La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane 9788815119087

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La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane
 9788815119087

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“CARITAS ITALIANA

La città abbandonata. Dove sono e come cambiano”

le periferie italiane a cura di Mauro Magatti

il Mulino

Il curatore della Ricerca

Mauro Magatti è preside della Facoltà di Sociologia dell'Università Cattolica di Milano. Di recente ha pubblicato «L'lo globale. Dinamiche della socialità contemporanea» (con C. Giaccardi, Laterza, 2003), «Il potere istitituente» (Laterza, 2004), «| nuovi ceti

popolari» (con M. Debenedittis, Feltrinelli, 2006).

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I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino

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Caritas Italiana

La città abbandonata Dove sono e come

cambiano

le periferie italiane a cura di Mauro Magatti

Società editrice il Mulino

ISBN

978-88-15-11908-7

Copyright © 2007 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta,

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— elettronico, meccanico, reprografico, digitale — se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

Indice

Prefazione

LE

Sulla nuova questione urbana. Dalle periferie ai quartieri sensibili Le città come «nuova questione sociale»

Una prospettiva analitica sulla città contemporanea: mobilità, dislocazione, eterotopia Dalle periferie ai «quartieri sensibili» La crisi dell'umano nelle città globali Pac Ca forag Le specificità del caso italiano

Il Dieci storie di quartiere Introduzione. I quartieri si presentano Genova, Begato: un quartiere discarica nichilista Bari, San Paolo: un’eterotopia controversa

Catania, Librino: da «nuova città» a non-luogo Palermo, Zen: un mondo a parte Napoli, Scampia: l'integrazione dell’illegalità Roma, Esquilino: periferia del centro, centro delle

periferie Milano, ex-zona 13: il territorio come arcipelago Firenze, Isolotto-Torri Cintoia: verso lo scioglimento di un’eterotopia utopica Bologna, Navile: da quartiere operaio a snodo funzionale 10. Torino, Barriera di Milano: emiferia fragile

6

Indice

III. Dall’utopia urbanistica alla città a progetto L Di

3 4

153

Genesi ed evoluzione dei quartieri di periferia: una possibile scansione temporale La fase del radicamento dentro i territori La fase dell’estensione delle città La fase della dislocazione tra locale e globale, coo-

153 156 165

perazione e competizione

182

. Vivere nei quartieri sensibili Premessa. Le periferie come «pieghe» urbane Connettività e transitività Le periferie come configurazioni spazio-temporali: Sit

213 213 21o

Mobilità Mondi e culture Conclusioni ario

221 23% 242 258 281

Povertà e quartieri sensibili

283

cronotopie Tempi

I PS 3

La questione della povertà nella città eterotopica Gli scenari delle povertà Eterotopie sociali: un’ipotesi descrittiva della realtà sociale nei quartieri sensibili Dinamiche di divaricazione. Come le povertà si organizzano all’interno dei quartieri sensibili Apartheid urbani: la povertà come condizione di

283 287

imprigionamento

340

VI. Insicurezza e stigma: vivere nello «spazio altro» dei quartieri sensibili Ii 2:

Di

Introduzione: l’introflessione dello «spazio altro» Lo «spazio altro» come spazio insicuro: gli scenari della violenza Le forme dello «spazio altro» Lo «spazio altro» come spazio stigmatizzante: rappresentazioni mediali e tattiche simboliche Conclusioni

316 325

345 345 349 388

401 409

Indice

7

VII. Società civile: strategie di adattamento e ricomposizione i.

2. 3.

4. 5. 6. 7.

Sui mondi

p. associativi:

4ll

un tessuto variegato nei

suoi punti di forza e di debolezza La sfera politica: dalla militanza alla difesa della qualità della vita Interventi di welfare: laddove si incrociano questioni di politica, economia e cultura La sfera educativa e culturale: azioni di contrasto alla marginalità e di espressione della soggettività Strategie di azione e immobilismi Lo spazio pubblico che non c’è. Un nuovo compito per la società civile La società civile, una membrana tesa

411 415 422

435 445 456 465

Conclusioni

471

1. 2. 3. 4.

471 472 475

5.

Perché tornare ad occuparci delle nostre città Città per progetti e difficili connessioni L'impatto sui quartieri sensibili L'arretramento della mediazione istituzionale e la percezione dell’insicurezza Frammentazione come banalizzazione dei territori

6. 7.

8. 9.

La questione della povertà: strati di deprivazione e senso di ingabbiamento La dislocazione immaginata dei consumi e dei media Gli esiti interni: sofferenza antropologica e esilio della socialità Sulla relazione dentro/fuori: liminalità, risentimento, violenza

10. La spirale dell'abbandono 11. Legature che tengono 12. Fermare la spirale dell’ab-ban-dono

478 480 483 485 487 491 494 496 498

Postfazione. Dentro la città abbandonata, di Vittorio Nozza

503

Appendice metodologica

D4S

Bibliografia

3741

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— Doppio clic su «Start»

Prefazione

Begato

(Genova),

Zen

(Palermo),

Scampia

(Napoli), Li-

brino (Catania), San Paolo (Bari). E ancora, Barriera di Milano (Torino), Isolotto e le sue nuove zone di espansione (Firenze),

Esquilino (Roma), ex-zona 13 di Milano con i quartieri di Forlanini-Taliedo-Ponte

Lambro,

Navile

(Bologna).

Quartieri co-

siddetti di «periferia», in senso non solo geografico, ma anche sociale e spesso umano, quartieri fragili e sensibili collocati, in alcuni casi al di fuori della città, in altri dentro la città stessa,

quasi prossimi al suo centro, eppure marginali rispetto a quest’ultimo e alle sue dinamiche, proprio mentre divengono a loro volta centro per altre «periferie». Una sorta di lungo itinerario ci ha portato dentro questi quartieri, luoghi contrassegnati da molti vuoti e da molte assenze, in qualche caso spazi divenuti discarica di individui e gruppi marginali, tutti comunque attraversati da spinte contraddittorie tra il globale e il locale. Aree niente affatto omogenee, come potrebbe sembrare a prima vista dall’esterno, ma molto variegate per storia, popolazioni, culture, attori istituzionali e sociali, condizioni di vita, luoghi in cui si concentrano e si in-

trecciano problemi sociali vecchi e nuovi. In questi territori 4/77 rispetto alla città, ci è sembrato di poter intravedere e cogliere in modo più evidente — come in uno specchio che riflette, sorprendendoci, la realtà — cosa la città è

oggi e cosa sta diventando. Il volume che qui presentiamo è l’esito di questo viaggio, in un impegnativo lavoro di ricerca che ha coinvolto numerose persone e ha visto la partecipazione di diversi gruppi sociali e istituzioni presenti nei contesti urbani periferici di cui si dà conto in queste pagine. In particolare, esso rappresenta il frutto di una felice collaborazione tra Caritas Italiana e Università Cattolica

10

Prefazione

di Milano, Dipartimento di sociologia, che ha consentito di condividere proficuamente, da angolature diverse e complementari,

preoccupazioni, punti di vista e prospettive comuni rispetto alla

condizione umana del nostro tempo, la quale condensa proprio nei contesti urbani i risvolti maggiormente problematici delle trasformazioni globali in atto. Nel momento in cui si è andata concretizzando l’ipotesi di un lavoro cooperativo e la possibilità di condividere una comune attenzione, non era ancora scoppiata la nuova ondata di rivolte giovanili nelle banlieues parigine e, di conseguenza, non si erano ancora accesi i riflettori sulle periferie italiane travolte, di lì a poco, dalla grande incognita circa la possibilità di divenire, al pari del caso francese, dei focolai di tensione e conflitto al di fuori di ogni controllo. Piuttosto, è stato l’intento di esplorare e di riproporre all’attenzione quei punti ciechi che la città e il suo frammentarsi in ritmi, spazi, popolazioni sempre più eterogenee e in movimento tende a moltiplicare. Una situazione, quella italiana, forse meno

esplosiva, ma certamente non meno inquietante: le città-mondo del nostro tempo, seppur in proporzioni diverse, sembrano riprodurre continuamente al loro interno processi di periferizzazione che dividono i quartieri e gli interi contesti urbani. Tali dinamiche, oltre a mettere in discussione il tradizionale concetto di

«periferia» (ma anche di «città») e la loro storica dicotomia con un «centro», ridisegnano disuguaglianze e divaricazioni sociali, formano nuove dipendenze, acuiscono l’incrinarsi della socialità,

rafforzano marginalizzazioni e impoverimento di pezzi di società. Si tratta di processi trasversali alla città stessa e che ritroviamo con sorpresa anche nei quartieri più centrali. Tuttavia è proprio nei quartieri sensibili che quanto non riesce a salire sul treno veloce dei flussi globali viene raccolto e ammassato ed è qui, pertanto, che tutti gli effetti e le contraddizioni si fanno più evidenti e leggibili. L'intero percorso di ricerca — della durata di due anni — è stato messo a fuoco e condiviso, oltre che da Caritas Italiana!

|_* La ricerca è stata inoltre accompagnata dai lavori interni a Caritas Italiana del Tavolo Aree Metropolitane composto dai Direttori delle Caritas diocesane.

Prefazione

11

e dall’equipe dei ricercatori dell’Università Cattolica?, anche da ricercatori locali. Questi ultimi, tra il luglio 2005 e il marzo 2006, hanno affiancato e sostenuto l’equipe di Milano nell’osservazione sul campo e, successivamente, provveduto alla stesura di report locali relativi a ogni singola periferia. È sulla base di questi elaborati e delle ricognizioni etnografiche che il presente volume prende le mosse per sviluppare una analisi comparativa che si concentra, in particolare, sul passaggio dalle utopie pianificatorie degli anni ’60 e ’70 all'idea di «città a progetto» degli ultimi anni (capitolo III), con tutte le conseguenze che ciò comporta sulle popolazioni e le culture che transitano e vivono in questi quartieri (capitolo IV), sulle forme della povertà che vi si sviluppano (capitolo V), sulla paura e l’insicurezza che si esprimono talvolta in forme di violenza più o meno organizzata (capitolo IV) e, infine, sulle forme di presenza e di intervento

degli attori sociali (capitolo VII). Un profilo sintetico delle dieci aree scelte ad oggetto della nostra ricerca — che agevola una rapida ricostruzione dei contesti cui ci si riferisce e del motivo per cui essi sono stati scelti — è stato inserito nel capitolo II. Le presentazioni delle singole realtà sono largamente basate sul lavoro dei ricercatori locali e rinviano alle loro più dettagliate analisi contenute nei report delle città studiate. Desideriamo, qui, nominarli e ringraziarli non solo per aver contribuito in modo determinante alla realizzazione della ricerca, ma anche per lo spirito di collaborazione e di amicizia che ha contrassegnato questo anno e più di lavoro congiunto, nel corso del quale sono state messe a confronto idee, letture della realtà, approcci, esperienze diverse su un tema di interesse comune, rendendo possibile una contaminazione delle riflessioni durante gli incontri e i seminari che hanno accompagnato la rilevazione empirica. Ringraziamo

pertanto Tiziana Ciampolini

(Torino), Francesca Angelini e Lucia Foglino (Genova), Meri Salati (Milano), Elena Rossini (Bologna), Annalisa Tonarelli (Fi-

renze), Fabio Vando

(Roma), Giuseppe Vanzanella

(Napoli),

2 L'equipe dell’Università Cattolica è composta da Mauro Magatti, che ha diretto e coordinato il lavoro scientifico della ricerca, Patrizia Cappelletti, Chiara Giaccardi, Monica Martinelli, Simone Tosoni. Marco Caselli ha parte-

cipato alla fase di raccolta dati.

12

Prefazione

Fausta Scardigno e Francesca Bottalico (Bari), Giuliana Gianino (Catania), Giuseppe Mattina (Palermo). Un

ringraziamento

particolare

va

a Francesco

Marsico,

Paolo Pezzana e Marco Iazzolino di Caritas Italiana che hanno contribuito all’ideazione del progetto di ricerca e ne hanno sapientemente coordinato le varie fasi favorendo il dialogo dei linguaggi e degli interlocutori in campo. L’equipe dell’Università Cattolica e i ricercatori locali hanno svolto insieme le ripetute osservazioni etnografiche in ogni periferia, utilizzando contemporaneamente

diverse tecniche di ri-

cerca (come indicato nell’Appendice metodologica): le lunghe osservazioni e le diverse interviste in profondità condotte ad abitanti dei quartieri sensibili e a rappresentanti di enti, gruppi sociali e istituzioni locali, gli innumerevoli

dialoghi informali,

nei luoghi meno consueti e nei tempi più impensati, nonché la permanenza ininterrotta il giorno e la notte durante il periodo delle osservazioni sul campo, ci hanno consentito di affacciarci sul bordo di mondi

sommersi,

che ci sono

apparsi, talvolta,

fin troppo carichi di criticità e sofferenze, ma, al contempo, ci hanno svelato e offerto realtà umane straordinarie. Dalle tante persone incontrate abbiamo raccolto sia la sorpresa del constatare che ci sia ancora qualcuno interessato a territori ormai rappresentati a se stessi e dagli altri come dimenticati e alla deriva, sia la rabbia di fronte all'ennesimo arrivo di

estranei destinati, comunque, a ripartire mentre la realtà rimane immutata, i problemi irrisolti, le persone sole. In tal senso, la

pazienza, la disponibilità e l'accoglienza sempre dimostrataci dai nostri interlocutori — di ogni età, ceto sociale, condizione esistenziale e professionale — nel fornirci informazioni, nartarci il

quartiere e se stessi, mettere a disposizione la propria abitazione per ospitarci, non solo hanno costituito una conferma della rilevanza e attualità del tema affrontato ma anche una messa a fuoco, in itinere, del grande compito e delle numerose sfide che stanno davanti a noi, dal momento che la periferia e la città si rivelano sempre più luoghi in cui si agitano tutti i problemi dell'umano, dove si evidenziano processi di riconoscimento o di negazione personale e sociale, e dove più forte appare il rischio di imboccare la strada della separazione e dell’estraneità, invece

della prossimità e dell’incontro. La nostra esplorazione si è trovata di fronte a problemati-

Prefazione

13

cità talvolta schiaccianti — macigni che pesano sulla fragile bio-

grafia di molti uomini, donne e bambini, segnandone il destino

in questi territori — ma ad altrettanto evidenti risorse, personali e sociali, che sorprendentemente si producono dentro contesti strappati, nei quali in molti continuano a mantenere un forte senso della propria dignità, una tenace volontà per non lasciarsi sopraffare dall'ambiente o, nel caso di tanti insegnanti, operatori sociali e volontari, per entrarci dentro e favorire la costruzione di forme alternative di ricomposizione sociale. Nel mezzo dei quartieri degradati ci è dunque capitato di incontrare un’umanità straordinaria e competenze professionali altissime. Il nostro ringraziamento più grande va quindi a tutte le persone incontrate, i cui volti, sguardi, storie, drammi e speranze si

sono impressi in noi man mano che questo percorso si snodava, e che difficilmente possono essere resi appieno da un testo scritto. Per tale motivo, abbiamo scelto di inserire direttamente

nel libro estratti di questi dialoghi e delle interviste effettuate, per offrire anche al lettore la possibilità di mettersi — come è capitato anche a noi — in ascolto di questi mondi. Non sta certo a noi giudicare degli esiti di questo lavoro di ricerca, che fin dai suoi albori si è peraltro concepito come una tappa per ulteriori passaggi, sia conoscitivi che operativi. Ciò che ci era chiaro e, ancor più ora alla fine di questo esodo ci risulta tale, è che non è più pensabile pretendere di calare dall’alto una soluzione che, come già tante volte in passato, rischia

di essere astratta e alla fine controproducente, oltre che inefficace. È molto probabile che la valorizzazione delle risorse vive, presenti nei quartieri sensibili, costituisca l’unico vero punto di partenza di un intervento che voglia lavorare per evitare che anche le periferie italiane si avvitino nel vicolo cieco dell’autodistruzione. Il lavoro di comparazione nazionale contenuto in questo libro è frutto del percorso analitico e interpretativo congiunto da parte dei membri dell’equipe dell’Università Cattolica; la stesura dei vari capitoli è stata invece suddivisa come segue: cap. I (Mauro Magatti), cap. II e III (Monica Martinelli), cap. IV (Chiara Giaccardi), cap. V (Patrizia Cappelletti), cap. VI (Simone Tosoni), cap. VII (Monica Martinelli),

conclusioni (Mauro Magatti).

14

Prefazione

L'analisi comparativa si sviluppa a partire, oltre che dal lavoro svolto sul campo, anche dalle singole analisi sui dieci quartieri oggetto della ricerca, ai quali questo testo rimanda per approfondimenti specifici. Per ogni realtà, infatti, è stato redatto un Rapporto di ricerca da parte dei ricercatori locali: Tiziana Ciampolini per Barriera di Milano (Torino), Francesca Angelini e Lucia Foglino per Begato (Genova), Meri Salati per la ex-zona 13 di Milano, Elena Rossini per il Navile (Bologna), Annalisa Tonarelli per l’Isolotto (Firenze), Fabio Vando per l’Esquilino (Roma), Giuseppe Vanzanella per Scampia (Napoli), Fausta Scardigno e Francesca Bottalico per il San Paolo (Bari), Giuliana Gia-

nino per Librino (Catania), Giuseppe Mattina per lo Zen (Palermo). Nel CD-Rom allegato al presente volume sono contenuti i testi dei dieci Rapporti di ricerca locali completi di un’ampia selezione del materiale fotografico raccolto nei quartieri visitati.

Capitolo primo Sulla nuova questione urbana. Dalle periferie ai quartieri sensibili

1.

Le città come «nuova questione sociale»

In un recente contributo, Marc Augé ha suggerito di analizzare le forme della vita umana e le loro trasformazioni a partire dalle mutevoli combinazioni tra stanzialità, mobilità e produzione culturale!. Se osservate da questo punto di vista, le società contemporanee presentano indubbiamente molte peculiarità: grazie alle accresciute possibilità di spostamento, l’abitare stabilmente in un luogo — cioè la stanzialità — sembra oggi un referente sempre più tenue per molte delle attività svolte nella vita quotidiana, mentre anche l’accesso alle idee e alle immagini — cioè al mondo culturale — è sempre più aperto alle più svariate sollecitazioni esterne, che possono essere del tutto sganciate dall’ambito locale. Ciò significa che noi oggi tendiamo a legare insieme, in un modo originale, il fatto che continuiamo a vivere in un determinato posto, che ci spostiamo moltissimo per ragioni di lavoro, turismo o altro, e che utilizziamo codici culturali e criteri di giudizio tratti da contesti locali, nazionali, globali. Una tale combinazione ridefinisce profondamente i rapporti tra i diversi gruppi e cambia altresì le regole del gioco entro cui gli attori sociali si trovano ad agire. Tutto dipende dalla grande rilevanza che la mobilità e la comunicazione — da intendersi come elementi strutturali del nostro tempo — hanno acquisito nella vita contemporanea di milioni di persone. Per questa ragione, come dice ancora Augé, avremmo bisogno di un «pensiero della mobilità». 1 M. Augé, Un mondo mobile e illeggibile, Lecture al Convegno Tra i confini: città, luoghi, integrazione, Milano, Fondazione Unidea, 25 maggio 2006.

16

= Sulla nuova questione urbana

Il punto che qui ci interessa è che una società intessuta di

mobilità non è più, in senso stretto, una società stanziale, dato

che, inevitabilmente, il legame con il luogo si indebolisce e si complessifica. È chiaro che ciò non ci fa essere una società nomade, almeno non nel senso di gruppi che si spostano nello spazio privi di riferimenti stabili con l’abitare. Noi continuiamo ad abitare da qualche parte, abbiamo una radice localizzata. Ma, al di là del fatto che non mancano coloro che hanno più radicamenti, sono sempre di più coloro la cui vita quotidiana si distribuisce su — o si riferisce a — una pluralità di ambiti spaziali. Inoltre, non è più possibile separare la dimensione locale dal contesto globale. Il che significa che né la nascita né la residenza bastano a definire chi siamo, cosa facciamo, cosa vo-

gliamo. Non si può, dunque, capire cosa sta accadendo alle nostre città, nei quartieri dove viviamo, a prescindere dai mutamenti storici nei quali siamo immersi. La «globalizzazione», infatti, va intesa come un grande processo di despazializzazione — capace di mettere in crisi gli spazi sociali che sono stati costruiti nel XX secolo, in modo particolare dagli stati nazionali — e di rispazializzazione — non solo con la creazione di nuove geografie, ma, più in profondità, con la ridefinizione strutturale della logica secondo cui la vita sociale si organizza nello spazio e nel tempo. Gli elementi del dibattito che da anni si è sviluppato attorno a questo tema non saranno qui riproposti”. Per gli scopi di questo lavoro, è sufficiente sottolineare che i modi e la velocità con cui si spostano persone, idee, beni, capitali, sono probabilmente

tra gli aspetti che dobbiamo cercare di capire se vogliamo venire a capo del mondo nel quale viviamo. Quello che sappiamo è che la mobilità e la comunicazione contemporanee consentono di trascendere lo spazio, ma non di prescinderne. È come se la società liquida di cui ha parlato Zygmunt Bauman trovasse dei punti di condensazione proprio nei contesti urbani, punti che diventano poi i nodi di quella che viene chiamata «la rete globale».

° Ci permettiamo di rimandare, a tale proposito, a C. Giaccardi e M. Magatti, L'Io globale. Dinamiche della socialità contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2003.

Sulla nuova questione urbana

17

Proprio questo punto — da cui origina una delle critiche principali rivolte agli apologeti della globalizzazione degli anni 90 — ha permesso di rimettere al centro della riflessione il tema della città. Saskia Sassen ha colto — per prima e con maggior lucidità — il fatto che i processi di rispazializzazione contemporanei debbono essere analizzati tenendo conto di un duplice versante: le crescenti difficoltà di governo incontrate dallo stato nazionale ampliano lo spazio di azione delle città/regioni. Sono stati, infatti, i suoi studi su Londra e New York a rivalutare l’importanza del territorio e a mostrare come non si dia globalizzazione a prescindere dai luoghi che la organizzano. La globalizzazione, infatti, ha a che fare con le funzioni che sostengono la mobilità e

l’interconnessione, le rendono possibili, le organizzano. Tutto ciò spiega come mai la ripresa di interesse nei confronti della città abbia coinciso con il diffondersi dell’idea che le aree urbane potessero diventare dei nuovi soggetti — dotati di una relativa autonomia rispetto allo stato nazionale — in grado di giocare una propria partita nei complessi e multiformi processi di globalizzazione. Nei suoi studi, Sassen si era peraltro già accorta che i processi di riorganizzazione contemporanei determinavano rilevanti conseguenze anche sul piano sociale, con un tendenziale aumento delle disuguaglianze, nonché la divaricazione dei destini individuali e dei diversi gruppi sociali. Su una linea interpretativa simile, si è mosso anche Manuel Castells, il quale ha analizzato quanto sta accadendo nei contesti urbani a partire dall’incontro-scontro tra la logica dei flussi — attivati dalle mobilità contemporanee che vengono generate dal sistema degli interessi, dalle nuove tecnologie e dagli spostamenti delle popolazioni — e quella dei luoghi — definiti dalle cornici della memoria e della sedentarietà, che ancora rimangono importanti per la nostra vita sociale e che esprimono livelli specifici dell'esperienza umana, quali la riproduzione fisica e fami-

gliare, la relazionalità interpersonale, il sedimento spaziale degli artefatti culturali. Tra la logica dei flussi e quella dei luoghi si viene a determinare una tensione che si scarica sulla vita della città e dei suoi abitanti in una pluralità di modi. Prima di tutto, la città si deve dotare di quelle funzioni che la rendono capace di collegarsi con l’altrove. Non esiste più

18

Sulla nuova questione urbana

città in grado di sostenersi da sola e il benessere dei suoi cittadini dipende dalla misura e dalla qualità delle sue interconnessioni.

In secondo luogo, le funzioni che rendono possibile questa apertura — e quindi l'inserimento nelle dinamiche della globalizzazione — tendono a concentrarsi nelle (0 comunque attorno alle) aree urbane, che diventano così dei luoghi strategici dello sviluppo. Anche se è bene notare che ciò non si determina più con riferimento univoco al centro cittadino, ma secondo una ra-

tio spaziale più complessa, che è il risultato di una pluralità di fattori (si pensi al caso di un aeroporto, che deve servire un’in-

tera regione e che ha bisogno di determinate condizioni ambientali). Comunque sia, rimane vero che, di fronte alla complessità

dei processi globali, la concentrazione urbana continua a costituire un elemento importante. In terzo luogo, nelle città si incontrano, si mescolano, si con-

frontano popolazioni diverse. Il riferimento più ovvio è qui agli immigrati. Ma, oltre a questo aspetto — fonte di tante tensioni, ma anche di straordinarie soluzioni — la città contemporanea non può più essere pensata riferendosi esclusivamente ai residenti. Come ha insegnato tra gli altri Guido Martinotti, essa è, infatti, la risultante di una pluralità di gruppi e popolazioni che hanno interessi, culture, identità molto differenti se non

con-

traddittorie: oltre ai nativi, vi sono gli immigrati, i turisti, i pendolari, i consumatori, gli studenti universitari e, più in generale,

tutti coloro che usano la città. Per tutte queste ragioni, la città torna oggi al centro dell’attenzione, uno snodo attraverso il quale passano le grandi trasformazioni della contemporaneità. Una tale affermazione è confermata anche dagli andamenti demografici. Qualche mese fa, l'Onu ha annunciato che, per la prima volta nella storia, la popolazione urbana ha superato il 50% del totale, ma tale percentuale sale notevolmente nei paesi

industrializzati, dove si raggiunge quasi l'’80%. La vita umana è, sempre di più, vita urbana. Fcco perché crediamo che la città debba essere considerata come la «nuova fabbrica»: sono proprio i contesti urbani il punto in cui si incontrano-scontrano le logiche macrosistemiche — effetto della trasformazione contemporanea — e la vita concreta dei singoli e dei gruppi. È nella vita della città, più che

Sulla nuova questione urbana

19

altrove, che questa tensione si manifesta, può essere letta e deve essere governata. E in questo senso che pensiamo si possa parlare della città come nuova questione sociale: di fronte alle tensioni che si vengono a determinare tra flussi e luoghi, funzioni e popolazioni, interessi e culture, la città è l’oggetto analitico forse più utile mediante il quale leggere la trasformazione contemporanea. I segni, d’altra parte, si vedono tutti. Anche a occhio nudo è possibile rilevare l'aumento delle disuguaglianze e dell’eterogeneità culturale della popolazione. Il sogno-incubo dell’omologazione urbana che la città moderna aveva cullato — con quella indifferenza un po’ distaccata del cittadino /l@reur di cui ci parlava Georg Simmel cento anni fa — sembra oggi del tutto fuori tempo. Al suo posto, nella città frammentata e illeggibile, nella quale si moltiplicano i punti ciechi e si diffondono l’isolamento e la solitudine, a prevalere è quel senso di insicurezza e paura di cui più recentemente ha scritto Bauman?.

La convivenza tra diversi e disuguali nello stesso territorio — soprattutto quando i mondi culturali e i sistemi di interesse a cui si fa riferimento non si incrociano mai e gli assetti istituzionali si indeboliscono — rischia di rivelarsi una pericolosa alchimia sociale. Tutto ciò mentre si rafforza un più generale processo di rigerarchizzazione degli spazi sullo scenario globale, con intere aree che arretrano e altre che avanzano. Il che finisce inevitabilmente per spingere verso aggiustamenti strutturali anche dolorosi e per fomentare forme reattive di difesa e di protesta: la marginalizzazione — vera o presunta — di talune aree e la convivenza forzata tra culture diverse non mancano di alimentare istanze tese semplicemente al recupero dell'identità territoriale o etnica, per lo più richiamata in chiave puramente difensiva e strumentale. In sostanza, sembra di poter concludere che vi sono problemi di mediazione tra flussi e luoghi, tra funzioni e persone, alla base degli effetti negativi di cui tutti i giorni si parla: insicurezza, tensioni etniche, reazioni identitarie, rottura della solida-

rietà, aumento delle disuguaglianze, derive di impoverimento. 3 Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, Milano, Bruno Mondadori, 2005.

