La difesa della razza: antologia 1938-1943
 8845214192,  9788845214196

Table of contents :
Prefazione di Umberto ..............9
Introduzione ..............11

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Valentina Pisanty

LA DIFESA DELLA RAZZA Antologia 1938-1943

TASCABILI BOMPIANI

TASCABILI BOMPIANI

Alcuni hanno sentito parlare de La difesa della razza, la rivista dell’antisemitismo e del razzismo italiano, a cui hanno collaborato alcuni tra i nomi più famosi della cultura dell’epoca, più una coorte di pennivendoli che oggi definiremmo “fondamentalisti”. E difficile oggi leggere queste pagine senza provare un sentimento a metà tra l’orrore e il sarcasmo: come è possibile che queste cose siano state scritte, che molti le abbiano lette, che tantissimi le abbiano credute, che la maggioranza degli italiani le abbia ignorate, o tollerate, o lasciate passare come innocente esercizio filosofico e parascientifico? Eppure questo è accaduto. Questa antologia suona a vergogna degli autori che raccoglie (il cui nome deve essere consegnato agli annali della paranoia criminale) ma suona anche a vergogna del nostro paese, e non basta dire che in altri paesi si è fatto di peggio. Quanto si può leggere e vedere qui basta e avanza per spingerci a dolorose riflessioni e per renderci preoccupati per le molte pubblicazioni o siti Internet che ancora oggi riprendono questi argomenti. Dalla Prefazione di Umberto Eco Valentina Pisanty, semiologa, insegna all’Università di Bergamo. Per Bompiani ha pubblicato

Leggere la fiaba (1993), L’irritante questione delle camere a gas. Logica del negazionismo (1998) e, con Roberto Pellerey, Semiotica e interpretazione (2004).

Ladri di Bibilioteche

PROGETTO FASCISMO 2019

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Valentina Pisanty La difesa della razza Antologia 1938-1943 con un contributo di Luca Bonafé Prefazione di Umberto Eco

TASCABILI BOMPIANI

Realizzazione editoriale: studio g.due s.r.l. ISBN 88-452-1419-2

© 2006 RCS Libri S.p.A. Via Mecenate 91 - 20138 Milano

I edizione Tascabili Bompiani gennaio 2006

Per fare un vestito ad Arlecchino ci mise una toppa Meneghino, ne mise urialtra Pulcinella, una Gianduja e una Brighella. Pantalone, vecchio pidocchio, ci mise uno strappo sul ginocchio e Stenterello, largo di mano, qualche macchia di vino toscano. Colombina che lo cucì fece un vestito stretto così. Arlecchino lo mise lo stesso, ma ci stava un tantino perplesso. Disse allora Balanzone, bolognese dottorone: - Ti assicuro e te lo giuro che ti andrà bene il mese venturo se osserverai la mia ricetta: un giorno digiuno e l’altro bolletta!

Il vestito di Arlecchino (Gianni Rodari)

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■'■’ À te >· ·. 20-21 (5 dicembre 1941)

Con la purità di razza mantenutasi nella regione, anche l’A­ rabo nomade, dobbiamo ammettere, conservò doti psichiche non comuni altrove e che manifesta nelle più svariate occasioni. Amore od amicizia, cacce o giuochi, pace o guerra, imprese for­ tunate o sfortunate gli dànno con frequenza ispirazione per can­ tare in mezzo ai compagni apparendo allora un essere superio­ re da rispettare secondo vuole la legge del deserto. Non riesce certo altrettanto facile a chiunque trovare espressioni atte a le­ nire l’affanno per la donna amata, vantare la bellezza delle pro­ prie fanciulle e il muruwàh, ossia il potere virile, oppure la qua­ lità dei cammelli o dei cavalli della tribù, raccontare i viaggi nelle aride piane abitate da struzzi, onagri, gazzelle e sciacalli, suscitare l’orgoglio per le virtù guerresche, far scendere l’aiuto divino sugli uomini in pericolo, scagliare magiche maledizioni al nemico lasciando l’uditorio incantato con l’animo sospeso e la fantasia eccitata per l’evocazione di ricordi sacri al cuore del be­ duino. Nelle veglie sotto il cielo stellato, nei pellegrinaggi, nelle interminabili marce per la ricerca dei pascoli, echeggia frequen­ te la voce di cotesti poeti, abili nel condensare i concetti in sen­

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tenze argute o profonde, abbellite con un innato senso del rit­ mo e nel suscitare passioni che inf uocano per qualsiasi sacrifi­ cio. Per il loro tramite si ammette che parli AUàh, sì che ascol­ tarli equivalga ascoltare parole divine: spiegazione mistica di suprema portata per le azioni del nomade sempre propenso a fondere con la religione gli atti della sua vita, dai modestissimi ai supremi, con una tenacia ed un entusiasmo inimmaginabili da chi non ha avuto lunga dimestichezza con lui. Coi loro canti dell’amore, del deserto e del cammello, della libertà umana con­ frontata a quella delle veloci gazzelle, della fierezza insuperata del nomade e del triste destino dell’Arabo asservito, consimili poeti esercitano influsso potente nell’Irak ansioso e meritevole di una indipendenza senza ombre. [... J Date le sue risorse, dati i suoi uomini intelligenti, spesso poeti e sempre guerrieri coraggiosi, l’Irak ha ben motivo di pretendere un avvenire migliore e di piena indipendenza.

Popoli nomadi e sedentari dell’Irak DRV, 3: 20-21 (5 dicembre 1941)

A cosa dobbiamo questo ritratto affettuoso degli iracheni che, dal punto di vista del razzismo antropologico, dovrebbe­ ro occupare uno dei gradini inferiori della scala umana - non il più basso, perché quello spetta alle razze negroidi, ma co­ munque inferiore alle razze europee? Si potrebbe immagina­ re che la simpatia degli italiani per gli arabi sia dovuta a un senso di comune appartenenza alla storia del Mediterraneo, da sempre teatro di scambi e di fecondi innesti culturali tra Europa meridionale, Nord-Africa e Medio-Oriente. Ma su questo argomento i difensori della razza si sono già espressi in modo categorico: «E’ NECESSARIO FARE UNA NETTA DISTINZIO­ NE tra I Mediterranei d’Europa (occidentali) da una par­ te e gli Orientali e gli Africani dall’altra. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’origine araba di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza /mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabi­ lendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammis­ sibili» (punto 8 del Manifesto razzista). Dunque gli arabi so­ no tollerabili a condizione che se ne rimangano a casa propria, e a noi resta il problema di capire perché Cipriani sia così insolitamente benevolo nei confronti degli iracheni. Ancora una volta, si può cercare qualche risposta nelle circostanze storiche: dal 1920 al 1932 l’Iraq è stato un man­ dato britannico, e nel 1941 (quando Cipriani scrive il suo ar­ ticolo) l’influenza britannica sul paese è ancora forte, per quanto osteggiata dalle popolazioni locali (tanto che, a se­ guito di violente turbolenze interne e di tentati colpi di stato, nel maggio del ’41 i britannici riprendono controllo del pae­ se). Dobbiamo perciò presumere che - secondo la nota logi­ ca per cui i nemici dei nostri nemici sono i nostri amici - gli iracheni vengano celebrati in virtù della loro resistenza al do­ minio coloniale britannico, e a dispetto dei loro presunti de­ ficit biologici, per l’occasione spinti in secondo piano. L’Iraq ha inoltre il merito di essere teatro di violenze anti­ sémite (il primo giugno 1941 scoppia a Baghdad un sangui­ noso pogrom, con tanto di stupri e di uccisioni di bambini per strada). Sono interessanti, a questo proposito, gli occasio­ nali interventi che La difesa della razza dedica all’Islam, visto 182

come un possibile alleato dell’antisemitismo fascista. Così, ad esempio, si esprime Pascal Pascali in un articolo intitolato “Maometto contro gli ebrei”:

Pascal Pascali, “Maometto contro gli ebrei”, Difesa della razza II, 18: 26-28 (20 luglio 1939)

... Bisogna dunque, dopo questa brevissima esposizione, e anche tenendo presente gli ultimi avvenimenti di Palestina convincersi dell’abisso che separa i musulmani dagli ebrei e ri­ conoscere l’esistenza di un razzismo islamico e dichiararsi pronti a rispettarlo. Per il nostro paese l’impostazione del pro­ blema della razza è una posizione presa contro vaste infiltra­ zioni e pericoli potenziali che domani potrebbero diventare effettivi e gravissimi. Della presenza degli ebrei, non solo in ogni ramo delle at­ tività speculative, ma nei gangli vitali della nazione, bisogna per forza tener conto, provvedendo a impedirla se si vuole l’indipendenza e il potenziamento della Nazione. Ma possia­ mo noi lamentare una situazione simile o prevedere simili ag­ guati da parte dei fedeli dell’Islam? Gli islamici non varcano che raramente i confini del loro continente. Nelle nostre colonie i sudditi musulmani non si cimentano quasi mai negli stessi campi di attività dei nostri connazionali. Essi disbrigano normalmente il commercio indigeno in con­ correnza con gli ebrei. Il loro conservatorismo religioso, il ri­ fiuto di mescolarsi a quelli che non professano la loro fede ce li rendono alleati nella lotta contro il meticciato. In conclusio­ ne: dal razzismo islamico noi non abbiamo nulla da temere e lo spirito islamico è sufficientemente preparato dalla sua tra­ dizione e dalla sua storia a comprendere la nostra presa di po­ sizione nei riguardi degli ebrei.

Giapponesi e tedeschi Si rafforza sempre di più l’impressione che gli stereotipi raz­ ziali diffusi dalla rivista di Interlandi siano soggetti a vincoli politici altrettanto, o forse più stringenti degli obblighi astrat­ 183

tamente dottrinari. Può essere interessante, a questo punto, considerare lo stereotipo dei giapponesi, popolazione la cui vicinanza antropologica rispetto ad altri popoli asiatici (come ad esempio i cinesi, che nelle stesse pagine della Difesa della razza vengono descritti come una razza crudele, inerte e cor­ rotta88) è piuttosto difficile da negare. E tuttavia, trovandosi dalla parte giusta del conflitto mondiale, i giapponesi vengo­ no dipinti come una razza affine - spiritualmente, se non.proprio biologicamente - a quella italiana. Ecco allora che l’ap­ partenenza a una razza ridiventa un fatto prevalentemente spirituale, sebbene non si escluda la possibilità che - a cerca­ re abbastanza indietro nel tempo - italiani e giapponesi ab­ biano sì qualche remoto antenato in comune. E forse in que­ sta chiave che si può intendere l’affermazione secondo cui «le curiose bacchette per le libazioni, usate attualmente dagli Aino, sono in tutto simili a quelle del paleolitico europeo»89

Armando Tosti, “Razza giapponese”, Difesa della razza IV, 1: 23 (5 novembre 1940) ...Onde sono più che mai evidenti i caratteri peculiari di quella razza che, oltre le sue virtù guerriere, esalta la vita sem­ plice, sobria, forse un po’ languida e un po’ monotona, ma senza falsità, senza ambizioni sociali, stravaganze, snobismo uso inglese. L’assenza di snobismo e dei vizi affini del Giappo­ ne si scorgono in tutti, e ciò che dico non può essere smentito da nessuno.

Alessandro Kemal Vlora, “La razza giapponese”, Difesa della razza V, 23: 7-11 (5 ottobre 1942) Il giapponese è sempre pronto a sacrificare la vita se l’ono­ re proprio, l’interesse del paese o la volontà dell’Imperatore lo esigano. La facilità con la quale il giapponese sacrifica la sua persona è un sentimento molto elevato che denota oltre che poco attaccamento alla vita, moltissimo coraggio. Il karakiri è appunto in Giappone la forma più onorevole del suicidio. Il karakiri viene fatto dal giapponese quando crede d’essere sta-

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to disonorato, d’aver subito un grave affronto, per provare la sua buona fede o, infine, per protestare contro un’ingiustizia. Il coraggio giapponese costantemente preparato a fare sacrifi­ cio della propria vita in qualsiasi momento dà la prova mag­ giore del suo alto valore durante la guerra. Infiniti sono gli esempi dell’ammirevole eroismo giapponese nelle ultime guerre da essi combattute: le eroiche gesta che portano le loro armi vittoriose su ogni fronte stanno oggi a dimostrare ancora meglio quale sia in realtà lo spirito di sacrificio e di coraggio ch’essi profondono nella lotta per il raggiungimento della cau­ sa divina per cui combattono. Il shintoismo ha fatto nascere in loro la credenza del loro essere divino e quindi della loro in­ vulnerabilità. [...] Tutti i visitatori del Giappone sono concordi nel conside­ rare l’educazione come un altro dei tratti caratteristici della popolazione. L’educazione giapponese si manifesta dapprima coi saluti rispettosi e prolungati che si scambiano gli uni con gli altri allo stesso modo che fra i componenti della stessa fa­ miglia. Tutto quello che viene da altri o è destinato ad altri di­ viene per il giapponese degno del più alto rispetto; tutti i det­ tagli della loro vita quotidiana sono improntati alla dolcezza ed anche a una raffinata cordialità. In Giappone non si assiste mai a scene violente, quasi mai a dispute; le stesse minacce vengono espresse con la massima calma. La facilità con la qua­ le gli Europei vanno in collera meraviglia i Giapponesi che considerano tale carattere come una forma distintiva dei po­ poli occidentali. [...] Il popolo giapponese è fra tutti i popoli quello che sembra pigliare la vita con la maggiore gaiezza possibile. La gioia inti­ ma, che manifesta la gaiezza esteriore del giapponese, è come una combinazione di diversi sentimenti, come il patriottismo, l’amore della natura, la benevolenza. Prima di tutto i Giappo­ nesi sono molto fieri del proprio paese che amano appassio­ natamente, felici di appartenere ad una nazione ch’essi giudi­ cano privilegiata; in secondo luogo essi sanno gioire delle diverse bellezze della natura e trovano in questa contempla­ zione il loro massimo piacere. 1...] Da quanto abbiamo fin qui detto si nota come tutta la vita morale e materiale del popolo giapponese sia ispirata agli alti principi suggeriti dalle varie religioni professate reintegrati dagli interessi supremi della grandezza della Patria. La comu­ nanza spirituale, soprattutto, del popolo italiano e giapponese

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costituisce la base per una lunga e duratura collaborazione fra i due paesi non soltanto nel campo politico, ma anche in quel­ lo economico, scientifico e culturale e, nello stesso tempo, spiega la naturalità della loro amicizia e la identicità di vedute.

Lo stereotipo dei tedeschi è invece il frutto di un trava­ gliato compromesso. Se da un lato è politicamente conve­ niente presentare i tedeschi come una razza affine (germana per l’appunto), dall’altro bisogna fare i conti con l’immagine non sempre lusinghiera che i razzisti tedeschi rimandano degli italiani. Secondo le classificazioni antropologiche in auge nella Germania nazista, i tedeschi sono tipi nordici e parabolici, mentre gli italiani sono mediterranei e sferici, e dunque i due popoli non sono biologicamente equiparabili. Anche a livello psicologico nordici e mediterranei vengono descritti (da autori come Hans Günther o Fritz Lenz) come due razze per certi versi antitetiche: i nordici sono taciturni, riservati, freddi, profondi e fermi, laddove i mediterranei sono istrionici, effervescenti, vivaci, superficiali e irrequieti. Addirittura, Lenz paragona «ilforte impulso [del mediterra­ neo] a manifestare i propri sentimenti attraverso la parola e il gesto» a un’analoga «infantile mancanza di capacità di conte­ nersi» manifestata dal negro, e chiaramente l’accostamento non è inteso come un complimento. I difensori della razza hanno perciò bisogno di scardinare il pregiudizio comune che i nordici siano più belli, determinati e forti dei mediter­ ranei. Ma devono farlo in modo diplomatico, senza dare l’impressione di polemizzare con l’alleato tedesco.

Edmondo Vercellesi, “Gruppi etnici italiani e tedeschi”, Difesa della razza II, 15: 21 (5 giugno 1939) Masse disciplinate che non si agitano vanamente dietro mille idee e aspirazioni, essi si piegano bensì al buon senso del­ la vita pratica: amano i fatti, gli atti, i calcoli; i meridionali sono invece mobilissimi nelle idee, impulsivi ed amanti delle ribel­ lioni, proclivi a decidere a colpi di testa gli avvenimenti anche più importanti. I nordici invece perché mancano di questa grande eccitabilità posseggono i caratteri psicologici che s’im­

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perniano sulla freddezza e sulla lentezza, cioè caratteri del tut­ to opposti a quelli del mediterraneo. Non mai distratti da ba­ nali emozioni hanno i nordici spiccatissimo il senso pratico del­ la vita non mai scosso dagli uragani psicologici di una fervida immaginazione. Al contrario del meridionale il nordico non ha un’intelligenza così rapida e agile e la mancanza della prontez­ za nel concepire e nel comprendere è supplita da una dote op­ posta, dalla tenacia, cioè, di^viscerare l’obiettivo applicandovisi con tenacissima forza di volontà. [...] Si sa bene però che se antropologicamente italiani e tedeschi sono diversi, pur tutta­ via nella loro coscienza essi sono simili; e da questa coscienza, dove è vivissimo il senso di fratellanza, scaturisce la comunan­ za delle idee e delle aspirazioni che, attraverso gli avvenimenti storici e sociali, lega i destini futuri dei due popoli.

Dal Questionario: “Gli occhi del corpo”, Difesa della raz­ za II, 17: 52 ( 5 luglio 1939) Gastone Raule, giovane fascista, ci ha scritto da Padova che il nostro fascicolo dedicato alla Germania e all’Italia con­ tiene bensì riproduzione di bei tipi tedeschi, ma di non altret­ tanto belli italiani, perché egli dice che non abbiamo scelto il classico tipo femminile italiano, e di questo specialmente si duole. E molto bello, italiano e cavalleresco il sentimento di questa gentile protesta. Ci duole di non aver avuto le fotogra­ fie delle più belle donne d’Italia. La classica nostra bellezza è specialmente quella delle campagne, la meno vicina all’obiet­ tivo dei fotografi ed alla pubblicità. Bisogna andarla a scovare. E i cavalieri, quelli che amano la vera bellezza femminile, co­ me Raule, dovrebbero aiutarci. Adelina Ricci, che si dichiara bellissima col punto escla­ mativo, e ragazza italiana, con un altro punto esclamativo, ci ha scritto da un paese indecifrabile quanto segue: In nome delle bellissime nostre ragazze italiane, protestia­ mo per il simpatico scimiotto che avete messo di fronte alla bella ragazza tedesca! È un’offesa alla nostra razza. Cara Adelina, io pure sono bellissimo. Siccome tu non me lo dici, io me lo dico da me. Quanto però allo scimiotto, mi fai dubitare che tu sia bellissima, e ti vorrei vedere: perché se quello è uno scimiotto, tu che intendi per bella ragazza, bella non diciamo bellissima, come dici tu? Li hai questi occhi bel-

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li? E allora guarda, e cerca di vedere. Prima di tutto quella ra­ gazza ha una natura nobile. Si vede dalla faccia ch’ella non sa­ rebbe stata capace di far questione, se avessimo pubblicato la tua fotografia. E una faccia che a ogni vero scultore piacereb­ be di scolpire. Non vedi che Dio ci ha messo un po’ di cuore a farla? Guarda la fronte, l’attacco dei capelli. Anche il berretto, messo così, va bene. E anche l’abito non ha niente delia signo­ rinetta. Guarda che sopracciglia: come sono staccate e vanno verso la tempia. Gli occhi offesi dal sole, ridono. Ti debbo di­ re che il naso, la gota, il mento, i denti, il sorriso, quel magni­ fico collo vanno proprio bene. Guarda il sorriso. 11 sorriso di tutta la faccia. Non vedi l’anima di questa ragazza. Com’è cor­ diale. È una ragazza intrepida, una bellezza guerriera. Ma sai qual’è [sic] il maggior pregio di questa immagine? Che non c’è l’ombra dell’affettazione. In lei niente è falso. È una donna schietta. Ha vita dentro se stessa. E tu cerca di vedere ciò che gli occhi del tuo corpo non vedono.

Foto delle ragazze italiana e tedesca DR II, 15: 20-21 (5 giugno 1939)

Ludwig Ferdinand Gauss: “Non si può parlare ragione­ volmente della razza?”, Difesa della razza, III, 15: 6-11 (5 giu­ gno 1940) Il guidatore mediterraneo è padrone dell’attimo: egli è sempre là, dove è, nel pieno presente. Egli gira per le curve

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con la velocità del fulmine: quanto più ardito, quanto più dif­ ficile, tanto più splendido riesce il giuoco. A ciò non arriva il guidatore nordico: non perché egli sia un peggior guidatore, ma perché i suoi movimenti dello spirito e del corpo hanno un altro stile. Il nordico non vive dove è, ma sempre in ciò che viene: egli non è padrone del momento, ma padrone della lon­ tananza. Egli non procede nelle curve, ma nelle linee larghe: per lui la curva è bella se essa è prevista e poi da lui stesso il meno possibile accentuata. Il guidatore mediterraneo ama il massimo della velocità: in esso si dimostra padrone dell’atti­ mo. Il guidatore nordico si spinge sempre avanti, nell’avveni­ re, anche nel più lontano possibile avvenire. Perciò egli si for­ ma un piano d’azione previsto per tutti i casi possibili, il quale disturberebbe il guidatore mediterraneo assai più di quanto non gli sarebbe d’aiuto.

Francesi, inglesi, americani e russi Lo stesso ordine di considerazioni contingenti pervade mol­ ti degli articoli relativi agli altri popoli europei. Bisogna ad esempio riuscire a dimostrare che gli italiani, partner ideali dei tedeschi e dei giapponesi, sono irrimediabilmente diver­ si dai francesi {Y «ethnie putaine», secondo la definizione di Georges Montandon); e che i corsi, in quanto biologicamen­ te italiani, non hanno alcun legame naturale con i francesi, i quali derivano dai celti e quindi non sono pienamente latini. Così il bravo Landra:

Guido Landra, “Italiani e Francesi, due razze, due ci­ viltà”, Difesa della razza, I, 5: 21 (5 ottobre 1938) Il concetto di una fraternità razziale latina non ha nessuna base di verità: di questo ognuno potrà convincersi pensando che si considerano latini persino i Messicani che pure hanno nella loro popolazione il 28% di sangue meticcio-indiano, senza considerare il sangue degli autentici indii. In una condi­ zione analoga a quella dei Messicani si trovano altre repubbli­ che del Centro-America. Qualcuno potrebbe illudersi che almeno in Europa esista realmente una unità razziale latina. Purtroppo i dati di una

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scienza assolutamente oggettiva gli mostreranno come la realtà contrasti con questa illusione, sulla quale troppe specu­ lazioni sono state fatte in un passato non tanto lontano da noi, e come razzialmente sia molto differente dal nostro il paese la­ tino più vicino: la Francia. Eliseo Reclus, noto per essere stato uno dei maggiori geo­ grafi francesi, scrittore quindi che non potrà essere accusato di razzismo, ha così descritto quelle che sono le reali condi­ zioni razziali della Francia: «Alle origini della storia una razza affatto distinta dagli Iberi, e generalmente oggidì indicata col nome di celtica, oc­ cupava a nord della Garonna, pressoché tutta l’estensione di territorio delle Gallie: benché non riusciamo ancora a farci una chiara idea di ciò che erano quelle popolazioni, da esse si pretendono direttamente derivati i Francesi d’oggidì. In realtà, la maggior parte degli scrittori precedenti a Cesare nulla ci hanno fatto conoscere di positivo rispetto ai Celti; alcuni testi oscuri e vaghi sono tali da ingannare chi vi dia un significato troppo preciso. Per gli antichi il mondo scono­ sciuto incominciava alle Alpi; parlavano delle regioni che si estendono al di là come i nostri antenati medioevali dell’in­ terno dell’Africa. Riprendendo le idee di Edwards e Perire, il Broca, armato degli argomenti datigli dalle misure prese sui crani degli ossari gallici, ha definitivamente assodato che esi­ stevano nella Gallia propriamente detta, non contando gli Iberi, due tipi di razze ben distinte. Il primo è quello degli abitanti il paese compreso tra la Senna e la Garonna; questi, detti Galli, Celti od altrimenti, erano piccoli, bruni e brachi­ cefali (a testa tonda); le tribù che popolavano la zona nordest, chiamavansi Belgi o Kimri, erano grandi, biondi e dolicocoefali. V’era dunque contrasto assoluto tra le due razze, tranne dove gli incroci avevano prodotto la formazione di un tipo intermedio. [...] Presi in massa i Francesi sono veramente come li dipinge Roget de Bellognet, un popolo bruno o castano, a testa più ro­ tonda che ovale, i cui occhi variano dal nero al bruno chiaro... I Romani, questi duri conquistatori delle Gallie, ebbero ben altra influenza dei Greci nella formazione di ciò che poi di­ venne la nazione francese... Ma la parte di cambiamenti fisici di razza dovuta all’in­ fluenza romana è cosa da poco in confronto alle trasformazio-

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ni d’ordine intellettuale e morale, di cui devesi attribuire il merito ai civilizzatori venuti dalla penisola italiana... Latiniz­ zati per lingua, i Francesi, benché d’origine mista, sono giu­ stamente classificati tra i popoli latini cui non si congiungono che parzialmente per razza.» Da quanto è stato riportato appare chiaro come sia profondamente errato il concetto di una unità razziale tra Ita­ liani e Francesi, al quale ancora credono le persone di medio­ cre cultura.

Statua del Gallo morente nei combattimenti del Circo. DR 1,5:21(5 ottobre 1938)

Qualcuno ha detto che i Francesi hanno carattere fem­ minile e in parte è vero. Facili ad entusiasmarsi, facili a per­ dere l’entusiasmo, pronti ad amare e ad odiare, per poco e per molto, sono veramente suggestionabili più di ogni altro popolo... il carattere dei Galli ancora prevale malgrado due mila anni di storia e d’influenze straniere, e questo caratte­ re è di razza, che che altri ne dica.

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Q Cesare do! presenta i ca­ ratteri delta più pura raz sa italiana, quale si tra va in Cornea.

Ritratti di Pascal Paoli e di Napoleone. L’italianissimo volto di Pasquale Paoli, mostra quale contrasto vi sia tra i Corsi e la razza celtica. Il Cesare della Francia presenta i caratteri della più pura razza italiana, quale si trova in Corsica DR II, 5:9 (5 gennaio 1939)

Guido Landra, “Italianità razziale della Corsica”, Difesa della razza II, 5: 9 (5 gennaio 1939) I Corsi rappresentano oggi con i Sardi, i Calabresi, e i Sici­ liani, nella forma più pura, la variante mediterranea della no­ stra razza. [...] È facilissimo distinguere un Corso da un Fran­ cese al solo aspetto. La differenza di statura, di colorito, di forma della testa, per parlare solo di differenze somatiche, fanno del Corso e del Francese due esseri che non potranno mai fondersi in un insieme armonioso. [...] Sono però soprat­ tutto le qualità morali che fanno dei Corsi qualche cosa di estremamente diverso dai Francesi. [...] Propriamente italia­ na è la laboriosità dei Corsi.

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Per quanto riguarda gli inglesi, la questione si fa un po’ più intricata. Da un punto di vista strettamente biologico è difficile sostenere che gli inglesi siano radicalmente diversi dai tedeschi, ed è per questo che la rivista dirotta l’attenzio­ ne sugli «atavismi psichici della razza inglese». Quali sareb­ bero, dunque, i tratti caratteriali che rendono gli inglesi co­ sì differenti dalle altre genti del nord Europa? Leggendo tra le righe si capisce che ciò che gli autori della Difesa della razza detestano di più degli inglesi è la loro aria di superiorità, ma difficilmente un razzista au­ toproclamato può accusare l’avversario di essere più razzista di lui. Ovvero, nella Difesa della razza succede anche questo, ma poi bisogna chiarire in che senso il razzismo inglese è deprecabile mentre quello fascista è degno di lode. Per tirarsi fuori dall’impaccio, alcuni au­ tori affermano che quello inglese è un razzismo classista mentre quello italiano è un razzismo più popolare. Altri (come Armando Tosti) si scandalizzano di fronte all’ipo­ crisia degli inglesi, i quali ammantano il proprio razzi­ smo coloniale con giustificazioni di tipo umanitario, lad­ dove - siamo invitati a inferire - il razzismo italiano è preferibile in quanto sfrutta le popolazioni conquistate in modo più sincero e schietto. Altri ancora (come G. Dell’Isola) fondano l’opposizione sulle differenze reli­ giose e sugli effetti a onda lunga che esse eserciterebbe­ ro sullo spirito delle razze, additando la mentalità calvi­ nista-capitalista come la principale tara della razza inglese. Ma si tratta di spiegazioni troppo cavillose per fare veramente breccia sul lettore a cui si rivolge La di­ fesa della razza. Ecco allora che, per giustificare l’incolmabile divario che separa gli italiani (e i tedeschi) dagli inglesi, si chiama in scena un terzo attore - la razza ebraica - a cui attribui­ re il familiare ruolo di burattinaio occulto dell’ordine mondiale. Si dirà allora che la razza inglese - originaria­ mente ariana e nordica - è stata corrotta dal virus ebrai­ co, e che dietro a ogni Churchill si nasconde un perfido Rothschild. 193

Times/Semit: L’Inghilterra allo specchio DR IV, 18: 16-17 (20 luglio 1941)

Armando Tosti, “Atavismi psichici della razza inglese”, Difesa della razza IV, 8: 13-15 (20 febbraio 1941)

Nessuno ignora che i principali caratteri della razza in­ glese sono l’abitudine di promettere e non mantenere, l’opi­ nione che tutto si possa comprare, donde quella disinvoltu­ ra che non si arresta dinanzi ad alcun tradimento, e la tendenza a contare sugli altri per farsi cavare le castagne dal fuoco. [...] Un’altra manifestazione della razza inglese è il farisei­ smo multiforme e la sistematica ipocrisia: anche quando es­ si si propongono a scopo di lucro una cosa ingiusta, metto­ no sempre innanzi gli interessi della civiltà, e proclamano ad alta voce i diritti dell’uomo e si atteggiano ad apostoli della libertà, quantunque non si possa pensare una tirannide più spietata e più avara di quella che essi hanno sempre fatto gravare sugli Irlandesi e sugli Indiani. In egual modo la cam­ pagna contro i Boeri fu fatta, a sentire gli Inglesi, per inte­ ressi umanitari, e cioè per il progresso e per la civiltà, eppu­ re essi fecero man bassa sulle miniere d’oro e dettero al mondo civile l’odioso e crudele spettacolo dei famosi campi di concentrazione.

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G. Dell’Isola, “Somiglianze tra il giudaismo e la religione degli inglesi”, Difesa della razza IV, 2:28-30 (20 novembre 1940) Gli ebrei mancavano dall’Inghilterra da tre secoli, banditi ri­ gorosamente dai sovrani cattolici, quando nel 1665 all’improvvi­ so, Cromwell li fece rientrare. Cominciò allora quella intesa, ve­ ramente straordinaria, per cui gli inglesi sono l’unico popolo europeo che non solo non respinge, ma addirittura inventa la storia d’una sua discendenza dal popolo eletto. Com’è noto, lag­ giù vi è ancora chi sostiene, anzi crede di avere dimostrato, che gli inglesi sono le dieci tribù perdute dopo la distruzione di Ge­ rusalemme. D’altra parte gli ebrei ricambiano questa simpatia; ed affermano volentieri che nessuno, come gli inglesi, ha una sua così piena comprensione dei loro pensieri e dei loro sentimenti. Certo, l’interesse ha avuto in ciò una grande parte. In In­ ghilterra soprattutto, è stato riunito il capitale ebraico. Londra è divenuta il centro del commercio ebraico. Ma questi stessi fatti non sarebbero potuti avvenire, anzi neppure Cromwell avrebbe richiamato gli ebrei, se la strada non fosse stata prima spianata da un altro fatto, di natura più profonda. Questo è la stretta somiglianza tra il cristianesimo come lo intendono gli inglesi, e la religione ebraica. Il cristianesimo inglese, cioè il puritanesimo, non è né catto­ lico, né evangelico nel senso luterano. E calvinista: d’un calvini­ smo sviluppatosi a modo suo nella terra inglese e che nella strut­ tura appare singolarmente simile al giudaismo talmudico. Già Heine l’aveva osservato: «Puritanesimo? Non è che giudaismo colla carne di porco». L’uno e l’altro, infatti, coincidono in due punti. Primo, sono religioni capitalistiche, le quali soltanto nel­ la ricchezza vedono il segno della grazia di Dio. Secondo, sono entrambi fondati sulla fede nel popolo eletto; cosa che dà, tan­ to agli ebrei che agli inglesi, una giustificazione divina per ogni violenza od inganno, commessi contro altri popoli.

E che dire degli americani? Lo stereotipo comune li vuo­ le opulenti, soddisfatti e arroganti, ma bisogna mostrare che sono anche deboli e destinati alla sconfitta. E stato detto che questa curiosa combinazione di tratti incongruenti (il nemi­ co è al contempo troppo forte e troppo debole) è tipica del­ la mentalità fascista, e si realizza grazie a un continuo sposta­ mento di registro retorico90. Ma se si adotta una prospettiva

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razzista è possibile anche un’altra giustificazione: la debolez­ za degli americani (nonostante la sterminata ricchezza del lo­ ro paese) è attribuita alla mescolanza razziale. Il melting pot americano rappresenta il peggior incubo di ogni razzista esclusivista, dunque l’obiettivo della rivista sarà di mostrare come, lungi dal realizzare il celebrato sogno americano, la convivenza tra etnie diverse produca effetti sociali devastan­ ti - conflitti interetnici, tumulti e rivolte, sfrenatezze sessua­ li, crisi dei valori, malattie sociali, eccetera - per concludere che sono proprio queste le tare che condurranno gli Stati Uniti dritti verso la sconfitta. Inutile chiedersi chi siano i re­ sponsabili ultimi di tale bolgia interrazziale.

VelKao a il aagnx uaM di c»rta nwntelWS coarikietia americani

L’ebreo e il negro: sintesi di certa mentalità cosiddetta americana DR V, 7: 8-11 (5 febbraio 1942)

Danilo de Cocci, Questionario, Difesa della razza IV, 4 (20 dicembre 1940) ...La libertà sfrenata di cui gode la gioventù, la vita tutta speciale condotta dai coniugi timorosi solo di avere figli, i di­ vorzi ottenuti con irrisoria facilità, la mostruosa diffusione delle pubblicazioni pornografiche e numerosi altri fattori del genere contribuiscono a fare dell’America la mecca delle ma­ lattie sociali (sifilide e gonorrea)...

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Nicola Marchitto, “Il conflitto razziale fra Giappone e USA”, Difesa della razza, IV, 10: 26 (20 marzo 1941)

,..[I nord-americani], pur popolo nuovo e scaturito dalla fusione di una quindicina di nazionalità europee, traggono dall’orgoglio tipico degli anglosassoni, il cui ceppo è prevalen­ te nella loro formazione etnica, e dalla coscienza delle stermi­ nate ricchezze del loro paese i motivi per affermare appunto la propria superiorità e supremazia su tutti gli altri popoli...

Giovanni Savelli

, “Stati Uniti: mito razziale anglo-sassone”, Difesa della razza, V, 7: 8-11 (5 febbraio 1942) .. .Gli Stati Uniti, con le loro accentuazioni, le loro violen­ ze, le loro approssimazioni di grande aggregato etnico, sono la proiezione del sogno libertario e vitalistico covato dal cuore della razza anglo-sassone e attuato nella consentanea immen­ sità di un territorio vergine. E in questo mito, tradotto nella più massiccia realtà, che si ritrovano le radici di una identità di san­ gue e di istinti in cui è veramente l’origine delle vicende stori­ che giunte oggi alla loro maturazione; è in quell’identità che ri­ siede l’impulso per cui, attraverso azioni e con obiettivi spesso divergenti e opposti, le due branchie del mondo anglo-sassone, la britannica e la statunitense, si sono tese a tenaglia sulla vita dei popoli e delle razze in un’eguale crudezza prevaricatrice...

Aldo Modica, “Caratteri fisio-psichici degli anglo-sassoni in America”, Difesa della razza, V, 7: 16-21 (5 febbraio 1942)

...Qualunque sia stata l’origine del temperamento nordamericano (meticciato, suggestione, fattori biosferici, educati­ vi, sociali, economici) esso quale oggi è dà il tono distintivo a tutto l’agglomerato il quale per via di un tale carattere è dun­ que divenuto una etnia distaccata dalle altre europee e spesso ad esse antinomica. [...] Nell’etnia nord-americana si è realizzato uno stato ipertro­ fico, dannoso all’equilibrio organico ed intellettivo, del grup­ po ghiandolare che Collin chiama “dinamogeno” (tiroide, sur­ renali, gonadi, ipofisi) e la cui dominanza, ove diventi fatto collettivo comune alla grande parte degli individui dei due

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sessi di uno stesso agglomerato, può costituire carattere raz­ ziale distintivo. Se noi richiamiamo alla descrizione del temperamento psi­ chico basedowiano (cioè ammalato di ipertrofia della tiroide) fatta da Sainton, Simonnet e Bruha, troveremo alcuni di quei caratteri sui quali in precedenza ci siamo intrattenuti. Ecco in­ fatti come tali autori vedono questo tipo umano: “I basedowiani sono mobili nelle loro emozioni, nelle loro affezioni e nei lo­ ro desideri. Essi si trovano in uno stato di tensione emozionale,pronto a reagire con la violenza alla minima eccitazione: può dirsi che la loro collera attinge la curiosità, che la paura giunge all’ansietà, la gaiezza all’eccitazione. I parossismi bruschi susci­ tati dagli choc emotivi si accavallano. Da ciò nascono turbe del carattere: impazienza, irascibilità, impulsività, passaggio rapi­ do dalla gaiezza alla tristezza, dall’affettuosità all’ostilità”...

Restano da sistemare i sovietici. Le basi dello stereotipo sono già state poste dalla propaganda nazista che, come è noto, dipinge gli slavi come una razza di Untermensch, frut­ to di uno sciagurato incontro tra razze asiatiche e razze eu­ ropee. Si tratta allora di sfruttare lo stereotipo dello slavo fe­ roce e depravato per far passare l’idea che fanti-uomo bolscevico abbia potuto svilupparsi nell’Unione Sovietica anche grazie a un substrato razziale favorevole. Gli slavi vengono presentati come orde barbariche, istintivamente portate al nichilismo e alla dissoluzione dei valori della so­ cietà tradizionale. In ciò, torna utile la nota equazione ebrei = bolscevichi, cavallo di battaglia dell’antisemitismo nove­ centesco, grazie alla quale la rappresentazione del nemico sovietico si carica degli attributi mefistofelici propri dello stereotipo ebraico. Aldo Modica, “Le razze dell’U.R.S.S.”, Difesa della razza IV, 22: 24-25 (20 settembre 1941)

Nel tipo slavo si incrociano caratteri nordici e caratteri asia­ tici. Anche dal punto di vista psichico l’oscillazione tra il razio­ nalismo ed il misticismo paradosso la cieca sottomissione al fa­ to ed al potere, il predominio della vita immaginativa ed il senso dell’insoddisfazione cronica come pure il rapido passaggio dal­ l’orgoglio all’umiltà, dalla più gelida sincerità alla sottigliezza

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dell’astuta menzogna, sono tutti caratteri che si riscontrano nel tipo nordico e nel tipo centroasiatico in modo separato.

Bolscevismo Copertina DR V, 14 (20 maggio 1942)

Aldo Modica, “L’anti-uomo bolscevico”, Difesa della raz­ za V, 14: 53-55 (20 maggio 1942)

Per comprendere l’inferiorità dell’uomo bolscevico noi dobbiamo collocarci dal punto di vista degli inderogabili va­ lori umani di cui abbiamo il privilegio e che in noi si sono an­ dati sviluppando riflettendo sulla nostra storia il loro volto. L’uomo bolscevico può essere infatti considerato come un anti-uomo. E la reazione prima, istintiva, apolitica, etnica, raz­ ziale dell’italiano contro il bolscevismo nasce dal fatto ele­ mentare di una immediata ripugnanza per un modo di essere secondo il quale i valori umani raggiunti dall’uomo in un se­ colare travaglio ed edificati sulla base di caratteri antropologi­ ci originarli, e peculiari alle razze, possono essere rovesciati ed additati al disprezzo in funzione di una ideologia che ammet­ te il solo valore economico e la sola funzione razionale. Il nostro popolo eminentemente rurale, le cui doti di sen­ timento e di equilibrio non sono mai abbastanza esaltate, non può provare che un senso di orrore e di sgomento dinanzi alla costruzione scientifica di un tipo di umanità che è egualmente distante dall’uomo biologico totale quanto l’uomo odierno è distante dal tipo di Neenderthal.

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Ecco perché tra il bolscevico e l’italiano vige un’antitesi fondamentale ed insanabile in quanto tocca le radici medesi­ me della nostra razza.

U.A., “Slavi”, Difesa della razza VI, 3: 18-20 (5 dicembre 1942) Slavi ce ne sono di varia specie; alcuni di razza, altri solo di lingua. Non so proprio dirvi con esattezza se questi dei quali mi occupo lo sono in foto oppure solo in parte; forse vi è in loro un fondo di autentici e puri Slavi, mescolato a razze diverse; alcune superiori, altre inferiori, ma che pur tuttavia nell’insieme formano una piccola comunità umana, social­ mente di apparenza omogenea. Forse le considerazioni che seguono potranno meglio illuminare il problema e persuader­ ci che sullo strato principale, intimamente sano, allignano vir­ gulti spurii e deleteri. Basterà sradicarli perché il resto viva con noi in perfetta armonia e costruttiva collaborazione. [...] Ora è più di un anno, vennero qua [in Russia] le truppe vit­ toriose dell’Italia fascista e furono accolte a braccia aperte, con entusiasmo, nelle città, nei villaggi, nelle campagne e nei boschi. Per pochi mesi andò tutto bene: fioriva l’idillio spiri­ tuale fra Italiani e Slavi, come fiorivano idilli erotici fra Italia­ ni e Slave. D’un tratto cambiò la scena: il perché con certezza io non so e lo dirà la storia; intanto, la cronaca dei giornali ita­ liani di queste parti dice che dal seno di quella pacifica, sorri­ dente, cortese popolazione slava, balzarono fuori alcuni im­ pavidi sicari, belve feroci, raffinati carnefici e corsero le vie della città, le strade della campagna, i sentieri dei boschi. Cer­ ti uomini colti e misurati, umili e gentili, certe fanciulle sorri­ denti e aggraziate divennero talmente crudeli da vincere al paragone i più tristi ricordi delle stragi religiose, del brigan­ taggio e delle rivoluzioni massoniche. I così detti «partigiani» uccisero a tradimento qualche italiano e gli italiani reagirono; si cominciò la lotta, raramente in campo aperto, per lo più nell’insidia e nell’imboscata. [...] Come può un popolo tanto gentile divenire, sia pure in mi­ nima parte ma d’un tratto, così feroce? Sarà forse perché vi è anche qui un meticciato che non produce, come da noi, volpi, suini e pidocchi, ma da loro produce tigri scatenate. O sarà, invece, perché in alcuni la gentilezza era superficiale, le buone

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maniere dovute solo all’agiatezza, ma in fondo sonnecchiava l’anima barbara, che si è svegliata e rugge e sbrana. Problema ideale, interessantissimo, per gli «spiritualisti»; anche perché i più accaniti sono spesso gli intellettuali, mentre i più placidi, ragionevoli e leali verso di noi sono i contadini e gli altri paci­ fici lavoratori. A voler spiegare questa inversione (dalla civiltà gentile alla più turpe barbarie) col solo fattore politico, cioè con la fede comunista, vi è da prendere una cantonata, come fanno quelli che attribuiscono all’influenza comunista la pervicace attuale resistenza dei Russi, che invece i Russi hanno sempre dimo­ strato di possedere, come qualità razziale, anche ai tempi degli Zar. La causa di certi fenomeni va ricercata appunto nei profondi misteri della razza, anche se indubbiamente ha qui lavorato l’azione giudaico-massonica, essa non poteva politi­ camente ottenere questi feroci risultati se non aveva a disposi­ zione la materia prima razziale adatta; e l’ha evidentemente trovata in quegli Slavi che solo in superficie erano civili ed in profondità risentivano d’inquinamenti razziali. Egli è che l’a­ zione politica giudaico-massonica ha potuto far buona presa, con la formula comunista, sul meticciato che mediante la sua lunga penetrazione aveva nel frattempo allevato e cresciuto, per servirsene a tempo debito. Come il Fascismo non può ren­ dere cittadini esemplari certi nostri meticci, così il Comuni­ Smo non poteva convertire i Russi in bruti votati alla morte se già non lo erano, né poteva trasformare certa gente di qua in macabre jene.

DRIV, 19: 9 (5 agosto 1941)

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Piccole razze Abbiamo passato in rassegna, in ordine più o meno sparso, al­ cuni dei principali tipi razziali presentati dalla Difesa della raz­ za. Se ne potrebbero citare molti altri, come i vendicativi skipettari, i fieri amerindi, gli integerrimi finnici, i feroci indios, i megalomani serbi, i tenaci valloni e i randagi zingari, sebbene questi personaggi non sembrino giocare un ruolo di primo pia­ no nella grande narrazione fascista. Ogni stereotipo è, come sempre, il prodotto di una stratificazione di testi sedimentati nell’Enciclopedia collettiva, e sarebbe interessante ricostruire il palinsesto implicito in ciascuno di essi. Tuttavia per ragioni di spazio mi limiterò a riportare qui alcuni brani della rivista.

Albanesi Renato Semizzi, “Storia della razza albanese”, Difesa del­ la razza II, 9: 18-20 (5 marzo 1939)

Abbiamo avuto occasione di vedere molti tipi di albanesi durante la nostra permanenza in Albania, e quasi tutti erano di bell’aspetto, con tratti fisionomici caratteristici, affatto comu­ ni agli altri tipi della penisola balcanica, con viso ovale, occhi neri e naso leggermente arcuato. [...] Gli Skipettari in via di massima appartengono al biotipo longilineo scenico, relativa­ mente microsplanici, leggermente ipertiroidei, brachicefali e mesaticefali, in certe regioni anche dolicocefali, normalmente fecondi e sensuali, a preponderanza simpatica. [...] Lo skipettaro è guerriero nato, valoroso e generoso, ospitale, parco, semplice, ma inesorabile nella vendetta.

Amerindi A. R. Procaccio, “Una razza che scompare”, Difesa della razza IV, 2: 20-21 (5 novembre 1940)

Gli indiani hanno gli zigomi assai grandi, con una forte pie­ gatura verso il basso, sì da sporgere notevolmente in fuori, le ma-

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scelle invece sono lunghe e pure prominenti, mentre i denti sono verticali e assai grandi. Il naso è aquilino, le orecchie sono al­ quanto sporgenti, gli occhi solitamente piccoli e neri, con l’aper­ tura allungata verso l’alto. La loro piega però non è niente affatto mongolica, come tanti vorrebbero sostenere, ma prende un ca­ rattere tutto proprio, molto dissimile da quello delle altre stirpi. Nelle donne un carattere esclusivo della loro razza, che la fa distinguere da quella mongola è la forma dei seni. Le indi­ gene americane li hanno conici come nei negri, mentre le ci­ nesi e le indo-cinesi generalmente li hanno a calotta. Nel rispetto psichico invece, il tratto caratteristico dell’Americanp è una certa gravità e compostezza, per la quale s’ac­ costa più al Malese che ad ogni altra razza. Solitamente egli è del tutto indifferente a quello che lo circonda e partecipa con indifferenza a ciò che costituisce la vita nel consorzio dei suoi simili. Parla lentamente, pomposamente, e con riflessione ol­ tre che con cautela quanto mai esagerata. Nell’indigeno ame­ ricano altissimo è il senso dell’onore come pure radicatissimo è quello della vendetta. Altra spiccata sua qualità è una mirabile forza d’animo che gli fa sopportare i più grandi dolori della vita, specie quello massimo della morte. Per lui non dar segni di debolezza è co­ sa pregevolissima, così come è disonorata la donna che duran­ te le doglie del parto pianga o si lamenti! Ma il lettore non creda che questa generale apatia derivi, come qualcuno volle sostenere, da un temperamento flemma­ tico, chè, anzi, l’Indiano è grandemente collerico.

Finlandesi Umberto Angeli, “La razza finnica”, Difesa della razza III, 5: 33 (5 gennaio 1940) Il Finnico non è servile, è modesto; non è untuoso, è gen­ tile; non è arrogante, è fiero. Quando il turista finlandese vie­ ne in Italia, e ci viene sempre quando può, non viaggia come un baule, non gira a scappa e fuggi, si trattiene e indugia, guar­ da ed osserva, ammira ed annota, vede e capisce; non ammira soltanto i monumenti e i panorami, ammira anche il popolo nostro e lo dice volentieri, dice sopra tutto che in ogni Italia­ no, anche di umile condizione, si vede il signore di vecchia

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razza, signore di fervido ingegno; non dice mai questo dei po­ poli che si credono i padroni della Terra. Il Finnico ignora il nepotismo e l’istituto delle raccoman­ dazioni, è in genere di scrupolosa onestà, di profonda rettitu­ dine; pur essendo animoso e terribile nell’ira, è abitualmente freddo e compassato.

Indios Ettore De Zuani, “Problemi razziali nell’America Latina”, Difesa della razza II, 18: 12 (20 luglio 1939)

L’indio dorme, l’indio mastica la coca, l’indio muore; è il me­ ticcio che si ribella, che nega la civiltà dei bianchi; [...] e il metic­ cio istruito è peggio del meticcio incolto; si serve della cultura che ha male assimilato come di un’arma di ribellione; è il selvag­ gio che ha imparato a leggere e a scrivere, che è entrato nel no­ stro mondo, ma è ancora tutto di là, calato coi suoi istinti feroci nella razza inferiore dalla quale l’incrocio l’ha tratto fuori a forza.

Indio* metìcci d*l Vonotvola

Dio ha fatto il bianco e il nero. Il diavolo ha fatto il meticcio DR II, 18:12 (20 luglio 1939)

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Felice Graziarli, “Serbi megalomani”, Difesa della razza IV, 11:6(5 aprile 1941)



I

Sono legittime le aspirazioni e le ambizioni di una razza quando consistono nel perseguire un’espansione territoriale e politica parallelamente ad uno sforzo di elevazione culturale e civile e di potenziamento demografico e quando muovono da favorevoli premesse storiche e da una specifica capacità alla organizzazione di un determinato spazio vitale. Insomma è una questione di maturità se non proprio di età. Ma quando trattasi di un gruppo etnico piuttosto sparuto, e sbattuto lun­ go i secoli della sua esistenza da un dominio ad un altro, di ori­ gini poco note, povero di cultura e ricco di analfabetismo, in­ trattabile con le popolazioni vicine e situato proprio in mezzo ad un groviglio di razze ostili e insofferenti, è impossibile ri­ condurre certe aspirazioni ed ambizioni nei confini della no­ stra tradizione europea e della moderna coscienza civile. E il caso dei Serbi: una smodata presunzione in connubio con uno sciovinismo feroce, stretto parente di quello che fece la rovina dei Polacchi proprio ieri e molto simile alla facile me­ galomania levantina, alla libidine anglosassone e giudaica di universale conoscenza.

Valloni e fiamminghi S.L., “Valloni e fiamminghi”, Difesa della razza IV, 7:10 (5 febbraio 1941) Alle due razze abitanti il Belgio corrispondevano in origi­ ne e corrispondono ancora in parte attualmente mentalità, tendenze, occupazioni diverse. I valloni hanno un certo sopravvento per l’attività indu­ striale e per la cultura dello spirito. I fiamminghi alla loro vol­ ta hanno conservato una certa superiorità nelle arti propria­ mente dette, musica e pittura. I valloni godono in genere di un maggior benessere, abitano regioni più alte e più salubri e sono raggruppati in popolazioni meno fìtte. I fiamminghi abitano le regioni basse e paludose. Il vallone è più vivace, intraprendente; il fiammingo ama di più la casa, è più riflessivo, lavora con maggiore tenacia e perseveranza.

