioni della grande stampa europea davanti agli strappi di Berlusconi. Tutto ciò mentre l’establishment è incapace di richiamare l’interesse generale e di marcare qualche opzione civile in autonomia, perché questo costa, e divide il fascio indistinto di notorietà conquistato nel grande rotocalco italiano e scambiato per consenso. Resta la tv, vero costruttore di quel substrato materiale di egemonia culturale che è il senso comune: e la tv in Italia è di destra prima ancora di accenderla, è ontologicamente berlusconiana. Ma il cambio è cominciato prima, quasi vent’anni fa, quando si è iniziata la destrutturazione di alcuni valori fondanti di questa democrazia repubblicana che il furore anticomunista dei revisionisti italiani ha colpito, delegittimato e gettato a mare perché troppo contigui e funzionali alla storia del comunismo italiano. Penso all’antifascismo, all’azionismo, al costituzionalismo, allo stesso laicismo, demonizzati ideologicamente come strumento politico di parte. ­­­­­178

gz  Ti interrompo. Sospetto che, tra i tanti possibili esempi di omologazione, tu abbia scelto la casa editrice Einaudi per lanciarmi una frecciata. em 

No, non ho frecce da lanciare. Stavo facendo i conti con il panorama culturale, realisticamente.

gz 

Dici così per schermirti, ma l’allusione c’è. Diversi autori hanno fatto la loro scelta, e l’hanno lasciata quando è entrata a far parte dell’impero. Io no, a costo di farmi dare del «mantenuto». A parte i legami anche personali di amicizia e stima con molti che vi lavorano e mantengono viva una tradizione, finché mi sarà possibile ci rimarrò. La speranza è di essere ancora lì nel minuto che seguirà la fine di questa storia: perché la fine, prima o poi, arriverà. Spero non troppo tardi, per riuscire ancora a vederla. Allora, qualche cosa di molto onorevole della nostra cultura potremo dire di averla salvata. Ma, riprendi il filo. em 

Pensa alla furia quasi iconoclasta, da nomenklatura entrante e vorace, con cui sono stati attaccati i Bobbio e i Galante Garrone per dimostrare che la virtù proclamata dell’antifascismo nascondeva il vizio della pavidità, che il moralismo era opportunismo, e che dunque – in realtà – l’azionismo era una cultura corriva e corruttrice, una falsa pedagogia civile perché predicava bene e razzolava male. I due intellettuali azionisti, per di più «torinesi», come si sottolinea sempre con sospetto e quasi con dileggio, erano ormai molto vecchi, fuori da ogni gioco politico e al di là di ogni ambizione pubblica. Ma testimoniavano una regola liberale coniugata in tutta la loro vita con il tentativo di emancipare la sinistra dai suoi ritardi, dai suoi errori, dalle sue complicità, dalle illusioni come quando Bobbio spiegò a Berlinguer che non esisteva «terza via» tra comunismo e democrazia. Aggiungi l’ostinazione a considerare la legalità un fondamento concreto della democrazia, a pensare che l’impegno ­­­­­179

civile sia un dovere, che le regole debbano valere anche nel Paese dove si fa l’elogio pubblico del malandrino. Si capisce perfettamente che l’azionismo sia stato e sia ancora il fantasma fisso di chi si professa liberale ma rinuncia volentieri a questi principî: non parliamo poi dell’antifascismo, della cultura costituzionale. gz  Il Partito d’Azione è scomparso dalla scena della nostra storia politica appena vi si è affacciato. Gli azionisti hanno dato un contributo e hanno pagato un prezzo molto alto nella lotta di liberazione dall’occupazione tedesca e fascista del Norditalia. Non mi pare che siano ricordati con particolare gratitudine. Anzi, sono diventati un concetto – l’azionismo – non solo esecrabile, ma che in quanto tale si è trasformato in qualcosa che ha a che vedere esclusivamente con un atteggiamento di etica politica (questo sì ha dato e dà fastidio, a destra come a sinistra). «Azionista» racchiude tante e diverse cose: tutte brutte e ormai totalmente sganciate dalle persone e dalle azioni. L’azionismo è diventato una categoria dello spirito, una categoria culturale. Qual è l’immagine che si vuol dare dell’azionista, allora? Innanzitutto è un intellettuale elitario che, in fondo, disprezza la massa, vuole farle la lezione, per di più con la presunzione che sia per il suo bene. Poi, è una «mosca cocchiera», un’anima bella, un generale senza truppe. Infine, è un rigorista che vorrebbe portare nella politica l’etica dei principî e delle convinzioni, senza pragmatismi e compromessi. Insomma, dal punto di vista delle capacità politiche, è un pedagogo moralista e velleitario. Ce lo immaginiamo – questo «azionista» – anche come un «tipo» antropologico a sé: un vecchio trombone (se non nel corpo, nell’anima), magari un «professorone», un moralista che tratta quotidianamente con le grandi idee che non sporcano le mani, mentre gli altri si danno da fare e le mani se le sporcano e si compromettono (loro sì!) nella «feconda bassura» dell’esperienza (espressione kantiana), cioè della «vera vita»: insomma, l’azionista è un morto vivente.

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Un vero disastro umano. In più, è anche un ipocrita perché, mentre incita gli altri all’azione (azionista, appunto) e a correrne i rischi, lui se ne sta nella biblioteca di casa sua, oppure con gli amici, come lui «radical chic» che, se hanno un cane, ha il pedigree oppure, ostentatamente, è un cane di strada e coltivano rancore per il mondo e il popolo bue, a caviale e champagne (la gauche-caviar). em 

Hai fatto una caricatura della caricatura.

gz  Certo che è una caricatura. Ma è quello che dicono. Un testimone al di sopra d’ogni sospetto, Vittorio Foa, nel suo libro Scelte di vita, accenna a un certo atteggiamento aristocratico, dottrinario dell’azionismo nonché a un difetto di realismo, quel realismo che invece abbondava nel Pci*. Il che suona un poco paradossale, per un partito che, negli anni della Resistenza, si proponeva di anteporre l’agire al teorizzare. Agire per cambiare l’Italia nel profondo. Nel profondo, vuol dire nel modo di concepire la nazione italiana e, in essa, la vita civile. Qui, mi pare, sta il nucleo culturale profondo dell’azionismo come antifascismo. Dal suo punto di vista, il fascismo non era stato «la parentesi» crociana. Era stato invece la gobettiana «autobiografia della nazione». Inutile ripetere cose dette e ridette mille volte. Si trattava di operare uno stacco nei caratteri politici tradizionali del nostro Paese: clientelismo, illegalismo, mancanza di principî, opportunismo, cattolicismo, megalomania, nazionalismo, provincialismo, spirito gregario, irresponsabilità. Democrazia diretta, autogoverno locale e operaio, federalismo europeo, riforme della struttura economica, ricambio della classe dirigente politica, laicità: un programma che avrebbe dovuto essere una specie di surrogato della mancata Riforma protestante, in un Paese che aveva conosciuto solo la Controriforma ed era controriformista nel midollo. Questa era la rivo-

*  Vedi, ad esempio, il capitolo IV di Scelte di vita, Einaudi, Torino 2010.

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luzione che l’azionismo prometteva e che l’Italia ha rifiutato. O, meglio, che la classe operaia, sulla cui alleanza l’azionismo puntava, rifiutò seguendo un’altra strada, una strada che ha comportato il venire a compromesso con l’Italia di sempre. Forse non avrebbe potuto essere diversamente, forse gli azionisti non avevano capito niente, oppure forse avevano capito tutto e proprio questa fu la ragione della loro scomparsa: forse, forse, forse... em 

La sconfitta è stata dunque definitiva. Ma allora perché l’astio?

gz  Perché caduto il movimento politico, l’azionismo è sopravvissuto come atteggiamento culturale. Sempre minoritario, ma certo tutt’altro che insignificante. Questo atteggiamento è un ostacolo a una certa normalizzazione del nostro Paese che si vorrebbe costruita su una «memoria condivisa», nella quale tutto diventa grigio e senza contorni, il fascismo e l’antifascismo si equiparano come esperienze entrambe eccessive, rispetto all’indole nazionale moderata, capace di ogni mediazione. Una normalizzazione che inevitabilmente porterebbe ad archiviare la Costituzione, o almeno la sua interpretazione come rottura della continuità, come inizio d’una vita nazionale nuova. Una normalizzazione che ha bisogno più della flessibilità politica, della pratica d’alchimie elettorali e parlamentari, della disponibilità a ogni genere di compromessi, che dell’intransigenza sui principî. em 

Dunque, l’odio verso l’azionista si spiegherebbe con l’amore verso l’Italia di sempre, l’eterna italianità.

gz  Mi pare che si possa dire così. In questo contesto, «italiano» vuol dire anti-azionista e azionista vuol dire «antiitaliano». «Azionista» è diventato una sintesi, cui spesso si contrappone «l’arci-italiano». Quelli che per il primo sono vizi pubblici del nostro Paese, per il secondo sono virtù. Il contrasto non potrebbe essere più netto. Lo spirito azionista

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è ciò che, di tanto in tanto, crea qualche crepa, qualche increspatura sulla superficie che si vorrebbe tutta liscia dell’Italia di sempre, con i suoi vizi e le sue virtù inestricabilmente intrecciate e tranquillamente accettate. em 

In un Paese meno avventuroso del nostro, con un diverso equilibrio tra senso dello Stato e ideologia, quei valori di cui parlavamo prima verrebbero considerati semplicemente come valori civili, anzi d’uso civico, nemmeno «democratici» se il termine sembra giacobino, ma certo «repubblicani».

gz 

Infatti, dove ancora si conservano, non sono patrimonio esclusivo di qualcuno, ma li troviamo diffusi trasversalmente: in certo mondo laico come in certo mondo cattolico, in certa destra politica, come in certa sinistra. C’è qui la matrice d’una intransigenza che unisce ormai, più nelle piazze che nelle aule parlamentari, gente di cultura e provenienza politica diverse. em 

Quei valori civili, repubblicani, dovrebbero essere il comune fondamento riconosciuto di una nazione che considera la sconfitta della dittatura come liberazione generale, per tutti, e da quel momento e grazie a quel momento sente di avere una storia patria unificante a cui fare riferimento al di là delle divisioni tra destra e sinistra. No: la nostra democrazia non ha valori repubblicani comuni. Come ha denunciato Bobbio, lo sforzo insistito per equiparare l’anticomunismo all’antifascismo ha portato ad un abominio che sta diventando anch’esso senso comune, sia pure per ora minoritario: l’equiparazione tra fascismo e antifascismo. Esponenti di primo piano del più grande partito italiano, hanno addirittura proposto più volte l’abolizione del 25 aprile, come se quella data fosse una sovrastruttura simbolica e ideologica, e non celebrasse invece un avvenimento storico, la fine della dittatura fascista. Altri hanno addirittura chiesto libertà di ricostituzione del partito ­­­­­183

fascista. Nostalgia? Ambiguità? Direi qualcosa di più: alienità. Tabula rasa della vicenda italiana, delle colpe e delle riconquiste, si tiene acceso solo il fuoco eterno dell’anticomunismo e per il resto nulla, quasi la storia italiana cominciasse nel ’94 con Berlusconi. Ecco perché io sono convinto che l’avvento della cultura pseudorivoluzionaria di una destra populista e moderna insieme sia stato possibile per l’opera costante e preventiva di destrutturazione dei valori civili, repubblicani, costituzionali che un certo revisionismo ha fatto in questi anni. Sia chiaro: operando per fini propri, liberamente, senza alcun legame con questa destra berlusconiana. Ma costruendo la cornice che ha fatto saltare il quadro repubblicano precedente – l’antifascismo, con quel tanto o quel poco di ribellione alla dittatura che è tuttavia sufficiente a legittimare la nostra democrazia come riconquistata, almeno in parte, e non interamente octroyée dagli alleati – e che oggi inquadra coerentemente il paesaggio berlusconiano. Ecco perché la nuova destra si sente culturalmente legittimata, anzi revanscista. gz  Credo che si possa dire così: il revisionismo storico-ideologico ha intaccato la cultura politica costituzionale e antifascista, lasciando grandi spazi vuoti. Il vuoto è stato riem‑ pito? Da che cosa? Da nuovi valori, cioè da una nuova cultura? Non direi. A meno di non nobilitare quella che a me pare un’educazione all’indifferenza e all’insensibilità, propedeutiche all’omologazione delle menti e dei sentimenti delle persone più esposte alle seduzioni consumistiche trasmesse, anzi inculcate, dai mezzi di comunicazione di massa. Allora: cultura senza egemonia; oggi: egemonia senza cultura. em 

Aggiungici che l’intercapedine liberale tra destra e sinistra ha funzionato da una parte sola. Il pedagogismo che ha stimolato per anni l’evoluzione della sinistra, e la incalza ancora oggi, non ha lavorato a destra. Certo, si criticano i toni, le forme, i modi, come se il problema fosse l’estetica istituzionale o il galateo politico, non la sostanza democratica, o come ­­­­­184

se la destra italiana – vecchia e nuova – avesse risolto le sue questioni di democrazia con la sola e salvifica apparizione di Berlusconi agli italiani nel ’94. Ogni problema è finito, grazie a questo accomodamento, quando tutto è cominciato. E le ambiguità in parte irrisolte del post-fascismo? E le tentazioni xenofobe della Lega? E il sentimento politico del Pdl, spesso alieno alle istituzioni che guida e allo Stato che governa, quasi fosse abusivo, provvisorio o straniero? Io ho sempre pensato che questo strabismo da mezzi pedagoghi sia un ideologismo. Perché se la sinistra deve continuare a confrontarsi con la vicenda tragica del comunismo, visto che ne è fuoruscita solo dopo la caduta del Muro ed è mancato il rendiconto, non si capisce come mai la destra possa invece camminare nel secolo, fuori dalla storia e dalle sue domande, quasi che il Novecento in Italia si chiuda zoppicando, da una parte sola. Ma la democrazia ha domande inevase per entrambi i contendenti, e nasconderle non serve a nulla. «Tecnicamente rivoluzionario»: nuovo ordine e nuove liturgie em 

Se accettiamo il cambio di egemonia come paradigma di fondo, sarà più facile comprendere la «rottura» degli equilibri che il berlusconismo ha portato con sé. La nuova egemonia ha nuove liturgie, non solo nuovi sacerdoti, ma nuovi riti e nuovi linguaggi. Cambiano i riferimenti di fondo. L’istinto del leader, le sue intuizioni e le sue necessità fecondano la politica e le istituzioni e le trasfigurano. Per questa ragione dico da anni che l’impianto di questa avventura è tecnicamente rivoluzionario, perché fonda un nuovo ordine, rielabora il passato, vincola a sé il futuro, anche se ciò che conta è il presente, perché è la dimensione in cui agisce il Capo e si invera la cultura del «fare». Ma in realtà l’impianto era tecnicamente rivoluzionario già dall’ora X, che segna il momento in cui il leader non è entrato in politica ma è «sceso in campo» con l’amore per il suo Paese come movente e orizzonte, dunque celebrando fin dal primo momento un’unione sacra che ­­­­­185

può essere solo esclusiva, e genererà un destino ben più che una politica. Questa genesi renderà eroico tutto il percorso, scomponendolo e ricomponendolo in una trasposizione mitologica del quotidiano. Si capisce che il Capo, così rivelatosi a se stesso e agli altri come in un’agnizione, non può essere frenato da vincoli di legge, bilanciamenti costituzionali, meccanismi istituzionali, organi di garanzia, strutture d’opinione. Deve apparire solo davanti al popolo, il «suo» popolo. La sua leadership, creando se stessa, lo ha ricreato come comunità d’elezione. Questa unione tra il leader e la sua base popolare perpetua la sacralità dell’unzione d’investitura, la trasforma in una corazza permanente mentre trasforma la politica in una missione votata alla redenzione del Paese. Si spiega, nel titanismo sciamanico di questa visione populista, come il governo sia uno strumento, ma non una dimensione, e certo non sufficiente, dunque non definitiva. L’obiettivo non è dunque, come per la politica tradizionale, la conquista del governo ma la presa del potere prima, la sua preservazione dopo, come avviene quando si instaura un credo. gz  Non temi di dare una raffigurazione un poco troppo eroica di un’esibizione del potere piuttosto ridicola? Non abbiamo l’Oro del Reno, ma Apicella; non abbiamo radunate fanatiche, ma spettatori di Drive in e del Grande Fratello; non abbiamo le camicie brune, ma i promotori della libertà; non abbiamo il destino che bussa alle porte della storia né l’uomo del destino, ma gli affari che premono sul portafoglio e l’uomo delle televisioni commerciali; non abbiamo il dominatore di quelle femmine che sono le masse, ma il pagatore del sesso a domicilio. Credi davvero che i suoi elettori pensino alla sacralità del potere, all’unto del Signore, alla missione, alla redenzione e altre cose del genere? Qualcuno ti guarderebbe con un sorrisetto beffardo: so io perché lo voto: perché è simpatico e buono con chi ha bisogno; perché rallegra le nostre giornate; perché fa il nostro interesse pur difendendo i suoi, e via così. Nulla di eroico, molto di piccolo-borghese (ecco lo