20

Sulla nuova questione urbana

Messo in questi termini, il quadro potrebbe apparire catastrofico. Eppure, la fase storica che si è aperta può essere vista anche come un’occasione per realizzare forme ancora più avanzate di vita umana, dove l'ambizione potrebbe finalmente divenire quella di trovare un equilibrio tra l'essere radicati e l’essere aperti, con l’obiettivo di dar vita a culture e istituzioni capaci di mediazione tra apertura e chiusura. Ma se guardiamo con un minimo di realismo al mondo attorno a noi ci accorgiamo che siamo ben lontani dal disporre di quelle condizioni che possono permetterci di lavorare seriamente in questa direzione. Tre, in particolare, sono le aree di sofferenza: — i soggetti sociali attivi nella realtà storica appaiono inadeguati e squilibrati, per cui è difficile che si innestino processi virtuosi. Ad esempio, mentre i gruppi legati ai sistemi di interesse più forti — quelli cioè interconnessi con la rete globale - dispongono dell’arma dell’exz?, le fasce più deboli, radicate nei territori, sono spesso impotenti e quindi costrette a subire

le conseguenze di decisioni prese al di fuori di un qualunque senso di solidarietà. Il che fa sì che nei territori spesso si scatenino vere e proprie «guerre tra poveri», dove la posta in gioco è la spartizione delle risorse residue (magari ancora cospicue) di cui il contesto dispone. Il dominio di interessi localistici regressivi è, in questo quadro, un esito probabile che contribuisce ad aggravare i problemi; — gli assetti istituzionali sono inadeguati rispetto. alle questioni che devono essere affrontate. Pensate per una fase storica del tutto diversa, le istituzioni sono scarsamente capaci di dare il loro contributo all’organizzazione della vita sociale, costituendo in molti casi un obiettivo fattore di conservazione e di complicazione;

— dal punto di vista culturale, un’apertura che si nutre per

lo più di immagini mediatiche e di logiche funzionali rischia di produrre sradicamento e di conseguenza di favorire una pericolosa oscillazione tra improbabili pluralismi radicali — dove il tema della cultura viene completamente oscurato, come se non esistesse — e rigide identità regressive — richiamate solo per difendersi da un mondo che non si capisce. Il che ostacola qualunque tentativo volto a trovare quelle mediazioni di cui avremmo bisogno. In questa situazione, piena di incognite, si può ben dire che

Sulla nuova questione urbana

21

è quanto mai opportuno tornare a occuparsi delle città e lavorare al loro interno per cercare di costruire le condizioni per nuove forme di vita sociale.

2.

Una prospettiva analitica sulla città contemporanea: bilità, dislocazione, eterotopia

mo-

Il quadro dei processi che investono la città contemporanea è dunque assai complesso. A entrare in fibrillazione sono un po’ tutti gli elementi strutturali della vita urbana: la sua morfologia, le sue popolazioni, le sue relazioni. AI di là delle diverse posizioni, su almeno un punto la letteratura internazionale tende a essere d’accordo: qualunque interpretazione si voglia dare ai mutamenti in corso, quello che possiamo dire è che nessuna area urbana è più capace di vivere per se stessa, a prescindere da ciò che ne sta al di fuori. Forse l’espressione più efficace per cogliere quanto sta accadendo l’ha fornita il filosofo Jean-Luc Nancy, il quale ha scritto che la città è innanzitutto

una circolazione, un trasporto, una corsa, una

mobilità, un’oscillazione, una vibrazione.

Da ovunque

essa rimanda

ovunque e fuori da sé: ma il suo fuori è sempre meno la campagna (...); è piuttosto il fuori indefinito della città stessa che si allontana e rurbanizza sempre più lontano. (...) Ogni luogo urbano rinvia ad altri luoghi e non esiste o non consiste che in tale rinvio*.

Per alcuni versi, si potrebbe dire che la città contemporanea non fa altro che esaltare quella che è stata una delle sue vocazioni originarie, cioè la sua anima commerciale.

Da sempre,

è

nella città che si scambia, ci si incontra, ci si muove. É proprio

per questo, la città è il luogo dove l'individuo sente di poter respirare più intensamente il senso di libertà e di movimento di cui è costantemente alla ricerca. Ma il punto è che gli scambi e gli incontri nella città contemporanea sono definiti dalla possibilità di determinare in modo nuovo la distanza e la prossimità, grazie alle risorse tecno4 J.-L. Nancy, La città lontana, Verona, Ombre Corte, 2002, pp. 43, 48.

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Sulla nuova questione urbana

logiche, istituzionali e infrastrutturali che si sono rese disponibili. In questo senso, scrive ancora Nancy, la città è sempre più espressione del dispiegarsi della tecnica nella nostra vita quotidiana: Anzi, è come se la città raccogliesse ed esprimesse l’essenza della tecnica. Come se sostituisse la natura con un altro spazio-tempo (...). Tutto nella città è preso da una diversa concatenazione (...). Non c’è un limite nel quale si compia una forma o un’anima: nessuna entelechia della città. Questa è la verità tecnica: aprire passaggi in tutte le direzioni e senz’alcuna vocazione finale, andirivieni, eventi piuttosto

che avventi?.

La città contemporanea

non

riesce più — e forse vi non

aspira nemmeno — a essere il luogo dove l’esperienza comune viene filtrata e sedimentata. Non ne ha più né il tempo né il modo. Il suo ideale non è più quello di essere il «luogo del vissuto», ma piuttosto quello di diventare il «luogo del vivente», sistema di opportunità, contenitore di possibilità, rinunciando a qualunque identità e consistenza preordinate, viste come degli obiettivi impedimenti alla dinamica del possibile. Il che concretamente significa che, nella città contemporanea, il luogo non ha più valore se non in chiave strumentale e comunque provvisoria e contingente, come punto di appoggio per l’azione e la realizzazione, mediante le quali diventa possibile il suo stesso superamento. Come si è accennato prima a proposito dei trend che si registrano su scala globale, ciò si traduce e si rileva in aspetti molto concreti. Ad esempio, è sempre più arduo poter fissare con un minimo di senso e di precisione i confini della città; e ancor più difficile è stabilire il suo dentro e il suo fuori: chi vive la città non è detto che coincida con chi vi abita. E, d’altra parte, il na-

scere in un luogo è sempre meno frequentemente l’elemento che prevede l’abitare in un dato posto. Persino i destini economici sono legati a fattori e decisioni che vengono presi altrove o che hanno a che fare con l’altrove. Ciò significa che la città contemporanea tende a svilupparsi in tutte le direzioni, dentro e fuori di sé. Per esistere essa ha bi? Ibidem, pp. 47-48.

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sogno di essere pancia all’aria, totalità sparpagliata attraversata da genti, flussi e funzioni che vanno altrove e che fanno qualcosa di diverso dall'essere la vita e la coscienza della città. Una concatenazione di forme, di stati di forme senza bordi a cui si

dà il nome di città perché non si sa che altro nome attribuire. Per cercare di cogliere la dinamica di fondo del tempo che viviamo, si potrebbe dire che la città collassa perché è al tempo stesso costretta a un doppio movimento.

Da un lato, essa è invasa, costretta ad accogliere, ad aprirsi. Non solo persone (turisti, immigrati, uomini di affari, pendolari, convegnisti, consumatori), ma anche beni e servizi (i flussi di

merci che sono necessari per sostenere la vita urbana non solo aumentano quantitativamente, ma si estendono anche nello spa-

zio) oltre che capitale e persino lavoro. Dall’altro lato, la città si deve estroflettere, nel senso che

deve cercare di collegarsi e di mettersi in rete. Per vivere, la città deve organizzare degli eventi, richiamare visitatori, esportare manufatti, vendere le proprie produzioni. E per assecondare questo doppio movimento — difficile e contraddittorio — la città è come costretta a perdersi e soprattutto a spostare il proprio baricentro da quello che accade al suo interno verso ciò che la attraversa, la collega, la trasforma.

Per cogliere più in profondità le implicazioni di tale affermazione è utile seguire per un momento un altro suggerimento,

che dobbiamo a Michel Foucault, il quale distingue tre grandi passaggi storici nell’organizzazione spaziale della vita sociale’. La prima fase — che possiamo far risalire fino agli esordi della modernità — è caratterizzata da una netta prevalenza della localizzazione. Ogni luogo, stabile e ben delimitato, è collocato

entro una gerarchia spaziale che coinvolge non solo la sfera terrestre, ma anche quella celeste. Come nel viaggio compiuto da Dante ne La Divina Commedia, così il mondo è organizzato in uno spazio che è gerarchizzabile e riconducibile a significati comuni. Sono il monaco e il contadino le figure che simbolicamente incarnano meglio di altre l’insieme dei significati che questo tipo di organizzazione della vita sociale esprimeva.

6 M. Foucault, Eterotopia. Luoghi e non luoghi metropolitani, Milano, Mimesis, 1994.

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La seconda fase nasce con la modernità ed è caratterizzata dalla logica dell’estensione. Le grandi scoperte geografiche, le revisioni delle conoscenze

astronomiche,

l'avvento

dei nuovi

mezzi di trasporto, la diffusione dell’innovazione economica e sociale scardinano le vecchie gerarchie e aprono nuove possibilità. Il movimento e la scoperta orientano i comportamenti, che acquistano tanto più valore quanto più riescono a essere

innovativi. Il mutamento è segnato dall’emergere di nuove figure esemplari quali l’esploratore, il viaggiatore, il commerciante, l’innovatore.

Comunque

sia, anche se dinamizzato,

il

movimento nell’era dell’estensione rimane caratterizzato dall'aspirazione a ricreare un’omogeneità. L'ampliamento è quantitativo più che qualitativo e l'innovazione, così come la scoperta, avanza lungo una direttrice ben precisa, secondo una logica di tipo lineare. La terza fase introduce una diversa logica di spazializzazione, che Foucault chiama della «dislocazione». Ciò che defi-

nisce questo momento è la sua capacità di stabilire delle relazioni tra punti differenti e lontani: nessun luogo esiste più per se stesso, ma sempre in relazione ad altro. Dunque, ogni luogo viene continuamente dislocato, aperto, interconnesso.

All’interno di questa configurazione, i movimenti che si determinano sono plurimi, incoerenti e irregolari. Essi sono il riflesso di una pluralità di logiche che non rispondono più a un disegno unitario. Il pendolare, il turista, l’uomo d’affari sono le figure archetipiche di questa fase e sono caratterizzate da movimenti ripetuti, iterativi, frammentati.

C'è una conseguenza di questa nuova configurazione che preme qui evidenziare per gli effetti che essa produce sulla vita urbana contemporanea. La fase della dislocazione coincide, infatti, con il passaggio dal dominio dell’utopia — che ha caratterizzato la modernità — al prevalere dell’eterotopia. Con il primo termine, la modernità aveva immaginato il suo futuro in un altrove che doveva essere costruito. L'utopia, da questo punto di vista, aveva preso le sembianze di un’estensione del tempo che portava a un luogo ideale e, proprio per questo, irreale, nel quale venivano proiettate tutte le speranze di un mondo migliore, finalmente liberato dalle contraddizioni della vita umana. Riprendendo il movimento tipico della modernità, quello del proiettarsi in avanti e del rendere

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omogeneo, il pensiero utopico si candidava a orientare l’azione umana e a trovare nuove soluzioni ai dilemmi dell'umanità. Il concetto di eterotopia si muove in tutt'altra prospettiva. Esso è orientato alla varietà e alla diversificazione e ha a che fare con l’esistenza di luoghi reali, effettivi e che pure «costituiscono dei contro-luoghi, specie di utopie effettivamente realizzate, nelle quali i luoghi reali vengono al contempo rappresentati, contestati,

sovvertiti»”.

Con il concetto

di eterotopia,

Foucault sembra dirci che lo spazio nel quale viviamo tende a differenziarsi al proprio interno, creando una varietà di realtà ed esperienze qualitativamente diverse, che sono sempre meno sovrapponibili tra di loro. Nell’epoca della dislocazione, la consapevolezza dei rischi di

un’omogeneizzazione forzata che l’utopia portava con sé apre la strada alla valorizzazione della varietà dei luoghi, che in qualche

modo possono essere pensati anche come contro-luoghi. Le eterotopie, scrive ancora Foucault, «sviluppano con lo spazio restante una funzione (...) esse creano un altro spazio reale, così perfetto, così meticoloso, così ben arredato al punto da far apparire il nostro come disordinato, maldestro, caotico»*.

L’altrove del pensiero utopico moderno lascia dunque il posto all’altrove inteso in senso spaziale — culturale e funzionale — cioè come capacità di porsi da un’altra parte, di essere altrove. Ma anche, al contrario, come

costrizione, cioè come essere re-

legati in un dato spazio e non potere uscire da esso. In questo senso, l’eterotopia riassume in sé elementi opposti e contraddittori: se, da un lato, essa esprime il desiderio di sfuggire all’ordine sistemico per trovare contesti di libertà e creatività, dall’altro, essa è espressione della differenziazione funzionale o semplicemente del negativo e della segregazione. Se proviamo a mettere insieme le suggestioni di Nancy e Foucault, è possibile arrivare a disporre di una chiave di lettura

interessante di che cosa sia oggi la città e di quali siano le sue logiche di mutamento. In quella sequenza senza fine di eventi e accadimenti in cui è inserita e di cui semplicemente è teatro, la città contempora-

? Ibidem, p. 13. 8 Ibidem, p. 19.

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nea realizza e subisce un continuo processo di dislocazione che si traduce nella creazione di eterotopie, nel senso che i diversi luoghi tendono ad acquisire significati diversificati e funzioni sempre più specializzate. Ciò ha a che fare prima di tutto con le logiche sistemiche, che specializzano ambiti spaziali in base a determinate funzioni: la zona industriale attrezzata, le grandi stazioni ferroviarie, gli aeroporti, le cittadelle universitarie, le aree commerciali, i servizi

pubblici, il centro commerciale. La città contemporanea tende a coincidere sempre più strettamente con il suo sistema di funzioni, mentre si riduce forte-

mente il valore integrativo del luogo. Ciò implica un indebolimento del tessuto che tiene insieme queste diverse funzioni, ognuna delle quali tende a essere espressione di un codice tecnico specifico, che, proprio perché tale, è più intensamente collegato con altri luoghi simili sparsi in tutto il mondo di quanto non lo sia con ciò che gli sta fisicamente attorno. Ma la formazione di eterotopie interviene anche su altri piani, che riguardano più direttamente la produzione culturale e i modi della socialità contemporanea. I parchi del divertimento, le isole pedonali, le piazze attrezzate, ma anche gli oratori, i cen-

tri d’ascolto e i centri sociali, tendono anch'essi a essere eterotopie — cioè luoghi specializzati e dotati di un codice proprio, che vale solo al loro interno — il cui scopo è quello di sostenere una socialità che fatica a darsi in modo autonomo. Sempre di più il cittadino della città del nuovo secolo conduce la propria vita quotidiana avendo in testa una mappa di luoghi e di tempi, dentro e fuori la città in cui vive, rispetto alla quale struttura la propria socialità. Una socialità che sempre meno si dà in maniera spontanea, semplicemente come espressione del contesto locale, e sempre più ha a che fare invece con l’attraversamento di eterotopie: per i ragazzi di oggi, andare a scuola è prima di tutto un’occasione di socialità con i coetanei; perdere il lavoro significa trovarsi esclusi da circuiti relazionali; passare il pomeriggio in un centro commerciale è un modo per incontrare qualcuno con cui scambiare qualche parola. Infine, le eterotopie si formano come luoghi dove vengono concentrati tutti coloro che sono inadatti rispetto alla vita contemporanea. Ogni città ha le sue «discariche» dove vengono collocate quelle «vite di scarto» che non si vogliono vedere e che

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non si sa come integrare: i centri di permanenza temporanea, i carceri superaffollati, i ghetti urbani, i campi rom, i palazzi abu-

sivi.

Il rapporto con il territorio urbano si fa complesso e oggetto di tattiche più o meno consapevoli che individui e gruppi perseguono. A questo proposito, è utile osservare che, nell'epoca in cui viviamo, al sogno di conoscere e stabilire relazioni con posti lontani dove passare piacevolmente il tempo insieme a persone e culture stimolanti fa da contrappunto l'incubo di condividere lo stesso territorio con sconosciuti che, diversi da noi, ci trasmettono angoscia e paura.

Dunque, dislocazione significa eterotopizzazione: per un contesto urbano, essere dislocati significa la formazione di eterotopie al proprio interno. Ciò configura una situazione nuova, nella quale ci troviamo ad avere a che fare con una doppia differenziazione: oltre a quella dei ruoli, anche quella dei luoghi. Una volta spezzettati i ruoli occupati dalla singola persona umana (genitore, lavoratore, consumatore, fedele, ecc.), la differenziazione si estende ora al-

l’organizzazione spaziale del mondo sociale, ai luoghi nei quali conduciamo la nostra vita quotidiana, che, come si è visto, su-

biscono il processo di eterotopizzazione. Il che rende il mondo circostante e la socialità da esso prodotta illeggibili, quasi imperscrutabili. La città diventa un agglomerato di funzioni e di popolazioni diverse, che rischiano di non sapere più esattamente da che cosa sono tenute insieme. La città non vive più per se stessa, ma vive — mediante le

sue funzioni — in rapporto ad altri luoghi, altre popolazioni, altri interessi, altre reti. La città oggi è tanto vitale quanto dispone di queste connessioni. E la stessa socialità rimane significativa se segue questi processi, mentre laddove se ne distacca diventa una specie di cascame. Il baricentro della città contemporanea non è più la socialità interna, quella fra gli abitanti. Il suo centro di gravità sta piuttosto nell’essere un insieme di funzioni, di luo-

ghi capaci di produrre eventi, di controllare popolazioni, di ge-

nerare flussi (materiali e immateriali) che la attraversano e che,

almeno in parte, sono fuori dal suo controllo e devono semmai

essere attratti.

Lo sganciamento tra funzioni, flussi, reti e rapporti intersoggettivi della socialità umana tende a rendere questi ultimi irri-

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levanti, quasi superflui. Nella città eterotopica, sempre più un mero agglomerato di luoghi e di funzioni, la socialità diventa residuale nel senso che è sempre più accessoria e semmai ricondotta all’interno dei circuiti della produzione del valore mediante l’estetizzazione e l’emozionalizzazione. Persino nei quartieri dove l’insediamento di nuove funzioni è un fatto raro se non inesistente, la socialità — di strada o di quartiere — tende a rattrappirsi e a esistere sempre meno come

fatto diffuso e spontaneo. Persino in queste aree, si vede il sorgere di luoghi protetti e appositi dove si cerca di creare le condizioni per rendere la socialità ancora sperimentabile — i centri di ascolto, il centro famiglia, i centri sociali.

Così, se già con la seconda fase — quella dell’estensione — la città, intesa come polis, era venuta meno — tanto che si era do-

vuto creare un riferimento politico più grande con lo stato nazionale —, con la fase della dislocazione, la città non è più nemmeno il contenitore nel quale la vita sociale può e di fatto ha luogo. La socialità fa sempre più fatica a riprodursi in modo autonomo perché essa esiste sempre più solo in rapporto alle funzioni che organizzano la vita della città o come funzione essa stessa che abbisogna di sottoaree specializzate per potersi riprodurre. Quasi che ci fosse bisogno di un'attenzione specifica, di un lavoro ad hoc affinché gli esseri umani continuino ad avere la capacità di avere relazioni tra di loro. 3.

Dalle periferie ai «quartieri sensibili»

Il dispiegarsi dei fenomeni della mobilità, della dislocazione e dell’eterotopia modifica, a poco a poco, il volto della città contemporanea e, per quello che qui interessa, le sue articolazioni interne. Anche se facciamo fatica a rendercene conto, la città sta su-

bendo profonde trasformazioni. L'aspetto forse più importante è la crisi del tradizionale schema «centro-periferia». Con tale affermazione non si vuole dire che non esistano più centri o che le periferie non siano più ben riconoscibili. Basta fare un giro dentro una qualunque realtà urbana del nostro continente per rendersi conto quanto sarebbe azzardato sostenere una tale tesi. E questo perché, nelle città europee come in quelle italiane, la

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storia non si cancella in un momento: per fortuna, le nostre città riflettono ancora lo stratificarsi delle varie epoche storiche. Ma il punto è che anche ciò che rimane del passato deve essere riletto alla luce dei processi di cui si è parlato nelle pagine precedenti. Dal punto di vista del governo delle città, il prevalere della logica dell’eterotopia ha comportato la progressiva rinuncia all’idea di pianificazione. Anche nella vita urbana, la logica del progetto — che secondo Luc Boltanski contrassegna lo «spirito del capitalismo» contemporaneo — ha soppiantato le utopie urbanistiche degli anni ‘70 e ’80: finita l’epoca razionalista, l’età che viviamo si caratterizza per insediamenti puntuali e disorganici, mentre la titolarità dell'indirizzo e del controllo dell’intervento urbanistico si disperde nelle mani di una pluralità di soggetti (istituzionali e non). L'ipotesi è che i sistemi urbani possano funzionare meglio superando le relazioni di tipo gerarchico, rendendo flessibili le collaborazioni, stimolando la creatività. Il risultato è che quello che accade all’interno della città oggi

non è né pianificato né riconducibile a una logica vero che ci sono città in crescita e città in declino ed questo elemento di contesto incide sui destini di tutti hanno a che fare con un determinato luogo. Ma un

unitaria. È è vero che coloro che tale effetto

non va esagerato, perché, insieme a esso, ve ne è un altro di pari rilievo, che ha a che fare con la frammentazione interna della

città e la diversificazione dei destini dei suoi abitanti. Ciò che sembra caratterizzare la fase contemporanea è che i mutamenti si realizzano in modo puntuale e disorganico, accentuando le divaricazioni all’interno del tessuto urbano. Più analiticamente, è possibile distinguere due processi generali di cui, nella fase storica che stiamo vivendo, troviamo

traccia in contesti differenti. î) Il primo è che intere porzioni di territorio — a prescindere da qualunque considerazione relativa alla vita urbana — tendono a lacerarsi e a ricombinarsi, dando vita a nuove combinazioni

di funzioni e popolazioni che spesso non si incontrano mai e rimangono semplicemente giustapposte. L'elemento differenziale è essenzialmente dato dal grado e dalla natura delle interconnessioni funzionali di cui si dispone con l’altrove. Che sia il centro storico dove affluiscono milioni di turisti, il nuovo quartiere

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residenziale sul quale si riversano ingenti capitali internazio-

nali, l’area dismessa dove una multinazionale realizza un inve-

stimento, il quartiere nel quale si concentrano gli arrivi di un determinato gruppo etnico, quello che conta è che lo sviluppo delle diverse aree nel tessuto urbano è legato all'intensità e alla direzione delle sue interconnessioni. L'aspetto che deve essere sottolineato è che un tale sviluppo è puntuale, nel senso che riguarda una singola funzione, un singolo luogo, una singola po-

polazione, spesso con ricadute limitate, o addirittura negative,

sul contesto circostante. Si pensi all'aumento del costo degli immobili e degli affitti, al peggioramento del traffico, all’emergere di problemi di sicurezza che possono seguire la creazione di un nuovo centro direzionale, lo spostamento del mercato or-

tofrutticolo, l'occupazione irregolare di un caseggiato, in una determinata area urbana. Le ragioni di una tale dinamica sono molteplici, ma essenzialmente hanno a che fare con il fatto che lo sviluppo urbano è sempre più spesso il risultato di decisioni private più che pubbliche, anche a seguito della perdita di fiducia negli strumenti di pianificazione urbana centralizzata. Nell'insieme, questa dinamica va nella direzione di ciò che Nancy ha chiamato la «banalizzazione del territorio», cioè la perdita di specificità e di memoria dei contesti locali e la loro trasformazione

in «luogo comune,

assenza

di luogo, un non-luogo,

equivalenza indefinitamente moltiplicata delle direzioni e delle circolazioni, di cui l'abitazione è solo un corollario»?. Giocando

sul fatto che in francese la radice del termine barlieue è la stessa di banal (banale), il filosofo francese ci dice che questa disgregazione-frammentazione dei quartieri ha effetti simili a quelli che erano stati indotti, nel corso del XX secolo, dai grandi progetti di insediamento abitativo di cui parlerò nel prossimo punto. I vecchi quartieri cambiano pelle senza che quasi nessuno se ne accorga e comunque al di fuori di una visione di insieme, che provi almeno a tenere conto delle sensibilità e delle storie locali. Persino quando la conservazione della tradizione e della specificità locale viene resa oggetto di una strategia intenzionale volta allo sfruttamento turistico dell’esotico, il risultato sembra essere

l’opposto, con lo svilimento della genuinità originaria e lo svuo? J-L. Nancy, La città lontana, cit., p. 18.

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tamento dall'interno della cultura locale, costretta ad aprirsi alla logica del turismo globale. î) Il secondo processo che occorre qui richiamare si determina invece sul versante opposto, cioè quello della perdita di funzioni. Nel quadro della trasformazione in corso, altre porzioni di territorio subiscono una dinamica di depauperamentosvuotamento delle funzioni-popolazioni che le hanno caratterizzate, sostanzialmente legate alla fase storica precedente. Si pensi ai quartieri operai, sorti nel corso del XX secolo accanto alle grandi fabbriche: con la loro chiusura, tali quartieri non solo hanno dovuto trovare nuove fonti di sostentamento economico, ma hanno anche subito una radicale trasformazione, sia dal lato

della composizione sociale sia dal lato della socialità interna. Queste perdite raramente sono accompagnate dalla formazione di nuove opportunità collegate a una qualche significativa rifunzionalizzazione. L'esito più negativo può essere la completa residualità di questi quartieri, che in alcuni casi arrivano a diventare zone morte, di pura sopravvivenza, dove persino la socialità quotidiana del faccia-a-faccia fatica a radicarsi e a riprodursi, tanto ostile è il contesto in cui si dovrebbe sviluppare. Quando ciò accade, ci si trova di fronte ad un vero e proprio processo di segregazione, che taglia fuori alcuni gruppi sociali dal contesto urbano, creando un mondo parallelo e sganciato da tutto e da tutti. Una tale dinamica è particolarmente frequente per quelle che chiamiamo in senso classico «periferie», cioè quei quartieri oggetto di pianificazione urbanistica, costruiti tra gli anni ’60 e "70 all’insegna di nuovi modelli abitativi e di socialità. Sempre più spesso, queste aree finiscono per essere dei concentrati di

gruppi marginali, cioè di categorie che sono disfunzionali rispetto alla vita sociale contemporanea e come tali scarsamente adatte a insediarsi nei contesti di maggiore integrazione. In altri casi, evoluzione degli ultimi anni rende questi quartieri luoghi nostalgici, dove si rimpiange un tempo che non c’è più, magari difendendone gli ultimi residui, oppure luoghi di estraniazioneopposizione

a un cambiamento che si percepisce come estraneo

e che avviene secondo logiche del tutto indipendenti dal contesto locale.

Tutto ciò porta a concludere che lo schema «centro-periferia» risulta oggi eccessivamente riduttivo per comprendere i

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mutamenti urbani, fino al punto da diventare un impedimento alla comprensione di quanto sta accadendo. Tre sono le ragioni principali che spiegano tale affermazione.

