La donna romana. Modelli e realtà 8815133402, 9788815133403

La donna romana raffigurata dagli scrittori antichi o negli elogi funebri appare una donna ideale, moglie e madre intege

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La donna romana. Modelli e realtà
 8815133402,  9788815133403

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FRANCESCA CENERINI

ilMulino

La donna romana rappresentala dagli scrittori antichi o negli elogi funebri appare w1a figura ideale, matrona inlegerrima, oltraua al contaLLo con gli estranei. Vìceversa, le donne «facili», quelle di condizione sociale ed economica inferiore, e le chiave, sono prive di qualsiasi stalulo. tilizzando diversi tipi di fonli, dalla letteratura alle epigrafi, i1 volw11e traccia il profùo della donna romana considerandola da Lulti i punti di vista: il diritto e la famiglia, il matrimonio, l'educazione, il quotidiano (dall'abbigliamento all'acconciaLura), i costumi sessuali, la religione e il lavoro. e emerge non un unico modello, ma Lanti modi diversi di essere donna nella società dell'aulica Roma. Francesca Cenerini insegna Epigrafia e i tiluzioni romane e SLoria sociale del mondo anlico nell' niversilà di Bologna.

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ocietà erutrice il Mulino

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ISBN 978-88-15-24535·9

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a Maddalena, figlia amatissima, nel frattempo diventata donna

Francesca Cenerini

La donna romana Modelli e realtà

Società editrice il Mulino

I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull'insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it

ISBN

978-88-15-24535-9

Copyright© 2002 by Società editrice il Mulino, Bologna. Nuova edizione 2009. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

Indice

Introduzione Introduzione alla seconda edizione

p.

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I.

La donna ideale: moglie e madre casta, pia, laboriosa, frugale, obbediente, silenziosa

II.

Lo status giuridico e le capacità patrimoniali femminili fra repubblica e impero

III.

Modelli femminili e donne in carne e ossa

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IV.

Donne di potere o il potere delle donne

87

V.

La donna e il culto

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VI.

Donne ricche, lavoratrici e schiave

165

VII. Storie di donne: Livia Iulia, Calvia Crispinilla, Claudia Acte, Postumulena Sabina, Vetilia Egloge, Varia Chreste, Aemilia Urbana

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185

Conclusioni

203

Riferimenti bibliografici

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Indice dei nomi

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Introduzione

Come è noto, gli studi di genere, ossia la storia delle donne, sono oggetto da tempo di indagini approfondite. Anche la vita della donna romana è stata studiata da tutti i punti di vista, direi quasi vivisezionata: il diritto e la famiglia, il matrimonio, l'educazione ricevuta e quella impartita ai figli, il suo ruolo sociale ed economico, la dimensione quotidiana, come si abbigliava e pettinava, i costumi sessuali e ogni altro più analitico dettaglio, fino ad arrivare, in alcuni casi, a rico­ struzioni abbastanza fantasiose. Talvolta l'approccio metodologico e ideologico delle di­ verse correnti del pensiero storiografico contemporaneo ha indubbiamente condizionato l'indagine condotta sulle fonti antiche. Basti pensare, ad esempio, all'annosa questione della supposta esistenza di un matriarcato preistorico (che sareb­ be rappresentato nel famoso mito delle Amazzoni, le donne guerriere). Secondo alcuni studiosi, a cominciare da Johann Jakob Bachofen, storico e giurista svizzero, autore del celebre Das Mutterrecht [1861], nell'ambito del processo evolutivo della società umana, sarebbe storicamente esistita una fase di vera e propria ginecocrazia, cioè una società in cui il potere, in tutti i suoi aspetti, era appannaggio delle donne, anziché degli uomini. Ben diversa è, ovviamente, la documentata regalità femmi­ nile, soprattutto in ambito orientale, e l'eventuale possibilità, per una regina, di trasmettere il potere al sovrano con il ma­ trimonio, come certe realtà politiche e istituzionali del Vicino Oriente indurrebbero a ritenere, ad esempio a Ebla. Emerge così, in tutta chiarezza, l'impossibilità di circo­ scrivere la condizione femminile antica a un unico schema interpretativo; di conseguenza, lo stesso rapporto uomo-donna (e potere) va riproposto nella sua contraddittorietà, quale ap-

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pare, in buona sostanza, nei diversi tipi di fonti sull'antichità. Una statuetta di terracotta, un documento di archivio su di una tavoletta di argilla, il mito e la leggenda, la riflessione di uno storico o di un filosofo, l'amore o il bersaglio satirico di un poeta, un personaggio di una tragedia o di una commedia, un ritratto femminile, un'iscrizione sepolcrale od onoraria, una scrittura privata forse di mano femminile, un documento di carattere giuridico e tanti altri ancora: ognuna di queste fonti ci parla un linguaggio particolare, da valutare nella sua specificità. Questi linguaggi ci presentano caratteri femminili dif­ ferenti, spesso in contraddizione tra di loro, e la vita delle donne che riflettono si frammenta in tanti ritratti diversi, impossibili da collegare in una visione unitaria e omogenea. Ogni interpretazione univoca, basata su modelli ermeneutici moderni, ideologici o totalizzanti, è destinata perciò a essere parziale o, addirittura, fuorviante. Come è stato di recente sottolineato [Canfora 2002, 159], non bisogna ricercare a tutti i costi un'identità fra noi e gli antichi, ma è quanto mai necessario «sforzarsi di capire, con strumenti che ormai non mancano, la differenza». È quanto emerge, con palmare evidenza, anche dallo stu­ dio della cosiddetta condizione femminile in età romana ed è quanto ho cercato di proporre al lettore con il sottotitolo di questo libro Modelli e realtà. Gli scrittori greci e romani e, in particolare, gli elogi funebri ci descrivono una donna ideale, moglie e madre integerrima, dedita alla casa e alla famiglia, sottratta allo sguardo e al con­ tatto con gli estranei, allo scopo di evitare contaminazioni alla discendenza legittima del nomen gentilizio. Questo modello ideale perdura, invariato, nel corso dei secoli. All'opposto ci sono le donne «facili», di condizione sociale ed economica inferiore o schiave, mero oggetto sessuale, privo di una benché minima considerazione morale. Alla stessa stregua sono considerate le matrone adultere, donne irrime­ diabilmente perdute, condannate a morte dal diritto arcaico, come pure le sacerdotesse Vestali, donne speciali ma private della loro femminilità, che venivano seppellite vive qualora il loro impegno a rimanere vergini fosse venuto meno. Gli stessi scrittori, però, e soprattutto le attività e le opere femminili attestate dalle fonti epigrafiche, archeologiche e