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Zingari Vincenzo De Agazio, “Gli ultimi nomadi”, Difesa della razza II, 16: 35-36 (20 giugno 1939)

Esiste un punto di spiccata analogia fra la loro vita e quel­ la degli ebrei, in quanto ebrei e zingari rappresentano gli uni­ ci gruppi etnici costituiti senza espressione alcuna di vita agri­ cola che esistano in Europa. [...] Ma se gli zingari dividono con gli ebrei questa originale prerogativa di assenteismo per tutto ciò che è lavoro agrico­ lo, una profonda diversità intima si contrappone che oltre a distinguerli nettamente li separa in due complessi psicologi­ ci opposti. L’ebreo e lo zingaro hanno in vero qualcosa di molto differente l’uno dall’altro nel principio che dirige la loro vita. L’uno: avidità di guadagno e di ricchezza, presunzione di popolo eletto, una legge principii di purezza di razza, dogmi, tradizioni. L’altro: un ideale di libertà primitiva, un bisogno di sfogo e di movimento, la spinta di un passato non di dottrine, di leggi e di costituzioni ma di sola natura. L’uno, un popolo che ammassa per dominare; l’altro che mendica per vivere.

Guido Landra, “Il problema dei meticci in Europa”, Dife­ sa della razza IV, 1: 11 (5 novembre 1940) Gli zingari appartengono quasi sempre alla razza orientale e i loro meticci sono quasi sempre degli individui asociali, tan­ to più pericolosi in quanto difficilmente distinguibili dagli eu­ ropei. [...] È necessario quindi diffidare di tutti gli individui che vi­ vono vagabondando alla maniera degli zingari e che ne pre­ sentano i sopraricordati tratti somatici. Si tratta di individui asociali, differentissimi dal punto di vista psichico dalle po­ polazioni europee e soprattutto da quella italiana di cui so­ no note le qualità di laboriosità e attaccamento alla terra. [...] Data l’assoluta mancanza di senso morale di questi eter­ ni randagi si comprende come essi possano facilmente unir­ si con gli strati inferiori delle popolazioni che incontrano peggiorandone sotto ogni punto di vista le qualità psichiche e fisiche.

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GLI ULTIM

NOMADI

Gli ultimi nomadi DR II, 16:35 (20 giugno 1939)

Provando a rimettere insieme i pezzi del mosaico, mo chiederci quale progetto di un nuovo emerga complessivamente dalla rivista di Interlandi, am­ messo che ve ne sia uno. È difficile a dirsi, poiché gli autori della Difesa della razza sembrano spesso sforniti di una vi­ sione politica complessiva, e ciò non in virtù dell’invocato principio dell’oggettività scientifica, bensì - molto più ba­ nalmente - per via della loro assenza di idee originali e pon­ derate sull’argomento. L’impressione che si ha nel riassem­ blare gli stereotipi è, insomma, che i difensori della razza navighino a vista, intenti come sono a captare le sollecita­ zioni politiche del momento per riadattare ad hoc gli stereo­ tipi correnti, conferendo loro una veste gradita dal regime. Tuttavia, in almeno un paio di occasioni una voce auto­ revole si leva per fare il punto della situazione internaziona­ le e per prospettare auspicabili scenari geopolitici futuri.

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Curiosamente, in un articolo del 1941 il ruolo di opinionista politico viene affidato a un francese, il già citato Georges Montandon, il quale prefigura un’Europa autarchicamente chiusa su se stessa (salvo eventuali incursioni imperialisti­ che), nella quale le diverse etno-razze (dovutamente separa­ te e catalogate in entità di primo, di secondo e di terzo ordi­ ne) si pieghino una volta per tutte al dominio della razza ariana. Quest’ultima, unita nelle sue due facce nordica e me­ diterranea, avrà finalmente vinto la propria battaglia contro l’eterna nemica, l’antirazza ebraica, vettrice di una conce­ zione «liberalista» e «plutocratica» dello stato.

Giorgio Montandon, “L’Europa etno-razziale”, Difesa della razza IV, 10: 3-8 (20 marzo 1941) L’Europa di domani sarà etno-razziale. Cosa significa ciò? Ciò significa in primo luogo che la soluzione etno-razziale, quale adesso la definiremo, dovrà imporsi qualunque sia la posizione degli eserciti alla fine della lotta, perché l’Europa adesso non sta semplicemente giocando una partita d’armi: es­ sa vive una rivoluzione di antropologia sociale. Quali saranno dunque - si sente dire nella discussione più precisa dei termini del problema - le frontiere nuove tra gli Stati?

Cartina dell’Europa di domani DR IV, 10: (20 marzo 1941)

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La risposta a questa domanda corrisponderà a un ordine di cose che rimase sconosciuto all’indomani delle altre guerre. Si può prevedere che ci saranno diverse specie di frontiere, giacché ci saranno diverse categorie di Stati; infatti gli Stati medesimi corrisponderanno da ora in poi, più di quanto fino­ ra non è avvenuto, alle etno-razze (o etnie, o razze in senso la­ to) esistenti. Ora, schematicamente, le etno-razze possono es­ sere catalogate, secondo la loro importanza, in entità di primo, di secondo e di terzo ordine.

[..\] Chi sono oggi gli Ariani? Gli Ariani sono l’insieme delle razze bionda, alpina e mediterranea, negli elementi non semi­ tici di quest’ultima (vale a dire che gli elementi somaticamen­ te mediterranei dell’Africa, essendo semitici, non appartengo­ no alla etno-razza ariana). Ora, definire l’etno-razza ariana significa, per l’europeo, opporla non soltanto alle razze di colore, giallastre e nerastre, ma metterla in opposizione, fra le razze più o meno bianche, con l’etno-razza giudaica, poiché quest’ultima si è rivelata la più deleteria, spiritualmente ed economicamente, per la co­ munità europeo-ariana. Dichiarare guerra all’etno-razza giudaica significa non sol­ tanto ingaggiare la lotta con un tipo razziale per tutti i difetti morali che esso comporta, ma significa - se si vuole che la guerra sia stata finalmente vantaggiosa per tutti - combattere la sua concezione economica del problema sociale. Il liberali­ smo economico si è, in fin dei conti, rivelato il semplice do­ mestico del plutocratismo giudaico, artefice dell’impoverimento della massa in benefici di una piccola minoranza diretta dall’ebraismo consapevole. Soltanto l’autarchia europeo-aria­ na, di cui il fascismo e il nazional-socialismo rappresentano la prefigurazione, sarà capace di assicurare, di fronte alle forze del giudaismo sociale, l’indipendenza economica dell’etnorazza europeo-ariana.

Quale posto spetta all’Italia in questo auspicato scenario europeo? Ovviamente un posto di comando che faccia ono­ re al pedigree storico e biologico vantato dalla stirpe arioromana. Vedremo allora come La difesa della razza costrui­ sca un tale pedigree. 209

72 Gli stereotipi (da stereòs = rigido e tùpos = impronta) sono credenze ri­ gide e cristallizzate relative ai caratteri attribuiti a una certa categoria di individui, e la loro principale funzione psicologica è di orientare la ricer­ ca e la valutazione dei dati dell’esperienza in senso rigido e selettivo, così da assecondare meccanismi di autoconferma: lo stereotipo rappresenta gli esponenti del gruppo X come se fossero tutti riconducibili a uno stes­ so tipo generale, e se capita di incontrare un individuo appartenente a X il quale sembra contraddire i tratti dello stereotipo (uno scozzese genero­ so, un tedesco disordinato, un francese modesto), piuttosto che correg­ gere la rappresentazione rivelatasi errata si mette da parte l’esperienza falsificante, o al massimo la si considera come l'eccezione che conferma la regola. Sul meccanismo cognitivo degli stereotipi, v. Mazzara, 1997. 73 Per i primi antropologi, la distanza mantenuta dall’osservatore nei con­ fronti degli indigeni costituiva peraltro la garanzia di quella assoluta og­ gettività scientifica a cui aspiravano. Gli antropologi si sforzavano di “oggettivizzare” l’indigeno per analizzarlo meglio, anche se poi finivano per riconfermare surrettiziamente le ideologie egemoni, improntate sui valo­ ri del colonialismo e del razzismo di dominio. 74 Cfr. Pieterse (2005: 156) a proposito della letteratura razzista coloniale a cavallo tra Otto e Nocevento: “nell’immaginario popolare, i conflitti di carattere diplomatico fra Stati europei pesavano molto di più dello scon­ tro con la popolazione africana”. 75 La duplicità dello stereotipo del selvaggio-bambino emerge nitidamen­ te nella famosa poesia in cui Rudyard Kipling (1899) esortava gli ameri­ cani a caricarsi, insieme agli inglesi, del “fardello dell’Uomo Bianco”: Al­ leviate il fardello dell’Uomo Bianco/ Mandate avanti la vostra migliore progenie /Relegate i vostri figli nell’esilio /Per servire i bisogni dei vostri prigionieri; /Per servire in pesante giogo /Un popolo agitato e selvaggio, /i vostri popoli ostili di fresca cattura, /mezzi demoni e mezzi bambini. 76 Su questi aspetti, sono interessanti le osservazioni di Jan Nederveen Pieterse (2005: 168): “Gli attriti che scaturiscono da questo dilemma creato dagli stessi europei vengono risolti con l’umorismo delToccidentalizzazione. Esso esprime con chiarezza l’immagine manichea di mondi ir­ revocabilmente separati con una risata liberatoria: a spese degli indigeni. Le vignette popolari battono su questo dilemma e sul tema della civiliz­ zazione, riproducendo in continuazione l’indigeno incorreggibile e il pe­ renne selvaggio che non potrà essere cambiato da nessun grado di manie­ rismo occidentale. Quindi, una vignetta con la didascalia «Le buone opere della civilizzazione» mostra eleganti gentiluomini africani con cap­ pelli a cilindro con accanto una scimmia, anch’essa con cappello a cilin­ dro («Le Rire», 28.vii.1900). E come viene celebrato fra gli Zulu il «buon vecchio Natale inglese»? Con sacrifici umani («Punch», xii.1912). Quin­ di, le contraddizioni tra aspettative europee divergenti sono aggirate e ri­ solte in un mondo coloniale che si autorealizza”. 77 Si pensi alle recenti esternazioni del ministro Roberto Calderoli il qua­ le, durante un raduno leghista a Venezia, ha invitato gli immigrati a tor­ nare “nel deserto a parlare con i cammelli o nella giungla a parlare con le scimmie” (Ansa, 18 settembre 2005). Ma, a livello meno triviale, ci si po210

trebbe interrogare su quanto incidano alcune rappresentazioni implicita­ mente razziste - ad esempio l’idea dell’a storicità dell’Africa - sulle per­ cezioni “afro-pessimistiche” attualmente in circolazione. 78 Jean-Léonard Touadi, comunicazione personale. Ringrazio Touadi per i numerosi spunti che mi ha offerto nel corso della stesura di questo capitolo. 79 Nelle Storie, Erodoto riporta di terza mano la notizia di un popolo di “uomini piccoli, più bassi di uomini normali” - i nostri pigmei - i quali “erano tutti stregoni” (Storie II, 32). Altrove (IV, 183) egli accenna alle usanze degli “Etiopi trogloditi” che si cibano di serpenti e di lucertole ed emettono strida come i pipistrelli. Ma Erodoto parla più diffusamente di altri Etiopi i quali, “avendo appreso i costumi degli egiziani, divennero più civili” (II, 30): in alcuni passi egli li descrive come straordinariamente bel­ li, alti e longevi, e si sofferma sulle loro istituzioni e usanze, adottando nei loro confronti un tono rispettoso, se non perfino ammirato. Da questo e da altri documenti della Grecia antica sull’Africa si evince che “i luoghi comuni e preconcetti presenti già nei testi classici non implicavano di per sé propositi di sopraffazione” (Calchi-Novati - Vaisecchi 2005: 28). 80 Sui viaggi di Ibn Battuta nell’Africa nera, v. Hamdun - King 1994. 81 Certo, Ibn Battuta parla anche dell’uso domestico degli schiavi, e ne parla come se si trattasse di una cosa del tutto naturale. La tranquillità con cui ne parla conferma che il commercio degli schiavi negri era una pratica comune e diffusa ben prima dell’arrivo degli europei - non solo in Africa, ma in tutto il bacino mediterraneo e un po’ ovunque nel mondo antico. Quali caratteristiche ha lo schiavismo nord-africano e come si di­ stingue, se si distingue, dal successivo schiavismo europeo? È una do­ manda cruciale se si vuole capire come si è formato e sedimentato lo ste­ reotipo del Negro, ma cercare di rispondere ci porterebbe ancora più lontani dal nostro tracciato. 82 “L’africano - visto nei secoli precedenti come barbaro nell’accezione di pagano, ovvero la figura biblica del cananeo, colui che non possiede la lu­ ce della Rivelazione - passerà gradualmente ad essere percepito e defini­ to come incivile, ossia individuo separato da un ‘salto di civiltà’ che la sua società di appartenenza non ha saputo e potuto compiere” (Calchi-Nova­ ti - Vaisecchi 2005: 131). Si “L’immagine che ha prevalso è quella di un continente senza storia, o con una storia che è solo il riflesso di quella di altri. Un’idea che ha con­ tagiato in qualche misura anche gli stessi africani. L’equivoco nasce da una sopravvalutazione delle vicende del rapporto fra Africa ed Europa che, dopo una partenza su basi di sostanziale parità, è evoluto nel senso di un crescente dislivello nel corso dell’età moderna, attraverso il trauma della tratta negriera, fino a dare luogo a una relazione completamente squilibrata” (Calchi-Novati - Vaisecchi 2005). 84 Sul mito dell’Africa selvaggia quale emerge dai resoconti degli esplora­ tori e dei cacciatori ottocenteschi, v. Adams - McShane 1992. 85 Nella propaganda coloniale di questo periodo, “lo stereotipo del guer­ riero è praticamente quello di un indigeno nudo, feroce, dotato di armi arcaiche, più spesso mostrato come individuo che in un gruppo (ma quando viene mostrato in gruppo, allora si tratta di un gruppo disorga-

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nizzato). Dall'altro lato, il soldato [europeo] indossa un’uniforme, appar­ tiene a un esercito ed è soggetto alla disciplina militare. Tale retorica era un travisamento, dal momento che i guerrieri africani non agivano semplicemente come singoli o in orde, bensì operavano in manie­ ra organizzata e, in alcuni casi, formavano eserciti” (Pieterse 2005: 149). 86 “Prese forma una nuova mitologia dell’Africa che rispondeva alle esi­ genze del colonialismo affermato. I selvaggi dovevano essere trasformati in sudditi politici. L’alone paternalistico del Fardello dell’Uomo Bianco esigeva sudditi adeguati al compito” (Pieterse 2005: 158). 87 “Lo stereotipo dell’indigeno indolente era insito nel colonialismo e non specifico dell'Àfrica [...], collegato all’espansione del capitalismo, servi­ va da alibi per il lavoro forzato e per lo sfruttamento [...]. L’immagine dell’indigeno indolente assolveva anche un’altra funzione per giustificare il colonialismo. Nel XVIII secolo era stata formulata una filosofia secon­ do la quale il possesso di terra straniera da parte degli europei era giusto se questa non era occupata, la cosiddetta terra libera o terra nullius [...]. L’affermazione della pigrizia indigena, perciò, era al tempo stesso una ri­ vendicazione della giustezza del colonialismo” (Pieterse 2005: 161). 88 Armando Tosti, “Razza giapponese”, Difesa della razza IV, 1: 23: “Iner­ zia, crudeltà e corruzione sono dunque i tre caratteri fondamentali della razza imbarbarita [cinese] che sperava, verso la fine del secolo scorso, di potersi rigenerare seguendo l’esempio del Giappone, e subendo l’in­ fluenza degli inviati e dei consoli giapponesi predominanti a Pechino”. 89 C. L., “Gli studi di G. Montandon sulla preistoria del Giappone”, Di­ fesa della razza IV, 4: 12 (20 dicembre 1940). 90 Su questo punto v. Eco 1997 a proposito del “Fascismo eterno”.

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Pura razza italiana di Luca Bonafé

Copertina DR III, 1 (5 novembre 1939)

La storia secondo i razzisti La difesa della razza, nella sua opera di propaganda, non tra­ scura la parte propositiva, cioè l’esaltazione della «razza ita­ liana», delle sue origini e delle sue caratteristiche: i collabo­ ratori che affrontano questo argomento si rifanno al passato, in particolare all’età antica, leggendo tutto in chia­ ve razzista e rivendicando la legittimità di un tale approccio. Dal loro punto di vista la storia, così come viene tradi­ zionalmente scritta e insegnata, presenta difetti gravi e irri­ 213

mediabili e quindi, una volta accettati i principi razzisti, se ne rende indispensabile una profonda revisione. Natural­ mente, però, nella rivista non esiste - su questo come su al­ tri temi - una chiara e coerente presa di posizione, né un ve­ ro e proprio dibattito e neppure un autore di riferimento che sia in grado di indicare delle linee da seguire: limitiamo­ ci, quindi, a prendere in considerazione i principali inter­ venti, per fornire un quadro generale del problema. Punto di partenza comune a tutti i razzisti è la condanna senza appello della storia tradizionale, scritta da storici bor­ ghesi91 ed ebrei92 e perciò accusata di non tenere nel giusto conto l’elemento razziale. Giorgio Almirante, “L’editto di Caracalla. Un semibar­ baro spiana la via ai barbari”. Difesa della razza I, 1: 27-28 (5 agosto 1938)

“Nel 476 dopo Cristo crollò l’Impero di Roma. Odoacre depose Romolo Augustolo ...” Così apprendono, negli aridi sommari storici, i ragazzetti delle prime classi ginnasiali; e quel 476, nel quale si concentra tutto lo sforzo della loro me­ moria, quel povero, quell’insignificante 476, ingigantisce tan­ to da sembrare un simbolo di rovina e di decadenza, una spe­ cie di anno mille della storia di Roma, allo scadere del quale, per misteriose ragioni, il gigantesco crollo era inevitabile. I ragazzi del ginnasio superiore e del liceo apprendono qualche cosa di più. Apprendono che il famigerato 476 non segna che la conclusione di un lungo e vasto processo; ap­ prendono che alla decadenza e al crollo dell’Impero di Roma hanno contribuito molteplici cause: la pressione dei barbari, l’imbarbarimento dell’esercito, il fiscalismo, la crisi economi­ ca, l’anarchia militare ... I più bravi, i primi della classe, sanno di quanti soldati disponeva Traiano e di quanti Diocleziano, sanno a quale interesse si prestava il denaro sotto Nerone e a quale sotto Adriano, sanno la storia dell’aureus e dell’argenteus ... ma nulla sanno dell’unica sostanziale causa che pro­ vocò tutte le altre, e con esse il crollo della potenza romana. La apprenderanno dunque all’Università, quei pochi tra essi che sceglieranno gli studi letterari? Così fosse! Ma all’U­ niversità si è troppo occupati nello studiare quel che al riguar-

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do sostenne il Mommsen, o il Meyer, o Gino Segrè, oppure Aldo Segrè (tutti bei nomi italici, come si vede), si è troppo oc­ cupati nel frazionare, disintegrare, polverizzare la cultura ... e non si ha naturalmente il tempo di risalire ai principi generali. La causa della decadenza e del crollo dell’Impero di Ro­ ma, che è poi (considerata nell’aspetto inverso) la causa stessa della nascita e della potenza di quell’impero, rimane dunque neH’ombra; mentre di piena luce sfavillano i bei nomi italici di cui sopra e le loro non meno italiche teorie. Eppure, si tratta di una causa semplice e chiara, facilmen­ te enunciabile e ancor più facilmente comprensibile: dell’affievolirsi, cioè, fino a scomparire, del senso della razza italica e delle sue tradizionali virtù.

Secondo Giuseppe Pensabene93, per esempio, che si oc­ cupa spesso del tema della storia e del suo insegnamento nel­ la scuola, dare troppa importanza alle considerazioni di ca­ rattere economico e sociale significa privare la storia della sua «straordinaria forza suggestiva ed educativa»94. La funzio­ ne educativa della storia, dunque, è strettamente connessa al­ la suggestione che essa può esercitare sulle menti dei giovani; il razzismo [«che pone senz'altro l’unità di sangue, tra gl’ita­ liani d’oggi e quelli di duemila anni or sono»9r) si rivela allora molto prezioso, perché è in grado di creare suggestioni for­ tissime, come resistenza di un rapporto di identità fra gli ita­ liani e i romani, identità di sangue e, quindi, ereditaria. Gli studenti italiani, allora, se sono consanguinei dei pueri roma­ ni, devono essere educati nel culto della romanità con gli stessi strumenti con i quali i romani educavano la propria gioventù, cioè con le leggende, l’esaltazione del mos maiorum e l’elaborazione mitica delle origini. Questo legame di sangue, inoltre, comporta una distinzione netta fra gli storici italiani, consapevoli della loro “razza”, e gli altri studiosi, stranieri o comunque indifferenti alle questioni razziali: solo i primi sono autorizzati dal regime a occuparsi della storia d’Italia, che non è più semplicemente la storia di una nazio­ ne, ma diventa la storia di una razza. Le ricerche straniere so­ no destinate a essere guardate con sospetto, come opere di profani, che parlano di una realtà a loro irrimediabilmente 215

estranea: la conoscenza e lo studio dell’Italia attraverso i libri e le fonti non sono infatti paragonabili, da un punto di vista razzista, alla unità e comunità di sangue con i discendenti di Romolo; questi due diversi modi di fare storia si collocano così su due piani completamente separati e inconciliabili.

Giuseppe Pensabene, “La borghesia e la Razza”, Difesa della razza I, 1: 31 (5 agosto 1938) Quella gioventù sulla quale conta il Regime e in cui dob­ biamo porre tutte le nostre speranze, impara tuttora, dalla maggioranza dei suoi maestri, che la nostra storia comincia so­ lo nel 1870, colla formazione del Regno: prima l’Italia non esi­ steva. Poiché solo allora, nell’Ottocento, nacque l’idea di na­ zione: dal pensiero romantico; oggi questa idea, comincia già ad essere “dialetticamente” superata, e può quindi, da un gior­ no all’altro, essere anche superata l’Italia. La razza? Un mito; anch’essa un’“idea” anch’essa un parto della mente degli scien­ ziati. E non esistendo la razza, che ne è la sostanza permanente e tangibile, che realtà può avere mai la nazione? Cogli stessi cri­ teri, non sembra credibile, si insegna, ancora oggi, la storia di Roma. Se ne distrugge così tutta la straordinaria forza suggesti­ va ed educativa. Che cosa è essa ad esempio per il Ferrabino, che le dedicò tre anni or sono un volume, tuttora molto diffu­ so e conosciuto? Nient’altro che una lotta di classi, prima den­ tro la città, poi dentro la penisola, poi dentro tutta l’estensione dell’Impero: una lotta, puramente economica, tra imprendito­ ri ed agrari, nella quale erano assolutamente indifferenti la raz­ za, la tradizione, i valori morali. Il liberto Trimalcione, d’origi­ ne asiatica, ed arricchito col grosso commercio, è in realtà un personaggio più interessante di Catone: per lui in fondo s’è fat­ to l’Impero; per lui si è combattuto a Canne e si è vinto ad Azio: egli è “il progresso”, cioè l’industria e il denaro circolare; il vecchio Catone invece, anche due secoli prima, non era che un relitto della stupida “curulita” [sic], cioè di quella Roma contadina, familiare e guerriera, che pure, vedi caso, aveva conquistato il mondo. Meglio Trimalcione, colle sue terre col­ tivate a schiavi, standosene in città, secondo i criteri industriali dell’“economia ellenistica”, che i poderi all’antica che il padro­ ne arava lui stesso, insieme ai figli e qualche servo, secondo il

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costume ricevuto dagli avi. Meglio gli “ergastoli” [luoghi dove i romani rinchiudevano gli schiavi], che Cincinnato. Anzi que­ st’ultimo e la sua meravigliosa leggenda diventa ad un certo punto, per il Ferrabino, oggetto di scherno. In tale modo, non illudiamoci, si insegna ancora oggi da noi la storia romana. Un punto di vista, come si vede antirazzista e borghese. Altro che formazione dei giovani! E all’università di Roma, che dovreb­ be dare una norma all’Italia, non ci è toccato per esempio di udire dal suo titolare di storia antica, il professore Cardinali, che lo stoicismo cosmopolita e indifferente alle razze, salendo al trono, segnò il più alto culmine di efrca mille anni di storia romana? Che solo in esso noi dobbiamo vedere “l’essenza del­ la romanità”, e solo da esso prendere persino norma per l’av­ venire del nuovo Impero? Qualunque libro, di qualunque for­ mato, su cui s’insegni oggi storia, nelle scuole italiane, dalle elementari all’università, è sempre concepito indipendente­ mente dalla razza, e spesso con delle affermazioni contrarie.

G. Dell’Isola [Giuseppe Pensabene], “Influssi ebraici sulla storiografia romana”, Difesa della razza III, 6: 12-15 (20 gennaio 1940)

Questa rivalutazione dei miti, giustificata dall’archeologia, è oramai divenuta comune. Solo, mentre si accetta per la Gre­ cia, non si riconosce per Roma. [...] Bisogna soprattutto tenere presente che le origini della storia romana sono il periodo in cui la tradizione è più ricca di alti va­ lori, civili ed eroici; tali che nessun altro popolo, neppure, certa­ mente, il greco, ne ha tramandato di uguali. La loro forza di sug­ gestione ha fatto sì che tutta l’Europa vi ha sempre ampiamente attinto. Sino alla fine del Settecento i fatti dei re e dei primi secoli della repubblica, erano, nel linguaggio, termine consueto. Poi, di colpo, si è avanzata la “critica”. Veniva parallelamente ad altre forze distruttive: la massoneria, il liberalismo, il giudaismo, il marxismo; intrecciata ad esse, o sospinta, senza saperlo, dal loro stesso procedere, cosicché si è rivolta come quelli a scalzare le basi su cui, fino a quel tempo, s’era fondata l’Europa; cioè, pri­ ma di tutto, l’esempio di Roma; e, per conseguenza, la parte più viva, più bella, e naturalmente più eterna, di tutta la sua storia. [...] Intanto, [...] la maggioranza continua, come se niente fosse, a credere l’epica più antica del popolo romano solo

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“delle tarde invenzioni letterarie”. Roba da retori, essi dicono, roba da romanzieri [...] Non s’accorgono questi “critici” del­ l’enorme differenza che corre tra la mediocre imitazione d’un prodotto letterario greco, e un racconto che è sgorgato, inve­ ce, dal sentimento del popolo. [...] I “critici” non se ne ac­ corgono; e, presi da una cieca iconoclastia, cercano, in questo modo, di distruggere i documenti più genuini, nella sostanza, se non nei dettagli, di ciò che fu veramente il popolo romano. Lo rendono così non distinguibile, da molti altri; e riducono ad un avvenimento casuale, o spiegabile, solo per impulsi esterni, il fatto del suo predominio sul mondo. Ora, ritornando ad una considerazione fatta altra volta: è mai possibile che questi iconoclasti, non solo tra gli adulti, nel­ la sede ristretta delle comunicazioni accademiche, ma anche tra i ragazzi, che debbono essere educati all’amore dell’Italia, e perciò di Roma, diffondano una conoscenza della sua storia, non tale da mostrarne gli autentici valori, ma concepita in mo­ do affatto negativo? È possibile che costoro, a dei ragazzi di quindici anni, insegnino che nulla può riconoscersi di vero in quanto gli antichi scrittori ce ne hanno tramandato, per il pe­ riodo anteriore alle guerre puniche? Ed è possibile, infine, che pretendano di far giungere tali affermazioni sino nella scuola, di insinuarle negli animi giovanili, e di corrompere così, fino dai primi anni, la suggestione che invece dovrebbe avere inte­ ramente il nome di Roma? Cito, per darne una prova, uno dei testi usati, negli ultimi anni, per l’insegnamento della storia romana nel Ginnasio su­ periore. Esso s’intitola: “Storia e civiltà dei Romani” ed è sta­ to edito dalla “Società editrice internazionale”, (ma perché “internazionale”?). In ogni modo, tale testo dedica al periodo di cui ho detto solo ventisette pagine, delle quali la narrazione ne occupa solo sedici: il resto sono letture. Il libro, nel suo to­ tale, è composto di duecentocinquantacinque pagine. Questo, per dare un’idea delle proporzioni. [...] Le tradizioni del periodo regio sono narrate in meno di tre pagine, nelle quali un rigo è dedicato agli Oriazii e ai Curiazii, uno a Bruto e Collatino, tre ad Orazio Coelite. Però, poco più sotto, in un capitolo intitolato “Le origini di Roma secondo la critica storica”, si ha subito cura di chiarire che i sette colli da­ vano alla città il predominio nelle relazioni commerciali; che queste relazioni concorsero alla sua potenza; e che il nome di Roma viene dalla radice greca reu, scorrere (?). Più importan-

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te è quanto si dice a pagina 24: ”Le origini di Roma, come tut­ ta la più antica storia romana, sono oscure e avvolte da leggen­ de, che storici e poeti, romani e greci, ci hanno tramandate. Poiché anche i più antichi scrittori di storia romana ignorava­ no le circostanze in cui sorse Roma e la storia delle sue prime conquiste·, e siccome essi scrivevano quando già Roma era po­ tente, e signora di gran parte dell’Italia, furono naturalmente portati ad esaltarne l’origine, a collegarla con l’intervento divi­ no, a esagerare le prime gesta del popolo romano o ad inven­ tarle di sana pianta (sic) ”. [...] Riteniamo, per conseguenza, che sia urgentemente da modificare soprattutto nell’insegnamento, questa impostazio­ ne della storia romana; e che siano per conseguenza da rivede­ re in questo senso i libri di testo.

Dopo aver criticato la storia “borghese” e aver indivi­ duato in una storia fondata sul razzismo il modello da se­ guire, se ne stabilisce anche il contenuto: «S’impone, dun­ que, una riforma nell’insegnamento della storia: nel senso che l’Italia non vifaccia, soltanto una comparsa secondaria, ma da essa, e soltanto da essa, abbia origine la considerazione di tut­ to il resto. Il punto centrale dev’essere l’esistenza d’una razza italiana che dai tempi più antichi ha mostrato delle caratteri­ stiche, dalle quali è derivata una posizione di dominio nella ci­ viltà dell’Europa. Solo delle influenze estranee hanno turbato questa sua posizione. Tra le quali deve esser particolarmente chiarita quella millenaria degli ebrei >>96. Il razzismo propone agli storici che vi aderiscono un atteg­ giamento che potremmo definire autarchico: bisogna trascu­ rare non solo le opere degli studiosi stranieri, ma anche interi periodi, nei quali la razza italiana non abbia potuto dar prova della propria superiorità, come, per esempio, la rivoluzione francese, portatrice di valori molto lontani da quelli fascisti e dalla tradizione romana, cattolica e imperiale cui il regime si ispira: «Questo considerare l’entità dei popoli; questo guardarla indipendentemente dal tempo; questo fermarsi sopra un’età si­ gnificativa, non importa se la più antica; questo trascurarne al­ tre, perché decadute o inquinate dall’influenza di popoli estra­ nei, è, infatti, il modo con cui il razzismo considera la storia.»^

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L’unico criterio cui deve attenersi lo storico è quello raz­ ziale, di fronte al quale passano in secondo piano gli altri aspetti, quali l’uso delle fonti e i metodi di indagine: ai raz­ zisti, certamente, non interessano l’obiettività o i dibattiti sul rapporto fra la storia e la verità, perché hanno già una'loro “verità”, che è appunto l’esistenza e la superiorità della “razza” italiana. Fare storia, insomma, non significa ricerca­ re qualcosa o, per dirla con Carr, “promuovere la nostra comprensione del passato alla luce del presente e, inversa­ mente, del presente alla luce del passato”98: la ricerca è, in­ fatti, finita prima di essere cominciata e il passato e il pre­ sente hanno già ricevuto una spiegazione nel razzismo.

Massimo Scaligero, “Continuità storica della razza italiana”, Difesa della razza V, 12:15-16 (20 aprile 1942) La continuità storica del popolo italiano si può riconosce­ re solo come un prodotto di una forza centrale e assiale, che è la continuità della razza, comportante soprattutto la possibi­ lità di sentirsi partecipi della razza, grazie ad una prodigiosa virtù che le è propria: la memoria della razza. Per converso, la storia ci fornisce quei dati esteriori e que­ gli elementi documentari o cronistici, da cui occorre risalire per riconoscere su un piano di “causalità” l’azione della razza: nella storia patria si assiste così a una minore o maggiore inten­ sità di manifestazione della vigoria profonda della razza. Ed è proprio il razzismo che oggi ci offre il modo di capire come non esista “un senso della storia” e come sia una mera astra­ zione, una retorica razionalistica, il concetto di “necessità sto­ rica”, in quanto la storia è soltanto la trama sensibile ed evi­ dente di ciò in cui la razza manifesta le sue peculiari possibilità. Quando questa storia ci si presenta sotto forma di decisive acquisizioni sul piano culturale, politico, sociale, militare, oc­ corre perciò riconoscere in essa non un fenomeno di “neces­ sità”, di “fatalità” o di “storicità”, ma il momento della più de­ cisa e piena espressione di una forza potenzialmente perenne, che è la forza della razza: è il buon sangue della razza che flui­ sce più vivo e più ricco, grazie ad un coincidere delle energie etniche con quelle della Tradizione che originariamente le di­ stingue e le esalta. Si può dire che, in tali periodi, agisce po-

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tentemente dietro le quinte della storia un razzismo decisa­ mente organizzato - anche senza che di razzismo si parli - che noi comunemente cogliamo soltanto nei suoi risultati, ossia nella sua manifestazione storica. Esso per noi si esprime come senso patrio, come esaltazione dei valori della pura romanità e dell’italianità, come coscienza di Tradizione. [...] E per non ricorrere all’esempio di figure che confer­ mano il coincidere della supernormalità geniale con una sorta di sublimazione delle qualità razziali (San Tommaso, Gioac­ chino da Fiore, Dante, Castruccio, Giovanni dalle Bande Ne­ re, Leonardo ed altri) è sufficiente esaminare le rappresenta- ' zioni pittoriche o scultoree di comuni figure di cittadini, di guerrieri, di sacerdoti, di magistrati, della quotidiana vita del popolo, sin dall’epoca delle cosiddette “invasioni”, per ren­ dersi conto di una reale continuità storica della razza italiana. Rientra dunque nella sfera della obiettività scientifica af­ fermare che innesti profondi non furono effettuati nel tronco etnico italico-romano, dalla caduta dell’Impero all’alto Medio Evo, se non nel senso di un rinvigorimento del tronco stesso, per il confluire in esso di linfe di uguale purezza e di uguale potenza. I fondamentali ceppi familiari tutt’ora viventi in di­ versi rami della gente italiana, la cui origine risale proprio a ta­ le periodo, possono essere assuntiicome simboli viventi della continuità storica della razza italiana la quale permane con vi­ talità perenne, anche quando una soluzione di ritmo può rico­ noscersi nella tradizione culturale o politica o sociale.

Anche i lettori, attraverso la rubrica Questionario, mostra­ no di condividere il pensiero degli autori, facendo proprie le critiche alla scuola italiana e auspicando un cambiamento. Dal Questionario, lettera del liceale Vincenzo Miccoli, di Cagliari, Difesa della razza II, 21: 44 (5 settembre 1939) [...] Ed ora v’invito ad osservare quali erano le opere filo­ sofiche prescritte dai vecchi programmi ministeriali. Di Platone n. 10; di Aristotele 3; di autori latini 3; di S. Agostino 3; di S. Anseimo 1; di S. Tommaso 2. Di autori modefni, le seguenti: Di autori ebrei 3 opere; di 15 autori stranieri 27; di 11 au­ tori italiani 19.

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Da questi libri andavano scelti quelli che i giovani doveva­ no studiare, e si sa che le opere italiane non erano proprio le più studiate. Ora, come può un giovane italiano formarsi italianamente la coscienza, fra questo puzzo di cerebralismo straniero? [...1 Perché i giovani si formino degnamente è sufficiente ed è ancor più necessario che essi studino unicamente opere di Ita­ liani, conformi alla nostra nazione. [...] Desidero ora fare qualche considerazione sullo studio del­ la storia. Tale studio comincia in terza elementare e comincia in un modo davvero infelice; cioè si parla subito del fraziona­ mento politico d’Italia nel 1848, a fanciulli che devono invece abituarsi a vivere nel clima imperiale anche nello studio, oltre che nell’istruzione della G.I.L. Io credo che si potrebbe stu­ diare così: dopo le necessarie premesse geografiche, i concetti di razza, nazione, stato (svolti, naturalmente, secondo le capa­ cità dei fanciulli), forma di governo d’Italia, e finalmente, par­ tendo dal 1900, inizio del gloriosissimo Regno di S.M. Vittorio Emanuele III, giungere ai giorni nostri di dignità e forza im­ periale data all’Italia dal Duce. Del resto, la storia è sempre studiata solo per imbottire il cranio e prepararlo all’esame; e ciò è in parte giustificato dal numero di date e fatti che non interessano la nostra storia e che pure si devono studiare. La storia invece dev’essere studiata non come fine a se stessa né con intento scientifico. Ma per mostrare la grandez­ za della Nazione Italiana, grande anche in tempo di disunione politica (ed è anche tempo di finirla di dire “servitù” ché ab­ biamo le tasche gonfie di tale parola); e per esaltare, sull’e­ sempio luminoso dei nostri maggiori, il nostro amor patrio e la consapevolezza della superiorità della nostra razza, e per dar­ ci il certo presagio di sempre maggiori glorie avvenire.»

Questa impostazione sfocia in una sorta di determinismo storico su basi razziali, che autorizza Lidio Cipriani a chie­ dersi: «Quando mai a noi Italiani passerebbe per la mente di accaparrar territori e maltrattare popolazioni inermi nella ma­ niera che invece è nelle consuetudini di altri popoli? E come non vedere nell’impossibilità nostra per gli atteggiamenti in­ sinceri e la tracotanza verso i deboli, un effetto dell’antica ci­ viltà di cui godiamo per doti di razza?».99

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La presunta “bontà” degli italiani viene ricondotta a moti­ vi di razza: la politica italiana, cioè, non dipende tanto da una precisa scelta programmatica, ma obbedisce a impulsi di raz­ za, che eserciterebbero la loro azione con una tale efficacia da rendere «impossibile» un comportamento diverso. Tutto que­ sto, naturalmente, viene presentato ai lettori come una banale ovvietà, che non necessita di approfondimenti o dimostrazio­ ni di sorta e che costituisce una verità piacevole e comoda da accettare: gli italiani sono buoni, perché la loro razza è buona. Un altro collaboratore della rivista, Paolo Nullo, si interro­ ga sul rapporto fra razza e storia100, rivendicando per quest’ultima un ruolo centrale nell’ambito degli studi sulla razza: la storia dovrebbe fornire una sistemazione organica e soprattut­ to sintetica dei risultati delle varie ricerche in campo razziale, per facilitarne poi la divulgazione, specialmente ai giovani (l’o­ biettivo principale, dunque, è sempre quello di fare propagan­ da). In virtù di questo compito i cultori della storia dell’uma­ nità sono autorizzati a interferire in altre discipline, come quelle tecnico-scientifiche, che vengono ridotte al rango di di­ scipline ausiliarie: spetta agli storici, con le loro «potenti sinte­ si, risolvere gli errori»101 presenti nelle varie teorie, in virtù di un particolarissimo legame di causa/effetto: «LIeredità dei ca­ ratteri somatici e psichici di un popolo può essere considerata la principale se non la sola determinante della storia di questo po­ polo? Non crediamo che ci possano essere dubbi sulla risposta qualora si pensi agli strettissimi legami che intercorrono tra la razza e la storia del popolo ebraico. Trattare i due argomenti se­ paratamente sarebbe un non senso; tanto maggiore in quanto or­ mai si è tutti d’accordo nel considerare il popolo ebraico volon­ tariamente esiliatosi dalla storia appunto per obbedire a esigenze di carattere prettamente razziale.»102 Questo esempio riportato da Nullo, anziché costituire una prova della validità della sua teoria, rivela le conseguenze inevitabili di una simile mentalità: l’esilio degli ebrei, infatti, viene definito volontario, dipenden­ te e determinato dalla razza. L’autore non si preoccupa di di­ mostrare in qualche modo questa volontarietà; per lui è suffi­ ciente far notare che «ormai si è tutti d’accordo» e, dal suo Punto di vista, ha effettivamente ragione: chi è razzista, infatti, 223

non può che essere d’accordo nel giudicare gli ebrei una razza errante che rifiuta ostinatamente di mescolarsi con le altre, né si stupirà vedendo queste affermazioni in un libro di storia. Così lo storico razzista, che considera gli avvenimenti come un prodotto dell’influenza razziale, si muove in una sorta'di cir­ colo vizioso: da un lato riceve autorità dal razzismo, perché è il supposto rapporto di causa/effetto ciò che legittima la sua ope­ ra; dall’altro lato, però, quest’opera deve svolgersi entro lo schema già tracciato dal razzismo, cercando o inventando pro­ ve che a loro volta legittimino il razzismo stesso. Nullo fornisce una dimostrazione di questo modo di procedere: critica, infat­ ti, la «formidabile barriera posta dai religiosi cattolici i quali si ri­ fiutano, senza discutere, di accettare la questione dell’eredità del­ l’anima - importantissimo fondamento questo per stabilire una correlazione tra razza e storia»105. La questione dell’eredità del­ l’anima, dunque, viene accettata non perché c’è qualche prova a sostegno, ma per un fine preciso. Non si parte da una dimo­ strazione della fondatezza del razzismo per arrivare a una sto­ ria impostata in senso razzista, ma si fa il percorso logicamente inverso: si vuole imporre il razzismo, quindi si deve stabilire una correlazione tra razza e storia, quindi bisogna affermare che l’anima si trasmette ereditariamente. In breve, il razzismo priva la storia del suo carattere di ri­ cerca, in nome di una “verità”, la razza, stabilita a priori·, in que­ sto modo ne cancella ogni valore scientifico, che appunto viene apertamente negato; inoltre, ad una storia spogliata di fatto di ogni autorità e ridotta a pura propaganda, si affida il compito di educare, formare e suggestionare i giovani; così, razzismo e storia appaiono come le due parti di un unico progetto: se il razzismo deve rendere gli italiani consapevoli della loro razza, la storia deve renderli orgogliosi della loro italianità.

La razza italiana Vediamo ora come questa concezione della storia venga rea­ lizzata dai collaboratori della Difesa della razza, nel tentativo di esaltare la purezza e la nobiltà della razza italiana.

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Una linea generale è offerta dal Manifesto degli scienziati razzisti, che afferma che la razza italiana si è formata diversi millenni fa, che è di origine ariana e che «ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane» (punto 4); per quel che ri­ guarda i semiti approdati in Italia, «nulla in generale è rima­ sto- Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome» (punto 9); infine, «dopo l’invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia al­ tri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisio­ nomia razziale della Nazione» e quindi, «nelle sue grandi li­ nee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i 44 milioni di italiani di oggi rimontano quindi nell’assoluta maggioranza a famiglie che abitano in Italia da un millennio» (punto 5). Il periodo storico da prendere in considerazione, come si vede, è vastissimo e va da diversi millenni fa sino ai Longo­ bardi: mi soffermerò, in particolare, sulla lettura che la rivi­ sta dà del periodo romano, degli etruschi e della preistoria.

Roma

Nel primo numero compare un articolo di Arrigo Solmi, al­ lora ministro di Grazia e Giustizia, nonché autore di varie ricerche storiche. Lo scritto, intitolato L’unità etnica della nazione italiana nella storia, costituisce l’unica collaborazio­ ne di Solmi alla rivista e ripercorre la storia d’Italia, comin­ ciando dal periodo romano. L’espansione di Roma nella pe­ nisola, raggiunta attraverso numerose guerre, è presentata quasi come un affrettarsi spontaneo verso la «fusione» con 1 Urbe da parte delle altre popolazioni dell’Italia antica, spinte dalla consapevolezza della superiorità di Roma; la sanguinosa guerra sociale, che costrinse Roma ad estendere la cittadinanza agli abitanti della penisola, è vista semplicemente come una tappa di questo processo. Da una generica «unità fondamentale» (“fondamentale” e “fusione” sono concetti-chiave nel discorso di Solmi), che di volta in volta è «etnica, morale, giuridica, politica», si pas225

sa, attraverso una «fusione», fra IX e XI secolo dopo Cristo, alla «buona razza romano-italica»·, l’autore, quindi, fedele al Manifesto, utilizza il termine “razza” solo per l’Italia dell’ul­ timo millennio, cioè a fusione avvenuta; nega che le invasio­ ni successive a quella data abbiano potuto modificare la composizione razziale ed esclude ogni influenza semita: nel­ l’antichità gli «elementi libici o fenici» sono stati «travolti», non viene detto in che modo, mentre in età moderna gli «elementi israeliti» sono rimasti inassimilati. Stando a questo articolo, che ha la funzione di inquadra­ re il problema nelle sue linee generali, la razza italiana è dunque «romano-italica» e il suo nucleo deriva dalla «proge­ nie di Roma». L’antica Roma è, infatti, il principale punto di riferimento per i razzisti, che, desiderosi di celebrare la “virtù” del sangue italiano attraverso i secoli, hanno buon gioco nell’additare l’Urbe come esempio di ciò che gli italia­ ni sono stati nel passato e indizio di ciò che, grazie alla co­ mune identità razziale, torneranno ad essere sotto il fasci­ smo. Per un collaboratore come Pensabene, per esempio, l’antica Roma e la nuova Italia, messe a confronto, rivelano sorprendenti analogie: il fascismo, nonostante abbia alle spalle la scoperta dell’America, la rivoluzione francese, quella industriale, quella scientifica e la nascita del comuni­ Smo, per citare solo gli avvenimenti principali, si trova ad af­ frontare gli stessi problemi di Augusto e dei Gracchi, come la riforma agraria e la tutela del civis Romanus, contadino e soldato, sul modello di Cincinnato; la plutocrazia, che il re­ gime si propone di combattere, non è nata con il capitalismo moderno, ma si era già formata alla fine della seconda guer­ ra punica; la principale differenza fra Roma antica e quella fascista, quindi, è che se la prima aveva già perso la sua bat­ taglia al tempo di Traiano, la seconda è ancora in grado di ri­ mediare, grazie proprio all’esempio del passato. Nessun autore presenta prove o dimostrazioni dell’esi­ stenza, fra italiani e cives romani, di un legame biologico, che viene semplicemente enunciato come una verità accet­ tata a priori, riassunta nel vago concetto di “romanità”. Una particolare definizione di romanità si trova in un articolo di

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Arturo Donaggio, direttore della Clinica neurologica del­ l’Università di Bologna e firmatario del Manifesto·, è uno scritto pubblicato nel primo numero, ma tratto dalla parte conclusiva di un discorso tenuto nel ’37 (prima, dunque, del varo della campagna razziale) al XXI Congresso della So­ cietà Italiana di Psichiatria (di fronte a una platea, quindi, probabilmente istruita e competente in materie scientifi­ che); parlando della romanità, l’autore ne dà una definizio­ ne psicologica, identificandola con una particolare forma mentis·. «I caratteri della romanità hanno attraversato i secoli, intatti. [...] L Italia ha conosciuto vicende trionfali, vicende tristi; ma sempre la sua particolare forma mentale ha brillato di una luce tutta sua. Il fatto psicologico della romanità ha emerso [sic] con decisa, autoctona costruzione, che ha sopraf­ fatto e mendelianamente espulso infiltrazioni di elementi ac­ cessori, affermando la sua propria struttura, riconoscibile e in­ confondibile».104 Roma, comunque, non è una realtà monolitica, compat­ ta e priva di sfumature: dunque, i razzisti si trovano di fron­ te a un problema: quale, fra i tanti aspetti della secolare ci­ viltà romana, deve essere indicato come modello? Cosa ha concorso maggiormente alla genesi della “razza” italiana, la Roma repubblicana o quella imperiale, i patrizi conservatori o i tribuni della plebe? Non è possibile fornire una rispo­ sta univoca, perché nella rivista manca un orientamento preciso e ciò, come vedremo, favorisce la confusione e por­ ta a numerose contraddizioni. Su un solo punto i collaboratori sembrano concordare: nella condanna di Caracalla, che con il suo celebre editto aveva concesso a tutti gli abitanti dell’impero la cittadinan­ za romana. La grave colpa dell’imperatore romano, dal pun­ to di vista razzista, è quella di aver messo sullo stesso piano la razza romana e i popoli barbari e incivili, che avrebbero causato il crollo della civiltà romana. Secondo Almirante, per esempio, Caracalla, «africano di razza, celtico di costumi, non è per nessun verso un imperatore romano e non si può comportare come tale»wf L’editto dell’imperatore è presen­ tato come un vero e proprio attentato alla “purezza” razzia-

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le romana: [Caracalla] «agisce come oggi agiscono, nei cosid­ detti paesi democratici, i negatori del razzismo; fa di Roma il crogiuolo in cui tutte le genti possono impunemente mesco-' larsi; e in tal modo affretta il crollo della civiltà antica, che è civiltà della razza italica».1^ Altri collaboratori, come Pensabene, non si limitano a Caracalla, ma puntano l’indice, più in generale, contro «l’a­ narchia militare dovuta ai barbari romanizzati saliti [„.] agli alti gradi dell’esercito, (tra cui africani, traci e persiano arabi)» e contro «il dispotismo orientale di Diocleziano e il disordine dei primi regni germanici».107 La concezione di fondo che ispira questi articoli è che tutto ciò che Roma ha compiuto di bello, grande e glorioso sia frutto, esclusivamente, della razza italica; alle province, dalle quali, a causa della diversità razziale, non venne e non poteva venire alcun contributo alla civiltà romana, bisogna quindi imputare la rovina e la decadenza di un impero alla cui formazione non avevano partecipato. Questa lettura raz­ zista, che identifica in Roma la sola civiltà del mondo antico e nella razza italica Roma, ha un duplice scopo: da un lato serve a celebrare il nucleo della futura razza italiana, dall’al­ tro vuole fornire una giustificazione storica alla campagna razziale: se l’editto di Caracalla ha rovinato l’impero roma­ no, le leggi razziali di Mussolini sono il rimedio che renderà più saldo il nuovo impero fascista. Quando però, dalla denigrazione dei popoli barbari, si passa all’analisi razziale dei romani, appaiono evidenti alcune contraddizioni. L’obiettivo, infatti, è lo stesso, l’esaltazione della razza italiana e del suo profondo rapporto con Roma, ma ogni collaboratore lo realizza seguendo una propria linea, arrivando spesso a contraddire gli altri. Julius Evola, per esempio, applica anche alla storia antica il proprio razzismo “aristocratico”, che individua, all’interno della nazione italia­ na, una particolare élite razziale, la più vicina al modello ori­ ginario, definita «superrazza ario-romana»108. In tutti gli arti­ coli in cui si occupa di Roma e del mondo antico, egli giunge a conclusioni che possiamo riassumere così: la spiritualità “ario-romana”, che rappresenterebbe il nucleo più vero e

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profondo della razza italiana, è virile, eroica, apollinea e sola­ re e si contrappone alla concezione della vita “semita”, orien­ tale, ctonica e oscura. La storia di Roma sarebbe dunque co­ stituita da «scontri fra forze profonde delle razze, fra forze umane e divine ad un tempo, manifestatisi in forme varie, ora politiche, ora sociali, ora religiose. [...] 'Tutto ciò che di grande Roma realizzò, lo realizzò attraverso uno sforzo tenace di puri­ ficazione e di superamento di elementi italici non-arii, mescola­ ti, nelle origini con le forze della tradizione aria e nordicoaria»im. L’Italia, insomma, al tempo di Roma non era tutta ariana, ma conteneva elementi italici non-arii che minacciava­ no quel nucleo ario-romano da cui deriverebbe la superrazza italiana: queste forze antagoniste sono da Evola identificate con la plebe, «che in Roma manteneva una inconscia connes­ sione razziale e spirituale con le precedenti civiltà italico-pelasgiche, opposte al nucleo “solare” e ariano»110. Non tutti, però, vedono nella plebe il resto di una razza in­ feriore o comunque diversa da quella dei patrizi: è il caso di Massimo Lelj, che, dalle colonne di Questionario, attraverso le risposte date ai lettori111, fornisce una propria lettura della vi­ cenda di Roma, in particolare del rapporto patrizi/plebei. Lelj, nelle sue argomentazioni, non giudica il problema tanto da un punto di vista razziale, quanto piuttosto in chiave politica e so­ ciale: critica il patriziato come “classe”, «formazione sociale», attribuendogli gli stessi difetti che il fascismo attribuiva alla borghesia del suo tempo, ma questa critica ha lo scopo di esal­ tare, per contrasto, il popolo, cui si propone un’identificazio­ ne con la plebe romana: come la plebe ha saputo compiere grandi imprese sotto Cesare, così il popolo italiano farà grandi cose sotto la guida di Mussolini. Forte di questa convinzione, Lelj può affermare: «Noi siamo quei romani che non conosce­ vano altro che il tu e dicevano tu a Cesare»112. La rivista non rileva queste contraddizioni e si limita a pubblicare i diversi articoli, senza commenti o prese di posi­ zione a favore dell’una o dell’altra teoria. Nonostante la di­ versità di pareri, insomma, non nasce un vero e aperto dibat­ tito fra i collaboratori, ma ognuno è libero di dire la sua, senza curarsi degli altri. Il caso più singolare è costituito dàll’artico-