La prima è che la frammentazione è un fenomeno trasversale che attraversa sia i centri sia le periferie. La riqualificazione e gli investimenti seguono logiche che non sono riducibili allo schema «centro-periferia» per la semplice ragione che la prospettiva da cui vengono prese le decisioni non ha di solito alcun legame significativo con la sfera locale. Ma anche la dinamica opposta — quella che crea degrado e miseria — sembra non avere più confini e in molte città essa si infiltra un po’ dappertutto, contaminando anche le aree che una volta sembravano esclusive. Tanto che un adattamento regressivo nei confronti di tale processo consiste (soprattutto nel caso americano) nella formazione delle gated communities, cioè nella nascita di recinti chiusi nei quali i gruppi benestanti decidono di rinchiudersi, in qualche modo ammettendo il fallimento dell’idea di una socialità universalistica. La seconda ragione è che così come i centri sono meno legati alle periferie — perché la loro connessione è altrove — allo stesso modo le periferie riescono a dipendere meno dal centro, perché i riferimenti a cui possono guardare sono anche altri. Per fare due esempi banali si può citare, da un lato, il caso del

professionista che sceglie di vivere e lavorare in un quartiere di periferia perché considera l’esotismo del luogo un prezioso valore aggiunto, ma che ha i suoi partner di lavoro sparsi in varie

parti del mondo e trascorre il suo tempo libero altrove. Dall’altro lato, il giovane che abita nel quartiere periferico, privo di formazione, che vive dell'economia informale e che non deve

nemmeno più recarsi in centro il sabato pomeriggio perché può andare nel centro commerciale aperto sulla cintura delle tangenziali cittadine. La terza ragione è che, nei centri e nelle periferie, si vivono le stesse patologie di una socialità che fatica a riprodursi sia perché vengono meno le condizioni che l’hanno sostenuta nel passato, sia perché non sempre si dispone dei codici adeguati per gestire il passaggio verso il pluralismo culturale. In molti dei casi di marginalità e di violenza di cui parla anche la cronaca non è la perifericità dell’abitare l’elemento discriminante. L'idea

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di un centro socialmente integrato e di una periferia pericolosa e disgregata coglie con sempre minore precisione la realtà contemporanea. Quest'ultima è sempre più fatta di isole, disordinatamente messe una di fianco all’altra a pochi metri di distanza, in una totale incomunicabilità. E di questa trasformazione occorre tenere conto. Per tutte queste ragioni sarebbe sbagliato limitarsi a studiare «le periferie», cioè quelle zone costruite ai margini della città moderna sulla base di programmi di sviluppo urbanistico più o meno viziati da proiezioni illuministe. Capire cosa accade in questi quartieri è senz'altro importante, soprattutto per veri-

ficare se essi stanno diventando quartieri deprivati di qualsiasi funzione se non quella di contenitore di popolazioni residuali. Ma, detto questo, occorre essere consapevoli che i processi di marginalizzazione, impoverimento, segregazione, disgregazione, banalizzazione,

si stanno

verificando

anche altrove, in

quartieri «più centrali», dove non ci aspetteremmo di incontrare questo tipo di dinamiche. Una tale tendenza altro non è che l’altra faccia della medaglia del processo di rafforzamento delle eterotopie funzionali che la globalizzazione porta con sé, perché — come ho cercato di suggerire — la funzionalizzazione spinta radica pochissima socialità di luogo e favorisce semmai l'attivazione di flussi di popolazione mobile e differenziata che determina importanti effetti sulla vita sociale. Nell’insieme, le vecchie periferie in trasformazione e le nuove zone dove più intenso è il fenomeno della dislocazione definiscono quelli che possiamo chiamare «quartieri» o «aree sensibili» che si caratterizzano, a prescindere dalla loro collocazione topografica sulla pianta della città di appartenenza, per la presenza simultanea, anche se variabile, di una molteplicità di fattori di debolezza: dal punto di vista abitativo, con quote elevate

di edilizia popolare; da quello sociale, con un’alta incidenza di gruppi deboli e collocati al margine per il grado di disagio esperito; da quello culturale, con la concentrazione di popolazione a basso titolo di studio; da quello infrastrutturale, con una scarsa dotazione di strade, trasporti e istituzioni pubbliche; da quello

economico, con la diffusione di economia informale e illegale. Per condurre la ricerca sono stati quindi individuati dieci quartieri sensibili in altrettante città italiane, a loro volta rag-

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gruppati in due sottoinsiemi: il primo costituito da periferie in senso classico — aree situate lontane dal centro, sviluppatesi tra gli anni ’60 e ‘70 sulla base di un progetto insediativo unitario”; il secondo costituito da aree più diversificate, meno caratterizzate dal punto di vista spaziale, ma considerate particolarmente problematiche nella fase storica contemporanea!!. Nello studiare queste realtà ci si è sforzati di evitare di cadere in una qualche forma di determinismo sociologico. E per questa ragione, la ricerca è stata impostata senza mai dimenticare l’importanza della storia delle singole città, delle loro culture, delle politiche messe in atto dalle istituzioni pubbliche, del contributo dei vari attori sociali. In particolare, si è tenuto conto

del fatto che sul campo si muovono le contro-strategie di riappropriazione messe in atto da parte degli attori sociali (o, meno eroicamente, i tentativi posti in essere dalla gente per cercare di scendere a patti con questa situazione): tali strategie si sforzano di trovare una mediazione tra le dinamiche macrosociali e la vita concreta delle persone in carne e ossa e possono dar vita a forme di auto-organizzazione (come le forme associative,

i comitati di quartiere, le forme di auto-aiuto, la presenza delle comunità ecclesiali) oppure a momenti di aggregazione (quali la festa o la protesta). Obiettivo della ricerca è stato quello di verificare se, al di là delle tante differenze, siano riscontrabili delle tendenze generali che interessano queste aree e soprattutto se è possibile riscontrare una convergenza tra i vari quartieri sensibili attorno a un modello comune. Tale interrogativo nasce non solo dalla crescente rilevanza che i quartieri sensibili hanno nella cronaca delle città considerate, ma anche dalla consapevolezza che le forme della vita urbana stanno cambiando in tutto il mondo sulla spinta delle trasformazioni strutturali in corso.

!° Si tratta dei quartieri di Genova, Begato; Napoli, Scampia; Bari, San

Paolo; Catania, Librino; Palermo, Zen. "! Torino, Barriera di Milano; Milano, ex-zona renze, Isolotto; Roma, Esquilino.

13; Bologna, Navile; Fi-

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4.

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La crisi dell'umano nelle città globali

Per cogliere in profondità il senso della ricerca che viene qui presentata occorre allargare lo sguardo alla scala globale. In tale prospettiva, le trasformazioni analizzate nelle pagine precedenti appaiono capaci di determinare conseguenze virulente sulle forme di vita urbana. Tanto che noi europei dubitiamo che sia possibile continuare a parlare di città di fronte ad agglomerati che sembrano non avere più nulla di organizzato al loro interno. A livello planetario, il fenomeno urbano appare come sospeso su tre disastri. i) Gli spostamenti sregolati di popolazione stanno determinando in molti paesi, soprattutto del Terzo mondo, un inurbamento selvaggio, che non riesce a essere smaltito dalle città né dal punto di visto abitativo, né da quello lavorativo. Ciò determina la crescita esponenziale di quelle che sono di solito chiamate bdidonvilles. Nel Rapporto 2003 sull’Human Settlements, l'Onu ha reso nota la stima secondo cui il numero di persone che vivono in questo tipo di insediamenti ha raggiunto la cifra stratosferica del miliardo!?. Pur con delle differenze tra i diversi contesti, le bidonvilles non sono solo concentrati di miseria

— dove le persone sono ammassate al di là di qualunque senso urbanistico e prive di ogni servizio — ma anche dei luoghi che si sviluppano al di fuori di qualunque legalità. Basti pensare che la quota di abitanti delle città dei paesi poveri senza alcun titolo di proprietà sulla propria abitazione, sempre secondo le stime dell'Onu, è pari all’85%: non potremmo avere indicatore più preciso dell'elevato livello di informalizzazione che si raggiunge in queste aree.

ti) Gli agglomerati urbani di dimensioni sconosciute — e che, in molti casi, superano abbondantemente i 10 milioni di persone — si sviluppano senza forma, al di là di qualunque disegno urbanistico, anche mediante la fusione di città una volta separate. Anche quando non si arriva a questo punto, si osserva co-

munque l’iperfunzionalizzazione dei processi di urbanizzazione, dove le logiche di sviluppo sono solo quelle della produzione e

1? United Nations, Slums of The World: The Face of Urban Poverty in the

New Millennium, in United Nations Human Settlements Programme, 2003.

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della speculazione edilizia, al di fuori di qualunque altra considerazione legata alla vita delle persone. Si parla, a questo proposito, di sprawling per indicare la diffusione senza criterio del tessuto urbano su vaste aree prive di confini e identità, con il risultato di dar vita a forme urbane sconosciute che si sviluppano su vaste aree regionali e che sono tenute insieme da complessi filamenti infrastrutturali. iti) Avanza l’implosione, che potremmo definire nichilista, dei grandi progetti modernisti che hanno dato vita al sorgere delle periferie urbane del dopoguerra. I mutamenti strutturali delle economie capitalistiche — con il passaggio a quello che Lash e Urry hanno definito capitalismo disorganizzato — da un lato hanno portato alla chiusura delle fabbriche, che costituivano il tessuto connettivo di queste realtà, dall’altro, hanno sostituito la

vecchia popolazione omogenea con minoranze etniche, gruppi di anziani privi di riferimenti, disoccupati e lavoratori precari che formano una parte rilevante dei nuovi ceti popolari. In tutti questi casi, il risultato è il mutamento della socialità interna di queste aree, che vedono sparire il baricentro sociale sul quale sono state edificate. Il problema è che, mentre il tessuto sociale cambia, le strutture abitative — pensate per tutt'altro contesto storico e sociale — permangono, con il risultato di determinare nuove forme di degrado e abbandono.

Nell'insieme, queste dinamiche delineano un quadro drammatico relativo al mutamento del significato stesso dell’esperienza urbana contemporanea. A livello planetario, la città contemporanea — o quello che di essa rimane — rischia di diventare qualcosa di molto diverso da ciò che abbiamo fino ad oggi inteso con questo termine. Si potrebbe arrivare a sostenere che quanto sta avvenendo in tante realtà urbane del nostro tempo in giro per il mondo ci restituisce la misura concreta di una crisi antropologica che vede sprofondare l’idea stessa di uomo: non più un fine in se

stesso, bensì semplice strumento o mera occorrenza che di per sé non ha alcun diritto né ha alcun rilievo. Se la città contemporanea, come scrive Nancy, è oggi pensabile solo nella prospettiva della trasformazione tecnica — che si produce senza direzione e senza senso — allora un tale esito non può meravigliare. Occorre insistere su questo punto: le nuove forme urbane sono

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infatti un /ocus in cui si manifesta, in modi a volte tanto drammatici quanto evidenti, la crisi dell'umano contemporaneo, con

la negazione radicale del riconoscimento della dignità a quantità enormi di popolazione, a cui vengono negati anche i diritti più elementari. 5.

Le specificità del caso italiano

Rispetto a queste linee di tendenza, almeno fino a oggi, in Europa, e in Italia in particolare, i fenomeni di mutamento appaiono relativamente attenuati. Nonostante i problemi esistenti, nelle nostre città non vi è nulla di paragonabile a quanto è possibile trovare nelle grandi megalopoli del Sud del mondo. Ciò si spiega evidentemente con la storia che è alle nostre spalle, storia che ha depositato nei nostri centri urbani — e nelle culture così come negli assetti istituzionali che lì si esprimono — tutta una serie di risorse che permettono di evitare gli sbocchi più negativi dell’età contemporanea. Ma questa constatazione — che pure non deve essere dimenticata — non deve neppure portare alla conclusione che nulla di simile possa riprodursi anche da noi. E questo perché le dinamiche a cui anche le nostre città sono esposte sono le stesse di quelle che si producono in contesti meno ancorati in una storia

e in una cultura. In questo senso, l'interrogativo di fondo da cui ha preso le mosse la ricerca che qui presentiamo ha riguardato proprio i percorsi di aggiustamento che i quartieri sensibili delle città italiane stanno seguendo a fronte dei mutamenti strutturali della fase storica in corso. L’assunto di partenza è che, comunque sia, i modelli della città industriale del Novecento sono entrati in crisi, per cui diviene necessario capire meglio quali adattamenti vengono posti in essere. L'intento è quello di verificare se le città del nostro paese — pur con tutte le inerzie e le specificità del caso — non siano vicine ad un punto di svolta, ad un passaggio che rischia di spingerle verso un destino già segnato; o se, invece, la nostra storia e la nostra cultura siano sufficienti a proteggerci contro i pericoli peggiori e a permetterci di tracciare una via evolutiva migliore.

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Prima di provare a rispondere a tali interrogativi è necessario, in via preliminare, richiamare tre aspetti generali di cui occorre tener conto quando si voglia qualificare le città italiane nel quadro dei mutamenti storici che ho sopra delineato. In primo luogo, l’Italia dispone di un sistema urbano che ha la doppia caratteristica di essere molto antico — con tracce ancora evidenti nella morfologia dell’organizzazione urbana, tuttora ancorata al centro storico — e estremamente ramificato.

L'Italia è ricchissima di piccole e piccolissime cittadine che l'hanno sempre protetta dalla formazione di conurbazioni sterminate del tipo di quelle che è possibile trovare nel Sud del mondo ma anche negli Stati Uniti. A parte Roma — che è l’unica grande città con un vasto territorio ancora da urbanizzare attorno a sé —, le città italiane più grandi sono collocate in contesti regionali molto articolati e di solito agguerriti contro le aspirazioni di dominio dei capoluoghi. Il caso forse più eclatante è Milano, il cui numero di abitanti non raggiunge i due milioni, ma che si trova nel mezzo di una vasta regione urbanizzata, senza confini precisi, che coinvolge quasi tutta la regione Lombardia — 9 milioni di persone. Di fatto, ancora oggi — e questa costituisce una specie di anomalia — le città italiane che superano il milione di abitanti sono solo Roma e Milano. Per il resto,

in Italia troviamo un certo numero di città medio-grandi che in uno scenario globale però dovremmo oggi considerare mediopiccole (Torino, Genova, Bologna, Firenze, Napoli, Bari, Palermo e Catania). Semmai — come il caso di Milano mostra, ma

ritroviamo qualcosa di simile nell’area napoletana o nella zona attorno a Venezia — si vanno diffondendo conglomerati regionali che tendono a legare insieme senza soluzione di continuità cittadine che hanno una storia di autonomia e distinzione. A parte questa dinamica — di cui peraltro qui non ci occuperemo — in Italia non appare significativa la tendenza verso la concentrazione urbana. La piccola città continua a esercitare tutto il suo fascino e a proteggere da spostamenti massicci nei centri più

grossi. In secondo luogo, l’Italia dispone di una ricca tradizione in termini di radicamento culturale, socialità diffusa e infrastruttu-

razione istituzionale. Proprio in rapporto a quella ricca ramifica-

zione della struttura urbana, l’Italia è un paese con una grande

miniera di soggetti della società civile che operano all’interno

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delle realtà urbane e contribuiscono a riprodurre quelle culture locali che nel passato, anche recente, sono state risorse cruciali

per affrontare i problemi della crescita. Pur con tutti i limiti messi in evidenza dalla letteratura, e pur tenendo conto del fatto che questo tipo di risorse tende a perdere di rilievo con la crescita della dimensione urbana, non v'è dubbio che i reticoli as-

sociativi e relazionali costituiscano un patrimonio prezioso, che si combina con il cospicuo lavoro compiuto dallo stato nazionale nel corso della sua storia allo scopo di generalizzare tutta una serie di condizioni adeguate alla società moderna. Basterebbe pensare alla capillare presenza delle scuole primarie o alla diffusione dei servizi pubblici per capire quali risultati ha raggiunto questo sforzo. Anche nelle regioni meridionali, dove le difficoltà incontrate nel portare a compimento questo lavoro sono state (e ancora oggi sono) maggiori, ci si trova in una situazione ben di-

versa da quella che presentano molte città del Sud del mondo. Forse lo sfregio più significativo a questa tradizione è stato inferto tra gli anni ‘60 e ’80 quando anche in Italia si sono diffuse pratiche urbanistiche e architettoniche mutuate da altre culture, le quali hanno creato un certo numero di nuove periferie attorno alle grandi città pensate in una prospettiva del tutto aliena dalla tradizione del nostro paese. Quella fase oggi è per fortuna alle nostre spalle. E, tuttavia, ci rimangono in eredità

un certo numero di quartieri di questo tipo — un numero per fortuna non esagerato — che oggi stanno attraversando una profonda trasformazione dovuta ai tanti cambiamenti di ordine sociale, economico, culturale e istituzionale che nel frattempo si

sono prodotti. In terzo luogo, lo studio delle città italiane va affrontato tenendo conto del fatto che il nostro paese — e con esso le nostre città — sta registrando in questi anni un processo che sembra andare nella direzione di una progressiva periferizzazione rispetto alle dinamiche più centrali e più veloci del nostro tempo. Come sappiamo, in questi ultimi dieci anni l’Italia, che rimane pur sempre una delle grandi potenze economiche del mondo, ha incontrato tutta una serie di difficoltà — simili ma, per diversi aspetti, più gravi a quelle che registra l'Europa nel suo insieme - che la fanno crescere con ritmi sensibilmente minori rispetto a quanto accade nelle aree del mondo più dinamiche. Le ragioni di queste difficoltà sono tante e non è certo il

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caso di entrare ora in questa discussione. Ma quello che qui preme sottolineare è il peso che, in questo processo, gioca quello che si potrebbe chiamare «l'inadeguatezza localistica» del nostro paese. In un tempo che abbiamo visto essere segnato dalla mobilità e dalla comunicazione, l’Italia resta un paese dove ci si muove troppo poco, ci si confronta troppo poco, dove il grado di integrazione culturale è ancora molto basso, al punto da costituire, in qualche caso, un'effettiva difficoltà nei con-

fronti della complessità contemporanea. Come si è visto, l’Italia dispone di grandi risorse legate proprio alle logiche dell’urbanizzazione diffusa, alla creazione di capitale sociale e culturale. È questa la sua ricchezza. Ma adesso il problema è che queste stesse risorse appaiono spese più a proteggere gli interessi locali costituiti che non ad affrontare le sfide attuali. Rispetto agli interrogativi della ricerca, questa terza osservazione ci dice che quei processi di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti tendono a prodursi nelle città del nostro paese in modo più blando e meno violento. Ciò, se da un lato costi-

tuisce indubbiamente un aspetto positivo, dall’altro lascia presagire che in futuro le tensioni tenderanno a crescere, via via che l'esposizione del paese alle dinamiche emergenti aumenterà. Ciò conduce a leggere i risultati della ricerca in prospettiva, ossia in relazione ai mutamenti che ci si deve attendere si produrranno nella vita delle nostre città negli anni a venire.

Capitolo secondo

Dieci storie di quartiere

Introduzione. | quartieri si presentano

Dieci quartieri di dieci città italiane, del Centro, del Nord,

del Sud: quartieri un tempo isolati, progettati in buona parte all’esterno della città o ai suoi bordi come nuove parti urbane, e in seguito divenuti sempre meno distanti geograficamente (ma non necessariamente meno disconnessi) poiché inglobati dalle dinamiche espansive della città stessa. Ciascuno di essi, a suo modo, riflette le nuove articolazioni spaziali e funzionali della città contemporanea e, con esse, le sue contraddizioni, a partire

dall’inapplicabilità della tradizionale dicotomia ria»: con un centro che non è più solo centrale, che non è più solo ai margini. Abbiamo pertanto periferie — come messo ampiamente in luce nel — «quartieri sensibili». In primo luogo, perché collocazione spaziale — il territorio non è né ben

«centro-perifee una periferia definito queste primo capitolo — al di là della definito, né ne-

cessariamente omogeneo al suo interno, sebbene tali aree rimangano zone in cui si addensano elementi di criticità. In secondo luogo, perché sono zone in cui si stratificano nuove funzioni e nuovi spazi, in parte centrali rispetto a flussi in transito e in parte ancora periferici rispetto alla città che continua a trovare qui la possibilità di arginare quella parte di sé che, come una zavorra, fatica a portarsi dietro mentre cerca un nuovo posto nello scacchiere dei centri urbani inclusi e connessi. Nelle periferie classiche, anzi, gli elementi «sensibili» aumentano e si differenziano, continuando a condensarsi attorno

a una turale: essere feria».

distanza dal centro che è al tempo stesso geografica e culBegato, San Paolo, Librino, lo Zen e Scampia possono considerati, in tal senso, dei «quartieri sensibili di periLi presentiamo uno dopo l’altro, lasciando Scampia per

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ultimo, più vicino all’Esquilino e alla periferia milanese soltanto perché, sebbene in maniera molto diversa, in questi tre quartieri sono comunque ben visibili gli effetti delle connessioni globali

derivanti, rispettivamente, dal traffico illecito, dal movimento di

popolazioni e culture, dall'economia del nuovo capitalismo. Gli altri quartieri non sono mai stati tanto esterni alla città o così distanti dal suo sistema economico e commerciale. Nel tempo, la città che è andata via via sparpagliandosi e diffondendosi, ha anche riempito i vuoti tra il suo centro e le sue periferie, si è ampliata urbanizzando le aree rurali contigue. Tuttavia, venute meno le funzioni attorno alle quali questi quartieri sono nati, hanno forgiato la loro identità e si sono compattati, ecco che si stratificano nuovi fattori di debolezza e di crisi: Barriera di Milano, il Navile, l’Isolotto, l’area della ex-zona 13 con i suoi

rioni di Forlanini-Taliedo-Ponte Lambro — tutti ex quartieri operai — sono emblematici a tale proposito. Ma anche l’Esquilino, uno dei rioni più popolari della città per la sua vocazione commerciale, pur non essendo mai stato una periferia in senso

classico, si trova oggi a divenire tale agli occhi dei suoi stessi abitanti, mentre si trasforma in «centro» per le nuove popolazioni in arrivo.

I processi che rendono tutti questi quartieri delle aree «sensibili», pur essendo gli stessi, hanno in realtà impatti diversi da territorio a territorio. I dieci quartieri sono infatti molto diversi tra loro, anche laddove elementi ricorrenti si richiamano

e si

rincorrono. Sono diversi per densità e condizioni abitative, per il numero di abitanti, per il loro livello socio-culturale, per le traiettorie storiche in cui si sono combinati elementi ricorrenti in maniera singolare, per prospettive future, per il loro rapporto con la città e il resto del mondo, per il loro livello di connessione

o disconnessione rispetto alle geometrie di riconfigurazione tracciate dall’accelerazione delle dinamiche globali. Si tratta di quartieri immobili e quartieri frantumati dai ritmi serrati della trasformazione sociale e urbanistica, quartieri in via di senilizzazione e quartieri di giovani, quartieri culturalmente e etnicamente omogenei e quartieri caleidoscopici, stratificati, schizofrenici. Ma non solo. Ogni quartiere, al suo interno, è tutt'altro che un universo omogeneo e si presenta, a chi lo osservi da vicino —

o meglio, a chi lo attraversi — come una pietra lavica sulla quale si sono depositati, senza mai cancellarsi, strati di colate (talvolta

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spettacolari, talaltra drammatiche) che gli hanno impresso colorazioni dalle tonalità diverse e mutevoli in base all’esposizione alla luce: ogni quartiere raccoglie linguaggi insediativi diversificati, condizioni di vita articolate, culture e popolazioni eterogenee, attori e strategie di adattamento molteplici, gruppi sociali portatori di interessi contrastanti. Potremmo dire che tutto ciò che differenzia i quartieri tra loro, in ultima istanza, è anche tutto ciò che li differenzia al loro interno. Per non perdere questa molteplicità irriducibile proponiamo in questo capitolo un rapido ritratto di ciascun quartiere, prima di proseguire in un’analisi che, nei prossimi capitoli, traccerà dapprima i passaggi storici in chiave comparativa per focalizzare poi, più nel dettaglio, aspetti particolari e specifici, e tenterà di schizzare alcune tipologie attraverso le quali rendere conto delle difficoltà, ma anche delle forme di vitalità e di ricomposizione sociale di quelli che restano (come direbbe Augé) squarci di «città-mondo» in cui si condensa l’infinita varietà del globo. 1.

Genova, Begato: un quartiere discarica nichilista

La costruzione sociale di un quartiere stigmatizzato

Begato è probabilmente considerato il quartiere più problematico di Genova. Per un genovese, dire «Begato» significa parlare di una realtà degradata e pericolosa, una parte estranea della città, una macchia che si vorrebbe cancellare.

Nato, come tanti quartieri similari, in base a un progetto architettonico tanto ambizioso quanto slegato dal contesto so-

cio-culturale locale, Begato sale fin dai suoi primissimi anni di vita alla ribalta delle cronache cittadine per episodi di devianza e per la pessima qualità della vita: si tratta di un percorso di costruzione dello stigma che è, per molti aspetti, da manuale. Prima dell’edificazione del quartiere, Begato connotava un piccolo nucleo di case sulle colline genovesi, in una zona paesaggisticamente bella, di cui ancora oggi rimane qualche isolata traccia. Fu solo con la legge 167/1962, quando l’area entrò nei piani di edificazione popolare che coinvolgevano le alture tra Rivarolo e Bolzaneto, nella Valpolcevera, che l’intera vallata cam-

biò radicalmente faccia.