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giuridiche ci parlano di donne diverse, ricche e volitive, deci­ se e capaci di farsi strada in un mondo di uomini, a patto di rispettarne le regole. Generalmente, in questi casi, il giudizio degli scrittori antichi, tutti uomini, è negativo, mentre l'epigrafia ci parla anche di donne autosufficienti da un punto di vista economico, dotate di una manifesta visibilità, che si impegnano per la comunità e che per questo sono oggetto di onorificenze pubbliche nelle diverse città del mondo romano. Sono proprio le notizie sulla vita delle donne fornite dalle iscrizioni, di diversa destinazione e utilizzazione (sepolcrali, onorarie, votive, scritture private, graffiti, marchi di fabbrica e di proprietà, contratti e documenti) che ci attestano la grande varietà della condizione femminile in età romana, impossibile da circoscrivere a un'unica tipologia. Sono informazioni per noi preziose, che sarebbero altrimenti perdute. Nessuno scrittore classico, infatti, rappresenta queste si­ tuazioni, oppure, quando lo fa, il suo giudizio è di accentuata critica, come abbiamo appena detto, in quanto predeterminato dalla sua adesione al diverso modello ideale e, in ogni caso, condizionato dalla politica e dall'ideologia degli uomini con cui le donne romane debbono sempre rapportarsi, in un consolidato sistema di rappresentazione di relazioni familiari e interpersonali. Le fonti epigrafiche e documentarie in genere ci attestano una pluralità di condizioni femminili, paradossalmente con­ viventi ma tutte operative, sia pure a diversi livelli. Bisogna però fare attenzione: siamo sempre in presenza di un prodotto culturale come lo sono tutti i documenti, e nello specifico della comunicazione antica, soggetto a tutte le implicazioni del caso. In quanto tale, è destinato a fornire dei messaggi che dipendono dai contesti e dalle volontà che li hanno pensati e realizzati, non sempre coincidenti quindi con le domande (e le risposte) degli studiosi contemporanei. È necessario valutare questi documenti singolarmente, secondo una scansione cronologica (età arcaica, repubblicana, imperiale), territoriale (Roma, Italia, province, Oriente e Occi­ dente), ma soprattutto sociale ed economica: le fonti antiche ci parlano soprattutto di donne appartenenti ai ceti privilegiati, aristocratici, che vivevano in città e gravitavano nell'orbita di uomini politici famosi; oppure di donne comunque abbienti, che hanno potuto lasciare memoria di sé negli spazi civici

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e negli arredi urbani. Delle altre donne, quelle prive di un referente maschile famoso, oppure di modesta condizione, rimane ben poco: in qualche caso il nome sul sepolcro, per il resto l'oblio. Quando non indicato diversamente, le traduzioni nel presente volume sono opera mia. Desidero ringraziare gli amici e i colleghi che hanno avuto la pa­ zienza di discutere con me alcune pagine di questo libro, in particolare Dario M. Cosi, Angela Donati, Gabriella Poma, Maria Luisa Uberti. Un ringraziamento particolare desidero esprimere a Nicola De Bellis, che mi ha molto aiutato nel reperimento del materiale bibliografico. Infine mi sia consentito un ricordo personale di chi non è più tra noi, Giancarlo Susini, Maestro insigne, fondatore della Scuola bolognese di epigrafia, cui mi onoro di appartenere. Desidero ricordarlo, ripor­ tando qualche parola tratta da quelle iscrizioni della città di Sarsina che tanto amava: bave homo bone, homo optime vale.

Introduzione alla seconda edizione

Dal 2002 (anno della prima edizione di questo libro) a oggi si è continuato a studiare la condizione femminile nel mondo antico da innumerevoli punti di vista. In particolare desidero segnalare l'organizzazione dei Seminari sulla condizione femminile sulla base della docu­ mentazione epigrafica in età romana. Finora si sono svolti due incontri, rispettivamente a Bologna (2002) e a Verona (2004), di cui sono usciti gli atti (2003 e 2005). Un'iniziativa collegata a questi seminari ha avuto luogo nel settembre 2008 a Zurigo, a cura di Anne Kolb, e i cui atti sono in preparazione. I temi affrontati da questi tre incontri sono stati, rispettivamente, il lavoro femminile nell'antichità, il posto che alla donna romana spettava negli spazi degli uomini, in primis la città, e, infine, il nuovo ruolo che le donne della famiglia imperiale, vale a dire le Augustae, si trovarono di fatto a ricoprire, con la creazione di una nuova forma di potere, e cioè il governo del princeps o imperatore. In questa nuova edizione ho cercato di dare conto della discussione emersa su questi importanti temi di ricerca. Man­ tenendo la struttura della precedente edizione, ho fornito un aggiornamento, per quanto possibile, sulla costruzione del modello ideale o, meglio, idealizzato, delle donne romane, sulla legislazione matrimoniale e sui patrimoni femminili in genere, sulle donne in carne e ossa e sulle Augustae, la cui ca­ ratterizzazione è più che mai condizionata dalle figure maschili imperiali di riferimento, sul culto, in particolare quello delle divae, le Augustae divinizzate e, infine, sul mondo del lavoro. In particolare, in questi ultimi anni è stata approfondita la ricerca sulla realtà femminile nelle singole province dell'impero roma­ no, con un'apposita e capillare indagine sulla documentazione esistente che, spesso, ha dato luogo a innovative ricostruzioni e,

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soprattutto, sta dimostrando la possibilità di «autonomie» locali nella rappresentazione dell'identità femminile; autonomie che, giocoforza, potevano risentire di una situazione preesistente all'arrivo dei Romani. Posso citare un caso emblematico dalla Betica, precisamente dall'antico municipio di Singilia Barba, sito archeologico vicino alla città di Antequera, nell'odierna provincia spagnola di Malaga. Verso la fine del II sec. d.C. la liberta Acilia Plecusa è la protagonista indiscussa di una politica monumentale che tende a dare alla propria famiglia un forte impatto mediatico nel foro cittadino: rifonde infatti le spese per l'erezione di una statua deliberata dal consiglio municipale in onore di Manius Acilius Franto, prae/ectus /abrum, suo marito e patrono (CIL IF, 5, 784). È già stato notato dagli editori della scheda del CIL che la donna non si rappresenta come liberta et uxor, secondo l'uso consuetudinario, ma, invertendo la formula al dativo (patrono et marito), appare come seconda dedicante della statua, sullo stesso piano dei d�curioni. Parimenti onora il figlio, Manius Acilius Phlegon, con un'analoga statua in occasione del conferi­ mento al ragazzo degli ornamenta decurionalia, cioè le insegne dei deçurioni (CIL IF, 5, 795). Anche alla figlia, Acilia Septu­ mina, il locale senato decreta una statua onoraria in bronzo, di cui puntualmente la madre si accolla le spese (CIL IF, 5, 796). C'è, però, una differenza di condizione giuridica fra i due figli. Nell'iscrizione che lo ricorda, il ragazzo non ha il patronimico e non è decurione effettivo. La ragazza invece è ricordata come figlia di Manio. Questo vuol dire che il ragaz­ zo era nato quando ancora la madre era schiava. Schiavo lui stesso, viene liberato dal padre naturale, ma, sulla base della legislazione vigente, non può fare carriera politica. Dopo la liberazione della madre e il conseguente iustum matrimonium dei genitori, invece, i figli sono legittimi e liberi cittadini a tutti gli effetti, come Acilia Septumina. Questa piccola saga familiare termina con l'erezione di due statue in marmo da parte della nonna Acilia Plecusa ai nipoti, Manius Acilius Franto (CIL IF, 5, 802) e Acilia Sedata Septumina (CIL IF, 5, 803), i probabili figli di Manius Acilius Phlegon. Dato che le buone amicizie sono sempre necessarie per «fare carriera», la nostra Acilia Plecusa non si dimentica di erigere due bei monumenti onorari agli amici, rispettivamente P Magnius Ru/us Magonianus, membro dell'ordine equestre e procuratore