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spiritello azionista che fa la sua comparsa). Non è più il tempo dell’eroismo. A me, tutta questa paccottiglia mitologica fa pensare alla rana che vuol diventare bue. em 

Sì, ma a me interessa ciò che questo potere pensa di sé. L’idea di sé e del mondo che trasmette. Le relazioni politiche, istituzionali, di potere sono solo una conseguenza di questa concezione, che è particolarissima per l’Occidente. Possiamo chiamarla come vogliamo. Ma siamo in una dimensione meta-politica.

gz 

Questo è certo: siamo oltre o contro le categorie della politica elaborate per valere nello Stato di diritto. em 

Il presunto carisma è il preteso nuovo fondamento, e fa saltare le categorie tradizionali del discorso pubblico, anche perché il carisma non si giustifica e non si contiene, non conosce misura, soffia dove vuole. Diventa una logica conseguenza l’invulnerabilità del Capo e della sua funzione di guida. È una invulnerabilità anche narrativa. Il Capo derubrica o eleva ogni difficoltà a congiura, ogni dissenso a manovra, ogni critica a tradimento, proiettando i problemi sempre all’esterno di sé, in una tensione emotiva elementare e permanente, dove la sconfitta è un tabù impronunciabile, perché può venire solo da una macchinazione interna o straniera che inganna il popolo e va perciò ripudiata in anticipo. In modo ch’egli anche quando sbaglia e cade risulti innocente, vittima e mai responsabile, dunque inviolabile nel cerchio immobile del carisma perenne. Naturalmente questa retorica della sacralità pagana non nobilita la politica, anzi la depaupera, e la democrazia la giudica anomala. Ma chiarisce come tutto sia possibile e ogni cosa diventi lecita pur di preservare il sigillo del comando.

gz  Pensi che questa sia realtà? Dovremmo immaginare un lavaggio del cervello di proporzioni grandiose. A parer mio, la motivazione non sta nella sacralizzazione. Credi che Berlusconi si consideri davvero un novello Carlo Magno?

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em 

Forse solo un capo sciamanico, un re taumaturgo.

gz  Mah, forse lui sì. Ma la cerchia dei suoi sostenitori certamente non è compartecipe nel credere in queste scemenze. Quello che conta, e a questo certo credono e in questo sperano, è il potere che scorre senza intralci nel sistema che Berlusconi incarna con tanta evidenza. Senza intralci, vuol dire senza misura. em 

La dismisura è infatti la cifra di questo potere, nel pubblico e anche nel privato, come dimostrano gli ultimi scandali. Ma guardiamo al pubblico: perché qui, nel campo delle regole e degli equilibri, la dismisura diventa facilmente abuso. E infatti l’abuso è un altro connotato costituente e permanente. Il legame improprio fra la potestà politica e la potestà economica, finanziaria e mediatica non è infatti soltanto un’alterazione delle condizioni di base della competizione elettorale democratica, ma diventa una macchina costitutiva di nuovo potere, sia sotto l’aspetto difensivo che sotto l’aspetto dell’offesa. Pensiamo all’acquisto in blocco di deputati, la compravendita senza fine con cui si cerca di rimediare alla rottura con il gruppo finiano che ha spaccato il Pdl: chi altri oggi in politica ha i mezzi (a parte lo stomaco) per realizzare questo shopping umiliante per le persone e per la democrazia? E la sistemazione di una giovane attrice raccomandata dal Capo al direttore della Rai Saccà, spiegando che serviva per accontentare un parlamentare che doveva tradire Prodi? E ancora la rete di pressioni sulla Corte costituzionale emersa dall’inchiesta sulla cosiddetta P3 per far passare il lodo Alfano e salvare il diretto interessato? E infine la corruzione dei magistrati sanzionata in Cassazione per ottenere con la frode la Mondadori? Ecco dove portano e come operano in concreto le anomalie. Non è un singolo comportamento sbagliato. È un sistema di utilizzo indebito di una potestà legittima. Io lo chiamo abuso di potere.

gz 

Appunto. Potere per il potere. Potere acquisitivo, nel privato e nel pubblico. Potere ingordo che cresce man mano ­­­­­188

che si alimenta. Desacralizziamolo per vederlo nella sua nuda realtà. Siamo di fronte a un sistema che mi pare cementato più dal crudo potere che dalle ridicole scimmiottature della sua regalità. Tu hai fatto solo alcuni esempi, tra i tanti che avresti potuto fare. Se riuscissimo a vedere integralmente la struttura del potere, i legami e la rete delle connivenze, le commistioni di pubblico e di privato, le fedeltà in cambio di favori, le illegalità su cui si regge: se si riuscisse a sollevare d’un sol colpo il velo da tutto questo, ne saremmo probabilmente spaventati ma potremmo dire «il re è nudo». em 

Però, senza una lettura di sistema, che nasce dalle tante anomalie che abbiamo riscontrato e trasforma in metodo l’abuso, questo potere si può ridurre – come fanno molti in Italia – a una somma di singoli errori, strappi, improprietà. Come se fosse un problema di naïveté istituzionale, con errori occasionali. Pochi guardano il quadro d’insieme, l’idea di potere e di democrazia che ne deriva, che così non trova ostacoli nell’establishment e nella cultura, distratti, riduttivi, perfino un po’ stufi. C’è, anche a sinistra, una sorta di sazietà democratica. Sì, d’accordo, il conflitto d’interessi: ma ne discutiamo da quindici anni... E invece siamo silenziosamente davanti a un urto di sistema, perché nei casi di cui abbiamo parlato, le anomalie fanno prevalere con forza il potere sul diritto, mentre lo Stato moderno cerca una sintesi necessaria tra potere e diritto, per eliminare la pura forza dall’ambito democratico. L’abuso è questo: forza non nel senso di autorevolezza della leadership, ma come comando e supremazia.

gz  Già dal tempo della Grecia classica, si distingueva linguisticamente krátos (il potere legittimo) da bía (la forza sregolata). La distinzione è mantenuta nella lingua tedesca che non confonde Macht con Gewalt. Mentre il nostro uso di «potere» confonde i due significati. em 

L’abuso è anche arbitrio, perché un potere è davvero forte (abusivamente forte) quando la sua discrezionalità è ­­­­­189

massima. Durante lo scandalo Lewinsky, quando fu interrogato dal prosecutor, Bill Clinton disse qualcosa di simile con una formula molto efficace: «Io credo di aver fatto quel che ho fatto per la ragione peggiore: perché potevo farlo». È la responsabilità che denuncia la discrezionalità, a posteriori, perché ne acquista coscienza, elaborando la dinamica non solo dell’errore, ma del potere che lo determina. Quando la discrezionalità non incontra la responsabilità, siamo nell’abuso. Così nasce la legislazione ad personam, come conseguenza di una cultura e di un sistema di abusi. gz  Se siamo giunti a questo punto è per una sorta di progressivo auto-accecamento delle coscienze, cresciuto col crescere dell’abuso. Così il primo abuso, passato quasi inosservato, è stato seguito da un secondo e il primo è stato, per così dire, passato agli atti, e così via di seguito, con un sentimento di impunità crescente dovuto all’accumulo. In assenza di reazioni, si è scavato un solco così profondo nella legalità costituzionale che a chi voglia ripristinarla sembra di dover distruggere un sistema. Non vorrei che dovessimo un giorno riconoscere d’essere stati ciechi, quando bisognava tenere gli occhi aperti; sordi, quando bisognava ascoltare e capire; muti, quando bisognava parlare. em 

Quali sono state, secondo te, le prime deviazioni dalla normalità repubblicana?

gz 

La prima è l’aver consentito, contro la legge, che una persona titolare di così tanti affari extrapolitici entrasse (scendesse) in politica. Il problema fu sollevato tempestivamente da Paolo Sylos Labini, Norberto Bobbio e Alessandro Pizzorusso, ma fu bellamente ignorato. È la questione del conflitto d’interesse su cui giustificatamente ritorniamo in continuazione, cresciuto a dismisura negli anni. La seconda, d’ordine non giuridico ma politico, è l’aver posto a capo del governo una persona con gravi problemi giudiziari. È la questione del conflitto con la magistratura, anch’esso cresciuto a dismisura. ­­­­­190

A questo proposito, è importante ricordare, che uno dei tratti distintivi della democrazia è che chi detiene il potere lo possa abbandonare senza traumi, ritornando alla sua privata attività. Tutti gli altri regimi politici contemplano solo uscite di scena traumatiche. Ora, se un capo del governo ha, in prospettiva, la possibilità di una condanna penale, non è immaginabile l’uscita di scena per naturale esaurimento politico della sua figura. E questo è indubitabilmente un pericolo per la democrazia. em 

Ritorniamo al punto della definizione del sistema di potere. Bisogna chiamare in causa il sistema di garanzie, la tutela del parlamento, la sovranità. La disputa politica discute di un premier che calpesta la separazione dei poteri perché, molto semplicemente, con lui il potere esecutivo usa il legislativo come arma impropria per colpire il potere giudiziario. Ovviamente in democrazia si può discutere sull’immunità in base ad un sistema di garanzie «cieco», costruito su tipologie astratte e anonime e non sulla biografia processuale di una persona. Di questo si può discutere in parlamento, ma liberamente e guardando ad un futuro che il legislatore non conosce, non sotto l’urgenza assoluta di sottrarre un imputato al suo giudizio, strappandolo ad un tribunale dove il processo è in corso. Quando l’istituto dell’immunità concepito a tutela di una carica viene invece modellato fisicamente sulla silhouette giudiziaria di una singola persona, diventa un’altra cosa e si chiama privilegio, un istituto sconosciuto in democrazia, incompatibile con essa. Un singolo soggetto vede formarsi la legge per sé, per una salvaguardia esclusiva e disuguale, odiosa agli occhi dei cittadini. Tanto più odiosa se il beneficiario è anche il capo della maggioranza parlamentare, dunque muove per sé e a suo particolarissimo vantaggio il legislatore, che dovrebbe guardare sempre e soltanto all’interesse generale. Così il sistema normativo, ma anche costituzionale e politico, deve piegarsi e stravolgersi per uno solo, fino ad aderire ad una biografia personale nei suoi passaggi più controversi e oscuri, umiliandosi e umiliando il principio di uguaglianza, dunque la democrazia. ­­­­­191

gz  Quando, nel 1993, l’articolo 68 della Costituzione fu modificato per eliminare l’autorizzazione a procedere in giudizio contro i membri del Parlamento, scrissi – scusa l’autocitazione – «se ne pentiranno», cioè che era un errore. Ricordiamo il clima d’allora: il «Parlamento degli inquisiti», lo sdegno popolare, l’atmosfera d’intimidazione che faceva leva anche su una sorta di complesso di colpa dei parlamentari che avevano fino ad allora largamente abusato del potere di sottrarre se stessi alle indagini e ai processi. In più, il caso Craxi. Forse, anche in quella circostanza si trattò, in certo senso, di una misura ad personam – per usare il latinetto – in malam partem per i parlamentari interessati. La ragione e l’esperienza dovrebbero avere insegnato che tutte le volte che si legifera sotto la pressione di esigenze personali, si combinano solo guai. A maggior ragione quando si legifera in materia costituzionale. Oggi si vorrebbe ripristinare quel che allora fu eliminato. Si tratterebbe però non di riparare all’errore iniziale, ma di aggiungere all’errore un altro errore, una nuova simmetrica norma ad personam, questa volta in bonam partem, innanzitutto per il presidente del Consiglio e poi per tutti coloro che, facendo parte della «classe politica», avessero da fare i conti con la giustizia. Il significato politico di una simile riforma della riforma dell’articolo 68 sarebbe chiaro a chiunque. Possiamo immaginare la rivolta che ne seguirebbe presso i cittadini comuni. Il tema delle garanzie della politica nei confronti dell’azione giudiziaria è serio, ma potrà essere affrontato responsabilmente solo in altra situazione, quando – come dici tu – si potesse ragionare in generale e il tema non fosse pregiudicato dall’interesse all’impunità di questo o quello. A questo proposito e, in generale, in ogni questione che, direttamente o indirettamente, riguarda i guai giudiziari di coloro che «fanno le leggi», siamo in presenza del più clamoroso conflitto d’interessi: legislatori che dettano legge su questioni per le quali sono imputati! È incredibile che sembri normale. em 

Ma qui stiamo assistendo all’anomalia inedita di un potere legislativo e un potere esecutivo che diventano tutt’uno. ­­­­­192

Questo contribuisce ad alterare l’intero equilibrio dei poteri. Diceva la «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» del 1789 che, quando viene meno il principio di separazione dei poteri, una società non ha costituzione. E Montesquieu aveva detto che «tutto sarebbe perduto se il medesimo uomo facesse le leggi, ne eseguisse i comandi e giudicasse delle infrazioni». Dimmi dunque che accadrebbe quando il medesimo uomo facesse le leggi, ne eseguisse i comandi e operasse per non essere giudicato per le infrazioni? Quanto è perduto, per riprendere Montesquieu e pensando alla democrazia? gz 

Cadremmo nelle mani del potere, indifesi. Le leggi s’inchinerebbero al potere, invece che il potere alle leggi. «Tecnicamente», come hai detto tu, sarebbe dispotismo. Che poi il potere dispotico sia violento o suadente, controlli i corpi o entri nelle menti, imponga l’obbedienza con la forza o l’acquisti con la seduzione, fa poca differenza. Non saremmo necessariamente nel regno della violenza fisica, ma in quello del controllo ideologico. Vorrei farti notare, però, che la formula di Montesquieu deve essere adattata ai tempi nostri, i tempi della democrazia. Oggi, parlamento e governo, legislativo ed esecutivo fanno parte, per così dire, del medesimo circuito politico: dipendono dallo stesso principio di legittimità, situato nel voto dei cittadini. Al tempo di Montesquieu non era così. La costituzione era ancora «per ceti», e il governo era il governo del re. Questo vuol dire che i rapporti tra parlamento e governo non sono più concepibili nei termini della «separazione» alla Montesquieu. Devono essere visti come rapporti di collaborazione, nel rispetto e nell’equilibrio delle rispettive funzioni. Dove, invece, la separazione ha tutte e piene le ragioni d’esistere è tra i poteri politici (parlamento e governo) e i poteri di controllo dei poteri politici. I controlli sono rappresentati dall’azione quotidiana della magistratura indipendente e della libera informazione, nonché eccezionalmente – quando sono in gioco i principî fondamentali – della Corte costituzionale e del capo dello Stato, entrambi organi «garanti della Costituzione». ­­­­­193

em 

Qui nasce l’obiezione che potremmo chiamare della «legittimità». Quel potere è stato eletto legittimamente? Dunque è legittimo. E allora che governi, senza intoppi. Qualunque soggetto e a qualunque titolo eserciti su quel potere un controllo o una critica spezza il filo della legittimazione popolare, su cui si regge la democrazia rappresentativa. È un’obiezione molto insistita, molto presente. A me pare che la risposta sia semplice. Tutti – sostenitori e oppositori, maggioranza e minoranza, istituzioni e cittadini – abbiamo interesse a che il potere legittimo nato dal voto governi e per così dire regga lo Stato, amministrando. Ma tutti, di nuovo, abbiamo un interesse uguale e ugualmente legittimo al sistema costituzionale dei controlli, tra cui il controllo di legalità, cioè l’accertamento della giustizia nelle forme stabilite dalle procedure, uguali per tutti. Dunque anche il premier legittimato dal voto è soggetto alla legge. Se dovesse sottrarsi alla legge, si delegittimerebbe da solo. Naturalmente nei tribunali potrà far valere le sue buone ragioni sapendo di parlare pubblicamente, anche davanti alla pubblica opinione, e si difenderà con i mezzi tecnici di cui dispone e con la straordinaria influenza del peso politico e mediatico dovuto al suo ruolo. Tutto questo è lecito, dentro il processo. Lo stesso peso, i medesimi mezzi, persino le stesse buone ragioni diventano meno lecite se usate fuori e contro il processo.