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La realizzazione della zona oggetto dello studio etnografico arrivò più tardi, nel corso degli anni ’80, sulla spinta di un’urgenza che imponeva, in relazione ai lavori avviati a Genova in occasione delle vicine Colombiadi del 1992, la consegna di un alloggio a circa 12.000 famiglie, di cui gran parte emigrate dal meridione e in condizioni abitative estremamente precarie. Come è facile immaginare, la necessità di consegnare in tempi brevi i fabbricati condizionò l'andamento dei lavori, che furono

fatti in fretta e al risparmio. L’idea della concentrazione volumetrica verso l’alto in un solo fabbricato risponde — in una situazione morfologica quale quella genovese — ad esigenze di spazio, a cui spesso si sommano imperativi di economicità. Sta di fatto che, nel caso di Begato, questo tipo di esigenze ha trovato risposta nel complesso-simbolo del quartiere, le cosiddette «Dighe», due edifici posti l’uno a pochi metri dall’altro che colpiscono più ancora che per l'altezza (15 piani) per la lunghezza. A chi arriva nel quartiere, le Dighe si presentano con una certa imponenza. In effetti, questi palazzi sono chiamati così perché, proprio come una diga idrica, tagliano la vallata da Est a Ovest, dando la possibilità di passare da un versante all’altro senza mai ‘uscire dall'edificio. Fin dall’inizio, questi palazzi hanno coinciso, nell’immaginario collettivo della città, con il quartiere stesso. Il nome è evocativo ed è capace di esprimere sinteticamente un'idea, che in questo caso è quella di una elevata concentrazione di problemi, qui confinati e arginati. La coincidenza di tale appellativo con Begato nel suo insieme ha voluto dire che niente di buono ci si poteva aspettare dal quartiere. Le Dighe sono state in realtà un luogo determinante per la vita di questa zona. In poco tempo, entrambi questi palazzi — tra l’altro collegati tra loro da ponti sospesi che li rendono veri e propri labirinti inespugnabili — sono presto diventati il fortino della microcriminalità del quartiere, pressoché inaccessibili alla polizia. Sulle pagine dei giornali e nella percezione diffusa è stato fin troppo facile mostrare le Dighe e raccontare del degrado di un intero quartiere. In effetti, l'impatto con questi edifici è piuttosto impressionante. Oltre al degrado fisico, colpiscono subito le protezioni private che sono state create da chi abita al loro interno. La maggior parte dei pianerottoli è chiusa da inferriate, con tanto di citofono, che isolano piccoli gruppi di appartamenti: la sen-

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sazione è quella di un «vivere asserragliati», come sospesi dal mondo, al quattordicesimo o quindicesimo piano. Come confermato dalle interviste, ma ancor più dagli incontri casuali all'interno del palazzo, gli abitanti vivono in uno stato cronico di paura, in una situazione nella quale si viene taglieggiati anche nel prendere l’ascensore. In realtà, Begato è molto più delle Dighe. Intanto, fin dalla sua formazione, il quartiere è stato nettamente diviso in due zone che hanno ben poco a che fare l’una con l’altra: la prima, di edilizia pubblica, denominata Diamante, la seconda preva-

lentemente di edilizia privata (Cige). A separarle, il crinale della montagna. Ancora oggi, passare da un versante all’altro significa cambiare completamente contesto sociale, tanto che gli abitanti

della zona a edilizia privata non solo tengono a sottolineare con forza le differenze esistenti, ma fanno ricorso a strategie di costruzione di confini simbolici (dal dichiarare di non abitare a Begato al rifiuto di attraversare in auto la parte più degradata, sino alla decisione di inviare altrove in città i figli a studiare) per evitare di essere assimilati a quell'idea negativa che emana dalle Dighe. Come in tanti altri quartieri, i problemi si concentrano nella parte di edilizia pubblica — l'area del «quartiere Diamante» — dove gli alloggi sono stati assegnati tutti per graduatoria, secondo i criteri standard per i quali ha più punti chi ha meno risorse e più disagi. Ne è derivata una forte concentrazione di nuclei familiari con gravi problemi: tossicodipendenza, malattia mentale, prostituzione, generica delinquenza. A un tale risultato si è giunti in pochissimi anni, nel mo-

mento in cui la creazione di un quartiere popolare, lontano dal centro, spazialmente segregato e nel quale si è andato concentrando un diffuso disagio sociale, ha spinto molte famiglie assegnatarie che non avevano particolari problemi se non un reddito basso, a considerarlo invivibile e a cercare di andarsene

appena possibile. L’elevato turn over che ne è seguito, oltre che rendere più difficile l'instaurarsi di normali rapporti sociali e il radicamento sociale sul territorio, ha finito con l’aggravare la situazione, lasciando nel quartiere soprattutto famiglie disastrate e anziani. A ciò si è aggiunto un abusivismo che ha approfittato delle difficoltà di assegnazione derivante dalla nomea di Begato. L'area a edilizia pubblica del quartiere ha ormai da anni stabil-

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mente quasi il 30% degli appartamenti ufficialmente sfitti: la conseguenza è stata quella di avere un alto numero di abusivi e un progressivo degrado degli edifici a cui è mancata completamente la manutenzione ordinaria. Un quartiere in stato di abbandono

Nel quartiere Diamante non si abita, si dorme. La socialità quotidiana è ridotta al minimo, fino ad apparire quasi inesistente, tanto da dare l'impressione di trovarsi in un mondo un po’ spettrale. Per le strade c'è pochissima gente, anche perché non ci sono negozi, non ci sono panchine, non c'è nulla. Ben

visibili sono invece i segni di inciviltà che implacabilmente ricordano a chi ci abita, e comunicano a chi arriva, lo stato di ab-

bandono in cui versa il quartiere. Un complesso abitativo di circa 1.400 alloggi giustificherebbe ed esigerebbe la costruzione di un’urbanistica secondaria adeguata, che però non è mai stata realizzata, con tutte le conseguenze che si possono immaginare. Arrivando di sera attraverso l’unica via di collegamento con il fondovalle, l’attenzione viene subito catturata dalla potente illuminazione di un bellissimo campo di calcio — situato proprio sotto le Dighe — che costituisce anche l’unica struttura sportiva funzionante della zona. È assegnata in convenzione a una società calcistica della città: molti giovani di altri quartieri arrivano sino al bordo di Begato, giocano la loro partita, forse lanciano un’occhiata fugace e angosciata verso il quartiere e se ne vanno. Difficile, invece, che chi abita a Begato vada a giocare in questa struttura. A dire il vero, nel quartiere esiste una Polisportiva, la quale - secondo la convenzione comunale — ha accesso solo al campo piccolo, che peraltro in questi anni non riesce più nemmeno a utilizzare. Il campo di calcio, quindi, è un luogo «nel» quartiere, ma non è un luogo «del» quartiere. Agli occhi degli abitanti, quel campo — che stando nella parte bassa della vallata è ben visibile dalla maggior parte dei palazzi — non fa altro che confermare l'isolamento dal resto della città: come se si guardasse da dietro le sbarre la normale vita quotidiana a cui non si ha accesso. Subito dietro le Dighe si trovano tre campi da bocce, in teoria dotati anche di strutture d’appoggio — quali gazebo, bar,

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panchine e tettoia — ma completamente inutilizzati e invasi dalle erbacce. Accanto, ci sono un campetto polivalente e una pista di pattinaggio usati in modo improprio. Più sopra, un altro campo da bocce, anch’esso abbandonato. Lo spazio, non invaso da costruzioni e asfalto, non è auto-

maticamente «spazio verde». E semplicemente «spazio lasciato libero». E a Begato c’è molto spazio libero, ma poco verde, e ancora meno verde pubblico attrezzato: una piccola area con giochi nella parte bassa del quartiere, nei pressi delle Dighe, e un altro piccolo giardinetto un po’ più sopra, anch'esso in stato di degrado. In un’altra area è stata ultimata da poco l’attrezzatura di una zona verde con gazebo — pochissimo utilizzata — mentre alcuni gruppi di volontariato hanno predisposto un’altra piccola isola, tuttora sprovvista di panchine. Nonostante ci sia molto spazio libero, paradossalmente non esistono, o quasi, aree godibili. Più che di spazi verdi, si deve

parlare di scarpate incolte di colore grigio-marrone, cosparse di rifiuti di ogni genere, dai flaconcini vuoti del metadone alle lavatrici e ai sacchetti dell'immondizia. Tutto rimanda al senso di abbandono in cui il quartiere è lasciato. Grandi

problemi

hanno

causato,

inoltre, i box

aperti al

piano terra, sotto le Dighe, che ancora oggi offrono una «zona franca» per commettere qualsiasi tipo di reato, soprattutto lo smontaggio dei pezzi di motorino rubati da rivendere poi al mercato nero. L'odore di urina nei box e nei giardini è così forte da non invogliare nessuno a passeggiare. Sul lato sinistro della Diga rossa si erge un grande autosilo, mai assegnato né utilizzato, perché fondamentalmente inutile. Tra le famiglie assegnatarie molte sono composte da persone anziane, o da una sola persona, oppure da nuclei che non possiedono l’auto: i bordi delle strade, utilizzabili come parcheggi scoperti, sono numericamente sufficienti per le esigenze dei residenti. D'altra parte, gli abitanti del quartiere si rifiutano di parcheggiare la propria auto in un luogo collettivo chiuso, dove furti e danneggiamenti sarebbero più facili. Così, entrando nell’autosilo, si ha la sgradevole sensazione di un luogo abbandonato ma comunque frequentato, regno della ricettazione e dello smercio della droga. Nel quartiere mancano completamente i servizi commerciali elementari. Proprio sotto le Dighe, da qualche anno è stato

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aperto un discount, che è frequentato esclusivamente dalle persone del quartiere. Un enorme passo in avanti, che almeno dà il senso di un legame con la realtà esterna e soprattutto la possibilità di disporre dei beni essenziali. E, tuttavia, rimane pur

vero che il supermercato è situato nella parte più bassa del Diamante e come tale risulta difficilmente raggiungibile dalle persone che abitano nelle strade più a monte, distanti anche più di 1.000 metri — una distanza considerevole se si tiene conto che la strada è in salita, che gli abitanti sono spesso anziani, che i bus sono pochi. Non ci sono altri negozi o esercizi pubblici, ad eccezione di una farmacia, di un poliambulatorio specialistico gratuito (per il quale è stata stipulata una convenzione con la Croce rossa e con il Lyons club), di una tabaccheria e di un'edicola, tutte attività poste nei pressi del supermercato, direttamente sulla strada. Non ci sono, invece, uffici bancari. Il tentativo di organizzare,

una volta alla settimana, un piccolo mercato rionale è fallito per la mancanza di venditori interessati e disposti a venire regolarmente nel quartiere. A Begato non esiste una piazza, un portico, un giardino dove ritrovarsi. I ragazzi si riuniscono altrove, a Rivarolo o a

Certosa, e soprattutto alla Fiumara, il centro commerciale più importante del Ponente genovese, a qualche chilometro da Begato. Una piccola nicchia con una iscrizione, in un muro dietro un’aiuola, lascia supporre che, un tempo, ci doveva essere

un'immagine religiosa, ora rimossa o distrutta. Tutto lascia pensare che ogni possibile spazio aggregativo sia destinato al degrado. Negli spazi comuni predomina il vandalismo: Begato sembra «terra di nessuno», abbandonata. I muri sono sporchi, le luci rotte, i citofoni bruciati, le ringhiere arrugginite, gli angoli delle strade spesso trasformati in discariche. La conseguenza è un sentimento di profonda sfiducia nei confronti delle istituzioni, che sono sentite come lontane e assenti. Il che è qualcosa di più di un’impressione, visto che nel quartiere non c’è una stazione di polizia, non c’è la scuola (c’è solo una succursale in via Linneo, fuori dal-:quartiere Diamante), non c’è l'ufficio postale. Persino la chiesa, posta sulla cima della vallata, nel punto in cui

i due crinali si congiungono, è lontana dal Diamante e dalla sua disperazione, e appare in qualche modo algida, irraggiungibile.

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Crisi antropologica

La povertà del contesto non può non avere conseguenze sugli abitanti. Per molti, vivere a Begato ha il sapore di stare in un campo di prigionia, nella consapevolezza che la propria vita non vale nulla e a nessuno interessa del proprio destino. Naturalmente, ci sono dei distinguo. Chi ha un lavoro regolare, dei riferimenti esterni e di norma abita nella parte a edili-

zia privata fa di tutto per estraniarsi dal resto del quartiere. La possibilità di avere una strada di accesso diversa fa sì che buona parte degli abitanti della zona più benestante non si senta di Begato o, più spesso, neghi la cattiva fama del quartiere. Anzi, ne vengono esaltate le qualità, come l’aria buona o la possibilità di trovare subito parcheggio. Chi invece vive nel cuore del quartiere Diamante e non presenta la multiproblematicità tipica di molte famiglie della zona, cerca di sopravvivere in un contesto che teme e che odia, ma dal

quale sa di non poter scappare. Naturalmente, questa sopravvivenza è tutt’altro che semplice. Gli animi sono spesso esasperati, tanto da favorire lo sviluppo di una vera e propria intolleranza soprattutto nei confronti degli abitanti abusivi del quartiere, visti come la causa di tanti problemi e fondamentalmente come portatori di criminalità. Le problematiche antropologiche che emergono dall’analisi etnografica del quartiere sono numerose: problemi connessi alla devianza, soprattutto contro la proprietà e spesso legata allo spaccio di stupefacenti; alla disgregazione famigliare; ai problemi di abbandono scolastico; alla fragilità della condizione anziana.

Ma al di là di questi aspetti, sono due gli elementi che più colpiscono a Begato. Il primo riguarda la presenza di una violenza diffusa, che è però senza direzione e senza organizzazione. A differenza di altri quartieri periferici (soprattutto del Sud), anche la violenza è priva qui di qualunque organizzazione sociale: non ci sono gruppi mafiosi, non ci sono minoranze etniche, non ci sono vere e proprie bande stabili. Il che determina, come risultato, il vivere in un contesto in cui non sai mai che cosa ti può succedere e perché, anche se sai di essere sempre esposto a qualcosa. I problemi del quartiere da questo punto di vista sono gli atti di vandalismo, i casi di bullismo, i furti di auto e negli

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appartamenti, gli assalti o le corse automobilistiche notturne, la minaccia o il taglieggiamento. Il che crea tra gli abitanti un diffuso stato di insicurezza. Alcuni degli intervistati hanno, ad esempio, raccontato che

negli ultimi anni è imperversata la moda dei cani da combattimento, utilizzati poi per strada in improvvisati duelli, oppure come strumento di offesa ed aizzati contro indifesi passanti. Allo stesso modo, può sempre capitare che di notte qualcuno usi o vandalizzi la tua auto: ma si tratta di una specie di destino,

contro il quale non si può fare niente. Il quadro che ne emerge è quello di una violenza che potremmo

definire «nichilista» o «anomica», senza direzione, ca-

suale e senza bersaglio, che si infiamma improvvisamente e poi si placa, senza una ragione apparente, ma magari solo per una

qualche contingenza. Il secondo elemento che colpisce riguarda, invece, la perdita di riferimenti alla vita comune che il vivere segregati in questo quartiere produce in tanti suoi abitanti. Non è raro, ad esempio, vedere in giro per strada, a qualunque ora del giorno, persone in pigiama o in pantofole, come a testimoniare la perdita di contatto con una qualunque vita sociale organizzata e significativa.

Allo stesso modo, nei racconti dei ragazzi del quartiere come degli anziani, si ha l'impressione di una perdita di sincronizzazione temporale: persone che non hanno più orario, né per dormire, né per mangiare, che non hanno più riferimenti temporali con cui descrivere le diverse stagioni dell’anno. Persone alla deriva, in condizione di solitudine o isolamento estremo, che in

qualche caso hanno tagliato i ponti con la realtà. Non è un caso che il farmacista ci abbia confermato quella che era la nostra impressione: rispetto al quartiere più centrale dove ha operato per tanti anni, risulta qui nettamente più alta la quota di antidepressivi sul totale delle vendite. Chi vive a Begato e ne è prigioniero deve combattere contro il senso di vuoto che nasce da un contesto completamente disorganizzato.

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Crisi della socialità

Le difficoltà personali si trasferiscono poi anche sul piano sociale, dove si ha la sensazione di avere a che fare con un

mondo completamente privo di risorse. A prevalere è un senso di sfiducia che parte dalle istituzioni pubbliche e si propaga poi ai pochi soggetti presenti nel territorio, la Chiesa e le organizzazioni del Terzo settore. In effetti,

il quartiere dispone di pochissime risorse associative interne. Forse quella più significativa — almeno da un punto di vista storico — è il Circolo culturale polisportivo Diamante, fondato nel

1986 da un gruppo di primi abitanti di Begato, mossi dal desiderio di fornire ai ragazzi un’attività sana, tramite la quale svolgere un intervento educativo, e agli adulti un luogo fisico dove potersi ritrovare e discutere i problemi del quartiere. Lungo la sua storia, il Circolo ha avuto qualche momento di gloria: ha organizzato e allenato due squadre di calcio, riuscendo in qualche caso addirittura a sostenere le famiglie dei propri ragazzi, e ha conquistato qualche merito in tornei cittadini — con un grande senso di orgoglio nel far vedere che da Begato qualcosa di buono poteva uscire. Oggi le cose sono più difficili e le iniziative ridotte al minimo. Anche la presenza del Terzo settore genovese è assai limitata. Sul territorio è attiva la Cooperativa sociale Agorà, che ha un paio di progetti in convenzione col comune sia per gli adulti che per gli adolescenti, dove opera con un gruppo di educatori di strada. Sicuramente, la presenza più variegata è quella ecclesiale. Oltre alla propria attività pastorale ordinaria — che peraltro non riesce a raggiungere gli abitanti del Diamante — la parrocchia ha attivato qualche anno fa un Centro di ascolto Caritas, gestito interamente da volontari, tutti residenti nella zona più benestante del quartiere. Tale centro non si limita alla distribuzione di beni o viveri, ma si pone l’obiettivo della promozione della persona affinché essa acquisti, o riacquisti, dignità e autonomia. Le persone o famiglie prese in carico nell’arco dell’anno sono circa un centinaio, provenienti essenzialmente dal quartiere Diamante. Un’altra presenza significativa è la Comunità di Sant'Egidio, che organizza una «Scuola della pace» rivolta a bambini e ragazzi che frequentano le scuole elementari e le scuole medie (alcuni

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Dieci storie di quartiere

inviati dai Servizi sociali), proponendo loro attività educative di sostegno scolastico e coinvolgendoli in proposte di volontariato in una casa di riposo. La scuola è sostenuta dalle famiglie di Begato, che collaborano portando materiale scolastico, colori

e merende. Lavora direttamente dentro le Dighe, in un contesto di massimo degrado sociale e abitativo, un piccolo centro gestito da una suora appartenente alla Famiglia Vincenziana. Gli abitanti — in prevalenza anziani soli, ridotti in miseria e circondati dalla sporcizia — per raggiungere i loro appartamenti usano un vecchio montacarichi, perché l’ascensore è rotto da anni e non viene più riparato. Dopo aver ottenuto in comodato dal comune un piccolo appartamento, le suore hanno creato uno spazio d’ascolto nel quale semplicemente viene sostenuta un po’ di socialità di base. Il problema per il mondo ecclesiale è che queste iniziative tendono a rimanere isolate e non riescono a fare rete. Quello che manca è una riflessione comune sul quartiere, sulle sue necessità, sulle sue priorità. Come si può facilmente vedere, se si tiene conto anche della quasi totale assenza delle istituzioni pubbliche, le risorse

di cui dispone Begato sono veramente poche. Ma soprattutto colpiscono due aspetti, che inducono un certo pessimismo. In primo luogo, gli operatori ci sono apparsi piuttosto sfiduciati, consapevoli di essere abbandonati a combattere in solitudine in prima linea. Il che li porta a limitarsi a svolgere l’indispensabile e, comunque, a rinunciare a qualsiasi progettualità. In secondo luogo, chi cerca di costruire qualche progetto utile al quartiere, opera in maniera autonoma. Così gli interventi si strutturano e si avviano, ma senza coordinamento con gli altri attori, cosa che ri-

duce notevolmente la capacità di incidenza delle iniziative stesse e influenza in modo negativo il già risicato capitale sociale. Uscire da questo circolo vizioso è difficile, forse anche im-

possibile, se non si affronta il nodo di fondo di Begato, che è quello di essere diventato, col tempo, un quartiere «discarica», quasi totalmente privo di connessioni persino con la città di Genova. Tale mancanza fa sì che anche la socialità tra gli abitanti faccia un'enorme fatica a generare qualcosa di positivo, in una periferia artificialmente costruita, priva di memoria e di cultura comune, e perciò del tutto sradicata.

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Costruito come quartiere ghetto in cui sono state concen-

trate fasce di popolazione pericolose e ulteriormente separato dalla città mediante la stigmatizzazione operata dai mezzi di comunicazione locali, il quartiere continua ad avvitarsi nelle dinamiche nichiliste che si producono al suo interno, che sono il segno forse più evidente della mancanza di qualunque speranza. Interrompere questo circuito comporta prima di tutto spez-

zare questo isolamento e lavorare per far sì che Begato, e il quartiere Diamante al suo interno, sia sempre meno un’eterotopia negativa, un altro mondo sprofondato tra le belle colline genovesi.

2.

Bari, San Paolo: un’eterotopia controversa

Genesi di un’eterotopia negativa

L’idea del quartiere San Paolo risale al 1954, all’insegna del grande ottimismo pianificatorio che, nel quadro degli interventi per il Mezzogiorno, in quegli anni sorreggeva il diffondersi dell’edilizia popolare. Nelle intenzioni di chi lo ha pensato, il Centro di edilizia popolare — Cep, così come il quartiere si è a lungo chiamato — doveva essere un quartiere periferico modello. Alla sua base vi erano tre principi generali: 7) l'autonomia di funzione (non soltanto abitazioni, ma un sistema organizzato di strutture — negozi, scuole, impianti sportivi, spazi verdi —); 22) il

decentramento urbano (la distanza dal centro urbano come risorsa per la funzionalità dei servizi); 2) l'integrazione sociale. La scelta dell’area da destinare alla costruzione del quartiere fu lunga e difficile, in quanto doveva rispondere a diversi criteri, quali la vicinanza e la facilità di spostamento da e per la città, la possibile e successiva espansione territoriale non solo verso il «centro» ma anche verso altre direzioni, l’accessibilità econo-

mica. Alla fine la scelta cadde su una zona nota come la «Masseria del Prete», in una posizione intermedia tra la zona industriale e la cinta ferroviaria, da un lato, e la zona aeroportuale, dall’altro. Quest'area, già da tempo definita non edificabile, di

fatto non offriva alcuna possibilità di espansione. Più che altro, la scelta di collocare il Cep in questa zona fu determinata dalla volontà di rispondere alla crescente domanda di forza lavoro

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che proveniva dai nuovi impianti industriali che andavano sorgendo nelle immediate vicinanze, cercando di favorire lo spostamento di consistenti fasce di sottoproletariato (prevalentemente dal centro storico di Bari) in cerca di occupazione stabile e di un miglioramento delle condizioni abitative. L'arrivo degli abitanti seguì alcune ondate: la prima — quella forse decisiva — era composta di persone che provenivano dalle zone più disagiate della città. La seconda ondata — tra il 1964 e il 1967 — vide l’assegnazione di alloggi a gruppi familiari di ceto medio (impiegati, bancari, ferrovieri, ecc.). Alla fine degli

anni ’60 cominciò la terza ondata, quando arrivarono in massa abitanti provenienti dagli stabili di «Bari vecchia» in vista di un intervento di ristrutturazione dell’intera area. Come dimostrano le serie storiche, nei primi vent’anni le differenze tra la progettazione degli interventi e la realizzazione effettiva sono state enormi: a fronte di una popolazione prevista di 9.500/15.000 abitanti si è giunti agli oltre 20.000 censiti (per quelli effettivi si parla di 60-70mila); gli alloggi previsti erano

1.796 contro i 3.279 realizzati; i vani 9.836 contro i

14.917 presenti. Mentre nel progetto originario ogni nucleo abitativo doveva essere dotato di una scuola materna con tre sezioni, nel 1973 risultavano realizzate 5 scuole materne con 18

aule per 667 bambini. Stesso discorso per le scuole elementari e medie, mentre gli asili nido non erano nemmeno previsti, così come le scuole secondarie superiori. Ancora oggi nel quartiere è presente solo una succursale di un Istituto alberghiero che, solo

recentemente, è riuscita ad attivare i laboratori e le cucine. Oltre a questi problemi, il quartiere è sorto completamente privo di qualunque altro servizio (biblioteche, farmacie, attrezzature sportive, ecc.).

La maggior parte degli alloggi occupati nel quartiere continua a essere proprietà dello Iacp (circa 23.000, esclusi i nuovi insediamenti di proprietà di privati, imprese, cooperative edilizie che rappresentano delle isole o, in alcuni casi, delle linee di demarcazione sociale). Come risulta evidente a chi visita il quartiere, buona parte di questo patrimonio edilizio versa in condizioni fatiscenti, problema cronico aggravato dal fenomeno dell’abusivismo, che nel quartiere dilaga a macchia d’olio e ha oramai raggiunto livelli esplosivi. Ancora nel dicembre 2005 sono stati scoperti alloggi illegali costruiti al piano terra murando

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porticati, cortili, recinti, box. Il tutto collegato ad ulteriori reati quali gli allacciamenti illegali a reti elettriche, idriche e fognarie all'insaputa dei condomini contigui che finiscono col diventare dei veri e propri ostaggi dell’abusivismo di quartiere. Naturalmente abusivismo significa informalità, e l’informalità confina con l’illegalità: nel quartiere è risaputa la presenza di alcune famiglie legate alla criminalità organizzata che comanda in questa zona; tali famiglie detengono il controllo abitativo, oltre che economico e sociale. Se a ciò si aggiunge l’assenza pressoché totale delle istituzioni pubbliche non è difficile capire che, contrariamente alle intenzioni iniziali, il quartiere è stato edificato in una logica di pura monofunzionalità, mero dormitorio, dove è stata concen-

trata una popolazione in condizioni economiche e culturali assai problematiche.

Lo sfaldamento della socialità

Le problematiche sociali all’interno del quartiere sono molteplici. Tra le altre, la forte presenza di nuclei familiari in difficoltà esistenziale a seguito della perdita del lavoro da parte del capo famiglia; l’incidenza marcata di nuclei con reddito al di sotto del minimo vitale e di famiglie in cui almeno un membro ha (o ha avuto in passato) problemi penali; l’alta disoccupazione, le occupazioni prevalentemente saltuarie e non regolari!; le serie difficoltà di inserimento lavorativo per soggetti usciti dal circuito penale; la diffusa adesione di adulti in attività illecite; la

bassa soglia di scolarizzazione’; l’inadeguatezza educativa genitoriale; i fenomeni sommersi ma diffusi di violenza intra-familiare; l’alto indice di madri minorenni e il basso tasso di attività

femminile. ! Nel quartiere, il tasso di disoccupazione totale è pari a quasi il 27% contro il 19% del comune di Bari; quello femminile raggiunge il 42% (mentre

in città è pari al 25,4%).

2 Secondo i dati del 14° Censimento,

nel quartiere San Paolo il 3,4%

della popolazione è analfabeta contro l’1,5% del comune di Bari. Il livello di istruzione di base, che coincide generalmente con la scuola dell'obbligo, è pari al 67% contro il 49,5% di Bari, mentre solo il 16% ha un livello di istruzione

superiore alla scuola dell’obbligo contro il 39% della città.

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Il «fiore all’occhiello» del quartiere è comunque la delicata e complessa questione legata al coinvolgimento di minorenni nei circuiti penali’. Nel corso del 2005 sono stati circa 900 i minori inseriti in qualche tipo di programma di assistenza e segnalati ai Servizi sociali per forme di inadempienza, situazioni a rischio di dispersione scolastica, microcriminalità giovanile, fenomeni di

bullismo e vandalismo (con casi anche di «bulle»). I minori costituiscono peraltro il gruppo più facilmente adescabile da parte della malavita locale, la quale trova nel quartiere un promettente vivaio per l’arruolamento diretto e facile: secondo i Servizi sociali, circa il 70% dei minori è a rischio di devianza, mentre il

45% delle segnalazioni di Bari e provincia, relativamente ad atti di microcriminalità e devianza giovanile, arriva proprio dal San Paolo. AI di là della socialità che si produce attorno alle attività informali e criminose rimane ben poco. Benché il contesto ambientale sia considerato dagli abitanti come uno degli aspetti «belli» del quartiere, anche rispetto al centro urbano, a prevalere è il disagio legato alla percezione di vivere in un luogo molto insicuro e alle difficoltà che si incontrano nell’avere una normale vita relazionale. A parte la mancanza di verde, di spazi e occasioni di aggregazione e socializzazione, ciò che viene denunciato è quel senso di estraneità che il quartiere sembra trasferire. Contribuisce a creare questo clima la sua struttura urbanistica, la quale

si sviluppa su una superficie molto ampia (circa 10.000 kmq), priva di un vero e proprio centro o di una piazza di riferimento, quindi molto dispersa e disorientante, dove prevalgono grandi palazzi, disposti ai lati di strade piuttosto ampie che aumentano la distanza relazionale e favoriscono il formarsi di grandi aree incolte e abbandonate. Queste ultime diventano così, progressivamente, «terre di nessuno».

La debolezza della socialità interna è confermata dai limitatissimi effetti che ha sortito la recente riqualificazione di due importanti aree del quartiere (un parco preesistente e uno co-

? Peraltro, nel quartiere la classe di età compresa tra 0 e 14 anni costituisce demograficamente un gruppo rilevante: essa riguarda infatti quasi il 27% della popolazione del San Paolo contro una media barese del 14% circa.