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lo I primi razzisti, di Paolo Emilio Giusti. Per dimostrare co­ me, anche presso i romani, fossero diffusi i sentirrienti razzisti, che impedivano la degenerazione della razza, l’autore afferma che «coteste presunzione, esclusione e pratica sono pacifiche e costanti dalla tenebrosa notte della preistoria fino all’alba lu­ minosa, già cristiana, di Costantino che dovette proibire a suo figlio di sposare figlie di principi del Settentrione “senza fama néfede” e solo fece un’eccezione nel caso di Berta, figlia d’Ugo­ ne, re d’Italia, perché stimava la lealtà ed il valore dei Franchi e perché Ugone era discendente diretto di Carlomagno».m Co­ stantino, imperatore romano morto nel IV see. d.C., avrebbe dunque fatto sposare suo figlio con la figlia di un re d’Italia, discendente di Carlomagno, imperatore morto nel IX see. d.C.. Giusti non precisa la fonte da cui avrebbe tratto una si­ mile notizia, né io sono riuscito a trovarla. Nello stesso articolo l’autore si propone di assolvere i ro­ mani da eventuali accuse di debolezza e di scarso razzismo, per impedire che si possa imputare al sangue romano la de­ cadenza dell’impero: Pensabene e Almirante, per ovviare al­ lo stesso problema, attribuiscono tutta la responsabilità del crollo dell’impero a Caracalla e alle razze “provinciali”, che, ottenuto il potere politico, avevano così privato gli “italiani” della loro leadership naturale. Giusti, invece, sceglie una strada diversa: non è possibile incolpare di alcunché il “san­ gue” romano, semplicemente perché esso non esiste prati­ camente più, ridotto a un residuo: «è dunque per lo meno improprio parlare di una decadenza romana e d’una decaden­ za ateniese, dacché gli uomini di quella decadenza non erano più né ateniesi né romani, ma si un miscuglio etnico, dove il sangue originario non era più che un residuo»

Arrigo Solmi, “L’unità etnica della nazione italiana nella storia”, Difesa della razza I, 1: 8-11 (5 agosto 1938)

Quando, sotto l’egida di Roma, garantite ormai la supre­ mazia e la pace nel Mediterraneo, dopo le guerre puniche, si venne formando uno stabile equilibrio politico della penisola italiana, fino allora sconvolta da emigrazioni, da guerre e da

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conquiste di genti varie e discordi, si avviò anche rapidamen­ te l’unione e la fusione delle stirpi italiche, ormai tutte avviate verso le nuove forme civili. Liguri, Etruschi, Umbri, Osci, Cel­ ti, Veneti, Siculi o Greci, che tante volte, tra le vicende dei po­ poli, avevano sentito l’esigenza di quella unità e l’avevano ten­ tata, più o meno consapevolmente, con maggiore o minore fortuna, ora, riconosciuto il predominio di Roma, come la so­ la base sicura per una durevole unione, affrettavano il moto ormai avanzato della fusione. La guerra sociale rivelò il cammino compiuto da questo movimento, e, fin da allora, nel primo secolo avanti l’era cri­ stiana, in una età veramente decisiva per la storia della civiltà, si formò l’unità fondamentale della nazione italiana, rimasta poi salda nei secoli. [...] Il fondo etnico della popolazione italiana risulta, da quei tempi [dalperiodo romano], ormai formato; e, se si eccettuano le conseguenze delle invasioni germaniche, tra il terzo e l’otta­ vo secolo d.C., non ebbe da allora vero turbamento. Sulla ba­ se di remote stirpi mediterranee, già avviate alla civiltà, si era­ no sovrapposte le stirpi arie, succedutesi nelle invasioni, e si era formata, nella varietà delle schiatte, una unità fondamen­ tale anche etnica. I pochi residui di elementi libici o fenici era­ no stati travolti dalle stirpi autoctone o sopravvenute. Liguri, Etruschi, Umbri, Celti, Greci, insieme con gli altri gruppi et­ nici, non formavano ormai che varietà singolari di regioni e di genti. Si era formata una fraternità spirituale, una lingua co­ mune, un costume fondamentalmente uguale, un sistema giu­ ridico uniforme. [...] Più tardi le invasioni portarono sulla penisola alcune masse di Germani, con donne, vecchi, fanciulli e servi, in for­ ma di migrazione. [...] Più tardi, anche per le nuove conquiste barbariche, non si ebbero migrazioni di popoli: la conquista franca recò in Italia un certo numero di famiglie dominanti, assunte nei feu­ di, ma non veri stanziamenti stranieri. Così gli imperatori del­ la casa sassone o sveva. Né notevoli stanziamenti si ebbero nelle altre parti della penisola. La conquista araba della Sicilia, nel corso del secolo IX, costò molto sangue e portò anche un certo numero di do­ minatori; ma si sa con precisione che le città sicule serbarono integre le loro popolazioni, e le campagne non videro mutate

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le braccia lavoratrici. Così la conquista normanna, sulla fine del secolo IX, fu opera di arditi condottieri venuti dal nord, in schiere folte, senza dubbio, ma non molto numerose: quei va­ lorosi guerrieri si valsero soprattutto delle popolazioni locali, cittadine e rurali, nel lungo cinquantennio delle loro imprese, favorendone le aspirazioni o formandone una salda organizza­ zione; ma non mutarono il fondo delle stirpi autoctone. Se la popolazione d’Italia, ai tempi d’Augusto, può essere calcolata a circa dodici milioni, anche ammettendo qualche posteriore assottigliamento, è chiaro che essa non potè subire dalle invasioni che una modesta modificazione nella sua orga­ nica struttura. [...] In questo periodo [IX-XI secolo d.C.], si compie, in­ fatti, la fusione dei varii elementi sopravvenuti, i quali si salda­ no sul tronco dell’antico tipo romano, rimasto fondamental­ mente integro; e ne nasce il nuovo tipo romano-italico, con le sue caratteristiche spiccatamente nazionali, destinato a com­ piere lo sforzo titanico della rinascita e a creare, con una anti­ cipazione di qualche secolo sugli altri paesi, le forme della ci­ viltà moderna. [...] Nessun elemento etnico di qualche rilievo viene, in questo periodo, tra il secolo XI e il secolo XVI, a turbare, in qualsiasi modo, la razza italiana, che opera incessantemente per il progresso della civiltà. [...] La buona razza romano-ita­ lica sparge a piene mani il seme della civiltà e lascia, in ogni campo, mirabili segni del suo passaggio. Essa ha, fin da allora, caratteristiche inconfondibili, ed è da tutti facilmente identifi­ cata e distinta. [...] Il predominio spagnolo in Sardegna e in Sicilia, il do­ minio angioino a Napoli non portano che qualche famiglia di feudatari, di signori o di soldati esteri; ma nulla spostano nel­ la compagine della razza. [...] Gli stessi elementi israeliti, ri­ masti nel seno di talune nostre città o sopravvenuti, per spo­ stamenti successivi, dalle varie regioni dove erano perseguitati, trattati sulla base della condizione giuridica dello straniero, e perciò ammessi e rispettati, conservano la loro ti­ pica individualità, senza nulla influire sulla razza indigena, che mantiene integri i suoi caratteri biologici ed etnici. [...] Ma già i nuovi tempi sono maturi. La guerra libica, la guerra mondiale rivelano le virtù del popolo italiano. Nella guerra mondiale, combattuta con prodigi di valore, cadono 670 mila combattenti; ma, a differenza di ciò che avviene per

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gli altri eserciti dell’Intesa, si tratta del più puro sangue nazio­ nale. Nelle trattative di pace di Parigi, l’Italia si presenta come la nazione etnicamente più fusa d’Europa, quasi immune da elementi stranieri (la percentuale delle così dette minoranze nazionali straniere, investite nel territorio, anche dopo l’acqui­ sto dell’Alto Adige e delle zone orientali, non raggiunge il 3%). Sorge il Fascismo col suo impeto rivoluzionario e con la sua potenza ricostruttrice. [...] Il popolo italiano, sollevato dalle antiche tristezze, as­ sume la sua tipica impronta, inequivocabile. Esso rivela la sua indole spirituale, fondata su basi biologiche nettamente diffe­ renziate, e perciò si presenta, tra i popoli d’Europa, nella sua massa organica, e nei suoi elementi costitutivi, come un tipo a sé stante, derivato dalle [sic] progenie di Roma e rafforzato da nuovi incroci civili, ricco delle tradizioni storiche più gloriose e più remote, forte per la sanità fondamentale dei suoi germi vitali, pronto al più duro e al più geniale lavoro, maturo per le maggiori fortune.»

G. Dell’Isola [G. Pensabene], “Razza e scuola. La vera sto­ ria di Roma”, Difesa della razza III, 8:22-23 (20 febbraio 1940) Dunque, proponiamo la storia romana per le due ultime classi del liceo. Delle quali, in una dovrà essere obbiettiva­ mente e dettagliatamente raccontata; nell’altra, discussa in confronto con le condizioni e le azioni odierne dell’Italia: rile­ vandone gli aspetti somiglianti. Per esempio, rilevare l’enorme concentramento di forza che costituì per Roma, all’inizio del­ le guerre puniche, la sua popolazione di piccoli proprietari, che coltivavano loro stessi la terra, e che all’occorrenza sape­ vano divenire soldati; e confrontarlo con la politica agraria del fascismo. Individuare in quel fatto il fattore massimo dell’an­ tica grandezza imperiale; e pronosticarvi ugualmente il predo­ minio italiano. Poi riconoscere come il formarsi d’una pluto­ crazia a Roma, e il conseguente declinare della piccola proprietà agraria fosse la causa della caduta dell’Impero. Con­ statare come questo fatto già fosse evidente alla fine della se­ conda guerra punica: e che a quel tempo si deve far risalire il principio della lenta caduta. I primi imperatori, come già i Gracchi, tentarono, ma troppo tardi, di arginarla: confiscando le terre, distribuendole ai soldati, cercando in questo modo di

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ricostituire l’antica popolazione laboriosa, tradizionale, proli­ fica, attaccata al suolo; ma l’ostacolo plutocratico non era più sormontabile; e al tempo di Traiano la partita poteva già con­ siderarsi perduta. Le campagne rimanevano pressoché deser­ te; gli eserciti, salvo gli ufficiali, non si reclutavano più in Ita­ lia. Un secolo dopo, quando anche gli ufficiali cessarono di essere reclutati in Italia, l’Impero praticamente finì. Un altro oggetto, singolarmente utile di confronti, potreb­ be essere la direzione che impose la geografia, al costituirsi della signoria mediterranea. Allora, come oggi, le prime teste di ponte furono la costa illirica, e la costa africana. Poi seguì la espansione in Macedonia e in Africa. La via Egnazia, dall’A­ driatico all’Egeo, aprì l’accesso all’Asia. Un altro confronto ancora potrebbe farsi: sul terreno dell’economia: osservando come il cadere del sistema autarchico, legato alla piccola pro­ prietà agraria, e il sostituirsi, al suo posto, dell’economia me­ diterranea, cioè del libero scambio facesse precipitare allora di colpo il prezzo del grano, e provocasse in tal modo il rapido abbandono delle campagne con tutte le conseguenze suespo­ ste; e come d’altra parte oggi, la politica autarchica, promossa dal Fascismo, incoraggiando la produzione agraria, abbia po­ sto rimedio alle due piaghe gravissime dell’emigrazione e del­ l’urbanesimo. Tutti questi e molti altri argomenti si potrebbero esporre, insegnando storia romana, ai ragazzi della terza liceale; ma non altrettanti, né con uguale profitto, a quelli della quinta classe del ginnasio».

Julius Evola, “Razza e super-razza. Le selezioni razziali”, Difesa della razza IV, 12: 28-29 (20 aprile 1941) [...] si chiariscono, nelle loro reciproche relazioni, tre con­ cetti: quello di gruppo etnico nazionale, con un suo tipo medio più o meno omogeneo; quello delle razze primarie comprese in tale gruppo; infine, quello della superrazza, vale a dire della componente che, in seno ad una nazione, corrisponde alla raz­ za più alta e al suo elemento più originario. Queste sono le basi per il razzismo positivo e non più sol­ tanto difensivo. Il problema fondamentale di un tale razzismo riguarda le selezioni interne o selezioni interrazziali. Oltre ad impedire che il tipo comune scenda di livello o si faccia ancor

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1 più misto, si deve tendere a purificare e “dignificare” questo stesso tipo comune: bisogna cioè metter in rilievo, in esso, il ti­ po della “superrazza” e far sì che gli elementi restanti di una nazione ad esso si approssimino il più possibile. [...] La razza, per noi, non è una realtà puramente biologi­ ca e antropologica. Vi è una razza del corpo e vi è una razza in­ teriore, dell’anima e dello spirito, razze che nei tipi “puri” in senso superiore si corrispondono, sono quasi due diverse espressioni di una cosa unica, ma che in molti altri casi posso­ no anche divergere, specie quando si siano verificati ripetuti incroci fra elementi razziali alquanto eterogenei. In tali casi, rappresentanti attualmente la maggioranza, il fisico cessa di esser segno e simbolo dell’elemento interno e della razza in­ terna: la connessione fra i due elementi obbedisce invece a leg­ gi più complesse. Ciò premesso, un primo criterio per la selezione è certo quello della corrispondenza antropologica dell’un individuo o dell'altro al tipo fisico della razza superiore. Ma, appunto per l’osservazione ora fatta, con questo non si avrà che un criterio di probabilità: volendo cioè individuare dove ancora viva la nostra razza superiore - quella che chiameremo “ario-romana” - vi è certo da supporre che essa si trovi in maggior misu­ ra e con maggior probabilità in cento individui che presentino fisicamente e antropologicamente il tipo ario-romano che non in cento individui che portino invece tratti di altre razze del corpo. Vien così circonscritto [sic] un certo ambito, all’inter­ no del quale bisogna però eseguire prove ulteriori, per ottene­ re una conferma, cioè la piena corrispondenza non solo nel corpo ma anche nello spirito, al modello della superrazza. Siffatte prove partono dalla legge delle affinità elettive, espressa dal principio: il simile si riconosce nel simile, il simile desta il simile, il simile si ricongiunge al simile. Si tratta, cioè, di prove di reazione: da eseguirsi gradatamente su vari piani. Una prima prova la costituisce lo stesso razzismo. Le rea­ zioni dell’una o dell’altra persona di fronte all’idea razzista so­ no una specie di barometro che ci rivela la “quantità” di razza presente nella persona in discorso. Dir sì o no al razzismo non è - come molti ritengono - un divario intellettuale, non è cosa soggettiva ed arbitraria. Dice di sì al razzismo colui nel quale la razza interna ancora vive; si oppone invece ad esso e cerca in ogni campo degli alibi che giustifichino la sua avversione e che discreditino il razzismo, colui che è stato interiormente

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vinto dall’anti-razza, colui nel quale le forze originarie sono state soffocate da detriti etnici, da processi di incrocio e di de­ generazione ovvero dallo stile di una vita borghese, fiacca e “intellettualoide”, che ha perduto da generazioni ogni contat­ to con tutto ciò che è veramente originario. Un tipo “in ordi­ ne” in fatto di razza del corpo ma che fallisce di fronte a que­ sta prima prova di reazione è già da scartare. Ulteriori selezioni si possono eseguire rifacendosi ai valori etnici e, in genere, alla visione del mondo che un’adeguata ri­ cerca individua nei riguardi delle società e delle civiltà create dalla razza superiore. Sul piano etico, si tratta essenzialmente di “prove di carattere”. Basta esporre le virtù che più furono tipiche per l’antico uomo di razza “ario-romana” per potersi rendere conto se, in una data persona, delle corde corrispon­ denti risuonino, e in che misura. Per la qualità “aria” in gene­ re, ad esempio, vi sono due pietre di prova fondamentali: fe­ deltà e onore. Si può esser, nel corpo, di razza pura finché si vuole e, in fatto di opinioni, si può esser perfino “razzisti” ma quando ad un dato punto si scopre, anche in un caso di mini­ ma importanza, che la persona in quistione è capace di tradire o che essa permetti [sic] che considerazioni o interessi di qual­ siasi genere prevalgano sul sentimento di onore, in quel tale punto il giudizio decisivo circa la sua vera “razza” è pronun­ ciato.

Julius Evola, “La mistica della razza in Roma antica”, Difesa della razza III, 14: 10 (20 maggio 1940) Il giuramento sul genius nell’antichità romana si faceva toccandosi il centro della fronte, e il culto del genius stesso non era privo di relazione con quello della Fides, personifica­ zione della virtù, essenzialmente aria e virile, della fedeltà e della lealtà (cfr. Servio, Eel., VI, 3, Aen., III, 607). Il dettaglio relativo al gesto del giuramento è, per ogni competente, assai interessante, perché riporta il genius e le entità ad esse affini al mens, al principio intellettuale e virile della vita, gerarchi­ camente sopraordinato sia all’anima che alle forze puramente corporee: non può esser un caso che il luogo attribuito dalla tradizione romana al mens - il centro della fronte - sia quello che nella tradizione indo-aria viene senz’altro assegnato alla forza di “virilità trascendente” e al cosiddetto “centro del co-

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mando” - âjna-cakra. Già con ciò si allontana il sospetto, che nel culto familiare romano, se non proprio di personificazio­ ni superstiziose, si trattasse di una specie di “totemismo”, il totem essendo l’oscura entità del sangue di una tribù di sel­ vaggi, apparentato alle forze del regno animale. Vediamo in­ vece che il mondo antico romano dava agli dei della razza e del gruppo familiare dei tratti effettivamente sovrannaturali, la mente, mens o nous essendo concepito nell’antichità mediterranea appunto come il principio sovrannaturale e “solare” dell’uomo. Certo non si deve generalizzare e pensare, che di questo si trattasse in ogni caso. Le tradizioni ricomprese dall’antico mondo romano sono più varie e complesse di quel che finora si sia supposto. Come etnicamente, così anche spiritualmente influenze diverse si incontrarono nella Roma più antica. Alcu­ ne si riferiscono effettivamente a forme inferiori di culto - in­ feriori o per appartenere ad un substrato etnico non-ariano, ovvero per rappresentare forme involutive e materializzate di culti assai più antichi, di origine ariana e più particolarmente atlantico-occidentale. Ciò vale anche per il culto relativo alle forze mistiche del sangue, della razza e della famiglia, che in alcuni casi e in alcune fasi ha tratti, diciamo così, “crepuscola­ ri”, con speciale riguardo a un loro aspetto “ctonico”, “infe­ ro”, predominante rispetto a quello intonato invece, ai simbo­ li celesti e superterreni. Non si può tuttavia contestare che nel maggior numero dei casi la più alta tradizione fu presente a Roma e che nel suo sviluppo Roma seppe “rettificare” e puri­ ficare in misura tutt’altro che trascurabile le tradizioni diverse che essa si era trovata a comprendere. Così di contro ai miti i quali, nel riferire il culto dei lari ad Acca Larentia al re plebeo Servio Tullio e all’elemento sabino rimandano ad un aspetto inferiore, abbiamo gli elementi “eroici” del culto dei lari e dei penati, e tali elementi assumono sempre più rilievo nell’awicinarsi all’epoca dell’impero. [...] Per ora, crediamo di aver messo sufficientemente in luce il significato delle figurazioni mitiche e dei culti propri al­ le antiche stirpi romane, ove inequivocabilmente visse la co­ scienza del sangue e della razza e dove la religiosità non fu un fattore di evasione e di universalismo, ma costituì il cemento più saldo delle unità di gente e di stirpe. Il mistero del sangue fu un’idea centrale dell’antica spiritualità romana e trascurar­ lo significa condannarsi ad una comprensione superficiale e

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“profana” degli aspetti più tangibili, noti e celebrati del dirit­ to, del costume e dell’etica della società antica.

Dal Questionario, risposta a una lettera dell’operaio Tullio Ricci. Difesa della razza II, 12: 52 (20 aprile 1939) La plebe romana, la più eroica accolta di uomini che abbia mai visto il sole; la plebe romana, che fece e compì al tempo stesso l’opera dell’uguaglianza umana e dell’impero romano; la plebe romana, senza la quale Roma sarebbe rimasta patrizia, sarebbe rimasta senatoria, non sarebbe diventata la patria del mondo; la plebe romana diceva tu al tribuno, al duce, all’im­ peratore, e non le passava per il capo che ci volesse la lettera maiuscola [Ricci proponeva di non usare il voi, ma solo il tu e semmai un Tu con la T maiuscola, per indicare una particolare forma di rispetto]. Se i plebei di Roma la pensavano così, ci possiamo fidare, caro Ricci. Non ti pare?

Dal Questionario, risposta a una lettera di Luigi Sottile, che difendeva l’aristocrazia. Difesa della razza II, 22: 33 (20 settembre 1939)

Se Sottile sia patrizio o aristocratico, non lo vogliamo sa­ pere. Noi qui parliamo dell’Italia. E se l’Italia è plebea, non ce ne importa niente dell’aristocrazia. Ora Sottile vorrà conside­ rare che tutta plebea fu la forza che fece la grandezza di Roma. E che, se Roma fosse stata patrizia, sarebbe rimasta una città del Lazio. Dalla fondazione di Roma alla legge Petelia, per quattrocentodiciannove anni, corse fra i romani il diritto eroi­ co, dice Vico, e dice che il giusto punto della romana felicità coincise con la comunicazione degli auspici alla plebe, le vit­ torie cartaginesi, la fondazione dell’impero. E che la plebe combattè per fini veramente magnanimi. [...] Questa conqui­ sta plebea fu tutta la forza d’espansione romana. Che cosa fu l’impero, se non la rottura della crosta aristocratica, operata da Cesare? Roma nacque monarchica, cioè plebea e i patrizi soffocarono la monarchia. La repubblica è una lunga guerra plebea, che impedisce all’aristocrazia di soffocare il destino di Roma, non senza che la crosta ciceroniana lo metta in perico­ lo di morte, al tempo di Cesare. Nata monarchica, Roma tor­

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na con l’impero alla monarchia, per quell’impulso plebeo, che fu tutta la ragione della sua civiltà.

Dal Questionario, replica a una nuova lettera di Sottile, che dissentiva dalla risposta ricevuta da Lelj. Difesa della razza li, 24: 43 (20 ottobre 1939)

Se Cesare fosse stato un patrizio, sarebbe andato d’accor­ do con Cicerone e sarebbe prevalsa la tendenza mortifera. Ce­ sare invece ebbe il senso del popolo, che è il senso dei re. Vuol dire che aveva una natura regia. La patrizia non è una natura. E una formazione sociale. Natura è quella regia, ed è la popo­ lare, eccellentemente la plebea. Perciò il capo della plebe è il re. Pensa alla plebe romana per intenderci. Alle plebi natura­ li, non alla depravazione plebea della decadenza, al residuo di­ sincantato, furbo e tralignato delle oppressioni di classe. Ora tu dici che il popolo voglia un capo, e questo è vero; ma il capo del quale parliamo dev’essere un re. Se Cesare si fosse messo a capo di Roma da patrizio, Roma sarebbe preci­ pitata nella decadenza. L'importante non è che Cesare fosse patrizio, ma che fosse una natura regia.

Gli etruschi

Se il concetto di romanità crea non pochi problemi ai razzi­ sti, ancora maggiori sono le difficoltà per chi cerca di ana­ lizzare, da un punto di vista razziale, l’età pre-romana, in cui Roma non è una realtà ben definita e nella penisola fio­ riscono le colonie greche e la civiltà etrusca. Proprio la composizione razziale degli etruschi costituisce uno dei punti più controversi: i popoli ariani, infatti, secondo le teorie dei razzisti moderni, sono i popoli di lingua indoeu­ ropea (il concetto di “razza ariana”, dunque, è un’estensio­ ne del concetto linguistico di “indoeuropeo”), ma la lingua etrusca non è indoeuropea. I collaboratori della Difesa del­ ta razza, insomma, dovrebbero ammettere che il popolo che per un certo periodo governò Roma (si pensi alla dinastia dei Tarquini), esercitandovi una grande influenza e trasfor239

mandola, da semplice oppidum latino, in una grande città, non era “ariano”. I razzisti cercano di risolvere il problema in vari modi (anche in questo caso, in genere, ognuno procede indipen­ dentemente dagli altri). Evola, per esempio, non ha alcuna difficoltà a riconoscere che gli etruschi sono o “non ariani” o “ariani” decaduti (per lui, d’altronde, nemmeno la plebe romana era ariana). Però, si preoccupa di spiegare che la civiltà romana «stroncò» quella etrusca, riprendendo «molti temi» del «superiore retaggio eroico e solare»115. È un’espressione un po’ oscura, come la maggior parte degli scritti di Evola e come le frasi che, nello stesso articolo, illustrano più in dettaglio le fasi salienti di questi movimenti di “razze”: «ad un dato momento, verso il secondo millennio a. Cr. si verifica un movimento verso il Sud di genti arie [...] Questa ondata esaurisce, ad un dato momen­ to, le sue possibilità vitali. Subentra il regno degli Etruschi ed anche dei Protocelti. E pertanto un periodo di latenza, non una estinzione. Per vie enigmatiche, forze dello stesso ceppo si riaf­ fermano e trionfano col sorgere di Roma e col consolidarsi dell’imperium e della civiltà della città capitolina».116 Evola, quindi, sceglie un approccio esoterico e mistico e, pur ammettendo la non arianità degli etruschi, non com­ promette, dal suo punto di vista, la purezza razziale romana: il suo discorso, infatti, è incentrato sulla spiritualità, sull’esi­ stenza di forze profonde e misteriose, che sarebbero la vera essenza della razza e che non sarebbero state in alcun modo toccate dall’influsso etrusco. Non c’è, dunque, una mesco­ lanza razziale, ma una semplice sovrapposizione, durante la quale le forze ariane preparano la riscossa, che sarà realizza­ ta da Roma «per vie enigmatiche». Su una linea simile a quella di Evola si colloca Felice Graziani, che riconosce che gli etruschi hanno un’origine miste­ riosa, ma al tempo stesso afferma che «sul suolo d’Italia non esistevano, al tempo dei “Pelasgi” o “aborigeni”, popolazioni originarie delle terre africane o mediterranee, e tanto meno po­ polazioni di sangue semita o semitizzato, di genti cioè che na­ scondessero, sotto la pelle, il mistero di un sangue di colore».111 240

Insomma, se anche gli etruschi non erano ariani, in ogni caso non erano semiti. Piä avanti, poi, Graziani li definisce «gente di alta maturità politica e culturale, ma di vitalità bio­ logica limitatissima». La conclusione implicita, cui il lettore può giungere da solo, è la seguente: gli etruschi influenzaro­ no sì la nascente Roma, ma solo dal punto di vista culturale e politico, perché, qualunque fosse la loro origine, non avrebbero comunque potuto modificare la razza dei popoli italici, essendo molto meno vitali. Altri autori cercano di risolvere la questione in maniera diversa e si propongono di dimostrare che gli etruschi erano ariani; Emilio Villa si occupa del problema linguistico, ri­ vendicando l’appartenenza, «in senso generico»118, dell’etru­ sco alle lingue indo-europee, in quanto «forma di transizio­ ne tra un proto-indoeuropeo e l’indoeuropeo». A sostegno della sua tesi afferma: «Anche voci come puia, see, clan, ecc., che [...] erano ritenute assolutamente irriducibili, ci appaiono ora, e con chiarezza, di netta origine indoeuropea». Ma un an­ no dopo un altro collaboratore, Claudio Calosso, pur soste­ nendo che gli etruschi appartengono alla stessa razza degli altri popoli italici, individua dal punto di vista linguistico delle prove contrastanti, come, ad esempio, «le voci ATI CLAN PUIA SEC = mater, filius, uxor, filia, nemmeno lonta­ namente riconducibili ai dialetti italici».11'1 A chi si deve credere? I lettori, molto probabilmente, non si ponevano queste domande, anche perché, in questo caso, i due scritti sono pubblicati a grande distanza l’uno dall’altro; è significativo, però, che gli articoli con le mag­ giori pretese di scientificità e oggettività si smentiscano a vi­ cenda, senza che gli stessi autori se ne accorgano: Calosso non cita Villa, neanche per confutarlo, proprio perché non c’è alcun dibattito. Per risolvere il problema etrusco si ricorre anche a un te­ desco, l’antropologo Eugenio Fischer: le sue tesi sono presen­ tate sulla Difesa della razza da Giuseppe Pensabene (con lo pseudonimo di Dell’Isola) e sono successivamente riprese da Ottorino Guerrieri. Secondo Fischer, per studiare gli etruschi è sufficiente guardare i loro ritratti, le statue, i bassorilievi che 241

ci sono rimasti. Basandosi su questo tipo di esame Fischer sta­ bilisce che gli etruschi non sono di razza orientale, né tanto­ meno semiti; riconosce anche, però, che non appartengono nemmeno alle razze europee e propone la seguente soluzione: «visto che la razza degli Etruschi non può collegarsi a nessuna di quelle conosciute, né in Europa, né in Asia, né in Africa, biso­ gna concludere che essa formava una razza a sé»d20 Che cosa può distinguere, però, questa razza da tutte le altre? Fischer arriva a individuarne il carattere peculiare nel naso «legger­ mente incurvato, sottile, ben costrutto. [...] Il naso aquilino do­ veva essere frequente in questa razza [...] E poiché la caratteri­ stica che la distingue da tutte le altre, sia del Nord che del Sud, è la forma del naso, è di questa che ci potremo servire, onde fog­ giare il suo nome: e la chiameremo la razza “aquilina”». Pensabene, rifacendosi sempre a Fischer, ricostruisce la storia di questa razza - di cui gli etruschi sarebbero i discen­ denti - e stabilisce che si tratta di una «razza primitiva», né ariana né semita, ma certamente italiana, dal momento che era già in Italia prima degli arii. La tradizione erodotea, se­ condo cui gli etruschi giungevano dalla Lidia, non costitui­ sce un problema, perché si afferma che quelli che giunsero dalla Lidia, se davvero giunsero, arrivarono «in un periodo molto più tardo» e non erano comunque orientali, ma solo un po’ orientalizzati: in ogni caso, una volta arrivati in Italia, fu­ rono completamente assorbiti dalla «razza aquilina», senza poter fornire alcun contributo significativo alla creazione della civiltà etrusca; questa civiltà, inoltre, non si estinse con Roma, ma riapparve nel medioevo e nel rinascimento, come testimonia, per esempio, il naso di Dante. Ottorino Gurrieri, non a caso, approfitta della “scoper­ ta” tedesca per celebrare i grandi personaggi dal naso aqui­ lino, come appunto Dante, ma anche Michelangelo, Leon Battista Alberti, Ariosto e Tasso121. La teoria di Fischer, come si vede, ha molta fortuna pres­ so i razzisti, perché presenta un doppio vantaggio: fa passa­ re in secondo piano le complesse questioni linguistiche e permette di legare il nome degli etruschi a quello di Dante (stabilire che egli era etrusco doveva sembrare la prova mi-

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gliore della purezza razziale); ovviamente, come già per i ro­ mani, il tutto viene presentato senza la minima sistematicità, lasciando al lettore (qualora ne abbia voglia) il compito di scegliere la tesi preferita. G. Dell’Isola [Giuseppe Pensabene], “La razza aquilina”. Difesa della razza, II, 10: 8-9 (20 marzo 1939)

[Pensabene illustra la teoria di Fischer sulla razza aquilina} Il Fischer parte da questa convinzione: dato che l’antropolo­ gia oggi non è più solo craniometria ma studio di tipi umani, proprio quali si manifestano allo stato vivente, il possesso, per l’antropologo, di opere di arte nelle quali questi tipi umani sia­ no rappresentati, coll’intenzione di rappresentarli, cioè di ri­ tratti, è anche più prezioso del possesso degli stessi resti sche­ letrici. [...] Ora nessuno ignora che di tutta la vasta serie delle figurazioni etrusche, la maggioranza sono appunto ritratti. E ritratti eseguiti con l’intenzione di essere, prima d’ogni cosa, somiglianti, e con una abilità che si può quasi sempre ricono­ scere pari all’intenzione. [...] Dunque, nell’ombra fitta dei sot­ terranei, di cui la Toscana e l’Umbria sono piene, anche se li ignoriamo, e sopra i quali ogni anno si rinnova la primavera, ci è stato conservato, fedelmente, nelle sue immagini, un intero popolo; e non abbiamo che da guardare queste immagini, e da j interrogarle, per conoscerne la natura. [...] Egli [Fischer] procede anzitutto per esclusione. Comincia da quelle tesi che avrebbero voluto vedere nel popolo etrusco la presenza prevalente di una razza asiatica. Erano due: quella del Rosemberg, che indicava la razza levantina, e quella del Brandenstein che parlava d’un popolo venuto dall’Asia cen­ trale, non importa se attraverso le Alpi, o per via di mare, do­ po un lungo soggiorno sulle coste dell’Asia minore. [...] Ora le osservazioni del Fischer, sugli innumerevoli ri­ tratti di quel popolo conservatici sui sarcofagi, tolgono, con argomenti antropologici, ogni ombra di probabilità ad en­ trambe le ipotesi. Mancano infatti, del tutto, in questi ritratti, i caratteri sia della razza levantina, che .della mongoloide; e mancano inoltre le tracce di qualsiasi altra razza extraeuropea, vicina o lontana: per esempio della razza orientale. Resterebbe da ricorrere allora, alle razze europee: la nordica, la occiden­ tale o mediterranea, e l’alpina. Ma nessuna di esse ha lasciato

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tracce apprezzabili nelle figurazioni etrusche. [...] Da tutte queste esclusioni, visto che la razza degli Etruschi non può collegarsi a nessuna di quelle conosciute, né in Europa, né in Asia, né in Africa, bisogna concludere che essa formava una razza a sé. Ecco come la descrive esattamente il Fischer: “In un viso lungo e in basso alquanto appuntito, e con gli zigomi sporgenti sta un naso leggermente incurvato, sottile, ben co­ strutto. Dalla cui leggera curvatura, sino a quella più energica che si dice naso aquilino, si trovano tutte le gradazioni. Il naso aquilino doveva essere frequente in questa razza [...] Il Livi, nei suoi famosi rilievi antropologici raccolti dalle leve dell’e­ sercito italiano, ha prodotti anche documenti sulla frequenza del naso aquilino. Proprio l’Italia centrale tiene oggi questo primato. E dei cinque distretti che emergono, con circa il di­ ciotto per cento, il primo è Siena. La forma del naso, che dà la sua caratteristica impronta al profilo dell’immortale Dante, appare non di rado negli appunti da me presi durante le escur­ sioni per i musei. [...] Dopo settimane di continui colloqui con Etruschi di marmo, di alabastro, di terracotta, e di travertino, vedo quegli uomini divenire un’altra volta viventi. Vedo la loro razza cam­ minare in carne ed ossa davanti a me. A che prò [sic] stancar­ mi gli occhi con le figure delle tombe e dei musei, affaticarmi a disegnarle e a descriverle, a Chiusi, a Volterra, a Tarquinia, quando bastava mescolarmi al popolo che stava sul piazzale d’una chiesa, o sedeva in una qualunque osteria, per ritrovare quegli stessi Etruschi, vivi e parlanti dinanzi a me? Né ciò era l’effetto dell’aver pensato per qualche tempo sempre allo stes­ so tipo di razza e dell’essermelo continuamente raffigurato co­ gli occhi della mente, ma era una nuda osservazione, che resi­ steva a ogni critica. Infatti, e ciò mi confermava l’obiettività del mio vedere, questi “viventi Etruschi” non li ritrovavo ugualmente in tutte le antiche città che io conosceva come etrusche. Ne incontrai moltissimi a Chiusi. Ma anche a Volter­ ra, anche a Tarquinia. Molto meno, però, a Perugia. E così niente affatto a Viterbo. Non doveva la storia di Viterbo, che non era del resto una città etrusca, col succedersi di tante si­ gnorie, di Papi e Imperatori, e col sopravvenire di tante nuove genti, spiegare il cambiamento del suo popolo? In Roma si ve­ dono “visi etruschi” molto più spesso che a Firenze, con la sua storia piena di cambiamenti! Debbo inoltre aggiungere, che, ancor preso dalle mie impressioni etrusche, visitai pure la Sar-

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degna, e non ve ne trovai neppure uno. [...] Se il Frassetto nel suo ultimo lavoro sul tipo razziale di Dante, chiamava Dante un etrusco, oggi mi sembra che abbia avuto ragione, e che non giustamente io, nella mia critica su questo punto, lo abbia de­ finito, per il tipo del naso, piuttosto un dinarico.” Ora, ag­ giunge, il Fischer, vi sarebbe ancora la questione del dare un nome a questa razza. E poiché la caratteristica che la distingue da tutte le altre, sia del Nord che del Sud, è la forma del naso, è di questa che ci potremo servire, onde foggiare il suo nome: e la chiameremo la razza “aquilina”.

Ottorino Gurrieri, “Genio artistico della nostra razza”, Difesa della razza IV, 13: 10-11 (5 maggio 1941) Eugenio Fischer ha trovato nell’Italia Centrale una razza, l’etrusca, dai caratteri ben definiti e precisi. Molte elucubra­ zioni e divagazioni di precedenti studiosi egli scarta sull’origi­ ne degli etruschi, e sostiene che la loro razza, stabilitasi in Ita­ lia, in epoca antichissima, sia per tale antichità da considerare autoctona e pura. Egli l’ha chiamata razza aquilina, e ne ha stabilito i caratteri, ricavandoli dalle immagini dell’arte etru­ sca, specialmente dalla scultura. [...] “ [...] Se il Frassetto nel suo ultimo lavoro sul tipo razziale di Dante, chiamava Dante un etrusco, oggi mi sembra che abbia avuto ragione ...”. Così il Fischer; ma noi ci permettiamo di ri­ salire anche più avanti. I Romani dai formidabili assimilatori quali erano, impararono dagli Etruschi molte cose. Quando gli Etruschi si fusero con i Romani è naturale che venne a crearsi una specie di tipo comune, il quale trovava rigoglio dal fatto che era costituito da due entità peninsulari derivate da un ceppo unico [.nell’articolo di Pensabene (Documento 11) si diceva inve­ ce che «la razza degli Etruschi non può collegarsi a nessuna di quelle conosciute»]. L’Etruria comprendeva ab antiquo una parte talmente vasta dell’Italia che Roma non poteva espander­ si senza penetrare nei termini razziali dei predecessori. Nasce così il tipo italico, cui potremo dare genericamente la denomi­ nazione di aquilino, perché è incontestato che la generalità pre­ senta questa sagoma così ben descritta dallo scienziato tedesco. [...] All’osservatore dovrebbero poi apparire palesi i tre gruppi caratteristici che presentano le fisionomie dei genii nel­ l’arte.

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Il primo più vicino alla teoria fischeriana potremmo chia­ marlo arcaico etruscheggiante. Grandi lineamenti marcati, na­ so incurvato, mento appuntito, fronte possente ma anche obli­ qua, Dante Alighieri, Leon Battista Alberti, Michelangelo Buonarroti, Ludovico Ariosto, Torquato Tasso, Benvenuto Cellini, sono i più perfetti ed evidenti rappresentanti. Esiste poi un tipo che sembra aver preso, dall’antico connubio, più dai Romani che dagli Etruschi, per la sua tendenza all’opulen­ za, alla regolarità, alla rotondità, con fronti vaste e quadrate che si impongono ad ogni altro particolare ed abbiamo Giot­ to, Giovanni Boccaccio, Francesco Petrarca, Tiziano Vecellio, Gianlorenzo Bernini e Vittorio Alfieri. Il terzo tipo è più vici­ no per la delicatezza dei tratti, la dolcezza dell’espressione e la regolarità dell’insieme al femmineo: Virgilio, Raffaello Sanzio, Antonio Canova, Andrea del Sarto, Vincenzo Bellini. [...] Nella maschera di Dante, nel suo volto tradizionale l’Italia ha trovato il suo Poeta sommo. Lo scetticismo potrà anche affermare che con un altro viso sarebbe stato identico il fenomeno della divinizzazione dantesca: ma idealmente la sua figura appare tanto più grande e tanto più simbolica, in quanto nei tratti ognuno di noi ha ravvisato e ravvisa ancora Dante come il tipo, anzi l’archetipo, dell’italiano che oltre l’e­ poca latina risale anche alle origini etrusche ed arcaiche. Il volto di Dante è quindi come l’affermazione di questa spon­ tanea e naturale sensibilità nostra. Anche nel Rinascimento e nei tempi moderni quando difficilmente gli artisti seguivano le ricerche e la tradizione, il Poeta è stato ritratto con quella sagoma e con quel profilo ormai acquisiti all’umanità. I gran­ di aquilini sono una teoria innumerevole che qui non è possi­ bile né descrivere né elencare. Ma è certo che essi prendono ne’ loro tratti molto dal classico tipo dantesco, risalendo così alle fonti pure.»

La preistoria Il termine preistoria è molto vago, si può stabilire la sua fine, ma non l’inizio, quindi ogni collaboratore della rivista risale indietro nel tempo sino all’epoca che meglio si adatta alle sue idee; inoltre, gli autori utilizzano strumenti d’indagine diversi (l’esame dell’indice cefalico, l’analisi dei miti più an-

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tichi, lo studio delle lingue morte), cui corrispondono, natu­ ralmente, differenti concezioni e considerazioni. Per un lettore attento e critico (ma tali non erano, certa­ mente, gli acquirenti della rivista) sarebbe stato impossibile individuare un’unica teoria che spiegasse le origini più lonta­ ne di questa razza italiana. Consideriamo, per fare solo un esempio, il problema della presenza, fra gli italiani, di perso­ ne bionde e con gli occhi azzurri: come doveva essere inter­ pretato? Era forse la prova di una mescolanza con le razze nordiche? Ammettere ciò significava ammettere un’influen­ za nordica, con il rischio di far apparire la razza italiana co­ me una derivazione di quella tedesca. Guido Landra afferma che le differenze fisiche sono frut­ to di evoluzioni interne, non di “contaminazioni” preistori­ che: in questo modo si può «spiegare l’attuale relativa varia­ bilità dei caratteri fisici della razza italiana come per esempio quella del colore dei capelli e degli occhi, senza dover ricorrere sempre all’ipotesi che ogni variazione di carattere fisico sia ne­ cessariamente il segno di una mescolanza di razze».122 Nel numero precedente Edmondo Vercellesi era giunto, per un’altra strada, alla stessa conclusione, cioè a escludere l’apporto di genti diverse, per confutare «l’ipotesi che il ca­ pello biondo tragga le sue origini dalla mescolanza del capello nero indigeno con il capello biondo straniero, elemento quin­ di che presenta caratteristiche di ibridismo che non possiamo accettare».1221 Vercellesi aveva postulato l’esistenza di alcuni «focolai principali le cui irradiazioni, incontrandosi e con­ giungendosi, formano nella Penisola, come una fitta rete di vario colore»124·, i biondi, dunque, derivano da focolai di ti­ po biondo (che si trovano, ad esempio, in Veneto) e i bruni da focolai di tipo bruno, ma tutti appartengono alla stessa razza; non si spiegava per quale motivo una razza unica fos­ se divisa in più focolai, perché evidentemente l’importante era avere in qualche modo escluso l’ipotesi delle migrazioni. Riguardo agli occhi, inoltre, l’autore diceva che essi seguono la distribuzione dei capelli, così che al capello biondo corri­ sponde l’occhio azzurro: naturalmente, col passare del tem­ po, gli italiani si sarebbero mischiati fra di loro - appartene1

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vano, d’altronde, alla stessa razza - creando così le diverse combinazioni di colore. Pochi mesi dopo, però, Vercellesi scrive che, poiché «nel­ l’Italia settentrionale (Piemonte, Lombardia, Veneto, Roma­ gna) l’indice-rapporto del cranio che principalmente si riscontra è il brachicefalo, dobbiamo necessariamente ammettere in que­ ste regioni un’influenza nordica [...] Ma non soltanto perché gli alti indici cefalici corrispondano alle forme nordiche del cranio che noi possiamo fare tale osservazione [sic]; il colore biondo dei capelli accompagnato dagli occhi celesti, principalmente nei veneti, è un’altra prova schiacciante».125 Dei “focolai principa­ li” non c’è più alcuna traccia: quelli erano serviti a escludere l’ipotesi di influenze nordiche, che l’autore, qui, accetta; Ver­ cellesi, però, non presenta questa teoria come una ritrattazio­ ne della precedente, che, anzi, viene completamente ignorata e taciuta. Perché c’è un simile cambiamento? Il motivo è ab­ bastanza chiaro: quest’ultimo brano, infatti, appare su un nu­ mero speciale, che celebra il “patto d’acciaio” fra Italia e Germania; in una tale occasione, ovviamente, sarebbe risulta­ to inopportuno riproporre una teoria che rifiutasse l’idea di un’influenza nordica al tempo della preistoria italiana. Anche Evola si propone di celebrare la razza italiana co­ me “nordica”, senza però presentarla come una derivazione di quella tedesca. Per riuscire nel suo intento si richiama al­ l’ipotesi iperborea.126 La sede originaria, antichissima degli arii, andrebbe localizzata nel circolo polare artico e nella Groenlandia, in epoca ovviamente anteriore al congelamen­ to dei poli: i nordici, dunque, non coinciderebbero con gli iperborei, ma sarebbero soltanto una delle popolazioni de­ rivate da questi, così come gli antenati degli italiani.

Guido Landra, “La razza italiana nella teoria dell’ologe­ nesi”, Difesa della razza II, 11: 10 (5 aprile 1939) Appare quindi chiaro come sia inutile invocare sempre l’i­ potesi delle trasmigrazioni dei popoli o delle varie origini raz­ ziali per spiegare le varianti che ancor oggi si osservano nella nostra razza. Valga per tutti l’esempio della brachicefalizzazio-

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ne di una parte della popolazione italiana che si è iniziata ver­ so la fine del neolitico e che comunemente viene spiegata con l’avvento di masse imponenti di genti estranee che avrebbero distrutto e si sarebbero sovrapposte alle popolazioni preesi­ stenti dolicocefale. Con ciò non vogliamo in maniera assoluta negare che anche in quei tempi lontani vi sia stata qualche im­ migrazione estranea, ma crediamo di poter affermare che sia tuttora un gravissimo errore continuare a contrapporre in Ita­ lia dolicocefali e brachicefali, pretendendo che l’origine degli uni sia diversa da quella degli altri. Se il tipo brachicefalo si presenta più recente di quello dolicocefalo questo sta sempli­ cemente a dimostrare che a un certo momento, per forze evo­ lutive interne, si è iniziato un aumento dell’indice cefalico.»

Edmondo Vercellesi, “Gruppi etnici italiani e tedeschi”, Difesa della razza II, 15: 18-19 (5 giugno 1939)

L’indice principale della differenza di razza è fatto normal­ mente risiedere nella “forma” del cranio in quanto essa si mantiene la stessa di generazione in generazione e attraverso il più lungo periodo di secoli; e mentre alcuni caratteri somatici, come il colore degli occhi, dei capelli, della pelle ecc., posso­ no mutarsi per l’azione dell’ambiente come per ibridismo, nel­ la forma del cranio ciò non si verifica e per quanto un cranio possa mostrare mutazioni e trasformazioni esiste sempre, in fondo a tali mutazioni, un carattere proprio della stirpe. Nei tempi più remoti una stirpe dal cranio lungo ed ele­ gante e di forma ovoidale, si stabilì nel bacino del Mediterra­ neo ed in tutta l’Italia; non molto più tardi sopraggiunsero dall’Oriente altre popolazioni dal tipo fisico del tutto diffe­ rente dalle precedenti: crani tozzi e corti e di forma sferoidale. Anche queste genti invasero l’Europa ma si sparpagliarono in ogni direzione. Come in Italia si stabilirono prevalentemente i primi i se­ condi invece occuparono principalmente l’Europa del Nord, dando origine così a quella varietà etnica che dal Deniker pre­ se il nome di “Nordica”. L’indice cefalico ci permette di rintracciare facilmente le forme del cranio in Europa; infatti, sapendo che gli alti indici cefalici (brachicefali) corrispondono alle forme nordiche del cranio, in quanto indicano crani grossi e di forma sferica.

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mentre i bassi indici cefalici (dolicocefali) corrispondono alle forme meridionali del cranio, in quanto indicano crani elegan­ ti e di forma elissoidale, possiamo senz’altro stabilire in Italia ed in Germania, in base a queste due principali forme del cra­ nio, i gruppi etnici corrispondenti. [...] Per il fatto che nell’Italia settentrionale (Piemonte, Lombardia, Veneto, Romagna) Vindice-rapporto del cranio che principalmente si riscontra è il brachicefalo, dobbiamo necessariamente ammettere in queste regioni un’influenza nordica, questi popoli sono perciò antropologicamente, fratel­ li dei tedeschi, degli slavi e dei celti.

Si potrebbe continuare ancora per molto, presentando versioni sempre diverse e contrastanti, tutte volte a lodare il sangue italiano; questa breve rassegna, però, è stata suffi­ ciente per farci sapere qualcosa di più su questa razza che doveva essere difesa: essa era autenticamente romana e pa­ trizia (ma plebea), non aveva nulla a che fare con i decaden­ ti etruschi (ma ne conservava il sangue e il naso), era nordi­ ca, perché bionda (ma autoctona, benché bionda)... 91 Cfr. G. Pensabene, “La borghesia e la Razza”, DR I, 1: 31 (5 agosto 1938). 92 Cfr. G. Almirante, “L’editto di Caracalla. Un semibarbaro spiana la via ai barbari”, DR I, 1: 27-28 (5 agosto 1938). 95 Pensabene firma anche alcuni articoli con lo pseudonimo di G. Dell’Isola. 94 G. Pensabene, “La borghesia...” cit.: 31. 9’ G. Dell’Isola [G. Pensabene], “Storia d’Italia dal punto di vista italiano”, Difesa della razza III, 4: 29 (20 dicembre 1939). 96 G. Dell’Isola [G. Pensabene], “Storia d’Italia” cit.: 29. 97 G. Dell’Isola [G. Pensabene], “Razza e scuola. La vera storia di Roma”, Difesa della razza III, 8: 22 (20 febbraio 1940). 98 E.H. Carr, Sei lezioni sulla storia, Torino, tr. it. 1966, p.115. 99 Lidio Cipriani, “Razze e metodi di conquista”, Difesa della razza III, 3: 34-37 (5 dicembre 1939). A proposito dell’atteggiamento degli italiani nei confronti di altri popoli si veda il libro di Angelo Del Boca, Italiani, brava gente? sui crimini commessi nelle colonie e in zone di guerra. 100 Cfr. P. Nullo, “Razza e storia”, Difesa della razza III, 4: 18-19 (20 di­ cembre 1939). 101 Ìbidem. 102 Ìbidem. 103 Ibidem. 104 Arturo Donaggio, “Caratteri della romanità”, Difesa della razza 1,1:22 (5 agosto 1938).

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105 Giorgio Almirante, “L’editto di Caracalla. Un semibarbaro spiana la via ai barbari”, Difesa della razza I, 1: 29 (5 agosto 1938). 106 Ìbidem. 107 G. Dell’Isola [G. Pensabene], “Funzione dell’Italia nel medio evo”, Difesa della razza III, 11: 28 (5 aprile 1940). 108 J. Evola, “Razza e ‘super-razza’. Le selezioni razziali”, Difesa della razza IV, 12: 28 (20 aprile 1941). 109 J. Evola, “Simboli eroici della tradizione ario-romana. L’ascia”, DR IV, 1: 38 (5 novembre 1940). 110 J. Evola, “Storia segreta dell’antica Roma. I libri sibillini”, Difesa della razza IV, 7: 21 (5 febbraio 1941). 111 Difesa della razza II, 22:43 (20 settembre 1939), e Π, 24 (20 ottobre 1939). 112 Difesa della razza II, 7: 45 (5 febbraio 1939). 113 Paolo Emilio Giusti, “I primi razzisti”, Difesa della razza III, 11: 40 (5 aprile 1940). 114 Ibidem, p. 4L 115 Julius Evola, “Panorama razziale dell’Italia preromana”, Difesa della razza IV, 16: 11 (20 giugno 1941). 116 Ìbidem. 117 Felice Graziani, “Unità ed arianità dell’Italia pelasgica”, Difesa della razza VI, 5: 19-20 (5 gennaio 1943). 118 Emilio Villa, “Arianità della lingua etrusca”, Difesa della razza I, 5: 20 (5 ottobre 1938). 119 Claudio Calosso, “L’unità mediterranea”, Difesa della razza II, 24: 13 (20 ottobre 1939). 120 G. Dell’Isola, “La razza aquilina”, Difesa della razza II, 10: 8-10 (20 marzo 1939). 121 Ottorino Gurrieri, “Genio artistico della nostra razza”, Difesa della razza Yd, 13: 10-11 (5 maggio 1941). 122 Guido Landra, “La razza italiana nella teoria dell’ologenesi”, Difesa della razza II, 11: 11 (5 aprile 1939). 125 Ibid.: 18. 124 Edmondo Vercellesi, “Attributi fisici della razza italiana. Occhi e ca­ pelli”, Difesa della razza II, 10: 19 (20 marzo 1939). 125 Edmondo Vercellesi, “Gruppi etnici italiani e tedeschi”, Difesa della razza II, 15: 20-21 (5 giugno 1939). 126 Cfr. Julius Evola, “L’ipotesi iperborea. La culla della razza aria”, Dife­ sa della razza II, 11: 17-20 (5 aprile 1939).