gz  Che cosa potrei aggiungere? Quanto alla legittimità del potere di chi l’ha acquisito regolarmente, mi limito a ricordare ancora una volta la distinzione tra legittimità secundum titulum e legittimità quoad exercitium. Per la garanzia di questa seconda legittimità, importante quanto la prima, occorre che i detentori del potere siano soggetti alle leggi e rispondano davanti a giudici indipendenti, oltre che davanti all’opinione pubblica e ai suoi organi (la libera stampa, oggi gli operatori nei nuovi settori dei media). em 

Credo sia utile mettere a fuoco un’altra distinzione: la figura del premier non è la stessa cosa della figura del Ca­­­­­194

po. Quest’ultima nasce in rapporto al popolo, come diceva D’Annunzio a Fiume: «Io sono rientrato nel popolo che mi generò, sono mescolato alla sua sostanza». Il premier nasce invece in rapporto alle istituzioni. Dunque un Capo rivoluzionario può proclamare la sua intangibilità, reclamandola in quanto dipende dai rapporti di forza e dalla fede dei suoi seguaci. Ma un premier sa di non poterla nemmeno concepire, perché si muove dentro un sistema istituzionale e costituzionale da cui riceve ogni giorno forza e garanzia, potestà ma anche limiti, dopo l’investitura popolare. Il premier che guidando l’esecutivo usi il legislativo per plasmarsi una legge di salvaguardia, rompe questo sistema. Lo fa tecnicamente con un eccesso di autorità che, mentre si compie, crea una nuova concezione dello Stato, dove il leader vittorioso grazie alla consacrazione (unzione popolare) del voto diventa intoccabile perché tutt’uno con la volontà della nazione, in una comunità di destino. Addirittura sacra, a questo punto, tanto che nessuna legge, nessun potere può sindacarla. Ma così, quel premier che è figura laica, posta in un vertice delle istituzioni ma pur sempre ordinaria secondo la logica del costituzionalismo, diventa sovrano di fatto, perché fa sua arbitrariamente una sovranità che nella nostra Costituzione appartiene al popolo: appartiene, e non «emana» verso il potere vittorioso, ma nel popolo risiede e il popolo la esercita «a contrassegno ineliminabile del regime democratico», come è scritto nei resoconti della Costituente. gz  Tu distingui premier da Capo e fondi la distinzione sul fatto che essi si collochino sopra o dentro le istituzioni. È una distinzione importantissima. L’articolo 1 della Costituzione parla della sovranità che «appartiene al popolo», come si conviene in democrazia, e aggiunge ch’esso «la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione», cioè nelle istituzioni ch’essa prevede. Questa è la concezione, per l’appunto, del costituzionalismo. Il costituzionalismo è una costola del pensiero politico liberale, avendo come obbiettivo il gover-

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no moderato ed è agli antipodi del giacobinismo che, invece, riconosce al popolo o, meglio, a chi si arroga la rappresentanza del popolo, la pienezza del potere. Se nemmeno il popolo può tutto, a maggior ragione non può tutto chi deriva il suo potere dal voto del popolo, cioè dalla volontà degli elettori (direttamente o attraverso la mediazione del parlamento che gli conferisce la sua fiducia). Chi non si riconosce in questo aspetto cruciale della nostra Costituzione non può autoproclamarsi «liberale». em 

Vedi come la cultura populista sia la chiave di lettura di tutto il fenomeno berlusconiano, anzi l’unica capace di dargli coerenza in ogni sua espressione, in ciò «che vuole», in ciò «che sa», in ciò «che fa», come si diceva degli sciamani. Se prima e oltre la politica il Capo e il suo popolo entrano a far parte di un unico corpo mistico ogni sistema di controllo, di bilanciamento, o anche solo di concerto del potere va fuori logica e perde di senso, perché diventa un limite burocratico o oligarchico – antipopolare – al libero dispiegarsi del carisma che salva, redime ed esalta l’Italia, se solo le istituzioni si lasciano ardere dal sacro fuoco provvidenziale. Nasce una inedita teoria monocratica dello Stato, con un potere sovraordinato che considera illegittimi tutti gli altri poteri interferenti. Ma qui giunti, dove siamo? Carl Schmitt diceva che è sovrano chi ha il potere di decidere sullo stato d’eccezione, cioè ha il potere, invece di garantire l’ordinamento, di spezzarlo e di ricrearlo in questo passaggio supremo, rinnovando il diritto in base alla sua propria legittimità, e ottenendo obbedienza. Oggi lo stato d’eccezione sancisce l’anomalia di un uomo non più uguale agli altri perché in lui si trasfigurano la ragion di Stato e la volontà generale, sciogliendolo dal diritto comune. Nella teoria politica il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento dei poteri concorrenti si chiama assolutismo; il potere che non riconosce i suoi limiti, autoritarismo; il potere che istituzionalizza il carisma, bonapartismo. Noi siamo invece in un passaggio inedito, come se il leader gui­­­­­196

dato da un carisma insofferente e dall’incoscienza del limite dicesse al sistema: la mia anomalia è troppo grande per essere risolta. Introiettala e costituzionalizzala. Ne uscirai sfigurato ma finalmente pacificato perché tutto a quel punto si disciplinerà secondo una sua nuova, deforme coerenza. gz  Ti seguo nella sostanza, meno – come avrai capito – nella forma di esprimerla. Tu ti richiami a concetti di teologia e di mistica politica. Secondo me, così si nobilita un fenomeno che si può spiegare senza farvi ricorso. E, soprattutto, si rischia di fare il gioco di chi e di ciò che invece si vuole portare in chiaro criticamente. Si entra nell’universo semantico dell’avversario. Il potere e il denaro, il potere del denaro e il denaro del potere – mi permetto questo gioco di parole – sono la chiave: e questo è tutto meno che teologia e mistica. La cupidigia dell’uno e dell’altro, nella costitutiva assenza di limite, basta e avanza a spiegare tutto. em 

Resto allora alla sostanza, e dico che se il fine politico tende in qualche modo all’assoluto, i mezzi sono difficilmente misurabili preventivamente. La destra ha imparato proprio questo, che si può forzare il limite. Ogni leader occidentale quando è sotto attacco si difende usando tutti i mezzi leciti del suo potere, e in più la straordinaria influenza di cui dispone. Ma nessun leader contemporaneo ha potuto usare un intero universo televisivo da lui controllato direttamente (per via proprietaria e per via politica) per camuffare il paesaggio degli scandali che lo circondano, per impedire che i cittadini conoscano, capiscano, possano giudicare. Nessun leader – pensiamo a Richard Nixon durante il Watergate – ha potuto usare giornali di diretta proprietà della sua famiglia per colpire critici e oppositori, gettando all’aria la loro vita privata (e mistificando evidenze giudiziarie inesistenti) per intimidirli e delegittimarli in pubblico. Pensiamo al direttore del giornale dei vescovi, Dino Boffo, estromesso dal suo lavoro per un falso scandalo sollevato dal giornale familiare del premier, pen­­­­­197

siamo al presidente della Camera Fini «avvertito» dallo stesso quotidiano sulla convenienza a mettersi in riga con l’opinione del leader pena la rivelazione di vecchi scandali a luci rosse. Pensiamo a Ilda Boccassini, aggredita dal medesimo foglio di famiglia del capo del governo perché indaga su di lui. È chiaro a chiunque che si tratta di un altro abuso del potere politico, da cui nasce un doppio problema di libertà. Primo, perché si cerca con questo modo di coartare la libertà politica e personale di attori della vita pubblica, politici, magistrati, giornalisti, invitando tutti a conformarsi, a non rischiare, a non vedere e non capire, tenendo gli occhi fissi a terra. E di questo risente molto semplicemente la democrazia. Secondo, perché dobbiamo domandarci qual è la qualità della nostra libertà di stampa se qualche giornalista, prima di scrivere un articolo sul premier, sente il bisogno di inserire un filtro di prudenza alle sue parole, per non vedere la sua vita gettata per aria senza aver commesso alcun reato, se non quello di critica. Anche qui, si indebolisce la democrazia, che secondo Postman «ha una mentalità tipografica» proprio perché si basa su cittadini liberi perché consapevoli e consapevoli proprio perché informati. gz  Fai bene a ricordare quei casi. Nella nostra memoria sono ancora freschi. Ma chi mai leggesse queste nostre conversazioni tra qualche anno e non ne fosse stato diretto testimone potrebbe chiedersi le ragioni del nostro allarme. em 

Bisogna allora essere conseguenti, e concludere questo ragionamento dicendo che le anomalie e gli abusi ci pongono un problema di libertà. Puoi dire diversamente? Noi siamo ovviamente liberi: scriviamo, pensiamo, manifestiamo, votiamo. Ci mancherebbe altro. Liberi cittadini della democrazia italiana ed europea. È una cornice, una storia, una geografia di garanzia. Ma abbiamo già detto che la qualità della nostra libertà diminuisce: bene, è qui, proprio qui che diminuisce. Davanti ai casi che abbiamo citato. Come ci si difende? Non ­­­­­198

sono un esperto, racconto quel che vedo, ma so una cosa: bisogna prima di tutto chiamare le cose col loro nome, non cedere alla mistificazione della grande banalizzazione. E bisogna aver fiducia nella democrazia. Quindi: chiamiamo anomalie le anomalie, e cerchiamo di ridurle, tornando ad un libero gioco democratico per tutti. Significa tornare ad un’idea comune della democrazia, e anche della democrazia repubblicana, un’idea moderna, occidentale, europea, ma anche italiana, perché in gran parte coincide con la civiltà italiana dei nostri padri e delle nostre madri, in cui siamo cresciuti e in cui vorremmo crescere i nostri figli. Questa idea è riconosciuta dalla maggioranza dei cittadini perché è di per sé costituente dell’identità civile del Paese, della sua tradizione migliore. Una democrazia funzionante, trasparente, informata, produce quell’«immunity to eloquence» di cui parla Bertrand Russell: la capacità, finalmente, di essere cittadini e basta, proprio perché intellettualmente autonomi, capaci di produrre una sorta di resistenza naturale ad ogni incantamento menzognero, alla seduzione degli inganni. gz  Hai fatto un eloquente elogio della democrazia ch’io sottoscrivo integralmente. E hai, malgrado tutto, dato un tocco d’ottimismo al nostro discorso di cui forse c’era bisogno. Malgrado tutto, la democrazia c’è. Sai però che c’è chi dice che non siamo in una dittatura semplicemente perché non c’è nemmeno più bisogno della dittatura? La dittatura, nel senso recepito della parola, non c’è perché è diventata superflua. Con questa osservazione scettica, svolgo la parte del pessimista che mi sono assunto fin dal principio di questo dialogo.

4.

E poi?

Gustavo Zagrebelsky  Abbiamo avviato questa conversazione con il disincanto democratico. Alla baldanzosa fiducia d’un tempo in un avvenire della democrazia che avrebbe contagiato felicemente il mondo intero, è seguito un atteggiamento diverso, quasi un rovesciamento che è bene sintetizzato nella domanda che abbiamo posto incominciando le nostre riflessioni; «democrazia, perché?». Questo è il titolo dell’ultimo capitolo del monumentale volume di John Keane, un noto «politologo globale» – lo definisco così per la sua biografia intellettuale cosmopolitica. Il titolo dell’opera è The Life and Death of Democracy*. All’inizio di quel capitolo conclusivo leggiamo: «Immaginiamo: la democrazia, come la conosciamo, è crollata a pezzi. Non ha retto al disprezzo nei confronti dei partiti, dei politici e dei parlamenti, ai sentimenti anti-americani, al nazionalismo, ai falsi democratici, forse anche alla paura e alla violenza, a istituzioni irresponsabili che operano superando i confini delle nazioni, ai fallimenti dei mercati, alle ineguaglianze che si aggravano, al fatalismo e alla ripugnanza verso l’ipocrisia di ciò che rimane degli ideali e delle istituzioni democratiche. Se la nostra intuizione fosse nel giusto, quando prevede che queste tendenze potrebbero sabotare [quella che viene denominata] la ‘democrazia monitorata’, che cosa avremmo perduto? Chi se ne interesserebbe? Perché dovrebbe importare a qualcuno? In parole povere: sarebbe veramente un problema se la democrazia fa*  Simon & Schuster, London 2009.

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cesse una brutta fine?». Qualcuna di queste parole riguarda anche noi? Ezio Mauro  Rovescio il ragionamento. La democrazia non mantiene le sue promesse, la democrazia può deludere quando non produce buona politica e buon governo, quando non risponde alle mie esigenze biografiche. Lo abbiamo già detto e siamo d’accordo. E tuttavia, come si fa il saldo della partita democratica? Scrivi pure quelle poste al passivo, e concludi che viviamo in una fase di bassa qualità della democrazia. Ma tra gli attivi io scrivo la mia (e la tua) libertà, intatta, i miei diritti, i principî d’uguaglianza alla base del nostro ordinamento, la possibilità di informarmi e d’informare, di pregare o di non credere, di studiare e di lavorare, di intraprendere, di governare e di dissentire, in un sistema in cui questo vale per tutti. Ci mancherebbe, mi dici? Ti rispondo: e perché? È la democrazia e nient’altro che mi garantisce questa condizione di cittadinanza. Io in Italia mi sento cittadino a pieno titolo. Conosco genesi, natura e carattere di ciò che non mi piace (ma che piace a molti altri concittadini), so che non viene dalla luna, è un prodotto del libero gioco democratico, dei suoi cicli e dei suoi conflitti, del rapporto di forze, dunque è mutevole e mutabile. Il campo è contendibile. Se chi governa non funziona, posso denunciarlo oggi e domani potrò cambiarlo. Dipende anche da me, dalla mia responsabilità: il gioco è aperto, io sono parte del gioco e anche qui sta la mia libertà. gz  Hai dato una buona risposta che sottoscrivo. Ma il passo che ho citato non si rivolge a te e a me, ma a tutti. E, in questi «tutti», quanti la penseranno come noi? In ogni caso, ho riportato quelle parole perché penso, avviandoci alla fine, che sarebbe utile ricondurre i problemi della nostra democrazia a quelli del contesto generale, addirittura mondiale, di cui essa è solo una particella. Mi pare che si possa dire così: in una parte del mondo, la fiammella democratica brilla tuttora e talora provoca incendi, o «primavere democratiche». Ab-

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biamo davanti agli occhi gli avvenimenti di piazza in Egitto, Tunisia e Libia, avvenimenti che ci piace definire così con quelle parole del Segretario di Stato americano. In altre parti, la fiamma si affievolisce. Potremmo forse dire così? Dove non c’è ancora, la si desidera ardentemente; si è generosi di sé e la gioventù è perfino disposta a morire per la democrazia. La stessa cosa è stata per noi al tempo della riconquistata libertà. Basterebbero le Lettere dei condannati a morte della Resistenza a darne commovente testimonianza. Dove c’è già e da tempo, invece, se ne è come sazi, la sazietà genera repulsione e ci si dimentica di quando si aveva fame. Può essere un’applicazione della legge del pendolo, per cui, quando si è soddisfatti, ci si volta dall’altra parte? Oppure è all’opera la teoria ciclica delle forme di governo, per cui il tempo è logorante e a una ne succede un’altra? Oppure c’è dell’altro e in questo altro dobbiamo scavare per collocarvi i nostri problemi? em 