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della Betica (CIL 112, 5, 780-781) e alla di lui consorte Carvilia Censonilla (CIL 112, 5, 782). Finalmente, anche l'iperattivismo monumentale di Acilia Plecusa trova pace, come attesta il suo altare funerario, rinvenuto di recente all'interno di un ipogeo sepolcrale edificato in area suburbana (CIL 112, 5, 830). È probabile che l'iscrizione funeraria di Manius Acilius Pronto fosse collocata a fianco di quella della moglie. Come è stato giustamente notato [Corbier 2008], il caso di Acilia Plecusa attesta l'usanza, socialmente accettata, del matrimonio tra un «borghese» e una donna di condizione sociale inferiore. Nel caso specifico si tratta di una schiava di proprietà del futuro marito che le concede la libertà per l'occasione. Questa stessa vicenda dimostra la situazione particolare della condizione vedovile, quando la morte del marito consente alla donna di esprimersi liberamente e senza vincoli in prima persona. Un'analisi più dettagliata dei dati in nostro possesso, unitamente al rinvenimento di nuovi documenti, inoltre, mi ha permesso di raccontare alcune storie particolari di donne. Queste storie di donne romane, ricche e povere, giovani e vecchie, libere e schiave, sono confluite in un nuovo capitolo (il settimo). A questo punto desidero sottoscrivere un'obiezione che è stata mossa alla precedente edizione di questo libro. La frase che mi è stata contestata è: «Le umili e le marginali difficilmente hanno modo di fare sentire la propria voce». Indubbiamente mi sono lasciata condizionare dalla specificità degli studi di genere. È vero, infatti, che «in qualsiasi società, anche la più civile, moderna ed evoluta, "gli umili ed i marginali", uomini o donne che siano, non hanno comunque la possibilità di esercitare poteri e funzioni, né tanto meno di gestire inesi­ stenti patrimoni, perché tutto ciò esula dalla loro condizione: indipendentemente, appunto, dal sesso» [Brancato 2006, 3 51]. In buona sostanza, i poveri, uomini o donne che siano, sono sempre emarginati. Un tema che continua a essere dibattuto, con esiti anche diametralmente opposti, è quello che riguarda l'esercizio di un effettivo potere femminile nelle società antiche. Come è noto, Johann Jakob Bachofen, già citato nella precedente introduzio­ ne, ritiene che in origine le donne avessero esercitato un vero e proprio potere (matriarcato), secondo uno sviluppo storico di cui individua con precisione le tappe progressive. All'inizio

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domina una fase di sessualità promiscua, detta «eterismo» o «afroditismo», le cui caratteristiche principali erano il nomadi­ smo, l'assenza di matrimonio e la conseguente paternità ignota (i figli sono seminati a caso, dice Bachofen), la mancanza del possesso individuale e del diritto privato. Dopo un periodo in cui la donna si trasforma in Amazzone e si oppone con violenza agli abusi dell'uomo (con un'attiva resistenza armata), c'è la possibilità di attuare il cosiddetto «demetrismo», il vero e proprio matriarcato o ginecocrazia. La vita diventa agricola e stanziale, si crea la famiglia attraverso l'istituto del matrimonio monogamico. Il controllo sociale è esercitato dal diritto delle madri e da una religiosità femminile e materna, con una ben precisa valorizzazione del ruolo religioso e politico della donna. La donna è custode del diritto e la sovranità, il nome e i beni ereditari si trasmettono per via matrilineare. Tutto questo, però, secondo Bachofen, deve necessariamente preludere all'attua­ zione del cosiddetto diritto paterno e della società patriarcale, patrilineare e patrilocale, dove può realizzarsi compiutamente la supremazia del principio spirituale maschile (contrapposto a quello materiale femminile). Lo scontro finale è quello fra Dioniso, dio del piacere carnale, dell'ebbrezza e dello slancio mistico, che ha irretito le donne di Demetra, e Apollo, dio virile e solare, non a caso protettore di Augusto. Il processo si compie definitivamente nell'impero romano e nella Roma cristiana, quando la lotta tra i sessi, sempre secondo Bachofen, trova la sua pacificazione nella definitiva sottomissione della materia femminile allo spirito maschile. Infatti solo lo stato romano, garantito da una solida struttura politica e giuridica, ha saputo respingere con successo gli ultimi attacchi del ma­ triarcato e, in particolare, delle virago, cioè delle donne che si comportano da uomo (vir agere) e che cercano di riconquistare, soprattutto attraverso la religione e la magia, il terreno perduto nel campo del dominio politico. Anche se, come si può ben vedere, le sue teorie oggi non possono essere accettate, Bachofen ha avuto il grande merito di occuparsi della condizione femminile nella società antica in maniera sistematica, mettendo in evidenza le principali caratteristiche della struttura psichica femminile (l'incon­ scio), tendenzialmente ordinata, pacifica e sentimentale, e cioè il metastorico femminino. Oggi non c'è nessuna prova dell'esistenza di un matriarcato storico (che è ben diverso

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da attestazioni, per altro sporadiche e limitate, di fenomeni matrilocali o matrilineari), esso stesso diventato un mito. Allo stato dell'attuale documentazione, la tradizione sulle antiche forme di ginecocrazia, sulle matriarche e le maghe vendicatrici, manipolatrici e malefiche, viene piuttosto interpretata come proiezione di pulsioni e di paure collettive e latenti degli uomini. La funzione del mito, come quella della tragedia, è quella di narrare, ma anche di esorcizzare una realtà da temere. Il rito collettivo che ne consegue, avrebbe, tra le altre, una funzione catartica nell'eterno scontro tra i sessi e lo scopo preciso di reprimere i conflitti [Cenerini 2006d]. Il mito che esemplifica per eccellenza il rapporto proble­ matico fra i generi è quello delle Amazzoni. Per gli autori greci le Amazzoni si ribellano agli uomini e i luoghi selvaggi dove vivono (ai confini del mondo abitato, tra gli Sciti o nel deserto libico) costituiscono una sorta di «mondo alla rovescia»: le donne combattono e gli uomini fanno i lavori domestici Uourdain-Annequin 2005]. Oggi, per fare un esempio, non si può più accettare di vedere nella moglie del re etrusco Tarquinio Prisco, Tanaquilla, il retaggio di una Grande Madre divina e/o di un passato ma­ triarcato storico. Ma non si può neppure liquidare la sua figura come mero frutto di leggende. Si può parlare di «social and political prominence» femminile nella società romana prerepub­ blicana, ed etrusca in particolare, sulla base del confronto tra figure femminili «forti» dell'età regia (la già citata Tanaquilla e Tullia, figlia del re Servio Tullio e prima amante e poi moglie di Tarquinio il Superbo) e «deboli» (ma che deboli non sono) Lucrezia e Virginia [Ford Russel 2003, 83]. Oppure bisogna indagare il ruolo femminile nella trasmissione della regalità (secondo il racconto delle fonti l'etrusca Tanaquilla sostiene, anche con le sue capacità divinatorie, Tarquinio Prisco nella presa del potere a Roma e assicura la successione al genero Servio Tullio; Tullia spinge Tarquinio il Superbo a uccidere il di lei padre, il già ricordato Servio Tullio, e a usurparne il trono), in un confronto dialettico, già caro a Bachofen, fra Oriente e Occidente. Anche un interessante e recente studio semantico ha di­ mostrato che l'uso metaforico della parola mulier rispecchia «una comunidad linguistica eminentemente androcéntrica y, a menudo, misogina» [Quintillà Zanuy 2008, 3 27]. Infatti, in