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struito ex z0v0), le quali — ristrutturate e abbellite — sono rimaste pressoché deserte. In un contesto urbanistico estraniante, la bassa percezione di sicurezza e la presenza di fenomeni di microcriminalità condizionano pesantemente la fruizione di questi spazi da parte dei residenti che preferiscono barricarsi in case dotate di cancelli e inferriate anche ai piani superiori. Tutto ciò contribuisce a contrarre la socialità. In effetti, colpisce un quartiere quasi deserto, con pochissime persone per la strada e tanti segni di inciviltà: pareti sbrecciate, attrezzature completamente

divelte, illuminazioni ridotte

ad un punto tale di disfacimento da non poter essere più utilizzabili, presenza di auto e motorini bruciati e abbandonati agli angoli delle strade o nella campagna circostante, fogne a cielo aperto, cani randagi che si aggirano per il quartiere, zone di verde sovrastate da accumuli di sporcizia e carcasse di animali. Come dimostra il lavoro del Centro territoriale per le famiglie, in un quartiere di questo tipo è già un successo notevole riuscire a far superare la pratica diffusa dell’isolarsi e barricarsi in casa. Forse anche per questo motivo, la contrapposizione tra il dentro e il fuori, tra la casa e la strada, tra il pubblico e il privato non potrebbe essere più marcata. L’interno delle abitazioni rivela infatti una grande cura — che a volte sembra persino ossessiva — per la pulizia e l’arredamento. Stare dentro la propria casa in ordine segna il tentativo di ricreare una normalità che manca e restituisce la propria dignità. Naturalmente, non sempre l’equilibrio che si costruisce tra isolamento sociale e attività domestica regge, come dimostrano i dati sulla diffusione della depressione e dell’uso di psicofarmaci, soprattutto da parte di madri minorenni. Il risultato è una socialità in qualche modo malata, che ha

bisogno di ricevere nuovo ossigeno, di respirare un po’ di più grazie alla creazione di nuove condizioni sociali e culturali che ne favoriscano l'evoluzione.

Sulla cultura dell'isolamento

La distanza tra centro e periferia, che è ancora oggi profondamente evidente nella vita barese, diventa particolarmente

preoccupante

quando la distanza geografica pone vincoli sul

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piano delle relazioni sociali e delle opportunità di crescita e sviluppo culturale, dando vita a una sorta di estraneità che parrebbe inconcepibile a soli otto chilometri di distanza, nonostante lo sviluppo di nuove linee di collegamento e di trasporto urbano. Non si può prescindere da questo dato se si vuole analizzare il quartiere. In primo luogo, l'isolamento, oltre che fisico, è economico.

Fatta eccezione per la presenza di alcune attività commerciali di secondo livello, localizzate nella Zona Cecilia (Modugno), oltre il 73% del territorio è completamente privo di qualunque attività economica. Le unità manifatturiere locali sono collocate al confine di una grande arteria viaria della zona industriale, in nessun modo collegate alla rete produttiva del quartiere. Anche sul piano dei piccoli investimenti in attività microimprenditoriali, il San Paolo non presenta dati confortanti, soprattutto

se consideriamo la scarsa incidenza dell’avvio di nuove attività professionali, se non per quanto concerne l'apertura di negozi e negozietti, specie in ambito alimentare, spesso improvvisati e in

alcuni casi irregolari. In secondo luogo, al San Paolo si può rintracciare una cultura locale, in qualche modo specifica, che tende a rafforzare negli abitanti il senso di appartenenza al territorio, esibito quasi come una punta di orgoglio. Tale elemento sembra accomunare tutti gli abitanti della zona delle cooperative, che hanno scelto di vivere nel quartiere e che trovano, da un lato, motivazioni

che sostengono tale scelta (l’aria pulita, gli appartamenti sono grandi), dall’altro, buone ragioni per impegnarsi in azioni di miglioramento della vita locale. L'osservazione della vita quotidiana nel quartiere ha permesso di comprendere quanto l’isolamento profondo dal resto della vita cittadina sia stato il moltiplicatore di processi di identificazione e di appartenenza al quartiere, spesso paradossali e contradditori. Di fatto, il quartiere tende a definire una enclave che ha pochi riferimenti con una realtà esterna in grado di competere con le sue logiche interne, le quali finiscono — anche in relazione alla difficoltosa mobilità fisica e alla ancora più ostica mobilità sociale — per renderlo l’unico punto di riferimento e il solo modello di vita possibile. Centrali in questa dinamica sono le reti parentali. In un contesto di incertezza, la famiglia è vista come un nucleo stabile su

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cui poter fare riferimento in qualunque situazione. La ricerca ha mostrato l’esistenza di famiglie unite da un vincolo affettivo a tratti possessivo nei confronti soprattutto dei figli minorenni che, pur sposandosi o costituendo un nuovo nucleo familiare, preferiscono rimanere nel nucleo d’origine sia per motivi economici che per motivi culturali. A questa capacità di accogliere dei genitori, spesso si contrappone una difficoltà a trasmettere modelli educativi e stili di vita alternativi a quello della donna «madre e casalinga» e del padre «operaio impiegato in nero o disoccupato», il che produce una rappresentazione della futura vita personale come ricerca di un nuovo rifugio — prevalentemente identificato appunto nel ritorno alla stessa famiglia d’origine — piuttosto che come desiderio di libertà e di autonomia. Il radicamento dei giovani, anche oltre una certa età, si esplicita nella tensione piuttosto diffusa a vivere «tutto» all’interno della famiglia spesso già multiproblematica, dove oltre all’assenza della separazione generazionale si vivono altre condizioni che possono sembrare superate nella società di oggi, come la famiglia allargata e patriarcale che nei dati ufficiali non emerge. Colpisce, ad esempio, l’estraneità alla vita cittadina che si ri-

scontra tra i giovani i quali, nelle occasioni di confronto con i luoghi baresi della socialità, si trovano spesso spaesati e senza riferimenti precedentemente esperiti. Dalle interviste agli insegnanti e al dirigente scolastico di una delle scuole medie del quartiere è emerso che i ragazzi difficilmente si spostano in centro: la maggior parte non conosce Bari. Per molti ragazzi, il legame con la vita del mondo là fuori

passa da aspetti quali il consumo, che offre la garanzia di accettazione da parte dei compagni e del gruppo ma anche il senso di cittadinanza rispetto a un mondo più grande. Non importa, naturalmente, se per acquistare questi beni, si è ricorso al furto o ci si è messi al servizio di qualche potente del quartiere. Ma questa cultura localistica non è tutta negativa: essa attiva anche risorse positive. È il caso, ad esempio, di quella parte di popolazione che fa dell'orgoglio di quartiere la molla per continuare a lottare per suo il riscatto. Di tale volontà si trova traccia in cose molto piccole — come la diffusa tendenza dei residenti a rinominare gli spazi e i luoghi del quartiere — ma anche nella capacità di organizzare, pur se in modo saltuario, reazioni e ribel-

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lioni nei confronti delle istituzioni. Tutto ciò esprime l’esistenza di un passionale desiderio di riscatto sociale nonché la presenza di gruppi di cittadini residenti pronti a mobilitarsi e a reagire a questa sorta di «sequestro della propria libertà» da parte dei gruppi detentori del potere territoriale. In questa direzione è doveroso ricordare l’esistenza di energie di auto-organizzazione sociale interna, che tendono a risvegliarsi quanto più il quartiere è oggetto di attenzione da parte di forze esterne. La spinta verso la reintegrazione proveniente dalla città

Pur in una situazione così pesante, come quella che abbiamo

descritto, il San Paolo presenta anche una storia di riscatto che lo contraddistingue da altre periferie. Una storia in cui le forme di auto-organizzazione dei residenti si sono incontrate con la consapevolezza di alcune componenti importanti della cultura e delle istituzioni di Bari attorno alla necessità di combattere la battaglia della riqualificazione. Nonostante il senso di abbandono sopra richiamato, la vicenda del San Paolo appare infatti più complessa. Per capire questa affermazione occorre fare riferimento a tre diverse componenti che, almeno a partire dalla seconda metà degli anni ’80 e lungo il decennio successivo, si sono attivate per determinare un miglioramento delle condizioni di vita del quartiere. Sulla base della ricostruzione che la ricerca ha fornito, ci

sembra di poter affermare che un momento decisivo è rappresentato dalla visita di Giovanni Paolo II, nel 1984. Visita vo-

luta e preparata: l’aver portato il Papa nel quartiere è stato un grande evento simbolico, che ha dato il via ad un processo che è partito dal centro e ha attivato tante energie dentro e fuori il quartiere. Si dovrebbe, a onor del vero, aprire una lunga digressione sul ruolo che la religione riveste in questo contesto. Di fatto, la dimensione devozionale ha spesso offerto la cornice capace di tenere insieme e legittimare la cultura del quartiere, anche nelle sue dimensioni problematiche. Ma al di là di questi aspetti, pure importanti, la religione della Chiesa istituzionale ha costituito di fatto uno dei fili più forti che ha legato il San Paolo al mondo circostante e da cui sono partite importanti iniziative di rilancio.

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Questi risultati sono simbolicamente riassunti nel cambiamento

del nome del quartiere, che da Cep è diventato «San Paolo»; anche il nuovo aeroporto, situato ai margini del quartiere, prende

il nome di Giovanni Paolo II, a testimonianza delle evidenti ra-

dici religiose. Nonostante i limiti e le fragilità della rete tra le parrocchie presenti sul territorio, l’evento della visita del Papa ha stimolato molte energie, che hanno portato alla creazione della Fondazione Giovanni Paolo II, che gestisce — non solo nel quartiere San Paolo — tutta una serie di iniziative di integrazione sociale, unendo forze professionali e volontariato. Queste iniziative sono un importante punto di opposizione al degrado del contesto, che è capace anche di incidere su alcune dinamiche del quartiere (in specie quelle educative e familiari). Rispetto ad altre realtà, al San Paolo si osserva una buona capacità di rete tra Terzo settore e istituzioni pubbliche (Servizi sociali, vigili urbani). A sostegno di questa affermazione può essere utile sottolineare il lavoro svolto dalle scuole pubbliche, le quali, in alcuni casi, stanno investendo da anni — anche in col-

laborazione con risorse professionali esterne — in un enorme sforzo educativo sulla popolazione giovanile. La spinta che si è riusciti a imprimere con le iniziative sopra richiamate ha probabilmente creato le condizioni per un più deciso impegno anche da parte delle istituzioni, che ha portato, più di recente, alla progettazione di una serie di importanti programmi di intervento sul San Paolo e, in particolare, la scelta di creare, proprio nella periferia più disagiata del comune di Bari, il primo parco regionale di interesse metropolitano, il parco della Lama Balice: si tratta di un progetto che investirà sul recupero di un polmone di vegetazione che ricopre un'estensione di circa 550 ettari, rientrante nelle aree protette regionali. A ciò si deve aggiungere la realizzazione, ormai ultimata, della metropolitana che collega il San Paolo con il centro della città, nonché il potenziamento del servizio di trasporto pubblico urbano. Inoltre, grazie a finanziamenti dei Programmi operativi regionali (Por), collegati all'utilizzo di Fondi strutturali europei integrati da quelli del ministero dell'Economia e delle finanze, e della Regione Puglia, al San Paolo si prevedono interventi cospicui per aree integrate di servizi urbani, con un centro multiservizi, la ristrutturazione di un asilo nido, il completamento del parco

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di viale Europa, la riqualificazione del campo sportivo, oltre che di alcune aree del quartiere, e il potenziamento dei servizi di trasporto da parte degli enti locali e della giunta regionale. Un ulteriore progetto riguarda la realizzazione del centro direzionale integrato, un’opera che dovrà vedere la luce entro due anni: l’intervento — che rientra in uno dei due progetti compresi nella cosiddetta «Area bersaglio San Paolo — Stanic», una zona

che da trent'anni attende una riqualificazione — prevede strade, parcheggi e verde attrezzato, un centro per anziani, piste ciclabili, due torri per uffici, due piastre di esercizi commerciali e

un ipermercato da quattromila metri quadrati. Infine, sono state finanziate anche le azioni di recupero strutturale ed architettonico di oltre duemila alloggi pubblici già esistenti e programmati gli interventi finalizzati al recupero primario degli edifici: i lavori iniziano nel 2007 e pongono una particolare attenzione agli spazi esterni e al verde attrezzato. Tra le varie iniziative di riqualificazione, è già in fase di attuazione la costruzione di un nuovo spezzone di quartiere (il «Nuovo San Paolo») a ridosso dello spazio della Lama Balice ad opera di privati costruttori che stanno edificando abitazioni ben diverse, per struttura ar-

chitettonica e proporzioni, dalle vecchie case popolari, e che oggi ospita già circa 500 famiglie. Guardando a questo lungo elenco di iniziative, sembrerebbe che il San Paolo sia sempre di più sospeso tra l'andare alla deriva e il diventare finalmente parte di un tessuto urbano più ampio. Naturalmente la ricerca non permette di verificare quali e quanti di questi programmi saranno di fatto realizzati. Ciò che è importante sottolineare è che la spinta generatasi negli anni ’80 rimane alta e, oltre alle realtà ecclesiali e sociali, ha coinvolto

via via altri soggetti, fino a sollecitare le istituzioni locali. A tutt'oggi, non sappiamo però come questa battaglia si concluderà. Se prevarranno le forze dell'isolamento o se a vincere saranno le spinte verso l'integrazione. Possiamo dire che si tratta di una situazione che rimane ancora fluida e dinamica, oggetto di una sfida importante tra forze diverse e contrastanti.

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3.

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Catania, Librino: da «nuova città» a non-luogo

La «nuova città»

Il quartiere di Librino sorge su una collina da cui si apre un’ampia vista sul paesaggio circostante. A Sud Est il mare, con una panoramica sul porto, a Nord Ovest il vulcano Etna e il verde della piana di Catania. Fino a circa quarant’anni fa, l’intera area era costituita da latifondi tenuti a mezzadria e coltivati ad agrumeti e vigneti. I terreni acquisiti per la realizzazione del quartiere appartenevano ad alcune delle famiglie più in vista della Catania dell'Ottocento — i Recupero, i Castagnola, i Sisinna — e in particolare a una delle più antiche famiglie nobiliari della città, quella dei principi Moncada. Di quell'epoca rimane ancora qualche vestigia, come la villa estiva dei Moncada e i ruderi di alcune masserie rurali. La trasformazione dell’area fu delineata dal Piano regolatore generale adottato dal comune nel 1964 e definitivamente approvato nel 1969. Al fine di invertire la caotica espansione residenziale verso Nord, il Piano prevedeva di insediare un grande quartiere di edilizia pubblica nell’area collinare di S. Giorgio, S. Teodoro e Librino, ove si registrava la presenza di alcune piccole borgate semi agricole. Il progetto, pensato per una popolazione di circa 60.000 abitanti, prevedeva l'aggiunta di un gran numero di attrezzature di interesse urbano e di una vasta area di edilizia residenziale pubblica. Si voleva fare qualcosa di più di un semplice quartiere residenziale: data la dimensione e la posizione dell’area, Librino doveva diventare «la nuova Catania», il luogo dove la città avrebbe potuto espandersi nel segno della modernizzazione. Le ambizioni che stavano dietro l’idea di Librino spinsero il comune a pensare in grande. Per questo, nel 1970, fu incaricato

di progettare la veste architettonica dell’intero quartiere di Librino il notissimo architetto giapponese Kenzo Tange. Nell’immaginario collettivo della città e dell’amministrazione, Librino avrebbe dovuto costituire la «nuova città». AI fine di fondere l’ambiente naturale con quello umano, Tange propose una soluzione molto innovativa, anche se del tutto estranea al contesto socio-culturale a cui veniva rivolta: il quartiere venne infatti pensato come un insieme di grandi anelli

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Dieci storie di quartiere

residenziali, collegati da un sistema stradale costituito da ampie strade a quattro corsie, che scorrono lungo il perimetro di ciascun anello in modo da permettere collegamenti agevoli tra le diverse aree. Al percorso veicolare se ne sarebbe dovuto affiancare uno pedonale, immerso nel verde, costituito da un grande parco centrale e da alcune «lingue» di verde, chiamate spine, che avrebbero permesso di ricucire le residenze alle attrezzature pubbliche, agli uffici, agli impianti sportivi e alle strutture religiose. Ogni

anello,

con

una

capacità

di circa

7.000

abitanti,

avrebbe dovuto costituire una piccola comunità residenziale semi-autonoma, dove si sarebbe potuto vivere senza l’uso dell'automobile. In ciascun anello era prevista la presenza di una serie di infrastrutture: la scuola, le attività commerciali primarie, le strutture sanitarie e gli uffici della amministrazione pubblica,

oltre che la chiesa, alcuni centri di socializzazione e gli impianti sportivi. Infine, al centro dell’intero complesso avrebbero do-

vuto sorgere delle strutture a servizio di tutto il quartiere come, ad esempio, un grande centro culturale attrezzato con teatro,

museo, sala congressi ed altro. Come si può vedere, si trattava di un progetto molto raffinato, che prevedeva la realizzazione di un sistema urbanistico assai articolato, completo e autonomo,

con servizi e strutture

adeguate.

Librino reale

L'idea di Tange, sulla carta tanto originale e futuristica, esprimeva la convinzione di quei tempi, ossia che fosse possibile organizzare ex rovo insediamenti urbani pensati secondo dei criteri di funzionalità e efficienza. Come la storia ha mostrato, anche in altre parti del mondo tentativi simili molto difficilmente hanno sortito risultati apprezzabili, perché costruire dal niente un nuovo contesto urbano, al di fuori di una storia

e di una cultura, è sempre un’operazione illuministica che pretende di plasmare la vita sociale secondo un disegno che, per

quanto affascinante, non è mai in grado di avere il respiro vitale dei rapporti umani. Ma nel caso di Librino, la distanza tra l’idea e la realizza-

Dieci storie di quartiere

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zione è stata massima. Come peraltro non era difficile immaginare a chiunque avesse avuto un’idea della situazione siciliana dell’epoca, il peso di diversi fattori — di ordine politico, culturale e economico — ne impedì anche la più embrionale realizzazione in favore del risultato opposto, il fallimento. L’ideale della «nuova città» immaginata dagli occhi di un avveniristico architetto giapponese si è così trasformato nel suo contrario, in un non-luogo, spazialmente segregato, frammentato al proprio interno e incapace di esprimere una socialità e una cultura propria. E proprio per questo destinato a diventare ricettacolo e moltiplicatore di problemi umani e sociali. Ovviamente, un progetto come quello di Tange — estremamente esigente dal punto di vista della capacità dell’ente pubblico di tenere sotto controllo quello che accadeva e di adempiere tutti i passaggi previsti — non avrebbe mai potuto essere

portato a termine nel quadro di una cornice istituzionale così precaria come quella della città siciliana dell’epoca. Come in altre periferie italiane due furono i principali errori.

Il primo fu la tolleranza verso l’abusivismo e l’illegalità: in poco tempo, Librino divenne preda di una selvaggia edificazione abusiva che rese addirittura necessaria l'adozione di una variante al Piano regolatore generale. Ancora oggi, secondo i dati forniti dal comune di Catania, nel 2006 la popolazione di Librino si attesta attorno ai 43.600 abitanti contro i 70.000 effettivi che non risultano dalle stime ufficiali. i Il secondo errore fu l’inversione dei rapporti previsti dal progetto tra la residenza privata e le funzioni collettive e pubbliche. Si costruirono abitazioni, ma l’intero quartiere fu lasciato

quasi del tutto trica adeguata o Dell’idea di tre sono spariti gazione sociale. merciali, c'è una 4 Castagnola,

privo dei servizi essenziali, quali una rete eletgli allacciamenti fognari. Tange sono rimasti i sette anelli abitativi, mendel tutto i luoghi destinati ai servizi e all’aggreNel quartiere ci sono pochissimi esercizi compressoché totale assenza di verde, di piazze e di Bummacaro,

Moncada,

Bonaventura,

Nitta, Grimaldi,

S.

Teodoro. Nel piano di zona «Librino» sono inglobati altri tre nuclei che, di fatto, per la loro storia e il loro sviluppo, oggi rappresentano due quartieri a sé stanti: San Giorgio (S. Giorgio Ovest e S. Giorgio Est) e il Villaggio S. Agata.

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Dieci storie di quartiere

aree attrezzate, non ci sono uffici pubblici. Il che rende impraticabile qualunque forma di vita sociale, che viene ulteriormente depressa dallo stato di abbandono delle strade e delle piazze, dove prevalgono i segni di inciviltà che ricordano agli abitanti di Librino che vivono in una terra di nessuno. Ancora oggi, i

bambini, se vogliono ritrovarsi a giocare, utilizzano qualche area adiacente ai palazzoni o i campetti di terra pieni di detriti dove, spesso, le fogne scaricano i rifiuti a cielo aperto. Un non-luogo

Librino non era stato pensato come una periferia classica,

dove costruire palazzoni di edilizia popolare nei quali concentrare il disagio sociale. Per questo motivo, probabilmente, a differenza di quanto accade altrove, l'aspetto che colpisce non è l'omogeneità della popolazione, quanto invece la sua eterogeneità. Il tessuto sociale — se così lo si può chiamare — è infatti segnato dalla presenza di alcune fratture interne che impediscono la formazione di una qualunque cultura del luogo. Esiste infatti una netta distinzione tra la zona a edilizia popolare e quella a edilizia cooperativa o convenzionata, distinzione che si riflette tanto nell’assetto urbanistico all’interno del quartiere quanto

nella connotazione

socioeconomica

dei suoi

abitanti. Gli stabili in cemento armato, alti, grigi ed imponenti, circondati da altro cemento e consumati dall’usura del tempo, che solo la mano bendata della casualità e della buona sorte permette di mantenere in piedi nella loro struttura originaria, sono

facili da riconoscere. Come si può immaginare, si tratta delle zone a edilizia pubblica, dove dominano enormi palazzoni monocolore: al loro interno trova posto una particolare ricchezza e vivacità di generi umani che l’anonima e degradata facciata esterna non lascia invece affatto immaginare. I nuclei familiari che vi trovano alloggio oscillano tra le centocinquanta e le centosettanta unità. Le famiglie mono-parentali rappresentano una percentuale assai elevata, soprattutto nella misura in cui tale tipologia familiare viene estesa fino a comprendervi anche i nuclei in cui uno dei due coniugi stia temporaneamente scontando una pena detentiva in carcere. Simili detenzioni coatte, legate a cri-

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mini più o meno gravi, possono coinvolgere anche i membri più giovani, come nel caso di ragazzi non ancora maggiorenni che si rincorrono in un’altalena di ingressi e uscite dalle strutture penitenziarie. Ancora, la natura di «case popolari» propria di tali edifici, e in particolare di quelli che sorgono lungo il viale Moncada, fa registrare la presenza di numerose persone indigenti, portatori di handicap, anziani, ex terremotati, disoccupati di lunga

durata, famiglie che abusivamente si sono installate all’interno degli appartamenti, assieme a tutti coloro che vivono la loro precaria quotidianità ai confini del contesto sociale. Anche se è possibile imbattersi in qualche abitante che cerca, stringendo i denti, di difendersi e distinguersi dal contesto per tentare di salvare la propria dignità, la condizione generale di questa zona è degradante se non addirittura disumanizzante. Ben diversa è la situazione dei nuclei residenziali realizzati attraverso le cooperative secondo dimensioni più graduali e in armonia con il territorio circostante, visivamente delimitati da

aiuolea verde e cancelli di sbarramento ad attivazione elettronica. E il caso ad esempio del nucleo di viale Castagnola che al suo interno, anche quanto alla viabilità, è più razionale, ed è

adeguatamente illuminato. In tali nuclei sono stati costruiti complessi residenziali che appaiono ben curati da un punto di vista strutturale, con spazi di verde, aiuole e piccoli giardini che favoriscono l’incontro e la socializzazione. Negli ultimi anni alcune botteghe sono state sfruttate per piccole iniziative economiche: parrucchiere, negozi alimentari, qualche panificio. Accanto a queste due zone si trova poi il borgo antico, comunemente

denominato «Librino vecchio», che è costituito da

piccole costruzioni, per lo più fatiscenti e in larga parte abusive, realizzate in piena violazione delle normative esistenti e dove si riproducono quelle dinamiche tipiche di altre zone periferiche del catanese, con una diffusa informalità e illegalità. Gli abitanti dell’area popolare di Librino provengono da diverse zone di Catania. In gran parte, si tratta di persone che, originariamente, risiedevano nei quartieri popolari del centro storico e che sono diventate assegnatarie delle case di Librino. Molti, però, sono anche gli «abusivi». Sono molti, inoltre, gli abitanti che hanno ricevuto la casa per rispondere a urgenze di

diverso tipo, come antichi sfollati di guerra e terremotati.

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Tra coloro che abitano nelle strutture delle cooperative, troviamo invece impiegati e dipendenti pubblici, molti appartenenti alle forze dell'ordine (polizia, carabinieri, finanza), in gran parte persone che hanno un lavoro regolare in altre parti della città. Sono altresì presenti in questa zona emigranti provenienti da diverse città d’Italia, persino da province del Nord, i quali,

spostatisi per motivi di lavoro verso Catania, vi hanno poi formato il proprio nucleo familiare decidendo di risiedervi stabilmente. Nell’antico borgo, le famiglie sono invece originarie soprattutto dei paesi della provincia, giunte a Catania nel secondo dopoguerra a seguito del fenomeno dell’urbanizzazione. I primi ad arrivare si stabilirono appena fuori le mura della città per non vivere più da pendolari, e incominciarono a costruire così le prime case abusive. Per questo motivo, ancora oggi il borgo è un rione molto «personalizzato» quanto alle abitazioni (che sono state ritoccate dai proprietari a prescindere da qualunque autorizzazione pubblica), e ha l'identità di un piccolo rione che ha resistito all'intervento delle ruspe e della pianificazione urbana. Queste tre popolazioni’ costituiscono mondi sociali, culturali e umani che non solo hanno ben poco in comune tra loro,

ma soprattutto che non si conoscono e non si incontrano mai, anche perché la struttura urbanistica e viaria rende obiettivamente difficile la comunicazione, scoraggia la mobilità pedonale e rende praticamente impossibile le possibilità di incontro e socializzazione. Ciò favorisce l’adozione di strategie (anche solo implicite) di isolamento tra le diverse popolazioni, le quali — come ha ampiamente dimostrato l'indagine sul campo - letteralmente si ignorano: chi vive nella zona a edilizia privata è sembrato quasi stupirsi di fronte alla descrizione del degrado in cui versano altre zone del quartiere. Ne risulta un assemblaggio di popolazioni e di abitazioni

? Sono invece pressoché assenti a Librino gli immigrati, nonostante la città di Catania accolga un flusso ingente, anche in considerazione del fatto che le coste della Sicilia sono divenute terra di approdo per numerose imbarcazioni di scafisti dediti al trasporto di migranti. È ipotizzabile che Librino venga considerata dagli immigrati come una zona troppo lontana e «marginale» sia da un punto di vista spaziale che economico. Ma è verosimile anche che non sia possibile per loro trovare spazi abitativi.

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che, oltre a essere marginale rispetto al resto della città, è anche completamente disgregato al proprio interno e percorso da risentimenti e conflitti causati dalla mancanza di comunicazione tra i diversi spezzoni. Dopo trent'anni, a Librino pare non ci sia nessun senso del luogo, nessuna identità, nessuna socialità.

Distanza fisica, distanza temporale

Librino sorge a qualche chilometro dal centro di Catania, da cui risulta separato fisicamente: i collegamenti sono abbastanza semplici se si utilizza il mezzo privato, ma praticamente inesistenti se si vuole ricorrere al mezzo pubblico. Tuttavia, la distanza che separa la «nuova città» da quella vecchia non è solo spaziale. Rispetto al resto di Catania, Librino ha tratti culturali di arretratezza, come se vivesse in un altro tempo: nel suo in-

sieme, al di là dei legami e degli scambi di cui dispongono i singoli abitanti con il resto della città, è come scollegato dal resto del mondo. Il che lo condanna a rimanere prigioniero delle logiche del passato. Dal punto di vista economico, il quartiere è una zona depressa. Le attività presenti nella IX municipalità (di cui Librino è parte) incidono per il 3,6% sul totale di quelle dell’intero comune, mentre il numero di imprese individuali e di società di persone è il più basso rispetto alla città. Anche qui affiora la distanza tra l’idea di Kenzo Tange e la realtà di Librino: ogni palazzo, infatti, è costituito da portici sopraelevati che avrebbero dovuto vedere il sorgere di botteghe o esercizi commerciali. Ma la gran parte di questi spazi è abbandonato e devastato. Le pochissime attività commerciali esistenti — un supermercato, qualche panificio, un paio di piccole botteghe, una banca, un negozio di materiale ottico e un paio di camioncini che vendono panini per strada — sono del tutto insufficienti a soddisfare anche i bisogni di prima necessità. Il mercatino ha cadenza settimanale e offre una attività terziaria minima, mentre mancano del tutto le strutture ricettive. Non solo non c'è alcun albergo (nonostante la vicinanza all’aeroporto), ma è praticamente assente anche il campo della ristorazione: non si arriva a dieci tra bar, ristoranti, pizzerie e trattorie.