C’è dell’altro. Ma prima ti dico che sì, potrebbe sembrare uno stridore la discussione sulla democrazia italiana indebolita o imperfetta davanti alle battaglie del Nordafrica per la conquista della libertà e dei diritti più elementari. Invece non stride affatto. La fase ci spinge a rispettare le proporzioni, ad alzare lo sguardo, ad evitare massimalismi ed integralismi «democraticisti». Ci aiuta. Ma ci mette anche davanti allo scarto tra i principî e la realtà, tra le parole e i comportamenti. Le prudenze e le impotenze di Europa e Stati Uniti davanti alla repressione di Gheddafi in Libia, durate troppo a lungo, rischiano di svalutare la democrazia tout court agli occhi degli insorti, perché confermano che non crediamo in ciò che diciamo, e nemmeno in ciò che diciamo di essere. In queste partite che si svolgono davanti a noi è in gioco il destino di quei popoli e di quei Paesi, ma è in gioco in qualche modo anche l’anima democratica dell’Occidente. Che deve prima di tutto dimostrare di averla, vigilando perché la guerra non diventi un sostituto della politica e della diplomazia – che devono fare in ogni circostanza la loro parte –, ma sentendosi ­­­­­203

responsabile del sostegno e della difesa di chi insorge per la libertà dalla dittatura. gz  Di nuovo: stiamo parlando di democrazia o di politica? Credo che si possa cercare di spiegare l’atrofia della democrazia, dappertutto dove si manifesta, ragionando così. Mi esprimo per affermazioni. La democrazia presuppone la politica. Se la politica è in crisi, è in crisi la sua forma, cioè la democrazia. La democrazia è la forma di reggimento delle società umane in cui esiste libertà dei fini politici. Se la politica ha perduto questa libertà, è in crisi la democrazia. Infatti, perché la libertà di pensiero, della cultura, della scuola e dell’arte, la pluralità dei partiti, le libere elezioni: perché, dunque, tutte queste cose che qualificano la democrazia? Per consentire ai cittadini di confrontarsi sui fini, cioè su programmi diversi in cui si rappresentino progetti di società plurimi sui quali si apra la discussione pubblica e, di conseguenza, si chieda ai cittadini di esprimere il loro consenso o il loro dissenso. Se si perdono di vista i fini, perché non ci sono più o non li si riesce a definire, la democrazia perde valore. Se ciò che c’è, nell’essenziale, non può che essere così com’è, che senso ha ancora la democrazia? em 

È George Orwell il primo a dire apertamente che «il potere è un fine, non è un mezzo». Lo fa ripetere agli uomini del Grande Fratello, quelli per i quali «l’ignoranza è forza», la storia «è un palinsesto che può essere raschiato e riscritto ogni volta che serve», «l’ortodossia e l’inconsapevolezza sono la stessa cosa», «il passato viene cancellato, la cancellazione viene dimenticata e la menzogna diventa verità», «la stupidità è indispensabile quanto l’intelligenza e altrettanto difficile ad acquisirsi». È l’orizzonte, estremo e letterario, della dittatura totalitaria e repressiva. Qualcosa d’incompatibile con lo spazio e con il tempo in cui viviamo, con l’Europa e con le democrazie occidentali. Ma attenzione: se il potere legittimo ha solo il potere come orizzonte, in qualche modo espelle la ­­­­­204

politica da sé e dalla società, la riduce a propaganda e controllo, rinuncia ad ogni disegno che non sia il mantenimento del comando. Ecco perché non penso che la politica contemporanea, nelle società occidentali, abbia il potere come fine. C’è l’ambizione a cambiare le cose, a lasciare un segno che magari a noi non piace, ma c’è. La politica rimane in campo: ridotta, rispetto alle nuove categorie della leadership, del carisma, del conflitto, ma tuttavia presente, e in qualche modo vitale. Anche la cattiva politica con cui spesso le democrazie odierne devono fare i conti, è tuttavia politica, non una forma strumentale del potere. E quindi ha dei fini suoi propri, in qualche modo autonomi. Detto questo, è vero che spesso la politica parla del potere, dipingendolo come vittorioso o assediato, non discute più dei fini. gz  Discute solo più dei mezzi, rispetto a un fine che non è oggetto di discussione e, in quanto tale, è da tutti interiorizzato nella sua assoluta cogenza. em 

Cioè?

gz  La politica si è ridotta ad amministrazione e ad accomodatura. Si tratta di intervenire, ormai quasi sempre ex post, quando c’è un’emergenza da affrontare per rimettere in funzione un sistema economico o sociale che si è inceppato. Cioè, la politica non è più politica ma è esecuzione. Secondo me, qui, nello scadimento della politica in amministrazione, c’è la causa della crisi della democrazia. Ti ricordi uno degli slogan che furoreggiavano al tempo del ’68, quando eravamo giovani di belle speranze e quindi molto «politicizzati»? Diceva: la fantasia al potere. em 

Rimpiangi quel tempo?

gz  Rimpiango forse l’ingenua illusione che molte cose fossero possibili, sol che le si fossero volute. Rimpiango di non esserne stato abbastanza cosciente, quando era il tempo, e di

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accorgermene adesso quando forse è troppo tardi. Le cose sono andate come sappiamo e la violenza, allora, ha preso il posto dell’illusione. Questo, non lo rimpiangiamo di certo. Ma volevo parlare d’altro. Ti chiedo: verrebbe oggi in mente a qualcuno di ripetere quello slogan, anche solo come moto dell’animo che la ragione s’incaricherebbe immediatamente di riportare con i piedi per terra, in ragionevoli dimensioni? E perché non verrebbe in mente? Prendiamo il caso che ci sta davanti minacciosamente da ormai due anni, la crisi economico-finanziaria che ha investito la parte del mondo della quale facciamo parte anche noi. È entrato in crisi il meccanismo basato sul rapporto circolare produzione-consumo, col sistema finanziario come supporto e motore: denaro a credito ai produttori per produrre e ai consumatori per acquistare. L’incremento della produzione in corrispondenza con l’aumento del consumo produce effetti desiderati: occupazione e benessere (il resto, il prodotto socialmente negativo, non sembra interessare). È facile oggi accusare il sistema bancario, cioè gli erogatori di denaro a prestito, di leggerezza e scelleratezza per avere operato distribuendo denaro fittizio, in certo senso per avere creato moneta falsa. È troppo facile. Non si deve dimenticare infatti che il flusso di denaro era ed è funzionale a quel rapporto circolare produzione-consumo su cui si reggono i nostri sistemi economici; in definitiva, i nostri sistemi sociali e i nostri stessi modi di vita. Ora, questo meccanismo, che a me fa venire in mente l’orribile figura mitica dell’uroboro – il serpente che si nutre della sua coda, senza vedere altro che, appunto, la sua coda – è in crisi profonda. Forse che lo si discute per cercare di definire un modello diverso? No. La discussione è solo sui modi per rimetterlo in funzione. La «ripresa dello sviluppo» è la parola d’ordine: sviluppo per lo sviluppo. In questione sono le misure tecniche: patti tra istituti finanziari in vista della trasparenza nella gestione dei crediti tra di loro, controllo sul sistema generale del credito e riduzione dei rischi, ricapitalizzazione delle banche in difficoltà con investimenti di denaro pubblico o con ­­­­­206

denaro di istituzioni semi-pubbliche, come da noi le fondazioni bancarie, uso della leva fiscale per liberare i consumi, ecc. I banchieri, a loro volta, sono sotto pressione affinché allentino di nuovo i cordoni della borsa per rimettere in moto il meccanismo, lo stesso meccanismo. Questo voglio dire: che il modello è sempre lo stesso. La politica opera nella necessità del fine, non nella libertà dei fini. Le scelte ci sono, ma sono di natura tecnico-amministrativa. Naturalmente, le conseguenze di queste scelte possono essere molto incidenti sulla vita delle persone. Per esempio, le politiche fiscali non sono mai socialmente neutre; gli incentivi che lo Stato destina per sostenere la domanda in certi settori industriali e non in altri incide settorialmente sull’occupazione e, in definitiva, attraverso la produzione di certi beni e non di altri, sui modi di vivere. Ma le alternative sono tutte interne allo stesso modello; sono delle varianti specialistiche. em 

Io penso però che anche questa sia una conseguenza della fine delle ideologie. Viviamo finalmente tutti nel mondo reale, non in un pianeta immaginario, guardiamo ai programmi e non più alle promesse, l’avvenire – garantito e radioso – è tornato ad essere semplicemente il futuro, incerto e faticoso, ma in qualche modo nelle nostre mani. Voglio dire che finalmente condividiamo il bene e il male di cui viviamo, anche il modello di sviluppo, anche il capitalismo, che con le correzioni europee del welfare fa parte della nostra civiltà. Questa condivisione lascia spazio alla politica, quello spazio è agibile politicamente. Certo, occorre che anche ciò che è postnon diventi ideologico. Il liberismo corre questo rischio. Ma la dimensione enorme delle crisi che stiamo attraversando e la fragilità del pensiero unico sono paradossalmente una garanzia contro nuovi ideologismi. Nessun modello resiste a lungo. Lo tsunami giapponese, che mescola la primordialità del mare infuocato sopra la terra con la modernità tragica della nuvola radioattiva di Fukushima, basta da solo a incrinare tutte le certezze, e di tutto il mondo. Aggiungici le incognite che ­­­­­207

circondano l’approvvigionamento del petrolio nell’instabilità nordafricana, e vedrai che il pensiero unico deve ripensare se stesso, per forza di cose. Non ha più automatismi, le crisi non li consentono. L’ideologia non abita più qui, non riesce a resistere. Tutto diventa esperienza, competenza, tradizione, visione, valori e interessi, naturalmente speranze e timori. Ma questi sono gli elementi che definiscono il campo politico, no? Dunque la politica ha uno spazio garantito, nel post-moderno, bisogna che sappia abitarlo. Quanto alla democrazia, è l’unica religione oggi professata dalla politica. Bisogna che sappia essere credibile. gz 

Mi schiacci, con questa tua equiparazione tra fini e ideo‑ logie e collochi i fini nello spazio dell’illusione, dell’immaginario. È difficile rassegnarsi, soprattutto di fronte all’avvitamento del mondo su se stesso, che produce disuguaglianze, distruzione della natura, violenza, aggressioni per il possesso di risorse naturali che aiutino a tirare avanti ancora un poco. Questo, per me, è il regno dei fini: l’interrogazione su quello che ci si può aspettare «alla fine». Ma ti pongo una domanda. Se non sono più in discussione i fini, ma solo i mezzi, quale coinvolgimento dei cittadini comuni possiamo aspettarci? L’attività tecnico-esecutiva non può scaldare i cuori. Può indurre i cittadini a una partecipazione propriamente politica? Non sarà questa la premessa per una delega in bianco a imprenditori, tecnici, amministratori, finanzieri, avvocati, professionisti, che, nella migliore delle ipotesi, vadano a occupare i posti nelle istituzioni pubbliche e, da lì, a continuare ad agire come nei propri bureaux, nei propri studi professionali? Nella peggiore delle ipotesi, ci andranno faccendieri d’ogni risma, poveri di visione politica ma ricchi d’appetiti personali, i quali faranno i propri affari e, per l’indispensabile, cioè per gli interventi tecnici necessari a tenere in piedi l’edificio in cui hanno trovato albergo, si rivolgeranno a uomini a loro devoti che faranno quel tanto che basta perché i primi possano dire, per l’appunto, di avere «fatto», di avere «governato». ­­­­­208

em 

Una politica abitata da tecnici e professionisti nella migliore delle ipotesi, da faccendieri e «devoti» nella peggiore? Anche qui, non credo. Mi accorgo di essere più ottimista di te, ma sono convinto che la politica può ancora far muovere le sue bandiere, a patto che sappia di averle, e conosca ciò che le fa muovere. Se la tua analisi significa invece l’impenetrabilità degli apparati, sono più d’accordo. C’è un’inerzia di chiusura, nei partiti, un sospetto verso ciò che è fuori, ciò che non è professionale, c’è una paura ad aprirsi. Eppure un partito che sapesse essere forte proprio perché disarmato, potente in quanto scalabile, autorevole nella misura in cui è contendibile, dunque aperto, pronto a scambiare con la società, costituirebbe una novità di grande rilievo, immediatamente avvertita dai cittadini. D’altra parte, ogni volta che quei cittadini hanno la possibilità di esprimersi in libertà con le loro scelte, come nelle primarie del Pd, cocciutamente rispondono. La speranza politica, per fortuna, è dura a morire. È vero che cresce la disaffezione, l’assenteismo. Tuttavia io resto convinto che i partiti italiani, soprattutto quelli di sinistra, stanno seduti per inerzia sopra un giacimento di disponibilità democratica, e persino di speranza, una speranza civile.

gz  Si potrebbe risponderti che certe fiammate di partecipazione politica sono come dei conati, che restano tali. Spero di sbagliarmi. Ma osserva la caduta di progettualità politica. I programmi dei partiti, quanto ai fini, per lo più si assomigliano e quelli che non si assomigliano, perché sono fuori dal coro, sono accusati di velleitarismo, radicalismo. Cioè, sono messi fuori gioco proprio perché li si considera «ideologici». Gli elettori non sono di fronte a vere scelte di contenuto. Quando si cerca di «parlare alto», della «Italia che vogliamo», del «futuro dei nostri figli», e altre espressioni di questo genere, si cade nella più desolante banalità e vuotaggine. Tutti vogliono «modernizzare», tutti vogliono «riforme», tutti vogliono «innovazione» e «sviluppo», tutti vogliono «rimettere in moto il sistema-Italia», tutti si dicono «riformisti» e accusano gli

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altri di non esserlo abbastanza o di essere «conservatori». Ma che vuol dire? Tutti vogliono ridurre il debito pubblico, tutti vogliono combattere la disoccupazione e la criminalità, tutti vogliono più istruzione e cultura, migliore sanità, più «competitività», ecc. Ma che significa? In che modo? Con quali risorse e, soprattutto, data la scarsità delle risorse, in quale ordine di priorità? Questi discorsi sono la violazione più evidente della regola prima della comunicazione sensata: ciò che non può che essere così come è detto, non merita d’essere detto. Qualcuno potrebbe dire di volere aumentare il debito pubblico? Favorire la disoccupazione? Agevolare l’infiltrazione della mafia nella società civile e nelle strutture dello Stato? Se si tenesse conto di questa regola, molti politici si troverebbero ridotti al silenzio. Soprattutto, dal punto di vista della democrazia, i cittadini elettori sono privati della possibilità di scelta. Che senso ha la democrazia se questa possibilità si riduce o si annulla? em 

Questo può essere il nostro vero punto di dissenso. Io credo che anche nella confusa debolezza identitaria della politica odierna le differenze esistano, e siano fortemente percepibili. Mi è molto chiaro, ancor più di ieri, cos’è utile alla nostra repubblica e cos’è dannoso, e persino cos’è di destra e cos’è di sinistra oggi nel nostro Paese. Scegliere è possibile, non ci sono alibi di queste dimensioni: solo scuse.

gz  Un momento! Quello che dici è ciò che vedi tu. Addirittura vedi la destra e la sinistra, cosa che oggi, ai più, sembra pura illusione. Anch’io come te: per esempio le vedo a proposito dell’uguaglianza, della solidarietà, della diffusione della cultura, della pace (in tema: in questo momento passano sulla mia testa caccia bombardieri provenienti – credo – dalla Francia con destinazione Libia, a dimostrazione della vergognosa assenza di politica, sostituita da affari). Questo è ciò che vediamo noi. Nelle politiche pubbliche che ci vengono realisticamente proposte, sì, ci sono differenze. Non lo nego.