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L’Eterno Ebreo

Copertina DR, V, 15 (5 giugnol942)

C’è un punto su cui tutti gli autori della Difesa della ''azza sembrano trovarsi d’accordo. Qualunque sia l’atteg­ giamento assunto nei confronti del concetto di razza e de­ gli specifici gruppi etnici, gli ebrei vengono invariabil­ mente ricoperti di epiteti calunniosi: deicidi, libidinosi, ripugnanti, astuti, rapaci, avidi, depravati, bastardi, di­ sfattisti, disgregatori, cospiratori, nichilisti, efferati, cor­ rotti, psicopatici, pervertiti e - raro caso in cui gli autori della rivista attribuiscono un’accezione peggiorativa a questa parola - razzisti. 253

Non c’è numero della Difesa della razza che non dedichi almeno un paio di articoli alla questione ebraica e, anche quando l’argomento è un altro, accade spesso che a un cer­ to punto ci si ritrovi a parlare dei piani diabolici dei cospi­ ratori giudei. Va inoltre osservato che gli articoli sugli ebrei sono concentrati prevalentemente nella sezione “Polemica” della rivista piuttosto che - come accade per gli altri gruppi etnici - nelle parti intitolate “Scienza” e “Documentazio­ ne”. Per quanto queste sezioni non siano contraddistinte da un particolare rigore scientifico, la decisione di trattare esplicitamente il discorso sugli ebrei sotto l’insegna della polemica è di per sé un indizio palese del diverso regime co­ municativo impiegato nei confronti di coloro che vengono ripetutamente definiti «gli eterni parassiti». Caliamoci nei panni del lettore originario della Difesa della razza per ricostruire i processi interpretativi che la rivi­ sta lo incoraggia a compiere attorno alla figura dell’Ebreo. Possiamo supporre che, accanto a un nucleo di lettori già predisposti ad accogliere entusiasticamente le tesi antisémi­ te, vi sia una fetta - presumibilmente molto più ampia - di destinatari non del tutto convertiti al razzismo giudeofobi­ co, o perlomeno relativamente indifferenti al problema. Per questa seconda categoria di lettori, l’Ebreo rimane un’entità piuttosto misteriosa, vuoi perché gli ebrei hanno sempre co­ stituito una minoranza numericamente esigua in Italia (co­ me altrove), vuoi perché la maggior parte di essi è ben inte­ grata nel tessuto della società italiana, e coltiva la propria religiosità in modo abbastanza discreto da non essere parti­ colarmente visibile in quanto gruppo etnico-culturale di­ stinto. La mancanza di conoscenze dirette viene allora inte­ grata con rappresentazioni stereotipiche. Attorno agli ebrei circolano pregiudizi tratti dalla tradizione antigiudaica e an­ tisemita che pochi, al di fuori degli ebrei stessi, sono dispo­ sti a sottoporre a una serrata critica. Con la pubblicazione del Manifesto della razza e con le prime deliberazioni che escludono gli ebrei da vari settori della vita pubblica, la mi­ noranza ebraica viene marchiata, emarginata, privata di di­ ritti e stigmatizzata come nemico pubblico numero uno. 254

Come vengono raffigurati gli ebrei nelle pagine della Di­ fesa della razza? Il lettore superficiale si limita a sfogliare distrattamente le pagine della rivista. Si può presupporre che il percorso di let­ tura allestito per lui coinvolga prevalentemente la copertina, le illustrazioni, le fotografie e, forse, i titoli degli articoli. Di qui l’importanza strategica di questi elementi paratestuali.

L’Ebreo nelle copertine

DR I, 1 (5 agosto 1938)

Nella copertina dei primi tre numeri della Difesa della raz­ za, la razza ariana assume le sembianze di una statua romana, da cui si capisce che l’italianità vagheggiata dai razzisti fascisti appartiene a un passato mitico, depositario di antiche virtù eroiche. La razza nera o camitica è invece personificata da una testa africana, unico soggetto “in carne e ossa” che, nelle in­ tenzioni degli autori del fotomontaggio, dovrebbe far scattare connotazioni di “animalità”, anche grazie ai suoi tratti somati­ ci che, agli occhi di un razzista, appaiono lontani dall’ideale della bellezza classica. Viene così creata una giustapposizione polemica tra la cultura della nobile razza ario-romana e la na­ tura baita attribuita agli africani.

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In mezzo tra i due opposti sta la razza semitica, rappre­ sentata da un bassorilievo con i tratti stilizzati di una carica­ tura. L’effigie ebraica presenta alcuni aspetti in comune con entrambe le figure che la incorniciano. Come la statua ro­ mana, si tratta di un artefatto culturale. Come la fotografia della testa africana, la testa ebraica è distante dal modello estetico della razza ariana in versione nostrana. Ma, diversamente dalla testa africana, i connotati della testa ebraica so­ no grottescamente irregolari. L’impressione che se ne ricava è che, mentre la razza camitica rappresenta la negazione di ogni forma di civiltà (e dunque si presta a essere dominata e civilizzata), la razza semitica costituisca una corruzione del­ la civiltà stessa. In altre parole, quella africana è la razza sel­ vaggia da assoggettare, mentre l’ebraica è la razza degenera­ ta da debellare. Già da questi primi indizi si intuisce che l’atteggiamen­ to assunto dalla Difesa della razza nei confronti degli ebrei è molto diverso rispetto a quello assunto nei confronti de­ gli africani. Entrambi sono considerati come gruppi infe­ riori che fanno risaltare, per contrasto, le virtù della razza ario-romana. Ma mentre il Negro suscita le reazioni pater­ nalistiche tipiche del razzismo coloniale, l’Ebreo provoca nei razzisti un senso di inquietudine e di ribrezzo molto più difficile da definire. A voler impiegare termini vaga­ mente psicoanalitici, si direbbe che il Negro è l’Altro-fuori-da-Sé (e fuori dai confini nazionali) che i razzisti mirano a sottomettere e a conquistare - mentre l’esigenza di esclu­ derlo tramite le leggi razziali è solo una conseguenza degli effetti indesiderati del razzismo di dominio. L’Ebreo è in­ vece l’Altro-dentro-di-Sé (il virus, il morbo, il parassita, il cancro, ecc.) che va innanzitutto identificato e stanato, e poi accuratamente estirpato. Ci si potrebbe chiedere perché l’identità ario-romana abbia bisogno di entrambi i nemici, esterno e interno, per affermarsi. Una possibile spiegazione è che l’immagine del­ l’africano non sia avvertita dai razzisti come sufficientemente minacciosa da servire come controparte all’immagine forte dell’uomo mussoliniano. Se per i razzisti il Negro è

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così evidentemente un essere inferiore, se viene descritto come l’anello mancante tra l’uomo e la scimmia, come può costituire una degna sfida per gli italiani vogliosi di dimo­ strare la supremazia della propria razza e della propria ci­ viltà? La contraddizione è superata grazie all’introduzione di un altro nemico, ben più astuto e subdolo, sul quale con­ vogliare tutte le tensioni sociali accumulate in seno alla Na­ zione. Diversamente dal Negro, l’Ebreo si presta a essere raffigurato come un avversario diabolicamente consapevo­ le, latore di un sistema di valori e di un progetto esistenzia­ le contrapposti a quello rivendicato dalla razza ariana. In breve, all’Ébreo si attribuisce una precisa volontà distrut­ trice che agli africani è negata. Alla luce di queste considerazioni, non è casuale che, nel­ la copertina, la testa ebraica venga collocata al centro del fo­ tomontaggio, ossia in mezzo tra l’uomo bianco e la donna nera. Una delle tesi ricorrenti nella Difesa della razza (come d’altronde in molti altri discorsi antisemiti) è che gli ebrei siano i principali responsabili dell’imbastardimento della razza ariana: col pretesto della lotta per i diritti civili delle minoranze etniche, neri compresi, essi avrebbero incorag­ giato le ibridazioni tra etnie diverse. In tal modo, gli ebrei avrebbero intenzionalmente contribuito a inquinare il san­ gue ariano con quello camitico, allo scopo di indebolire la civiltà occidentale per poi procedere alla sua conquista. Si osservi, di passaggio, che questa accusa non è mai definiti­ vamente decaduta: ancora oggi, nel sito del Ku Klux Klan, si trova una rilettura della storia di Martin Luther King in cui quest’ultimo viene descritto come un agente comunista se­ gretamente manipolato dai cospiratori ebrei.

La scelta di distoreere i tratti somatici dell’Ebreo in sen­ so caricaturale è una costante dell’iconografia della Difesa della razza, come si evince da alcune altre copertine. Spesso esse citano gli ebrei in maniera più obliqua, facendo uso di simboli come la stella di David o la Menorah: questa scelta contribuisce a de-umanizzare la figura dell’Ebreo, circon­ dandola di un alone di sinistro mistero.

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DR IV, 19 (5 agosto 1941)

DR I, 5 (5 ottobre 1938)

L’Ebreo nelle illustrazioni Ritroviamo un’analoga tendenza verso la caricatura in presso­ ché tutte le illustrazioni di soggetto ebraico proposte dalla Di­ fesa della razza. Rispetto alle copertine, le immagini che si tro­ vano nelle pagine interne presentano un grado minore di autocensura: mentre le icone ebraiche poste in copertina so­ no spesso allusive, le vignette e le tavole (perlopiù prese in prestito da fonti antisémite straniere) tendono a essere più apertamente propagandistiche. Ciò è attribuibile al diverso

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regime comunicativo che caratterizza la copertina rispetto al­ le pagine interne - la copertina serve a stipulare un contratto di lettura tra il testo e il suo lettore potenziale, le pagine inter­ ne presuppongono che tale contratto sia già stato accettato. Talmud

due bocche disrâele DR 1,5: 15 (5 ottobre 1938)

DR I, 6: 23 (20 ottobre 1938)

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Spesso, l’Ebreo viene disegnato con le sembianze ripu­ gnanti di un animale: i più ricorrenti sono l’Ebreo-awoltoio e l’Ebreo-ragno (mentre sono assenti gli Ebrei-topi e gli Ebreiscarafaggi che vanno per la maggiore nella propaganda nazi­ sta). E chiaro quale sia lo scopo di queste associazioni: l’Ebreoawoltoio, talvolta raffigurato con il becco sgocciolante sangue, fa scattare connotazioni di rapacità che si ricollegano con il topos dell’avidità ebraica. Ma il becco d’awoltoio rimanda anche al naso adunco, il quale chiude il cerchio con un’infe­ renza fisiognomica che riconferma il senso della rapacità ebraica. Per quanto riguarda l’Ebreo-ragno, invece, il riferi­ mento è alla presunta volontà ebraica di tessere la propria trama occulta per procedere alla conquista del mondo.

DR II, 18 (20 luglio 1939)

DR IV, 7 (5 febbraio 1941)

DRI, 3: 33 (5 settembre 1938)

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Un’altra immagine ricorrente, strettamente collegata a quella dell’Ebreo-ragno, raffigura l’Ebreo che abbraccia avidamente il mondo: è il topos deH’Ebreo-mondo che rias­ sume in forma visiva la tesi dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion di cui riparleremo più avanti. Questa immagine-slogan risale all’Ottocento e fu resa popolare dalla campagna anti­ semita che esplose in Francia in occasione dell’affare Drey­ fus12', prestandosi a innumerevoli rifacimenti nel corso del XX secolo128.

DR II, 5:41 (5 gennaio 1939)

L’Ebreo nelle fotografie Confrontando le foto degli ebrei con quelle di altri gruppi etnici, ci si accorge di alcune differenze di fondo. Innanzi­ tutto i soggetti fotografati sono scelti secondo criteri este­ tici diversi: spesso, tra le fotografie degli africani, degli al­ banesi, degli zingari, eccetera, si vedono volti che - pur non conformi ai canoni della bellezza ariana - difficilmen­ te potrebbero essere definiti brutti. Nel caso degli ebrei, invece, la scelta ricade invariabilmente su soggetti disgra­ ziati, o comunque colti in curiosi atteggiamenti che ne ac­ centuino i tratti fisici. 261

Dedicato ai fautori dell’assimilazione DRII, 10: 16-17 (20 marzo 1939)

Le differenze riguardano anche lo sguardo con cui gli esemplari delle varie etnie vengono osservati. Gli africani foto­ grafati da Cipriani subiscono l’umiliazione dello sguardo pre­ varicatore e sprezzante del colonialista il quale, convinto della propria superiorità biologica e spirituale, scruta e cataloga i suoi indigeni come farebbe con le specie animali. Nel caso de­ gli ebrei, invece, colpisce lo sguardo sfuggente delle persone fotografate: su di esse non viene esercitato alcun dominio.

I giudei nell’armata rossa DR IV, 19: 9 (15 agosto 1941)

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Tipica fotografia di ebreo, con ben manifestate le caratteristiche della sua razza DR 1,2: 10(20 agosto 1938)

Lo spionaggio ebraico DR IV, 11:27 (5 aprile 1941)

Ferocia, Astuzia, Ponderazione degli ebrei DR II, 5: 36-37 (20 dicembre 1938)

Degli ebrei viene spesso evidenziata la smorfia insolente, e non a caso nelle didascalie si parla molto di «maschere ebraiche». La maschera implica la volontà di nascondere le reali intenzioni di chi la indossa e, nell’alludere a tali inten­ zioni occulte, queste fotografie mirano a suscitare reazioni di repulsione e di inquietudine.

L’Ebreo nei titoli Come le immagini, anche i titoli svolgono un’importante funzione comunicativa, poiché a essi è assegnato il compito

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di trasmettere in modo esplicito i contenuti ideologici della rivista qualora il lettore non si addentri nella lettura ap­ profondita degli articoli. Rispetto ai titoli degli articoli de- t dicati agli altri gruppi, quelli che hanno per oggetto gli ebrei presentano ancora una volta alcune differenze signifi- ' cative. Solitamente, il registro che contraddistingue i titoli delle monografie sulle varie razze non ariane è piattamente denotativo: ovvero, si ricerca l’effetto di “scientificità” at- I traverso l’uso di espressioni ideologicamente neutre. Ecco qualche esempio: Gli Etiopici secondo il Razzismo [Lidio Cipriani, I, 5] Popoli imbelli e guerrieri in Africa [Lidio Cipriani, II, 1] Gli Ultimi Nomadi [Vincenzo De Agazio, II, 16] Vita pittoresca di una razza nomade: gli Zingari [Fer, IV, 3] Genti e costumi della Somalia ex-inglese [Giovanni Savelli, IV, 6] Le razze dell’U.R.S.S. [Aldo Modica,V, 2]

A volte subentrano giudizi offensivi che sottolineano la presunta inferiorità dei gruppi in questione, come ad esem­ pio: La scala metrica dell’intelligenza e l’inferiorità mentale dei negri [Angelo Chiazzi, I, 5]. Ma anche in questi casi vie­ ne mantenuto un registro pseudo-scientifico che denota un’ostentata freddezza nei confronti della razza in questio­ ne. Quando si parla degli ebrei, invece, i titoli assumono to­ ni ben più aggressivi. Agli ebrei non si rimprovera di essere una razza inferiore, ma di nutrire intenti malvagi ai danni ! della civiltà ariana. Si considerino i seguenti esempi: Come Israele insudicia il genio di Leonardo [Domenico Rende, 1,5] Gli eterni imboscati [Elio Gasteiner, II, 1] Lebreo in maschera [Giovanni De Stampa, II, 3] Come gli ebrei sfruttavano gli emigranti [ Francesco Callari, II, 3] Orgoglio ebreo [G. Pod., II, 5] Ferocia - astuzia - ponderazione degli ebrei [Tancredi Gatti, II, 5l Come gli ebrei tentarono d’impadronirsi del patrimonio della Chiesa [Filippo Macrì, II, 5] Criminalità giudaica [Carlo Barduzzi, II, 5]

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Gli ebrei manifesti e i clandestini [Umberto Angeli, II, 7] Pessimismo e scetticismo, armi giudaiche [Carlo Barduzzi, II, 7] La piaga giudaica [G. De Stampa, II, 7] Libidine, cupidigia e odio di razza degli ebrei [Tancredi Gatti, Π, 9] I falsi convertiti [Berlino Rianetti, II, 9] Come i giudei sono diventati i padroni della Francia [Carlo Barduzzi, II, 9] La manomissione ebraica della nazione italiana [II, 17] Lina manovra giudaica contro Vincenzo Gioberti [Riccardo Miceli, II, 18] I disgregatori [Francesco Scardaoni, II, 21] Fatti e misfatti di un giudeo [T. Salvotti, II, 21] Inquinamento levantino della filosofia classica [G. Dell’Isola, Π, 22]

Un filo rosso semantico percorre questi titoli ed è il con­ cetto dell’Ebreo traditore (evidente retaggio dell’antigiudaismo cristiano). Viene insomma enfatizzata l’opposizione vero/falso, con i suoi termini complementari di menzogna e segreto: i falsi convertiti, la maschera giudaica, gli imbosca­ ti, gli ebrei clandestini, e via dicendo. L’Ebreo è colui che non è mai ciò che appare. L’Ebreo si camuffa, si nasconde, si mimetizza. Ma non lo fa per proteggersi dalle persecuzio­ ni. Dietro la maschera della povera vittima, l’Ebreo trama la sua vendetta. Donde la necessità di stanarlo.

Quinto Flavio, “I sette peccati. L’odio ebraico per le altre razze”, Difesa della razza 1,1: 33 (5 agosto 1938)

Bisogna che il popolo italiano impari a riconoscere i suoi nemici: fra i quali uno dei più pericolosi è appunto lo spirito ebraico, il quale alberga ed è operante - purtroppo - nella enorme maggioranza - se non nella totalità - dei singoli Ebrei.

L’Ebreo negli articoli Gli articoli sugli ebrei nella Difesa della razza possono essere suddivisi in alcune categorie, corrispondenti ai diversi li­

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velli dello stereotipo antisemita. Innanzitutto vi sono gli ar­ ticoli che pretendono di fornire un fondamento scientifico all’antisemitismo, descrivendo i tratti distintivi del tipo ebraico (naso adunco, mento sfuggente, labbra carnose, ca­ pelli lanosi e occhi sporgenti) e di ancorare tale identikit so­ matico a un substrato psicologico e spirituale.

Come si riconoscono gli ebrei? Giorgio Montandon, “Da che cosa si riconoscono gli ebrei?”, Difesa della razza III, 21-22: 6-7 (5-20 settembre 1940)

Voi sentite persone, distinte dagli interessati, negare il ti­ po razziale giudaico, anche in buona fede e quel che più con­ ta, colleghi più o meno tinti d’antropologia. Ciò non può spiegarsi se non perché prendono la parte per il tutto. Se si eccettuano i caratteri delle grandi razze (per esempio i carat­ teri del bianco in opposizione a quelli del negro) gli individui che rappresentano il tipo riconosciuto d’un gruppo sono sempre più rari che gli individui a caratteri meno tipici. Non vi sarebbe dunque niente di strano che il tipo razziale ebraico non fosse ben riconoscibile nella maggioranza dei membri dell’etnia data la dispersione di questa in mezzo alle nazioni del mondo. Tuttavia, la maggior parte delle persone, anche senza intendersi d’antropologia, fanno spessissimo la diagno­ si, e ciò sebbene si tratti, nel tipo ebraico d’un caso di meticciato a diversi gradi, come dimostreremo in seguito. Lo spe­ cialista che si dedica a questa ricerca s’accorge subito che la possibilità di riconoscere gli ebrei tra le diverse etnie europee è forse più grande che tra altri tipi di meticci delle stesse et­ nie. Ciò è dovuto alla “dominanza” di alcuni caratteri che si trovano tra gli ebrei, secondo le leggi di Mendel (non confon­ dere con Mandel!). Quali sono i caratteri del tipo giudaico, i suoi lineamenti propri, il cui effetto sull’occhio è conosciutissimo, ma che bi­ sogna enumerare? Sono: a) un naso fortemente incurvato, differente secondo gli in­ dividui, spesso con prominenza del setto nasale, e con ali mol­ to mobili. In certi individui del mezzogiorno e oriente d’Eu-

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ropa, il profilo a becco d’avvoltoio è così accentuato da far credere ad un tipo selezionato: né è ciò solo una figura retori­ ca, poiché si verificano nei gruppi umani, e, si capisce, soprat­ tutto in quelli che sono separati dal resto del mondo, fenome­ ni di autodomesticazione, simili a quelli di domesticazione che vediamo negli animali compagni dell’uomo; b) labbra carnose, delle quali l’inferiore sporge spesso, tal­ volta molto fortemente; c) occhi poco incavati nelle orbite, con, abitualmente, qualcosa di più umido, di più pantanoso, di quel che non si ve­ da in altri tipi, e una fessura palpebrale molto aperta. Questi tre organi, gli occhi, il naso e le labbra sono dunque fortemente marcati nelle dimensioni; si può dire che sono “so­ vraccaricati”; ed è la combinazione dei loro caratteri che co­ stituisce ciò che noi chiamiamo maschera ebraica [...] Caratteri meno frequenti e meno decisivi, per il tipo ebrai­ co sono: i capelli lanosi (bisogna annettere un’importanza an­ cora minore a certi caratteri occasionali delle orecchie e dei denti) e, per il corpo: le spalle leggermente incurvate, i piedi piatti, senza parlare di atteggiamenti come: il gesto rapace; l’andamento dinoccolato. Riconosciamo tuttavia che questi at­ teggiamenti, ed anche i caratteri ricordati delle spalle e dei piedi, debbono, forse, essere attribuiti piuttosto all’ambiente etnico che al tipo razziale [...] Lo studio delle malattie, o patologia razziale, fornisce pu­ re alcuni elementi. Si attribuisce non senza ragione agli ebrei una forte proporzione di diabete bulbare (nervoso), d’artritismo a forme cutanee o viscerali, di lebbra, di nevrosi. Se è pos­ sibile che i tre primi gruppi di malattie si siano attaccati so­ prattutto al tipo razziale giudaico il quarto (le nevrosi) deve essere più in rapporto con l’etnia giudaica in genere che col suo tipo razziale. D’altra parte bisogna ben rendersi conto che nessun carat­ tere dello scheletro è specifico al tipo razziale giudaico. L’e­ breo non ha un tipo d’ossa che si può dire gli appartenga. Questa constatazione basta a mostrarci che l’ebreo non po­ trebbe essere il rappresentante d’una delle grandi razze, in ciò che hanno di classico. E dunque essenzialmente un tipo incro­ ciato, meticcio. L’applicazione della maschera delle parti mol­ li a lui particolare, sulla intelaiatura ibrida delle ossa, ci verrà spiegata dal processo complicato del meticciamento, il cui ri­ sultato è stato, appunto, il tipo razziale giudaico.

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DR IV, 16: 16-17 (5 luglio 1941)

Nel suo articolo, Montandon afferma senza esitazione che l’Ebreo è «un tipo incrociato, meticcio». Altrove nella rivista, però, si dichiara altrettanto perentoriamente che l’Ebreo ha da sempre rifiutato le ibridazioni con altre etnie. Si giunge perciò all’accusa di «razzismo esasperato» (presumibilmente in contrapposizione al razzismo moderato dei fascisti), rivolta proprio alle principali vittime del razzismo: gli ebrei non si vogliono assimilare - ossia, non si annullano nella società che li accoglie - perché si ostinano a credere di essere il popolo eletto129. L’articolo di Montandon, come molti altri analoghi, non fa che tradurre in termini verbali l’immagine dell’Ebreo av­ voltoio. Ma non tutti gli ebrei rispondono ai caratteri della «tipica maschera ebraica». La constatazione che alcuni ebrei sono diversi dall’identikit propagandato non viene tuttavia inteso come una prova dell’inadeguatezza dello stereotipo razziale, bensì come l’ennesima dimostrazione dell’ipocrisia ebraica. Se un ebreo non appare tale, significa che si è ca­ muffato da gentile. Come riconoscere gli ebrei clandestini? Umberto Angeli risponde con una classica petizione di prin­ cipio: «è ebreo chi è capace di commettere un’ebreata».

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Umberto Angeli, “Gli ebrei manifesti e gli ebrei clande­ stini”, Difesa della razza II, 7: 30-31 (5 febbraio 1939)

L’Ebreo ha un aspetto fisico spesso, ma non sempre, eviden­ te. Ha un contegno morale di più difficile, ma più sicura diagno­ si. In poveri termini vorrei definire che sia da considerarsi ebreo chi è capace di commettere un’ebreata: non credo mi occorra de­ finire quel che sia un’ebreata; ogni buon Italiano lo sa per espe­ rienza, benché i dizionari non registrino forse la parola. Oltre le solite qualità tradizionali - l’avidità del denaro, la grettezza, la ca­ pacità di compiere cattive azioni pur di guadagnare, di essere an­ che spendereccio e caritatevole pur di guadagnare - l’Ebreo pos­ siede altre qualità che lo distinguono dall’Italiano: un sentimento di famiglia innegabile, unito ad una spiccata tendenza all’adulte­ rio e al concubinato; una commovente solidarietà fra Ebrei, che li induce a incrudelire contro l’umanità non ebraica; ostinati nei propositi, quando vogliono frodare non si levano mai dattorno; cacciati dalla porta rientrano dalla finestra; non contenti d’esser virili sono immancabilmente sensuali e pomografici. Vi è chi li riconosce al naso e chi alle labbra, chi agli occhi e chi ai piedi piatti, chi alla pronunzia o ad altri segni. Vi è però chi meglio li distingue al contegno nella loro vita, nella società, al posto di lavoro, nella politica. Io li riconosco dall’ebreata e son sicuro di non sbagliare. La loro più grossa ebreata colletti­ va fu, ed è, quella di infilarsi nella vita italiana e nella vita fasci­ sta per profittarne ed insieme per minarla e sovvertirla. [...] L’ebreo agisce da ebreo specie quando si nasconde, e da ebreo si comporta anche quando ignora di esserlo. Il Fascismo, che è rivoluzione in marcia, che ha creduto utile difendersi dal­ l’Ebreo manifesto, troverà mezzi adeguati per scoprire e bolla re, se occorre caso per caso, anche l’Ebreo clandestino e l’Ebreo ignaro. Come, privatamente, non è difficile scoprirli e identifi­ carli, non sarà impossibile riconoscerli con debita procedura. Sarà invece, io credo, facilissimo, perché penseranno gli stessi ebrei clandestini ed ignari a commettere tante, ma tante ebreate, finché persino i ciechi e gli ottusi li distingueranno.

Umberto Angeli, “Judeoscopia”, Difesa della razza IV, 6: 26-27 (20 gennaio 1941) La Judeoscopia potrebbe divenire una scienza nuova, od

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essere almeno, per ora, un metodo infallibile per scoprire, do­ vunque si annidi, il giudeo; inteso non solo come individuo razzialmente ben definito e ben classificabile, ma pure come soggetto ambiguo, la cui tara ereditaria giudaica, sia pure di lontana origine, abbia su lui effetto attuale. C’è infatti il giu­ deo assoluto e il relativo, quello che sa di esserlo e lo dice, quello che non lo dice, l’altro infine che lo è senza neanche sa­ perlo e si rivela tale in tutte le sue azioni od in alcune soltanto. La legge razziale di due anni or sono agisce sui giudei che risultano dall’anagrafe, ma è impotente contro tutti gli altri, che sono assai più numerosi e pericolosi. Non è perciò inutile per la politica fascista il vedere se e fino a qual punto è possi­ bile istituire una scienza nuova che fornisca ben allineati e or­ dinati i criteri di valutazione del suddito italiano, per creare fa­ cilmente e con assoluta evidenza, per ognuno di noi, il cartellino segnaletico sul quale si possa leggere di colpo chi è giudeo e chi, senza esserlo dal punto di vista anagrafico e giu­ ridico, lo è di fatto...

I deicidi

Un secondo gruppo di articoli sfrutta la tradizionale accusa di deicidio, con i suoi vari corollari (tra cui i miti della profana­ zione dell’ostia150, dell’avvelenamento dei pozzi e degli infanti­ cidi rituali), per denigrare il popolo ebraico e le sue tradizioni.

Morte di una giovinetta uccisa dagli ebrei (da una stampa popolare romena) DR II, 24: 38 (20 ottobre 1939)

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L’accusa di omicidio rituale è da secoli un luogo comu­ ne dell’antigiudaismo cristiano131. La calunnia risale (per­ lomeno) al 1150, anno in cui gli ebrei furono ingiustamen­ te accusati dell’assassinio di un adolescente avvenuto sei anni prima a Norwich132. La diceria secondo cui gli ebrei utilizzavano il sangue di innocenti cristiani (preferibilmen­ te bambini) per impastare il pane azzimo venne evocata come presunto movente dell'omicidio, nonostante le in­ chieste ordinate per fare luce sul delitto ne avessero dimo­ strato l’infondatezza. La voce si sparse a macchia d’olio in tutto il nord Europa, soprattutto in Germania, e nei secoli successivi le accuse di omicidio rituale si moltiplicarono, tanto che l’imperatore Federico II incaricò una commis­ sione di dotti ebrei convertiti di accertare una volta per tutte se la diceria avesse qualche fondamento. Il verdetto unanime fu negativo e nel 1236 Federico promulgò una bolla che sollevava gli ebrei dall’accusa infamante. Dieci anni più tardi fu il turno di papa Innocenzo IV di emanare una bolla (la prima di una lunga serie) in cui affermava senza mezzi termini che Nonostante che le Sacre Scritture prescrivano agli Ebrei “non uccidere”, e proibiscano loro di toccare dei cadaveri a Pasqua, essi vengono a torto accusati di dividersi a Pasqua il cuore di un bambino assassinato, e si pretende che ciò sia pre­ scritto dalle loro leggi, mentre è risolutamente il contrario. Se in un posto viene trovato un cadavere, a loro viene perfida­ mente imputato l’omicidio. Col pretesto di queste ed altre si­ mili favole vengono perseguitati, e contrariamente ai privilegi loro accordati dalla Santa Sede apostolica, senza processo e regolare istruttoria, in dispregio di ogni giustizia, vengono spogliati di tutti i loro beni, affamati, incarcerati e torturati, cosicché la loro sorte è forse peggiore di quella dei loro padri in Egitto133.

Ma la calunnia, che evidentemente aveva molto colpito la fantasia popolare, continuò a circolare indisturbata, aiu­ tata in ciò da numerosi esponenti del basso clero che in­ farcivano le proprie prediche con riferimenti alle pratiche 271

malefiche dei figli di Satana. Vi sono perfino casi docu­ mentati di persone che nascosero i propri figli per poi in­ criminare gli ebrei, saccheggiarne case e impossessarsi dei loro beni (pratica condannata da papa Gregorio X in una bolla del 1272). In Italia, la leggenda arrivò in ritardo rispetto ad altri paesi europei. Ad accendere la miccia fu - come già era ac­ caduto a Norwich - un fatto di cronaca nera: la sera del 23 marzo del 1475 a Trento un bambino di due anni e mezzo di nome Simone sparì di casa. Il padre denunciò la scom­ parsa e, per prima cosa, le autorità locali ordinarono la perquisizione delle case degli ebrei. Tre giorni dopo il cor­ po esanime e tumefatto del bambino fu ritrovato in una roggia che attraversava lo scantinato di casa del principale esponente della piccola comunità ebraica di Trento. Gli ebrei che rinvenirono il cadavere denunciarono subito il fatto, ma furono imprigionati con l’accusa di infanticidio rituale. Come da copione, gli accusati e i loro familiari vennero sottoposti a settimane di torture e alla fine alcuni di essi confessarono: i presunti colpevoli furono messi al rogo, mentre chi accettò di convertirsi venne pietosamen­ te decapitato. Allarmato dal clamore suscitato dal caso, papa Sisto IV ordinò un’inchiesta che facesse luce sulla dinamica dei fatti. Il commissario papale, Giambattista de’ Giudici, ve­ scovo di Ventimiglia, giunse alla conclusione che le accu­ se fossero totalmente infondate. Ma, su pressioni di Hinderbach, vescovo di Trento, il risultato dell’inchiesta fu annullato - anche perché nel frattempo le sentenze erano già state eseguite e i beni degli ebrei confiscati - e il ver­ detto di colpevolezza fu confermato. Per secoli l’episodio ispirò l’opera di numerosi libellisti, pittori e illustratori che raffigurarono nugoli di ebrei irsuti intenti a smembra­ re bambini con coltellacci da macellaio. Simoncino fu ve­ nerato come martire (fino al 1965, quando il suo culto venne proibito da Paolo VI), e fu così che il mito degli omicidi rituali cominciò a diffondersi capillarmente anche in tutto il nord Italia134.

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Carlo Alberto Masini, “Riti ebraici”. Difesa della razza II, 22: 12-14 (20 settembre 1939)

«Interrogato Israele, figlio di Samuele che dica la verità ri­ spose: che nella settimana di sua Pasqua... trovandosi con Mosè, Samuele, Angelo, Tobia e Mohar, nella Sinagoga, ed essen­ do già finiti gli uffizi, fu detto fra di loro che non v’era modo di far le focacce, le quali si mangiano nel loro giorno solenne... E ciò perché nessuna aveva del sangue di un fanciullo cristiano (et hoc, quia nemo habeat de sanguinepueri cristiani)... «E così fu deciso» di dare cento ducati a chiunque consegnasse un fan­ ciullo cristiano, dal quale si potesse estrarre il sangue come so­ pra (dequo extrahetur sanguis ut supra)...» Così parlano gli atti autentici del processo di Beato Simoncino da Trento, ucciso dagli ebrei il 24 marzo dell’anno 1475, per fini rituali, come risulta dalle deposizioni rese dagli stessi ebrei nel corso del processo che seguì il ritrovamento del cadavere dissanguato del piccolo martire. L’originale del pro­ cesso si trova in Roma, negli Archivi Vaticani. Quattrocento anni più tardi, il 5 febbraio 1840 venivano assassinati in Damasco Padre Tommaso da Calangiano e un suo servo cristiano; autori del duplice delitto furono 16 ebrei, due dei quali Miscione Mussa Abu Elafeh e Miscione Mussa Bokor Juda, detto Salonichi, rabbini. Come era avvenuto nel processo per l’uccisione del beato Simoncino, anche in questo caso risultò che le due vittime era­ no state uccise allo scopo di averne il sangue, che era necessa­ rio «all’adempimento dei doveri religiosi» (deposizione di Isacco Arari) [...] Troppo lungo e doloroso sarebbe continuare l’orribile elenco; non c’è secolo, non c’è paese dell’Europa o dell’O­ riente mediterraneo, che sia immune da simili delitti. In Italia, oltre all’assassinio del Beato Simoncino, debbo­ no essere segnalate altre due uccisioni rituali, entrambe avve­ nute nel 1480, rispettivamente a Treviso e a Motta di Livenza (forse si tratta dello stesso caso?) e il rapimento, avvenuto a Torino nel 1829, della moglie di Antonio Gervalone, com­ merciante, che però fu salvata dall’intervento del marito e della polizia. Nel solo Ottocento gli assassinii o i tentati assassinii a sco­ po rituale attribuiti agli ebrei raggiungono la trentina; quasi tutti nell’Europa orientale (Ungheria, Polonia, Romania).

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Dopo di ciò non è più lecito meravigliarsi, o peggio! per le sommosse popolari che insanguinarono i ghetti del me­ dioevo, per i pogrooms [sic] che tuttora periodicamente mi­ nacciano le comunità Israelite dell’Europa orientale. Uno so­ lo dei delitti di cui sopra, compiuto a sangue freddo e col complicato rituale col quale fino a pochi mesi or sono, nella stessa Roma, si sgozzavano gli animali destinati alla cucina «cascèr», sarebbe sufficiente a giustificare cento impetuose sommosse ariane.

DR II, 22: 14 (20 settembre 1939)

Copertina DR V, 6 (20 gennaio 1942)

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Qual è la funzione di questo tipo di calunnie all’interno della logica dell’antigiudaismo? Yves Chevalier (1988) ha osservato che il ribaltamento del rapporto perseguitato/per­ secutore che caratterizza episodi come quello di Simone da Trento è tipico del meccanismo del capro espiatorio. Il mo­ dello del capro espiatorio fornisce una possibile chiave per interpretare quelle esplosioni di intolleranza e di violenza collettiva che ogni tanto, nei periodi di crisi sociale, si verifi­ cano ai danni di un particolare individuo o gruppo, indi­ pendentemente dalle sue reali responsabilità circa le cause che hanno scatenato la crisi. In queste circostanze, si verifi­ ca uno spostamento di 180 gradi, per cui la vittima reale vie­ ne colpevolizzata mentre il persecutore viene rappresentato come il perseguitato. Molti episodi storici di violenza contro gli ebrei sono per l’appunto imperniati su questo meccanismo. A partire dal­ l’accusa di deicidio (che risale al Vangelo di Giovanni, ma che si afferma nel IV secolo135) e dalla conseguente demo­ nizzazione degli ebrei (sempre più acuta nel corso del Me­ dioevo), gli ebrei vennero emarginati e trasformati in vittime ideali del meccanismo del sacrificio espiatorio: erano vulne­ rabili (in quanto poco tutelati dalla legge), erano spesso riconoscibili (dotati di segni distintivi - l’aspetto, l’abbiglia­ mento, la professione, le abitudini alimentari, la residenza), e quando non lo erano potevano essere resi riconoscibili con l’aiuto di contrassegni artificiali. Infine, le accuse che veni­ vano loro rivolte apparivano credibili perché erano coerenti con gli stereotipi più profondamente radicati che li riguar­ davano: gli ebrei erano, secondo la vulgata antigiudaica, i traditori e gli assassini di Cristo. Inutile ribattere con l’ovvia obiezione che furono i romani e non gli ebrei a crocifiggere (l’ebreo) Gesù, perché chi ha in odio i giudei è impermeabi­ le a una simile argomentazione. A partire da queste premes­ se, nel corso dei secoli gli ebrei si trovarono periodicamente a coprire il ruolo di ammortizzatori delle tensioni sociali, bersagli mobili della violenza di folle spesso artatamente istigate che, non riuscendo a identificare le cause dei propri malanni, si rivalsero su obiettivi più accessibili.

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Testimonianze eccellenti

Accanto agli articoli antigiudaici, La difesa della razza propo­ ne un’altra tipologia di interventi, solitamente raccolti nella sezione “Documentazione”, volti a celebrare le gesta e le idee degli antisemiti del passato: tra questi, figurano alcuni dei massimi rappresentanti della cultura classica ed europea, da Cicerone a Kant, da San Tommaso156 a Voltaire157. Lo scopo di questi articoli è di dimostrare che, se gli ebrei han­ no da sempre suscitato reazioni ostili, allora sono loro i veri responsabili dell’antisemitismo. Di nuovo, il meccanismo è quello del ribaltamento del rapporto vittima/persecutore. Dopodiché, si tratterà di decidere quale estensione sia più opportuno dare al concetto di cultura europea. Che Voltaire fosse antisemita sarà pur vero, ma che senso ha invocare il campione deH’illuminismo francese come fonte autorevole del pensiero razzista? In prospettiva fascista, diventa priorita­ rio andare a scovare le radici italiane dell’antisemitismo. Le epigrafi dantesche poste su tutte le copertine della Difesa del­ la razza {Sempre la confusion delle persone principio fu del mal della Cittade [Paradiso XVI], sostituita dal secondo numero in poi con la più sferzante Domini siate, e non pecore matte, si che’ il Giudeo di voi tra voi non rida! [Paradiso V]), seppure sradicate dal loro contesto originario, assolvono in parte a questo compito. I “Pensieri di Leopardi”, rubrica fissa della Difesa della razza dal numero II, 2 [20 novembre 1938] al nu­ mero IV, 3 [5 dicembre 1940] offrono estratti dello Zibaldo­ ne molto tangenzialmente collegati ai temi della rivista. Occorre scavare più a fondo e provare a rintracciare le radici dell’antisemitismo nel cuore della romanità classica. L’ideale sarebbe di riuscire a dimostrare che i romani (di cui gli odierni fascisti sarebbero gli eredi diretti) si sono sempre contrapposti polemicamente agli ebrei, imperniando la pro­ pria identità razziale sul conflitto con questi eterni nemici. Così facendo, l’antisemitismo fascista emergerebbe come la prosecuzione naturale dell’antisemitismo romano, e si di­ mostrerebbe una volta per tutte che «/« fatto di razzismo e di antigiudaismo gli italiani non hanno avuto né avranno biso276

di andare a scuola da chicchessia» (Almirante, “Roma an­ tica e i giudei”, Difesa della razza I, 3). Tuttavia ci sono molti indizi che sembrano suggerire che gli ebrei furono presenze generalmente tollerate da Roma (ad esempio si sa che Giulio Cesare rispettava l’osservanza delle prescrizioni ebraiche ed esonerava gli ebrei dal pagare i tributi allo Stato durante l’anno sabbatico), e che in certi periodi essi intrattennero rapporti di tranquilla e prospera collaborazione con le autorità come con le popolazioni lo­ cali. Ciò sembra indicare che, se pure vi furono periodi di tensione tra romani ed ebrei (in particolare in coincidenza con la conquista romana della Galilea, la rivolta degli zeloti, la distruzione del Tempio di Gerusalemme e la conseguente diaspora), questi siano attribuibili perlopiù a fattori politici contingenti, e non siano perciò equiparabili all’atteggiamen­ to di assoluto rifiuto che invece contraddistingue l’antisemitismo successivo. Ma una volta sancito il principio secondo cui la storiografia ufficiale è contaminata dalla volontà (ebraica) di diffondere un’immagine annacquata della ro­ manità («Si è dipinta Roma - concezione tipicamente ebraica - come la Nuova York dei tempi antichi: un immenso cro­ giuolo di civiltà, di riti, di razze», Almirante, ibid.), si posso­ no minimizzare gli indizi dissonanti per sostenere che, di­ versamente da quanto si legge sui libri di scuola, i rapporti tra ebrei e romani furono sempre intensamente ostili. A so­ stegno di questa tesi si possono citare alcune frasi di Cicero­ ne, Tacito, Seneca e Giovenale che rivelano un’antipatia ver­ so le istituzioni e le abitudini degli ebrei.

Roma e gli ebrei Giorgio Almirante, “Roma antica e i giudei”, Difesa della razza I, 3: 27-30 (5 settembre 1938)

...I Romani non fecero mai mistero del loro profondo di­ sprezzo per i giudei. Disprezzo più che naturale se si pensa che, allora come oggi, ebreo era sinonimo di senzapatria. [...] C’era un contrasto insanabile fra il Romano, devoto all’idea

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dello Stato, incline a far prevalere gl’interessi della collettività su quelli del singolo; e la moltitudine di giudei che affluivano nei centri più ricchi dell’Impero, sfruttando ogni occasione per conquistar privilegi e ricchezze e spalleggiandosi a vicen­ da per eludere la severa disciplina statale. «Gli ebrei vendono per poca moneta spicciola quali sogni vuoi tu» scrive Giovenale (Sat. VI) con l’amara incisività a lui consueta. [...] Dello stesso disprezzo, reso più acuto dalla visione profon­ da dei fatti storici, risuona la parola di Tacito «Le altre loro (de­ gli ebrei) istituzioni- egli scrive (Storie V, 5) - sinistre e turpi, si sono mantenute per la loro perversità. Infatti i più disonesti, di­ sprezzate le patrie religioni, accumulavano forti tributi in denaro là donde fu accresciuta la potenza dei giudei, poiché tra di loro la fede è tenace, la solidarietà è sempre in atto, ma contro tutti gli al­ tri nutrono odio di nemici. Mangiano separatamente, dormono separatamente e, razza quanto mai portata alla libidine, si asten­ gono dall’incrociarsi con altre razze; tra di loro, peraltro, nulla è giudicato illecito. Hanno stabilito di circoncidersi, per distinguer­ si. Coloro che adottano i loro costumifanno lo stesso, e in primis­ simo luogo apprendono a disprezzare gli dei, a spogliarsi d’ogni amor patrio, a tenere a vili i genitori, i figli, ifratelli». È superfluo far notare quanto le parole di Tacito siano at­ tuali e quanto, di riflesso, ne risulti fondata l’accusa che si muove agli ebrei, d’avere cioè in ogni tempo, con il loro fero­ ce esclusivismo, provocato quelle reazioni di cui tanto si dol­ gono. [...] Motivi religiosi e politici acuirono la istintiva avversione dei Romani contro i giudei - «Razza che si distingue per il di­ sprezzo degli dei» - li definisce Plinio il Vecchio (XIII, 9, 5); e la sua frase sintetizza assai bene l’atteggiamento dei Romani nei confronti dei riti giudaici. [...] E ancor più significativo è il fatto che Seneca, il quale non parla né in bene né in male dei cristiani [...] si esprima in ter­ mini roventi contro i giudei: «Quella scelleratissima razza egli dice (v. S. Agostino - Città di Dio, VI, 11 ) - è stata ormai accolta in ogni parte del mondo; e si può ad essa applicare il det­ to dell’Orazio: i vinti hanno dettato legge sui vincitori». [...] Tra i maggiori avversari dei giudei, per precisi motivi poli­ tici, fu Cicerone [...] nell’orazione pronunciata in difesa di Fiacco, tratto in giudizio per aver sequestrato l’oro giudaico, cioè l’oro che da ogni parte dell’Impero gli ebrei inviavano a

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Gerusalemme, con il pretesto di offrire doni al tempio, ma in realtà per accrescere la loro potenza finanziaria.138 [...] «Tu sai [o Lelio] quanto sia grande la loro influenza, la solida­ rietà fra di essi, e come sia estesa la loro potenza nelle nostre as­ semblee. Parlerò a voce sommessa, affinché i soli giudici mi odano. Già sapete come non manchino persone le quali eccitano questi giu­ dei contro di me, e non voglio dar pretesti alla loro malevolenza. Era consuetudine tutti gli anni di trasportare dall’Asia e dal­ le provincie a Gerusalemme dell’oro raccolto dai giudei; un edit­ to di Fiacco vietò tale esportazione ai giudei asiatici. Chi non lo­ derà simile provvedimento? [...] Ugni città, o Lelio, ha la propria religione, noi la nostra, e Gerusalemme la sua. Quando i giudei erano in pace con noi, e la città di Gerusalemme prosperava, noi trovavamo le cerimonie e i sacrifici suoi indegni della maestà dell'Impero, dello splendore del nostro nome e delle istituzioni dei maggiori. Lo sono ancora più oggi, che quella gente, facendoci guerra, manifestò di quali sensi fosse animata verso la repubblica: e gli dei immortali, per­ mettendo fosse vinta e fatta tributaria, dimostrarono in quale conto deve essere tenuta». Non è possibile esporre più chiaramente la nostra posizio­ ne di fronte al giudaismo; «nostra», diciamo, perché la voce di Cicerone è la voce di Roma, cioè della nostra razza e della ci­ viltà da essa creata. [...] Vi fu dunque sempre un insuperabile, e spesso drammati­ co, contrasto fra la romanità - la «vera» romanità e non quel­ la annacquata dalla pseudocultura internazionalistica - e giu­ daismo. Il che dimostra ancora una volta che in fatto di razzismo e di antigiudaismo gli italiani non hanno avuto né avranno bisogno di andare a scuola da chicchessia.

In effetti, le citazioni in questione esprimono la parte più maldisposta della ampia gamma di atteggiamenti del mondo romano nei confronti degli ebrei. Secondo Peter Schäfer (1999) , ciò che impensieriva alcuni esponenti della classe di­ rigente romana era la resilienza ebraica, e cioè il fatto che nonostante le loro ripetute sconfitte politiche e militari gli ebrei (come gruppo) fossero riusciti a riprendersi e a riscuo­ tere successi. La religione e le usanze ebraiche esercitavano nna notevole attrattiva nella società romana, al punto che molte persone vollero convertirsi alla religione degli ebrei, e

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ciò a dispetto del fatto che essi non usassero fare proseliti­ smo attivo - al contrario, l’accusa che veniva loro rivolta più frequentemente (fin dal III secolo a.C.) era di volersi tenere separati dagli altri popoli. Di conseguenza, Cicerone, Taci­ to, e gli altri autori romani che ebbero da ridire sugli ebrei vedevano questi ultimi come una minaccia per i costumi e i valori tradizionali di Roma. Ma i sentimenti antigiudaici ma­ nifestati dagli autori latini non erano che un elemento all’in­ terno di una costellazione di antipatie verso gruppi ritenuti difficilmente assimilabili e potenzialmente sovversivi (tant’è vero che Tacito esprimeva giudizi almeno altrettanto severi contro i cristiani). Invece Almirante vuole dimostrare che vi sono degli stretti legami di continuità tra l’avversione per gli ebrei espressa dagli autori latini citati (e, per estensione indebita, da tutto il mondo della romanità classica), da un lato, e l’antisemitismo contemporaneo dall’altro. Ma si guarda bene dall’inquadrare le citazioni nelle loro coordinate storiche, perché così facendo metterebbe a repentaglio la contrappo­ sizione che egli postula tra l’Eterno Ebreo e l’Eterno Roma­ no (si osserva nel brano riportato l’abbondanza di espressio­ ni volte ad appiattire il passato sul presente: «allora come oggi», «in ogni tempo», «sempre»).

Nonostante la rivendicazione di autarchia razzista, appe­ na un mese dopo esce sulla Difesa della razza un articolo in cui il ruolo di testimonial illustri viene affidato a Kant, Fich­ te, Schopenhauer e Herder che, rispetto ai romani, sembra­ no offrire qualche spunto antisemitico in più. Nei quasi due millenni che separano Cicerone da Kant la rappresentazio­ ne denigratoria dell’Ebreo passa attraverso diverse fasi sto­ riche e si incrosta di nuove stratificazioni, la cui conoscenza è indispensabile per inquadrare le invettive dei filosofi tede­ schi nel contesto culturale da cui scaturiscono. Se la principale causa di risentimento del mondo classico nei confronti degli ebrei riguardava il loro separatismo (il ri­ fiuto di associarsi agli altri culti, di mangiare come gli altri, di sposarsi con i non-ebrei, eccetera), interpretato come segno 280

Si arroganza e di misantropia, con l’avvento del cristianesimo l’ostilità contro l’ebraismo acquistò caratteri più marcati e si fece più sistematica, in particolare dopo il IV secolo quando cominciò a diffondersi l’accusa di deicidio e, con essa, una se­ rie di rappresentazioni ingiuriose, tra cui le imputazioni di carnalità e di avidità, volte a rafforzare l’idea che gli ebrei fos­ sero ostinatamente determinati a non riconoscere la Rivela­ zione di Cristo. Ma per diversi secoli la competizione tra i due monoteismi si giocò prevalentemente su argomentazioni teo­ logiche, e dunque coinvolse fasce ristrette della popolazione. È dal XI secolo in poi - ossia dall’epoca delle prime cro­ ciate - che l’antigiudaismo dottrinario cedette il passo a una forma più virulenta di antisemitismo propriamente detto: con le crociate arrivarono gli eccidi, i primi ghetti, le restri­ zioni giuridiche (per effetto delle quali in molti paesi gli ebrei si trovarono costretti a esercitare mestieri come l’usu­ ra), e poi le conversioni forzate, le espulsioni, il tutto ac­ compagnato da una batteria di nuove accuse, perlopiù fan­ tasiose, mirate a giustificare le esplosioni di violenza di cui gli ebrei erano fatti ciclicamente oggetto. Una delle conseguenze della ghettizzazione fu raggravar­ si dell’ignoranza che circondava le tradizioni e i riti ebraici, attorno ai quali cominciarono a circolare voci sempre più al­ larmistiche: ad esempio, durante la Peste del 1348 si diffuse la diceria secondo cui gli ebrei si sarebbero serviti dei leb­ brosi per diffondere le malattie tramite l’avvelenamento dei pozzi. Ammantata di fosco mistero, la figura dell’Ebreo tal­ mudico e cabalista venne assimilata, nell’immaginario popo­ lare, a quelle del diavolo e della strega (non a caso si impie­ gava la parola “sabba” - o “sabbat” - per riferirsi ai convegni notturni di streghe e demoni), con le quali condivideva i trat11 di empietà, oscenità, lussuria e scelleratezza. Nel 1542 Martin Lutero - che vent’anni prima aveva futilmente tentato di convertire gli ebrei all’amore cristia­ no con un libello intitolato Gesù Cristo è nato ebreo 1523)139 _ pubblicò due pamphlet violentemente giueofobici140 in cui ammoniva i tedeschi che «convertire un bre° è facile quanto convertire il Diavolo. Perché un 281

Ebreo, un cuore ebreo, è duro come un bastone, come la pie­ tra, come il ferro, come il Diavolo stesso. In poche parole, sono figli del Diavolo, condannati alle fiamme dell’Infer­ no»^1. Come unico possibile rimedio Lutero proponeva quindi di bruciare le sinagoghe, sequestrare i libri ebraici, ed espellere gli ebrei dalle terre dei cristiani. Le sue invet­ tive accesero nuove vampate di odio antiebraico in Ger­ mania e nei paesi dell’Europa centrale. E più i toni della propaganda si facevano aggressivi (dando luogo a reazioni a catena di soprusi e violenze: privazioni dei diritti, ucci­ sioni, espulsioni...), più le comunità ashkenazite si chiude­ vano su se stesse, accentuando la propria tendenza al sepa­ ratismo (ma a questo punto non si trattava più di una scelta, bensì di un’imposizione) e fossilizzandosi su tradi­ zioni e usanze arcaiche le quali a loro volta alimentavano i peggiori pregiudizi antisemiti. Nel 1602 venne stampato a Leida il Breve racconto e descrizione di un Ebreo di nome Ahasvero che riprendeva la leggenda medioevale dell’ebreo errante, condannato da Gesù a vagare ramingo per il mondo fino al giorno del Giudizio come castigo per avergli rifiutato aiuto sul Golgota. Il racconto riscosse un notevole successo (otto edizioni tedesche nel solo 1602) e fu tradotto in tutte le lingue europee, dando avvio a una lunga serie di rivisita­ zioni (la più famosa della quali sarà il romanzo di Eugène Sue, Le juif errant, 1844-5, una delle fonti letterarie dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion) e introducendo nella rappresentazione dell’Ebreo il motivo della diaspora co­ me punizione divina.