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latino, le metafore semantiche che individuano la donna sono connesse principalmente alla prostituzione e, in misura molto minore, al ciclo vitale. Mi chiedo, del tutto arbitrariamente, se la radicata abitudine contemporanea all'insulto caratterizzato dall'uso in negativo della sessualità femminile non affondi le sue radici proprio in questo fenomeno nel contempo lingui­ stico e sociale. La documentazione antica, anche con eventuali nuovi rinvenimenti, continua ad attestare che le donne romane, con il progredire del tempo, sono uscite dagli angusti spazi domestici. Si sono occupate di affari e di finanza, di attività intellettuali e artistiche, ma in campo politico hanno potuto esercitare un ruolo del tutto passivo, confinato a quello della intermediazione ed eventuale influenza su determinati uomini di potere. La diplomazia domestica e gli intrighi di palazzo sono i campi dove, secondo le fonti, si è esercitato il talento politico delle donne. Come è stato efficacemente sintetizzato, «La révolution matronale ne vit jamais le jour», la rivoluzione delle matrone non c'è mai stata [Boels-Janssen 2008a, 263].

Capitolo primo

La donna ideale: moglie e madre casta, pia, laboriosa, frugale, obbediente, silenziosa

Se noi andiamo in cerca del ritratto della donna ideale in età romana, possiamo leggere il cosiddetto «elogio di Claudia» (CJL F, 12 1 1 = ILLRP 973), epigrafe sepolcrale che si può da­ tare alla fine del II sec. a.C. Questa iscrizione ben rappresenta il perfetto modello femminile romano, proprio della nobilitas, ma non solo, che si ripropone costantemente per tutta la sto­ ria romana, a dispetto del cambiamento della realtà politica, sociale, economica e culturale che lo aveva prodotto. Ecco il testo dell'iscrizione:

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Hospes quod deico paullum est, asta ac pellege. Heic est sepulcrum hau pulcrum pulcrai feminae. Nomen parentes nominarunt Claudiam. Suom mareitum corde deilexit sovo. Gnatos duos creavit: horunc alterum in terra linquit, alium sub terra locat. Sermone lepido, tum autem incessu commodo. Domum servavit, lanam fecit. Dixi. Abei.

[Straniero, ho poco da dire: fermati e leggi. Questo è il sepolcro non bello d'una d9_n na che fu bella. I genitori la chiamarono Claudia. Amò il m arito con tutto il cuore. Mise al mondo due figli: uno lo lascia sulla terra, l'altro l'ha deposto sotto terra. Amabile nel parlare, onesta nel portamento, custodì la casa, filò la lana. Ho finito. Va' pure. Trad. di L. Storoni Mazzolani 1 99 1 , 7 ] .

Questo testo comunica al lettore un messaggio specifico sulla condizione femminile in età romana e fornisce una serie di informazioni ben precise. Ci possiamo do�andare se si tratta di una configurazione solamente ideale, propria della retorica dei carmina epigrafici, o se, invece, rispecchia una situazione di vita reale per le donne. Dopo un invito alla lettura a chiunque si trovi a passare, lungo la strada, davanti al monumento funebre, l'epigrafe ri-

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corda la defunta: una donna naturalmente b�lla (pulcra /emina):, che non ha bisogno di un sepolcro particolarmente sontuoso e dispendioso (sepulcrum hau pulcrum). Segue la descrizione della vita della defunta cb_e si snoda nelle tappe fondamentali della nascita, rappresentata dall'im­ posizione del nomen gentilizio (nomen parentes nominarunt Claudiam), vale a dire il nome di famiglia,-paragonabile al nostro cognome, che, però, non ne caratterizzava un'identità personale, ma era comune a tutte le donne della stessa famiglia. Il sistema onomastico romano classico, infatti, differiva a seconda del genere. Se l'onomastica maschile prevedeva, in prima istanza, tre elementi, praenomen, nomen e cognomen (ad esempio Marcus Tullius Cicero) , per quella femrajQi}e_ ne bastava uno solo, il nome della gens di appartenenza (Iulià;Tlaudia, Aemilia, Caecilia, Cornelia eccetera), unito al cosiddetto pa­ tronimiço, o nome del padre - ad esempio, figlia di Tito, o di Marco, o di Lucio eccetera: sulle iscrizioni si legge T(iti) /(ilia), M(arci) /(ilia), L(ucz) /(ilia) -, che ne attestava la nascita libera e non servile. Non c'era dunque la necessità di distinguere Ja donna a livello pubbliço, attraverso un elemento onomastico identificativo (il praenomeo) , proprio perché le donne erano normalmente escluse dalla vita pubblica e ufficiale [Kajava 1 994]. È ovvio però che a livello privato, stante la diffusa condizione di omonimia femminile all'interno delle gentes, le donne avevano nomi personali, riservati all'uso domestico che, generalmente, si_riferivano alla successione cronologica delle nascite femminili in seno alla famiglia: Prima o Maxuma, Secunda, Tertia, Maior o Minor, oppure diminutivi. A partire dalla fine dell'età repubblicana, però, anche per la donna si afferma l'uso pubblico di un elemento nominale individuale, il cognomen. A questo proposito si può osservare che l'onomastica romana è la prima rappresentazione della condizione sociale. Infatti se la donna di nobili natali rimane più facilmente ancorata all'utilizzo del solo gentilizio, oppure a un ristretto numero di cognomina di uso ereditario, viceversa tra il ceto medio femminile si diffonde, soprattutto per mo­ tivi pratici, l'uso libero del cognome, e l'unica differenza tra ingenua (di nascita libera) e liberta rimane il patronimico o il patronato. Quest'ultimo, modellato sul patronimico (liberta di Tito - T(itt) l(iberta) - o di Marco - M(arci) l(iberta) - o di Lucio - L(ucz) l(iberta) eccetera), attesta l'origine servile di chi

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lo porta, vale a dire una ex schiava (originariamente denominata con un simplex nomen, cioè un singolo elemento nominale), che, una volta liberata o manumissa, mutua il gentilizio del patrono, ad esempio Sabinia C(at) l(iberta) Myrtale. Ritorniamo all'elogio di Claudia: seguono le due tappe fondamentali della vita femminile, secondo questo modello ideale, vale a dire il matrimonio (suom mareitum corde deilexit sovo) �la maternità (gnatos· duòs creavi!), con un accenno a una vera e propria piaga sociale dell'antichità, l'alta mortalità infantile, che doveva essere vicina a circa il 200 %o, vale a dire un quinto dei neonati, esclusa, ovviamente, la loro volontaria esposizione. Parimenti tra il 5 e il 1 0 % delle partorienti moriva di parto o per le sue conseguenze [Rousselle 1990, 3 19) . Il parto era considerato pericoloso: il mondo antico non cono­ sce il forcipe e il taglio cesareo, se praticato, avviene dopo la morte della partoriente [Gourevitch e Raepsaet-Charlier 2003] . Scelgo un esempio tra i tanti: la povera Candida di Salona, nell'attuale Croazia, circa a trent'anni muore di parto, assieme al suo bambino, dopo avere sofferto le pene dell'inferno per quattro giorni. Il suo compagno, di vita e di schiavitù (conservus), le pone il monumento funerario e descrive lo strazio subito dalla donna con parola efficace: cruciata (CIL III, 2267 ). Una donna romana, quindi, avrebbe dovuto partorire alme­ no cinque bambini per avere la fondata speranza che almeno uno o due potessero raggiungere l'età adulta [D'Ambra 2007, 84]. È ben noto il caso eclatante della moglie dell'imperatore Marco Aurelio, Faustina Minore, che nel II sec. d.C. partorì dodici o tredici figli, inclusi due parti gemellari, di cui soltanto sei, cinque femmine e un maschio (l'imperatore Commodo), raggiunsero l'età adulta. E molto probabile che, a causa dell'alta mortalità e del relativamente basso numero di iscrizioni sepolcrali infantili, molti bambini non avessero un vero e proprio monumento funebre, ma che fossero semplicemente sepolti [Rawson 2005, 6-7 ). Viceversa, il dolore causato dalla mors inmatura poteva trovare espressione nei carmina epigrafici, poesie su pietra, che spesso accompagnavano, a partire dall'età imperiale, le sepolture di giovani morti prematuramente [AA.VV. 2006) . Le note più accorate del rimpianto accompagnano la morte dei figli, dei delicati o degli alumni. Questi ultimi erano bam-