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Ma sono differenze o sfumature? Non sto facendo la morale a nessuno. Non sto dicendo che i partiti «di sinistra» non lo sono abbastanza, e così, al contrario, quelli «di destra». Constato, semplicemente. I cittadini assistono così all’involuzione personalistica, populista e demagogica della democrazia. In mancanza di visibili alternative sui fini, il confronto tra idee e programmi è sostituito dal litigio sugli individui, sulle loro qualità umane: simpatia o antipatia, più o meno «carisma» (povero Max Weber), giovinezza o senilità, perfino bellezza e prestanza o bruttezza e decadenza fisica. Su tutto, diventa rilevante la moralità o l’immoralità personale, che fa premio sull’etica pubblica, di cui si perde la stessa contezza. La vita privata, esibita come un capitale da spendere in pubblico – la buona moglie o il marito fedele, i figli che seguono ubbidienti le orme dei genitori, la devozione religiosa, il successo e la capacità di accumulare ricchezza, gli hobbies, perfino le capacità culinarie e, addirittura, le capacità amatorie –, oppure infangata come una vergogna – amanti prezzolate, figli degeneri, parenti dagli affari poco chiari, fallimenti professionali, abitudini sessuali riprovate –: su questo ciarpame si concentrano scontri che «politici» non possono più definirsi, decadendo in scontro personale dove dominano, come mezzi, l’esibizione narcisistica di sé e la diffamazione dell’altro e dove il confine tra la vita pubblica e la vita privata viene regolarmente travolto, per la semplice ragione che il privato, in questo genere di competizione, diventa strutturalmente pubblico. Al contrario, però, il pubblico diventa privato, e in questa confusione prospera la miscela che alimenta i molteplici e crescenti conflitti d’interesse che stanno corrompendo l’idea stessa su cui si regge da sempre la politica, l’idea che vi sia una dimensione di «bene pubblico» che non coincide con l’interesse privato. Naturalmente, sappiamo bene che quel genere di competizione è solo la scorza, lo spettacolo che si offre agli elettori, l’osso che si getta al pubblico. Sappiamo che, oltre la scorza, sempre si gioca una partita che, privata dei caratteri della ­­­­­211

politica, ha per posta il nudo potere nel suo aspetto più osceno (letteralmente: che sta dietro la scena, perché non può mostrarsi). Sappiamo cioè che si tratta di un grande inganno della gente comune, quella – come noi – che ancora crede nella democrazia. Ecco la sequenza che ho cercato di delinea‑ re: sparizione dei fini dal dibattito pubblico, atrofizzazione della politica, sua riduzione a scontro su chi sia il leader o il capo migliore, camuffamento della lotta per il potere. Che te ne sembra? em 

Se ho capito quello che cerchi di dire, per te lo spettacolo che ci offre la vita pubblica, nel nostro Paese, non è la causa ma l’effetto di una degenerazione della politica. E la causa consiste nella perdita dei fini, per esprimermi in sintesi con la tua espressione. È così? Voglio capire bene il tuo punto di vista perché ho qualche obiezione e vorrei spiegarla. Dunque è così?

gz  Hai detto bene. Aggiungo due considerazioni. La prima – non so se è una consolazione o una desolazione – è che non siamo soli, ma siamo in compagnia. Noi siamo un po’ più avanti e più in evidenza, per chiare e vergognose ragioni. La seconda è che questo fenomeno di decadimento personalistico della vita politica si manifesta di più nei Paesi più deboli, economicamente e culturalmente: i Paesi che contano poco o niente sulla scena mondiale. La loro capacità di sollevarsi alla discussione sui fini è assai ridotta. Penso che sia una considerazione ovvia: c’è un rapporto diretto tra peso economico, vitalità della cultura e respiro politico di un Paese. Sono tre fattori che devono camminare insieme. Se decadono i primi due fattori, decade la politica e si trasforma in mera gestione dell’ordine interno e in esecuzione dell’ordine esterno. Sotto questo punto di vista, le prospettive di una ripresa politica nel nostro Paese non sono rosee. Non viviamo, a quanto sembra, nel tempo di un nuovo Rinascimento che bussa alle porte. Di sistema economico nazionale si può ancora parlare? E dov’è

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andata la cultura italiana, di cui portiamo ancora l’orgoglio, ma solo come ricordo e forse ancora per poco? em 

Ma vedi, ci sono ragioni antiche e ragioni del tutto nuove che spiegano come la politica non può vivere solo di mezzi senza un traguardo ideale, così come un sistema democratico non può reggersi a lungo smarrendo i suoi fini. Intanto, le nobili ragioni: viviamo dentro un meccanismo istituzionale, in Italia e in Europa, che non è uno scettico sistema di regole neutre che girano, si armonizzano e lavorano con qualunque codice di valori, ma si basa sulla democrazia e sui suoi principî. Michael Ignatieff ha spiegato benissimo che il buon vecchio Stato di diritto non è un insieme di procedure ma qualcosa «al servizio dell’ideale morale secondo cui ogni essere umano ha titolo a una fondamentale uguaglianza di trattamento». Vuol dire che le istituzioni che ci siamo dati (da sobri) ci condizionano (anche quando siamo ubriachi). La democrazia è scritta nel modo di agire che ci siamo scelti, quelle scelte hanno determinato istituzioni e costituzioni, la nostra vita pubblica ha un indirizzo che appunto definiamo democratico. Le anomalie sono tali rispetto a questo, al nostro parametro democratico di riferimento: non è poco, anche se ce ne dimentichiamo.

gz 

E le tue nuove ragioni?

em 

Nascono dal mondo in cui viviamo. Una politica che non abbia altro orizzonte che il potere, che viva nella perdita consapevole dei fini, ha bisogno della mistificazione, o almeno del nascondimento. Nessuno potrebbe teorizzare apertamente che chi sta al potere lo fa solo per comandare, dunque per il proprio bene personale. Ma qui si gioca il vero braccio di ferro della contemporaneità: sulla menzogna e sulla conoscenza. Non intendo ovviamente la bugia d’uso corrente, l’esagerazione impulsiva, la finta promessa difensiva. Intendo un progetto mendace, secondo la definizione di Agostino per cui «è menzogna parlare con l’intenzione di dire il falso». Bene, la società attuale non tollera più la menzogna del potere e gli arcana ­­­­­213

imperii, considera un valore ogni mezzo di disvelamento. Di più: per la pubblica opinione oggi la democrazia si regge in particolare proprio sulla trasparenza. Questo vale soprattutto per l’Occidente, com’è ovvio. Ma se analizziamo il ruolo di internet, di twitter e dei social network nel grande sommovimento nordafricano, vediamo che la richiesta e l’esigenza sono identiche, e si rivolgono agli stessi mezzi. Con una diversa intensità e una differente penetrazione e diffusione, naturalmente: ma con uguale valore di libertà e di liberazione, se riesco a spiegarmi. Anzi, con una novità importante. Perché il ricorso informativo e organizzativo a internet in un contesto socialmente arretrato, culturalmente chiuso, politicamente bloccato, ha immediatamente un carattere eversivo e ribelle, antagonista. Il legame tra l’arretratezza del contesto e la modernità della protesta («datteri, facebook e zafferano», diceva un ragazzo in Marocco) ha una valenza di universalità potenziale che fa tremare le dittature fino a Pechino, una sorta di minaccia invisibile e imprendibile, ma anche un testacoda che usa la velocità di internet per azzerare gli handicap ed entrare di colpo nel moderno e nella cornice incompiuta dell’89, allungando a dismisura la brevità del secolo, fino a completarlo. gz  Sulle ragioni antiche, sì, la democrazia è un fine, ma un fine che ha senso come possibilità di scelte politiche. È un «regime delle possibilità». Se non si vedono possibilità, ma solo necessità, se non si apre lo scenario, si perde il senso stesso della democrazia. Ci potrà essere buona o cattiva amministrazione, buoni o cattivi amministratori, amministratori più o meno corrotti o onesti, più o meno trasparenza (e qui siamo alle tue «nuove ragioni»): tutte cose importantissime, ma che non necessariamente qualificano la democrazia. Valgono per qualsiasi regime politico. em 

La vicenda di WikiLeaks, che sta scardinando i forzieri della superpotenza diplomatica americana attraverso internet per estrarne i segreti che riguardano tutto il mondo, dimostra ­­­­­214

proprio quello che stiamo dicendo, costringe la democrazia a fare i conti con la post-modernità. Fammi citare quel che scrivo sempre a questo proposito. I mezzi ubiqui, veloci e contemporanei cambiano il concetto di segreto così come denudano la nozione stessa di trasparenza, dopo aver cambiato la storia e la geografia, rendendo tutto contemporaneo e ogni lontananza accessibile. Cosa significa più il timbro di riservatezza sul dispaccio di un ambasciatore, quando l’intera banca dati diplomatica di una superpotenza può saltare in pochi minuti? E fin dove arriva la nozione di «pubblico» o di «segreto» nel momento in cui il cittadino è trasportato da internet dentro il flusso stesso della documentazione protetta? Quando ha in mano lo strumento per capire come funziona il mondo, per vivere un pezzo di storia in diretta? gz  Sì, ma ripeto che noi chiamiamo questo «democrazia», mentre forse è solo onestà, trasparenza, ecc. Cose come queste: l’onestà, il rispetto dei fatti, la trasparenza, hanno a che fare con le precondizioni della democrazia, non la esauriscono. Comunque sia, non vedi rischi in questo? em 

Li vedo, ne ho parlato. Perché è chiaro che le democrazie sono più esposte a queste infiltrazioni di quanto lo siano sistemi chiusi e bloccati come gli Stati autoritari, sia per la libertà dei mezzi d’informazione e l’autonomia dei soggetti sociali, sia perché gli Stati democratici seguono regole e procedure collaudate e conosciute nello scambio interno di dati e notizie. Quindi c’è una asimmetria a svantaggio dell’Occidente, che è anche un prezzo della democrazia. Ovviamente gli Stati devono stabilire procedure riservate per i passaggi più delicati della loro governance e anche momenti segreti, a garanzia della sicurezza nazionale, e dunque anche nell’interesse del cittadino, oltre che a tutela dei loro uomini esposti nelle aree calde del mondo. Ma gli Stati democratici si muovono sempre più nell’obbligo della trasparenza e della pubblicità, mentre i cittadini – ecco il punto che qui ci interessa di più – ­­­­­215

grazie alla crescita e alla velocità dell’informazione pretendono ormai di conoscere e monitorare i processi di formazione delle decisioni, senza accontentarsi di commentare il risultato finale. Questo per dire che la politica è ormai tutta «esposta», senza riserve, salta il confine tra la scena e il retroscena, il meccanismo decisionale e le sue responsabilità hanno rilievo quanto e come l’opzione finale. Il segreto non è più tollerato, così come la menzogna e la mistificazione. Vedi? La vecchia talpa dell’informazione sta scavando nuovamente. E il potere non può farci niente. gz 

Anche se ci prova in tutti i modi, no?

em 

Ma anche questa è una ragione per non essere pessimisti, nel discorso sulla democrazia. Se usiamo la vicenda della legge-bavaglio come paradigma – e tu sei intervenuto pubblicamente su questo – dobbiamo dire che il potere ci prova, ma non ce la fa. Alla fine ci sono diritti incomprimibili, come quello del cittadino a conoscere e sapere, per poter partecipare e giudicare consapevolmente: con il dovere corrispettivo di informare. È importantissimo, e non perché sono un giornalista. È importante che alcuni diritti non siano disponibili, che la politica e il potere debbano fermarsi, perché non possono toccarli. Ciò significa che il cittadino ha a cuore la democrazia d’uso quotidiano, quella che lo riguarda personalmente, lo definisce e lo difende, potenziando la sua libertà. Quel tentativo di «riforma» – la tentazione rimane, e riemerge periodicamente – che cos’era? Dietro le definizioni di comodo e le spiegazioni di propaganda voleva impedire ai cittadini di avere notizia delle grandi inchieste, come se si potesse tenere un Paese all’oscuro, con il rischio di andare a votare scegliendo senza saperlo un candidato indagato per gravi reati; ma voleva anche colpire i giornali, spostando la decisione ultima su che cosa pubblicare in merito a un’inchiesta giudiziaria nelle mani dell’editore, portandolo dentro la redazione, costituendogli un interesse legittimo (attraverso sanzioni durissime) a ­­­­­216

intervenire nel merito giornalistico. Ora, è evidente che un editore può cambiare il direttore di un giornale quando vuole, affidando l’incarico ad un altro. Ma finché è in carica, è il direttore che decide cosa si pubblica, insieme con la sua redazione. Questa è la democrazia dell’informazione, funziona così dove funziona. gz 

Dell’informazione o dell’elettronica? Non è internet il protagonista del disvelamento più clamoroso, quello di WikiLeaks? em 

Dell’informazione. Perché quando Julian Assange si è trovato in mano 250 mila file elettronici ha intuito che controllava un potere enorme, ma nello stesso tempo ha percepito che 250 milioni di parole sono una massa di dati non intellegibili. Ha confermato così che guardare non è vedere, che ciò che conta è capire e la conoscenza passa attraverso l’informazione organizzata, non attraverso la quantità. Nel grande flusso di internet contano le regole del fiume, la velocità di scorrimento dei «pieces of news» e la capacità di portata. Tutto scorre, d’accordo, ma è anche vero che nel flusso scorre di tutto, notizie pregiate e «bufale» leggendarie che nel web viaggeranno insieme per l’eternità, senza una distinzione di valore. Per capire serve di più. E WikiLeaks ha consegnato al giornalismo la massa di informazioni sottratta al potere chiedendogli proprio questo: di renderla comprensibile, in modo che il cittadinolettore possa decifrare, interpretare, comprendere e alla fine giudicare. Il giornalismo lo ha fatto con l’uso di strumenti suoi propri. È entrato nel flusso e lo ha governato scandagliandolo, ha lasciato scorrere ciò che non rileva per la conoscenza e ha trattenuto le notizie portatrici di senso, capaci di illuminare il quadro generale. Ha compiuto cioè ancora una volta una ricerca di significato, la ragione più alta del mio mestiere. E lo ha fatto operando attraverso i suoi meccanismi tipici, cioè selezionando le vicende, gerarchizzando i fatti, cercando una relazione tra gli avvenimenti, recuperando gli antecedenti, ­­­­­217

proiettandosi sulle conseguenze, illuminando gli interessi in gioco, palesi o occulti. E infine il giornalismo si è fatto carico dell’esercizio della responsabilità, proteggendo le persone esposte in Paesi dove vige la pena di morte, non citando le infrastrutture occidentali a rischio di attentati. Perché il diritto del cittadino di sapere non è disgiunto dal suo dovere di farsi carico della democrazia. E questo naturalmente vale anche per il cittadino-giornalista. Ho detto «farsi carico della democrazia», non dei governi. Il direttore del «País», Xavier Moreno, ha spiegato benissimo che «tra gli innumerevoli doveri di un giornale non c’è quello di proteggere i governi da situazioni imbarazzanti». gz  La democrazia dell’informazione ha però qualche responsabilità per la politica personalizzata e lo spettacolo ch’essa ci offre. Anche se si vede qualche segno di ripensamento. Non solo nell’opinione pubblica, ma anche, per esempio, nel maggior partito dell’opposizione, il Pd. Il suo segretario ha detto e ripetuto che non vorrebbe il suo volto o il suo nome, o il nome di chiunque altro, nel simbolo elettorale con il quale presentarsi alle elezioni. È un segno, appunto. Ma si tratterebbe solo di una buona intenzione se non si accompagnasse a una ripresa del discorso politico, di alto livello, cioè se non si accompagnasse alla riappropriazione dei fini, cioè dei caratteri della società in cui ci si propone di vivere, dopo il disastro di questi anni che ci ha così tanto allontanati dal Paese che avevamo sognato. Al dolente bilancio della vita della sua e, aggiungiamo, della nostra generazione che Carlo Azeglio Ciampi fa nel libro che porta il titolo Non è il Paese che sognavo* che cosa rispondiamo, che cosa possiamo rispondere? em 

Non temi che queste parole (in particolare «la società in cui ci si propone di vivere») ti possano attirare l’accusa di «costruttivismo», se non addirittura di «totalitarismo»? Alla *  Il Saggiatore, Milano 2010.