L’ebreo errante Giuseppe Cocchiara, “La leggenda dell’ebreo errante”, Difesa della razza IV, 16: 6-8 (20 giugno 1941) Diffusasi nel Medio Evo, lasciando ovunque una sua trac­ cia e una sua eco, la leggenda dell’Ebreo errante è stata ravvi­ sata in alcune lezioni che ci hanno lasciato l’Anonimo italiano

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della Cronaca Ignoti monachi cistercensis S. Maria de Ferrarla, il cronista inglese Matteo Paris e il cronista fiammingo Filippo Mousket. Nella Cronaca Ignoti monachi ci viene narrato che nel 1223 «fu visto in Armenia un certo Giudeo, il quale, avendo assisti­ to alla passione di Cristo, ebbe a dire, rivolto a Gesù: Vade, se ductor, ad recipiendum quod mereris. Al che Gesù rispose: Ego vado, et te expectahis donee revertur». Il Paris, nella sua Storia d’Inghilterra racconta, a sua volta, «che un vescovo armeno venendo in Inghilterra nel 1228 parlò ai monaci di S. Albano d’un tal Cartafilo già portiere del pretorio di Pilato, che al passar di Gesù col peso della croce, percotendolo nella schiena, gli disse, irridendo, di camminar più forte, e Gesù gli rispose: Io vado, ma tu aspetterai che io torni. Ed egli non è più morto, ed aspetta; ed ogni cento anni arriva in fin di vita, ma poi ritorna all’età di trent’anni quanti ne aveva quando negò Cristo». Secondo la lezione, raccolta nella Cronica poetica di Filip­ po Mousket di Tournay, «Cartafilo avrebbe detto ai crocifissori, mentre il corteo passava dinanzi alla sua porta: Aspettatemi, vengo anch’io a vedere mettere in croce il falso profeta·, e Gesù gli avrebbe risposto: Essi non ti aspetteranno, ma tu mi aspet­ terai». [...] Lo stesso Paris era convinto che tale leggenda si fosse dif­ fusa daU’Oriente, e con maggiore precisione dall’Armenia. Senonché, anche ad ammettere tale provenienza, sta di fatto che la leggenda, quale ci viene raccontata dai tre cronisti (italiano, inglese, fiammingo), soltanto in Italia ha per protagonista un ebreo. Nel racconto del Paris, invece, noi ci troviamo davanti a un romano al servizio di Pilato, il quale nega audacemente la divinità del Cristo, onde è da questi condannato a vivere sem­ pre finché si ravveda nel giorno del giudizio finale. [...] Dalle brevi note, attraverso le quali abbiamo seguito la storia dell’Ebreo errante si vede, dunque, quale importan­ za abbia avuto l’Italia nella formazione della sua leggenda, nata, evidentemente, da una recita apocrifa. Senonchè - ci si può ora domandare - quale significato nasconde tale leggenda. Il primo antenato dell’Ebreo errante è stato ravvisato, da qualche studioso, in Caino, dopo il suo delitto fuggitivo e va­ gabondo sulla terra. Il Giudeo errante, ha scritto lo Schoebel,

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assorbe in lui Caino, Wodon, Rudra, Serse, lo stesso Gesù Cri­ sto. E la sua leggenda, ha aggiunto lo stesso Schoebel «è lo sta­ to della guerra, lo stato originale dell’Umanità». Senonchè, co­ me è stato bene osservato, e noi facciamo nostra tale osservazione, «se alcuno ha capito bene la relazione del Giu­ deo errante colla guerra e colla pace ce ne dia, in grazia, avvi­ so anche in lettera non affrancata!». Altri, e forse con più ragione, vi ha ravvisato il destino dei figli di Giuda, «perseguitati e maledetti pel deicidio». E la'leg­ genda, sotto questo punto di vista, viene a consacrare la puni­ zione d’un uomo, e con essa quella d’una razza, destinata da Dio a non avere pace nel mondo.

Ma nel frattempo qualcosa stava cambiando nei rap­ porti tra gli ebrei e le istituzioni. Nonostante le restrizioni subite, alcuni ebrei particolarmente intraprendenti riusci­ rono a sfruttare il ruolo economico che era stato loro asse­ gnato ai margini della società per accumulare cospicui pa­ trimoni. Si trattava di un’esigua minoranza, perché la maggior parte degli ebrei dell’Europa centrale continuava a vivere miseramente negli shtetl, ma era una minoranza sufficientemente affermata da dare nell’occhio e da susci­ tare acute reazioni di invidia e di diffidenza. È a partire dal XVII secolo che, attratti dall’immagine dell’Ebreo-Mida, diversi sovrani europei cominciarono ad avvalersi dei ser­ vizi dei cosiddetti “ebrei di corte”, figure a metà strada tra consiglieri e finanziatori, che possiamo considerare come i prototipi dello stereotipo dell’ebreo capitalista, spregiudi­ cato e intrallazzatore di cui tanto si parlerà nella propa­ ganda antisemita dei secoli successivi. Tra questi, il caso più clamoroso fu probabilmente quello di Süss Oppenhei­ mer, l’influente consulente finanziario del duca cattolico Carlo Alessandro di Württemberg, la cui (di Süss) contro­ versa ascesa si interruppe nel 1738 quando, accusato di avere amministrato in modo irregolare le finanze del duca­ to, venne processato sommariamente dall’assemblea pro­ testante delle corporazioni e - al suo rifiuto di convertirsi al protestantesimo - impiccato a Stoccarda tra le grida fe­ stose di “Morte all’ebreo!”. 284

L’ebreo Süss esposto alla berlina, in una gabbia di ferro DR 1,5:9 (5 ottobre 1938)

Questi sono, a volo d’uccello, alcuni degli episodi che formano il retroterra storico e ideologico su cui si stagliano le citazioni di Kant, Fichte, Schopenhauer e Herder riporta­ te senza commento nel numero I, 5 della Difesa della razza. Che cosa dimostrano queste citazioni? Di per sé non molto, se non che (per motivi che andrebbero approfonditi a par­ te) anche Kant, Fichte, Schopenhauer e Herder provavano sentimenti astiosi verso gli ebrei. Nell’ottica della Difesa del­ ta razza, invece, esse assumono la funzione di sentenze inap­ pellabili, la dimostrazione ultima della validità delle tesi anttsemite. Non importa in che modo questi brani si concilino con gli impianti filosofici degli autori in questione, così co­ me non sembra importare se la scelta di citare questi pensa­ tori in veste di autorità indiscusse in materia di razzismo sia ° meno in linea con le scelte ideologiche della rivista (altroVe Kant verrà incluso - da Evola - nella lista nera dei «czrc°nctst dello spirito»).

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I filosofi tedeschi e gli ebrei “Gli ebrei visti da...”, Difesa della razza, 1,5:24-25 (5 otto­ bre 1938) Kant: “Gli ebrei che vivono tra di noi, per il loro spirito di usura, godono una reputazione di ingannatori che nella mag­ gior parte dei casi è ben fondata. A vero dire, sembra strano fi­ gurarsi tutta una nazione di ladri; ma è altresì strano immagi­ nare una nazione composta esclusivamente di trafficanti che disdegnano di essere cittadini del paese che li ospita, e a que­ sto antepongono il vantaggio che essi trovano a ingannarne gli abitanti” (Antropologie in pragmatischer Hinsicht}. Fichte: “In quasi tutti i paesi d’Europa si stende uno Stato potente e nemico, che vive in guerra continua con tutti gli al­ tri, e grava spaventosamente sui cittadini: questo Stato è il giu­ daismo. Io non credo che esso sia così terribile unicamente perché forma uno Stato a sé, separatista e strettamente affra­ tellato, ma sì perché questo Stato si fonda ed è costruito sul­ l’odio contro tutto il genere umano. Da un popolo che vede in tutti gli altri popoli i discendenti di quelli che lo scacciarono dalla sua patria [...] gli ebrei vogliono avere i «diritti dell’uo­ mo» anche se li rifiutano a noi (e si può ben vederlo nella leg­ ge talmudica). Ma per dar loro i «diritti del cittadino», io non vedo altro mezzo che questo: bisognerebbe in una sola notte tagliar la testa a tutti e metterne loro un’altra sulle spalle, nel­ la quale non ci fosse una sola idea giudaica. E per salvarci da essi io non vedo ancora che un mezzo, ed è di conquistare per loro la terra promessa e di mandarceli tutti” (Berichte zur Be­ richtigung der Urtheile über die franzoesische Revolution}·, Schopenhauer: “L’ebreo errante non è altro che la perso­ nificazione dell’intero popolo d’Israele. Poiché egli ha mortal­ mente peccato contro il Messia salvatore del mondo, egli non sarà mai alleviato del fardello della sua pena e di più dovrà pe­ regrinare senza patria tra i popoli stranieri. Questo è il vero delitto, questo è il destino del piccolo popolo ebreo che, cosa meravigliosa, buttato fuori dalla sua patria duemila anni fa, sussiste sempre e continua ad agitarsi, mentre tanti popoli grandi e gloriosi, nel confronto dei quali una razza simile non merita neanche di essere nominata, gli Assiri, i Medi, i Persia­ ni, se ne sono andati a riposo eterno e sono interamente scom­ parsi.. . ” (Kleine philos. Schriften}

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Herder:...“in breve, si tratta di un popolo la cui educa­ zione è del tutto mancata; esso non ha mai raggiunto la ma­ turità di una cultura politica nata nel suo stesso territorio, e quindi mai il vero sentimento dell’onore e della libertà. Nel­ le scienze alle quali i suoi migliori elementi si sono dedicati, esso ha dato sempre prova di certe facoltà organizzative e di adattamento, piuttosto che della libera attività di uno spiri­ to creatore. Quanto alle virtù patriottiche, la sua condizione politica ne lo ha sempre privato. Da secoli e quasi dalla sua nascita, il popolo di Dio è una «pianta parassita» sul ceppo delle altre nazioni, una razza di trafficanti astutissimi, di­ spersi su tutta la terra, e che non ha mai provato il desiderio né il bisogno di avere una patria. I giudei sono la pianta pa­ rassita che si è attaccata a quasi tutte le nazioni d’Europa, e che ha succhiato da esse più o meno della loro sostanza vi­ tale. Dopo la caduta dell’antica Roma, essi erano relativa­ mente poco numerosi in Europa, ma la persecuzione degli arabi ve li ha cacciati a folle. E poco verosimile che essi ab­ biano portato la lebbra in Europa, ma fu una lebbra ancor peggiore questa nazione di cambiavalute, di trafficanti, di valletti di re e di ignobili strumenti di usura” (Ideen zur Ge­ schichte der Menscheit).

L’internazionale ebraica Una quarta categoria di interventi include gli articoli dedi­ cati all’attualità, nei quali compaiono le varie imputazioni ri­ volte ai sionisti/massoni/comunisti/capitalisti del presente, accusati di perseguire un progetto segreto e tentacolare per conquistare il mondo. Rientrano in questo gruppo le deounce dell’influenza ebraica sul mondo della finanza, della Politica, del giornalismo, dell’editoria, dell’educazione, dela scienza e dell’arte.

Francesco Scardaoni, “L’ombra giudaica sulla Francia”, difesa della razza I, 3: 33-34 (5 settembre 1938) Lo spirito giudaico aveva già cominciato a dominare in Europa, dopo un lungo periodo di manovre oscure, con la

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Riforma. Quando nel secolo XVI le più atroci lotte religiose insanguinarono le nazioni ariane, fu lo spirito giudaico, come affermò uno scrittore ebreo, Bernard Lazare, che trionfò col protestantesimo. Ma questo stesso spirito conseguì la sua più grande vittoria con la rivoluzione francese. Nel convent di Wilhelmsbad, di cui nella storia si parla troppo poco, e che eb­ be luogo nel 1782 gli ebrei-massoni approvarono il piano del­ la rivoluzione e condannarono a morte Luigi XVI. Scopo es­ senziale della rivoluzione doveva essere il riconoscimento del diritto di cittadinanza agli ebrei, il quale era sempre stato ne­ gato dalla Monarchia. Infatti la qualità di francesi fu ricono­ sciuta agli ebrei di Francia dall’Assemblea Costituente il 27 settembre 1791. [...] Napoleone che per una ragione di umanità fece aprire tut­ ti i ghetti di Europa doveva tuttavia prendere posizione contro gli ebrei. Nel Consiglio di Stato del 6 aprile 1806 egli disse: «Noi dobbiamo considerare gli ebrei non soltanto come una razza distinta, ma anche come un popolo straniero. Per la na­ zione francese sarebbe una umiliazione troppo grande essere governata dalla razza più bassa del mondo». Vana preoccupazione quella del Bonaparte; proprio que­ sto doveva avvenire in modo definitivo con la Terza Repubbli­ ca. Nel 1936 poi, un ebreo, il signor Karfunkelstein, detto al­ trimenti Léon Blum, per la prima volta nella storia della Francia assumeva la direzione del governo. Gli ammazzamenti, i massacri, le congiure possono parere cose di tempi lontani per quanto niente impedisce loro di ri­ prodursi ad un determinato momento. L’ebraismo però ha at­ tualmente altro da fare; esso penetra sempre più profonda­ mente, giorno per giorno, nel sangue del popolo francese come una lue lenta e inguaribile. Tutti i centri più vitali della nazione, come s’è visto nelle esemplificazioni più sopra citate, sono già nelle mani degli ebrei. Il respiro della Francia è un re­ spiro ebraico.

Aldo Bomba, “La Nazione d’Israele e la Massoneria”, Di­ fesa della razza 1,5: 41-42 (5 ottobre 1938)

L’odiato Goy (in lingua ebraica vuol dire «bestia da pa­ scolo», ma è un termine dispregiativo usato dai giudei per in­ dicare i gentili) divenne così, attraverso la macchina massoni-

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ca, l’inconscio servitore dell’ebreo untuoso e usuraio. Ed ec­ co perché la Massoneria, non ostante che nei suoi statuti par­ li di «tolleranza» e di «rispetto di tutte le opinioni religiose», non ostante che proclami «La libertà assoluta di coscienza», manca sempre di rispetto per uno stato di coscienza, quello Cristiano. Anzi conduce una guerra fanatica contro il Cattolicesimo, che è la più solida concentrazione dello spirito Cristiano e che ha sempre costituito uno degli ostacoli più potenti alla penetrazione ebraica nel mondo. Ecco perché in tutti i paesi nei quali questa setta nefanda impera, l’ebraismo è protetto ed aiutato dovunque e comun­ que. Basti l’esempio della Francia, dove grazie alla Massoneria onnipotente, molti posti di comando sono oggi nelle mani dei figli di Sion, che spadroneggiano così in ogni settore della vita nazionale francese...

Aldo Bomba, “Bolscevismo di marca ebraica”, Difesa del­ la razza I, 6:52 (20 ottobre 1938) Nella seconda metà del secolo XIX Baruch Levi, scri­ vendo a Carlo Marx, affermava che per raggiungere la si­ gnoria d’Israele sul Mondo era indispensabile unificare prima le altre razze, distruggere le frontiere e le monar­ chie, istituire su questo mucchio di rovine una repubblica mondiale. Veniva così per la prima volta esposto il programma che oggi l’internazionale ebrea cerca di realizzare, soprattutto con la propaganda e la diffusione fra le masse della dottrina co­ munista. Non può quindi destare meraviglia, se anche la rivoluzio­ ne russa, che ha tentato, con l’esito che ben conosciamo, di applicare le utopie marxiste, sia stata voluta, preparata ed ef­ fettuata dagli ebrei [...]. Possiamo quindi concludere, senza timore di smentita, ehe l’Idra bolscevica, che minaccia il mondo, è di natura ebraica, che tutti gli strumenti atti a creare le basi della rivo­ luzione mondiale sono semiti, e che per difenderci da Mosca e dalla sua dottrina di morte, occorre prima di ogni cosa pre­ servarsi con ogni mezzo dall’infiltrazione sionista nella vita nazionale.

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“Ebraismo e fascismo”, Difesa della razza I, 6:58 (20 otto­ bre 1938)

Costituita nella Russia sovietica una formidabile pedana di lancio per i propri principi sovvertitori, gli ebrei passarono al­ la seconda parte del programma, che potrebbe dirsi la parte tattica o diplomatica, dando vita a quella ibrida creatura che è la Società delle Nazioni e servendosi di essa come di uno stru­ mento utile ad una pacifica e ben dissimulato penetrazione in ogni parte del mondo [...] L’ingiusta pace di Versaglia, da cui nacque Ginevra, fu an­ ch’essa manipolazione dell’ebraismo Per capire, del re­ sto, fino a qual punto l’ebraismo abbia influito sulla formula­ zione della pace bisogna tener presente che Lloyd George è di origine ebraica; che Wilson a Parigi era ospite di un ebreo e aveva un segretario ebreo, come Lloyd George e Clemenceau, e che il solo ammesso ai segretissimi colloqui dei quattro du­ rante la conferenza era l’ebreo Mantoux.

Gli ebrei hanno provocato due guerre DR IV, 20: 9 (20 agosto 1941)

Tutti questi interventi fanno capo a un testo-archetipo, 1 Protocolli dei Savi Anziani di Sion, più volte citati dalla rivi­ sta come prova definitiva della colpevolezza degli ebrei. La vera storia dei Protocolli è risaputa142, ma vale la pena rac290

contarla una volta di più, data la centralità che questo docu­ mento assume nelle strategie argomentative dei difensori della razza di ieri (e di molti antisemiti di oggi).

La storia dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion L’origine del mito della cospirazione ebraica risale a tempi remoti: fin dal Medioevo vi era chi mormorava che la Spa­ gna moresca ospitasse un governo rabbinico segreto, esper­ to nelle arti della magia nera, le cui ramificazioni si estende­ vano a ogni angolo d’Europa. Fu verso la fine del Settecento che la voce fu riesumata e adattata alle esigenze del nuovo contesto storico. Un’epoca di grandi rivolgimenti sociali sta­ va infatti affrancando gli ebrei dai ghetti di tutta l’Europa occidentale, concedendo a essi quei diritti di cittadinanza che fino ad allora erano stati loro preclusi. Molti ebrei ac­ colsero con entusiasmo le trasformazioni in atto, non chie­ dendo di meglio che di vivere come i loro concittadini, an­ che a costo di rinunciare a una buona parte della propria specificità culturale e religiosa. Il desiderio di assimilazione era talmente forte che non è irragionevole ipotizzare che, se non ci fosse stata una nuova ondata di antisemitismo, nel gi­ ro di poche generazioni l’identità ebraica si sarebbe stempe­ rata nelle singole identità nazionali, perlomeno nei paesi più disposti a garantire uno statuto paritetico alle minoranze. Ma ecco che, dopo la Rivoluzione francese, la rappre­ sentazione demonologica dell’ebreo (mai completamente caduta in disuso, soprattutto nelle zone rurali culturalmen­ te più arretrate) cominciò ad amalgamarsi con le inquietu­ dini ingenerate dalle trasformazioni sociali in corso. Vaste Porzioni della popolazione europea assistevano con sgo­ mento ai cambiamenti che stavano investendo l’occidente birbanizzazione, industrializzazione, nascita della borgheS1a capitalistica, liberalismo, laicismo, democrazia). Per al­ cuni, gli ebrei emancipati apparivano come i simboli dell’aoorrita modernità: essi vivevano perlopiù nelle città, dove erano stati concentrati dai tempi dei ghetti; per forza di co­ 291

se alcuni di essi si erano specializzati in quei rami delle atti-: vita commerciali e professionali destinati a fungere da trai-: no delle nuove economie, ma che proprio per questo desta- · vano invidia e sospetto; molti, soprattutto tra i giovanij manifestavano una tendenza a militare in campo liberale ej democratico, schierandosi dalla parte di chi garantiva lorodiritti e libertà. E in questo contesto che sull’antica ostilità verso gli ebrea si innestò un’altra configurazione mitica: quella che attri­ buiva un potere occulto alle sette massoniche. L’occasione per l’innesto fu fornita dalla pubblicazione del Mémoire pour servir à l’histoire du jacobinisme (1797) dell’abate Bar-, ruel, in cui la Rivoluzione francese veniva descritta come l’atto culminante della cospirazione dei Templari per di­ struggere le democrazie e il papato al fine di ottenere la do­ minazione mondiale. Barruel non faceva ancora accenno agli ebrei, ma nel 1806 egli ricevette una lettera di un certo capitano Simonini, il quale sosteneva di essere stato infor­ mato da un gruppo di ebrei torinesi che da secoli la “setta giudaica” (che stava a capo di tutte le sette anticristiane) tramava nell’ombra per distruggere il cristianesimo e con­ quistare il mondo. La lettera, probabilmente scritta dagli: agenti di Fouché per screditare la comunità ebraica france­ se con la quale nel 1806 Napoleone aveva stretto legami di collaborazione, racchiude il nocciolo del mito della cospira­ zione giudaico-massonica143. Quest’ultimo assumerà carat­ teri di volta in volta diversi, che variano dai toni apocalittici adottati da Gougenot des Mosseaux (1869) nel profetizzare l’imminente avvento dell’Anticristo e dei suoi accoliti (gli “ebrei cabalisti”), a quelli più fattivi impiegati da OsmanBey nella Conquête du monde par les juifs in cui, mentre at­ taccava l’Alliance Israélite Universelle (istituzione fondata a Parigi nel 1860 per fornire assistenza agli ebrei perseguitati), prefigurava la soluzione finale quale unico rimedio contro la cospirazione ebraica. Anche l’Italia diede il suo contributo alla propagazione del mito, grazie a una serie di articoli usci­ ti nell’ultimo decennio dell’Ottocento sulla Civiltà cattolica, dalle cui pagine i gesuiti (capeggiati da padre Ballarmi) de-

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ounciavano una congiura giudaica mirante ad abbattere il cristianesimo per sostituirgli il deismo e l’anarchia144. 1 diffusori della teoria del complotto giudaico-massonico si avvalsero con molta disinvoltura di tutti gli scritti che con­ fermavano la loro ipotesi (comprese le opere di finzione) e, all’occorrenza, non esitarono a fabbricare da sé i documen­ ti di cui necessitavano. In questo senso è esemplare l’intrec­ cio di realtà e finzione che sta alla base della genesi dei Pro­ tocolli, al di sotto dei quali è possibile rinvenire una stratificazione di testi: I misteri del popolo di Sue, un capito­ lo del Biarritz di Goedsche (1868), a sua volta tratto da una scena del Giuseppe Balsamo di Dumas, un libello scritto da Maurice Joly nel 1864 contro Napoleone III, una riscrittura del medesimo libello da parte di Elie Cyon ai danni del con­ te russo Sergej Witte e, infine, un terzo adattamento del te­ sto in questione a opera di Raéhovskij (capo dell’Okhrana, la polizia segreta zarista) in cui le idee deprecabili ivi conte­ nute sono attribuite ai Savi di Sion145. La nostre conoscenze delle circostanze della fabbricazione dei Protocolli sono frammentarie e congetturali. Sappiamo che una versione del testo dei Protocolli circolava già nella Russia del 1903: questa versione era stata pubblicata dal giornalista-pogrozró'^ (istigatore professionale dei pogrom) Pavolavi Kruševan in una rivista di San Pietroburgo, senza men­ zione della fonte, ma con la precisazione che il documento originale era scritto in francese e aveva il titolo di Verbali delUnione Mondiale dei Massoni e degli Anziani di Sion. Nel 19>05 il manoscritto francese finì nelle mani del mistico russo Sergej Nilus, autore di un libro intitolato II grande e il piccolo: '■Anticristo è una possibilità politica imminente. Ma chi gli aveva fatto recapitare il manoscritto? Nel 1909 Nilus confidò a conte Alexandre du Chayla146 che esso gli era stato consegHato da Raéhovskij. All’obiezione di du Chayla che RaéhovsklJ aveva la fama di essere un falsario e un impostore, Nilus rispose che Dio può mettere in una bocca mendace l’annunC1azione del vero. Ad ogni modo, fu in appendice all’edizione el 1905 del suo libro che Nilus pubblicò i Protocolli.

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Il risultato dell’intricato palinsesto è un testo di un cen­ tinaio di pagine, suddiviso in ventiquattro capitoli e firmato dai “rappresentanti di Sion del 33° grado”. L’enunciatore è un misterioso Grande Vecchio che, rivolgendosi in prima persona a un’assemblea di anziani (i Savi di Sion, appunto), espone i risvolti di un diabolico complotto millenario per la conquista del mondo. Nel terzo protocollo si legge: «Oggi vi posso assicurare che siamo a pochi passi dalla nostra meta. Ri­ mane da percorrere ancora una breve distanza e poi il ciclo del Serpente simbolico - emblema della nostra gente - sarà com­ pleto. Quando questo ciclo sarà chiuso, tutti gli stati europei vi saranno costretti come da catene infrangibili. Gli equilibri sociali ora esistenti andranno presto in sfacelo perché noi li al­ teriamo continuamente allo scopo di logorarli.» Con quali mezzi i Savi di Sion progettano di istituire il lo­ ro super-governo-ombra? Anche su questo punto, i Proto­ colli sono spudorati: «con mezzi indiretti, subdoli e fraudo­ lenti» (XI). La mano invisibile dell’ebraismo internazionale - spiega il Vecchio ai Savi - è in azione dovunque e dapper­ tutto: «Notate il successo di Darwin, di Marx e di Nietzsche, che fu interamente preparato da noi (II). E ancora: Per impa­ dronirci della pubblica opinione dovremo anzitutto confon­ derla al massimo grado mediante la espressione da tutte le parti delle opinioni più contraddittorie, affinché i gentili si smarriscano nel labirinto delle medesime» (V); «Nessuna informazione giungerà al pubblico senza essere stata prima controllata da noi» (XII); «fummo noi che, col più completo successo, facemmo girare le teste scervellate dei gentili, colle nostre teorie di progresso, verso il socialismo» (XIII). Le stes­ se persecuzioni antisémite farebbero parte del Piano: «Al momento attuale, se un governo assume un atteggiamento a noi ostile si tratta di una pura formalità; esso agisce essendo noi pienamente informati del suo operato e col nostro consen­ so, accordato perché le dimostrazioni anti-semitiche ci sono utili per mantenere l’ordine fra i nostri fratelli minori» (IX); «Pur avendo sacrificato molta nostra gente, abbiamo dato al nostro popolo una posizione tale nel mondo, che esso non si

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sarebbe mai sognato di raggiungere. Un numero relativamen[e piccolo di vittime da parte nostra ha salvato la nostra na­ zione dalla distruzione» (XV); e così il complotto si espande [n tutte le direzioni, dall’inoculazione di malattie letali alla riforma del sistema universitario, dalla manomissione dell’e­ conomia mondiale alla costruzione di una rete di metropolitane in tutte le capitali europee da far saltare in aria con­ temporaneamente al momento opportuno. Chiunque sia dotato di un minimo di lucidità coglie su­ bito l’assurdità dei Protocolli: a parte ogni altra considera­ zione, la situazione descritta ricorda certe storie per ragazzi in cui, dopo una rapina, i malviventi si riuniscono nel covo per rievocare con dovizia di particolari le varie fasi del col­ po a tutto vantaggio del detective nascosto. Ciò nonostante in un primo momento i Protocolli vennero presi sul serio in Europa come negli Stati Uniti (dove ebbero tra i più attivi propagandisti Henry Ford). Diffusi in Russia dai pogromtčiki all’inizio del secolo, e tradotti nelle varie lingue europee nei primi anni Venti, essi divennero presto un classico dell’antisemitismo mondiale. Ad alimentare il loro mito presso gli ambienti reazionari della Russia bianca contribuì la noti­ zia del ritrovamento di una copia del libro di Nilus nell’ulti­ ma residenza della zarina Aleksandra Fedorovna, prima che questa venisse assassinata assieme al resto della famiglia im­ periale il 17 luglio 1918: un dettaglio che alcuni nostalgici del regime zarista interpretarono come l’ennesimo indizio ehe i Savi di Sion fossero i responsabili ultimi della rivolu­ zione d’ottobre. Fu proprio per vendicare la zarina che, giunto in Ger­ mania alla fine del 1918, Fedor Viktorovič Vinberg - ex-co­ lonnello della guardia imperiale fuggito dalla fortezza di Pietro e Paolo dove era stato rinchiuso dai bolscevichi per attività controrivoluzionarie - dedicò tutte le sue energie alla propagazione delle tesi dei Protocolli. Secondo la rico­ struzione di Cohn, a Berlino Vinberg conobbe un capitano ln pensione, tal Ludwig Müller, al quale consegnò una co­ pia dell’edizione del 1911 del libro di Nilus. Müller, già fer295

vente antisemita, tradusse i Protocolli in tedesco e li pub­ blicò nel gennaio del 1920 con il titolo di Die Geheimnisse der Weisen von Zion (I segreti dei Savi di Sion). Fu così che i Protocolli fecero il loro ingresso in Germania dove, pochi anni dopo, vennero adottati da Hitler con le conseguenze che sappiamo. In Inghilterra i Protocolli furono pubblicati anonimi con il titolo The Jewish Perii e lanciati da giornali a caccia di sen­ sazioni: Γ8 maggio del 1920 uscì sul Times di Londra una recensione in cui, mantenendosi apparentemente neutrale rispetto al dibattito sull’autenticità, il recensore anonimo si stupiva di fronte alle straordinarie coincidenze storiche che sembravano dare ragione alle profezie dei Savi, e conclude­ va con la richiesta di un’indagine imparziale che gettasse lu­ ce sull’origine di questo documento.

“The Jewish Peril, A Disturbing Pamphlet: Call for In­ quiry”, London Times (8 maggio 1920)

... Cosa sono questi ‘Protocolli’? Sono autentici? Se sì, quale malevola assemblea ha ideato questi piani, e si è com­ piaciuta della loro esposizione? Sono contraffatti? Se sì, da dove deriva l’enigmatica nota profetica, profezia in parte rea­ lizzata, in parte in via di realizzazione? Abbiamo forse com­ battuto durante questi tragici anni a distruggere e sradicare l’organizzazione segreta per il dominio tedesco del mondo, soltanto per scoprire al di sotto di essa un’altra organizzazio­ ne, più pericolosa perché più segreta? Siamo sfuggiti alla ‘Pax Germanica’, tendendo fino allo spasimo ogni fibra del nostro corpo nazionale, per cadere in una Pax Judaica’? Gli ‘Anziani di Sion’, quali sono rappresentati nei loro ‘Protocolli’, non so­ no certo padroni meno esosi e più cortesi di quanto non sa­ rebbero stati Guglielmo II e i suoi seguaci. Tutte queste domande, che probabilmente si imporranno all’attenzione del lettore del ‘Jewish Perii’, non possono esse­ re spazzate via con una scrollata di spalle, a meno di non vole­ re rafforzare la posizione del tipico antisemita e dare adito al­ la sua accusa preferita di ‘cospirazione del silenzio’. Un’indagine imparziale di questi presunti documenti e della loro storia è quanto mai auspicabile. Questa storia non è affat-

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to chiara dalla traduzione inglese. Dall’evidenza interna sem­ brerebbe che essi siano stati scritti da ebrei per ebrei, o che siano stati pensati in forma di conferenze, e appunti per con­ ferenze, da ebrei per ebrei. Se così fosse, in quali circostanze sono stati prodotti e per rispondere a quale emergenza interebraica? Oppure dovremmo lasciar perdere l’intera faccenda senza ulteriori indagini e lasciare che l’influenza di un tale li­ bro agisca indisturbata?

Pochi mesi dopo, nell’agosto del 1921, il Times fece pub­ blica ammenda con tre articoli scritti da Philip Graves in cui si dimostrava che interi brani dei Protocolli erano stati pre­ levati dal Dialogue aux enfers entre Montesquieu et Machia­ vel (il libello contro Napoleone III scritto da Maurice Joly nel 1864). Altri studi dei primi anni Venti approfondirono e confermarono l’ipotesi del plagio, la quale ricevette un’ulte­ riore ratifica nel 1934-5, in occasione di un processo tenuto­ si a Berna contro alcuni membri del Fronte Nazionale sviz­ zero che ebbe grande risonanza internazionale. Ma intanto la menzogna era stata propagata e, agli occhi di chi aveva in­ teresse a mantenerla attiva, le smentite apparivano come al­ trettante conferme che l’internazionale ebraica stesse cer­ cando di insabbiare lo scandalo147.

I Protocolli arrivano in Italia

In Italia i Protocolli uscirono nel 1921, editi dalla rivista di Giovanni Preziosi La Vita Italiana, con il titolo Llnternazionale Ebraica. Protocolli dei «Savi Anziani» di Sion, versione italiana con appendice. Nell’introduzione, Preziosi liquidava ■I dibattito sull’autenticità con una formula frettolosa: «O il documento è autentico, o esso fu compilato su varii documen­ ti autentici e su informazioni sicure, dando a queste membra sparse una unità di corpo». Evidentemente egli era al corren­ te delle tesi di chi contestava l’autenticità del documento, ma era determinato a non farsi turbare da simili quisquilie: «•un’altra questione, meno formale e più sostanziale, s’impone: quella della loro veridicità».

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Giovanni Preziosi, Introduzione alla prima edizione ita­ liana dei Protocolli dei «Savi Anziani» di Sion (febbraio 1921) Uomini siate, e non pecore matte, Sì che 7 giudeo tra voi di voi non rida. (Dante: Par. c. V; v. 80, 81)

Il Times di Londra Γ8 maggio 1920 dava un largo sunto dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”, annunziando che questi furono pubblicati in Russia a Tsarkoye Sielo nel 1905 e che la biblioteca del British Museum ne possedeva una copia col timbro di entrata del 10 agosto 1906, n. 3926 d 17. L’autorità del giornale richiamava sulla pubblicazione l’at­ tenzione degli studiosi e degli uomini politici, l’opinione pub­ blica ne fu commossa e le edizioni si vennero moltiplicando mentre quelle esistenti si diffondevano rapidamente. Tra que­ ste le più notevoli sono: quella tedesca di Gottfried Zur Beek: Die Geheimnisse der Weisen von Zion (I misteri dei saggi di Sion) edita a Charlottenburg dall’Auf Vorposten (1919,4° pic­ colo pp. 256) con una importante bibliografia sulla quistione ebraica, e due edizioni inglesi, la prima edita sui primi del 1920 a Boston (Small Majnard and C.), la seconda edita a Londra (The Britons: 62 Oxford Street) Protocols of the Lear­ ned Elders of Zion. Sono poi seguite numerose edizioni in Francia, Polonia, ecc. Una grave quistione si è dibattuta recentemente sull’au­ tenticità dei Protocolli. Noi non vogliamo dissimularla, sia per omaggio alla verità, sia perché i poco scrupolosi non ne abusi­ no. Anzi noi eviteremo di voler risolvere quella quistione nel senso formale, e d’altronde la discussione è troppo lunga e complessa perché qui possiamo riprodurla, tanto più che vi sono sempre convinti sostenitori d’ambo le parti. A mo’ di esempio rammenteremo questo punto: il fatto indiscutibile in­ nanzi accennato che i Protocolli furono pubblicati in Russia nel 1905 (l’anno seguente il British Museum ne registrava una copia) è citato dagli assertori dell’autenticità come una prova, giacché nessuno potrà dire che la prodigiosa realizzazione odierna dei Protocolli sia il volgare trucco di una opera stam­ pata après coup con una data anteriore. I negatori dell’autenti­ cità citano questo stesso fatto per la loro tesi, dicendo che quando in Russia comparvero i Protocolli, e poi furono ripub-

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blicati, essi non furono presi in considerazione dagli stessi giornali e circoli antisemiti russi che pur avevano tutto l’inte­ resse di farlo: segno, dicono i negatori della autenticità, che si sapeva esser quello un prodotto della celebre “Okhrana”. Come vedono i nostri lettori, c’è da continuare per un pez­ zo sulla stessa strada. Ebbene noi taglieremo corto con questa semplice affermazione: il suddetto dibattito verte material­ mente sull’autenticità propriamente detta del documento, cioè se realmente gli “Anziani di Sion” si siano radunati nel ta­ le anno e luogo, ed abbiano redatto, parola per parola, quei Protocolli. Ma un’altra quistione, meno formale e più sostan­ ziale, s’impone: quella della loro veridicità. Nessuno nega che un programma reso pubblico nel 1905 abbia oggi il suo pieno, stupefacente, spaventoso adempimen­ to, e non solo in genere ma in molti punti particolari. O il do­ cumento è formalmente autentico, od esso fu compilato su varii documenti autentici e su informazioni sicure, dando a queste membra sparse una unità di corpo. Ora, ogni onesto e intelligente lettore troverà che nell’uno e nell’altro caso il documento è prezioso. E come tale lo pre­ sentiamo al pubblico italiano. Quando nel 1905 il professor Sergyei Nilus rivelava, con la pubblicazione dei Protocolli, il piano di conquista politica del Sionismo ribelle ed oppresso, era ben lungi dal supporre che quindici anni dopo - la sua pubblicazione sarebbe apparsa co­ me la voce profetica alla quale il mondo ebbe il torto di non dare a suo tempo ascolto. Oggi una parte del terribile piano è attuata.

Per chiarire l’argomentazione escogitata da Preziosi in favore dei Protocolli (ovvero, in favore della loro attendibi­ lità), occorre innanzitutto soffermarsi sul significato dei due concetti - autentico e veridico - su cui essa si fonda. In storiografia, quando si dice che un resoconto è veridico si ■ntende che la sequenza dei fatti che esso riferisce è (ragio­ nevolmente) conforme al modo in cui si presume che si sia­ no svolti gli eventi in questione. Quando invece si discute snll’d«ie«//«'tó di un documento, la posta in gioco non è più la verità o meno dei fatti, bensì la corretta identificazio­ ne dell’autore e la ricostruzione delle circostanze di stesura del testo. Dunque un documento autentico (cioè attribuito 299

correttamente a un certo autore) potrebbe mentire, come avviene ogni volta che un testimone depone il falso148. D’al­ tra parte un documento non autentico o contraffatto, per quanto falsamente attribuito potrebbe dire delle cose vere sul mondo. Preziosi sfrutta questa distinzione per sganciare il dibat­ tito sulla veridicità da quello sull’autenticità. Ma dovrebbe essere chiaro che le due questioni, seppur concettualmente distinte, nella pratica sono strettamente collegate: le indagi- ’ ni filologiche che sfociano nei giudizi sull’autenticità o me­ no di un documento servono a creare un contesto entro il quale collocare il documento prima di decidere se sia o me­ no veridico. Se si scopre che le fonti da cui proviene una certa notizia sono notoriamente faziose o inattendibili, o peggio ancora che il documento su cui la notizia fa intera­ mente perno è il frutto di un plagio, è naturale (o quanto­ meno auspicabile) che il giudizio sulla veridicità del reso­ conto ne risulti intaccato; altrimenti chiunque potrebbe sostenere qualsiasi cosa sulla base di documenti fabbricati a tavolino. Quando uno storico sostiene che una certa ricostruzio­ ne dei fatti è veridica, quello che in effetti vuole dire è che, in base ai documenti149 di cui dispone, essa appare più plausibile (più coerente, più esaustiva, più economica) ri­ spetto a tutte le altre ricostruzioni in lizza. In assenza di una simile documentazione, Preziosi chiama in causa la «prodigiosa realizzazione odierna» dei Protocolli come pro­ va definitiva della loro veridicità150: scritti e/o diffusi nel 1905, non importa da chi e con quali finalità specifiche, il piano annunciato dai perfidi Savi si sarebbe realizzato compiutamente una quindicina di anni dopo. Così, la pro­ fezia dei Protocolli si sarebbe rivelata talmente esatta da far cadere in secondo piano la banale questione della loro non-autenticità. La prima edizione italiana dei Protocolli si conclude con una nota intitolata “E in Italia?...” in cui Preziosi punta il dito contro gli ebrei italiani e la loro supposta posizione do­ minante nei settori più strategici della vita del paese. 300

Giovanni Preziosi, “E in Italia?...”, conclusione della prima edizione italiana dei Protocolli dei «Savi Anziani» di Sion (febbraio 1921) ...Essi, pur essendo tra noi una minuscola minoranza non più di cinquantamila - posseggono in Italia una posizione predominante, in quanto sono preposti alle direttive dei cen­ tri nervosi della vita nazionale. Basta, per accorgersene, dare all’intorno un’occhiata anche fugace. Gli Ebrei sono, in Italia, alla testa della grande banca; danno una percentuale altissima di membri ai consigli di amministrazione delle nostre Società Anonime; sono numerosi tra i membri del Senato e della Ca­ mera dei Deputati; occupano i primi e i più importanti posti nelle nostre Amministrazioni di Stato. Nel campo dell’inse­ gnamento sono numerosissimi, e alcune facoltà delle nostre Università sono diventate una loro privativa. Hanno nelle ma­ ni quasi tutte le case editrici librarie d’Italia. Molta parte dei giornali quotidiani sono nelle loro mani, e non è un mistero per nessuno l’incetta che, proprio in questi giorni, la banca ebraica sta facendo di quelli fra i maggiori dei nostri giornali che erano fuori del suo controllo. Si aggiunga, che i maggiori e i più influenti demagoghi, come i più attivi agitatori della classe lavoratrice, sono Ebrei o sotto l’influenza ebraica. Né si dimentichi, che tutte le iniziative affaristiche, anche quelle a tinta patriottica, hanno alla loro testa un Ebreo.

Per inciso: la tesi della “sovrarappresentazione”, cioè del­ la marcata presenza ebraica in alcuni settori professionali, viene qui presentata come una prova schiacciante dell’esi­ stenza della cospirazione. È forse superfluo indicare che co­ sa c'è di sbagliato in questo ragionamento. Dire che gli ebrei sono marcatamente presenti in un certo settore non significa che tale settore sia esclusivamente o in buona parte in mano agli ebrei, ma che - rispetto all’esiguità della componente ebraica (una frazione di percentuale della popolazione italiana) - la proporzione di ebrei è più alta del previsto. Ad esem­ pi, Israel e Nastasi (1998: 157) ricordano come alla vigilia della promulgazione delle leggi razziali i professori universi­ tari «di razza ebraica» costituissero il 7 % del contingente to­ tale dei professori italiani. Lo stesso tipo di rapporto squili­ brato tra la percentuale complessiva e la percentuale riferita 301

a singole categorie professionali si ritrova in altri ambiti del­ la vita culturale e intellettuale del paese (tra cui l’editoria e il giornalismo), oltre che nei settori delle attività finanziarie e commerciali. Come mai? Si tratta di un fatto abbastanza sor­ prendente da richiedere una giustificazione. Preziosi ravvisa nella sovrarappresentazione i sintomi del­ la cospirazione. Ma ci vuole un bel salto logico per passare dalla constatazione che gli ebrei sono marcatamente presen­ ti in certi settori alla conclusione che essi siano coinvolti in un piano per il dominio mondiale. È molto più ragionevole pensare che, per una serie di motivi storici facilmente docu­ mentabili, nel corso dei secoli gli ebrei si siano specializzati nelle poche professioni a loro concesse, e che abbiano perciò sviluppato una spiccata competenza in questi settori: da qui, ad esempio, la loro marcata presenza nel mondo della cultu­ ra, oltre che della finanza e del commercio151. Per quanto ri­ guarda la cultura e la scienza, l’origine della sovrarappresen­ tazione va ricercata nello studio delle Sacre Scritture che da secoli fa parte dell’insegnamento religioso impartito ai ragaz­ zi ebrei, insegnamento al quale si deve l’alfabetismo presso­ ché totale del “popolo del Libro” fin da un’epoca in cui la maggioranza degli europei non sapeva leggere né scrivere. Imperniato su metodi esegetici che stimolavano il pensiero analitico, lo studio delle Sacre Scritture fornì agli ebrei una tradizione di ragionamento che poteva essere coerente con lo studio delle materie filosofiche e scientifiche. Con l’emanci­ pazione ebraica della fine del Settecento diversi ebrei, final­ mente liberi di partecipare attivamente alla vita sociale, ri­ versarono le proprie energie intellettuali e le proprie competenze specifiche nei vari settori delle attività culturali.

Nonostante gli sforzi di Preziosi, l’impatto culturale dei Protocolli in Italia rimase relativamente modesto, e comun­ que circoscritto agli ambienti dell’antisemitismo tradiziona­ le, fino alla metà degli anni Trenta. Nel 1937 uscì una nuova edizione la quale - avvantaggiata dalla svolta antisemita del Regime - destò un interesse molto maggiore. Seguirono a ruota altre tre edizioni. 302

Prendiamo in mano una copia della quinta edizione inti­ tolata, con profusione di virgolette, Einternazionale ebraica: j “Protocolli” dei “Savi Anziani” di Sion. La copertina ci informa che siamo arrivati alla ragguardevole cifra di sessantamila copie stampate. Aprendo il volume troviamo un frontespizio composto da due riquadri nei quali sono ripor­ tate le epigrafi che fungono da raccomandazioni alla lettura: una è tratta dal Mein Kampf (1924), l’altra da una recensio­ ne uscita sul numero di Gerarchia dell’aprile del 1938. Di quest’ultima c’è poco da dire: in barba alle obiezioni degli storici e dei filologi, si prende per buono il falso documento e, senza ulteriori indugi, si ringrazia Preziosi per avere av­ vertito tempestivamente gli italiani della minaccia incom­ bente: «La pubblicazione afferma l’esistenza di una Interna­ zionale ebraica avente un centro direttivo, la cui opera è rivolta inesorabilmente ad un piano definito: l’avvento di un regno ebraico internazionale». Il brano di Hitler è invece in­ teressante perché ci fa capire bene da dove provengano e dove conducano certi argomenti in difesa dei Protocolli:

Adolf Hitler, Epigrafe della quinta edizione italiana dei «Protocolli» dei «Savi Anziani» di Sion (1938)

Il modo con cui tutta l’esistenza di un popolo può regge­ re su una menzogna eterna è posto mirabilmente in chiaro dai «Protocolli dei Savi Anziani di Sion», che gli ebrei perse­ guitano col loro odio più profondo. «Essi si fondano su una falsificazione», lamenta piagnucolando la «Gazzetta di Fran­ coforte»: ed in ciò sta la miglior prova che sono veri. Ciò che molti ebrei saprebbero fare inconsciamente, è qui consape­ volmente dichiarato. Ed è quel che importa. Non importa invece sapere da quale cranio giudaico siano uscite tali rive­ lazioni; è essenziale però il fatto che essi scoprano con or­ renda sicurezza la natura e l’attività del popolo ebraico, e li espongano nei loro rapporti intimi e nei loro scopi finali. La miglior critica è fatta naturalmente dalla realtà. Colui che esamini lo sviluppo storico degli ultimi cento anni, alla luce di questo libro, capirà subito la ragione delle alte grida leva­ te dalla stampa giudaica. Quando questo libro diventerà

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breviario di tutto il popolo il pericolo ebraico potrà essere considerato scomparso. HITLER, «Mein Kampf» Vol. I, cap XI

Segue (a pagina 7) una breve premessa in cui Preziosi, in veste di curatore del volume, racconta con orgoglio paterno le vicende dei Protocolli in Italia.

Giovanni Preziosi, Premessa alla quinta edizione italiana dei «Protocolli» dei «Savi Anziani» di Sion (1938)

Lettore, «I Protocolli dei Savi Anziani di Sion furono da me pubblica­ ti per la prima volta in Italia nel febbraio del 1921. Nel fascicolo di settembre del 1923 de «La Vita Italiana» li ripubblicai per la seconda volta. Nell’ottobre del 1937 ne curai una nuova edizione che si esaurì rapidamente in quattro mesi. Nel febbraio del 1938 vide la luce la terza edizione, alla quale seguì una edizione specia­ le - quarta - destinata a istituti pubblici e del Partito. La presen­ te è la quinta edizione e, come le precedenti, è una ristampa fede­ le della prefazione, traduzione dei «Protocolli» ed appendice della edizione del febbraio 1921. Questo va tenuto ben presente. Sono aggiunti alla ristampa: a) la introduzione; b) il documento di G. B. Simonini tolto da «La Civiltà Cattolica»; c) il capitolo «L’autenticità dei “Protocolli” provata dalla tradizione ebraica»; d) l’elenco dei cognomi di 9800 famiglie ebraiche in Italia. Nessun libro nel mondo è stato mai oggetto - complice ne­ cessaria la organizzazione libraria, pressoché tutta nelle mani degli ebrei - di tanto boicottaggio quanto i «Protocolli». Le edizioni italiane sono state particolarmente prese di mira, so­ pratutto per la documentazione da me raccolta nell’Appendi­ ce. Ciò non ostante il libro si è diffuso rapidamente e le edi­ zioni si susseguono a getto continuo. Conosco famiglie italiane che tengono custodito il libro religiosamente. Conosco italiani all’estero che l’han diffuso con fervore di apostoli.