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La situazione economica è dunque gravemente deficitaria, nonostante la posizione strategica ai fini dell’avvio di attività commerciali e produttive, l'ampia disponibilità di spazio edificabile da destinare a una loro eventuale ubicazione e soprattutto la presenza di un ampio bacino d’utenza. Chi risiede nella zona, faticosamente riesce a inserirsi nel circuito regolare del mercato del lavoro urbano. Il più delle volte, quand’anche si tratti di lavoro legale, il contratto è precario. L'alternativa rimane, per i molti, quella del lavoro nero e informale che, in diversi casi, sconfina

nel circuito dell’illegalità se non nella sfera della criminalità organizzata. Dal punto di vista economico, Librino, anche in rapporto a Catania e alla Sicilia, costituisce un'isola di arretratezza ancora del tutto sganciata dal mercato e dalla sue logiche. Un simile ritardo lo si riscontra anche nella vita familiare,

dove sono diffusi modelli tradizionali desueti nel resto della città. La fisionomia delle famiglie del quartiere, soprattutto all'interno delle case popolari, presenta un alto numero di componenti rispetto alla media comunale. I giovani, non solo sono economicamente dipendenti, ma sono anche culturalmente legati a pratiche che si ripetono nel tempo. Tra le altre, colpisce la diffusione della cosiddetta «fuitina». Scappando via insieme per qualche notte, la coppia cerca di affermare presso la collettività e le rispettive famiglie d’origine la propria convivenza di fatto e di imporre l’accoglienza di entrambi, generalmente nella casa della ragazza. Se ciò non dovesse avvenire, la ragazza rimarrebbe «disonorata» e non potrebbe più sposarsi. La fuga dei due innamorati sopravviene, in alcuni casi, per risolvere il problema economico — legato alla carenza del denaro necessario per offrire un matrimonio almeno dignitoso — oppure — soprattutto quando la ragazza coinvolta non ha ancora raggiunto la maggiore età — semplicemente per forzare i tempi o per superare l'opposizione familiare. In tutti i casi, il matrimonio legale e/o religioso rimarrà un obiettivo, capace di concretizzarsi solo dopo dieci, a volte quindici anni: quando e se, economicamente, sarà possibile poter acquistare un abito bianco e offrire agli invitati una cena o un pranzo nuziale al ristorante. Il fenomeno della «fuitina», però, non è l’unico motivo del permanere dei figli sposati nella propria famiglia d’origine. A differenza di altre regioni italiane, quando i giovani del quartiere non hanno la possibilità economica di metter su famiglia,

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rimangono presso il nucleo familiare originario anche dopo essersi sposati e fino a quando non riescono ad andare a vivere per conto loro. Nel quartiere è pertanto molto diffusa la convivenza tra diverse generazioni, con modelli familiari tradizionali che incidono pesantemente sui percorsi di vita e sull’autonomia personale, specie della donna. Infine, il ritardo culturale lo si riscontra anche nelle prati-

che religiose, che a Librino acquistano i caratteri più legati alla devozione,

con una commistione

evidente tra elementi cultu-

ralmente eterogenei. Il combinarsi di un basso livello culturale, scarse possibilità economiche, limitata mobilità e connes-

sione con l'esterno, rende spesso la religione l’unico canale che consente di sfuggire la realtà circostante e di proiettarsi in un mondo

diverso. La religiosità, fatta di pratiche e devozioni, è

una risorsa usata per sopravvivere in una condizione di difficoltà, aiutando a sperare che un giorno qualcosa possa davvero (e improvvisamente) cambiare. Ciò si traduce nella tendenza a enfatizzare l'aspetto miracolistico, a ricercare l'adesione a pratiche fortemente coinvolgenti sul piano emotivo (come nel caso della Chiesa evangelica che opera nel quartiere), a partecipare ai momenti più tradizionali della religiosità popolare (come i cortei dei devoti, portatori di candele nella festa di S. Agata, dove

gli abitanti di Librino — così come delle altre borgate popolari — sono tra i più presenti ed emozionalmente coinvolti), nonché nel dare vita a cappelle private ove incontrarsi per pregare attorno a personalità particolarmente significative, le quali — all’interno del quartiere — hanno compiuto azioni esemplari. Entrare a Librino significa dunque non tanto entrare in un luogo, quanto in un tempo diverso, dove riemergono comportamenti e atteggiamenti che paiono, per buona parte degli stessi catanesi, fuori dal mondo e fuori dal tempo.

Le risorse del territorio

In tutto questo, Librino non è un quartiere completamente

deprivato. Anzi, al suo interno è possibile constatare la presenza di una certa vivacità sociale, che esprime l’aspirazione a migliorare le cose. Questa presenza, a dire il vero, è espressione più del privato

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sociale che non della pubblica amministrazione, la quale rimane sostanzialmente assente. L’unica presenza pubblica significativa è la scuola, che costituisce un punto di resistenza rispetto al degrado e che cerca di offrire un servizio educativo essenziale per il futuro dei giovani. Secondo quello che abbiamo potuto rilevare, la scuola riesce effettivamente a costituire un canale di col-

legamento tra il dentro e il fuori. Del tutto carenti, con pochi soldi e pochissimo personale sono invece i Servizi sociali e le forze dell’ordine. A dispetto dell'enorme mole di lavoro che il quartiere richiederebbe in questi campi, la presenza pubblica è ben al di sotto di ciò che sarebbe necessario. A fronte di tale scarsa presenza del pubblico, il quartiere presenta una certa vivacità nel privato sociale. Attualmente a Librino sono presenti iniziative ed interventi significativi promossi

da cooperative, associazioni e gruppi di volontariato, al fine di favorire lo sviluppo culturale del quartiere, spesso valorizzando il patrimonio sociale e umano locale. Si tratta di iniziative avviate da soggetti diversi ma accomunati dallo stesso desiderio: progettare e realizzare condizioni per un cambiamento possibile. L’aspetto che vale la pena sottolineare è che le varie presenze del privato sociale, anche rispetto ad altre realtà studiate dalla

ricerca, sono assai diversificate sia rispetto ai soggetti che le propongono (dall’Arci al mondo cattolico), sia rispetto alla loro provenienza (dall'interno del quartiere sino al centro di Catania) sia, infine, rispetto ai campi di azione (dall’intervento sociale in

senso stretto sino al lavoro culturale e addirittura all’utilizzo di internet per far nascere una coscienza di quartiere). Insieme a questo aspetto, va sottolineata anche la forte personalizzazione delle iniziative che sono in campo, quasi tutte legate a un fondatore carismatico che per risorse sue proprie è stato capace di creare qualcosa di nuovo. Il che rende vitali queste organizzazioni, ma al tempo stesso complica terribilmente ogni tentativo di creare un lavoro di rete, che infatti è

quasi del tutto assente. Questa difficoltà si riscontra anche all'interno delle varie iniziative che si rifanno al mondo cattolico,

mondo che — pur rimanendo il contesto culturale più presente — stenta a creare quell’amalgama auspicabile e necessaria tra le sue diverse presenze.

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Scampia è il futuro di Librino?

Librino è un quartiere giovane, con un’alta incidenza della popolazione giovanile. In questa municipalità vive più del 17% degli adolescenti catanesi. Se, dunque, a seguito del progetto di Tange la «città nuova» non è nata, oggi si potrebbe dire che Librino peserà molto sul destino di Catania. In queste condizioni, è doveroso chiedersi quale sarà il futuro di questo quartiere e quali sono le forze che lo possono plasmare. Secondo le ultime stime dell’Istat, Catania è in cima alle statistiche di invivibilità, e uno dei fattori determinanti è l’alto

tasso e la gravità dei reati della delinquenza minorile. In particolare, il tasso di criminalità minorile della municipalità è tra i più alti rispetto alle dieci circoscrizioni cittadine. Una buona parte dei ragazzi del quartiere che vivono nei rioni a edilizia pubblica cresce in una condizione di grave marginalità. Si tratta di quei ragazzi che un comico locale ha definito «zammoriani», nome che deriva loro dall’usanza gergale di giurare sulla vita delle proprie madri la dignità di ciò che affermano: «M’ha moriri mò ma», letteralmente «che muoia mia

madre» (se affermo il falso). Questa espressione risuona per i vicoli di S. Cristoforo, cuore storico della città, come a Librino

e a San Giovanni Galermo, i quartieri «satellite» in cui la città borghese ha esiliato la sua anima popolare. Il senso di disorientamento sociale e culturale che prevale nel quartiere tende ad aprire un varco nel quale diventa possibile lo sviluppo della criminalità organizzata e della delinquenza. In effetti, secondo quello che emerge dalla ricerca, le organizzazioni di stampo mafioso sono oggi un referente culturale significativo per le ultime generazioni. A Librino, il reclutamento e

l’ingresso in circuiti illegali rappresenta spesso uno sbocco naturale, considerato alternativo al destino di povertà, disoccupazione o sottoccupazione e marginalità.

In questi anni, la somma dei problemi che il quartiere ha visto accumularsi a tutti i livelli — disoccupazione, angherie quotidiane, capitale sociale negativo, l’attrattiva dei facili guadagni

6 Secondo dati Istat del 2005, Catania supera del 17% la media italiana di minorenni denunciati in età tra i 14 e i 17 anni.

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anche per i piccoli pusher che hanno interiorizzato processi di imitazione — ha favorito la diffusione della cultura mafiosa. Gli abitanti del quartiere si sono ormai abituati a convivere con lo spaccio di stupefacenti — il reato più diffuso — sotto le loro abitazioni (i pilastri esterni sono spesso il luogo dove viene lasciata la «robba»). Chi rifiuta questo sistema tende a isolarsi e a far crescere i propri figli lontani dalla strada, consentendo loro — anche a costo di grandi sacrifici — di frequentare la scuola fuori dal quartiere e facendo in modo che coltivino altrove anche le amicizie.

Nel quartiere, la presenza della mafia tende a crescere, anche se non si può parlare ancora di una situazione totalmente controllata. Si può parlare piuttosto di una situazione in evoluzione e potenzialmente molto pericolosa, nella quale esistono già alcune zone, nella parte a edilizia popolare, che vanno assumendo la fisionomia dell’extraterritorialità. Il che significa che non solo è difficile per la polizia entrarvi ma che, anche quando tentasse di farlo, deve mettere in conto un fallimento annunciato: ci sono

state occasioni in cui interventi massicci delle forze dell’ordine sono stati impediti dalla protesta di vere e proprie folle. In questi contesti, i valori sono rovesciati e la legalità viene vista come rottura di un sotto-sistema, che invece dà la possibilità di ottenere i beni di cui si ha bisogno. E esattamente in questo degrado ambientale e morale, in cui anche l’azione so-

ciale del volontariato o quella pastorale dei vari gruppi religiosi appare largamente insufficiente, che si vanno insediando le organizzazioni criminali. Per il momento, l'impressione è che si tratti ancora di un mercato prevalentemente locale, con pochi — e comunque non organici — agganci fuori città. Nonostante in alcune parti del quartiere le attività illegali si svolgano in modo visibile, quasi alla luce del sole, siamo comunque ancora ben lontani dalla situazione che abbiamo trovato a Scampia. Ma la possibilità di una escalation c’è. Il rischio di una rapida crescita del mercato e di una gestione in proprio dell’intera area è reale e va combattuto adesso, evitando che da non-luogo Librino diventi un territorio dominato dalla criminalità, un nuovo ampio mercato 3 cielo aperto collegato con i grandi traffici internazionali di roga.

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Palermo, Zen: un mondo a parte

Da Palermo in viaggio verso lo Zen

Anche se le «periferie» della città di Palermo sono tante, e vanno estendendosi dal centro storico sia verso Nord che verso Sud (basti pensare ad altri quartieri quali Borgo Nuovo, Passo di Rigano, Bonaria, Brancaccio, Sperone, Bandita), è apparso quasi naturale scegliere lo Zen come paradigma della periferia isolata e lontana. Raggiungere lo Zen dal centro di Palermo vuol dire compiere un viaggio. Partendo dalla stazione centrale in autobus, cambiandone due e con un po’ di fortuna tra traffico e coincidenze, si può pensare di arrivare a destinazione in circa un’ora e mezza. Eppure, la strada che porta all'aeroporto, al velodromo, al palazzetto dello sport, dove si svolgono tutti i principali concerti che si tengono a Palermo, passa da lì. Così come i più grandi centri commerciali sono stati costruiti lungo quel percorso, che poi è lo stesso che porta a Mondello, la spiaggia dei palermitani. Eppure, lo Zen non lo si incontra mai. Molti, ogni giorno, passano sulla strada che circonda il quartiere, ma nessuno lo attraversa. Osservando la città dall’alto di Monte Pellegrino, lo Zen appare come un’isola in mezzo al verde, circondato da alcune arterie viarie a veloce scorrimento che creano una netta sepa-

razione tra il dentro e il fuori. E sempre da quella prospettiva colpisce, in modo particolare, la contrapposizione — si tratta di pochissime centinaia di metri in linea d’aria — tra il quartiere e la zona più esclusiva e residenziale di Palermo, fatta di ville hollywoodiane, immerse nel verde e dotate di grandi piscine. Come questo quartiere residenziale, così anche lo Zen è, rispetto a Palermo, un altro mondo, separato e chiuso.

Una tale sensazione è peraltro ben viva tra chi vive nel quartiere e si esprime di continuo in espressioni quali «andare a Palermo a lavorare» o «scendere a Palermo per andare a scuola»,

quasi si trattasse di un viaggio verso un’altra città. Eppure quasi tutti gli abitanti si sono trasferiti, o sono stati forzosamente trasferiti, dal centro storico. E poi il quartiere è lì, attaccato alla città.

Urbanisticamente, si tratta del suo naturale completamento verso Nord, lungo l’asse che dal centro la attraversa tutta, per poco più

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di 10 km, legandola ad altre borgate come Cardillo, Tommaso

Natale, Pallavicino, Sferracavallo, Mondello. Ma nonostante tutto questo, per chi ci vive, uscire è intraprendere un viaggio come

per chi ci entra, dato che raggiungere lo Zen significa lasciare le grandi strade di collegamento e attraversare una strada stretta. Questa separazione con l'esterno si ripropone anche all’interno del quartiere. Il confine tra lo Zen 1 e lo Zen 2 — le due zone che compongono il quartiere — è segnato dalla chiesa parrocchiale, una struttura architettonicamente

imponente

e eterogenea

rispetto

al contesto in cui è inserita. Posta in una posizione cruciale, la chiesa è come una soglia che lega e separa insieme le due parti del quartiere, che hanno una struttura urbanistica e sociale piuttosto diversa. Lo Zen nasce come area destinata a residenza dalle previsioni del Piano regolatore generale del 1956. Il suo primo nucleo, che consta di 316 alloggi, è costituito dal Borgo Pallavicino, realizzato nel 1958 con finanziamento regionale e disabitato sino all’occupazione abusiva avvenuta nel 1968. Il secondo nucleo prende forma nel 1966 ed è comunemente chiamato Zen 1. Esso è composto da edifici alti 10 piani, per complessivi 1.203 appartamenti. Nella costruzione viene seguito un motivo a greca, lasciando al centro un grande spazio da destinare a verde pubblico e a servizi collettivi. Del progetto originario venne realizzata solo la parte Est. Il terzo ed ultimo nucleo è costituito dallo Zen 2. Alla sua origine c’è il concorso nazionale bandito dall'Istituto case popolari della provincia di Palermo alla fine del 1969 per il completamento del quartiere Zen, con un nuovo nucleo per circa 15-20.000 abitanti. Il progetto vincitore del bando fu presentato da un gruppo di architetti di fama internazionale. Nel disegno originario, il quartiere è costituito da tre file parallele di sei insulae ciascuna e da attrezzature collettive sempre disposte lungo tre fasce parallele. L'elemento architettonico qualificante è, appunto, la cosiddetta irsu/a, composta da quattro corpi di fabbrica in linea e separati da tre strade interne: due pedonali e una, quella centrale, per le auto. L’insula è inscritta in un rettangolo, nella cui parte centrale vi sono due elementi a torre alti sei piani: tre in più rispetto ai corpi in linea. La dotazione dei servizi è distribuita in due fasce, a Nord e a Sud delle insulze,

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costituendo formalmente i limiti di chiusura del nuovo insediamento. À ciò si aggiunge una terza fascia posta centralmente tra la prima e la seconda fila di insulae: questa veniva a configurarsi come colonna vertebrale dello Zen 2 e come asse di collegamento con lo Zen 1. Come in altri casi, il progetto urbanistico dello Zen (specie del 2) è molto ambizioso. Con l’insula, in modo particolare,

l’obiettivo era quello di creare una continuità tra il nuovo abitato della periferia, concepito come una sorta di derivazione dell'isolato ottocentesco, e le caratteristiche del centro storico.

Ma il risultato è stato ben diverso e l’esperimento architettonico si è rivelato, di nuovo come in tanti altri casi, un fallimento.

Tra il progetto originario e la realizzazione attuale le differenze sono molteplici. In primo luogo, la qualità delle costruzioni è assai bassa. Lo Zen 2 è poco più di un ammasso di cartongesso imbottito di polistirolo, senza verde, squallido, dove anche le piante vere sembrano finte e dove è quasi impossibile disporre di qualunque privacy. Ogni insula è una specie di piccolo villaggio dove ognuno sa tutto di tutti, con un controllo sociale ossessivo.

In secondo luogo, manca la dotazione indispensabile di servizi pubblici. Non c'è una postazione decentrata del municipio, la rete fognaria non è allacciata alla rete cittadina. Più in generale, a parte le irsu/ae, l'elenco delle altre realizzazioni è brevissimo. Del centro servizi previsto nella zona centrale del quartiere è stata realizzata solo la chiesa (costruita peraltro dalla curia), il sistema delle scuole è stato ridotto a un solo complesso, mentre il sistema delle attrezzature che costituivano il fronte Sud non è stato realizzato. La totale assenza delle opere di urbanizzazione secondaria, a eccezione delle due scuole e della chiesa, si lega alla mancanza delle opere di urbanizzazione primaria. Le irsulae al momento in cui sono state occupate, almeno ufficialmente, non avevano

l’allacciamento né alla fognatura, né alla rete elettrica e del gas, né alla rete idrica. In realtà, ancora oggi il quartiere è privo quasi del tutto delle opere di urbanizzazione secondaria e ha completato (ufficialmente) quelle di urbanizzazione primaria a vent'anni di distanza dal primo appalto, alla fine degli anni ’90. In tutto questo periodo, gli abitanti sono riusciti ad approvvigionarsi autonomamente e in forma quasi sempre illegale.

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Nella vicenda dello Zen 2 a pesare è stato anche il difficoltoso percorso che ha portato al suo popolamento. Abusivamente occupata dai parenti di chi stava allo Zen 1 quando ancora era in costruzione, per anni è stata una specie di scatola che si vuotava e si riempiva di continuo: chi era senza casa occupava un

appartamento che poi lasciava non appena aveva trovato qualcosa di meglio. La stabilizzazione della popolazione è avvenuta solo più tardi e molto lentamente. Il risultato è stata la creazione di una periferia multiproblematica, che ha acuito ulteriormente i problemi di una città già problematica. Le notizie diffuse dalla stampa e dalla televisione hanno contribuito a costruire lo stigma che pesa tuttora su quest'area, approfondendo così il fossato che la separa dal resto della città o, forse sarebbe meglio dire, dal resto del mondo.

Una marginalità organizzata, un’instabilità stabile

Secondo i dati dell’ultimo censimento, la popolazione di tutta la circoscrizione di cui fa parte lo Zen è di 80.457 unità. La suddivisione interna mostra che la popolazione residente nello Zen 2 è pari a 29.190 persone, ossia il 36% circa degli abitanti della circoscrizione e il 4% di quelli di Palermo. Ma i dati, qui come in altre periferie del Sud, debbono essere sempre presi con le pinze, perché sono in molti a sostenere che l’abusivismo sia un fenomeno ancora così rilevante da impedire alla stessa amministrazione pubblica di avere un quadro chiaro della situazione. Per quanto riguarda gli immigrati, la loro presenza — pari a circa 730 unità, ossia il 35% della popolazione straniera residente a Palermo con regolare permesso di soggiorno — non è molto avvertita. AI di là dei dati, è la situazione sociale a mostrarsi fortemente

degradata. Nei due istituti comprensivi del quartiere si registra un tasso di dispersione scolastica molto elevato: nell’anno scolastico 2004-05, nel caso delle scuole medie, esso si aggira attorno al

20% in entrambi i casi, mentre la media cittadina è pari all'8,5%. Problema che è già sensibile persino per le scuole elementari, dove all’1,4% di Palermo si contrappone il 5,2%

dell’Istituto

Falcone e il 4% dell’Istituto Sciascia. Da notare che, ancora oggi, non sono presenti istituti superiori nel quartiere.

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Dal punto di vista economico, lo Zen appare un’area depressa in una città depressa. La gran parte delle persone vive «nel» e «del» circuito della marginalità organizzata, fatta prima di tutto di un’economia informale che va dalla vecchia economia del vicolo e del negozietto senza autorizzazioni alla vendita porta a porta fino al totale lavoro nero. La condizione normale è quella di non avere un lavoro regolare. In queste condizioni, è difficile parlare di professioni: il mestiere viene cambiato con molta velocità, da muratore a car-

pentiere, da meccanico a magazziniere, in base a quello che si trova. Come in tante altre zone del Mezzogiorno, un ruolo fondamentale è svolto dai trasferimenti pubblici. Riuscire ad avere una pensione di anzianità, vecchiaia o invalidità è spesso fondamentale per il sostentamento di intere famiglie. Accanto all'economia informale e a quella dei trasferimenti pubblici, vi è l'economia legata all’illegalità, che va dal furto sino all'associazione criminale di tipo mafioso. Secondo quanto raccontato da diversi testimoni privilegiati, lo Zen è uno dei quartieri di Palermo dove le auto e i motorini rubati vengono portati per essere smontati e rivenduti. Ma nel complesso, la sensazione è che lo Zen non sia una

centrale operativa di grande rilievo, né che al suo interno abbiano la propria base padrini e boss di primo piano. Anche per la mafia, lo Zen è un quartiere periferico, da utilizzare semmai come magazzino o nascondiglio, un posto da tenere tranquillo, lontano dai riflettori, al quale poter sempre ricorrere in caso di necessità.

Le insulae tendono a diventare caso dove si stabilisce una sorta di potere locale varia da caso a caso, ma che va comunque caso c'è una sorta di sceriffo-sindaco che

mai dei piccoli feudi, informale, la cui forma rispettato. In qualche detiene tutto il potere

nelle sue mani; in altri, si è tentato di stabilire un regime più coo-

perativo, che arriva fino a selezionare i nuovi condomini e a usare la violenza per proteggere le proprietà e le persone dell’isu/a. Il tentativo di creare zone di tranquillità mediante il montaggio di cancelli chiusi ha in realtà ottenuto il risultato opposto, favorendo la formazione di uno spazio ancora più inaccessibile alle forze dell’ordine e perciò più consono allo spaccio di droga. L’abisso dell’emarginazione e dell’esclusione sociale sembra essere sempre presente nelle parole degli abitanti del quartiere,

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soprattutto nello Zen 2, quando ammettono esplicitamente la loro dipendenza dall’esterno: si vive perlopiù alla giornata, in attesa di periodiche elargizioni pubbliche o private. Così come ammettono che il sistema della sopravvivenza è per definizione instabile e può essere messo a repentaglio da eventi improvvisi che si abbattono sulla famiglia: la morte dell’anziano che manteneva tutti con la sua pensione, una lunga malattia, l'ingresso nel circuito penale, la carcerazione.

Uno degli aspetti forse più problematici è il fatto che nascere allo Zen significa trovarsi in una specie di trappola dalla quale è quasi impossibile uscire. Il percorso scolastico, anche quando c'è, è di qualità scadente e comunque deve fare i conti con mille difficoltà. L'accesso al mercato del lavoro — in una città con tassi di disoccupazione altissimi — è quasi impossibile. Trovare un lavoro in regola, per chi vive allo Zen, è una chimera. Con un lavoro in nero e senza risorse finanziarie

o immobiliari, anche chi

vuole andare via sa di non poterlo fare: nessuno ti affitterebbe una casa, e ottenere un mutuo risulta ancora più difficile. E allora ci si adatta a stare nel quartiere, occupando abusivamente un appartamento che si libera, finendo così per riprodurre un intero modello. La vita di intere famiglie viene a strutturarsi attorno a meccanismi che sono insieme di esclusione e, contemporaneamente, di

integrazione. Si è esclusi dal mondo circostante, al quale non si può accedere, se non nella parte più effimera, quella cioè che si esprime nel consumo, cui peraltro ci si avvicina al di là dei mezzi disponibili. E al tempo stesso si viene integrati nel microcosmo locale con le sue regole e i suoi codici, che vanno conosciuti e rispettati. L'alternativa è quella di vivere in una specie di esilio silenzioso, in cui si deve essere disposti a non vedere ciò che pure è sotto i propri occhi. Ci si rifugia in casa: una casa tenuta religiosamente pulita e, per quanto possibile, decorosamente arredata e tecnologicamente aggiornata. Nemmeno ribellarsi sembra possibile, perché non ci sono alleati con cui combattere. Il mondo esterno — quello delle istituzioni, dell'economia regolare, delle opportunità — appare lontano, quasi disinteressato a mettere le mani seriamente su un quartiere di questo tipo. In fondo, è molto più conveniente limitarsi a far esistere le condizioni minime che ne garantiscono la sopravvivenza e, in caso di bisogno, cercare di utilizzarlo a proprio vantaggio. Sembra quasi

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che vi sia un tacito patto tra il mondo interno e quello esterno, per il quale l’auto-organizzazione dello Zen non viene toccata fin tanto che non dì fastidio al resto della città. Dal punto di vista di chi ci vive, la lontananza delle istituzioni si traduce in una sfiducia radicale: il quartiere sa di essere utilizzato come bacino di voti e ciò giustifica una relazione meramente strumentale, che va dalla subalternità al ricatto sino alla

collusione clientelare e mafiosa. La polizia è vista come un’agenzia di repressione ingiusta, che interviene solo per arrestare, ma che è poi assente quando si tratta di supportare l’esercizio di diritti legittimi. Il sistema informale e illegale garantisce almeno un ordine e una sopravvivenza che lo stato invece non è in grado di offrire. In questo modo, si alimenta una controcultura locale che sembra totalmente disinteressata al mondo esterno. L’assenza di reali politiche contro la povertà e un sistema di protezione sociale carente e inefficiente sono il terreno ideale per interventi occasionali, gestiti secondo modalità discrezionali che alimentano la condizione di dipendenza. La mancanza di diritti esigibili crea sudditanza nei confronti del politico, del mafioso o del referente di turno, che comunque sta sempre fuori dal quartiere.

Occorre peraltro dire che le cose non sono sempre state così. C’è stato, in anni passati, anche qualche segnale di intraprendenza e di voglia di fare, nella speranza che qualcosa avrebbe potuto cambiare. Voglia che si è concretizzata nell’avvio di alcune iniziative economiche, di tipo commerciale, e in alcune manifestazioni di protesta che, almeno nello Zen 1, sono

state organizzate allo scopo di far valere i diritti di cittadinanza negati.