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politica si deve chiedere molto di meno, se non si vuole che diventi tirannica. gz  Ti rispondo così. Ogni società ha una sua forma, senza la quale non sarebbe una società, sarebbe nulla. Anche coloro i quali potrebbero muovere la tua obiezione – quelli che pensano che le forze sociali debbano essere lasciate massimamente libere di confrontarsi e di stabilire equilibri spontanei tra di loro senza interventi dello Stato o con lo Stato che si limita alla semplice custodia dell’ordine pubblico – hanno perfettamente in testa la loro idea di società. Anch’essi sono degli ideologi. La loro società, d’altra parte, può diventare oppressiva o addirittura totalitaria, tanto quanto quella controllata dallo Stato. La differenza è in quest’alternativa: potere sociale o potere statale. Di per sé non c’è nessuna ragione per preferire l’uno all’altro. Il darwinismo sociale, imperante nelle società «liberali» alla fine del XIX secolo e oggi rinato in nuova forma sotto il segno del cosiddetto neoliberismo reaganiano o thatcheriano, coltivato in quella sorta di pensiero unico che lo ha finora accompagnato, e imitato nell’Europa continentale da coloro che con molta leggerezza hanno proclamato la morte dello «Stato sociale»: il darwinismo sociale, dunque, proclamando, presupponendo o sottintendendo il diritto morale del più forte ad affermarsi nella lotta per la sopravvivenza, può essere non meno terribile di altre ideologie stataliste. em 

C’è pur sempre una differenza radicale tra un ordine della società imposto nello scontro tra le forze che liberamente vi confliggono e un altro, imposto dalla forza dello Stato. Torniamo all’egemonia culturale, non ti pare?

gz 

Certamente, anche se non so quanto questa differenza sarebbe percepita e apprezzata dai vinti, dagli emarginati, dagli esclusi, dai disperati che i due tipi di ordine sociale lasciano sul terreno. Tuttavia, io non penso che questo nostro discorso sui fini debba riguardare primariamente lo Stato, cioè le forze che vi operano con gli strumenti autoritativi – la ­­­­­219

legge, i provvedimenti del governo, le sentenze dei giudici – che lo Stato stesso offre loro. em 

Spiegati.

gz  Nessun vero e duraturo rinnovamento sociale è mai stato imposto dall’alto dell’autorità, dallo Stato. Semmai, dall’alto ci si impadronisce dei fermenti sociali per dare loro forma, guidarli e, non infrequentemente, strumentalizzarli e tradirli. Nella situazione che abbiamo descritta, poi, lo Stato è astretto al suo compito di conservazione, amministrazione e riparazione dell’esistente. Non che i fini non lo riguardino. Ma è che lo sovrastano. Possiamo augurarci che adempia bene o alla meno peggio il suo compito conservativo, perché altrimenti sarebbe la catastrofe. Ma non possiamo immaginare che possa uscire dalla sua natura, dalla sua pelle, per assumerne un’altra. Il discorso sui fini, e quindi la riabilitazione della politica e il rinvigorimento della democrazia, è compito della tanto bistrattata «società civile». em 

Non stiamo esagerando nel dare per scontato molto, troppo facilmente, e nell’escludere che lo Stato, anche il nostro Stato, a differenza forse da quello delle grandi potenze mondiali, sia ormai tagliato fuori dal discorso sui fini, quindi dalle politiche? Per esempio: non parliamo forse di politica della giustizia, dell’ordine pubblico, delle opere pubbliche e delle infrastrutture, delle politiche sociali, perfino della politica internazionale? E la «politica dei diritti», i diritti civili, non è ancora pienamente nelle mani degli Stati?

gz  Certamente. Si tratta di politiche pubbliche. Ma, gli esempi che porti, a mio parere riguardano prevalentemente l’amministrazione, cioè gli interventi necessari affinché il mondo non ci crolli addosso: affinché i cittadini abbiano servizi giudiziari più efficienti e lo Stato possa difendersi meglio dalla criminalità organizzata che, dappertutto nel mondo, è all’attacco per infiltrarsi e impadronirsi degli Stati; affinché

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le imprese che operano da noi possano avvalersi di servizi più efficaci e i capitali trovino qui occasioni più allettanti d’investimento; affinché le contraddizioni sociali non esplodano distruttivamente; affinché il nostro Paese non sia tagliato fuori nella determinazione degli equilibri mondiali. Giusto e molto importante. Ma, allo stesso tempo in cui facciamo questa considerazione, ci accorgiamo che tutto questo è interno allo status quo, anzi è indirizzato alla sua «manutenzione» e al suo miglioramento. C’è la conferma che la politica ha perso le alternative. E invece – come abbiamo visto o, almeno, come ho cercato di argomentare – abbiamo urgente bisogno delle alternative per rianimare la politica e farla uscire dalle secche della personalizzazione e della corruzione. Dobbiamo riaprire il discorso sui fini. Altrimenti, dentro questo sistema il nostro declino democratico è assicurato. Diversa la questione rispetto a quella che chiami la «politica dei diritti», i diritti civili innanzitutto. A questo proposito, certamente esiste quello che, nel linguaggio della Corte europea dei diritti dell’uomo, la Corte di Strasburgo, si chiama il «margine d’apprezzamento» riservato alle valutazioni degli Stati. Ma si tratta di varianti applicative. Nell’insieme, questa «politica» è ormai inquadrata in principî generali di portata costituzionale sovranazionale (soprattutto la Convenzione europea del 1950, recepita nel Trattato di Lisbona dell’Unione Europea) la cui gestione è affidata alla giurisdizione, piuttosto che alla politica. Per nostra fortuna e garanzia, aggiungo, il terreno dei diritti è ampiamente giurisdizionalizzato a livello sovranazionale. Dove poi entrano in scena le questioni che toccano temi «eticamente sensibili», secondo la definizione che ne dà la Chiesa cattolica, gli spazi per una politica dei diritti sono ulteriormente ristretti a causa dell’ipoteca confessionale. In breve: i margini della politica sono notevolmente ristretti. em 

Ritorniamo allora alla grande questione del ruolo che la politica deve avere dentro il sistema. Abbiamo visto che il totalitarismo espelle la politica, riducendola a propaganda e ­­­­­221

a strumento per mantenere il comando. Ma tu introduci qui un altro elemento di impoverimento e svalutazione, la politica ridotta ad amministrazione. Magari ci fosse un po’ di buona amministrazione, potrei risponderti. Certo sono anch’io convinto che la buona amministrazione ha bisogno di buona politica, non la può assorbire e ne ha bisogno in ogni caso il sistema, la società. Per me la questione si pone in questi termini: se è giusto lo schema che abbiamo seguito fin qui, dove sta l’impoverimento della qualità democratica che attraversa tutto l’Occidente e certamente l’Italia? Io direi proprio nella «riduzione» della politica, sia nella domanda che nell’offerta. gz  Con questa osservazione, i nostri due punti di vista si ricongiungono. em 

Abbiamo già parlato dello spaesamento globale e dell’incertezza che produce, con la sensazione di stare al margine di fenomeni troppo grandi e troppo alieni per essere governati. E abbiamo già discusso della proposta di scambio politico minimo che viene dalla cultura populista: occupati di te stesso, delegami il discorso pubblico, scambia la partecipazione con un’adesione. Il risultato è quello che Pierre Bourdieu chiama «il potere simbolico», capace di prodursi e riprodursi attraverso le «credenze», usando la pubblicità più che l’autorità, le pubbliche relazioni oltre la politica, la seduzione senza repressione per ottenere così «l’integrazione simbolica delle classi dominate più imponendo bisogni che inculcando norme». Un potere, aggiungo, che non deve convincere ma conquistare. Che deve continuamente sollecitare fino al limite ciò che ha conquistato, perché non lo ha convinto. Dunque un potere performativo, che nel popolo cui si rivolge non sceglie il cittadino ma lo spettatore. Quando l’evento finisce e si spegne la luce, tutti a casa. Cala il sipario fino al prossimo evento. Ecco la riduzione della politica, che non è più un continuum, quel circuito permanente e attivo – a bassa o alta intensità secondo le fasi – di cui ha bisogno la democrazia. E allora? ­­­­­222

gz  Già, allora? Potremmo prendere spunto per qualche considerazione dal celebre passo che chiude il grande studio di Tocqueville su La democrazia in America (1840), un passo che contiene una profezia sull’avvenire delle società democratiche di massa, una profezia nella quale la democrazia viene presentata come «dispotismo di tipo nuovo»: «vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali, che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri, con cui soddisfare il loro animo. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è come estraneo al destino degli altri; i suoi figli e i suoi amici più stretti formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, è vicino a loro, ma non li vede; li tocca, ma non li sente; vive solo in se stesso e per se stesso, e se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia più patria». Non è molto diversa dalla vivida impressione della società di massa, della società «ugualizzata» che si deve essere impressa nella mente di Dostoevskij quando, nel 1862, era a Londra e, a Kensington, visitava il Palazzo dell’esposizione universale. Quell’impressione ha segnato i Ricordi dal sottosuolo e il capitolo sul Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov, dovendo essere stata profondissima: una fiumana di gente proveniente da ogni parte del mondo, unita da un solo pensiero, simile a un grande, unico gregge, governato da un pastore misterioso. Su questa massa di uomini, o uomini-massa, c’è il potere. Tocqueville: «Al di sopra di costoro s’innalza un potere immenso e tutelare, che s’incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Assomiglierebbe al potere paterno, se, come questo, avesse per fine di preparare gli uomini all’età virile; ma al contrario, cerca soltanto di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia. […] Perché non può togliere loro del tutto anche il fastidio di pensare e la fatica di vivere?». Noi diremmo: il fastidio e la fatica dei fini, che è un modo per dire il fastidio e la fatica della libertà. Questo è, per l’appunto, il progetto degli Inquisitori: «prendere possesso della libertà umana» e non per il loro

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male, ma per il loro bene, per dare loro «una quieta, umile felicità, una felicità da esseri deboli, quali costituzionalmente essi sono». Insomma, una beata innocenza e incoscienza. em 

È evidente che quanto più il potere confisca facoltà ai cittadini, tanto più esalta la categoria del popolo, come soggetto sostanziale della sovranità, in realtà ridotto in questi casi a fonte formale e retorica. Quello che tu fai dire alla letteratura lo dice con parole esatte Maria Zambrano: «la demagogia è l’adulazione del popolo», l’adulazione nel senso di suggerire a un popolo «che non è necessario fare alcuno sforzo, perché si tratta unicamente di ottenere soddisfazione e di riscuotere finalmente un debito secolare». Anche se dovremmo chiederci come queste visioni della società ugualizzata possano accordarsi con la realtà delle nostre società, segnate da disuguaglianze via via sempre più profonde.

gz  Considera che Tocqueville e Dostoevskij non parlano dell’uguaglianza materiale ma dell’ugualizzazione dei desideri, cioè della forma più pervasiva di massificazione. Anzi, la più potente forza di omologazione, tanto più potente quanto più le condizioni materiali sono disuguali: la disuguaglianza accresce la forza del desiderio e l’aspirazione all’uniformità. La forza conformativa degli spiriti ne viene accresciuta, anzi resa aggressiva, nei confronti dei propri simili, ma passiva nei confronti del potere paterno o pastorale. Così i conti tornano. em 

È il senso del Bourdieu che ti citavo prima: chi sa conquistare il comando simbolicamente nelle società contemporanee arriva al dominio imponendo bisogni (tu parli di desideri, ma è la stessa cosa, se la fonte è il potere e il fine è l’assimilazione) più che norme imperative.

gz  Se siamo d’accordo su questo punto, allora ne viene che l’antidoto non può che svilupparsi dal basso. Il governo dall’alto è quasi costretto nel suo compito di mantenimento dell’ordine costituito, che non ammette alternative. Senza al-

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ternative, diventa una funzione di servizio passivo, prestato alle forze che tengono insieme il mondo: oggi la forza dell’allean­ za di tecnologia e finanza. Quanto forte sia la sudditanza, lo vediamo quando i governi si espongono impotenti di fronte ai disastri umani e ambientali che quell’alleanza produce (pensa all’esplosione dei pozzi di petrolio sottomarini nel Golfo del Messico o, oggi, alla tragedia atomica giapponese che ha fatto dire all’Imperatore: non ci resta che pregare, quasi una citazione dell’heideggeriano «solo un dio può salvarci»). Ma dal basso, si possono costruire forme di vita comune, di aspirazioni e desideri che contrastino progressivamente l’uniformità e contribuiscano a liberare la politica. Non distruzione del quadro d’insieme, dunque, ma riappropriazione della vita attraverso l’erosione dell’uniformità, la rivendicazione di ambiti autonomi di esperienza: esperienza non individuale, però, ma collettiva, perché altrimenti cadrebbe nel puro e semplice gesto «originale» ed estetizzante dell’eccentrico. L’associazionismo, nel senso di Tocqueville, è ciò a cui penso, anche nelle forme e con gli strumenti della comunicazione e dell’aggregazione che oggi la tecnologia consente. Ambiti vitali autonomi, non necessariamente legati al territorio, anzi essenzialmente de-territorializzati ma tenuti insieme dalla comunanza delle esperienze e dall’aspirazione a modi di vivere in società diversi da quelli omologanti che la società di massa impone. em 

Ma, se questa aspirazione si trasforma in realtà, giungerà a proporre fini diversi e incompatibili con il quadro generale, di cui il potere pubblico è garante e che tu stesso dici essere necessario, a pena di esiti catastrofici.

gz  Penso a un’azione progressiva. Sia chiaro: non ho nessuna formula magica. Chi crede d’averla, si faccia avanti. Vedo quanto sia difficile questo rovesciamento nell’elaborazione dei fini. Ma lascia che cerchi di spiegarmi con qualche esempio. L’industrializzazione ha standardizzato le produzioni non solo nell’industria manifatturiera ma anche nell’agricoltura,

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producendo la più gigantesca omologazione sociale della storia dell’umanità. Ma non si possono immaginare alternative? Anzi, non si stanno già realizzando in circuiti alternativi di produzione, distribuzione e consumo? È ciò che si chiama democrazia alimentare. La difesa dell’ambiente non potrà dipendere dallo sviluppo industriale appoggiato allo sfruttamento intensivo e distruttivo delle risorse della terra e dalle conseguenti mode consumistiche di cui ha bisogno, ma dalla diffusione di altre culture e modi di vita. È ciò che si chiama democrazia ambientale. Nell’era della tecnica sostenuta dall’economia, quando la legge imperante sembra essere lo sviluppo circolare di questi due fattori, efficienti in quanto mezzi, ma totalmente muti sui fini (l’uroboro di cui ho parlato prima) – cioè su fini che non siano soltanto autoreferenziali – il sapere è oggetto di concentrazione crescente. Il sistema scolastico di massa si dedica alla preparazione all’esercizio di mansioni esecutive e impiegatizie (ricordi le tre «i»: informatica, inglese, impresa?), mentre si è formato un sistema sovranazionale, oligarchico e riproduttivo della «classe dirigente». Sono solo conseguenze la «dis-umanizzazione» della conoscenza e la riduzione della cultura in spazi di consumo riservati o chiusi, quasi che, nel mondo contemporaneo, essa abbia a che fare con l’anticonformismo di pochi raffinati o con un omaggio nostalgico a un mondo che non c’è più, se non come uno degli oggetti del turismo di massa. Sarà per una deformazione professionale, ma a me pare che proprio il campo della cultura sia quello in cui l’impoverimento del nostro mondo è più impressionante. La tecnologia è una cosa; la cultura – che introdurrebbe il discorso sui fini dello sviluppo tecnologico – è un’altra cosa. Lo sviluppo tecnologico si basa su investimenti di capitale finanziario e umano di cui solo gli Stati e le imprese mondializzate sono capaci. Ma la cultura no: è in gran parte a nostra portata di mano. E allora non si può immaginare di agire e, anzi, non si agisce già, senza aspettare l’imbeccata dall’alto? È ciò che si chiama democrazia culturale. ­­­­­226

em 

Io non ho mai creduto troppo a questa distinzione virtuosa tra l’alto e il basso. Intanto non vorrei che anche noi adulassimo il popolo, demagogicamente. E poi penso che le qualità esistano nella società così come nella classe dirigente. Il problema è il criterio per selezionarle, riconoscerle, promuoverle e farle interagire. Il meccanismo di selezione delle élites è bloccato, inesistente, o almeno non confessabile. Lo scambio tra vertici e cittadini è paralizzato e diffidente. L’ascensore sociale non funziona più, sostituito dai meccanismi di autogaranzia familiari, corporativi, baronali, correntizi. Questo porta ad una separatezza che determina un sentimento di esclusione in basso, una chiusura da nomenklatura in alto. Ma attenzione, perché le colpe sono ben distribuite. Dentro quei meccanismi autogarantiti, la società si è accomodata confortevolmente, non ti pare?

gz  Sì. L’immagine che a me pare più precisa è quella dei giri del potere, versione odierna di un male endemico della nostra società, il clientelismo. Quelli che chiamiamo gli «ascensori sociali» non sono del tutto fermi ma funzionano solo per chi è disposto a scambiare fedeltà con protezione, fedeltà da parte di chi sta in basso in cambio di protezione da parte di chi sta in alto. Tu dici che questa contrapposizione tra «alto» e «basso» non ti convince e, addirittura, temi che contenga un’adulazione demagogica di ciò che sta in basso, il popolo, come qualcosa di separato, depositario della virtù. Forse non mi sono spiegato bene. Non è questione di virtù o corruzione. È questione, per così dire, di libertà di manovra. A me pare che chi sta in alto, quella che si chiama impropriamente «classe dirigente» (impropriamente, perché non dirige un bel niente ma, ben che vada, amministra) sia assai più vincolata di chi sta in basso. I primi hanno su di sé il peso di un sistema intero di potere e di relazioni sociali che ha la sua coerenza e la sua intrinseca cogenza; i secondi non sono sottoposti a questo peso. Forse, sono questi, quelli da cui ci possiamo aspettare una qualche maggiore – per così dire – fantasia politica.