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bini allevati in casa, il cui status giuridico è spesso ambiguo, sovente equiparato a quello dei vernae, vale a dire gli schiavi nati in casa, ma che usufruivano di maggiori aspettative di promozione sociale. I delicati, invece, erano giovanissimi schiavi, particolarmente apprezzati dai padroni per la loro bellezza e per la loro grazia, che, pertanto, godevano di un trattamento privilegiato [La Monaca 2007 ; 2008]. Come è noto, il matrimonio romano, legalmente valido se avveniva fra titolari del relativo diritto (conubium), aveva come scopo primario la procreazione di figli legittimi (procreandorum liberorum causa), destinati a diventare cives, cittadini romani. Le matrone, nella rappresentazione ideale della loro maternità, dovevano allattare personalmente i loro figli (labor nutricis), come faceva la moglie di Catone il Censore, secondo il racconto di Plutarco ( Vita di Catone, 20, 5). Questa, conformemente al modello ideale, non soltanto non affidava i suoi figli a una balia, spesso di condizione servile, secondo un uso che ben presto si diffuse tra le matrone romane altolocate, ma allattava anche, con un significativo rovesciamento di ruoli, i piccoli schiavi di casa, per instillare loro, assieme al latte, il senso di leale appartenenza e di devozione alla famiglia del dominus. Ancora in età imperiale, sarà deprecata l'abitudine delle ma­ trone di far allattare i figli dalle nutrici, in quanto si riteneva che il latte materno, così come il seme maschile, contribuisse a determinare l'aspetto fisico e il carattere del neonato e che l'allattamento di una schiava, o di una balia a pagamento, introducesse un elemento, si potrebbe dire, geneticamente estraneo, in grado di allentare i legami naturali fra genitori e figli (Aulo Gellio, Notti attiche, 12, 1 ). Questa logica conduce a conseguenze estreme: per evitare di rendere effeminato un maschietto o, viceversa, di mascolinizzare una femminuccia, la tradizione popolare raccomandava di scegliere una balia che avesse partorito un bambino dello stesso sesso di quello che era chiamata ad allattare [Dasen 2005] . Riprendiamo l'iscrizione di Claudia da cui siamo partiti: l'ultima tappa della sua vita, cioè la morte, è evidentemente rappresentata dal sepolcro che parla in prima persona. Segue una brevissima descrizione della persona fisica, di cui viene ricordato il piacevole conversare (sermone lepido), con un riferimento sottinteso, ma immediatamente percepibile, al fatto che il sermo femminile, per essere lepidus, debba essere

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m.9lto contenuto. S_g_opiamo infatti dagli scrittori antichi, in particolare da Plutarco (Precetti coniugali, 3 1), che la matrona roman_�. vale à-dfre la donna legittimamente sposata e madre di cittadino, non poteva p_arla_r� ��ybblico, perché «parlare è come denudarsi», secondo una norma che addirittura si voleva risalente al mitico re Numa (e, in quanto tale, vincolante per i Romani), che istituiva un rapporto tra la parola femminile e il relativo concetto di pudore. Emblematico, a questo proposito, è il culto che le donne tributavano a una divinità dal nome trasparente di Tacita Muta, ninfa chiacchierona cui Giove, per crudele contrappasso, aveva strappato la lingua (Ovidio, Fasti, 571-616). Gli scrittori romani, di tutte le epoche e di tutti i generi, fa!}nÒ spesso riferimento all'incapacità femminile di controllare il buon uso della parola; doveva essere diventato proverbiale l'episodio narrato da Macrobio (Saturnali, 1, 6, 19-25) e da Aulo Gellio (Notti attiche, 1, 23 ), eruditi della matura e tarda età imperiale, il secondo dei quali dichiara espressamente di citare a memoria un passo di un'orazione pronunciata dal famoso Catone il Censore, vissuto a cavallo fra III e II sec. a.C. Come si può ben vedere, tali stereotipi in negativo sul carattere femminile attraversano immutati il corso dei secoli. Nella prima età repubblicana, leggi_amo in queste fonti, i senatori avevano l'abitudine di farsi accompagnare dai figli, quando partecipavano a una seduta nella curia. Un giorno ven­ ne discusso un argomento di grande importanza e delicatezza, che rese necessario l'aggiornamento della seduta. La madre del giovane Papirio, il quale aveva accompagnato il padre in senato, cercò di convincere il figlio a rivelarle il tema del di­ battito, ma il ragazzo mantenne fede al suo impegno a tacere. Per sottrarsi al pressante interrogatorio materno, inventò una bugia: l'argomento all'ordine del giorno era se sarebbe stato meglio e più utile allo stato consentire a un uomo di avere due mogli o, viceversa, a una donna due mariti. L'evidente paradossalità di tale argomento non destò sospetti nella don­ na, incapace, nell'immaginario maschile romano e non solo, di vincere l'innata curiosità e di mantenere un segreto, cioè, in buona sostanza, di tenere a freno la lingua. È owio, nel racconto delle fonti, che la donna si premurasse di informare subito le altre matrone, di modo che, all'indo­ mani, le madri di famiidia si presentarono davanti al senato