Di quella stagione c’è traccia nella diversità che si riscontra tra la situazione dello Zen 1 e quella dello Zen 2. Nel primo comparto, buona parte degli abitanti è anziana e vive ricevendo una regolare pensione; là troviamo alcuni servizi pubblici — come l’ufficio postale — la sede dei sindacati, un buon numero di esercizi commerciali di diversa tipologia e con regolare licenza. Intorno alla piazza dello Zen 1 si possono trovare panifici, bar, pasticcerie, negozi di abbigliamento e di generi alimentari. Di tutto questo, nello Zen 2 non c’è traccia. Da tempo,

ormai, quella voglia di fare sembra essersi spenta: a prevalere sono l’apatia e il cinismo.

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| tentativi di recupero e le sacche di resistenza

Sarebbe tuttavia ingiusto sostenere che questo isolamento in cui sembra sprofondato lo Zen sia l’esito di una semplice dimenticanza da parte della città di Palermo. Nel corso degli anni, vari soggetti hanno cercato di intervenire nel quartiere in modi diversi, nel tentativo di ricostruire il filo spezzato tra la città e la periferia. E per quanto i risultati siano parziali — e comunque limitati allo Zen 1 — non si può capire il quartiere a prescindere da tali interventi. Viene a questo proposito alla mente una famosa poesia di Danilo Dolci, contenuta in Poerza umano, dal titolo Ciascuno cre-

sce solo se sognato. Lo Zen, infatti, è un quartiere che si è trasformato, è cresciuto, quando è stato sognato, sia da chi veniva da

fuori e vi entrava dentro, provando a costruire prospettive di più elevata qualità della vita, sia dagli abitanti, quando hanno trovato la forza di avviare azioni partecipative attive e significative. La prima popolazione che è arrivata allo Zen era in buona misura costituita da operai che lavoravano nell’industria o nel settore edile. Un ceto popolare radicato nel mondo del lavoro e almeno in parte consapevole dei propri diritti, tanto da sostenere anche alcune proteste di piazza. Come abbiamo già notato, il tessuto sociale dello Zen 1 porta ancora i segni di quella stagione. Le difficoltà che si incontrano allo Zen 2 dipendono dalla maggiore disgregazione sociale e culturale della popolazione che si è radicata in questa seconda area del quartiere. Sicuramente importante, e comunque duraturo nel corso del tempo, è stato il ruolo della Chiesa. Già all’inizio degli anni ‘70, a Palermo fu avviato un movimento (la «Missione Palermo») di

evangelizzazione nei territori più poveri della città, sulla falsariga del programma che era stato attuato a Parigi. Mediante la collaborazione interparrocchiale e la partecipazione di numerosi volontari, vennero organizzati dei centri pilota disseminati in città, dove, oltre all’analisi dei bisogni, venivano organizzati e

offerti alcuni servizi, quali, per esempio, attività di doposcuola, animazione di oratori, colonie per minori, centri sociali e sog-

giorni estivi per anziani. Proprio in quegli anni fu creata anche nello Zen una nuova parrocchia, dedicata a S. Filippo Neri, che fin dall'inizio ospitò uno dei centri pilota e sviluppò gradualmente alcuni servizi so-

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cio-caritativi. Pur con tanti limiti, questa presenza ha per molto tempo costituito uno dei pochi punti di riferimento del quartiere — e in qualche momento anche l’unico — facendo da interfaccia tra l’interno e l’esterno e costituendo un fattore di aggregazione sul territorio. Un altro momento importante si è realizzato con gli investimenti infrastrutturali effettuati a livello cittadino in occasione dei mondiali di calcio del 1990. In quel periodo si affermò una nuova visione di lotta all’emarginazione delle periferie, che ipotizzò la possibilità di superare l'isolamento del quartiere mediante la costruzione di impianti sportivi a uso cittadino. La convinzione era che, in questo modo, si sarebbe potuto avvicinare la città allo Zen. Fu così che in quegli anni vennero realizzate ai margini del quartiere alcune importanti opere — quali il velodromo, il palasport, il campo da baseball — a cui si deve aggiungere il rafforzamento delle infrastrutture viarie in vista di un migliore collegamento con la rete autostradale e l'aeroporto. Indubbiamente queste infrastrutture hanno notevolmente mutato i rapporti tra il quartiere e le zone circostanti. Ma il risultato è stato per molti aspetti opposto a quello desiderato, rafforzando quell’isolamento che era stato sin dalle origini uno dei problemi dello Zen. E questo per due ragioni. In primo luogo, perché lo Zen è stato chiuso all’interno di un anello stradale a scorrimento veloce che recide ancor più profondamente i suoi legami con le borgate vicine e con il resto della città. Oggi, il quartiere è come se fosse circondato da un fossato, simile a quello dei castelli medioevali. Vista dall’alto questa condizione appare evidente. In secondo luogo, perché l’utilizzo degli impianti sportivi che sono stati costruiti è appunto «cittadino», mentre risulta più difficile che un abitante dello Zen se ne serva. E ciò per ragioni economiche (il costo del biglietto) e culturali (il tipo di attività proposte non incontra i gusti e gli interessi degli abitanti della periferia). Pertanto, i palermitani che vengono al velodromo rimangono del tutto disinteressati allo Zen, che sfiorano soltanto

senza entrarci. E per gli abitanti del quartiere nessuna di queste infrastrutture riveste alcun interesse per la propria vita quotidiana. L'ultimo, forse più importante, tentativo di intervenire nel

quartiere si ha a seguito della morte di Falcone e Borsellino,

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quando in tutta Palermo si attiva un movimento di reazione che arriva a investire anche lo Zen. Da quel momento, e per qualche anno, si ha la sensazione che sia possibile fare quello che non si è mai riusciti a fare. Così, soprattutto nella parte più degradata, è stato portato avanti per alcuni anni un lavoro integrato tra le diverse istituzioni, la Chiesa e il Terzo settore, lavoro che è stato

capace di incidere, se non altro, su molte storie personali. L'interesse della città verso il quartiere fu reso visibile dalla decisione del sindaco di venire a passeggiare allo Zen. Un atto simbolico, che però esprimeva pubblicamente la voglia di rinascita che toccava anche l’interno del quartiere. Di quella stagione oggi rimane ben poco. Attorno al passaggio di decennio, quella spinta comincia ad affievolirsi. Alcune promesse si rivelano impossibili da mantenere e per di più cambia il clima generale. La speranza di modificare la situazione viene meno, gli operatori migliori del pubblico e del privato sociale se ne vanno, rimane solo qualche sacca di resistenza e di testimonianza che lavora in modo sostanzialmente isolato, privo di collegamenti sul territorio e col comune. Quel poco che rimane in piedi si frammenta e si disperde. E lo Zen ha di nuovo la sensazione di ritrovarsi da solo a gestire i suoi problemi. Il territorio rimane pieno di tracce di tutte queste stagioni, le quali non fanno altro che confermare come la speranza non abbia casa allo Zen. Emblematico il cosiddetto «Giardino della civiltà», come recita — a memoria di un momento di sogno e di impegno — il cartello fissato all’ingresso di quello che sarebbe dovuto essere un parco: un parco che tutto sembra tranne che il simbolo della civiltà, qualunque sia stata la civiltà cui si faceva riferimento. Al posto degli alberi, delle panchine, delle aiuole, delle altalene e degli altri giochi dei bambini, si trova uno spazio occupato da detriti, materiale di scarico, resti di automobili e motorini, e diventato un cimitero per alcune carcasse di animali. Quasi a suggellare la contraddizione, in mezzo a questo giardino desolato, un piccolo spazio è stato di nuovo, testardamente, riconquistato dai ragazzi di un’.rsula ed è stato ripulito dai detriti: due pali per le porte e alcuni ragazzi che giocano a calcetto sono il segno, da una parte, di una socialità che rinasce di continuo e, dall’altra, della sua fatica a sopravvivere quando,

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in un tempo come il nostro, essa si produce senza collegamenti e senza riferimenti. 5.

Napoli, Scampia: l’integrazione dell’illegalità

Da utopia urbanistica a fallimento realizzativo

Il progetto del quartiere Scampia nasce a seguito della legge 167 del 1962 con l’obiettivo di creare un quartiere modello, all'insegna di una progettazione moderna e forse anche avveniristica, attraverso programmi di edilizia popolare che contrassegnano, da questo momento in poi, lo sviluppo del quartiere. Sulla carta i progetti di queste aree erano estremamente interessanti, se non rivoluzionari. Per esempio, al momento del loro concepimento, le sette

Vele di Scampia (progettate dall’architetto Di Salvio e ultimate nel 1982) erano unità abitative di concezione estremamente ardita, animate da intenti utopici. L'intenzione del progettista era quella di plasmare le forme della convivenza civile tramite moderne forme architettoniche — le Vele appunto — in grado di ospitare centinaia di nuclei familiari: veri e propri edifici-rione che avrebbero dovuto favorire l'integrazione tra gli abitanti, anche grazie a un complesso sistema di scale esterne e pianerottoli. La disposizione urbanistica con la quale si progettò il quartiere fu quella tipica del funzionalismo: grandi viali di scorrimento rapido per consentire collegamenti veloci ed agevoli, divisione tra funzioni abitative, amministrative

e commerciali,

grandi torri divise da parchi e giardini. Il risultato è stato ben diverso. Nel giro di una decina d’anni, Scampia è diventata tristemente famosa a livello sia cittadino sia nazionale. Insieme allo Zen di Palermo, Scampia è, per i mass media e l’uomo della strada, la periferia degradata e pericolosa per antonomasia. La dinamica perversa che ha trasformato l’utopica città-giardino in un anti-utopico ghetto di periferia non ha una sola causa. In primo luogo, occorre sottolineare l’astrattezza del progetto rispetto alla cultura e alle condizioni socio-economiche dei residenti. In una cultura come quella napoletana, una struttura urbana di questo tipo — caratterizzata da una marcata im-

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personalità — era destinata a generare tutta una serie di effetti perversi, aggravati poi dall’incuria della gestione ordinaria, che contribuisce a dare all'intera zona un’aria desolante. Ancora oggi nel quartiere — suddiviso in 21 lotti identificati con le lettere dell’alfabeto — non ci sono i numeri civici, molte strade

sono anonime e in quelle che non lo sono mancano spesso le targhe con i nomi. In realtà, sono diversi gli elementi urbanistici che hanno concorso ad indebolire le forme della socialità interna: gli assi viari, che dividono con grandi interruzioni il tessuto urbanistico; le caratteristiche architettoniche delle unità abitative, che

spezzano lo spazio urbano in tante isole di cemento; l’assenza di spazi comuni come piazze, giardini e parchi (il parco di quartiere, che pure esiste, è stato per lungo tempo disertato dagli abitanti di Scampia per paura della microcriminalità) e la mancanza di luoghi di socializzazione. Tutti questi fattori hanno giocato contro il prodursi di una coesione socioculturale di quartiere e a favore di una generalizzata frantumazione,

spersonalizzazione e disaffezione nei con-

fronti della propria zona di residenza. Di qui la percezione di vivere in un quartiere spoglio, incomprensibile, dove dominano gli spazi vuoti e meramente funzionali, senza riferimenti tra i suoi elementi, senza una strutturazione e una logica d’insieme. In secondo luogo, va ricordata l'incapacità da parte dei governi locali di gestire in modo efficiente e corretto la realizzazione di un progetto tanto vasto e ambizioso, e di dotarlo delle necessarie infrastrutture di servizio in tempi accettabili. Due sono probabilmente le carenze più gravi. La prima ha a che fare con le ripetute — e mai controllate — occupazioni illegali di alloggi, anche con la pratica di adibire ad abitazioni spazi che originalmente non erano destinati ad uso abitativo, quali scantinati, ballatoi, ecc. Il risultato è la diffusione dell’abusivi-

smo e la creazione di un’ampia zona grigia che sfugge al controllo della pubblica amministrazione. Ancora oggi, le statistiche ufficiali parlano di 44.000 abitanti, ma è opinione diffusa tra gli abitanti e gli operatori che la realtà sia ben diversa e che si debba parlare di un quartiere di almeno 70.000 persone. La seconda carenza ha, invece, a che fare con un errore commesso

in tante altre periferie, e cioè l’essersi concentrati unicamente sulla costruzione degli alloggi, trascurando del tutto il necessa-

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rio sistema di servizi che doveva innervare il tessuto urbano: di qui un quartiere popoloso senza neanche un negozio (solo nel 1998, a oltre 20 anni dall’insediamento degli abitanti, comin-

ciano a comparire i primi mercatini rionali), un asilo nido, una palestra. Un quartiere di fontane senz'acqua e di parchi pubblici senza visitatori. In terzo luogo, la storia del quartiere subisce un condizionamento decisivo a seguito del terremoto dell'Irpinia nel 1980, che riversa in pochi minuti un vero e proprio esercito di senza tetto

nella metropoli partenopea. La risposta delle amministrazioni comunali è quella di alloggiare buona parte dei nuclei familiari provenienti dalla zona colpita dal sisma proprio nelle Vele, sconvolgendo tutte le graduatorie di assegnazione delle case popolari. Le famiglie sfollate vennero semplicemente accatastate nelle case popolari disponibili, creando una concentrazione di disagio sociale e marginalità difficilmente gestibile. In quarto luogo, si deve citare l’effetto negativo determinato dall’isolamento materiale in cui il quartiere versa a causa dell’insufficiente connessione viaria tra Scampia e il resto della metropoli partenopea. Strade strette ed intasate (il corso Secondigliano è palesemente inadeguato per la mole di traffico che deve sostenere), assi viari mai completati (come la sopraelevata ferma da decenni a piazza Capodichino), vie di scorrimento bloccate per problemi mai risolti (la presenza dei nomadi abusivamente insediati sotto la metropolitana, che blocca il traffico da e verso il limitrofo quartiere di Piscinola), le carenze di progettazione delle infrastrutture esistenti. Si tratta di un insieme di inadeguatezze e inadempienze dal lato del sistema della mobilità interna che contribuisce a fare di Scampia un'entità territoriale chiusa e separata. Tale isolamento contrasta con la necessità che gli abitanti del quartiere hanno di uscire per accedere a tutti quei servizi che non trovano in zona (dalle istituzioni scolastiche agli uffici pubblici, dagli spazi del tempo libero a quelli del consumo). Il che ingenera insofferenza e una sostanziale incertezza nei confronti della propria identità sociale.

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Un quartiere abbandonato in mano alla camorra

Nel giro di pochi anni, Scampia, da fiore all’occhiello della città di Napoli, è diventato l’ennesimo problema con il quale è sempre più difficile riuscire a fare i conti. Forse per questo motivo, l'entusiasmo della fase progettuale ha lasciato il posto a una specie di dimenticanza, come se la città preferisse guardare da un’altra parte piuttosto che accettare la realtà e affrontarla. In tal modo, Scampia è stata abbandonata dalle istituzioni. Basti pensare che, se da un lato il quartiere raggiunge le sue dimensioni attuali a cavallo tra gli anni anni ‘70 e ’80 e viene riconosciuto amministrativamente nel 1985, è solo nel 1997 che

viene aperto un commissariato di polizia nella zona: si hanno oltre quindici anni di pressoché totale mancanza di presidio del territorio da parte delle forze dell’ordine, assenza protratta così a lungo da lasciare segni profondi sulla società locale. E ugualmente disastrosa è stata la manutenzione urbana e la gestione del patrimonio immobiliare pubblico. Basti pensare alle strutture sportive per lungo tempo in stato di abbandono e degrado per il semplice motivo che nessun ente se ne assumeva la responsabilità, e questo in una realtà gravemente deficitaria dal punto di vista dei servizi e degli spazi della socialità. Ma come spesso accade, la dimenticanza crea un vuoto; questo vuoto viene poi in qualche modo riempito. E in questo caso, il riempimento — se così possiamo dire — si è avuto mediante due passaggi.

Il primo passaggio traduce nel destino di Scampia quella complessa vicenda che è stata l’urbanizzazione degli hinterland delle grandi città del Sud: vicenda che a Napoli ha portato al rinsaldarsi di un intreccio tra politici, camorristi e costruttori

che per lungo tempo è sembrato indissolubile. Certamente alcune dinamiche perverse, che hanno inciso sulla vita del quartiere, hanno la loro radice in questo intreccio. In particolare: l'assegnazione degli alloggi popolari, che non sempre è avvenuta in modo limpido, ma spesso è stata regolata da considerazioni elettorali, clientelari e di ricerca del consenso; la tolleranza nei

confronti delle occupazioni abusive, talvolta motivata dal rispettabilissimo intento di alleviare situazioni di gravissimo disagio sociale, ma spesso legata a motivazioni assai meno nobili (a Napoli si è scoperto che spesso immobili di proprietà del comune

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erano occupati illegalmente da esponenti della camorra, che si facevano forti dell’inesistenza di controlli o della compiacenza di funzionari comunali); il disinteresse nei confronti della manu-

tenzione dell’arredo urbano e delle infrastrutture, conseguenza di una politica delle opere pubbliche orientata pressoché esclusivamente ai grandi appalti (e alle grandi somme), nei quali si potevano meglio inserire le imprese di movimento terra e le cave spesso controllate da camorristi. Infine, non è azzardato sospettare che la mancata assegnazione e il mancato utilizzo di edifici pubblici obbedissero ad una logica che, nello sfascio causato dall’abbandono, vedeva una fonte di nuovi appalti per le ristrutturazioni.

Il secondo passaggio è quello che vede il territorio diventare la base di un’importante organizzazione camorristica che nel corso degli anni entra nel fiorente mercato internazionale della droga diventando uno dei principali siti per l’imprenditorialità criminale. Pur senza essere sede storica di gruppi camorristi (è troppo giovane per esserlo), Scampia si è trovata per oltre trent'anni a essere terreno di conquista dei clan, che hanno potuto agevolmente insediarsi nelle Vele e in altri spezzoni del quartiere grazie a una situazione di generalizzata illegalità. A poco a poco, intere parti del quartiere sono uscite dalla sfera di influenza dello stato per entrare in quella dei gruppi camorristici, creando un’eterotopia criminale con la quale è diventato sempre più difficile fare i conti. Oggi Scampia è un’area ad altissimo rischio di riproduzione della criminalità organizzata. Ed è sull’intreccio di questi elementi che Scampia costruisce la sua identità: Scampia è il quartiere della famigerate Vele, è il quartiere dove i problemi sociali sono esplosivi, è il quartiere dominato dalla camorra che ha la possibilità di dare lavoro e di fare girare molti soldi. Lo stigma sociale diventa fortissimo e contribuisce a cristallizzare la situazione così com'è. Degrado sociale e eterogeneità della popolazione

La lettura dei dati statistici deve tenere conto dell’informalità e dell’illegalità presenti a Scampia. Poiché normalmente sono le famiglie in condizioni economiche e culturali meno agiate quelle che tendono a non regolarizzare la propria posizione anagrafica,

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è ragionevole pensare che i dati offrano un’immagine del quartiere, per quanto problematica, rzigliore di quella reale. Sulla base dei dati ufficiali è comunque possibile costruire un'immagine di Scampia come area periferica metropolitana di recente urbanizzazione, con una popolazione di ceto prevalentemente medio-basso, gravi problemi di scolarizzazione e disagio sociale rispetto ad altre zone della città, bassa acculturazione,

forte disoccupazione, profilo professionale relativamente tradizionale con prevalenza di attività connesse ad un'economia pubblica. Dato che Scampia è un quartiere giovane (le fasce di età da 0 a 34 anni sono rappresentate in modo più massiccio rispetto

al resto della città), è ragionevole immaginare che il basso livello di acculturazione colpisca i giovani in misura maggiore che nel resto del capoluogo. Il quartiere manifesta segni di disagio sociale giovanile anche per quel che riguarda il lavoro. La quota di popolazione attiva nel quartiere è leggermente più alta di quella cittadina, ma il fatto che i soggetti in cerca di prima occupazione prevalgano nettamente sui disoccupati fa capire come, anche qui, le coordinate del problema siano eminentemente giovanili. Come lo sono, del resto, anche nel caso della disoccupazione, elevatis-

sima per questa fascia di età: c’è chi nelle proprie stime si spinge oltre i dati ufficiali fino a ipotizzare una disoccupazione giovanile attorno al 65%. A ciò si aggiungono l’alto tasso di abbandono scolastico e la forte incidenza della microcriminalità: insomma, tutti i sintomi classici di un malessere sociale profondo e di lunga durata. Ma, in realtà, Scampia, al di là dell’elevata concentrazione

di problemi sociali, si caratterizza anche per la disomogeneità della sua popolazione. In effetti, contrariamente a quello che si pensa, Scampia è anche un quartiere residenziale, dove vivono ceti medi (per lo più dipendenti pubblici) che abitano nelle tante cooperative che sono situate all’interno del suo perimetro. Molte di queste persone — famiglie e tante giovani coppie che hanno comprato casa nel quartiere perché i prezzi sono un po’ più bassi — lavorano e studiano fuori dal quartiere, dove vanno solo per dormire. I loro condomini sono regolarmente recintati e chiusi e in qualche caso c’è anche la guardia al cancello. In questo modo si creano piccole erclaves sommerse, che non

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hanno niente a che fare con il quartiere, da cui sono completa-

mente isolate. Questo tipo di popolazione ha un approccio assai diverso nei confronti del lavoro e dello studio e semplicemente as i vantaggi economici che la residenza a Scampia può ofrire. Il mercato della droga: un collegamento globale che domina il territorio locale

Il tratto prevalente che oggi contraddistingue il quartiere di Scampia è il suo essere un dominio economico e culturale della camorra. Anche se, come abbiamo appena chiarito, sarebbe un grave errore pensare che tutto il quartiere abbia a che fare con questa organizzazione, rimane vero che il territorio di Scampia è ancora nelle mani dei gruppi criminali. A sostegno di questa tesi si può portare l’osservazione etnografica, che ha rilevato quanto sia forte il controllo del territorio da parte di questi gruppi. L'impressione è di avere di fronte un’organizzazione molto ramificata, in grado di svolgere tutta una serie di funzioni. In primo luogo, entrando nel quartiere si rimane subito impressionati da un sistema — piuttosto esplicito — di sentinelle, veri e propri posti di controllo che segnalano tutto quanto accade. Avendo girato per le strade di Scampia, noi stessi siamo stati fermati più volte — e in un caso addirittura con un vero e proprio affiancamento da parte di giovani in sella a due moto che prima hanno costretto a fermare la macchina dalla quale stavamo scattando delle foto, e poi ci hanno chiesto di rendere conto di quello che stavamo facendo. Il quartiere — e soprattutto i suoi punti cruciali — sono tenuti costantemente sotto osserva-

zione e consentono alla camorra di operare con tranquillità. In secondo luogo, mediante un’amministrazione accurata di

una fiorente economia criminale. I proventi delle sostanze stupefacenti sono cospicui e consentono alla camorra di pagare veri e propri stipendi, secondo un tariffario che varia in ragione delle diverse funzioni svolte: dal trasporto alla consegna, dall’immagazzinamento al controllo di una strada, dalla minaccia all'esecuzione di una azione violenta. In questo modo, l’organizzazione criminale conferisce una certa stabilità e affidabilità

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alla sua economia. Il sistema è così efficiente da essere in grado di garantire protezione alle vedove e alle mogli dei camorristi in carcere, alle quali viene versato un contributo mensile. In terzo luogo, mediante la creazione di simboli ben riconoscibili sul territorio del potere del camorrista, simboli che sono di solito piccole cappelle votive che si trovano agli angoli delle strade o nei giardini condominiali. Secondo una rigida gerarchia, la ricchezza e la grandezza della cappellina esprime il potere del boss, che segnala così la propria presenza e la propria serietà.

Infine, con la capacità della camorra di determinare la vita quotidiana nel quartiere. Chi vive a Scampia conosce bene tutta una serie di segnali che gli fanno capire quando è meglio non uscire di casa perché è in atto un regolamento di conti; quando si avvicina una retata della polizia; quando si fa festa perché il boss compie gli anni o perché è arrivato un importante carico di droga. Insomma, è la camorra a essere l’unica organizzazione in grado di pianificare e sostenere l'economia del quartiere, gestendo un vero e proprio mercato a cielo aperto. L'aspetto che deve essere sottolineato è che la camorra usa Scampia come un territorio franco mediante il quale, da un lato, gestisce un sistema di spaccio che rifornisce non solo tutta Napoli ma anche ampie zone limitrofe fino a Roma e oltre; e,

dall’altro lato, organizza la sua partecipazione ad un sistema di scambi internazionali con i principali cartelli della droga. In questo senso, anche se all’interno di una logica criminale, Scam-

pia è tutt'altro che una periferia isolata e non interconnessa con il mondo. Anzi, da questo punto di vista siamo di fronte a una periferia che ha una sua centralità, per quanto deviante. L’impressione è che questi rapporti «globali» prescindano completamente dal contesto urbano napoletano e dal quadro istituzionale italiano nel quale Scampia si colloca, rendendo il quartiere una specie di realtà autonoma, retta da logiche proprie. Due interventi strutturali

Negli ultimi anni, le direttrici lungo le quali si sta cercando di affrontare la «questione Scampia» è stata duplice. La prima

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— quella caratterizzata dai tratti dell'urgenza — ha riguardato la questione della camorra con i suoi riflessi dal punto di vista dell’ordine pubblico. Come è noto, da qualche anno l’ordine interno si è incrinato, e Scampia è diventato il teatro di una lotta intestina tra due fazioni rivali della criminalità organizzata, che ha portato a una lunghissima serie di omicidi. Ciò ha finito per attirare l’attenzione della pubblica opinione nazionale sul quartiere, producendo anche le condizioni per azioni di polizia più decise. I risultati non sono mancati, tanto da arrivare all’arre-

sto dei principali boss del quartiere. Questo episodio ha sicuramente inflitto un duro colpo all’organizzazione criminosa, indebolendola in alcuni suoi gangli vitali. Ma nonostante questi importanti risultati, si è ancora ben lontani dall'aver modificato gli equilibri strutturali del quartiere. La seconda direttrice lavora invece sui tempi lunghi e sugli assetti strutturali del quartiere. Negli ultimi anni, il comune ha avviato un grande intervento strutturale concentrato sulle Vele (più precisamente sui lotti L ed M del quartiere). Dopo le azioni di abbattimento degli anni ‘90, due di esse sono già state sgombrate e sono in corso di demolizione; successivamente dovrebbero essere anche sfollate le rimanenti, che subiranno una massiccia ri-

strutturazione per adibirle a uso ufficio. Parallelamente, sono in corso di costruzione oltre 900 alloggi per i cosiddetti «velisti». Dopo il fallimento della spettacolare operazione di demolizione lampo che era stata annunciata con grande enfasi, l’abbattimento delle due Vele prosegue con metodi più tradizionali e più lenti; mentre l’edificazione dei nuovi alloggi non si è mai arrestata. I tempi dell'intervento non saranno però rapidi; alcune stime parlano di un decennio. L'intervento prevede anche il riordino globale della viabilità nell’area, nonché il miglioramento della dotazione di attrezzature del quartiere. Ci si ripromette con questo intervento strutturale di modificare non solo l'aspetto ma anche la composizione sociale del quartiere. L'idea guida è che la rilocalizzazione di funzioni terziarie porterebbe all'insediamento in zona anche dei dipendenti

dei vari enti interessati, con il risultato di ottenere un effetto di

stabilizzazione e «normalizzazione» del tessuto sociale di Scampia. Il risultato finale dovrebbe essere la creazione di un polo di attività terziarie e di servizi, con una quota contenuta di insedia-

mento residenziale non pubblico.

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Il progetto di intervento (a cui si deve aggiungere l’azione di riqualificazione prevista da altri programmi per Scampia e Pon-

ticelli, che intendono realizzare cinema multisala e bar, nonché

attivare sportelli «Informagiovani») è dunque di notevole portata e va nella direzione di affrontare alcuni nodi cruciali del quartiere. Restano i dubbi — sulla base dell'esperienza passata - sulla capacità di raggiungere gli obiettivi fissati in tempi ragionevoli e rispettando i progetti iniziali.