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em 

In realtà questi meccanismi artificiali di promozione che sostituiscono il merito, la selezione e la crescita, saltano tuttavia per aria alla prima irruzione della realtà. Potremmo dire che la democrazia non si accontenta, o comunque che alla fine è capace di ribellarsi. Prendi la grande questione del nucleare.

gz  Permettimi l’interruzione. Proprio il nucleare, mi sembra, è una prova di quel che dicevo. Credi che se non ci fosse una pressione dal basso, la «classe dirigente» si sarebbe smarcata dalla pressione di economia-tecnologia con una scelta alternativa? Aggiungo: però, per essere contro la produzione di energia attraverso l’uso della tecnologia atomica, bisogna che, dal basso, si sia disposti a mettere in discussione certi modi di vivere. Tu dirai che questa, semplicemente, è la democrazia. E io rispondo: appunto! Fine dell’interruzione. em 

Venticinque anni dopo Chernobyl sembrava possibile una decisione tecnica, in mano ai governi, bilanciata soltanto dalla ricerca del consenso delle zone del Paese dove si sarebbero aperti i siti. Oggi ti pare ancora concepibile una procedura del genere? I cittadini chiedono di sapere e di partecipare alla decisione. Il grande deficit della democrazia giapponese, dopo la doppia tragedia dello tsunami e della centrale di Fukushima è la perdita di controllo, che è immediatamente perdita di certezze, per deficit di informazione. La gente ha paura per ciò che sa e che ha visto, ma ha soprattutto il terrore di ciò che non sa e non può vedere. La grande differenza da Chernobyl, dove la tragedia venne confiscata dalla dittatura e dai suoi silenzi di propaganda, è che qui siamo in democrazia. Ma il potere è sospettato comunque e ovunque, la trasparenza e l’informazione nella tragedia diventano un obbligo morale. In più la politica deve rispondere a qualcosa di metafisico, la sua capacità di stare in controllo, di non immettere nel sistema forze che nel fuoco di una crisi si riveleranno indomabili, di avere una strategia per l’emergenza concepita in tempi normali, di dire ai cittadini che cosa si sta facendo ­­­­­228

e che cosa devono fare. Ma tutto, come vedi e non per mia deformazione professionale, pone l’informazione alla base della democrazia moderna. Ci hai pensato, mentre proponi una sorta di rivoluzione culturale? gz  Non so che cosa in realtà propongo. Forse una «rivoluzione esistenziale» che ci induca a interrogarci sul valore della nostra esistenza, scomposta nei singoli momenti di cui si compone, per riappropriarci del loro significato, per noi e per tutti. In ogni caso, non intendo qualcosa che si racchiuda in una formula omnicomprensiva e che traduca in sintesi una visione finale. Non una rivoluzione nel senso tradizionale, nel senso di un «sotto-sopra», cioè di un rovesciamento delle basi della legittimità del potere, ma qualcosa di molto più modesto e a portata. Che senso hanno le cose e le azioni della nostra vita quotidiana? Che senso ciascuno di noi vuole dare alle une e alle altre? Quali possibilità esistono per passare dalla domanda alla risposta pratica? Fino a quando le nostre società, accanto alle tendenze alla concentrazione e all’omologazione, ci consentiranno spazi di libertà, innanzitutto libertà di pensiero e di coscienza, questi hanno da essere sfruttati fino in fondo. A fronte d’uno sviluppo delle società umane senza senso e, probabilmente, autodistruttivo (abbiamo già parlato del nostro tempo come tempo apocalittico), questo mi sembra il dovere d’ogni «individuo morale»: a scanso d’equivoci, uso questa espressione nel senso di individuo libero e capace di porre da sé i fini della sua esistenza, per sé e nella cerchia delle relazioni con gli altri in cui si trova a vivere. em 

Lasciami dire ancora una cosa, rispetto alla tua ricerca di un senso nella democrazia. Questa ricerca impone anche attenzione alle derive democratiche, dunque partecipazione. Cosa vuol dire? L’«alto» e il «basso» a cui tu fai riferimento, per me diventano importanti non perché il basso sia necessariamente meglio del vertice, ma perché può – e deve – esercitare il controllo, che è uno strumento democratico. Questo ­­­­­229

nella vicenda di ogni giorno come nelle grandi emergenze. Per Amartya Sen la democrazia è soprattutto qui, nella garanzia di un dibattito pubblico libero che consenta una vera «deliberazione», cioè una forte partecipazione dei cittadini alla discussione dei problemi del governo. In questo noi siamo troppo scolastici, convinti che la democrazia si garantisca nel momento del voto, nella sua libertà. La deliberazione è più ampia, più continua, più coinvolgente. Impegna il cittadino, costringe il potere ad una verifica costante, obbliga alla pubblicità dei passaggi che hanno portato ad una decisione. Impone di rivelare i fini della politica, la costringe a dotarsene. Sconfigge il mistero, rende più difficile la menzogna. gz 

Sì, è tutto vero. Ma credi tu davvero che le classi dirigenti, nei nostri Paesi, siano da sole capaci di impostare un credibile discorso sui fini, cioè di rianimare la democrazia, senza che ci sia uno scrollone, un atto (anzi, tanti atti) di autonomia dei cittadini, di quella che chiamiamo la «società civile» e che gli uomini della politica, significativamente, almeno da noi hanno sempre dileggiato? em 

Non lo so. Ma so che il controllo è essenziale. Non voglio vivere in un mondo di invenzioni, perché perderemmo ogni controllo. Che cosa intendo? Ecco. Nel 2004 uno dei più stretti collaboratori di George W. Bush (si pensa sia Karl Rove) rivelò al giornalista Ron Suskind questo programma: «Ora noi siamo un impero e quando agiamo, creiamo la nostra realtà. E mentre voi state giudiziosamente analizzando quella realtà, noi agiremo di nuovo e ne creeremo un’altra e poi un’altra ancora». Il potere oggi può creare e ricreare la realtà di cui poi discutiamo, su cui ci dividiamo e ci appassioniamo. La democrazia ha semplicemente bisogno di noi, dei cittadini, per rompere l’inganno, tornare a ciò che è autentico, scegliere la vita rifiutando ogni magia.

gz 

Hai perfettamente ragione. Questa continua e vorticosa rincorsa a una realtà virtuale è straniante. Ci fa essere, letteral­­­­­230

mente, fuori di noi. Bisognerebbe riuscire a rallentare i tempi e, per questo, occorrerebbe essere capaci di concentrarci sulle cose più importanti, quelle cose – problemi, tendenze, pericoli, opportunità – che, invece, il farfugliare circa continue novità ci impedisce di vedere. Occorrerebbe qualcuno che sapesse afferrare la realtà nostra, dandole un senso d’insieme. Hai notato quanto si usa il «post»: post-moderno, post-democrazia, post-industriale. È solo un modo per dire che cosa non si è ed evitare lo scoglio: cercar di dire che cosa si è e che cosa si vuole e si può essere. Ma questa è una responsabilità alla quale non ci si dovrebbe sottrarre, pena il procedere come ciechi. em 

Questa ricerca del senso dà un contenuto morale alla democrazia. Abbiamo per fortuna evitato ogni teologia democratica. Ma non c’è dubbio che un fondamento riconosciuto e accettato (anche se non sempre osservato) è una garanzia di buon mantenimento della democrazia, una spinta a scambiare elementi vivi di quotidianità con la società, una risposta a chi non vede fini possibili nella società degli uomini che non affidano l’origine e il destino delle loro opere collettive alla trascendenza. Ma questa ricerca del significato ci può portare in territori imprevisti. Sei stupito se ti dico che la democrazia deve rispondere addirittura alla grande questione della felicità?

gz  Vuoi introdurre questo tema? Ti avverto subito ch’io, in materia, mi sento alquanto leopardiano. In ogni caso, «se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare»*. Comunque sia, procediamo pure e chiediamoci che cosa la democrazia abbia a che fare con la felicità. em 

Ci penso da tempo, è una questione cruciale. In questo Paese, e soltanto in questo (bisognerà pur riflettere sulla ragio*  G. Leopardi, Operette morali, XXIV, Dialogo di Tristano e di un Amico.

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ne) si sta facendo strada l’idea che la felicità e la soddisfazione dell’individuo possono essere cercate solo fuori dalle regole, a dispetto delle norme, in quella dismisura tipica dell’abuso e del privilegio, che irride agli interdetti culturali e sociali, al sentimento del rispetto, al pubblico decoro. È la ribellione culturale contro il «regolamentarismo» e il politicamente corretto, ed è la rivolta molto più concreta, utilitaristica, contro il diritto e la legalità, invocando il «sonno della legge». C’è un singolare e arbitrario rovesciamento persino di D’Annunzio, come se andare a destra oggi significasse andare «verso la vita», mentre dall’altra parte ci sarebbe spazio solo per una fioca esistenza in bianco e nero, fatta di conformismo e senza sentimenti: un neopuritanesimo in grisaglia, che non sa amare la forza bruta della vita nella sua sregolatezza più feconda, nel caos rigeneratore che nasce dalla licenza e dall’eccesso, contro l’ordine regolare del mondo. È un rovesciamento disperato delle cose. Sotto la spinta dell’urgenza e della necessità si cerca ipocritamente di invocare il disordine come nuovo fondamento del vivere insieme, l’esagerazione come modello sociale, la licenza come libertà, il soverchio come nuova misura. Che felicità può esserci quando, come scrive Durkheim, «si è talmente al di fuori delle condizioni ordinarie della vita, e se ne è talmente consapevoli, che si prova il bisogno di mettersi al di fuori e al di sopra della morale corrente»? gz 

Tu cosa rispondi?

em 

Molto semplicemente che c’è vita nella democrazia, intesa come sistema di regole e libertà, molto più che altrove. E dunque nelle regole che liberamente si è data. La vita comune fatta di passioni e di errori, di amori e di meraviglie, di dolori e sconfitte: la vita vera, insomma, quella di tutti, che non ha bisogno di aggettivi e di spiegazioni. Quella che si compone con le vite degli altri, «esseri che si somigliano» nel riconoscimento dei diritti e dei doveri, dunque della loro libertà reciproca e dei suoi confini, ecco il punto. C’è vita ­­­­­232

nella democrazia, perciò è giusto e possibile cercarvi anche la felicità, attraverso la libera realizzazione di se stessi, modulata nella consapevolezza degli altri, dei loro diritti, e nella possibilità di costruire un progetto comune di riconoscimento, che chiamiamo società politica, istituzionale, di cittadini. gz 

Nell’essenziale, sono d’accordo teco, anche se la definizione della vita come felicità, o come possibilità di felicità, secondo la tua descrizione, dovrebbe essere approfondita. Che cosa è la felicità, questo sentimento fugace che subito, appena l’hai provato, si dissolve in angoscia per il timore della perdita? Qualcuno potrebbe dire che proprio in quella trama di relazioni libere e responsabili che è alla base della democrazia e che spetta a noi di tessere sta la nostra infelicità. La libertà è felicità o infelicità? Il tema è discusso. Gli Inquisitori (figura sempiterna) direbbero che la libertà è infelicità e che proprio loro, essendosi assunti il compito di liberare l’umanità dalla libertà, sono i suoi veri benefattori. Tolta la libertà, gli esseri umani si accontenteranno dell’unica felicità loro possibile, una felicità mediocre e bambinesca, l’appropriazione di cose materiali, la felicità del consumatore, precisamente ciò di cui ante-parlavano Tocqueville e Montesquieu, già citati. Io mi accontenterei di dire che, nell’appropriazione dei propri compiti di «individuo morale», nel senso detto sopra, può stare la soddisfazione del dovere compiuto e che questa soddisfazione cresce proporzionalmente al numero di coloro con i quali si riesce a stabilire rapporti di cooperazione. La soddisfazione per il dovere compiuto, possiamo definirla felicità? Nel significato moderno, certo no. Nella tradizione antica, invece, la felicità era la vita buona e la vita buona non era il soddisfacimento illimitato di pulsioni individuali, ma la pratica della virtù. In fondo, non sei molto lontano quando parli di esercizio della libertà nel riconoscimento del limite. Questa è la virtù democratica. Naturalmente, ripeto, questo non ha niente a che vedere con la libertà come pretesa di fare ­­­­­233

tutto quello che si può (nel senso di ciò che è fattualmente possibile), cioè con l’assenza di regole. em 

Contrapponi l’éthos al páthos, in qualche modo. Sei però d’accordo con me nel collegare democrazia e felicità?

gz  Nel senso di soddisfazione per il dovere compiuto, sì. Credo che possa esserci una grande felicità e forse anche noi, qualche volta, l’abbiamo provata. Ma non è certo la felicità di cui parla il nostro tempo, quando virtù e felicità sono state separate, anzi collocate agli antipodi. L’affamato di felicità non esita a farsi beffe della virtù, a esibire come un vessillo il proprio lato più laido. L’archetipo è Faust che vende l’anima al demonio e il demonio, per quanti sforzi si facciano per adeguarsi ai tempi, non è propriamente l’immagine della virtù. Ammetto d’essere un pesce fuor d’acqua. Mi sento piuttosto leopardiano, come ho subito premesso quando hai impostato il tuo discorso. em 

Cioè?

gz 

Arrivo a risponderti attraverso due passaggi. Mi riferisco a quel passo di Sigmund Freud contenuto in Il disagio della civiltà* dove si mette in rapporto di tensione felicità e istituzioni (le leggi sono istituzioni anch’esse). Data l’estrema «varietà del mondo umano e della vita della psiche» che rende le cosiddette necessità pulsionali estremamente instabili (che si tratti dell’amore, del potere, della sessualità, dell’aggressività, della golosità, del bisogno di bellezza, e simili: categorie essenzialmente soggettive e quindi variabili tra individuo e individuo e per lo stesso individuo in momenti diversi della sua esistenza), la massima (ricerca individuale della) felicità individuale comporta la massima insicurezza generale: nessuno sarebbe sicuro di nessuno; i patti e le regole sarebbero * In Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 575 sgg.