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per appoggiare il partito favorevole a due mariti per donna, piuttosto che due mogli per uomo. Papirio si fece allora avanti a spiegare ai senatori esterrefatti che cosa era successo e venne lodato per la sua lungimiranza, nonostante la giovane età, per non avere, cioè, confidato l'argomento del dibattito a una donna, nemmeno alla madre, in quanto le donne stesse sono ritenute geneticamente incapaci di custodire un segreto. Emblematiche a questo proposito sono le parole di Macro­ bio, che associa il comportamento intemperante delle donne, le quali debbono essere riservate per natura, al presagio di avvenimenti funesti per lo stato, secondo un luogo comune di marcata impronta misogina che caratterizza la mentalità romana, come vedremo meglio nel capitolo dedicato al culto. Le donne, in questo frangente, sono caratterizzate da un'impudica insania, mentre il «normale» e accettabile comportamento femminile, corrispondente al modello ideale, deve essere ispirato alla verecundia, in quanto il pudore, da intendersi nel senso più ampio possibile, è parola chiave, come vedremo, nella rappre­ sentazione di tale ideale femminile in età romana. Ugualmente anche il comportamento doveva essere con­ veniente e moderato ( incessu commodo). La matrona romana, infatti, era .. riconoscibile anche per gli ahfrì che indossava: tunica, stola (sopravveste lunga fino ai piedi, allacciata sulle spalle da fibule, il cui uso obbligatorio fu reintrodotto dall'im­ peratore Augusto, che intendeva così porre un freno alla moda trasgressiva degli ultimi tempi della repubblica) e palla (man­ tello che copriva il capo e che veniva indossato fuori di casa) costituivano una sorta di diaframma che , doveva proteggere la donna onesta. L'abbigliamento matronale rappresentava, così, una barriera fra il corpo della matrona e l'occhio estra­ neo, dal forte significato simbolico, identificativo dello status e del rango di appartenenza, che la doveva proteggere come una corazza, come appare nelle fonti, ad esempio nel poeta Stazio (Le selve, 1 , 23 5 ) , dove la stola chiaramente identifica l'appartenenza all'orda matronarum. l vestiti.., così come tutto I' ornatus femminile (acconciature, gioielli eccetera), avevano il preciso compito di rappresentare lo status giuridico-sociale della donna, intoccabile sessualmen­ te in quanto matrona [Petrocelli 1 989, 200) e purché esibiti con moderazione [Berg 2002 ) . La polemica maschile contro l'eccessivo luxus femminile, comunque, attraversa tutta la sto-

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ria romana, in particolare quella contro il desiderio smodato delle donne di possedere beni sempre più costosi, stravaganti ed esotici, a scapito delle finanze familiari e statali [Augenti 2007, 189]. Inoltre, soltanto la mater familias (cioè la moglie legittima di un pater /amilias, che già ha avuto dei figli) poteva portare il tutulus, sorta di bende di lana che si annodavano a forma di cono attorno al capo per trattenere i capelli. Tale acconciatu­ ra, con significativa metafora, viene paragonata dagli scrittori classici, ad esempio Varrone (La lingua latina, 7, 44), al luogo più sicuro (tutissimus) della città, vale a dire la sua roccaforte, inespugnabile come l'onore delle matrone. Ancora agli inizi del III sec. d.C. ci sarà chi, come Tertulliano ( Gli ornamenti delle donne, 2, 12, 1), lamenta l'impossibilità di distinguere dall'abbigliamento una «donna onesta» da una prostituta. È soprattutto il modo di pettinare i capelli che subirà, nel tempo, l'influsso della moda. Fino alla metà del I sec. a.C. le donne si pettinavano con grande semplicità e tutti gli artifici erano giudicati, secondo il modello ideale, sconvenienti. A partire dalla fine dell'età repubblicana si affermano tipi di­ versi di acconciature, così come ci testimonia la ritrattistica femminile in marmo o in bronzo, che «faranno tendenza» a seconda della donna famosa che decide di adottarle (se oggi i modelli sono attrici e cantanti, in età romana erano soprattutto donne della corte imperiale o, comunque, appartenenti agli ordines superiori). Sul finire del I sec. a.C. si afferma la cosiddetta acconcia­ tura all'Ottavia (dal nome della sorella di Augusto, adottata anche da Livia): i capelli sono raccolti in uno chignon sulla nuca, salvo un ciuffo anteriore centrale che viene sistemato in forma di nodus rigonfio e aggettante sulla fronte, che si raccorda con una treccia sottile alla crocchia posteriore. Suc­ cessivamente diventano di moda acconciature a riccioli sulla fronte, fatti con il calamistrum, ferro scaldato nella cenere, o con capelli posticci, che richiedevano ore di preparazione e indubbia abilità tecnica da parte delle parrucchiere (ornatrices), sovente di condizione servile [Sensi 1992, 177-179]. Ben noto è l'arrogante modo di fare di certe matrone altolocate, ritratte da Ovidio (Arte amatoria, 3, 239-242), che arrivano a piantare le forcine nelle braccia delle parrucchiere, se insoddisfatte dell'acconciatura.

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Anche la cosmesi subisce analoga evoluzione: depilazione, maschere di bellezza, creme a base vegetale, ombretti, matite p.er occhi (in realtà sottili carboncini) e fard (ottenuto con il croco) diventano il normale corredo di una matrona di rango elevato, ma non solo, al punto da diventare materia letteraria (alludo, ovviamente, ai Medicaminafacieifemineae, i Cosmetici femminili di Ovidio). Non può essere un caso che lo stesso Ovidio, quando descrive Lucrezia (che, come vedremo, rap­ presenta il modello leggendario della femminilità romana idealizzata), affermi che questa donna rifiuta qualsiasi tipo di trucco per preservare, per così dire, «il carattere naturale della sua bellezza» [Santini 2005 , 285 ] . Diventerà famoso il latte di asina usato da Poppea, seconda moglie dell'imperatore Nerone, per idratare e ammorbidire la pelle del corpo (giudicato con orrore da Giovenale, 6, 461-473 , come tutti i prodotti di bel­ lezza femminili); miele e grassi animali, soprattutto quello di cigno [Vons 2000, 258-26 1 ] , sono invece consigliati da Plinio contro le rughe. Anche nel mondo romano si possono trovare malevole accuse rivolte alle donne di essere «tutte rifatte», per contrastare l'inclemente avanzare dell'età, non ancora con l'intervento della chirurgia estetica, ma con l'aiuto di «cento vasetti» (centum pyxidibus: Marziale, 9, 3 7 ) . Invece le donne di condizione inferiore, a d esempio le schiave o le prostitute, indossavano una toga scura .oppure l' amiculum, corta e stretta sopravveste di lino trasparente, come pure le matrone condannate per adulterio [Sensi 1 992, 1 82 ] , che, i n tal modo, rendevano visibile i l proprio declassamento morale e sociale. La Coa vestis ricordata da Tibullo (2, 3 , 5 3 ; 2, 4, 29-30) e d a Properzio ( 4 , 5 , 56-57) consentiva d i vedere chi la indossava ut nuda, secondo le parole di Orazio (Satire, 1 , 2, 102). Significativamente Orazio contrappone questa veste trasparente alla stola lunga fino ai piedi (letteralmente talloni) e alla palla in cui si avvolgono le matrone (Satire, 1 , 2, 99: ad talos stola demissa et circumdata palla), indumenti che non lasciano intravvedere nulla del sottostante corpo femminile, come si conviene nel rispetto del matronale senso del pudore. Questi capi succinti e trasparenti, biasimati da Seneca che si rifiuta di definirli vestiti (I benefici, 7, 5 ) , se da un lato escludevano, sulla base del solo sguardo, chi li indossava dalla categoria «protetta» delle matrone, dall'altro inviavano un messaggio seduttivo, di disponibilità sessuale, che serviva