Una spiccata vena mistica scorre nel testo di Preziosi, sintomo di un allontanamento dai metodi della dimostrazio­ 304

ne scientifica in favore di un’adesione acritica a certi dogmi posti come trascendenti. Preziosi è talmente offuscato dalla fede antisemita da non accorgersi di una conseguenza para­ dossale del suo discorso. Raccogliendo l’invito di Hitler di considerare i Protocolli come il «breviario di tutto il popo­ lo», egli rincara la dose e li eleva allo statuto di libro sacro da custodire «religiosamente» in casa e da diffondere per il mondo «con fervore di apostoli». Ma in che senso “con fer­ vore di apostoli”? Non erano i Protocolli il libro dell’Anti­ cristo? Supponendo che fossero autentici e che la storia di Nilus fosse vera, che senso avrebbe divulgare apostolica­ mente proprio il documento scritto dai cospiratori per gli altri cospiratori?152 Scatta in Preziosi un’identificazione con il nemico che lo porta a confondere i ruoli di vittima e di aggressore. Ogni volta che qualcuno reagisce all’aggressione antisemita, la rea­ zione difensiva della vittima viene interpretata come un’azio­ ne offensiva, e l’ipotesi del complotto viene rinfocolata. Una volta che l’ipotesi della cospirazione venga posta definitiva­ mente al riparo dai tentativi di confutarla (“è così e basta”), chiunque osi smontarla secondo le regole del metodo scien­ tifico viene tacciato di far parte della cospirazione stessa. Preziosi prosegue con il resoconto delle umiliazioni per­ sonali che ritiene di aver subito per mano ebraica. .. .Tutta la stampa ebraica mondiale e tutti i grandi giorna­ li infeudati all’ebraismo, sulla fede del giudeo dr. Biftor Gold­ schmidt, nel dicembre del 1928, stamparono con ricchezza di particolari i colossali titoli che i «Protocolli» erano stati, per ordine di Mussolini, interdetti in Italia e che il sig. Giovanni Preziosi che li aveva diffusi e pubblicati era stato, per ordine del Duce, internato in un manicomio. Il giornale «Deutsche Wochenschau», che per primo ave­ va divulgato la menzogna ebraica del dr. Goldschmidt, si ri­ fiutò di pubblicare la smentita, spontaneamente inviata da Friedrich Lock di Kassel; il quale inutilmente chiese la rettifi­ ca agli altri giornali infeudati alla «menzogna eterna». Fu l’«Illustrierter Beobachter» (1929 - Folge 8), che pubblicò due in­ tere pagine illustrate per documentare la menzogna e far sapere che io, invece che al manicomio, ero a Napoli, sano e

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vegeto come sempre, direttore dei giornali «Mezzogiorno» e «Roma», che ero anche direttore della rivista «La Vita Italia­ na» e che i «Protocolli», non ostante l’ostruzionismo della or­ ganizzazione ebraica libraria, erano in vendita e non erano mai stati «interdetti». Ma questo non è che un episodio; quando saranno note le testimonianze della lotta fatta a questo libro e si conosceranno i metodi di lotta adoperati contro chi ne fece la pubblicazione, si vedrà sempre meglio fin dove possono giungere, come ope­ rano, di quali mezzi e di quali uomini si servono le «forze oc­ culte» de! giudaismo basato sulla «menzogna eterna». Roma, 15 settembre 1938-XVI G. Preziosi

Così Preziosi. Addentrandoci nella lettura del volume troviamo una lunga introduzione di Evola (pp. 9-32) che co­ mincia così:

Evola e i Protocolli Julius Evola, Introduzione alla quinta edizione italiana dei «Protocolli» dei «Savi Anziani» di Sion (1938) L’importanza del documento, che «Vita Italiana» ora ri­ stampa, saprebbe difficilmente venire esagerata. Esso ha, co­ me pochi altri, il valore di uno «stimolante» spirituale rivelan­ do orizzonti insospettati e attirando l’attenzione su problemi fondamentali d’azione e di conoscenza, che soprattutto in queste ore decisive della storia occidentale non possono esse­ re trascurati o rimandati senza pregiudicare gravemente il fronte di coloro che lottano in nome dello spirito, della tradi­ zione, della civiltà vera. Due punti vengono particolarmente in risalto nei «Proto­ colli». Il primo si riferisce direttamente alla quistione ebraica. Il secondo ha una portata più generale e conduce ad affronta­ re il problema delle forze vere in atto nella storia. Perché il let­ tore si renda pienamente conto dell’uno e dell’altro punto, crediamo opportuno svolgere alcune considerazioni, indi­ spensabili per un giusto orientamento. Per un tale orientamento, occorre anzitutto affrontare il famoso problema della «autenticità» del documento, proble-

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ma, sul quale si è voluto tendenziosamente misurare la porta­ ta e la validità dello scritto. Cosa invero puerile. Si può infatti negare senz’altro l’esistenza di una qualunque direzione segre­ ta degli avvenimenti storici. Ma ammettere, sia pure come semplice ipotesi, che qualcosa di simile possa darsi, non si può, senza dover riconoscere che, allora, s’impone un genere di ricerca ben diverso da quello basato sul «documento» nel senso più grossolano del termine. Qui sta precisamente - secondo la giusta osservazione del Guénon - il punto decisivo, che limita la portata della quistio­ ne dell’«autenticità»: nel fatto, che nessuna organizzazione ve­ ramente e seriamente segreta, quale sia la sua natura, lascia die­ tro di sé dei «documenti» scritti. Solo un procedimento «induttivo» può dunque precisare la portata di «testi», come i «Protocolli». Il che significa che il problema della loro «autenti­ cità» è secondario e da sostituirsi con quello, ben più essenziale e serio, della loro «veridicità». Giovanni Preziosi, già sedici an­ ni or sono, nel pubblicare per la prima volta il testo, aveva ben messo in rilievo questo punto. La conclusione seria e positiva di tutta la polemica, che nel frattempo si è sviluppata, è la se­ guente: che quand’anche (cioè: dato e non concesso) i «Proto­ colli» non fossero «autentici» nel senso più ristretto, è come se essi lo fossero, per due ragioni capitali e decisive: Perché i fatti ne dimostrano la verità; Perché la loro corrispondenza con le idee-madre dell’E­ braismo tradizionale e moderno è incontestabile.

Fin dal principio si intuisce che c’è qualcosa che non funziona nel ragionamento di Evola, anche se ci vuole un certo impegno per districare i nodi logici del suo discorso. Evola accusa di tendenziosità coloro che pretendono di far chiarezza sulle circostanze della fabbricazione dei Protocolfi e giudica puerile l’insistenza con cui costoro si accaniscono sul documento per appurarne l’autenticità. Ma il motivo di tale accanimento dovrebbe essere evidente, se si conside­ ra ciò che i Protocolli pretendono di essere, e cioè un docu­ mento scritto da ebrei per altri ebrei coinvolti nel presunto complotto. È sulla scorta di questa attribuzione che scatta f accusa della cospirazione ebraica. Nel momento in cui, al contrario, si accerti che i Protocolli sono stati scritti (o com­ missionati) dagli agenti della polizia segreta zarista, il testo 307

cessa di essere un documento che rivela i piani segreti del­ l’internazionale ebraica e casomai diventa un documento che rivela i piani segreti dell’Okhrana. Ma Evola non è interessato ad approfondire questo aspetto perché, in controtendenza rispetto a Hitler e Prezio­ si, dichiara di non aver remore a scartare l’ipotesi «di una qualunque direzione segreta degli avvenimenti storici». Con questa concessione153, egli sta apparentemente negoziando con i propri avversari le condizioni per intavolare un dibatti­ to pacato e ragionevole: di qualunque cosa si discuterà, lo si farà evitando di definire la storia come il prodotto di un co­ lossale complotto. Salvo che, nello spazio di una riga, la que­ stione appena chiusa viene immediatamente riaperta, sia pu­ re a titolo di «semplice ipotesi». Si ammetta per un istante che esista una regia occulta della storia mondiale - dice Evola: chi ne volesse dimostrare l’esistenza dovrebbe avvalersi di mezzi che vanno ben al di là dei banali metodi della storio­ grafia scientifica, basati sull'interpretazione dei documenti. Il motivo per cui i metodi della storiografia scientifica non basterebbero per smascherare un’ipotetica direzione se­ greta della storia è che nessun manipolatore occulto degno di questo nome sarebbe talmente sprovveduto da lasciare die­ tro di sé una scia di prove incriminanti. Trapiantata dal mon­ do della pura ipotesi al mondo reale, questa osservazione non è altro che ciò che sostengono da tempo tutti coloro che negano l’autenticità dei Protocolli: prima ancora di dimo­ strare, prove alla mano, che questo documento è apocrifo, è la situazione stessa che esso mette in scena ad apparire po­ sticcia e inverosimile. Ciò ovviamente non autorizza a balza­ re alla conclusione che la regia occulta esista ma sia troppo scaltra per farsi scoprire, altrimenti qualunque vuoto indizia­ rio potrebbe essere impiegato come prova dell’esistenza di qualsiasi cospirazione, purché scaltra. Evola invece ne approfitta per slittare impercettibilmen­ te dal mondo possibile evocato dalla sua ipotesi al mondo dell’esperienza reale, proiettando indebitamente le caratte­ ristiche del primo sul secondo. Le conclusioni tratte da una premessa formulata per assurdo (“se ci fosse una direzione

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segreta della storia, allora gli ipotetici registi occulti sareb­ bero troppo scaltri per lasciare prove scritte delle loro male­ fatte”) si trasformano come per incanto in un dato di fatto su cui edificare nuove ipotesi (“siccome c’è una direzione se­ greta della storia, allora i reali registi occulti sono troppo scaltri per lasciare prove scritte”). Sull’onda di questo cor­ tocircuito logico, Evola si ricongiunge a Preziosi per intona­ re il ritornello secondo cui il problema dell’autenticità sa­ rebbe secondario rispetto a quello della veridicità. Non pago di avere tolto di mezzo l’annosa quistione, Evola si spinge oltre e tenta di riscattare i Protocolli dall’ac­ cusa di non-autenticità, sostituendo l’accezione ristretta di autenticità (che, nonostante le prove sfavorevoli, egli non esclude possa comunque applicarsi ai Protocolli) con un’ac­ cezione più larga e comprensiva: ammesso e non concesso che i Protocolli non siano autentici in senso stretto, è come se lo fossero. Anche il lettore più collaborativo a questo punto avverte l’esigenza di un supplemento di spiegazioni: in che cosa consiste questa accezione di autenticità che con­ sente di definire autentico un documento che schiere di esperti hanno stabilito essere contraffatto? La risposta di Evola si fa beffa del dizionario, limitandosi ad appiattire la definizione di autenticità su quella di veridicità. L’autenticità (in senso largo) dei Protocolli sarebbe comprovata dalla ve­ rità dei loro asserti; verità che si misurerebbe 1) rispetto ai fatti 2) rispetto alle idee che Evola attribuisce all’ebraismo. Ma prima di approfondire questi concetti Evola si sof­ ferma sulla cronaca del recente processo di Berna «onde il lettore sappia a che tenersi e non si lasci influenzare da infor­ mazioni tendenziose».

1...] Il processo di Berna non è stato che una manovra del­ l’Ebraismo internazionale, il quale ha tentato di servirsi della giustizia svizzera (o, per dir meglio, di un giudice svizzero marxista) per ottenere una specie di ratifica ufficiale giuridica deUa non-autenticità di questo documento, vera spina nell’oc­ chio di Israele. Che si sia trattato proprio di una manovra, risuJta dall’illegittimità stessa di sollevare, a Berna, la questione

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dell’autenticità dei «Protocolli». La corte di Berna, infatti, ave­ va accolto l’accusa avanzata da alcune comunità Israelite con­ tro un certo Silvio Schnell, che in una riunione nazionalista aveva diffuso alcune copie dell’edizione tedesca dei «Protocol­ li», in base all’art. 14 della Legge del Cantone di Berna, con­ cernente il sobillamento a mezzo della stampa e la letteratura immorale. Su questa base, dal punto di vista rigorosamente giuridico, la corte di Berna non avrebbe dovuto interessarsi af­ fatto del problema dell’autenticità, o meno, dei «Protocolli», ma sarebbe stata solo tenuta a decidere se i «Protocolli», veri o falsi che siano, fossero o no da condannarsi ai sensi della legge già citata, come scritto atto a sobillare una parte della popola­ zione svizzera contro l’altra. E l’Ebraismo che ha cercato di sviare il processo, concentrandolo sul problema dell’autenti­ cità del documento, per venire alla conclusione desiderata. E sono significative, a tale riguardo, le seguenti parole del Gran Rabbino di Stoccolma: «Questo non è un processo contro Schnell e i suoi compagni, ma quello di tutti gli Israeliti del mondo contro tutti i loro detrattori. Sedici milioni di Israeliti hanno gli occhi fissi su Berna». Dopo un annoso procedimento, il processo, in prima istanza, si chiuse con una condanna dello Schnell, dalla quale gli Ebrei trassero gongolanti la conseguenza, che i «Protocolli» erano ormai liquidati. Trionfo di breve durata. In seconda istanza (novembre 1937) il tribunale di Berna ha cancellato il precedente giudizio, ha prosciolto lo Schnell dall’accusa, ha condannato alle spese le comunità ebraiche accusatrici e ha dichiarato estraneo alle sue spettanze pronunciarsi come che sia sulla questione dell’autenticità. Ma la quistione era stata intanto sollevata nel primo pro­ cesso. Con che risultati? Di nuovo negativi. Il fronte ebraico aveva cercato di raggiungere i suoi fini con due principali mezzi: con delle false testimonianze e con la tesi del «plagio». Qui non possiamo entrare nei dettagli, e ci limiteremo a quanto segue: Una certa signora Kolb, già come principessa Radziwill convinta di truffa e di falso e condannata, depose in una testi­ monianza, abilmente concertata con quella di una sua amica e di un certo conte Du Chayla, personaggio esso stesso più che sospetto, paranoico, avventuriero e traditore, graziato della pena capitale, di sapere, che i «Protocolli» erano stati compi­ lati a Parigi verso il 1905 da tre agenti della polizia segreta rus-

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sa, allo scopo di fomentare la campagna antisemita. Ebbene, è risultato che questo testo già nel 1895 era in possesso di un certo Stephanoff, nel 1902 di Nilus e che nel 1903 era già usci­ to integralmente sul giornale russo «Snamja» - dunque due an­ ni prima della sua presunta compilazione a Parigi! Non solo: è stato dimostrato che nessuno dei tre personaggi russi - Rotshkowsky, Manuiloff e Golowinsky - si trovavano a Parigi nel­ l’epoca in cui, secondo la signora Kolb, essi avrebbero «in­ ventato» i «Protocolli». Il secondo punto riguarda la faccenda del «plagio». Nella quale si è introdotto un grave equivoco. Il problema del valo­ re dei «Protocolli», infatti, è ben diverso da quello di un’opera letteraria, ove è decisivo l’esame della sua originalità e del di­ ritto di qualcuno di considerarsene l’autore. E di ben altro che si tratta. Ora, già nel 1921 il Times aveva sollevata la quistione del plagio, pel fatto che il testo riproduce idee e frasi di un pamphlet di un certo Jolly (egli stesso semi-ebreo, rivoluziona­ rio e massone154), uscito nel 1865, trattante i mezzi da utilizza­ re per una politica machiavellica di dominio. Una tale corri­ spondenza - o «plagio» - è vera, e nemmeno si restringe alla sola opera di Jolly, estendendosi a diverse altre opere preesi­ stenti. Ma che cosa può dir questo? Per decidere la quistione, se i «Protocolli» corrispondano o no ad un programma formu­ lato da una certa organizzazione occulta pel dominio univer­ sale, anzitutto è indifferente che l’autore li abbia creati e stesi di sana pianta, ovvero che, per compilarli, si sia servito anche di idee e di elementi di altre opere, commettendo così, dal punto di vista «letterario», un plagio. La polemica antisemita ha effettivamente individuato tutta una serie di «fonti» o ante­ cedenti dei «Protocolli», le quali traggono la loro inspirazione generale da un’unica corrente di idee e riflettono, spesso in forme «romanzate», la confusa sensazione di una verità. Que­ sta verità è che tutto l’orientamento del mondo moderno ri­ sponde ad un piano stabilito e realizzato da una certa organiz­ zazione misteriosa. Per tal via, dal problema dell’«autenticità» ci si trova di nuovo respinti a quello della «veridicità». Circa il primo, il risultato del processo di Berna è dunque negativo·, all’accusa non è riuscito a dimostrare che i «Proto­ colli» sono falsi. Ma, giuridicamente, il difensore non è tenuto a dimostrare l’autenticità di un documento incriminato; è l’ac­ cusa che deve dimostrarne la falsità. E poiché malgrado ogni sforzo dell’Ebraismo [...] la prova di falsità non è riuscita, co-

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sì il campo è libero, e la quistione dell’«autenticità» è liquida­ ta, vale a dire, subordinata ad una prova duplice di carattere superiore, cioè, ripetendo: 1) alla prova attraverso i fatti; 2) al­ la prova attraverso l’essenza dello spirito ebraico.

Evola imputa alla comunità ebraica svizzera - e, per estensione, all’ebraismo internazionale - di avere sfruttato il processo di Berna per sancire legalmente la falsità dei Pro­ tocolli agli occhi dell’opinione mondiale. Ora, è evidente che gli accusatori di Silvio Schnell e degli altri membri del Fronte Nazionale di Berna si avvalsero della legge svizzera che proibiva la diffusione di scritti immorali per sollevare un caso giudiziario che dimostrasse pubblicamente la falsità dei Protocolli. Il fatto stesso che il rabbino di Stoccolma di­ chiarasse così apertamente (prendiamo per buona la citazio­ ne di Evola) le aspettative che gli ebrei riponevano su que­ sto processo dimostra quanto poco segreta fosse questa strategia. Ma, tenuto conto che la comunità ebraica svizzera era allarmata dal recente avvento al potere di Hitler nella confinante Germania, che Hitler stesso considerava i Proto­ colli come il documento-chiave con cui giustificare il pro­ prio antisemitismo, e che da decenni questo (falso) docu­ mento veniva fatto circolare dagli istigatori dei pogrom per scatenare le violenze contro gli ebrei, tutto sommato non è necessario chiamare in causa l’ipotesi della cospirazione per rispondere alla domanda “perché la comunità svizzera ave­ va interesse a bloccare la pubblicazione dei Protocolli?” - a meno di non definire cospirazione qualsiasi tentativo, da parte ebraica, di tutelare la propria incolumità. È vero anche che, nella sua deposizione come testimone dell’accusa, Alexandre du Chayla si era sbagliato (di qualche anno) nel datare la prima edizione dei Protocolli. Ma du Chayla ricostruiva l’intricatissima vicenda della genesi dei Protocolli sulla base dei dati frammentari di cui disponeva: dunque l’errore di datazione non intaccava la credibilità com­ plessiva della sua testimonianza, ma dimostrava soltanto che non era a conoscenza delle edizioni precedenti a quella cura­ ta da Nilus. Infine è vero che, mentre la sentenza del 14 mag-

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io 19-^5 aveva dato ragione all’accusa, decretando che i Pro­ tocolli erano falsi e che la loro diffusione era immorale, l’ap­ pello del 1937 si concluse con un’assoluzione. Ma il motivo dell’assoluzione era che la Corte d’appello aveva ritenuto che la legge svizzera sugli scritti immorali non fosse applicabile al easo dei Protocolli, e non certo che i Protocolli fossero auten­ tici, tant’è vero che la stessa Corte aveva aggiunto che “spet­ terà ad altre autorità di proibire, per ragioni di Stato, la pro­ pagazione di scritti di questo genere” e si era rifiutata di pagare i danni alla difesa in quanto “chiunque propaghi scrit­ ti calunniosi e oltraggiosi della peggiore grossolanità deve correre il rischio di essere citato a giudizio e di sopportarne le conseguenze”155. Se ne può concludere che “nella sostanza i giudici di Berna avevano confermato la tesi della falsità, ma formalmente la partita si chiudeva con un ambiguo pareggio che permetteva agli apologeti dei Protocolli di continuare a pretenderne l’autenticità” (Romano 1992: 101).

Passando alla «faccenda del ‘plagio’», Evola non esita a concedere che i Protocolli riproducano interi paragrafi trat­ ti dal pamphlet di Joly e da altri scritti preesistenti. Ciò che egli contesta è che l’accertamento di tali prestiti non dichia­ rati sia un dato rilevante ai fini del dibattito circa l’autenticità/veridicità dei Protocolli. Non lo è, obietta, perché i Protocolli non sono un’opera letteraria, dove è importante stabilire se un testo sia o meno originale in modo da poter decretare chi possa rivendicarne legittimamente la paternità: può darsi che l’artefice dei Protocolli si sia ispirato a te­ sti preesistenti, ma ciò non inficia minimamente il loro (dei Protocolli) valore documentario. Così dicendo, Evola ci invita a supporre che i Savi di ton (o chi per essi) abbiano attinto liberamente dalla libeltsttca ottocentesca, nonché da una serie di altre fonti lette­ rarie perlopiù di ispirazione antisemita, per rappezzare gli attl della loro riunione clandestina (ovvero per diffondere P^tizia del proprio piano — segreto - di conquista mondia£ Chiaramente si tratta di un’ipotesi poco plausibile, non °Ss altro che per la bizzarra scelta retorica dei presunti co313

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spiratori di accollarsi il ruolo dei cattivi che nel libello di Joly era assegnato a Napoleone III. A meno che, in linea con f quanto affermato nel Protocollo IX (anche le manifestazio­ ni di antisemitismo sono volute e innescate dalla cospirazio-e ne ebraica), la decisione di vestire i panni odiosi del despo­ ta non rientri anch’essa in una strategia escogitata dai cospiratori per confondere le menti dei gentili. Ma a questo punto l’ipotesi si farebbe così tortuosa, e così poco corrobo- 9 rata da prove, da esigere una risoluta passata con il rasoio di Occam. A rigor di logica, l’ipotesi che i plagiari fossero ebrei autolesionisti imbevuti di letteratura antisemita va so-9 stituita con quella, ben più economica, secondo la quale i plagiari erano antisemiti avvezzi a confezionare falsi docu­ menti per incriminare gli ebrei. Ecco alcuni dei motivi per cui, checché ne dica Evola, il | fatto che i Protocolli siano il frutto di un plagio ha parecchio a che fare con la dimostrazione che essi sono falsi (nel senso 1 di contraffatti) e suggerisce fortemente che essi siano l’ope- I ra di falsari antisemiti. Ma, a ben vedere, a differenza di Hi­ tler e di Preziosi Evola non afferma chiaro e tondo che gli artefici dei Protocolli sono necessariamente ebrei. Si rileg­ gano le ultime dieci righe del brano riportato sopra: per quanto ci si sforzi di disambiguare la prosa di Evola non si riesce a capire se, secondo lui, l’autore del plagio sia un agente della cospirazione (che per formulare il programma dell’organizzazione occulta a cui appartiene si sia servito di brani tratti da opere precedenti) oppure un antisemita (che per tradurre in testo la confusa sensazione che sia in atto una cospirazione si sia avvalso di fonti romanzate). Nel se­ condo caso, che equivarrebbe a un’ammissione del caratte­ re contraffatto dei Protocolli, si tratterebbe di dimostrare che l’antisemita artefice dei Protocolli ha messo insieme un documento che, per quanto plagiato e contraffatto, è veri­ tiero nei contenuti156. Solo a questa condizione si potrebbe mettere da parte li 1 problema dell’autenticità per dedicarsi in modo autonomo ä | quello della veridicità, ricorrendo a prove esterne per dimO' | strare una corrispondenza (al limite fortuita) tra i contenuti |

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del documento forgiato e la realtà dei fatti. Tranne che Evola non è disposto a riconoscere una volta per tutte che i Pro­ tocolli sono contraffatti, e gioca sul fatto che essi sono falsi in tre modi diversi (1. plagiati, 2. contraffatti e 3. menzo­ gneri) per rimescolare continuamente i piani del discorso, ora neutralizzando le distinzioni tra i diversi livelli, ora riat­ tivandole per sfruttarne le potenzialità retoriche157.

Riassumendo, in questa prima parte dell’introduzione le argomentazioni di Evola in favore dei Protocolli si ricondu­ cono a due princìpi fondamentali: (1) tutte le prove che ne­ gano l’autenticità/veridicità dei Protocolli sono irrilevanti; (2) chiunque metta in dubbio l’autenticità/veridicità dei Protocolli è implicato nella cospirazione. A sostegno di que­ ste tesi, Evola impiega un assortimento di strategie retoriche che vanno dalla delegittimazione preventiva degli avversari, nelle cui biografie egli rimesta alla ricerca di indizi che sug­ geriscano possibili nessi con l’ebraismo, allo sfruttamento dei piccoli errori commessi dai testimoni allo scopo di infi­ ciare il valore probatorio delle testimonianze complessiva­ mente intese (come nel caso di du Chayla). A volte Evola in­ troduce nel suo discorso sottili distinzioni che di per sé non dimostrano nulla, ma che servono a gettare il lettore in uno stato di disorientamento e di conseguente propensione ad accettare a scatola chiusa qualunque risposta che si presenti come semplice e risolutiva. Un’altra caratteristica dello stile di Evola è, come si è visto, la sua tendenza a mostrare un’i­ niziale disponibilità al confronto, tendendo la mano all’avversario, per poi ritrattare senza preavviso i punti concessi e Asciarsi perciò aperte tutte le scappatoie retoriche. E tuttavia, pur violando vistosamente le regole del gioco Scientifico, in tutta la prima parte dell’introduzione Evola pa­ ga un tributo formale a tali regole, e giustifica le proprie tesi snlla scorta di prove e dimostrazioni, per quanto viziate o spe­ ciose1 fo Già in questi primi paragrafi si trovano, è vero, alcunc anticipazioni della svolta anti-scientifica che egli è in pro­ cinto di imboccare, come quando giudica puerile e endenziosa l’importanza attribuita dalla comunità degli stori315

ci alla questione dell’autenticità, suggerendo che la ricerca sui Protocolli richieda un metodo «ben diverso da quello basato sul “documento" nel senso più grossolano del termine». Ma è solo a testo inoltrato che - come per eludere le possibili obie-I zioni che si sono accumulate a sfavore della sua tesi - egli esce allo scoperto e dichiara che le regole del gioco storiografico so- | no truccate, ovvero create ad arte dai cospiratori per distorce-1 re o nascondere la Verità: «In particolare, è importante ciò che i “Protocolli” dicono, nei riguardi di una mentalità pseudo-scien- ί tifica, creata unicamente ai fini del piano prestabilito: il cosid­ detto modo “scientifico" o “positivo” di fare la storia potrebbe rientrare esattamente in ciò e assolvere lo scopo di stornare si- I stematìcamente lo sguardo dal piano ove agiscono le vere cause». j Si apprezzi la circolarità dell’argomento: per attestare l’esistenza della cospirazione Evola si appoggia ai Protocol- j li; per dimostrare la veridicità dei Protocolli egli dà per scontata l’esistenza della cospirazione; infine, a chi gli fa no- ' tare che - in base ai princìpi del metodo scientifico, se non della logica comune - tale ragionamento non tiene, Evola ri- j sponde che, come si evince dai Protocolli, gli stessi princìpi del ragionamento scientifico sono opera della cospirazione e | vanno perciò scartati. Si potrebbe obiettare che in questo modo egli non solo sta rinunciando a dare alla propria in- : terpretazione un qualsivoglia aggancio empirico, ma cade in palese contraddizione rispetto alle premesse del suo stesso discorso nel momento in cui considera i Protocolli alla stre­ gua di un documento da cui sia lecito trarre informazioni sulle modalità della cospirazione in corso. Ma, avendo affer-1 maio che la «mentalità pseudo-scientifica» è viziata all’origi-1 ne, Evola si è auto-aggiudicato il diritto di contravvenire sfacciatamente a ogni principio logico (compreso quello di non-contraddizione) che non faccia al caso suo. Si scivola così verso la pars costruens dell’argomentazione.

[...] L’Ebreo Disraeli ebbe a scrivere una volta queste paro- S le significative: «il mondo è governato da tutt’altre persone che non si imaginino coloro che non stanno dietro le quinte»159. | L’importanza dei «Protocolli» consiste anzitutto, e in ogni caso,

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nel far nascere questo sospetto, nel far presentire che la storia ha una «terza dimensione», che una «intelligenza» può celarsi dietro agli avvenimenti e ai dirigenti apparenti e che molte pre­ sunte cause non sono che effetti di un’azione sotterranea. [..,] In particolare, è importante ciò che i «Protocolli·» di­ cono, nei riguardi di una mentalità pseudo-scientifica, creata unicamente ai fini del piano prestabilito: il cosiddetto modo «scientifico» o «positivo» di fare la storia potrebbe rientrare esattamente in ciò e assolvere lo scopo di stornare sistematicamente lo sguardo dal piano ove agiscono le vere cause. Ora, che la storia ultima ci presenti le fasi di un’opera di sistemati­ ca e progressiva distruzione spirituale, politica e culturale, non è un caso, e i «Protocolli», nel riguardo, ci offrono, per lo meno, ciò che uno scienziato chiamerebbe una «ipotesi di la­ voro», cioè una idea-base, la cui verità si conferma attraverso la sua capacità di organizzare, in una ricerca induttiva, un in­ sieme di fatti apparentemente sparsi e spontanei, facendone risaltare la logica e la direzione unica.

In che cosa differisce {’«ipotesi di lavoro» di Evola rispet­ to al metodo della storiografia scientifica? Il punto di par­ tenza è uri«idea-base» - l’idea della cospirazione ebraica che secondo Evola è in grado di fornire una chiave di lettu­ ra unica con cui decifrare i segni confusi del presente160. Il passo successivo consiste nella verifica «induttiva» di questa idea, la quale da sola non dimostra alcunché, e per­ tanto attende di essere suffragata da riscontri oggettivi (è la fase della prova attraverso i fatti annunciata nell’esordio del­ l’introduzione). Se si attenesse alle regole del gioco storio­ grafico, Evola sarebbe ora tenuto a indicare quali sono gli indizi concreti che corroborano la sua tesi, ad esempio elen­ cando i nomi dei presunti cospiratori e dimostrando che i comportamenti di questi individui non si giustificano se non alla luce della teoria del complotto. Ma, essendosi preventi­ vamente affrancato dai vincoli del metodo storiografico, egli Può limitarsi a citare il fatto che tra i principali ideologi del vprnunismo figurano i nomi di alcuni ebrei, a cominciare da harl Marx (figlio di ebrei convertiti). Per il resto, Evola im­ posta la sua cosiddetta indagine induttiva su una serie di vagne congetture dietrologiche (la finanza ebraica arma gli

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eserciti europei, il capitalismo ebraico finanzia la Rivoluzio­ ne comunista, l’America è intervenuta nella prima guerra mondiale per effetto esclusivo delle pressioni ebraiche, la Società delle Nazioni è un Superstate massonico-democratico... ) mascherate da fatti empiricamente assodati.

Sta di fatto che il contenuto dei «Protocolli», nella sua pri­ ma parte, riguardante le fasi e le vie della distruzione, corri­ sponde in modo impressionante a quanto si è svolto e sta svol­ gendosi nella storia ultima: quasi come se i capi dei vari governi, i dirigenti apparenti dei vari movimenti e tutti coloro che han fatto, nell’ultimo secolo, la «storia», altro non fossero stati che gli esecutori inconsapevoli di tante parti di un piano prestabilito [...]. Col capitalismo, la mentalità del Ghetto ha scalato le ci­ viltà ariane, creando però anche i presupposti per la rivolta delle masse operaie. Ma ecco che son parimenti degli Ebrei Marx, Lassalle, Kautsky, Trotski - a fornire alle masse, attra­ verso una contraffazione materialistica del mito messianico, le armi ideologiche più potenti e a subordinarne il movimento ad una precisa finalità: il distruggere ogni sopravvivente resto di vero ordine e di differenziata società. Una tattica occulta guida, allo stesso fine, i conflitti internazionali più decisivi, la finanza ebraica arma oculatamente il militarismo, mentre d’al­ tra parte l’ideologia ebraico-massonica del liberalismo e della democrazia prepara opportuni schieramenti. Divampa la con­ flagrazione mondiale 1914-1918, il cui vero senso, secondo le dichiarazioni ufficiali di un Congresso internazionale masso­ nico tenutosi a Parigi nell’estate del 1917, fu la guerra santa della democrazia, «il coronamento dell’opera della rivoluzio­ ne francese» (sic) avente di mira con [non?] questa o quella ri­ vendicazione territoriale, ma la distruzione dei grandi imperi europei e la costituzione della Società delle Nazioni quale Su­ perstate democratico-massonico onnipotente. Il capitalismo ebraico americano sovvenziona la rivoluzione russa (a cui la massoneria inglese non fu essa estranea), e nel momento in cui, col crollo della Russia, un primo obbiettivo apparve rea­ lizzato, l’America interviene direttamente senza nessuna seria ragione, e gli Imperi Centrali seguono il destino della Russia. Nel dopoguerra la fiamma rivoluzionaria divampa dapper­ tutto, sia nelle nazioni vinte che in quelle vincitrici, e la poten­

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za dell’Ebraismo fa un prodigioso salto in avanti, sia attraver­ so l’indebitamento universale, sia attraverso una segreta ditta­ tura dello Stato sovietico, sia attraverso il governo dell'opinio­ ne pubblica mondiale e un’azione generale culturale. Falliti gli obiettivi più diretti della rivolta, si entra in una nuova fase. La III Internazionale muta bruscamente di tattica e si allea con la II Internazionale, coi fronti-popolari e con le grandi democra­ zie capitaliste, svelando così le fila comuni della guerra segre­ ta. Dopo lo scacco delle sanzioni, gli avvenimenti precipitano, i Soviet destano la rivoluzione in Spagna, Mosca entra in deci­ sa alleanza con la Francia ebraico-massonica e assume, di con­ certo con la politica segreta antifascista dell’Inghilterra, una parte direttiva nella Società delle Nazioni. Si preparano schie­ ramenti decisivi. Sono esattamente le fasi prefinali del piano dei «Protocolli». Invero, assumere come base le idee-madri di questo scritto «apocrifo» significa anche possedere un sicuro filo conduttore per scoprire il significato unitario più profon­ do di ogni più importante rivolgimento dei tempi ultimi. Ed è per questo che Adolfo Hitler ha riconosciuto, senza esitare, ad un tale scritto, il valore del più potente reattivo per il risveglio del popolo tedesco.

Dopodiché, come annunciato nell’esordio, Evola si ap­ presta a dimostrare che non solo i Protocolli sono veri «per­ ché i fatti ne dimostrano la verità», ma anche - soprattutto «perché la loro corrispondenza con le idee-madre dell’Ebrai­ smo tradizionale e moderno è incontestabile». Abbandonato il terreno accidentato della «prova attraverso ifatti» in favo­ re di quello, a lui più congeniale, della «prova attraverso l’es­ senza dello spirito ebraico», Evola può finalmente uscire allo scoperto per rivelare qual è la sua posizione personale ri­ guardo ai Protocolli. Incalzato dalle richieste di un ipotetico lettore insoddi­ sfatto, Evola taglia corto: è inutile chiedere ai difensori dei Protocolli di «“produrre” le carte di identità debitamente au­ tenticate dei “Savi”», e ciò non solo perché (come ha già det­ to) è impensabile che i cospiratori ebrei siano talmente mal­ destri da lasciarsi identificare, e neppure perché la richiesta di prove supplementari è di per sé il chiaro indizio di un av­ venuto contagio con la mentalità ebraica scettica e raziona-

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listica. Il vero motivo per cui sarebbe fuorviante esigere che l’identità anagrafica dei cospiratori venga smascherata è che - a ben vedere - non è neppure così scontato che i Savi a cui alludono i Protocolli siano davvero i Savi di Sion.

Dopo di che, si può passare a considerazioni ulteriori, ri­ guardanti la prova della veridicità dei «Protocolli» non solo come sigillum veri, ma altresì come documento di un’azione specificamente ebraica. Infatti, di rigore, pur ammessa una causalità superiore come retroscena del sovvertimento occi­ dentale, resterebbe sempre da dimostrare, che proprio l’E­ breo ne sia l’unico e vero responsabile. In altre parole, anche ammessa la possibile esistenza dei «Savi», si tratta di vedere se essi siano proprio «Savi di Sion»: tanto da allontanare il so­ spetto di una tendenziosa interpretazione, cercante un alibi per incolpare l’Ebreo di ogni sovvertimento e quindi per giu­ stificare una campagna antisemita estremistica. Il problema, certo, si impone, ma nei limiti in cui esso può avere un senso nei riguardi di una organizzazione, per ipotesi, occulta. Già nella massoneria i dignitari dei più alti gradi ignora­ no chi siano precisamente quei cosiddetti «superiori sconosciu­ ti», cui obbediscono, e che potrebbero perfino trovarsi al loro fianco senza che se ne possano accorgere. Non si pretenderà dunque che, per affrontare i problemi scaturenti dai «Protocolli» in ordine al problema ebraico, qualcuno cominci col «produrre» le carte di identità autenticate dei «Savi». Ciò non impedisce però di venire ad un «processo indiziario» ben preciso. Diciamo subito che noi personalmente non possiamo se­ guire, qui, un certo antisemitismo fanatico che, nel suo veder dappertutto l’Ebreo come deus ex machina, finisce col cadere esso stesso vittima di una specie di tranello. Infatti dal Gué­ non è stato rilevato, che uno dei mezzi usati dalle forze ma­ scherate per la loro difesa consiste spesso nel condurre ten­ denziosamente tutta l’attenzione dei loro avversari verso chi solo in parte è la causa reale di certi rivolgimenti: fattone così una specie di capro espiatorio, su cui si scarica ogni reazione, esse restano libere di continuare il loro giuoco. Ciò vale, in una certa misura, anche per la quistione ebraica. La constata­ zione della parte deleteria che l’Ebreo ha avuto nella storia della civiltà non deve pregiudicare una indagine più profonda, atta a farci presentire forze, di cui lo stesso Ebraismo potreb-

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be esser stato, in parte, solo lo strumento. Nei «Protocolli», del resto, spesso si parla promiscuamente di Ebraismo e di Mas­ soneria, si legge «cospirazione massonico-ebraica», «la nostra divisa massonica», ecc., e in calce della loro prima edizione si legge: «Firmato dai rappresentanti di Sion del 33° grado». Poiché la tesi, secondo la quale la Massoneria sarebbe esclusi­ vamente una creazione e uno strumento ebraico è, per varie ragioni, insostenibile, già da ciò appare la necessità di riferirsi ad una trama assai più vasta di forze occulte, che noi siamo perfino inclini a non esaurire in elementi puramente umani.

Colpo di scena. Non solo i capi dei vari governi e i diri­ genti apparenti dei movimenti politici sarebbero i fantocci dell'internazionale ebraica, ma la stessa internazionale ebraica sarebbe lo strumento in mano a cospiratori ben più occulti e potenti. Addirittura Evola chiama in causa la teoria del capro espiatorio per suggerire che l’ossessione di certi antisemiti rispetto al ruolo centrale degli ebrei nella cospira­ zione sia l’effetto di un preciso disegno strategico escogitato dai veri cospiratori per distogliere l’attenzione pubblica dal­ le vere forze oscure che determinano il corso della storia. Ciò non significa, beninteso, che Evola abbandoni la pro­ spettiva degli antisemiti per ergersi in difesa degli ebrei in­ giustamente accusati, poiché lo scopo della sua precisazione è - al contrario - di ammonire gli stessi antisemiti dei peri­ coli di una visione superficiale e ipersemplificata del com­ plotto. Attenzione - egli dice - a non cadere nel tranello dei veri Savi, identificando il nemico con l’ebraismo tout court·. Per quanto gli ebrei giochino una parte rilevante nella rea­ lizzazione materiale della cospirazione, compreso quella di caricarsi del ruolo di capri espiatori, sarebbe fuorviarne li­ citarsi a identificare gli esecutori materiali del Piano senza lriterrogarsi su chi ne siano i veri mandanti. Si prospetta così una visione a scatole cinesi della cospi­ razione, dove ciascun piano segreto ne racchiude un altro Plu riposto, e poi un altro, e un altro ancora, di modo che °gni volta che qualcuno si illude di essere lì lì per scoper­ chiare tutto significa solo che è caduto nel tranello dei Su­ periori Sconosciuti, i quali hanno deciso di sacrificare gli 321

strati più superficiali (e tutto sommato fungibili) del com­ plotto pur di custodire intatto il proprio intimo Segreto161. Ma chi sono, infine, questi inafferrabili Superiori Scono­ sciuti? Dove si nascondono e come operano? Evola non lo ri­ vela, né fornisce alcuna descrizione che li caratterizzi in posi­ tivo, fatta eccezione per l’accenno alla possibilità - appena ventilata - che si tratti di esseri o forze ultraterrene. Posto che non è umanamente possibile avere riscontri diretti della loro esistenza, l’unico modo per risalire alle intenzioni di­ struttive dei «Savi» (che a questo punto sono diventati un puro ruolo sintattico svuotato di ogni significato particolare) è attraverso l’interpretazione dei segni che essi hanno disse­ minato nel mondo in modo sapientemente caotico, segni che solo l’occhio dell’iniziato può sperare di cogliere e decifrare. A partire dall’intuizione che nel mondo tout se tient, e che eventi solo apparentemente disparati sono in realtà collegati da una rete di solidarietà invisibili, a loro volta facenti capo a un’unica regia o Intelligenza occulta, l’iniziato può sperare di squarciare il velo delle apparenze e cogliere una stupefacen­ te regolarità geometrica là dove i profani vedono solo l’affa­ stellamento confuso di fatti in larga misura casuali. Non è il caso di soffermarsi qui sui risvolti dottrinari (e psichiatrici) dell’esoterismo di Evola, perché quello che ci in­ teressa capire è quale sia il ruolo che egli attribuisce agli ebrei all’interno della presunta cospirazione. Sarà vero, come so­ stengono alcuni estimatori attuali di Evola, che (mettendo da parte alcune incresciose cadute di stile) Evola in realtà non ce l’avesse tanto con l’ebraismo in senso stretto, quanto con Yebraicità intesa come “idea platonica”? Sì e no. Sì perché, come si è visto, Evola rifiuta di vedere l’ebraismo come l’u­ nica causa della crisi del mondo moderno e suggerisce che gli stessi ebrei siano gli agenti, o forse addirittura le marionette ignare, dei veri cospiratori: in quest’ottica, l’ebraicità appare come una condizione quintessenziale dello spirito la quale precede e determina ogni sua singola manifestazione empiri­ ca, ebraismo compreso162. No perché, a dispetto di queste precisazioni, nei paragrafi che seguono egli continua a non capacitarsi del fatto che «Israele [sia] rimasto uno malgrado 322

la dispersione», che «tale dispersione [abbia] dei caratteri provvidenziali» e che «l’Ebreo [abbia] pervaso parassitariarnente o dittatorialmente gli strati più alti della cultura e della società, [abbia] esercitato una azione distruttiva e corrosiva non dubbia, [abbia] stabilito le fila di una solidarietà interna­ zionale di razza che ha già - cioè prescindendo dal piano di una vera guerra segreta - i caratteri di una congiura». Chiunque o qualunque cosa siano i misteriosi Savi, per Evola è chiaro che essi intrattengono dei rapporti preferen­ ziali (o elettivi) con gli ebrei. Tant’è vero che egli impiega le pagine che gli rimangono per sostenere che «quand’anche i ‘Protocolli’ fossero stati inventati, l’autore avrebbe scritto quel che Ebreifedeli alla loro tradizione e alla volontà profon­ da d’Israele penserebbero e scriverebbero». A riprova di ciò, Evola cita Freud, Einstein, Lombroso, Debussy, Schönberg, Mahler, Tzara, Lévy-Bruhl, Bergson e altri intellettuali di origini ebraiche come i principali vicari delle forze che si contendono il dominio del mondo con l’arianesimo. Ciò che secondo Evola accomuna tali pensatori è la loro inclinazio­ ne (di matrice talmudica) a insinuare dubbi e a minare cer­ tezze, de-sacralizzando il mondo, spandendo il germe del relativismo, nevrotizzando le popolazioni, sovvertendo i ca­ noni estetici e ideologici e, in generale, esercitando un’azio­ ne disgregatrice sulla società tradizionale.

Mettendo da parte la questione dei rapporti tra ebraismo e modernità, che certamente sono assai più articolati e aper­ ti al dibattito di quanto non lasci supporre Evola, la doman­ da a questo punto è se l’inclinazione a interrogare criticautente il mondo attribuita all’ebraismo sia per Evola l’effetto di un’azione consapevole e concertata (come suggerirebbe 1 ipotesi della cospirazione), oppure la conseguenza di una deriva culturale priva di un vero e proprio piano (nel qual cas° la colpa degli intellettuali ebrei si limiterebbe al fatto di es­ sere ben sintonizzati con lo Zeitgeist). La risposta di Evola è, ar>che questa volta, sfuggente e ambigua. Da un lato chiari­ ne che non è così matto da pensare che Freud, Einstein, Mahler e gli altri siano davvero implicati in una congiura nel 323

senso stretto della parola, perché può benissimo darsi che ciascuno di essi abbia perseguito autonomamente il proprio progetto artistico o scientifico senza preoccuparsi di ciò che facevano gli altri. Dall’altro aggiunge che tuttavia è ben cu­ riosa la coincidenza di intenti e di stile che, secondo lui, si ri­ trova nell’opera di tutti questi intellettuali: che si tratti di un’azione intenzionalmente concertata o meno, l’esito finale della teoria della relatività come del dadaismo, della psicoa­ nalisi come della musica sperimentale, è pur sempre un per­ vertimento del canone e una dissacrazione dell’ordine costi­ tuito. Come si giustifica tale direzione comune? Rientra in scena il concetto di razza: «come è nella natura del fuoco di bruciare» - spiega Evola - un insopprimibile istinto razziale guida inconsciamente le azioni degli intellettuali ebrei, fa­ cendole convergere verso un unico obiettivo.

[...] Ma qui vale attirare l’attenzione anche sull’opera di­ struttrice che l’Ebraismo, così come secondo le disposizioni dei «Protocolli», ha effettuato nel campo propriamente cultu­ rale, protetto dai tabù della Scienza, dell’Arte, del Pensiero. E Ebreo Freud, la cui teoria s’intende a ridurre la via interiore ad istinti e forze inconscie, o a convenzioni e repressioni; lo è Einstein, col quale è venuto in moda il «relativismo»; lo è Lombroso, che stabilì aberranti equazioni fra genio, delin­ quenza e pazzia; lo è lo Stirner, il padre dell’anarchismo inte­ grale e lo sono Debussy (come mezzo-Ebreo), Schönberg e Mahler, principali esponenti di una musica della decadenza. Ebreo è Tzara, creatore del dadaismo, limite estremo della di­ sgregazione della cosidetta arte d’avanguardia, e così sono Ebrei Reinach e molti esponenti della cosidetta scuola socio­ logica, cui è propria una degradante interpretazione delle an­ tiche religioni. Di nuovo è l’Ebreo Nordau, che s’intende a ri­ durre l’essenza della civiltà in convenzioni e menzogne. La «mentalità primitiva» è in gran parte una scoperta dell’Ebreo Lévy-Bruhl, così come all’Ebreo Bergson si deve una delle for­ me più tipiche dell’irrazionalismo e dell’esaltazione della «vi­ ta» e del «divenire» di contro ad ogni superiore principio in­ tellettuale. Ebreo è Ludwig, con le sue biografie che sono altrettante tendenziose deformazioni. Ebrei sono Wasser­ mann, Döblin e, con essi, tutta una schiera di romanzieri, nel­

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le cui opere sempre ritorna una larvata, corrodente critica contro i principali valori sociali. E così via. Saremmo così in­ genui da considerare, di nuovo, in tutto ciò, un «caso»? Da tutte queste personalità, a toccar le quali subito si sente grida­ re contro il «barbaro» e il «fanatico razzista», promana una stessa influenza, che si propaga nei rispettivi domini con un esito di distruzione. Avvilire, far oscillare ogni punto fermo, render problematica ogni certezza, sensualizzare, mettere ten­ denziosamente in risalto ciò che vi è di inferiore nell’uomo, spargere una specie di timor panico, tale da propiziare l’ab­ bandono a forze oscure e così spianar le vie ad un’azione sul ti­ po di quella indicata dai ‘Protocolli’, questo è il vero senso dell’Ebraismo culturale. Nel riguardo del quale non vogliamo pensare ad un vero e proprio piano, anzi neppure ad una precisa intenzione da par­ te dei singoli autori: è la «razza», è un istinto che, qui, agisce: come è della natura del fuoco il bruciare. Ciò non impedisce, che tutta questa azione sparsa e inconscia vada perfettamente incontro a quella occulta, oculata e unitaria delle forze oscure del sovvertimento mondiale. Già nei riguardi dell’Internazio­ nale ebraica, per riconoscerne l’esistenza, non è dunque ne­ cessario ammettere che tutti gli Ebrei siano diretti da una vera organizzazione e che tutta la loro azione obbedisca consape­ volmente ad un piano. Π collegamento avviene in gran parte automaticamente, in funzione di essenza. Una volta veduto chiaro in ciò, un altro aspetto della veridicità dei «Protocolli» resta senz’altro confermato.

Resta da capire quale sia l’obiettivo finale attribuito ai Savi di Sion all’interno del mondo possibile dei Protocolli. La do­ manda adesso è: ma quando ben bene i presunti cospiratori realizzassero i loro piani di distruzione, che cosa se ne farebbe­ ro delle macerie del mondo moderno? È lo stesso problema ohe si presenta ogni volta che, in certi fumetti o film, il cattivo di turno annuncia sghignazzante la sua intenzione di far saltare in aria la terra: perché? Solitamente in queste storie il cattiv° è un sadico in preda a deliri di onnipotenza, e dunque la questione delle sue motivazioni non si pone, ovvero si risolve nel quadro del suo profilo psichiatrico. Ma un antisemita non Può accontentarsi di una spiegazione così banale, perché in ba­ se allo stereotipo razzista l’Ebreo non è un maniaco qualsiasi,

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bensì un essere ultra-razionale che agisce strategicamente nel­ l’interesse esclusivo della sua razza. Bisognerà perciò presume­ re che la distruzione della società occidentale (tramite l’inocu­ lazione dei bacilli del relativismo, del materialismo, del liberalismo e della rivoluzione) costituisca una tappa indispen­ sabile, sì, ma pur sempre intermedia e strumentale al persegui­ mento di un obiettivo ulteriore. Quale obiettivo?

Secondo i piani che i Protocolli attribuiscono ai Savi di Sion, il tracollo della società tradizionale prelude all’avvento di un’era messianica in cui il mondo sarà riunito sotto una sola religione - l’ebraismo chiaramente - e governato da un unico sovrano eletto da Dio. In termini più politici, la nuova era si realizzerà nella forma di un super-governo universale fortemente centralizzato che funzioni come un ingranaggio perfetto, regolando ogni aspetto della vita dei cittadini «co­ me se fossero tanti pezzi di una macchina» (Protocollo V). Questo sistema di governo dovrà spazzare via ogni parvenza di liberalismo e di democrazia, per sostituirvi una sorta di stato di polizia, con spie disseminate ovunque, regolato da una perfetta razionalità e dalla dura repressione di ogni ma­ nifestazione di dissenso: «Questo sistema di governo deve es­ sere il lavoro di una mente sola, perché sarebbe impossibile consolidarlo se fosse il lavoro combinato di molte intelligenze» (X); «la libertà di stampa, il diritto diformare delle associazio­ ni, la libertà di religione, l’elezione di rappresentanti del popo­ lo e moltissimi altri diritti [...] dovranno svanire nella vita quotidiana dell’uomo» (XI); «Nessuno potrà impudentemente attentare al prestigio della nostra infallibilità politica» (XII); «La nostra autocrazia sarà coerente in tutte le sue azioni [...] Ignoreremo qualunque forma di rammarico o di malcontento e puniremo così severamente chiunque mostrasse di non essere soddisfatto, che gli altri, vedendo questo esempio, si cheteran­ no» (XV); «Il nostro programma persuaderà una terza parte della popolazione a sorvegliare il resto» (XVII). Il regime dovrà tenere conto della naturale ineguaglianza tra esseri umani e perciò escluderà le masse dalle decisioni politiche, mantenendole tuttavia in uno stato di confortevo­

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le torpore in modo da scoraggiare eventuali sussulti sovver­ sivi. I diritti civili verranno revocati, ma in compenso le po­ polazioni verranno intrattenute con divertimenti vari, «ludi ginnici, passatempi, passioni di vario genere» (XIII). Le mas­ se godranno inoltre dei vantaggi di un sistema di tassazione progressiva che tutelerà le fasce economicamente più debo­ li, di una burocrazia trasparente ed efficiente che acconten­ terà le classi medie, e di un generale miglioramento delle condizioni di vita che renderanno tutti docili e facilmente manipolabili: «miglioreremo tutte le leggi. Le nostre leggi sa­ ranno brevi, chiare, e concise: non avranno bisogno di inter­ pretazione; sicché tutti potranno conoscerle da cima a fondo, dentro e fuori. La caratteristica predominante di queste leggi sarà l’obbedienza dovuta all’autorità» (XV); «Il nostro gover­ no autocratico eviterà, per il suo interesse personale, di im­ porre al popolo delle tasse pesanti e terrà sempre presente la parte che deve rappresentare; cioè quella di un padre, di un protettore [...] Il metodo più adatto per soddisfare le spese go­ vernative sarà la tassazione progressiva della proprietà. Così le imposte saranno pagate senza l’oppressione e la rovina del po­ polo. [...] Per evitare che le classi superiori, vale a dire i con­ tribuenti, si lagnino soverchiamente del nuovo sistema di tas­ sazione daremo ad essa dei resoconti particolareggiati, esponendo chiaramente il modo come il loro denaro viene speso» (XX); «Dimostreremo di essere i benefattori che han­ no restituito la libertà e la pace al mondo torturato. Offriremo al mondo questa possibilità di pace e di libertà, ma certamen­ te a una condizione sola, e cioè che il mondo aderisca strettamente alle nostre leggi» (XXII). La dittatura benevola sarà imperniata sul culto della per­ sonalità del sovrano, padre-padrone appartenente alla pro­ genie di David, circondato da sapienti consiglieri - i quali di sicuro «non saranno scelti fra i gentili» (XIII) - e supporta­ to da un efficientissimo sistema di propaganda. «Il nostro governo avrà l’aspetto di una fede patriarcale nella persona del suo sovrano. La nostra nazione ed i suoi sudditi considere­ ranno il sovrano come un padre, il quale si cura di tutti i loro bisogni, si occupa delle loro azioni, sistema le relazioni reci327

proche dei suoi sudditi [...] Il re di Israele, nel giorno che porrà sul suo capo consacrato la corona che gli verrà presenta­ ta da tutta Europa, diventerà il patriarca mondiale... Il nostro sovrano sarà costantemente in contatto col popolo, al quale parlerà dall’alto delle tribune. I suoi discorsi saranno messi in circolazione in tutto il mondo» (XV). Implacabile nel reprimere gli istinti della plebe - «z'Z no­ stro sovrano sarà prescelto da Dio e consacrato dall’alto allo scopo di distruggere tutte le idee influenzate dall’istinto e non dalla ragione, da principii brutali e non dall’umanità» (XXIII) - il sovrano dovrà essere ammirato per le sue ecce­ zionali doti di autocontrollo e di incensurabilità: «Il re di Israele non deve essere sotto l’influenza delle sue passioni e specialmente quelle dei sensi. Egli non deve permettere agli istinti animali di avere il sopravvento sullo spirito... Il nostro sovrano deve essere irreprensibile» (XXIV). È difficile rintracciare con precisione gli influssi culturali che confluiscono nel piano attribuito ai Savi, il quale mescola confusamente elementi messianici con dottrine totalitaristi­ che, credenze superomistiche e strategie populiste, per otte­ nere un effetto complessivo che, come è evidente a chiunque abbia un minimo di conoscenza della cultura ebraica, non ha nulla a che vedere con il cosiddetto “spirito talmudico”, cioè con gli atteggiamenti (ben più dialogici, interlocutori e uma­ namente perplessi) che trapelano dalle pagine del Talmud. Si direbbe piuttosto che i Protocolli riproducano le strutture ideologiche dei loro compilatori, ossia dei reazionari russi di fine Ottocento i quali, attraverso una paradossale (ma nean­ che poi tanto) inversione dei ruoli, proiettano i propri valori e le proprie aspirazioni sull’immaginario governo mondiale ebraico. La vertigine di questo gioco di specchi può facil­ mente stordire, e lo stesso Evola si dichiara dubbioso di fron­ te agli strani «ritorni di idee tradizionali» che si riscontrano nella parte propositiva dei Protocolli. Si capisce il suo imbarazzo: stando ai Protocolli, il fine ultimo dei cospiratori è di realizzare un’autocrazia castale che tutto sommato non è tanto dissimile da quella che Evo-

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jr, stesso auspica e predica da tempo. Se così fosse - cioè se ■ cavi Anziani aspirassero davvero all’ideale del ritorno a una versione totalitaria dell’età dell’oro - si potrebbe essere tentati di dire che in fondo il fine giustifica i mezzi, e si do­ vrebbe perciò concludere che i Savi Anziani sono i migliori alleati, se non addirittura gli ispiratori, di quel pensiero tra­ dizionale con il quale Evola si identifica. In realtà noi sap­ piamo che la spiegazione è molto più semplice: gli autori dei Protocolli erano reazionari tradizionalisti (sia pure un po’ rozzi), e pertanto non è strano che essi si esprimessero con il linguaggio e con gli argomenti dei reazionari tradizionalisti. Posto di fronte al dilemma se ammettere che i Protocolli so­ no falsi (e dunque porre la Tradizione al riparo dal contagio con lo spirito ebraico) oppure riconoscere delle affinità tra il presunto piano dei Savi di Sion e il pensiero tradizionale, Evola opta per una terza via: i Protocolli sono veridici in tut­ to salvo che nella parte che reca disturbo.