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impossibili perché tutti li violerebbero quando ostacolassero quella ricerca. Verrebbe meno la reciproca fiducia, che di ogni vita sociale è condicio sine qua non. Paradossalmente, la felicità si trasformerebbe in infelicità. Perciò – dice Freud – «se la civiltà impone sacrifici tanto grandi non solo alla sessualità ma anche all’aggressività dell’uomo, allora intendiamo meglio perché l’uomo stenti a trovare in essa la sua felicità. Di fatto l’uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza». Questo è il primo punto: le istituzioni creano infelicità ma sono necessarie per evitare infelicità maggiori. em 

Sono dei vincoli e dei riferimenti d’obbligo che ci siamo liberamente dati e che scegliamo di rinnovare a scadenze fisse. Perché – e questo per me è il punto essenziale – siamo convinti che la felicità o la «vita buona», come si diceva, non vada cercata per forza nella trasgressione abusiva o nel «sacrilegio sociale», come lo chiama Roger Caillois, ma nella nostra normale condizione di cittadini fedeli e infedeli, uomini e donne, persone liberamente associate con meccanismi di garanzia scelti da tutti per tutti, e come tali riconosciuti e accettati. Ma scusa, il tuo secondo punto?

gz  Che cosa è la democrazia? Forse, dal punto di vista della felicità-infelicità, potremmo dire così: è il modo più sopportabile di sopportare l’infelicità, cioè il modo più umano, compassionevole, conviviale, in una parola, mite, di organizzare l’infelicità dell’humana condicio, riducendo al minimo la prepotenza, il disprezzo, la sopraffazione e, soprattutto, distribuendone il peso sul maggior numero possibile in una specie di mobilitazione generale delle umane imperfezioni. «Confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene

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attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita». E questo mi pare molto leopardiano (sono infatti le parole finali che Plotino dice a Porfirio nella XXII Operetta morale). em 

Ma qui siamo in realtà oltre le regole che disciplinano la libertà, oltre le precondizioni. Siamo in un terreno sociale, di scelta, dunque politico e morale. Nel «confortarsi insieme», «tenersi compagnia», «incoraggiarsi», «darsi mano e soccorso», nella stessa parola «scambievolmente» c’è il concetto politico e umano di solidarietà, c’è un legame sociale di riconoscimento e obbligazione reciproca, anche se è visto come difesa dalla fatica del vivere. Lo stesso legame, la stessa impresa solidale può vigere e operare al di là della mutua assistenza nella necessità, per arrivare a determinare costruzioni positive, spazi per meriti e per crescite, soddisfazione di bisogni, consensi su obiettivi comuni. Mi accontenterei di dire che la democrazia è un legame sociale positivo, quindi, non solo un meccanismo di tutela.

gz  Tutti gli altri sistemi di governo degli esseri umani sono peggiori, più insopportabili, più infelici. Quindi, possiamo presentare la cosa in questo altro modo, che forse, freudianamente, è il meno spaventevole: la democrazia, come tutti i governi, rende infelici gli esseri umani, ma molto meno degli altri. Quindi, è il più vicino alla non-infelicità, se non vogliamo arrivare a dire alla felicità. Così, in questo modo piuttosto rassegnato a ciò che la natura ci ha fatto essere, potrei dirmi d’accordo con te nel collegare felicità, vita, democrazia. em 

D’altra parte a chi nega questo collegamento, affermando che la felicità va cercata fuori dalla norma, soltanto nel disordine e nella sproporzione, basterebbe rispondere con la ricetta costituzionale della felicità americana, che non sta nella supremazia dell’arbitrio sulle regole: ma al contrario nel rapporto naturale proprio con la vita e con la libertà fissa­­­­­236

to nella Dichiarazione d’indipendenza delle tredici colonie, quando parla dei diritti inalienabili che vengono dal Creatore agli uomini «uguali» tra loro, e tra questi ricorda «the pursuit of happiness». gz  La Dichiarazione d’indipendenza è figlia del suo tempo. Le ragioni storiche di quella proclamazione sono quelle indicate nel prosieguo della Dichiarazione che parla con efficacia del sentimento d’oppressione che avvertivano i padri fondatori, di fronte alle pretese colonialiste del Re d’Inghilterra. Capiamo che la ricerca della felicità – formula suggerita dall’ottimismo di Benjamin Franklin – equivale alla rivendicazione di quella pienezza di vita che gli spazi illimitati del Nuovo Mondo promettevano ai suoi abitanti, una promessa che rendeva ormai «intollerabile» la condizione precedente. Il diritto alla ricerca della felicità è la rivendicazione che nasce da questa frenesia, una frenesia che ci afferra quando una possibilità grande si affaccia davanti a noi, con tutte le sue promesse e tentazioni. Si comprende che il «diritto alla ricerca della felicità» sia nato in America, il continente (allora) delle promesse illimitate. Ma questa espressione non ha attecchito altrove. Anche in altri testi di natura costituzionale, in Europa e nello stesso periodo, si parla di «felicità». «Felicità» è la grande parola che risuona per tutto il secolo dei Lumi e in tutti i Paesi. Ma il significato è diverso. La felicità non è il diritto dei singoli ma è il compito dei governi. La Déclaration francese del 1789, nel preambolo parla di «bonheur de tous» come «but de toute institution politique». In questo senso oggettivo e politico, non soggettivo e prepolitico o privato, la felicità è il «benessere» pubblico, il compito essenziale delle politiche pubbliche... em 

...la felicità pubblica, appunto.

gz  ...è un’aspirazione collettiva che può rivolgersi contro la felicità individuale. Il «bonheur» non è la «happiness». Entrambi vengono dalle medesime aspirazioni illuministiche ma si collocano in spazi diversi. Direi così: in America, in

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spazi vuoti; in Europa, in spazi pieni. In America, si poteva immaginare che, nei suoi spazi illimitati che non conoscevano ancora la frontiera dell’Ovest, ciascuno poteva cercare la via della sua vita senza interferire con quella degli altri. Bastava andare a cercare fortuna dove la si sarebbe potuta trovare. L’Europa era invece uno spazio pieno. Ogni ricerca individuale di felicità comporta spostamenti rispetto agli equilibri sociali precedenti e ha quindi necessariamente conseguenze sugli altri. Può provocare danni altrui, dei forti sui deboli. La ricerca della felicità era, originariamente, la rivendicazione sulla bocca degli infelici, cioè degli oppressi quali si sentivano gli americani al tempo della loro rivoluzione anticoloniale. Oggi, il senso s’è rovesciato. Sono i potenti che la rivendicano come diritto, la praticano e l’esibiscono, quasi sempre oscenamente, come stile di vita. Non sentiremo uno sfrattato, un disoccupato, un lavoratore schiacciato dai debiti, un genitore abbandonato a se stesso con un figlio disabile, un migrante irregolare, un individuo strangolato dagli strozzini, un rom cacciato che non ha pietra su cui posare il capo, una madre che vede il suo bambino morire di fame, rivendicare il suo diritto alla «felicità». Grottesco! Sentiremo questo eterogeneo popolo degli esclusi e dei sofferenti chiedere non felicità ma giustizia. Un minimo di giustizia è ciò che ha preso il posto della felicità. em 

Ma li potremmo sentire tutti denunciare la disuguaglianza, o nel caso la discriminazione, o la cattiva legge, o la mancanza di una politica che risponda alle loro necessità. Cioè se li interrogassimo, li sentiremmo tutti sensibili alla felicità pubblica, a riconquistare quote della loro libertà, materiale, umana, e quindi infine politica, nel momento in cui prendono coscienza dei loro diritti. La felicità pubblica può essere al contrario di quel che dicevamo una precondizione della felicità privata, una cornice. Anche tu qui leghi la felicità alla libertà, dunque alla democrazia. Io dico che la libertà democratica è semplicemente questo, fa parte della vita, come ­­­­­238

la felicità, o la sua ricerca. Vale per se stessi ma in relazione agli altri, sapendone tenere conto. Tu mi sembri più propenso a coniugare la democrazia con la giustizia, ma ti ricordo che quella giustizia può rimediare all’infelicità degli esclusi. E qui il cerchio democratico si chiude. gz  Così precisamente mi pare che possiamo dire e concordare. E quanto al vitalismo oltre le regole, al quale tu prima facevi riferimento, mi pare che si possa dire, anche indipendentemente da Durkheim, Caillois, Freud, Leopardi e tutti gli altri che abbiamo citato, che quanti se ne proclamano seguaci vogliono soltanto farsi i propri affari, a dispetto degli altri.

Epilogo

Poiché il tempo di questa nostra conversazione è purtroppo volto alla fine, lasciamoci andare a un poco di enfasi e a un poco di letteratura. Siamo a Mosca nel 1812. Pierre è appena tornato dalla prigionia e racconta. «A nessuno veniva in mente che erano le tre di notte e che era ora di dormire. Si dice sventura, dolori, – disse Pierre – ma se ora in questo istante mi dicessero vorresti tornare a essere quello che eri prima della prigionia, o soffrire tutto da capo? Per carità, chiederei di nuovo la prigionia e la carne di cavallo. Noi pensiamo che quando siamo spinti fuori dal solito sentiero tutto sia finito per noi: invece è solo lì che comincia il nuovo, il bene. Finché c’è vita c’è anche felicità. Nell’avvenire vi sono molte cose, molte. Questo, lo dico a voi, – fece rivolgendosi a Nataša». Sono parole di Lev Tolstoj in Guerra e pace, parole che quel maestro fecondo di idee e curiosità che è stato Vittorio Foa ha collocato all’inizio delle sue Lettere della giovinezza*. Oppure diciamo con Giovan Battista Vico: «parean traversie ed eran in fatti opportunità» (altro motto caro a Foa). Oppure, ancora, rammentiamo il T.S. Eliot di Little Gidding nei Four Quartets (1943): «Ciò che chiamiamo inizio è spesso la fine – e giungere alla fine è incominciare – la fine è dove ricominciamo». Sono belle parole. Ma parole. Ma se non troviamo le parole non possiamo nemmeno incominciare a pensare come le si possa cercare di trasformare «in fatti». È difficile, molto difficile, ma l’avvenire contiene molte cose, molte. Queste *  Einaudi, Torino 1998, p. xvi.

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cose sono atti e fatti. La democrazia chiede che dipendano da noi coscientemente, responsabilmente, attivamente, perfino felicemente quanto è possibile. È difficile, ma, se non fosse difficile, non ci saremmo trovati a ragionarci su e, già solo per questo, avremmo subìto una privazione. Siano dunque benedette le difficoltà, come per noi così per tutti, se le si riesce ad assumere non mestamente e passivamente come intralci, ma seriamente, serenamente, anzi lietamente come sfide.

Indice dei nomi

Agnelli, Giovanni, 67. Agostino di Ippona, 213. Alfano, Angelino, 188. Amis, Martin, 175. Arendt, Hannah, 92. Aristofane, 25. Aristotele, 57. Assange, Julian, 217.

Ciampi, Carlo Azeglio, 218. Clinton, Bill, 78, 190. Coco, Francesco, 69. Cocozzello, Antonio, 62. Coda, Giorgio, 62. Condorcet, Jean-Antoine de, 174. Costantino, imperatore, 132. Craxi, Bettino, 192.

Balbo, Felice, 176. Balducci, Ernesto, 176. Bauman, Zygmunt, 29, 48, 92. Beck, Ulrich, 44, 48. Benda, Julien, 175. Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), papa, 151; vedi anche Ratzinger, Joseph. Berlinguer, Enrico, 179. Berlusconi, Silvio, 173, 178, 184, 185, 187, 188. Blair, Tony, 78. Bobbio, Norberto, 3, 10, 16, 28-29, 162, 175, 176, 179, 183, 190. Boccassini, Ilda, 198. Böckenförde, Ernst-Wolfgang, 129, 133, 148. Boffo, Dino, 197. Bourdieu, Pierre, 222, 224. Bovero, Michelangelo, 16. Bulgakov, Michail, 15, 120. Bush, George W., 78, 230.

D’Annunzio, Gabriele, 195, 232. D’Antona, Massimo, 50, 55. Del Noce, Augusto, 165, 176. Dossetti, Giuseppe, 76. Dostoevskij, Fëdor, 223, 224. Durkheim, Émile, 38, 232, 239. Einaudi, Luigi, 176. Elia, Leopoldo, 149. Eliot, Thomas Stearns, 241. Englaro, Beppino, 137-141. Englaro, Eluana, 136-137, 140-141. Fenoglio, Beppe, 66. Fini, Gianfranco, 198. Flores, Marcello, 89. Foa, Vittorio, 181, 241. Franklin, Benjamin, 237. Freud, Sigmund, 161, 162, 235, 239. Fukuyama, Francis, 21. Galante Garrone, Alessandro, 179. Galli della Loggia, Ernesto, 52. Gallino, Luciano, 57. Gesù, 69, 121-125, 131-132, 148, 154. Gheddafi, Muammar, 203. Giddens, Anthony, 43.

Cacciari, Massimo, 169. Caifa, 69. Caillois, Roger, 235, 239. Casalegno, Carlo, 61-62, 65. Cavarero, Adriana, 64.

­­­­­243

Pasolini, Pier Paolo, 175, 177. Peci, Patrizio, 64. Pera, Marcello, 111. Pilato, Ponzio, 122, 123. Pizzorusso, Alessandro, 190. Platone, 3. Poletto, Severino, 141. Portinaro, Pier Paolo, 71. Postman, Neil, 198. Preterossi, Geminello, 104. Preti, Luigi, 91. Prodi, Romano, 188. Puddu, Maurizio, 62.

Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla), papa, 117, 134. Girard, René, 151. Giuseppe Flavio, 123. Giussani, Luigi, 121. Gorbaciov, Michail, 99. Gramsci, Antonio, 177. Habermas, Jürgen, 119. Haider, Jörg, 21. Hina (Hina Saleem), 115. Huntington, Samuel, 86, 100. Ignatieff, Michael, 213.

Quinzio, Sergio, 122.

Keane, John, 201. Kelsen, Hans, 27.

Ratzinger, Joseph, 112, 119; vedi anche Benedetto XVI. Revelli, Marco, 13, 57. Rodano, Franco, 176. Rousseau, Jean-Jacques, 106. Rove, Karl, 230. Ruini, Camillo, 134. Russell, Bertrand, 199.

Labate, Bruno, 65. Landsberghis, Vytautas, 99. Lee, Harper, 95. Leopardi, Giacomo, 231, 239. Lévi-Strauss, Claude, 110. Lewinsky, Monica, 190. Livio, Tito, 30. Locke, John, 148.

Saccà, Agostino, 188. Salvadori, Massimo, 160. Salvemini, Gaetano, 26. Sartori, Giovanni, 28, 50. Scalfari, Eugenio, 175. Scelba, Mario, 177. Schmitt, Carl, 196. Sciascia, Leonardo, 66, 68. Sen, Amartya, 230. Sodano, Angelo, 135. Solženitsyn, Aleksandr, 45. Sossi, Mario, 69. Suskind, Ron, 230. Sylos Labini, Paolo, 190.

Mann, Thomas, 162. Marx, Karl, 110, 111. Mastrogiacomo, Daniele, 70. Maurras, Charles, 124. Menenio Agrippa, 30. Milani, Lorenzo, 176. Modestino, giurista, 150. Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, 156, 170, 193, 233. Moreno, Xavier, 218. Moro, Aldo, 66-70, 72-74. Moro, Giovanni, 74. Mussolini, Benito, 124.

Tacito, Publio Cornelio, 123. Teodosio, imperatore, 132. Tettamanzi, Dionigi, 138. Tobagi, Walter, 65 Tocqueville, Alexis de, 9, 223-225, 233. Togliatti, Palmiro, 175, 176. Tolstoj, Lev, 241. Tommaso d’Aquino, 158.

Neuhaus, Richard, 154. Nietzsche, Friedrich, 161. Nixon, Richard, 197. Obama, Barack, 14, 82. Orwell, Gorge, 204. Papuzzi, Alberto, 62.

­­­­­244

Vico, Giovan Battista, 241. Voltaire, 97, 110, 111, 148.

Wojtyla, Karol, vedi Giovanni Paolo II.

Weber, Max, 211. Weil, Simone, 55.

Zambrano, Maria, 224.

© 2011, Gius. Laterza & Figli Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2012 Edizioni precedenti: «i Robinson/Letture» 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 2012 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9976-5

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

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Frontespizio Prologo 1. Il tempo della democrazia 2. Democrazia della vita quotidiana La materialità della democrazia Diritti in cambio di lavoro La violenza in casa Sotto la linea d’ombra del pensiero occidentale «Quest’aiuola che ci fa tanto feroci» La Chiesa nella «nuda piazza pubblica» 3. La politica e la democrazia L’uso del «popolo» Se il potere democratico è fuori dalle regole Egemonia senza cultura «Tecnicamente rivoluzionario»: nuovo ordine e nuove liturgie 4. E poi? Epilogo Indice dei nomi

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