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ad attirare il cliente. Come è noto, anche le attuali ordinanze municipali si sono dovute occupare degli abiti delle prosti­ tute che lavorano per strada. Il diritto romano equiparava, come vedremo, le prostitute vere e proprie a quelle donne che lavoravano, per così dire, a contatto ravvicinato con il pubblico, ad esempio le attrici o mimae (sempre apprezzata era la nudatio mimarum, cioè gli spettacoli di spogliarello), le ballerine, le locandiere, le bariste eccetera. Queste donne non erano tutelate, anche perché erano per lo più schiave o liberte. Viene ricordato dalle fonti, però, un curioso caso, per così dire, di inversione di ruoli: nel 1 9 d.C. l'imperatore Tiberio e il senato dovranno contrastare il fatto che alcune matrone altolocate si davano, o meglio, professavano di darsi alla pro­ stituzione o alla vita teatrale, per sottrarsi alle restrizioni della legislazione augustea, che analizzeremo in seguito (Svetonio, Vita di Tiberio, 3 5, 3 ) . Parimenti anche la tintura dei capelli poteva avere u n pre­ ciso significato di costume e flava coma (testa bionda) era un modo popolare per indicare la donna di facili costumi, mentre la tintura rossa era usata dalle prostitute: ad esempio Ru/a, la Rossa, lavorava nel lupanar Veneris, pare con profitto, come risulta dai commenti soddisfatti dei frequentatori, graffiti sui muri del postribolo pompeiano [Della Corte 1 965 , 170- 17 1 ] . Se diamo retta a Giovenale (6, 120) l'imperatrice Messalina, che aveva i capelli neri, quando frequentava i lupanari si serviva di una parrucca bionda. L'elogio di Claudia ci parla di una bellezza matronale e incorruttibile. Ma nel mondo romano ci sono anche altre descrizioni epigrafiche di bellezza femminile, ad esempio l'elogio della perugina Allza Potestas, databile tra I e II sec. d.C. (CIL VI, 3765 ) . Le prime parole dell'elogio rispecchiano i soliti motivi topici: /idissima, custos, instancabile nel lavorare la lana, esiguo sermone eccetera. Ma vengono descritte anche, in dettaglio, le caratteristiche fisiche della defunta: candida, di carnagione chiara, luminibus pulchris, begli occhi, aurata capil­ !is, capelli biondi, l'incarnato del volto come avorio; possiamo pen sare a un bel viso senza rughe e senza antiestetici segni di esp ressione. Ma si va oltre: piccoli capezzoli sul seno bianco come la neve (pectore et in niveo brevis il/i /orma papillae), con echi tibulliani e ovidiani. Le sue gambe sono talmente belle che rendono ridicole persino quelle di Atalanta, mitica e

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bellissima eroina della corsa, dalle caviglie slanciate, secondo la nota descrizione di Esiodo. A llia Potestas si era presa cura del suo corpo, per avere pelle liscia e vellutata, si depilava, è sempre l'elogio funerario che parla, per essere attraente. Per contrasto le sue mani erano dure e callose, a causa del faticoso lavoro manuale al telaio. Si tratta di una descrizione piuttosto intima, _ che mal si ad!! ga _al Qudore matronale, almeno quello vagheggiato dalle iscrizioni funerarie. In questo caso, però, la_.defunta è una liberta, concµbina, forse poliandrica, come si evincerebbe da un passo molto discusso della stessa iscrizione, senz'altro amata dal proprio patrono. Costui è Aulo Allio, forse l'autore dell'epi­ taffio, che, comunque, ha ben presente che sta ricordando una liberta. Infatti, accanto alle principali virtù di Allia Potestas menzionate dallo stesso patrono, comuni alle matrone di rango e già elencate, compare quella tipica delle liberte, cioè il fatto di non considerarsi mai libera (nunquam sibi libera visa). Dopo la manumissio la donna ha insomma cambiato soltanto lo stato giuridico, ma non lo stile di vita, come ogni buon liberto do­ vrebbe fare. Per legge, i liberti debbono rimanere strettamente legati al proprio patrono attraverso l'istituto dell' obsequium, cioè il rispetto che il figlio deve al padre e la moglie al marito, e delle operae, precisi obblighi materiali, oltre che da ulteriori limitazioni in campo matrimoniale e patrimoniale, se previste dalle clausole dell'affrancamento [Cenerini 2005a] . Ritorniamo, per l'ultima volta, al nostro testo guida, cioè all'epigrafe sepolcrale di Claudia. Nell'ultima riga sono descritte le uniche attività cui la «donna perbene» poteva dedicarsi, cioè le faccende domestiche, intese come sorveglianza del lavoro servile, e la filatura della lana, svolta invece in prima persona dalla matrona: questo elemento topico, secondo Plutarco ( Vita di Romolo, 1 5 , 5 e 19, 9), risalirebbe all'accordo tra i Romani e i Sabini, dopo che i primi avevano rapito le donne dei secondi, in base al quale le donne sabine non sarebbero state adibite a nessun altro lavoro dai Romani, divenuti i loro mariti, se non a quello della tessitura. Lo stesso imperatore Augusto non avrebbe indossato altri abiti quam domestica, ab sorore et uxore et /ilia neptibusque con/ecta [se non quelli confezionati in casa dalla sorella, dalla moglie, dalla figlia e dalle nipoti] (Svetonio, Vita di Augusto, 73 ), secondo un preciso modello propagandistico di «ritorno alle origini» nello stile di vita, mo-

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derato in tutto, volto a influenzare, in primis, i ceti altolocati e a diventare parola d'ordine nella nuova società. Della matrona al telaio sono noti dalla tradizione letteraria molti esempi leggendari, che hanno il valore di vero e pro­ prio archetipo, destinato a durare nel tempo, come elemento simbolico di una condizione femminile ideale. Inoltre fusi, conocchie (tenuti in mano dalla sposa al momento di varcare la soglia della casa del marito) e pesi da telaio caratterizzano, senza soluzione di continuità, i corredi funerari femminili, anche quelli più opulenti, ancora in età imperiale avanzata, o possono essere raffigurati sulle iscrizioni funerarie femminili, veri e propri paralleli iconografici dell'espressione lanam /are [Larsson Lovén 1998, 91]. Si veda, ad esempio, la stele di Nonia Privata, di Assisi (CIL XI, 5501), databile alla prima età imperiale, nella cui parte superiore sono scolpiti un vaso, uno specchio e una conocchia, simboli sufficienti a rappre­ sentare il mundus muliebris nelle intenzioni di colui che aveva commissionato il monumento sepolcrale. Di costui rimangono soltanto, per la rottura della parte inferiore della pietra, due elementi nominali, C. Propertius; non conosciamo pertanto il suo rapporto con la defunta, ma, proprio per la simbologia fortemente evocativa dell'ambiente domestico, riterrei che si tratti con buona probabilità del marito. Siamo di fronte a una delle tante testimonianze del perdurante valore simbolico della filatura e del lavoro al telaio nella rappresentazione del modello femminile ideale, proprio della tradizione più arcaica della storia romana. L'episodio leggendario più famoso ed emblematico sulla rappresentazione della matrona al telaio, utilizzato anche per giustificare la caduta della monarchia (fine del V I sec. a.C.) a seguito del comportamento incivile del figlio del re, è quello relativo a Lucrezia, moglie di Collatino [Cantarella 1996a, 5 3 -54] . Infatti, tra i giovani nobili e i figli del re Tarquinio il Superbo, impegnati nell'assedio della città latina di Ardea, si era accesa un'animata discussione sulle virtù delle rispettive mogli. Eccitati da uno stato di ebbrezza dovuto al vino be­ vuto, decidono di fare un'improvvisata alle donne e valutare, s ulla base di quello che stavano facendo, la più virtuosa. Giunti a Collazia, patria di Collatino, a notte fonda, trovano Lucrezia occupata a filare la lana, seduta al centro della casa,