Quel che è piuttosto dubbio, è la natura vera dei fini ulti­ mi di quest’azione incontestabile. La parte problematica dei «Protocolli» è quella riferentesi alla ricostruzione, non alla di­ struzione. Quando il Nilus ravvicina apocalitticamente l’idea­ le ultimo dei «Protocolli» alla venuta dell’Anti-Cristo (idea fissa dell’anima slava), fa semplicemente della fantasia. Vero invece che un tale ideale, in fondo, non è né più né meno che quello imperiale, e perfino in una forma superiore: un’autorità assoluta e inviolabile di diritto divino, un regime di caste, un governo nelle mani di uomini, che posseggono una conoscen­ za trascendente e ridono di ogni mito razionalistico, liberale e umanitario; difesa dell’artigianato, lotta contro il lusso. L’oro, esaurita la sua missione, sarà superato. Lo stesso si dice per ogni demagogia, per gli «immortali principi» e per tutte le il­ lusioni e suggestioni, usate e propinate come mezzi. Promessa di pace e di libertà, di rispetto della proprietà e della persona, per chiunque riconoscerà la Legge dei Savi Anziani. Il Sovra­ no, prescelto da Dio, s’intenderà a distruggere ogni idea det­ tata dall’istinto e dall’animalità: personificazione, quasi, del destino, egli sarà inaccessibile alla passione e dominatore di sé e del mondo, indomabile nel suo potere, tale da non avere bi-

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sogno, intorno a sé, di alcuna guardia armata (III, XXII, XXIII, XXIV). La portata dei «Protocolli» resta pregiudicata, se non si sepa­ ra questa parte dal resto: poiché, se tale fosse il fine vero, tutto, in fondo, potrebbe ricevere una giustificazione. Ma questa, per noi, è una fantasia. Noi anzi abbiamo cercato di analizzare il processo che ha condotto all’associazione paradossale fra questi ri­ torni di idee tradizionali, legati all’ideale del «Regnum», e i temi del sovvertimento antitradizionale: si tratta della deviazione, portatasi tino ad una vera «inversione», che possono subire certi elementi, quando lo spirito originario se ne è ritratto e, abban­ donati a sé stessi, passano sotto l’azione di influenze di tutt’altro genere. E noi abbiamo cercato di individuare le fasi successive di una simile inversione e perversione. La parte positiva, controlla­ bile nel documento in quistione, è l’altra, è tutto quel che ci la­ scia presentire, nell’insieme dei processi distruttori del mondo moderno, qualcosa che non è «caso», qualcosa, come un piano, e la presenza di potenze mascherate. Sulla parte dell’Ebreo in tutto ciò, abbiamo già detto, e noi crediamo abusivo supporre che tutto ciò che egli ha fatto, lo abbia fatto in vista l’ideale del­ l’Impero spirituale, quale i «Protocolli» lo descrivono. Ed anche quando ciò fosse, per noi, che non siamo Ebrei, significherebbe lo stesso, perché contestiamo il diritto di Israele di considerarsi il «popolo eletto» e di rivendicarne per sé un Impero, che avrebbe per presupposto la soggezione di ogni altra razza. E in nessun ca­ so siamo disposti a pronunciare delle assoluzioni.

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Parafrasando Evola: la parte dei Protocolli in cui Savi de­ finiscono i loro obiettivi finali è una fantasia (anche se non viene chiarito di quale immaginazione essa sia il parto) per­ ché non coincide con l’immagine che Evola si è fatto dell’ebraismo. Il lettore è perciò invitato a non prendere in consi­ derazione i passi in cui i Savi dichiarano di perseguire l’ideale di un Impero, per concentrarsi esclusivamente sulle parti in cui essi svelano le loro strategie occulte per minare le fondamenta dell’Occidente. Rimane aperto U problema di quali siano gli obiettivi finali di tale opera di sistematica disgrega­ zione, una volta escluso che i Savi mirino davvero all’Impe­ ro. Si direbbe, leggendo questa parte dell’introduzione, che la distruzione della società tradizionale costituisca di per sé il fine ultimo dei Savi, i quali in questo caso non agirebbero m

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vista di uno scopo razionale, ma sarebbero piuttosto mossi da un cieco istinto razziale che li indurrebbe a dissacrare-avvilire-vilipendere-boicottare compulsivamente i valori dell’arianesimo (così come il fuoco brucia senza chiedersi il per­ ché). Il concetto di razza torna perciò utile per troncare la discussione giunta al capolinea: i «circoncisi dello spirito» (ebrei e affini) agiscono in un modo dissacrante e perverso, e non ci si chieda perché lo fanno - è così e basta. Tuttavia, forse rendendosi conto che, nel privare i Savi di un obiettivo razionale, la sua versione dell’antisemitismo si avvicina pericolosamente alla versione apocalittica di Nilus (nonché al determinismo rigido dei razzisti biologici), Evola aggiunge che, se pure fosse vero che gli ebrei mirano all’i­ deale dell’Impero, il suo giudizio sul loro conto non cam­ bierebbe di una virgola. E finalmente, dopo pagine di fati­ cosa lettura, si cominciano a intuire i veri motivi dell’astio sottile che Evola prova nei confronti degli ebrei. «Ed anche quando ciò fosse, per noi, che non siamo Ebrei, significhereb­ be lo stesso, perché contestiamo il diritto di Israele di conside­ rarsi il “popolo eletto” e di rivendicarne per sé un Impero, che avrebbe per presupposto la soggezione di ogni altra razza»·, si direbbe che il problema di Evola sia che, in quanto non ebreo, si senta ingiustamente tagliato fuori dal Piano. Al di là delle motivazioni del risentimento di Evola, l’af­ fermazione riportata sopra contiene una falsa premessa su cui forse è utile soffermarsi, anche perché è sugli equivoci che essa ha ingenerato che si fonda un certo antisemiti­ smo/antisionismo contemporaneo. Evola dà per scontato che l’espressione popolo eletto implichi la rivendicazione di una superiorità ereditaria (e dunque razzista) da parte ebrai­ ca, da cui deriverebbe un preteso diritto divino a dominare sul resto del mondo, come se l’elezione fosse un privilegio di nascita accampato dagli ebrei per reclamare per sé un Im­ pero alle spese dei gentili. E questa, peraltro, l’accezione adottata dalla maggior parte degli antisemiti, inclusi quelli che scrivono per La difesa della razza. Ma, come ha osserva­ to il teologo cattolico Hans Kiing, 331

Questo modo con cui Israele designa se stesso è stato spes- | so frainteso dai non ebrei come espressione della superiorità e arroganza israelitiche. Ma - comunque la cosa sia stata vissuta da singoli ebrei - questo pregiudizio risulta infondato se si tengono presenti le origini. Infatti: 1. L’elezione di Israele non è un’autoelezione degli israeli­ ti, ma unicamente un’azione di Dio: e per descrivere questa iniziativa di Dio, la Bibbia ebraica si serve di tutta una serie di verbi affini come «eleggere», «separare», «assumere», «pren­ dere», «chiamare»... Nessun diritto all’elezione; l’elezione è pura grazia. Nessun motivo quindi per sciovinismi o esclusivi­ smi fondati religiosamente. Il popolo di Israele deve diventare la benedizione per gli altri popoli. 2. L’elezione di Israele non significa il riconoscimento di una particolare qualità di questo popolo rispetto a tutti gli al­ tri, ma un particolare obbligo. La reciprocità è soltanto appa­ rente: all’elezione (unilaterale) da parte di Dio deve corri­ spondere l’accettazione dell’obbligo da parte di Israele: non dall’orgoglio e dalla presunzione, ma soltanto dall’obbediente adempimento delle condizioni dell’alleanza Israele viene legit­ timato nella sua elezione a popolo di Dio. (Küng 1991 [1999:63-64])

Kiing spiega che, secondo la Torà, l’elezione non costi­ tuisce un diritto di nascita ma è una condizione che va con­ quistata da ciascun individuo tramite le sue azioni quoti­ diane, ed essa non comporta onori e privilegi bensì doveri e responsabilità. Resta da vedere se e in quale misura i non ebrei rimangano esclusi da tale condizione. E vero che, su­ bordinando l’elezione all’osservanza dei precetti religiosi, la Torà automaticamente esclude i non-ebrei (così come gli ebrei non osservanti) dal novero del popolo eletto, e in que­ sto senso si può dire che essa introduca delle discrimina­ zioni all’interno dell’umanità. Tuttavia, tali discriminazioni non vengono intese in senso razzista nella Torà e - salvo ra­ re eccezioni - neppure nello sterminato corpus del Talmud. Soprattutto, la distinzione tra ebrei e non ebrei non smi­ nuisce, né toglie diritti a coloro che non rientrano nei para­ metri dell’elezione. Primo perché la salvezza è aperta a tut­ ti e non esige la conversione dei non-ebrei all’ebraismo. In

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secondo luogo perché, passando dalla sfera religiosa a quel­ la della convivenza quotidiana, nel Talmud lo statuto giuri­ dico del non-ebreo, dello straniero (GAcr), viene esplicita­ mente riconosciuto e tutelato163. Infine, la conversione verso l’ebraismo - per quanto solitamente scoraggiata e re­ sa laboriosa - non è impedita, e quindi l’appartenenza o meno al popolo eletto non è in ogni caso un fatto di lignag­ gio biologico: ebrei si può diventare (se proprio non se ne può fare a meno). Dopodiché si potrà discutere a lungo sulle conseguenze pratiche della nozione di elezione, la quale - nella misura in cui subordina l’elezione all’osservanza di complessi precetti etici e alimentari - tende a promuovere quel separatismo che è stato spesso rimproverato agli ebrei (ma che di fatto è stato l’unico modo, per un popolo disperso e senza nazione, di mantenere viva nei secoli la propria identità di gruppo). Tali contraddizioni emergono oggi nel conflitto tra ebrei or­ todossi ed ebrei liberali. Si potrà rimanere stupiti di fronte a una tale volontà di perpetuarsi culturalmente a dispetto del­ le avversità, e ad alcuni potrebbe risultare incomprensibile o eccessivo un simile attaccamento alla propria identità d’ori­ gine. Ma è proprio per questo che, secondo i principi stessi dell’ebraismo, si è liberi di non essere ebrei senza incorrere in particolari inconvenienti. Evola al contrario - da buon razzista - interpreta l’e­ spressione popolo eletto in senso razzista. Così facendo, egli attribuisce all’elezione connotazioni di superiorità razziale e di vocazione all’Impero che non trovano riscontro sul piano dottrinario164 e che non possono essere ascritte neppure al­ la politica dei primi sionisti (come invece sembra suggerire una certa lettura implicita del testo di Evola165). Ma, arrivati a questo punto, lo scopo principale di Evola e di dipingere a tinte forti il nemico, anche a costo di con­ traddirsi vistosamente, nel tentativo di legittimare un repen­ tino capovolgimento dei ruoli, un po’ come accade nella fa­ vola del Lupo e l’agnello166. Il messaggio è questo: i Savi di Sion stanno complottando contro di noi per distruggerci e 333

costruire il loro Impero sulle nostre rovine; dunque è legit­ timo (anzi, è doveroso) che li distruggiamo prima noi - e, con l’occasione, rifondiamo il nostro Impero (dove tutte le connotazioni peggiorative della parola Impero vengono au­ tomaticamente a cadere).

Noi sappiamo ciò che di grande aveva la nostra antica Eu­ ropa imperiale, aristocratica e spirituale e sappiamo che que­ sta grandezza è stata distrutta. Noi siamo scesi in campo con­ tro le forze che hanno operato questa distruzione e sappiamo della parte che in essa hanno avuto ed hanno gli Ebrei, ancor oggi infallibilmente presenti in tutti i focolai più virulenti del­ l’Intemazionale rivoluzionaria. Questo basta, e ulteriori pro­ blemi non abbiamo bisogno di porceli. Abbiamo piuttosto bi­ sogno di riconoscere, che la gran parte delle posizioni dell’antisemitismo restano al disotto del vero compito: poiché con l’idea di razza, della nazione, della controrivoluzione, dell’antibolscevismo, dell’anticapitalismo e così via sia colpirà sì questo o quel settore del fronte ebraico e del più vasto fronte della sovversione, a cui esso si collega, ma non se ne raggiun­ gerà il centro. I miti politici dei più son troppo poco, il loro re­ spiro è breve, e la loro validità è spesso intaccata dagli stessi mali, ai quali vorrebbero porre rimedio. È il ritorno integrale alla idea spirituale dell’Impero che invece si impone, è la vo­ lontà precisa, dura, assoluta di una ricostruzione veramente «tradizionale», in tutti i domini e quindi, anzitutto, in quello dello spirito, da cui tutto il resto dipende. Nei «Protocolli» (N) vi è un accenno veramente significativo: si riconosce che solo quel denominatore, che tragga la sua autorità da un «diritto divino», può veramente aspirare all’impero universale, e subi­ to dopo si aggiunge: che solo quando nel campo nemico ap­ parisse qualcosa di simile, vi sarebbe qualcuno in grado di lot­ tare con i «Savi Anziani»; e allora il conflitto fra lui e loro «assumerebbe un carattere tale, che il mondo non ne ha anco­ ra visto l’eguale». I «Protocolli» qui dicono: «Ma ormai è troppo tardi per lo­ ro» - cioè per noi. E del contrario che siamo persuasi. Questa è ormai l’ora, in cui forze sorgono dappertutto alla riscossa, perché ormai il volto del destino a cui l’Europa stava per sog­ giacere si è reso chiaro. Tutto dipende da ciò, che esse giunga­ no alla piena coscienza dei loro compiti e dei principi che deb-

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bono inflessibilmente presiedere alla loro azione; che esse ab­ biano il coraggio di un radicalismo anzitutto spirituale e re­ spingano ogni compromesso, ogni concessione; che esse ela­ borino le condizioni per la formazione di un fronte dell’Internazionale tradizionale e procedano su questa via tan­ to, che l’ora del «conflitto, di cui il mondo non ha ancora visto l’eguale» le trovi raccolte in un unico blocco ferrato, infrangi­ bile, irresistibile.

Roma, settembre 1937-XV.

J. Evola L’introduzione di Evola è un testo che si decostruisce da sé: per ogni tesi che esso afferma c’è un’antitesi incorporata, in un processo di continuo slittamento del senso che impedi­ sce al lettore di assestarsi definitivamente su una qualsivoglia interpretazione coerente dei fatti. Chi ha scritto i Protocolli? Perché? Esiste una cospirazione segreta mondiale e, se sì, chi ne sarebbe l’artefice? Che cosa vogliono ottenere i presunti cospiratori? Cosa bisognerebbe fare per sconfiggerli? Evola non ha alcuna intenzione di rispondere a queste domande. La sua idea del conflitto tra Ebraicità e Tradizio­ ne è molto più astratta di quella di cui parlano gli antisemiti comuni: spetterà casomai ad altri di mettere a punto i detta­ gli della dottrina. In che modo gli ebrei in carne e ossa siano effettivamente implicati nella presunta cospirazione è un’al­ tra questione che Evola lascia volentieri inevasa, se non in ri­ ferimento all’opera di singoli artisti o intellettuali che esibi­ sce come campioni della famosa mentalità ebraica. Coerentemente con il suo approccio fattualmente disimpe­ gnato, Evola non è interessato a identificare i singoli ebrei che sta accusando di tramare alle spalle della nazione.

Forse non interessa a Evola, ma ad altri invece sì. In ap­ pendice alla quinta edizione italiana dei Protocolli (dopo la lettera del finto capitano Simonini, il Discorso del Rabbino Goedsche, due articoli sull’Internazionale ebraica in Itala> e diversi altri scritti dello stesso tenore) si trova un elen­ co (incompleto) dei cognomi di 9.800 famiglie ebraiche ita335

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liane. Si tratta di una lista originariamente stilata da Samue­ le Schaerf nel 1925167 con scopi di ricerca genealogica ma che, in mano a Preziosi, assolve una funzione molto diversa

Gli Ebrei in Italia (elenco per cognomi di 9.800 famiglie di Ebrei) «Come l’olio non deve mescolarsi con l’acqua, così Israele non deve mescolarsi coi circonvicini. Come l’olio galleggia sul­ l’acqua, così Israele deve sovrastare sugli altri popoli».

Manca in Italia un vero e proprio elenco dei cognomi di famiglie di ebrei italiani. Ne esistono in Inghilterra, in Germania, in Ungheria, in Cecoslovacchia; in Italia invece si sa solamente che eccetto cognomi di Levi, Sacerdoti, Coen, Forti e pochi altri, i più derivano dai nomi di città. Samuel Schaerfper la casa editrice «Israel» di Firenze pubblicò: «I cognomi degli ebrei d’Italia con un’appendice sulle famiglie nobili ebree d’Italia». La pubblicazione è poco nota. Crediamo perciò di fare cosa utile per tutti riprodurre l’elenco che comprende circa 1650 cognomi corrispondenti a 9800 famiglie, ossia in media un cognome per ogni sei famiglie. Il numero dei cognomi - avverte Schaerf - deriva dal fatto che mentre a ciascun cognome italiano nel senso largo corrispondono più famiglie; gli ebrei invece delle quattro comunità tedesche da meno di un secolo immigrate in Italia hanno quasi per ogni famiglia un cognome. L’elenco che segue comprende i cognomi delle famiglie ebree di tutta Italia così come sono state registrate presso l’ufficio sta­ tistico del Keren Hajesod (Fondo di ricostruzione Palestinese) d’Italia, inclusi quelli delle quattro comunità tedesche, esclusi quelli delle colonie (Tripoli, Bendasi, Rodi, ecc.).

L’elenco contiene: Cognomi geografici italiani Cognomi tedeschi delle quattro Comunità tedesche e sparsi in tutta Italia, specialmente a Milano. Cognomi spagnoli, a Livorno e specialmente in Toscana. Cognomi orientali, specialmente a Milano e Napoli.

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Cognomi ebraici sparsi in tutta Italia, specie in Toscana. Cognomi greci, a Trieste. Cognomi di professione. Cognomi cattolici, dovuti a matrimonio misto con una ragazza ebrea. Cognomi di origine diversissima.

Ed ecco l’elenco dei cognomi che - è necessario avvertire non è completo. Aadith, Abadì, Abeles, Abenaim, Abeniacar, Abib, Abigdor, Aboaf, Abramson, Abravanel, Abulaffi, Abulaffia, Acco, Acher, Adagnia, Aderca, Ades, Adler, Aelion, Aghib, Ahrens, Ajar, Alatri, Alba, Albahari, Albaum, Albert, Albina, Albini, Alcalai, Alfaquain, Aigranati, Alhaique, Allalouf, Allan Civita, Almagià, Almansi, Almansi Macchioro, Almeda, Alphandery, Alpron, Alt, Altarass, Altaress, Altberger, Alter, Alticheh, Amar, Ameriglio, Amati, Ambonetti, Ambron, Ami, Amman, Amy, Anau, Ancona, André, Angel, Angeli, Angelini, Anguillara, Anticoli, Ara, Arbib, Archivolti, Arditti, Arditi, Ariani, Arias, Ariccia, Ariete, Arieti, Amstein, Artom, Aruch, Ascarelli, Ascer, Aschenazi, Ascher, Ascoli, Ascoli Marchetti, Assajcas, Asseo, Astein, Asti, Astrologo, Aitai, Attias, Aub, Avigdor, Auerbach, Awerbach, Azankot, Azavei, Azavey, Azria, Azriel, Azzaria...

Ovviamente la presenza dell’elenco dei nomi delle fami­ glie degli ebrei italiani accanto al testo dei Protocolli non di­ mostra affatto che queste famiglie siano implicate nella pre­ sunta cospirazione, né rende i Protocolli meno falsi e infondati di prima. Ma, per il lettore superficiale a cui si ri­ volge il volume, l’accostamento è sufficiente per ancorare le congetture dei cospirazionisti al mondo dell’esperienza rea­ le, e per identificare le famiglie di ebrei italiani come i foco­ lai nostrani dell’infezione giudaica.

I Protocolli nella Difesa della razza

Sebbene la tesi della cospirazione faccia da sfondo alla mag­ gior parte degli articoli che La difesa della razza dedica alla 337

«questione ebraica», i Protocolli sembrano svolgere una fun­ zione retorica relativamente marginale all’interno della rivi­ sta. Le rare volte in cui vengono espressamente citati, lo so­ no a titolo di prova ultima dell’esistenza della cospirazione, senza che venga fatto alcun accenno ai recenti dibattiti sulla loro autenticità/veridicità. Al lettore è perciò richiesto di so­ spendere la propria incredulità nei confronti di questo do­ cumento, come se la verità dei suoi asserti fosse talmente certa da non richiedere ulteriori dimostrazioni.

Francesco Callari, “La stampa ebraica e la guerra”. Difesa della razza II, 1: 43 (5 novembre 1938)

Quali sono i mezzi, quali sono le armi di cui dispone il Giudaismo per corrompere anche lo spirito pubblico e trasci­ narlo ai suoi scopi? Questi mezzi si chiamano in un sol modo: la stampa. «Per favorire il nostro piano mondiale che sta per sboccare ai fini desiderati, ci occorre influenzare i governi dei Gentili a mezzo delfopinione pubblica, predisposta segretamente da noi con la più grande di tutte le potenze: la stampa. Grazie alla stampa abbiamo accumulato montagne d’oro»; questo è scritto nei «Protocolli dei Savi di Sion» la cui prima edizione si ebbe in Russia nel 1901. E altrove negli stessi «Pro­ tocolli» è detto: «Noi dobbiamo spingere i governi ariani ad agire conformemente al nostro piano, concepito con larghez­ za e che vede vicina adesso la sua realizzazione trionfale, dan­ do l’impressione che questi governi cedono all’opinione pub­ blica, la quale in realtà è organizzata segretamente da noi stessi, con l’aiuto di codesto grande potere che si chiama la stampa; i loro giornali, tranne qualche eccezione insignifican­ te, sono già interamente nelle nostre mani» [...] Gli ebrei si sono resi padroni del mondo con la loro soli­ darietà sul terreno economico; essi si rendono padroni dell’o­ ro di tutte le nazioni con il cambio, di tutte le grosse industrie, provocando scioperi, sedizioni, anarchie, incendi, furti, assas­ sini. Nei «Protocolli» si legge: «Noi creeremo una crisi econo­ mica universale, con tutti i mezzi possibili e con l'aiuto dell’o­ ro che è nelle nostre mani. All’ora stabilita noi scateneremo la rivoluzione che, distruggendo tutte le classi della cristianità, asservirà definitivamente i popoli cristiani».

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Tutti i cosiddetti mercanti di cannoni appartengono alla fi­ nanza giudeo-massonica ed è per arricchirsi ch’essi provocano guerre e rivoluzioni, pur facendo i patriotti. [...] Gli ebrei oggi sono una potenza nell’U.R.S.S., anche se Stalin è un georgiano, ed è a tutti noto come la guerra civile in Spagna sia stata preparata, fomentata e realizzata da loro.

Claudio Calosso, “Aderenze leopardiane all’ebraismo an­ tico e contrasti con il giudaismo moderno”, Difesa della razza IV, 1: 30-32 (5 novembre 1940)

Il popolo ebraico è asocievole per costituzione intrinseca, isolato per la necessità storica del suo mantenimento, e quin­ di, come tale, improduttivo agli effetti del progresso, spinto a nuocere ed a distruggere. La sua forza dipende dall’uso ch’egli fa della ragione, cer­ cando con essa di sradicare e di annullare ogni ricordo dalla mente dei gentili, siccome possiamo trovare chiaramente di­ mostrato anche nei «Protocolli di Sion»...

Massimo Scaligero, “Fronte unico ario”, Difesa della raz­ za IV, 8: 21-24 (20 febbraio 1941)

La lotta contro l’ebraismo mondiale, già nell’estendersi su un fronte unico, acquisisce una unità capace di neutralizzare in­ fine i due aspetti maggior della offensiva ebraica: quello pluto­ cratico e quello ideologico, quello pertinente alla sovversione economico-materialistica e quello riguardante l’eversione mora­ le, il lavoro «sottile» nell’anima delle masse, il confusionismo in­ tellettuale. Quest’ultimo ha un’importanza particolare in quanto la sua identificazione giova a far intendere come gli avvenimenti decisivi della storia ultima non siano casuali o dovuti solo gli er­ rori e all’incoscienza degli uomini, ma obbediscano ad un certo piano e ad una precisa intenzione. Essi sono l’effetto dell’azione diretta e indiretta di coloro che formano l’autorità maggiore del­ l’Intemazionale ebraica. Se si riconosce ai «Protocolli dei Savi di Sion» un valore storico e simbolico, ci si rende conto come i sio­ nisti hanno potuto imprimere al corso della storia la direzione da essi desiderata per il fatto di essere, in un certo modo, più che semplici uomini: come i «Protocolli» dicono, essi riconoscono in

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una sostanziale differenza di mentalità fra essi e il restante degli uomini la loro «natura sovrumana» e il loro essere (secondo la loro pretesa) gli «eletti di Dio», giacché, a differenza degli altri, essi sono capaci di conoscere gli effetti nelle loro cause prime e perché, rispetto alla loro politica segreta, «tutte le nazioni» e co­ sì pure i loro governi, appaiono in uno «stato d’infanzia». In una parola, essi sono uomini spiritualmente privilegiati, cui sono fa­ miliari tutti gli strumenti della «guerra sottile» e che per gli uo­ mini, per i loro pensamenti e sentimenti, per la loro «mentalità istintiva e animale», nutrono un sovrano disprezzo.

dei Savi di Sion. Questo specchio dimostra come la storia della Massoneria si intreccia con la storia del moderno giudaismo, fino a confluire nei Protocolli dei Savi di Sion, che sono il documento-base per la conoscenza della internazionale ebraico-massonica e dei suoi veri fini DR IV, 19 (5 agosto 1941)

Ma il fatto più sorprendente è che né Interlandi, né Almirante, e neppure lo stesso Evola citino mai i Protocolli nella Difesa della razza. La linea editoriale del principale or­ gano del razzismo fascista non interseca, se non tangenzial­ mente, il documento su cui fa perno la teoria della cospira­ zione. Ciò non impedisce ai nostri autori di presentare le informazioni tratte dai Protocolli come se fossero verità in­ contestabili. Semplicemente, giunti a questo punto si può presumere che la voce della cospirazione ebraica sia abba­ stanza diffusa e radicata da reggersi in piedi da sola.

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T.I., “La resa dei conti”, Difesa della razza I, 3: 8 (5 set­ tembre 1938) Spettava alla Scuola Fascista il privilegio d’esser la prima a ri­ scattarsi dalla manomissione ebraica. Di tutti gli aspetti che la di­ fesa della Razza può assumere in Regime fascista, quello che ha attinenza coi problemi dello spirito e dell’educazione non è l’ul­ timo; è piuttosto fondamentale. La manomissione ebraica delle cose d’Italia non sarebbe avvenuta, dopo l’affrancamento dei giudei, se la Nazione non avesse perduto la volontà d’esser se stessa, di non tradire il proprio genio, di non rinnegare la propria vocazione. Questa dolorosa dimissione dell’Italia si deve appun­ to all’adulterazione della nostra cultura per opera degli ebrei. La scuola fu l’arma efficace di cui costoro si giovarono per sfigura­ re il volto dell’Italia. Con la scuola, il libro e il giornale. Sarà su questa rivista, a suo tempo, illustrato l’esiziale effetto dell’innesto ebraico sulla cultura italiana. Noi ne avemmo deformato persino il linguaggio; e l’Italia fu una base d’operazione per quella Al­ liance Israélite universelle, fondata nel 1860 a Parigi da Isaac Adolphe de Crémieux, che doveva tentare, nel secolo scorso, l’ebraizzazione della borghesia europea; e vi doveva, ahimè, riusci­ re. Perché, è bene ripeterlo sino alla sazietà, la borghesia italiana si lasciò gentilmente ebraizzare; vale a dire che dimenticò d’esse­ re italiana e divenne, sotto la guida degli ebrei, una classe euro­ pea, senza più volto italiano, d’una Europa dominata dagli ebrei. Questi penetrarono nelle scuole, s’impadronirono dei libri e dei giornali, e perfino del teatro; e la borghesia lasciò fare, anzi, fu fe­ lice di mandare i suoi figli a scuola dagli ebrei...

Giorgio Almirante, “Giornalismo”, Difesa della razza II, 17:25-27 (5 luglio 1939) Del giornalismo come arma di propaganda politica gli ebrei intuirono l’importanza fin da quando, nei primi anni dell’Ottocento, di giornalismo politico vero e proprio non v’erano tra noi che pochi saggi. Ed era naturale che così fosse, giacché gli ebrei, usciti appena dai ghetti e circondati ancora dalla salutare diffidenza che per secoli li aveva quasi ovunque segregati dal popolo, sentivano il bisogno di un’arma che con­ sentisse loro di spargere largamente il mal seme dei principi dell’Ottantanove, di operare nelle coscienze la massima con­ fusione possibile fra tali principi e quelli che dovevano presie-

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dere al vero Risorgimento d’Italia, di addivenire infine alla co­ stituzione di quella Internazionale ebraica, che più tardi Crémieux avrebbe realizzato, ma che fin dai primordi dell’Otto­ cento era nelle aspirazioni di tutti i giudei «benpensanti». Nel Congresso giudaico, tenutosi l’anno 1848 a Cracovia, al quale concorsero gli ebrei più ricchi del mondo, fu decreta­ to - la notizia è tratta da «La Civiltà Cattolica» (1890 - serie XIV - voi. 8) ed è quindi insospettabile - che i giudei si impa­ dronissero dei più potenti giornali d’Europa. «Con questo mezzo - dice lo statuto che fu in quell’occasione provato - la stella ebraica spanderà luce sopra tutto il globo». Si trattava dunque di un piano concertato che nel 1848 ave­ va d’altra parte già avuto in Italia un principio d’esecuzione.

I· sinagoghe. I giornali eoa! detri officiasi ione tutti, o poco mano, merce ebraica"

“Milano, Torino, Venezia, Modena, Bologna e Firenze vivono dell’opinione pubblica, fabbricata nei ghetti e nelle sinagoghe. I giornali così detti officiosi sono tutti, o poco meno, merce ebraica” (La “Civiltà Cattolica” 1890) DR II, 17: 24 (5 luglio 1939)

La posizione di Evola è un po’ diversa. Nemmeno lui ci­ ta esplicitamente i Protocolli, ma ciò non gli impedisce di conservare intatte le conclusioni della sua Introduzione del 1937, in particolare per quanto riguarda l’equazione ebrai­ smo = modernità. Così, nel numero del 5 gennaio del 1939 (II, 5), Evola recupera il motivo dello stile tipicamente ebraico, «sconsacrato e pervertito», che si riscontrerebbe 342

nell’opera di Freud e di Einstein, per poi esortare i lettori del numero successivo (20 gennaio) a ingaggiare una «lotta contro le forze oscure della sovversione mondiale contempo­ ranea» - forze che nel fascicolo del 5 febbraio (II, 7) egli ri­ collega alla «rilevata azione corrompitrice rivoluzionaria e sovvertitrice, e alfine più o meno dichiaratamente antifascista e comunista, svolta dal “popolo eletto”: rilevando come, vo­ lontariamente o involontariamente, tutte le “creazioni” degli Ebrei sempre manifestino uno stesso “stile”, una identica tendenzialità, deleteria per i valori arii». Finché si mantiene sulle generali, Evola evita di entrare in collisione con la linea di Interlandi, il cui obiettivo principa­ le è - come abbiamo visto - di inculcare negli italiani l’idea che sia in atto una «manomissione ebraica delle cose d'Italia», per poi incitarli a snidare e colpire il nemico nascosto. Non è su questo punto che le posizioni di Evola e di Interlandi di­ vergono sensibilmente. I nodi semmai vengono al pettine quando, nel numero del 20 luglio 1939 (“Psicologia criminale ebraica”, II, 18), Evola ritorna sul problema di come conciliare le due anime dello stereotipo antisemita: l’anima internazionalista (l’ebreo borghese/rivoluzionario) e quella esclusivista (l’ebreo ortodosso/sionista: di per sé un ossimoro). Schermandosi dietro alla figura di un immaginario lettore scettico («Chi vuol esser pru­ dente fino all’ultimo...»'), Evola torna a chiedersi se le ten­ denze contrastanti che ravvisa nell’ebraismo siano l’effetto di un gioco delle parti, e quindi di una strategia concertata a monte, ovvero di un istinto razziale che porterebbe gli uni (gli internazionalisti) a spianare la strada agli altri (agli esclusivi­ sti) in una coreografia che trascenderebbe la consapevolezza dei singoli. Alla fine Evola approda - come già nell’Introdu­ zione - a un compromesso: se anche il lettore prudente voles­ se evitare l’ipotesi estrema di «una assoluta unità di piano o di cospirazione», dovrebbe in ogni caso riconoscere «una singo­ lare concordanza di elementi favorevoli», la quale suggerireb­ be che il gioco delle parti non sia del tutto casuale. La con­ cordanza tra le due anime dell’ebraismo sarebbe insomma talmente perfetta da far pensare all’esistenza di una qualche 343

messinscena, sebbene neanche in questa occasione Evola ar rivi a svelare l’identità dei registi occulti.

Julius Evola, “Psicologia criminale ebraica”, Difesa della razza II, 18: 32-35 (20 luglio 1939) .. .all’Ebraismo, in fatto di morale e di visione del mondo, è propria una precisa ripresa della nota dottrina della doppia verità, e, invero, non per venire a capo di antinomie scolasti­ che, bensì per dei precisi scopi tattici. Infatti è cosa a tutti no­ ta che mentre l’ebraismo predica, per i non ebrei, il vangelo della democrazia, dell’eguaglianza, della parità dei diritti, dell’antirazzismo, dell’internazionalismo, riserva per se stesso tutt’altre verità: per i conti propri l’ebraismo professa invece il più rigoroso esclusivismo razzista e nazionalista, non intende per nulla confondersi con la comunità dei popoli ariani e, in una forma o nell’altra, non dimentica l’antica promessa del dominio universale del «popolo eletto» sull’insieme delle altre genti. L’accennata finalità tattica di questa duplicità, secondo la polemica antisemita, è ben evidente: mentre Luna morale quella interna - è destinata a rafforzare e preservare la razza ebraica, l’altra, quella esterna predicata ai «gentili», ai goim, ha lo scopo di spianare le vie ad Israele, di propiziare un am­ biente disarticolato e livellato, ove la «libertà» e Ineguaglian­ za dei diritti» serviranno solo come mezzi per svolgere indisturbatamente un’azione volta all’egemonia e al dominio del «popolo eletto» [...] Chi vuol essere prudente fino all’ultimo, può ricondurre a cause varie, accidentali e storiche e a due strati diversi dell’E­ braismo questa «doppia verità»; ma se egli non vuole anche es­ se incosciente fino all’ultimo, bisogna bene che da un dato di fatto positivo e incontestabile tragga le necessarie conseguen­ ze: può, se vuole, evitare l’ipotesi estremistica di una assoluta unità di piano o di cospirazione e di una piena consapevolezza di essa in tutti quegli elementi, cui è lasciata la sua realizzazio­ ne. Tuttavia egli dovrà pur concedere, che le cose, attraverso le imperscrutabili vie della provvidenza di uno Jehova non di­ mentico dell’antico impegno e dell’antica promessa fatta al «popolo eletto», vanno a realizzare di fatto una singolare con­ cordanza di elementi favorevoli: il lavoro degli uni va a spiana­ re le vie degli altri, la diffusione di dottrine ebraiche corrosive

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intese a disossare gli organismi sociali non ebraici forma l’am­ biente, che l’esecutore cosciente di un piano più potrebbe de­ siderare affinché il nucleo, che invece professa «l’altra verità», possa facilmente giungere ad una reale egemonia.

L’operazione è retoricamente azzardata poiché, nell’atto stesso di formulare la domanda, Evola apre uno spiraglio di dubbio nella mente del lettore, al quale concede la possibi­ lità di esitare, sia pure per un breve istante, tra due possibi­ li interpretazioni. Il margine di manovra accordato al letto­ re non è certo ampio, riducendosi alla libertà di sostituire una versione semplice della teoria della cospirazione con un’interpretazione più contorta della medesima. Tuttavia, leggendo questo brano si capisce che il lettore a cui si rivol­ ge Evola non è identico a quello che hanno in mente Interlandi e Almirante. Il lettore di Evola è un ossessivo soggetto alla vertigine del dubbio, che poi risolve per via di iniziazio­ ne esoterica, mentre quello di Interlandi è un soldato che ri­ sponde signorsì senza farsi troppe domande. Ciò che accomuna i due lettori - e che per qualche mese consente loro di convivere all’intemo della rivista - è la loro propensione a interpretare il mondo in modo aprioristico, im­ ponendo un’unica chiave di lettura agli eventi e forzando i sen­ si più ovvi dei testi pur di assecondare le proprie intime con­ vinzioni (quali che siano). La teoria della cospirazione offre per 1 appunto una griglia interpretativa elementare che permette ai diversi antisemiti di incontrarsi in una narrazione comune, chiudendo temporaneamente un occhio su tutto ciò che li divi­ de. Salvo che poi ciascuno si costruisce i Savi che più lo rispec­ chiano, ed ecco che le differenze ricominciano a farsi avvertire. Non sappiamo quali reazioni suscitò “Psicologia crimi­ nale ebraica” sul comitato editoriale della Difesa della razza. catto sta che, dopo il suo intervento del 20 luglio 1939, Evonon ritorna più sul tema della cospirazione, accontentan­ dosi di unirsi al coro di coloro che nel frattempo stanno co­ minciando ad accusare gli ebrei di avere provocato lo scoppio della nuova guerra mondiale.

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«Nei riguardi della guerra attuale, si può ben dire che essa è quella di mercanti e di ebrei, che a difesa dei loro interessi han­ no mobilitato le forze armate e le possibilità eroiche delle nazio. ni democratiche»1^.

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La soluzione del problema ebraico Infine, vi sono gli articoli che prospettano alcune possibili soluzioni del «problema ebraico» a guerra terminata (e vin­ ta). Posta l’improrogabile necessità di sbarazzarsi una volta per tutte degli «eterni parassiti», bisogna decidere cosa far­ ne e dove metterli. Le soluzioni caldeggiate sono diverse, dal trasferimento in qualche territorio africano (l’ipotesi più gettonata è quella del Madagascar) alla formazione di uno stato ebraico in terra d’Israele, come da progetto sionista.169

Giorgio Montandon, “Una soluzione ‘biologica’ della que­ stione ebraica, Difesa della razza 1,5: 9-10 (5 ottobre 1938)

Ammettiamo per il momento che vi sia l’intenzione di distruggere gli ebrei all’interno della Germania. Poco importa che ciò sia un bene o un male, che sia utile o inutile, che sia cosa da consigliarsi o da sconsigliarsi. Il solo punto di cui noi dobbiamo occuparci - biologicamente - è di sapere se ciò sia possibile [...] Non capisco come, per annullare l’elemento ebreo, biso­ gnerebbe sopprimerlo nel mondo intero, e certamente i diri­ genti della Germania non hanno questa pretesa. Si può perfi­ no rimproverare ad essi di non fare i passi necessari, per regolare il problema ebreo da un punto di vista mondiale, presso la potenza che, avendone la chiave, non dovrebbe fare altro che adoperarla: l’Inghilterra. Basterebbe che venisse riconosciuta la piena indipendenza della Palestina ebrea. L’indipendenza ottenuta - e gli arabi, indennizzati, fuori della Palestina: noi abbiamo esposto ciò altrove - le potenze che desiderassero sbarazzarsi degli ebrei completamente potrebbero fare come Ataturc. Ma altri paesi non sceglierebbero questa soluzione. Il programma, normalmente, ci pare che poirebbe essere il seguente:

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Gli indesiderabili, e quelli che lo desiderano essi stessi, vengono mandati in Palestina. 1 tollerabili restano nel paese, ma cittadini della Palestina, muniti di passaporto palestinese, con tutto ciò che ne deriva. Quelli che desiderano di assimilarsi (facoltà che non am­ mettono le leggi hitleriane) devono farne dichiarazione e sod­ disfare alle condizioni seguenti: - Interdizione di prendere uno pseudonimo, dopo l’entra­ ta in vigore della nuova legge; - Interdizione di sposare una persona di sangue ebreo. Quelli che non trovassero un coniuge non ebreo non si sposerebbero. - Obbligo di rinnegare la religione ebrea. Questo non perché si voglia minimamente perseguitare questa religione. Se un ebreo razzialmente ed etnicamente adottasse la religione israelita, ciò non avrebbe alcuna importanza; ma la religio­ ne ebrea è, delle dieci grandi religioni (cattolicesimo, prote­ stantesimo, ortodossia, islamismo, bramanesimo, buddi­ smo, confucianesimo, taoismo, scintoismo) la sola che sia propria a una razza, mentre tutte le altre religioni abbrac­ ciano razze diverse, di modo che nessun’altra religione es­ sendo caratteristica di una razza, per uscire dalla razza ebrea è di necessità abbandonare anche la religione ebrea-, - Interdizione di far parte di un’associazione israelita qua­ lunque; -Osservanza leale di una posizione conveniente riguar­ dante degli altri ebrei, isolati o in gruppi. - Una volta ottenuto ciò, al termine di alcuni anni, o di qualche generazione, e la legge lo preciserebbe, cambia­ mento del nome ebreo con uno francese. Niente contrasta - biologicamente - alla adozione di mi­ sure di questo genere che, come la pace regna tra greci e tur­ chi, porterebbe infine, nei diversi paesi, alla tranquillità tra au­ toctoni e allogeni.

Alfredo Mezio, “Gli ebrei contro il sionismo”, Difesa del­ la razza II, 2: 43-44 (20 novembre 1938) Dire che l’esperimento sionista si tiene in piedi grazie agli sforzi combinati dagli ebrei di tutto il mondo è una cosa che tutti sanno; ciò che tutti non sanno è il fatto che pur conti­ nuando a mandare il loro obolo al comitato nazionale ebraico

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gli ebrei sono profondamente ostili alla politica del movi-; mento sionista. Nel 1919 Bergson si rifiutò di firmare un ma­ nifesto di propaganda a favore della Palestina con la scusa che non voleva aver l’aria di essere più ebreo che francese, e il professore ebreo Silvano Levi chiamato alla Conferenza della Pace, nello stesso anno, per contribuire con la sua co­ noscenza della questione orientale all’attuazione della dichia­ razione Balfour, dichiarò, a nome degli ebrei francesi, che sa­ rebbe stato meglio nell’interesse dei suoi correligionari di piantarla col sionismo. Gli ebrei hanno una sacrosanta paura di consacrare con la loro adesione una politica che minaccia continuamente di riaprire la discussione sull’eterno problema della loro esistenza in qualità di cittadini dei paesi che li ospi­ tano. E vero che si fanno in quattro per non far fallire la co­ lonizzazione della Palestina, anzi questo aiuto che prima del­ la guerra europea poggiava principalmente sul concorso finanziario di due o tre grandi banchieri sefarditi, come Roth­ schild, il quale fornì da solo i capitali per l’acquisto della maggior parte delle terre espropriate agli arabi prima della di­ chiarazione Balfour, ha preso negli ultimi anni il carattere di un plebiscito. Ma la pretesa dei capi ufficiali del sionismo di trasformare «il focolare» in un forno per mettervi a cuocere tutti gli ebrei della Diaspora, e perciò anche quelli che non hanno alcun motivo di cambiare residenza, suscita nel loro foro interiore una resistenza che potrebbe essere più fatale per gli ebrei palestinesi di quella che sui villaggi sionisti fa pe­ sare il nazionalismo arabo con le sue aggressioni a mano ar­ mata e gli attacchi alle aziende agricole.

H. de Vries de Heekelingen, “L’eterna questione ebraica e la sua soluzione”, Difesa della razza III, 1:29-31 (5 novembre 1939) Nel corso dei secoli, gli Ebrei sono stati cacciati dapper­ tutto, anche dai paesi che pretendono attualmente che l’e­ mancipazione degli Ebrei, proclamata dalla Rivoluzione fran­ cese, sia stata un benefizio per gli Ebrei... e per gli altri. La Francia li ha cacciati a varie riprese e l’Inghilterra li ha caccia­ ti molte volte, le città ed i cantoni svizzeri li hanno espulsi sen­ za sosta. In alcuni paesi le espulsioni ricominciano oggi, e l’ul­ tima parola non è ancora detta, in questa materia. Altri paesi seguiranno infallibilmente.

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E pertanto, l’espulsione non basta, per dare una soluzione a| problema ebraico. La storia si ripete sempre. Vi sono leggi della natura che non cambiano. Mille, duemila, tremila anni ci hanno provato che, salvo alcune eccezioni, l’ebreo è inassimi­ labile. Espellerlo senz’altro significa ricominciare da capo. Che l’Olanda, la Francia, la Svizzera, gli Stati Uniti accolgano ora gli Ebrei, avrà sicura conseguenza che il tempo della satu­ razione giungerà anche per questi paesi, e che essi cacceranno a loro volta gli Ebrei, divenuti indesiderabili. Che fare? Ripetere gli errori dei secoli passati? No. Lasciare che i popoli esasperati organizzino pogroms? No, bisogna sempre rispettare la dignità umana e non si tratta di sapere se noi amiamo gli Ebrei o se noi non li amiamo. Io ammiro molto la fierezza degli Arabi, ma non mi piacerebbe vedere che l’insegnamento, l’eserci­ to, la magistratura o il governo del mio paese si trovassero nelle mani degli Arabi. Ho molto rispetto per le qualità dei Giappone­ si, ma non vorrei per questo vederli al comando del mio paese. Non si tratta d’una questione di simpatia o d’antipatia, ma d’una questione di razza, d’etnia, di popolo. Che ciascuno co­ mandi a casa sua. Bisogna dunque dotare gli Ebrei d’una pa­ tria, vogliano o non vogliano. La obiezione che non vi sia po­ sto disponibile, è senza fondamento. Mi propongo di trattare, un giorno, questa questione fino in fondo. Mi basti ora di se­ gnalare tre spazi che si potrebbero offrire agli Ebrei, se i go­ verni interessati venissero a un accordo: - una parte dell’Abissinia e del Kenya - La Rodesia del Nord - La Guyana inglese, francese e olandese. Per ciò che riguarda la prima di queste possibilità, sembra che il governo fascista abbia fatto una proposta molto netta. Ma le grandi democrazie, che si atteggiano a protettrici degli Ebrei, sembrano non volere una soluzione di questo genere. Oppure, sarebbero dominate a tal punto dai rappresentanti del Giudaismo da essere obbligate a respingere ogni proposta che condurrebbe ad una soluzione definitiva? Se la buona volontà vi fosse da una parte e dall’altra, la questione ebraica potrebbe essere perfettamente risolta. In questi ultimi tempi ho letto in certe riviste ebraiche articoli che esprimono esattamente la stessa opinione e che predicono conseguenze disastrose dell’odierno sistema di temporeggia­ mento. Ma i dirigenti ebrei vogliono una patria ebrea? Sono certo di no e il caso che ho segnalato sembra confermare que­

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sta opinione. Ma allora saranno essi i responsabili delle conse­ guenze cui porterà l’odierna situazione.

Carlo Barduzzi, “La soluzione della questione giudaica - Il Madagascar”, Difesa della razza III, 16:26-30 (20 giugno 1940) La popolazione attuale [del Madagascar] si aggira sui quattro milioni, con una densità media di sette abitanti per chilometro quadrato. Essa è costituita in maggioranza da mal­ gasci una razza oriunda della Malesia dove potrebbe essere gradatamente riportata popolando ad esempio la vastissima isola di Borneo e ciò allo scopo di sottrarla all’inevitabile sfrut­ tamento che sovra di essa eserciterebbero i giudei emigrati nonché ad impedire una nuova forma di meticciato ed infine per obbligare i giudei ad esercitare tutte le mansioni anche le più umili alle quali come è noto si sono sempre sottratti. [...] Da queste considerazioni mi pare emerga ordunque la possibilità reale di risolvere radicalmente la millenaria que­ stione giudaica col rendere i giudei arbitri del loro destino e coll’impedire loro nel contempo di nuocere ad altri popoli. Si tratta altresì di una soluzione che assomma l’allontanamento coll’isolamento, ma questi, temperati da principii di umanità, e che mettono il popolo giudeo nella condizione di potersi creare una vita propria, che dipenderà da lui, esclusivamente da lui, se sarà prospera o no, poiché non potrà più fare asse­ gnamento che sul proprio lavoro.