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tra le ancelle intente a vegliare, mentre le nuore del re se la spassavano tra banchetti e divertimenti con le loro dame di compagnia (Livio, 1 , 57 , 9: uhi Lucretiam haudquamquam ut regias nurus, quas in convivio luxuque cum aequalibus viderant tempus terentes, sed nocte sera deditam lanae inter lucubrantes ancillas in medio aedium sedentem inveniunt). Il figlio del re, Sesto Tarquinio, viene preso dal desiderio (mala libido) di violentare Lucrezia, eccitato dalla sua bellezza e dalla sua spectata castitas (comprovata moralità). Dopo alcuni giorni, all'insaputa di tutti, si reca di nuovo a Collazia, dove viene ricevuto con tutti gli onori che il suo rango comporta. Nottetempo si intrufola nella camera di Lucrezia e, minac­ ciandola con la spada, tenta di imporle un rapporto sessuale. Non è la paura della morte a vincere la resistenza di Lucrezia, bensì quella del disonore: Sesto, infatti, le dice che avrebbe messo accanto al suo cadavere quello di uno schiavo nudo sgozzato, perché si credesse che era stata uccisa in un vergo­ gnoso adulterio (in sordido adulterio). Con questa min�ccia, il figlio del re ottiene ciò che vuole (quo terrore cum vicisset obstinatam pudicitiam). Lucrezia manda quindi a chiamare il padre e il marito, e davanti a loro si uccide, perché nessun bene rimane alla donna, amissa pudicitia, quando è perduto l'onore. L'unica richiesta per i congiunti è che questo suo onore perduto sia vendicato. Tale vicenda è fortemente paradigmatica e si presta a molteplici letture e interpretazioni [Koptev 2003]. Se da un lato va contestualizzata in funzione del resoconto liviano circa la caduta della monarchia, causata dal comportamento brutale del figlio del re, dall'altro cristallizza il modello della matrona virtuosa che occupa il centro della casa (in medio aedium), fila personalmente la lana e sovraintende al lavoro delle ancelle. Da ultimo, il suicidio di Lucrezia, violentata e perciò disonorata, rappresenta il modello archetipico della castitas matronale che non deve essere violata: nec ulla dein­ de impudica Lucretiae exemplo vivei, perché, d'ora in poi, nessuna matrona viva nel disonore, prendendo a modello Lucrezia (Livio, 1 , 58, 1 0). L'episodio di Lucrezia è narrato anche da Ovidi9 (Fasti, 2, 721 -852) che, in particolare, fa risaltare il contrasto «tra due cpntrapposti modelli femminili», e cioè quello rappr��entato dalle nuore (etrusche) di Tarquinio, che banchettano e be-

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vano vino, e quello della lanz/ica e pudica Lucrezia (romana) [Degl'Innocenti Pierini 2008, 3 89-395]. Parimenti anche la cacciata dei decemviri (metà del V sec. a.C.), altra forma di potere tirannico nella rappresentazione degli storici romani, è strettamente connessa alla salvaguar­ dia dell'inviolabilità sessuale femminile. Lo dice chiaramente Li_v.io, raccontando la storia esemplare della vergine Virginia, fanciulla bellissima, promessa in sposa all'ex tribuno Lucio Icilio, che rifiuta di piegarsi alle voglie del decemviro Appio Claudio. Costui, alienatus ad libidinem animo (Livio, 3 , 48, 1: ancora una volta incapace di ragionare perché preso dalla libidine), ma forte del suo potere istituzionale, decide di ri­ correre all'inganno, in questo caso architettando un imbroglio giuridico. È molto bella l'espressione utilizzata da Livio, a proposito della resistenza di Virginia: omnia pudore saepta (3, 44, 4), letteralmente «le barriere erette dal pudore», con significativa metafora desunta dal linguaggio politico e civile, in quanto i saepta erano i recinti in cui si raccoglievano i cittadini per esercitare il diritto di voto. Piuttosto che cedere alle ingiunzioni di Appio Claudio, Virginio, il padre della ragazza, la accoltella a morte, dicendo (Livio, 3 , 48, 5): hoc te uno quo possum modo, filia, in liber­ tatem vindico [figlia mia, ti rendo la libertà, nell'unico modo possibile] . È qui evidente, ancora una volta, il valore emblematico della castitas matronale e del ruolo che esercitava nell'immaginario politico romano. Soltanto il suo rispetto e la sua salvaguardia, infatti, garantivano la legittimità della discendenza dei cives, cui spettava il compito di gestire la res publica nel rispetto delle libertà costituzionali. Questi racconti edificanti sulle virtù femminili, definiti «modèles formateurs» [Eme 1 998, 63 ], non debbono per altro trarre in inganno circa il reale pensiero di Livio, storico

  • _er natlll'a ai lavori domestici, l'uomo all'attività forensee al lavoro all'aria aperta. Perciò la divinità ha donato all'uomo la capacità di sopportare il caldo e il freddo, i viaggi e le fatiche della pace e della guerra, vale a dire l'agricoltura e il servizio militare, e, dal momento che la ha resa inabile a tutte queste cose, alla donna ha affidato la cura delle faccende domestiche].

    Tllle divisione dei compiti è, dunque, per gli uomin! roma­ ni, una questione di natura, corrispondente alla volontà degli dei, e ogni cambiamento va contro natura, vale a dire rovescia l'ordine naturale delle cose [Maurin 1983, 1 4 1 ] . Pertanto lo stesso Columella non può che biasimare, secondo un concetto già teorizzato da Catone e rimasto ideologicamente operativo in tutta l'età romana, che il lusso e la pigrizia (/uxus et iner­ tia) �_bbiano distolto .le matrone dal loro dom_r;_tù:u.s..__kJP_g,:_,_ in particolare dal lanr/icium, cioè dalla confezione domestica degli abiti, .e ch_e J�_ matrona altolocata non si occupi più di

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    nulla, d.elegando la sorveglianza dei domestici e della casa a una governante. Columella idealizza il passato e connota negativamente il presente, come altri nostalgici avevano fatto e faranno dopo di lui, individuando nt:LJ>iù liberi comportamenti femminili la causa primaria del degrado civico e morale -della società a loro contemporanea, ma non va dimenticato che Columella «è un provinciale, cresciuto in Spagna: forse questi standards old-fashioned erano in accordo con il suo background nativo» [Noè 2001, 3 28]. Una.Jegge riportata da Plinio il Vecchio (Storia Naturale, 28, 28) vietava alle donne di filare in aperta campagna, cosa che avreQbe_gettato, secondo la mentalità corrente, il maloc­ chio sui campi e danneggiato il raccolto. Recentemente [To­ disco 2005] è stato ipotizzato che la proibizione riguardasse piuttosto l'esercizio di pratiche divinatorie e magiche attuate dalle donne attraverso il movimento rotatorio del fuso. Queste pratiche potevano comportare la forzatura dei tempi naturali della produzione agricola. Anche se si tratta dei soliti luoghi comuni folkloristici di stampo misogino, che abbondano in tutti i tempi e in tutti i luoghi, va rilevato come anche nelle ordinanze legislative venga sostanzialmente recepita e ribadita un'attitudine nel contempo mentale e morale, cioè che l'ambito domestico sia l'unico luogo deputato al lavoro femminile. Se non si rispet­ tano questi limiti, nel contempo fisici e psicologici, e la donna ne fuoriesce, l'ordine naturale delle cose viene ribaltato con conseguenze negative, come in questo caso, al punto che il raccolto dei campi viene compromesso. Lo stesso Plinio il Vecchio, da naturalista, considera la