Beriindo Giannetti, “Sionismo e sionisti”, Difesa della razza III, 23: 17-21 (5 ottobre 1940)

In ogni caso la Palestina non è del tutto adatta ad accoglie­ re il vagheggiato Stato ebraico. In primo luogo per ragioni geo­ grafiche; essa non potrebbe accogliere che una piccola parte degli ebrei del mondo, e per la soluzione integrale del proble­ ma ciò è insufficiente. Poi, per ragioni politiche. Il diritto stori­ co degli Arabi sulla Palestina è incontestabile, anche se coesiste con un diritto ebraico di altra natura, fondato sugli innegabili miglioramenti apportati dagli ebrei nell’economia e nello svi­ luppo civile della Palestina. Non c’è quindi, almeno per ora, da pensare ad uno Stato arabo e ad uno Stato ebreo in Palestina; le ultime proposte britanniche del maggio scorso parlano di

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uno Stato in cui Arabi ed ebrei «share authority in govern­ ment» e vagheggiano una pacifica cooperazione che è altret­ tanto possibile quanto pescare la luna nel pozzo. Inoltre gli in­ teressi imperiali e strategici della Gran Bretagna in Palestina sono troppo rilevanti perché essa vi consenta la formazione di uno Stato che non sia suo vassallo, e di uno Stato ebreo po­ trebbe fidarsi ben poco, malgrado i tentativi giudaici di dimo­ strare la coincidenza degli interessi ebrei ed inglesi in Palestina.

Von Leers, “Madagascar terra promessa?”, Difesa della razza IV, 6: 22-25 (20 gennaio 1941)

Mai nella storia l’occasione per una liberazione assoluta dell’Europa e delle colonie Europee fu così favorevole come oggi. Mai la situazione del giudaismo fu così disperata. La più grande parte dell’Europa, i paesi più densamente popolati dai giudei sono nelle mani delle potenze dell’Asse, vinti i propu­ gnatori del giudaismo, vinta anche la Francia che dispone di Madagascar, crescente un movimento antigiudaico in tutta l’Europa, il giudaismo nel banco degli accusati, condannato dalla coscienza pubblica come responsabile di questa nuova guerra; ecco l’ora è suonata di liberarsi dall'incubo eterno!! Non perdiamo il momento favorevole. Dopo il secolo del li­ beralismo e marxismo, della framassoneria dei giudei è co­ minciato il secolo del razzismo, secolo della «degiudaizzazione» generale, integrale e radicale del nostro continente. L’ora per questa soluzione è venuta. Π numero dei giudei dei paesi dell’Europa non oltrepassa le possibilità demografiche del­ usola, la loro ultima migrazione non sarebbe cosa nuova nel tem­ po delle grandi nuove migrazioni dei popoli, la volontà quadrata delle Potenze dell’Asse vincerebbe ogni difficoltà, per molto che gridino i clienti dei giudei, ed «ogni giudeo ne ha dieci». I giudei a Madagascar! Non dimentichiamo la parola libefatrice. L’ora è propizia; bisogna battere il ferro mentre è caldo.

Claudio Colosso, “L’utopia sionista”, Difesa della razza IV, 17: 18-21 (5 luglio 1941) Intendiamo soffermarci su questa colossale mistificazione, n°ta col nome di Sionismo, tenuta in vita, per un lato da un res*duo spirito pseudoprofetico e, per l’altro da circoli demoplu-

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tomassonici che vedevano, nel mantenimento d’essa, una seria possibilità affaristica ai fini imperiali della Gran Bretagna. [...] L’Inghilterra, dalla pace di Vienna in poi, si adoperò in mille modi per la costruzione di una fitta rete di stati vassalli nel continente e fuori e nell’accaparramento preventivo di un numero enorme di clienti, cui era affidato il compito di osta­ colare con ogni forza il naturale sviluppo, nonché l’ambizione delle grandi potenze, che potevano compromettere il prestigio europeo d’Albione. Senza alcuna dignità, senza responsabilità d’onore il governo inglese servì le buone e le cattive cause, pronto a vendere, al momento opportuno, i propri federati o a servirsene senza scrupolo; nessuna idea per quanto utopisti­ ca, nessun sogno che lasciasse intravedere una minima proba­ bilità di realizzazione fu da esso trascurato; non apparirà quin­ di strana l’adesione inglese alle teorie dell’Herzl, che facevano prevedere la costruzione di uno stato ebraico, certo futuro vassallo della Gran Bretagna, nonché la riconoscenza tangibi­ le dei giudei moderatori delle alte sfere economiche. [...] Le lotte cruente tra Giudei ed Arabi, i disordini, le rivolte, l’impotenza dell’Inghilterra nel mettere fine a tale stato di co­ se, l’ondeggiare continuo d’essa tra gli uni e gli altri, forse de­ terminato dall’avere il nuovo organismo ebraico tradito l’inte­ ressata aspettativa della madrina, sono cronaca d’oggi perché se ne possa fare storia. Né è lecito allo storico coscienzioso ipotecare il futuro in proposito; a noi basta aver ricordato co­ me, tra gli artificiali corpi politici creati a Versaglia, abbia tro­ vato posto anche la parziale realizzazione della grande utopia sionista, frutto non di sano entusiasmo, volontà di masse e processi storici irrefrenabili, ma di occhiuta avidità di pochi, educati a vedere nel mondo un vasto campo di speculazione ai fini dei loro sordidi interessi personali.

Ma il sionismo non convince fino in fondo, prima di tutto perché è ciò che dichiarano di volere anche alcuni ebrei, e p^1 perché sotto il sionismo si intravede lo zampino dei britanni' ci. Quindi i difensori della razza citano le resistenze che l’idei sionista incontra presso molti ebrei europei per squalifica tale idea in quanto utopica. In questo caso è lecito rimarcate che l’ebraismo non è un’entità monolitica e compatta. Ma & contempo, man mano che l’utopia di Herzl si fa politicarne11 te più concreta, comincia a farsi largo l’idea che al di sott° 352

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jelle divergenze di opinione in campo ebraico si nasconda ^’intenzione ulteriore - la solita cospirazione, insomma. Dello sterminio in corso non si fa accenno. ili [\[el 1894, a Parigi, una donna delle pulizie al servizio dell’ambasciata tedesca trovò in un cestino della carta straccia i frammenti di un biglietto anonimo contenente un elenco di documenti relativi all’organizzazione militare francese. Alfred Dreyfus, un giovane ufficiale francese di origini ebraiche, fu identificato come l’autore del biglietto e arrestato con l’accu­ sa di alto tradimento. La notizia dell’arresto rimbombò sui giornali fran­ cesi, pressoché unanimi nell’invocare una condanna esemplare, e fin da subito il caso giudiziario divenne per molti un pretesto per rispolverare antichi rancori antisemiti (all’epoca rinfocolati da autori come Edouard Drumond, autore del popolarissimo libello La France Juive, 1886). Processato a porte chiuse dal Consiglio di guerra, Dreyfus fu giudicato colpevole e condannato a un’umiliante cerimonia di degradazione, ese­ guita il 5 gennaio 1895, nonché alla deportazione a vita nell’isola del Dia­ volo, in Guyana. Subito dopo la deportazione, la moglie e il fratello di Dreyfus, con l’aiuto dello scrittore Bernard Lazare, si attivarono in tutti i modi per cercare di riaprire il processo. Intanto, a luglio dello stesso an­ no, ci fu un cambiamento ai vertici del Servizio Informazioni dello Stato maggiore e il nuovo capo - il tenente colonnello Picquart - si convinse che l’autore del biglietto incriminato non fosse Dreyfus, bensì il maggio­ re Esterhazy, un aristocratico di origini ungheresi sommerso da debiti di gioco con un passato di accertati rapporti con l’ambasciata tedesca alle spalle. Sfidando le resistenze dei vertici militari, Picquart decise allora di riaprire il caso; il 16 novembre 1895 venne allontanato dal suo ufficio e spedito in missione in Tunisia. Ma nel frattempo alcuni intellettuali fran­ cesi avevano cominciato a prendere pubblicamente le difese di Dreyfus: tra questi, Marcel Proust, Anatole France, André Gide, Sarah Bernhardt, "tonet, Toulose-Lautrec, Lévy-Bruhl, e molti altri. La Francia si spaccò in oue fronti - dreyfusards e antidreyfusards - e i toni della disputa si fecero sempre più accesi, nonostante il primo ministro Méline dichiarasse (nel dicembre 1897) che “il n’y a pas d’affaire Dreyfus”. Il 10-11 gennaio 1898 osterhazy venne assolto con formula piena e acclamato dal fronte anti‘f'fyfusard come un eroe. Fu a quel punto che Émile Zola scrisse il suo ceeore J’accuse, uscito il 13 gennaio 1898 sul giornale LAurore, in cui - in °rma di lettera aperta al presidente della Repubblica - lanciò accuse duftssime ai responsabili dello scandalo. L’articolo di Zola suscitò un ve­ spaio: il 15 gennaio venne pubblicato il primo appello di intellettuali che Marnavano una revisione del processo. Zola, da parte sua, venne pro3^?at0 per vilipendio e condannato a un anno di carcere e a una multa di franchi. Il 3 giugno 1899 Esterhazy confessò di essere l’autore del *8hetto. Poche settimane dopo Dreyfus fu rimpatriato e rinchiuso in carI Per sottrarlo alla furia degli antidreyfusardi che avevano annunciato °ro intenzione di linciarlo. Nell’agosto del 1899, sotto gli occhi della

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stampa mondiale, ebbe inizio il secondo processo Dreyfus. Senza addi re nuove prove, il tribunale militare confermò il verdetto di colpevole,? sia pure riducendo la pena a dieci anni di lavori forzati. La sentenza pjj? vocò reazioni indignate in tutto il mondo, al punto da costringere il ptç sidente Loubet a concedere la grazia all’ex-ufficiale. Ma fu solo nel 19qz che Dreyfus venne riabilitato e reintegrato nel suo grado. 128 Sull’immagine dell’Ebreo-mondo, v. Matard-Bonucci 2004. 129 Sui fraintendimenti che circondano l’espressione “popolo eletto” ti torneremo in seguito. 150 Cesare Zumaglini, “Il sacrilegio dell’ostia”, Difesa della razza II, 5· 24 25 (5 gennaio 1939). 131 Ancora oggi la si ritrova in numerosi siti antisemiti, come www.holywar.qfc www.amprom.org, e www.stsimonoftrent.com. 132 Sulla storia dell’omicidio di Norwich, v. Chevalier 1988: 230. 133 Da Poliakov, Storia dell’antisemitismo vol. I: 69 (che a sua volta trae il testo della bolla papale da Elie Berger, Les registres d’Innocent IV, Paris 1884:403). 134 Per una ricostruzione dettagliata del caso di Simone di Trento a parti­ re dalla documentazione dell’epoca, v. il cd-rom Simonino, 1475, Trento e gli ebrei, Istituto Trentino di Cultura e Giunti Multimedia, Trento, 2001. 135 Traggo queste informazioni da Chevalier (1988: 208) il quale a sua vol­ ta si rifa a E Lovski, Antisémitisme et Mystère d’Israël, 1955. 136 Fernando Porfiri, “San Tommaso e gli ebrei”, Difesa della razza III, 14: 35-39. 137 Lorenzo Ballanti, “Voltaire e gli ebrei”, Difesa della razza III, 11:21-23. 138 Cicerone pronunciò l’orazione Pro Fiacco nel 59 a.C. in difesa dell’ex governatore della provincia romana dell’Asia, Lucio Valerio Fiacco, ac­ cusato di corruzione. Una delle accuse era che Fiacco avesse indebita­ mente confiscato l’oro che gli ebrei della sua provincia avevano raccolto per il tempio di Gerusalemme. 139 Così Lutero nel 1523: “Ecco perché consiglio d’essere premurosi ver­ so di loro: finché ricorreremo alla violenza e alle menzogne, e li accusere­ mo di far uso del sangue cristiano per togliersi il cattivo odore, e di non so quali altre frottole, e impediremo loro di vivere e lavorare tra noi nelle nostre comunità, e li costringeremo a praticare l’usura - come potranno venire a noi? Se vogliamo aiutarli dobbiamo applicare con loro la legge dell’amore cristiano e non quello papista. Dobbiamo accoglierli amichi' volmente, lasciarli vivere e lavorare con noi, ed essi saranno di tutto cuo­ re con noi” (cit. in Poliakov, Storia degli ebrei vol. I: 231 ). 140 Martin Lutero, Contro gli ebrei e le loro menzogne e Sehern Hamephot“5' 141 Poliakov, ibid: 228. 142 L’opera più autorevole ed esaustiva sul mito della cospirazione giuđaK0" massonica è Warrant for a genocide di Norman Cohn (1967). Per una ποθ struzione della genesi del mito della cospirazione ebraica, culminato con las sura e la diffusione dei Protocolli, v. anche Romano (1992) ed Eisner (2005L 143 In effetti, come ha osservato Cohn (1967: 33), nel Settecento i mäSS^. ni erano tendenzialmente ostili agli ebrei, tant’è vero che molte logge fiutavano loro l’ingresso.

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,44 Sul ruolo della Civiltà cattolica nella diffusione del mito dell’internaionale ebraica, v. De Felice 1961 [1993: 64-41]. 145 Sul palinsesto dei Protocolli, v. Cohn (1967) ed Eco (1994: 166-173). 146 La testimonianza di du Chayla venne pubblicata nel maggio del 1920 su una rivista russa di Parigi e, due giorni dopo, su La tribune juive di Pari„j, con il titolo “Sergei Alexandrovic Nilus e i Protocolli dei Savi di Sion”. Secondo la ricostruzione di du Chayla, i Protocolli nacquero come arma segreta in un intrigo di corte che aveva per protagonisti: (1) lo zar Nicola, il quale prima di infatuarsi di Rasputin era stato ammaliato da (2) un guaritore e ipnotizzatore francese di nome Philippe. Pare che Philip­ pe fosse inviso a molti, ed è per questo che (3) Nilus fu mandato a corte per cercare di scalzarlo. Intanto, da Parigi, (4) Račhovskij fece recapitare il manoscritto (in pessimo francese) a Nilus, in modo che questi potesse attribuirsene la scoperta e far lievitare le sue azioni a corte. In base a que­ sta ricostruzione, sarebbe Raéhovskij la prima fonte identificabile dei Protocolli. 147 Come ha osservato Sergio Romano, “per tutti coloro che credevano ciecamente alla perfidia del complotto ebraico, le prove «contro» erano sempre necessariamente delle prove «per». Anziché dimostrare la falsità dei Protocolli esse confermavano l'onnipotenza del nemico e la sua dia­ bolica scaltrezza” (Romano 1992: 68). 148 In questo caso saremmo di fronte a un falso storico: “Il falso storico si verifica quando in un documento originale, prodotto da un autore a cui è riconosciuto il diritto di farlo, viene affermato qualcosa contrario alla ve­ rità dei fatti” (Eco 1990: 170). 149 Per documento si intende qui qualunque residuo materiale del passa­ to che possa fungere da indizio sensibile su cui edificare le ipotesi stori­ che: non solo testi scritti, ma anche residui architettonici, utensili, e qua­ lunque altro frammento ereditato dal passato. 150 In che cosa consista esattamente il «.pieno, stupefacente, spaventoso adempimento» dei Protocolli Preziosi non lo dice, contando sul fatto che d lettore a cui si rivolge afferri benissimo a che cosa egli sta alludendo: al­ la Grande Guerra e alla Rivoluzione russa, ovviamente, ma forse anche In prospettiva meno planetaria - alla delusione dell’Italia per essere stata tagliata fuori dal Patto di Versailles. È questo il bello dei Protocolli: essi sono sufficientemente sgangherati da poter essere piegati alle esigenze Politiche più disparate. Osserva Romano (1992: 92-3): “In Russia, duran­ te la guerra civile, erano serviti a suscitare contro i bolscevichi la xenofo­ bia superstiziosa e gretta delle popolazioni rurali. In Germania, e su scaa più piccola in Italia, avevano dato a una parte dell’opinione il confortante convincimento che il paese non era stato tradito dalle proprie sproporzionate ambizioni, ma da un subdolo complotto di forze nemi­ che. In Inghilterra avevano fornito una spiegazione a chi constatava che a vittoria non aveva risparmiato al paese una preoccupante situazione so­ ciale. In Francia avevano ridato fiato e argomenti a quella parte della na­ sone che non aveva mai accettato la rivoluzione francese e le sue conseSUenze. In America infine avevano fornito una ‘prova’ a coloro che esistevano con argomenti puritani e populisti alla crescente modernizza-

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■ zione e secolarizzazione della società. [...] 11 carattere ‘profetico’ dei Pro tocolli era in molti casi più apparente che reale. Come nelle profezie Nostradamus la gente trovava nel libro esattamente ciò che cercava. I Jj fetti, le oscurità, le imprecisioni e le sommarie cuciture che il falsario ave. va operato tra fonti diverse diventavano in quasta prospettiva altrettante virtù perché conferivano al testo un carattere oracolare”. 151 “Non bisogna difatti dimenticare che secoli di provvedimenti discri­ minatori antisemiti avevano lasciato gli ebrei liberi di sviluppare soltanto due tipi di attività: il commercio e la lettura dei libri sacri. Tutte le altre at­ tività erano escluse, in particolare le professioni liberali, con la sola ecce­ zione dell’esercizio della medicina praticata fra correligionari che, in ra­ gione della particolare tradizione ebraica in questo campo, spingeva anche i cristiani ad usufruire più o meno nascostamente della competen­ za di medici ebrei. [...] Non ci deve quindi sorprendere se, non appena lasciati liberi di agire nella società alla stregua degli altri cittadini, gli ebrei esercitarono soprattutto quelle attività in cui erano versati, e forse persi­ no più competenti degli altri, per forza di cose” (Israel-Nastasi 1998:58). 152 Le possibilità sono due: o i Protocolli sono stati scritti dal nemico (dunque dall’Ebreo), oppure da qualcun altro, probabilmente da un an­ tisemita. Se si pensasse che i Protocolli sono davvero usciti da una penna ebraica, sarebbe ragionevole darsi da fare per allertare il mondo del peri­ colo, ma avrebbe molto meno senso diffondere la notizia del complotto con il fervore di apostoli. Diverso è il caso in cui si ritenga che i Protocol­ li siano stati scritti da antisemiti del passato, nei confronti dei quali non è inverosimile che un antisemita del presente provi un sussulto di fervore apostolico. 153 In retorica, la concessione è una tecnica argomentativa che “esprime il fatto che si riservi un’accoglienza favorevole a certi argomenti presunti o reali dell’avversario. Restringendo le premesse, abbandonando certe test, rinunciando a certi argomenti, l’oratore può rendere la sua posizione piu forte, più facile a difendersi, e dar prova nel corso del dibattito contem­ poraneamente di fair play e di obiettività” (Perelman - Olbrechts-Tyteca 1958 [1989: 510]). 154 II primo a suggerire che Joly fosse ebreo, e che pertanto potesse esse­ re misteriosamente coinvolto nella cospirazione, fu Lord Alfred Douglas nel 1921. Ovviamente, quand’anche Joly fosse stato ebreo, ciò non avreb­ be dimostrato alcunché. Ma, per la cronaca, si dà il caso che Joly non fosse ebreo né avesse la benché minima traccia di ascendenze ebraiche; solo che il suo elogio funebre fu pronunciato da un signore che era anche un framassone, e ciò parve ad alcuni apologisti dei Protocolli come la prova inchiodante della sua (di Joly) partecipazione al complotto. Altri ricama­ rono sul nome, che interpretarono come una forma contratta di J0* Levy” (v. Cohn 1967: 227). 155 Testo della sentenza del 1937, pp. 49-50 (Wiener Library), cit. in Cohn 1967:229. 156 In questo caso, i Protocolli rientrerebbero nella categoria del falso plomatico. “Mentre un falso storico riguarda un documento fornialmeI3 te autentico che contiene cose false (come accade con una conferma a

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•entice di un privilegio falso), il falso diplomatico offre una conferma fal­ sa di privilegi che si suppongono autentici” (Eco 1990: 176): si pensi al caSo dei documenti contraffatti dai monaci medievali allo scopo di anteJatare i diritti di proprietà del proprio monastero. Eco osserva che gli au­ tori medioevali avevano una nozione particolare di autenticità, fondata sulla tradizione piuttosto che sulla prova documentaria. 157 Si direbbe che Evola si ispiri qui al principio enunciato nel decimo protocollo: l’importanza della reticenza sta nelfatto che un principio il qua­ le non sia stato palesato apertamente ci lascia una grande libertà d’azione; mentre il principio stesso, una volta dichiarato, acquista il carattere di una cosa stabilita. 158 II metodo scientifico si basa sul principio del fallibilismo, e cioè sull’i­ dea che l’unica via di accesso alla verità sia tramite l’errore, e che pertan­ to la conoscenza scientifica proceda attraverso cicli di congetture e di confutazioni. In quest’ottica, la realtà esterna non è qualcosa che si cono­ sce direttamente, per intuizione o illuminazione interiore, bensì attraver­ so una serie potenzialmente infinita di tentativi e di errori. Che cosa ga­ rantisce che le ipotesi si adeguino man mano al modo in cui “stanno veramente le cose” (alla realtà)? Per il metodo scientifico, tale garanzia è data dal controllo incrociato della comunità degli interpreti che, attraver­ so una serie ininterrotta di verifiche empiriche, di nuove ipotesi e di falsi­ ficazioni, alla lunga seleziona solo quelle ipotesi che dimostrano una mag­ giore capacità di adattamento rispetto all’ambiente, laddove le credenze che si rivelano inefficaci tendono ad essere abbandonate. E per questo che, finché si rimane almeno formalmente entro il perimetro del metodo scientifico, è possibile sottoporre le interpretazioni in Uzza a uno scrutinio pubblico per riconoscerne le fallacie e le eventuali incon­ gruenze. Chi ritiene che il progresso della conoscenza avvenga attraverso cicli di ipotesi, errori e autocorrezioni accetta che vi siano dei criteri co­ muni, culturalmente posti ma intersoggettivamente condivisi, necessari per formulare giudizi su quali siano le interpretazioni più adeguate (o se non altro meno inadeguate) della realtà indagata. Lo accetta - sia pure a malincuore - anche qualora la valutazione negativa si abbatta sull’inter­ pretazione nella quale egli ha riposto la sua fiducia: in tal caso, potrà darsi da fare per cercare nuove prove o argomenti più efficaci con cui convin­ cere la comunità a cambiare il suo verdetto. Ma, finché si atterrà ai princìPi della discussione scientifica, non si sottrarrà al gioco dei controlli incroc'ati, perché saprà che ogni confronto - anche polemico - tra posizioni diverse richiede alcuni prerequisiti minimi di mutuo consenso che impe­ discano allo scontro di degenerare in rissa o in prevaricazione. La battuta attribuita a Disraeli viene in realtà pronunciata dal prota­ gonista del suo romanzo Coningsby (1844). In questo senso, il merito dei Protocolli consisterebbe semplicemente nell’aver formulato questa idea, fornendo a Evola (e ad altri come lui) un’u'de “soffiata”. Chi riceve una soffiata non è tenuto - secondo Evola - a controllare la fonte da cui essa proviene, ma solo a trarne ispirazione per vedefe quali piste investigative essa apra: al limite, lo stesso ruolo di «stimolante spirituale» potrebbe essere assolto altrettanto bene da un romanzo.

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161 La tecnica del segreto perennemente differito è tipica della tradizione! ermetica nella quale Evola si inserisce: ciò che contraddistingue il pensiero ermetico è l’idea che, da qualche parte, si nasconda una Verità ultima, quale tuttavia è impenetrabile: ogni testo, e ogni fenomeno percepibile, ri­ manda allusivamente a tale Verità, in una catena di rimandi occulti che col­ legano i fenomeni naturali a quelli spirituali, il destino degli uomini al cor­ so delle stelle, e così via (per cui “l’universo diventa un grande teatro degli specchi dove qualsiasi cosa riflette e significa tutte le altre [Eco 1990:44]). Ma la Verità ultima, a cui tutte le verità parziali rinvierebbero indiretta­ mente, resta inafferrabile, in quanto “un segreto iniziatico rivelato non ser­ ve a nulla. Ogni volta che si pensa di aver scoperto un segreto, esso sarà ta­ le solo se rinvia a un altro segreto, in un movimento progressivo verso un segreto finale. [...] Il segreto finale dell’iniziazione ermetica è che tutto è segreto. Il segreto ermetico dev’essere un segreto vuoto’’ (Eco 1990: 45). 9 162 Rispetto allo stereotipo con cui gli antisemiti comuni definiscono l’Ebreo (senza preoccuparsi troppo di organizzare le incongruenze che scaturisco­ no dalle diverse stratificazioni dello stereotipo), l’Ebreo che ha in mente Evola è dunque qualcosa di più: è un archetipo, ovvero uno stampo pri­ mordiale, un modello originario delle forme di cui le cose sensibili sareb­ bero le semplici copie. L’archetipo dell’Ebreo è insomma uno stereotipo di­ stillato: come le idee platoniche esso è eterno (vs. storico), è essenziale (vs/S accidentale) ed è trascendente (vs. immanente, materiale, fenomenico), os­ sia emanato da impersonali forze ultraterrene. 163 A questo proposito, v. Wiesel (1982 [1986: 136]): “Personaggio privi­ legiato, il Gher è una sorta di eletto. Abbiamo il dovere di testimoniargli carità e comprensione. E proibito respingere il Gher, offenderlo, causar­ gli pregiudizio; bisogna assisterlo con priorità sul cittadino medio, biso­ gna non soltanto aiutarlo ma comprenderlo e fargli sentire fino a qual punto è benvenuto; bisogna amarlo. Il termine Veahavta (E tu amerai) viene impiegato tre volte nella Scrittura: Tu amerai il tuo Dio, amerai il tuo prossimo e amerai il Gher, lo straniero”. 164 II che naturalmente non esclude che singoli ebrei possano avere a loro volta frainteso il concetto di elezione, piegandolo in senso settario: ogni gruppo ha le sue componenti intolleranti e non si vede perché gli ebrei do­ vrebbero costituire un’eccezione. Ma la polemica sollevata da Evola non ri­ guarda le interpretazioni e le azioni dei singoli, bensì il modo in cui l’ebrai­ smo complessivamente inteso si auto-rappresenta nei suoi testi fondativi. ’ 165 Collegando l’elezione alla presunta rivendicazione di un impero, Evola stimola nel lettore una catena di inferenze che rimangono implicite nel suo discorso, ma che proprio per questo sono poste al riparo dalla contestazione. Come si può passare dal concetto spirituale di elezione (che ri­ guarda il rapporto tra gli ebrei e Jahvè) alla conclusione del tutto secola­ re che gli ebrei rivendichino per sé un Impero? Il termine medio del sillogismo è fornito dal sionismo, il quale tradurrebbe in termini politici l’antico sogno del ritorno alla terra promessa coltivato da secoli dal p°' polo ebraico. Il ragionamento implicitamente evocato da Evola prevede pertanto tre passaggi: (1) dal popolo eletto alla terra promessa·, secondo la Bibbia, il premio che Dio offre al popolo ebraico in cambio della sua al-

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jeanza è il ritorno alla terra promessa (di per sé discutibile); (2) dalla terr,i promessa al sionismo·, il sionismo fa leva sul motivo biblico della terra promessa per rivendicare il diritto a una patria per gli ebrei, e per identi­ ficare tale patria con il territorio in cui anticamente sorse il regno di Ca­ naan (storicamente contestabile); (3) dal sionismo all’Impero·, vuoi vedere che dietro alle rivendicazioni territoriali del sionismo si nasconde il pro­ getto ben più ambizioso di affondare le radici in terra sacra per poi rami­ ficarsi oltre i confini dell’eventuale stato di Israele, e realizzare così il mil­ lenario piano di conquista del mondo? (completamente fantasioso). 1«· V. Eco 2004b sulla favola del Lupo e l’agnello come esempio paradig­ matico di retorica della prevaricazione. Secondo Eco, “la favola ci dice due cose. Che chi prevarica cerca anzitutto di legittimarsi. Se la legittima­ zione viene confutata, oppone alla retorica il non argomento della forza”. L’aspetto interessante è che in effetti il prevaricatore non avrebbe bisogno di giustificazioni, visto che chi può imporre qualcosa con la forza non ha bisogno di richiedere il consenso a qualcuno. Eppure il lupo, così come molti prevaricatori, ricorre a pseudo-argomentazioni per giustificare il suo gesto. E tipico della retorica della prevaricazione costruire un prete­ sto o casus belli per rappresentare l’azione aggressiva come reazione di­ fensiva: i Protocolli assolvono mirabilmente a questo compito. 167 Samuele Schaerf, I cognomi degli ebrei d’Italia. Con un’appendice su le famiglie nobili ebree d’Italia, Firenze, ed. Israel, 1925. l68Evola, “Anima e razza della guerra”, DR III, 21-22: 22-26 (5-20 set­ tembre 1940). 169 Nel corso del 1934 Mussolini stesso aveva incontrato Chaim Weizmann quattro volte per parlare del coinvolgimento italiano nel progetto sionista e, in un colloquio con il presidente delle delegazioni ebraiche (Nahum Goldmann) era giunto ad affermare: «voi dovete creare uno Sta­ to Ebraico. Io sono sionista, io. L’ho già detto al dottor Weizmann. Voi do­ vete avere un vero Stato, e non il ridicolo Focolare Nazionale che vi hanno offerto gli Inglesi. Io vi aiuterò a creare lo Stato Ebraico» (cfr. De Felice 1961 [1993: 138]).

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Epilogo

Dal Libro della Memoria: gli ebrei deportati dall’Italia (1943-45) di Liliana Picciotto: ABEASIS ALBERTO, nato a Homs (Libia) il 07.09.1896. Figlio di For­ tunato. Ultima residenza nota: Alessandria. Arrestato a *** il *** da ***. Detenuto a Fossoli campo. Deportato da Verona il 02.08.1944 a Bergen Belsen. Liberato a Bergen Belsen il 15.04.1945. Fonte la, convoglio 17 ABEASIS CLEMENTE, nato a Homs (Libia) il 23.11.1889, figlio di Giuseppe e Nahum Ester, coniugato con Hassan Rachele. Ultima resi­ denza nota: Teramo. Arrestato a Civitella del Tronto (TE) il 30.11.1943 da italiani. Detenuto a Civitella del Tronto campo, Fossoli campo. De­ portato da Fossoli il 16.05.1944 a Bergen Belsen. Liberato a Biberach nel maggio 1945. Fonte la, convoglio 11 ABEASIS ESTER, nata a Tripoli (Libia) il 19.10.1926, figlia di Clemen­ te e Hassan Rachele. Ultima residenza nota: Teramo. Arrestata a Civitel­ la del Tronto (TE) il 30.11.1943 da italiani. Detenuta a Civitella del Tronto campo, Fossoli campo. Deportata da Fossoli il 16.05.1944 a Ber­ gen Belsen. Liberata a Biberach nel maggio 1945. Fonte la, convoglio 11 ABEASIS GIORGIO, nato a Tripoli (Libia) il 04.02.1923, figlio di Cle­ mente e Hassan Rachele. Ultima residenza nota: Teramo. Arrestato a Ci­ vitella del Tronto (TE) il 30.11.1943 da italiani. Detenuto a Civitella del Tronto campo, Fossoli campo. Deportato da Fossoli il 16.05.1944 a Ber­ gen Belsen. Liberato a Biberach nel maggio 1945. Fonte la, convoglio 11 ABEASIS RACHELE Vedi Hassan Rachele

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ABEASIS REBECCA, nata a Tripoli (Libia) il 02.12.1931, figlia di Cle­ mente e Hassan Rachele. Ultima residenza nota: Teramo. Arrestata a Civitella del Tronto (TE) il 30.11.1943 da italiani. Detenuta a Civitella del Tronto campo, Fossoli campo. Deportata da Fossoli il 16.05.1944 a Ber­ gen Belsen. Liberata a Biberach nel maggio 1945. Fonte la, convoglio 11

ABEASIS RENATO, nato a Tripoli (Libia) il 20.09.1928, figlio di Cle­ mente e Hassan Rachele. Ultima residenza nota: Teramo. Arrestato a Ci­ vitella del Tronto (TE) il 30.11.1943 da italiani. Detenuto a Civitella del Tronto campo, Fossoli campo. Deportato da Fossoli il 16.05.1944 a Ber­ gen Belsen. Liberato a Biberach nel maggio 1945. Fonte la, convoglio 11 ABEL OTTO, nato a Vienna in Austria il 18.01.1901, figlio di Ludovico e Beer Regina. Ultima residenza nota: Francia meridionale. Arrestato a Borgo S. Dalmazzo (CN) il 18.09.1943 da tedeschi. Detenuto a Borgo San Dalmazzo campo. Deportato da Borgo S. Dalmazzo il 21.11.1943 ad Au­ schwitz via Drancy. Matricola n. 167446. Deceduto ad Auschwitz dopo il 27.02.1944. Fonte la, convoglio 04a

ABELES FRANCESCA, detta FANI, nata a Veszprem in Ungheria 1Ό8.12.1869, figlia di Massimilano e Schoenfeld Cecilia, coniugata con Sagi Giulio. Ultima residenza nota: Fiume. Arrestata a Fiume nel mese di marzo 1944 da tedeschi. Detenuta a S. Sabba campo. Deportata da Trie­ ste il 29.03.1944 ad Auschwitz. Uccisa all’arrivo ad Auschwitz il 04.04.1944. Fonte la, convoglio 25T ABENAIM ELIA GIUSEPPE, nato a Livorno il 21.10.1912, figlio di Dario e Eminente Rosa, coniugato. Ultima residenza nota: Genova. Arre­ stato a Genova il 02.08.1944 da ***. Detenuto a Genova carcere, Milano carcere, Bolzano campo. Deportato da Bolzano il 24.10.1944 ad Au­ schwitz. Matricola n. 199858. Deceduto a Mauthausen il 22.04.1945. Fonte la, convoglio 18 ABENAIM ETTORE, nato a Pisa il 05.08.1909, figlio di Umberto e Cas­ sato Linda. Ultima residenza nota: Torino. Arrestato a Torino il 15.12.1943 da ***. Detenuto a Torino carcere, Milano carcere. Deporta­ to da Milano il 30.01.1944 ad Auschwitz. Matricola n. 173398. Deceduto a Buchenwald dopo il 26.01.1945. Fonte la, convoglio 06

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F^ABENAIM MARIO , nato a Livorno il 24.08.1927, figlio di Oreste e

Bueno Siila. Ultima residenza nota: Livorno. Arrestato a Marlia (LU) Γ08.12.1943 da italiani. Detenuto a Bagni di Lucca campo, Lucca carce­ re, Firenze carcere, Milano carcere. Deportato da Milano il 30.01.1944 ad Auschwitz. Matricola n. 173395. Liberato nel circondario di Auschwitz dopo il 18.01.1945. Fonte la, convoglio 06 ABENAIM MARIO, nato a Livorno il 05.07.1916, figlio di Lazzaro e Sitri Fortunata. Ultima residenza nota: Livorno. Arrestato in provincia di Lucca il *** da italiani. Detenuto a Lucca, Livorno carcere, Firenze carcere, Milano carcere. Deportato da Milano il 30.01.1944 ad Auschwitz. Matricola n. ***. Deceduto ad Auschwitz il 15.01.1945. Fonte la, convoglio 06 ABENAIM ORESTE, nato a Livorno il 04.07.1897, figlio di Lazzaro e Sitri Fortunata, coniugato con Bueno Siila. Ultima residenza nota: Livor­ no. Arrestato a Marlia (LU) Γ08.12.1943 da italiani. Detenuto a Bagni di Lucca campo, Lucca carcere, Firenze carcere, Milano carcere. Deportato da Milano il 30.01.1944 ad Auschwitz. Matricola n. ***. Deceduto in luogo ignoto in data ignota. Fonte la, convoglio 06

ABENAIM OTTORINO, nato a Livorno il 20.12.1912, figlio di Lazza­ ro e Sitri Fortunata. Ultima residenza nota: Livorno. Arrestato in provin­ cia di Lucca il *** da italiani. Detenuto a Lucca, Livorno carcere, Firen­ ze carcere, Milano carcere. Deportato da Milano il 30.01.1944 ad Auschwitz. Matricola n. ***. Deceduto a Miebitz il 15.03.1945. Fonte la, convoglio 06 ABENAIM RENZO, nato a Livorno il 14.08.1915, figlio di Oreste e Bueno Siila. Ultima residenza nota: Livorno. Arrestato a Marlia (LU) 1Ό8.12.1943 da italiani. Detenuto a Bagni di Lucca campo, Lucca carce­ re, Firenze carcere, Milano carcere. Deportato da Milano il 30.01.1944 ad Auschwitz. Matricola n. 173397. Deceduto in evacuazione da Auschwitz dopo il 18.01.1945. Fonte la, convoglio 06 ABENAIM TEOFILO, nato a Alessandria in Egitto il 31.12.1878, figlio di Adolfo e Viterbo Regina, coniugato con Viterbo Laura. Ultima resi­ denza nota: Milano. Arrestato a Milano il 10.02.1944 da ***. Detenuto a Milano carcere, Fossoli campo. Deportato da Fossoli il 05.04.1944 ad Auschwitz. Ucciso all’arrivo ad Auschwitz il 10.04.1944. Fonte la, convoglio 09

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ABENAIM WANDA, nata a Pisa il 06.05.1907, figlia di Umberto e Cas­ sato Linda, coniugata con Pacifici Riccardo. Ultima residenza nota: Ge­ nova. Arrestata a Firenze il 26.11.1943 da italiani con tedeschi. Detenuta a Firenze convento, Verona. Deportata da Verona il 06.12.1943 ad Au­ schwitz. Immatricolazione dubbia. Deceduta in luogo ignoto in data ignota. Fonte la, convoglio 06

ABENIMOLO. Arrestato. Deportato da Milano il 30.01.1944 ad Au­ schwitz. Matricola n. 173394. Deceduto in luogo ignoto in data ignota. ABOAF ABRAMO MARCO, nato a Venezia il 04.11.1919, figlio di Achille e Mogno Rosa Lucia. Arrestato a Roma 1Ί 1.04.1944 da italiani. Detenuto a Roma, Fossoli campo. Deportato da Verona il 02.08.1944 a Buchenwald. Matricola n. ***. Liberato a Buchenwald 1 1 1.04.1945. Fonte la, convoglio Î5 ABOAF ACHILLE, nato a Venezia il 22.06.1891, figlio di Giacomo e Pighin Augusta, coniugato con Mogno Rosa Lucia. Ultima residenza nota: I Venezia. Arrestato a Venezia il 20.08.1944 da italiani con tedeschi. Dete­ nuto a Venezia carcere, S. Sabba campo. Deportato da Trieste il 02.09.1944 ad Auschwitz. Matricola n. ***. Deceduto a Buchenwald il 30.04.1945. Fonte la, convoglio 37T ABOAF GINO, nato a Venezia il 13.11.1925, figlio di Achille e Mogno Rosa Lucia. Ultima residenza nota: Venezia. Arrestato a Venezia il 18.08.1944 da italiani con tedeschi. Detenuto a Venezia carcere, S. Sabba campo. Deportato da Trieste il 02.09.1944 ad Auschwitz. Matricola n. ***. Liberato a Mauthausen il 05.05.1945. Fonte la, convoglio 37T ABOAF GIUDITTA RITA, nata a Venezia 1Ό8.05.1894, figlia di Giaco­ mo e Pighin Augusta, coniugata con Navarro Attilio. Ultima residenza nota: Venezia. Arrestata a Venezia il 05.05.1944 da italiani con tedeschi. Detenuta a Venezia carcere, Fossoli campo. Deportata da Fossoli il 26.06.1944 ad Auschwitz. Immatricolazione dubbia. Deceduta in luogo ignoto in data ignota. Fonte la, convoglio 15 ABOAF GUIDO, nato a Venezia il 13.01.1924, figlio di Achille e Mogno Rosa Lucia. Arrestato a Roma il 26.03.1944 da italiani. Detenuto a Roma carcere, Fossoli campo. Deportato da Verona il 02.08.1944 a Bu­ chenwald. Matricola n. ***. Liberato a Buchenwald nell’aprile 1945. Fonte la, convoglio 15

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ABOAF IDA, nata a Venezia il 19.07.1901, figlia di Angelo e Pecorini Fi­ lomena, coniugata con Perlmutter Gilmo. Ultima residenza nota: Vene­ zia. Arrestata a Venezia il 05.12.1943 da italiani. Detenuta a Venezia car­ cere, Fossoli campo. Deportata da Fossli il 22.02.1944 ad Auschwitz. Immatricolazione dubbia. Deceduta in luogo ignoto in data ignota. Fonte lb, convoglio 08 ABOAF REGINA, nata a Venezia il 15.07.1888, figlia di Giacomo e Pighin Augusta, coniugata con Nacamulli Pellegrino. Ultima residenza no­ ta: Venezia. Arrestata a Venezia il 05.05.1944 da italiani con tedeschi. De­ tenuta a Venezia carcere, Fossoli campo. Deportata da Fossoli il 26.06.1944 ad Auschwitz. Immatricolazione dubbia. Deceduta in luogo ignoto in data ignota. Fonte la, convoglio 13

ABOAF SALOMONE GIROLAMO, nato a Venezia il 03.05.1868, fi­ glio di Giacomo e Udine Stella, coniugato. Ultima residenza nota: Pado­ va. Arrestato a Venezia il 17.08.1944 da italiani con tedeschi. Detenuto a S. Sabba campo. Deportato da Trieste il 02.09.1944 ad Auschwitz. Ucciso all’arrivo ad Auschwitz il 07.09.1944. Fonte la, convoglio 37T ABOAF UMBERTO, nato a Venezia il 05.05.1921, figlio di Achille e Mogno Rosa Lucia. Arrestato a Roma l’11.04.1944 da italiani. Detenuto a Roma carcere, Fossoli campo. Deportato da Verona il 02.08.1944 a Bu­ chenwald. Matricola n. ***. Liberato a Buchenwald 1Ί1.04.1945. Fonte la, convoglio 15

ABOLAFFIA REBECCA, nata a Gallipoli in Turchia il 10.07.1891, figlia di Isak e Dodu***, coniugata con Varon Moise. Ultima residenza nota: Milano. Arrestata a Milano il 04.12.1943 da ***. Detenuta a Milano car­ cere. Deportata da Milano il 30.01.1944 ad Auschwitz. Uccisa all’arrivo ad Auschwitz il 06.02.1944. Fonte la, convoglio 06 ABOLAFFIO ADOLFO, nato a Cantù (MI) il 04.11.1899, figlio di Amedeo e Ancona Pia. Ultima residenza nota: Genova. Arrestato a Ge­ nova il 18.04.1944 da ***. Detenuto a Genova carcere, Fossoli campo. Deportato da Fossoli il 26.06.1944 ad Auschwitz. Matricola n. ***. Deceduto ad Auschwitz in data ignota. Fonte la, convoglio 13 ABOLAFFIO CAMELIA, nata a Smirne in Turchia il 24.03.1902, co­ niugata con Assa Isaac. Ultima residenza nota: Imperia. Arrestata a Bor-

dighera (IM) il 18.11.1943 da italiani. Detenuta a Genova carcere, Mila­ no carcere. Deportata da Milano il 06.12.1943 ad Auschwitz. Deceduta all’arrivo ad Auschwitz l’I1.12.1943. Fonte la, convoglio 05

ABOLAFFIO EMILIA vedi Fornari Emilia ABOLAFFIO GUIDO, nato a Venezia il 12.09.1888, figlio di Vittorio e Mendes Vittoria, coniugato con Tavanti Cesarina. Ultima residenza nota: Milano. Arrestato a Castelluccio Di Porretta (BO) il 09.02.1944 ad Au­ schwitz. Matricola n. 174471. Deceduto ad Auschwitz dopo il 09.03.1944. Fonte la, convoglio 08

ABOLAFFIO REGINA, nata a Venezia il 30.07.1870, figlia di Mosé e Ravà Letizia. Ultima residenza nota: Venezia. Arrestata a Venezia il 17.08.1944 da italiani con tedeschi. Detenuta a S. Sabba campo. Depor­ tata da Trieste il 02.09.1944 ad Auschwitz. Deceduta all’arrivo ad Auschwitz il 07.09.1944. Fonte 2, convoglio 37T ABOLAFFIO SIMEONE EDGARDO, nato a Venezia il 04.11.1903, fi­ glio di Vittorio e Mendes Vittoria, coniugato con Levi Germana. Ultima residenza nota: Genova. Arrestato a Genova il 03.11.1943 da italiani con tedeschi. Detenuto a Genova carcere, Milano carcere. Deportato da Mi­ lano il 06.12.1943 ad Auschwitz. Matricola n. 167969. Deceduto in luogo ignoto dopo il 21.04.1944. Fonte la, convoglio 05

ABOLAFFIO VANDA, nata a Firenze il 12.12.1926, figlia di Umberto e Fornari Emilia. Ultima residenza nota: Firenze. Arrestata a Grassona (FI) il *** da ***. Detenuta a Fossoli campo. Deportata da Fossoli il 26.06.1944 ad Auschwitz. Matricola n. A-8460. Liberata ad Auschwitz il 27.01.1945. Fonte la, convoglio 13

ABRAHAM ARMINIO, nato in Ungheria il 28.12.1908, figlio di Àbra­ mo e Elephant Jetty, conigato con Homstein Fanny. Ultima residenza no­ ta: Francia meridionale. Arrestato a Borgo S. Dalmazzo (CN) il 18.09.1943 da tedeschi. Detenuto a Borgo S. Dalmazzo campo. Deportato da Borgo S. Dalmazzo il 21.11.1943 ad Auschwitz via Drancy. Matricola n. 167442. Deceduto in luogo ignoto dopo l’11.03.1944. Fonte la, convoglio 04a ABRAHAM CARLOTTA, nata a Anversa in Belgio il 03.07.1938, figlia di Arminio e Homstein Fanny. Ultima residenza nota: Francia meridiona­ le. Arrestata a Borgo S. Dalmazzo (CN) il 18.09.1943 da tedeschi. Dete-

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nuta a Borgo S. Dalmazzo campo. Deportata da Borgo S. Dalmazzo il 21.11.1943 ad Auschwitz via Drancy. Uccisa all'arrivo ad Auschwitz il 10.12.1943. Fonte la, convoglio 04a ABRAHAM FANNY vedi Hornstein Fanny ABRAHAM HILDE FANNY, nata a Colonia in Germania il 24.05.1905, figlia di Adolfo e Ghers Giovanna, coniugata. Ultima resi­ denza nota: Forlì. Arrestata a S. Sofia (FO) il 21.12.1943 da italiani. De­ tenuta a Forlì campo, Ravenna carcere, Milano carcere. Deportata da Mi­ lano il 30.01.1944 ad Auschwitz. Immatricolazione dubbia. Deceduta in luogo ignoto in data ignota. Fonte lb, convoglio 06 ABRAHAM YVONNE, nata a Eine in Francia il 14.04.1941, figlia di Arminio e Hornstein Fanny. Ultima residenza nota: Francia meridionale. Arrestata a Borgo S. Dalmazzo (CN) il 18.09.1943 da tedeschi. Detenuta a Borgo S. Dalmazzo campo. Deportata da Borgo S. Dalmazzo il 21.11.1943 ad Auschwitz via Drancy. Uccisa all’arrivo ad Auschwitz il 10.12.1943. Fonte la, convoglio 04a ABRAHAMSON BETTI, nata a Karthaus in Germania il 16.04.1892, coniugata con Fuerst Arturo. Ultima residenza nota: Chieti. Arrestata a Guardiagrele (CH) l’Ol.l 1.1943 da tedeschi. Detenuta a Chieti, Aquila caserma, Bagno a Ripoli campo, Milano carcere. Deportata da Milano il 30.01.1944 ad Auschwitz. Immatricolazione dubbia. Deceduta in luogo ignoto in data ignota. Fonte la, convoglio 06

ABRAHAMSON BERTA vedi Dickstein Berta

ACCO ALLEGRA, nata Corfu in Grecia il 30.03.1895, figha di Giacomo e Mustacchi Fortunata, coniugata con Semo Leone. Ultima residenza nota: Trie­ ste. Arrestata a Trieste il 04.12.1943 da tedeschi. Detenuta a Trieste carcere. Deportata da Trieste il 07.12.1943 ad Auschwitz. Immatricolazione dubbia. Deceduta in luogo ignoto in data ignota. Fonte 1°, convoglio 2Π ACCO DAVID DARIO, nato a Trieste il 24.05.1927, figlio di Michele e Romano Lydia. Ultima residenza nota: Firenze. Arrestata a Firenze il 25.11.1943 da ***. Detenuto a Milano carcere. Deportato da Milano il 30.01.1944 ad Auschwitz.

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Ucciso all’arrivo ad Auschwitz il 06.02.1944. Fonte 1 °, convoglio 06

ACCO GIACOMO, nato a Trieste il 27.01.1910, figlio di Vittorio Zacca­ ria e Mustacchi Fortunata. Ultima residenza nota: Trieste. Arrestato a Trieste nel mese di marzo 1944 da ***. Detenuto a ***. Deportato da Trieste il *** ad Auschwitz. Immatricolazione dubbia. Deceduto in luogo ignoto in data ignota. Fonte 2°, convoglio *'* ACCO MARCO, nato Corfù in Grecia il 09.12.1877, figlio di Giacomo e Mustacchi Fortunata, coniugato con Coen Rachele. Ultima residenza no­ ta: Trieste. Arrestato a Trieste il 28.03.1944 da tedeschi. Detenuto a S. Sabba campo. Deportato da Trieste il 29.03.1944 ad Auschwitz. Matri­ cola n. ***. Deceduto ad Auschwitz. Fonte 2°, convoglio 25T ACCO RACHELE, nata a Trieste il 13.05.1903, figlia di Marco e Levi Fortunata. Ultima residenza nota: Trieste. Arrestata a Trieste il 29.10.1943 da tedeschi. Detenuta a Trieste carcere. Deportata da Trieste il 07.12.1943 ad Auschwitz. Immatricolazione dubbia. Deceduta in luogo ignoto in data ignota. Fonte 1°, convoglio 21T

ACCO SABINO, nato a Trieste il 20.08.1911, figlio di Vittorio Zaccaria e Mustacchi Fortunata. Ultima residenza nota: Trieste. Arrestato a Trieste nel mese di marzo 1944 da ***. Detenuto a ***. Deportato da Trieste il *** ad Auschwitz. Immatricolazione dubbia. Deceduto in luogo ignoto in data ignota. Fonte 2°, convoglio ** ACCO VITTORIO, nato a Trieste il 29.06.1898, figlio di Marco e Levi Fortunata. Ultima residenza nota: Trieste. Arrestato a Trieste il 29.10.1943 da tedeschi. Detenuto a Trieste carcere. Deportato da Trieste il 07.12.1943 ad Auschwitz. Immatricolazione dubbia. Deceduto in luogo ignoto in data ignota. Fonte 1°, convoglio 21T

ACCO VITTORIO ZACCARIA, nato a Corfù in Grecia il 16.11.1886, figlio di Giacomo e Mustacchi Fortunata, coniugato con Mustacchi For­ tunata. Ultima residenza nota: Trieste. Arrestato a Trieste il 28.03.1944 da tedeschi. Detenuto a S. Sabba campo. Deportato da Trieste il 29.03.1944 ad Auschwitz. Immatricolazione dubbia. Deceduto in luogo ignoto in data ignota. Fonte 1 °, convoglio 25T

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ACKERMAN FEIGE, nata a Kroscienko in Polonia il 10.04.1895, figlia di Simcha e Arti Riwka, coniugata con Frisch Azriel. Ultima residenza no­ ta: Lucca. Arrestata a Castelnuovo Garfagnana (LU) il 30.11.1943 da ita­ liani. Detenuta a Bagni di Lucca campo, Lucca carcere, Firenze carcere, Milano carcere. Deportata da Milano il 30.01.1944 ad Auschwitz, imma­ tricolazione dubbia. Deceduta in luogo ignoto in data ignota. Fonte la, convoglio 06 ADATO AMATA, nata a Smirne in Turchia il 24.04.1900, figlia di Sabo­ tai e Danon Perla, coniugata con Baruch Mosé. Ultima residenza nota: Li­ vorno. Arrestata a Gabbro (LI) il 20.12.1943 da italiani. Detenuta a Livorno caserma, Firenze carcere, Milano carcere. Deportata da Milano il 30.01.1944 ad Auschwitz. Immatricolazione dubbia. Deceduta in luogo ignoto in data ignota. Fonte la, convoglio 06

ADES ELIO, nato a Trieste il 26.01.1870, figlio di Giuseppe e Romanin Felicita. Ultima residenza nota: Trieste. Arrestato a Trieste il 20.01.1944 da tedeschi. Detenuto a S. Sabba campo. Deportato da Trieste il 28.01.1944 ad Auschwitz. Ucciso all’arrivo ad Auschwitz il 02.02.1944. Fonte lb, convoglio 23T ADLER (uomo), nato in Italia il *** (infante), figlio di Adler Anita. Ar­ restato a Milano il 14.03.1944 da ***. Detenuto a Milano carcere, Fossoli campo. Deportato da Fossoli il 16.05.1944 ad Auschwitz. Ucciso all’arrivo ad Auschwitz il 23.05.1944. Fonte la, convoglio 10

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