Dare attenzione alla socialità

Per quanto decisivi, queste due direttrici di azione potrebbero non produrre gli effetti attesi se si trascura la questione che riguarda labassissima dotazione di capitale sociale presente nel quartiere. È chiaro, infatti, che a Scampia non ci sono solo immobili da ristrutturare, ma un tessuto sociale che va ricostruito,

in termini non solo urbanistici, ma anche culturali. Senza affrontare tale questione, qualunque progetto di recupero rischia di rivelarsi velleitario. A oggi, nel quartiere, è già radicato un buon numero di associazioni che opera in campi differenziati: dalla rivendicazione dei servizi essenziali alla gestione di spazi di socialità, dall’attività di volontariato nell’assistenza sociale alla pubblicazione di giornali di quartiere. Si segnala altresì una buona presenza del mondo ecclesiale, che ha avviato nel quartiere alcune importanti iniziative. A ciò si deve aggiungere il ruolo prezioso svolto dalle scuole pubbliche che, pur tra mille difficoltà (furti di computer, atti di vandalismo, ecc.), sono in molti casi veri e

propri presidi che lavorano per sopperire al deficit culturale dei ragazzi e per costruire un minimo senso della cittadinanza. Ma queste presenze — che pure non vanno sottovalutate — si scontrano contro mille difficoltà, apparendo deboli e incapaci di incidere in maniera significativa sul contesto. Tra gli operatori si oscilla tra un certo sconforto — quasi che a vincere sia l’idea che nulla potrà mai cambiare — e la consapevolezza di operare in una situazione estrema, con tutta l'adrenalina che ciò può

mettere in circolo. Il problema è che queste risorse devono sfidare la cultura dominante del quartiere, cultura che intreccia l'elemento dell’illega-

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lità, quello della chiusura difensiva nel proprio privato e quello della dipendenza nei confronti dell’ente pubblico, immaginato come un deus ex machina da cui dovrebbe scaturire tutto. Questo intreccio produce alcune conseguenze che vale la pena di analizzare. In primo luogo, una sfiducia tanto profonda quanto diffusa nei confronti di qualunque intervento teso a risolvere i problemi locali. Fatalismo e cinismo tendono a essere il lascito di quel senso di abbandono vissuto dal quartiere a cui si è fatto riferimento nelle pagine precedenti. D'altra parte, come tanti cittadini dichiarano, tutti sono ormai abituati alla delusione rispetto alle tante promesse elettorali ripetutamente fatte dai membri delle varie amministrazioni comunali che si sono succedute. La scarsità del capitale sociale si manifesta anche nella sfiducia che irrigidisce i rapporti interpersonali. Nel complesso, tendono a prevalere la diffidenza e la paura. Da parte di qualcuno, il quartiere è vissuto come una prigione dove prevale la legge del più forte. Senza alcuno spazio per il contraddittorio e il confronto. Non sapendo mai con sicurezza con chi si ha a che fare, si preferisce rinchiudersi nel proprio guscio ed evitare il più possibile il contatto con il mondo circostante. In quel vuoto generato dalla assenza delle istituzioni — riempito, come abbiamo visto, dalla criminalità organizzata — si incuneano rapporti di dipendenza e di dominio arcaici, che appaiono fuori dal tempo. Come i rapporti intrafamiliari, dove si cerca di riproporre (magari senza riuscirci) il tradizionale rapporto uomo-donna, o come i rapporti di lavoro, tutti informali, che qualche volta sfiorano il vero e proprio schiavismo, come nel caso delle persone di colore che, fin dal primo mattino, sta-

zionano alle rotonde del quartiere in attesa di essere chiamati

per lavorare alla giornata. In sostanza, dato che le istituzioni vengono percepite come assenti, sembra mancare ogni forma di fiducia generalizzata, per cui si comprende che la ricerca di rapporti personalistici in direzione verticale (con politici, amministratori, funzionari, ecc.) sia una strategia più che ragionevole per risolvere i problemi quotidiani e individuali. Un tale modo di fare non riguarda solo i privati cittadini, ma anche le stesse organizzazioni e associazioni che operano nel territorio. Il che finisce per creare un clima di competizione orizzontale tra soggetti e gruppi

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per accedere a quei rapporti da cui è possibile trarre le risorse necessarie per operare.

Tutto questo, nel quadro della tradizione napoletana, crea una socialità fittizia, quasi teatrale, dove viene rappresentata una scena che spesso non ha un rapporto diretto con la realtà. Le istituzioni annunciano ma non portano a termine i loro pro-

grammi; il Terzo settore proclama dei valori che spesso poi contraddice. Ci si trova nella classica situazione dove prevalgono le inaugurazioni sulla realizzazione, l'interesse per gli appalti sull’ordinaria amministrazione. Le persone parlano ma non dicono, lasciando intendere all’osservatore che ci sono molte cose che debbono rimanere nascoste. Anche la religiosità, che appare molto radicata, si presenta spesso in forme vistose e teatrali,

dove vengono mescolati piani diversi — dalla devozione all’esibizione del potere, dalla superstizione al senso del sacro — senza soluzione di continuità. Riuscire a sottrarre Scampia al dominio della camorra e della povertà, rigenerare un quartiere che da modello si è ritrovato a essere discarica, significa riuscire a lavorare contemporaneamente su più piani: in primo luogo, riconnettere più inten-

samente Scampia con il resto della città, creando quei legami (infrastrutturali, simbolici e istituzionali) che forse non sono mai esistiti; in secondo luogo, intervenire dentro il territorio per ri-

solvere i più gravi problemi strutturali e insieme per ricostruire reti e rapporti basati sulla fiducia; in terzo luogo, sganciare

Scampia dalla connessione con le reti criminali globali per collegarla ad altri contesti, capaci ugualmente di generare ricchezza. Solo se si saprà tenere insieme queste tre direttrici — facendole dialogare tra loro — si potrà forse sperare di modificare una situazione così difficile e compromessa come Scampia. 6.

Roma, Esquilino: periferia del centro, centro delle periferie

Un rione romano e la sua crisi

Il rione Esquilino sorge su di un colle e l'aspetto attuale rispecchia quello voluto dopo l’unità d’Italia, in coerenza allo sviluppo di Roma nella direzione Est. Il luogo simbolo per eccellenza è la grande piazza dedicata a Vittorio Emanuele II co-

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sicché, per i romani, tutto il rione è semplicemente «piazza Vit-

torio». Dentro questa architettura del primo Novecento, fatta di grandi edifici in stile piemontese, costruiti per ospitare la classe dirigente della nuova capitale del Regno d’Italia, la vita si è sviluppata seguendo una vocazione prevalentemente commerciale, favorita soprattutto dalla presenza del grande mercato, per molto tempo il più grande e importante di Roma. A partire dalla fine degli anni ‘70, però, le trasformazioni che avvengono nella città mettono fortemente in crisi l’organizzazione della vita nel rione. Mentre il commercio tradizionale perde terreno rispetto alla grande distribuzione che si sviluppa soprattutto verso i nuovi quartieri fuori dal centro, piazza Vittorio comincia a diventare il punto di riferimento per buona parte della popolazione immigrata. L'arrivo di quest’ultima viene definitivamente sancito e assume ulteriore visibilità con l'occupazione collettiva degli ex stabilimenti della Pantanella, alla fine degli anni ’80. Posta nella vicinissima via Casilina, questa struttura abbandonata

venne «eletta» a residenza

da circa un migliaio di migranti, per la maggior parte asiatici. Fu il primo grande impatto della città con le problematiche del fenomeno migratorio. Probabilmente, proprio la disponibilità di alloggi a buon mercato venutasi a creare all’Esquilino favorì poi l'avvicinamento al rione degli stranieri ex occupanti, inizialmente anche per brevi periodi, in attesa di una migliore sistemazione trovata generalmente nei nuovi quartieri periferici, a costi di affitto più bassi. L’arrivo degli stranieri ha costituito anche la soluzione alla crisi del mercato di piazza Vittorio. Prima come acquirenti dei prodotti a buon prezzo, poi come lavoratori o gestori delle attività commerciali, gli stranieri sono entrati progressivamente a

far parte della vita economica dell’Esquilino, fino a sostituire quasi del tutto la componente italiana. A poco a poco, sono cambiati i prodotti e le merci in vendita. Il che non poteva che attirare un numero

sempre

maggiore

di persone

immigrate,

provenienti da tutti gli angoli di Roma, interessate ai prodotti etnici in vendita nel mercato.

Questo cambiamento

del

mercato rionale ha determinato anche un mutamento dell’immagine dell’Esquilino, che ha cominciato a essere etichettato come un quartiere degradato, anche se centrale. In una città ancora impreparata all'impatto con le popolazioni migranti,

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l’alta concentrazione di stranieri ha alimentato tra gli autoctoni sentimenti di diffidenza e paura. Ciò ha finito col favorire il progressivo isolamento del rione - in modo particolare la zona più prossima a piazza Vittorio — e la sua esclusione dai circuiti di interesse dei romani. Il mercato immobiliare subì una sensibile battuta d’arresto tanto che gli stessi proprietari rinunciarono a conservare le strutture abitative, le quali, lasciate per anni senza manutenzione, contribuirono a

dare il senso di crescente degrado. Nel corso del 1986, il crollo di un angolo dell’edificio posto tra via Mariani e via Principe

Amedeo fu l'evento che sancì, davanti all’intera città, lo stato di

abbandono del quartiere. Il che provocò un’ulteriore fuga dal quartiere dei vecchi abitanti e la perdita di valore del mercato immobiliare. Un rione multietnico: la «Chinatown romana» riferie

e il centro delle pe-

Da quel momento, l’Esquilino è prima di tutto diventato un quartiere di stranieri, con una forte connotazione multietnica. Ma per capire in profondità questa definizione occorre evidenziare almeno due fenomeni che contraddistinguono il quartiere. Il primo fenomeno riguarda il forte impatto che ha prodotto l'insediamento di un’ampia comunità cinese, che unisce almeno

in parte la dimensione dell’abitare con l’attività economica. Ultima in ordine di arrivo, certamente questa comunità non lo è in ordine di importanza. Dato che gli immigrati dal Bangladesh, dai paesi africani o dalle Filippine non disponevano di capitali da investire — e che quindi, al massimo, si sono potuti attestare come piccoli gestori o dipendenti delle imprese di titolari italiani — la crisi del mercato rionale ha rappresentato un’occasione interessante per gli investitori cinesi. Così, quella che negli anni

°60 era una presenza confinata in pochi angoli del quartiere con

alcuni laboratori di manifattura delle pelli, dalla fine degli anni

°80 — anche grazie a ingenti capitali immediatamente disponibili — si diffonde rapidamente. Sfruttando la debolezza del mercato i cinesi si propongono come buoni acquirenti delle licenze LI merciali a esercenti in piena crisi, che certamente non si lasciano

sfuggire la possibilità di monetizzare l’autorizzazione commer-

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ciale per trasferire l’attività altrove nella città. In poco tempo, la presenza dei commercianti cinesi si estende lungo intere vie, in primo luogo quelle più toccate dalla decadenza del commercio. La sensazione è di una vera e propria invasione, al punto che la stampa conia una nuova etichetta per l’Esquilino, definita sempre più spesso come la «Chinatown romana». Tale presenza ha finito col determinare un effetto di spiazzamento nei confronti delle altre comunità, come nel caso della

popolazione di origine africana, la più fragile da un punto di vista economico

e comunitario,

che è stata progressivamente

espulsa dai negozi dove aveva impiantato alcune attività di commercio etnico. Ora gli africani sono «confinati» nella parte Nord, a ridosso della stazione, e costituiscono l’etnia più esposta alle devianze, quali furti, spaccio, consumo di droghe e alcol,

traffici illeciti, prostituzione. Tra gli stranieri, i cinesi al contrario sono certamente quelli meno visibili e vengono percepiti come poco pericolosi nella rappresentazione sociale degli abitanti del rione, anche se giudicati poco socievoli e non comunicativi. Peraltro, la loro non è proprio la stessa immigrazione delle altre etnie presenti, vista l’organizzazione con la quale regolano, da loro stessi, la presenza in Italia, pianificata sempre in stretto legame con la dimensione lavorativa ed economica. Il risultato è che non ci sono cinesi anziani, devianti o legati alla microcriminalità locale; nessun cinese

emarginato finisce in strada o si ubriaca rendendosi pericoloso. Al contempo, il «made in China» garantisce anche un limite alla crescita degli abitanti italiani, i quali divengono più restii a comprare o prendere in affitto un’abitazione nel quartiere, prefigurandosi la difficoltà di convivenza e comunicazione quotidiana. In realtà, la pur rilevante presenza della comunità cinese non è sufficiente per capire il quartiere. Le vie dell’Esquilino si caratterizzano, infatti, per la loro grande varietà etnica, con

persone provenienti anche da molti altri paesi: Egitto, Marocco, Bangladesh, India, Pakistan, Romania, Polonia, Filippine e diversi stati dell'America Latina. Questa polifonia di genti e di culture ha però come caratteristica peculiare quella di essere basata sull'uso del territorio anche a prescindere dalla residenza.

La maggior parte degli immigrati che si vedono in piazza Vittorio abita nelle periferie, in modo particolare a Sud Est della

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capitale, e considera il quartiere come la propria testa di ponte nel cuore della città. Il quartiere sembra avere questo doppio destino: da un lato, nell’immaginario dei romani, esso è visto come una «periferia in centro», in quanto risulta marginale — se non escluso — dai circuiti tipici della romanità; dall’altro lato, però, la sua capacità di attrarre le popolazioni immigrate dalle periferie geografiche sembra fare di questo antico rione un «centro delle periferie». Economia locale, economia globale

Le attività economiche che sono presenti nel rione esprimono una particolare combinazione tra la dimensione globale e quella locale. Alle tradizionali attività italiane rimaste aperte, prevalentemente di ristorazione, abbigliamento e telefonia, si sono aggiunte quelle degli stranieri fortemente differenziate nella tipologia dei prodotti in vendita. Molti sono anche i servizi pensati per la popolazione migrante. Tra tutti prevalgono i phone-center e i servizi per il trasferimento di denaro all’estero. Il rapporto dell'economia del rione rispetto ai mercati internazionali, in un tempo segnato dalla globalizzazione del commercio e della produzione, è qui contraddistinto soprattutto dalla presenza dei prodotti provenienti dai paesi di origine delle popolazioni immigrate e, particolarmente, dalla imponente diffusione della rete di distribuzione dei prodotti cinesi o dei manufatti confezionati da manodopera cinese in Italia. Le grandi compagnie multinazionali che, con i loro loghi, contraddistinguono e omogeneizzano prodotti e consumi non hanno alcuna presenza significativa. All’Esquilino si trova una particolare forma di globalizzazione, espressione dell’espansione economica orientale nei nostri mercati, che non ha marchi-loghi per riconoscersi ovunque, ma è forte della capacità di produrre serialmente a prezzi di assoluta competitività. L’aggressività di questo

tipo di economia è oramai nota e si discute da tempo sulle diverse modalità di gestire (0 contenere) una tale pressione espan-

sionistica. E da questo punto di vista, l’Esquilino deve essere visto come una piattaforma utile per quei pezzi di economie

lontane orientati a rafforzare la loro presenza sul suolo italiano

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e europeo. In tal senso, si tratta di un rione tutt'altro che marginale: la sua centralità lo rende, anzi, un caso interessante.

Al proprio interno, la cosiddetta comunità cinese — che in realtà si presenta piuttosto come un «arcipelago» di famiglie (in senso orientale) — è forte della rete di «solidarietà economica» a cui ogni membro può fare ricorso. Chiunque infatti sia «di famiglia» e desideri dare avvio a una qualche attività commerciale trova il sostegno finanziario per intraprendere questa strada. Ciò permette di spiegare il rapido sviluppo dell’impresa cinese a tutto vantaggio di un circuito economico, chiuso e autoreferenziale, che si autoalimenta di continuo e che viene a costituirsi

come un sistema nel sistema. Per comprendere come questa economia si stia integrando nel sistema economico nazionale, o piuttosto come essa si caratterizzi effettivamente quale sistema esterno che sfrutta semplicemente alcune basi territoriali per una propria autoespansione, occorrerebbe esplorare più a fondo i rapporti tra imprenditori italiani e imprenditori cinesi, tra questi ultimi e gli istituti bancari italiani, nonché infine tra questi soggetti e gli organismi politico-economici dei due stati. L’impressione che si ricava dall'interno del quartiere è di una

comunità

funzionale

all’interesse

economico,

strutturata

in modo da supportare lo sviluppo del suo network commerciale di distribuzione nei paesi occidentali. Il che lascia aperti degli interrogativi su un piano più squisitamente previsionale, relativi alla stabilità di questa presenza sul territorio. Sembra lecito chiedersi, infatti, se per questa popolazione l'espansione commerciale all’Esquilino segni semplicemente una tappa, temporalmente limitata, o debba intendersi come definitiva. Questo aspetto è importante per comprendere gli atteggiamenti delle persone coinvolte, la loro disponibilità a integrarsi, il destino delle nuove generazioni. Il rebus della sicurezza

Un'indagine Censis del 2005 registra che il 6,7% dei romani intervistati considera piazza Vittorio come un luogo pericoloso. Se si aggiunge questo risultato al 10,5% che indica la stazione Termini, compresa nell’Esquilino, come tale, si arriva al 17,2%: quota che succede immediatamente quella della famigerata area

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periferica di Tor Bella Monaca (periferia Sud-Est), la quale è collocata in cima alla classifica con il 28,3%.

La sicurezza è certamente il tema forte all’Esquilino in questi anni. Preoccupa molto tutti i residenti, nonché i romani che si avvicinano al rione, e se ne discute all’infinito nelle conver-

sazioni sul quartiere. In gioco c’è la rappresentazione dell’altro,

straniero 0 povero, percepito come una minaccia alla propria in-

columità. La percezione è forte al punto tale che anche persone non animate da forti pregiudizi giungono a escogitare comportamenti atti ad aumentare il livello di protezione oltre i limiti minimi dettati dalla normale convivenza in un tessuto urbano metropolitano. Dagli approfondimenti che abbiamo condotto, però, la situazione dell’Esquilino sembra caratterizzarsi più che altro per una contraddizione fortissima, difficile da spiegare, tra quella che possiamo definire una percezione personale e collettiva della sicurezza e la reale consistenza del problema. I dati sulla criminalità del 2004 ci forniscono un quadro in cui le violazioni alla legge 40 (Bossi-Fini) e ai suoi corollari (art. 109 T.U.L.P.S.) costituiscono il maggiore numero di reati. Per un quartiere che presenta una così grande popolazione straniera, in una città come Roma, ove vi è il più alto numero di immigrati, questo è un dato quasi fisiologico che tuttavia segna fortemente il rione. Pur non definendosi razzisti, molti degli abitanti sentono di doversi difendere da quella che percepiscono come una invasione del territorio. Tuttavia, nessun evento di elevata pericolosità per le persone è stato registrato negli ultimi anni. Le risse o i furti rimangono all’interno del micromondo dell’immigrazione. E non è raro che siano gli stessi immigrati ad essere le vittime dei raggiri di risoluti italiani, quelli da sempre dediti all’arte dell’imbroglio. Per cercare di spiegare questa contraddizione si devono con-

siderare almeno due aspetti.

In primo luogo, la zona è caratterizzata da una certa presenza di disagio sociale. Gli stranieri che sono in difficoltà ten-

dono a concentrarsi nel quartiere, non fosse altro che per tro-

varsi In un contesto meno

stigmatizzante.

Camminando

per

strada è facile incontrare persone con forti disagi, spesso ubriachi o in stato confusionale, che sembrano non rispondere alle regole della convivenza. Molte di queste persone sono anche

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immigrate, gente rimasta schiacciata dalle difficoltà della sfida migratoria, e che dunque si rifugia nell’alcol e nella solitudine. Ciò non può che rafforzare un'immagine di degrado. In secondo luogo, un ruolo importante lo gioca quel senso di estraneamento a cui abbiamo fatto riferimento più sopra. Lo spazio viene percepito, da chi vi abita o transita, senza punti di riferimento per la propria protezione, privato di quei simboli che favoriscono un riconoscimento ed un significato condiviso in grado di offrire familiarità ai luoghi e, pertanto, fiducia nelle relazioni e senso di protezione. Chi mi proteggerà in una situazione di pericolo se tutto è frammentato, mutevole, provvisorio

e diverso da me? La sensazione di spersonalizzazione è forte ed è ciò che amplifica l’incertezza, il sospetto e la sfiducia; in sintesi, l’insicurezza. E difficile sentirsi sicuri dell’intervento di un

cinese con il quale non sono nemmeno in grado di scambiare un saluto! Tutto ciò spiega come mai il tema della sicurezza sia diventato così importante in questi ultimi anni, e sia tale da falsificare l’immagine propagandata di un quartiere multietnico, dove la convivenza tra diversi avviene in modo armonico e pacifico. Un quartiere multietnico, non ancora interculturale

Tra l'opinione pubblica romana, da qualche anno, l'Esquilino ha cominciato a essere visto e ridefinito come il rione «multietnico», l’area dove la città sperimenta la differenza e la vive. Sorprendentemente si è andata diffondendo un'immagine nuova, e fondamentalmente positiva, del quartiere e della sua specificità. La sensazione però è che, più che un vero e proprio cam-

biamento, questa nuova etichetta sia solo una «velina», la quale — riconoscendo l’evidenza fattuale di una stratificazione etnica avvenuta nel territorio — copre, ignorandole, molte delle criticità

presenti nell’area. Attraverso di essa si attua una semplificazione che non considera la complessità del fenomeno, che non si fa carico dell’inadeguatezza e dell’impreparazione che la popolazione nel suo complesso manifesta nel riuscire a dare un contenuto e un significato positivi alla convivenza interetnica. In effetti, se si passeggia di giorno per il quartiere la sensa-

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zione di estraniazione è forte. Qui è possibile vedere l’operosità formale e informale di interi gruppi etnici che si muovono nello spazio del rione come fossero a casa propria: lavorano, spesso gestendo per proprio conto le numerose attività commerciali sulla strada o all’interno del grande mercato rionale (dal 2001 non più sulla piazza ma in una struttura attrezzata); discutono,

trattando questioni commerciali o politiche; si intrattengono, parlando a voce alta in tante indecifrabili lingue, che gli italiani definiscono «chiasso». Ma questa «naturalezza» fa a pugni con la percezione di «degrado» che il rione sembra dare ai romani, percezione che deriva proprio da questo forte impatto visivo che immediatamente colpisce per l'elevato grado di diversità: gli ideogrammi nelle insegne dei negozi cinesi hanno preso il posto delle scritte sulle porte di panifici, tintorie, mercerie e altre piccole o medie attività commerciali tradizionali che ora non ci sono più; gli odori delle spezie della cucina orientale caratterizzano il profumo che si respira nell’aria; sui banchi del mercato e nelle botteghe limitrofe si trovano prodotti tipici dei paesi lontani dai quali provengono i migranti; le botteghe dei barbieri indiani sono tutte variopinte come non ce ne sono in Occidente; i

muri sono tappezzati di annunci in lingua indiana, cinese, araba e spagnola, contengono messaggi economici, pubblicità, eventi culturali e in alcuni periodi propaganda politica per le elezioni nei paesi di origine. In realtà, per come si è andato costituendo, al di là di qua-

lunque progetto e di qualunque comprensione, il quartiere sfida di continuo la concezione e la rappresentazione dello straniero che ciascuno si porta dentro, elaborata nella propria cultura di appartenenza. La vita quotidiana all’Esquilino ha la capacità di mettere alla prova dei fatti, spogliandoli quindi di ogni retorica, tutti i discorsi sulla tolleranza, la convivenza e l'integrazione; di andare a cogliere nella più profonda dimensione del quotidiano e nell’ordinario il valore e il peso che hanno le rappresentazioni sociali nell’incontro con l’altro, differente per aspetto, cultura e abitudini. Lo straniero infatti non è più rarefatto dietro la sua tipizzazione; non è ospite isolato e inerme da accudire, bensì portatore egli stesso di attività quotidiane che si inseriscono nel contesto produttivo e relazionale del quartiere; lo si scopre soggetto capace

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di organizzarsi per intraprendere un’attività commerciale, di tutelare e difendere dei diritti, di custodire il valore antico e prezioso della tradizione, di favorire legalmente l’inserimento di altri connazionali, di rivendicare in modo collettivo la possibilità di continuare a vivere la cultura e la religiosità alle quali appartiene. Questa situazione ha dunque in sé la capacità di polarizzare le posizioni che fanno riferimento alle differenti visioni e rappresentazioni del mondo. Dall’universo culturale dei «conservatori»,

che vedono concentrarsi nel rione il pericolo di una perdita di identità, agli «etnochic» che scelgono il rione come residenza o luogo di occasionale frequentazione in virtù del suo richiamo multietnico, senza occuparsene e senza abitarlo fino in fondo se non, appunto, in occasione di qualche evento che richiami ed evochi la multietnicità con la quale lo si dipinge. Nel primo caso, l’altro è un pericolo che non aumenta solo se è minoritario e ricondotto alle proprie abitudini e ai propri valori; nella seconda visione, l’altro è esotico, visto come

novità simpatica, usabile,

consumabile, ma non colta nella sua alterità capace di interrogare criticamente la propria cultura. In mezzo, ci sono i tanti «impauriti» da una situazione che non conoscono, di cui ignorano i veri tratti e risvolti. La loro è soprattutto una difesa dell’incolumità personale minacciata dal diverso da sé. Si fanno sentire e si lamentano soprattutto delle difficoltà o dei pericoli connessi alla vita quotidiana: della mancanza di ordine, di questo o quel servizio, della sporcizia che a loro avviso dipende tutta dalla presenza di chi ha un colore diverso dal proprio, degli aromi della cucina orientale molto speziata, poco familiare, e delle pelli che ne restituiscono gli odori. Gli impauriti non pongono la questione dal lato della cultura o dell’identità quanto da quello della vivibilità e delle abitudini stravolte dalla massiccia presenza dell’altro da sé. È soprattutto da questo gruppo che monta con grande enfasi la richiesta di sicurezza che pretende un quartiere vigilato notte e giorno. La non conoscenza dell’altro provoca la formazione di un'immagine che ha connotati di pericolo e di minaccia. In realtà, questi diversi approcci si preoccupano assai poco della reciproca contaminazione tra gli universi, necessariamente messa in gioco dall'incontro con l’altro. Il risultato è quello che la ricerca denuncia: non una comunità che abita un territorio,

ma gruppi che si suddividono lo spazio, che così si disgrega e diventa illeggibile e inconoscibile. Paradossalmente, anche i resi-

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denti italiani non sono altro che uno dei gruppi etnici. Nella tolleranza rispettosa delle differenze, ogni gruppo mostra agli altri le proprie caratteristiche culturali come a dover rimarcare le differenze di colore nel variegato puzzle che compone il territorio. L’Esquilino sembra ben avviato sulla strada di una forma di melting pot che non si radica nel territorio bensì nella comunità etnica e nelle sue dinamiche, come la stessa suddivisione dello

spazio ci suggerisce. In questa concezione l’elemento unificante sembra assai tenue e, soprattutto, non ricercato. L'orizzonte di

un riconoscimento reciproco più profondo della semplice condizione di coabitanti, la possibilità di ricreare, stando insieme,

una narrazione comune in grado di dare senso e significato alla coabitazione verso una convivenza in uno stesso luogo sembra fuori dal novero delle priorità. Ma la sua assenza si tocca ogni volta che i mondi entrano in contatto; quando le questioni del quotidiano «fanno attrito»; quando religiosità, abitudini alimentari e comportamentali, odori e volume delle conversazioni non coincidono con le attese, e allora... ognuno al proprio posto! L'effetto evidente è la richiesta di sicurezza. Paradossalmente, proprio la condizione delle periferie romane ci dice quanto questo sentirsi parte di un territorio e della sua rappresentazione autocostruita, o etero-prodotta, alla quale riferirsi, abbia costituito un baluardo al degrado dei quartieri, anche in condizioni strutturalmente difficili; quanto l'appartenenza ad un comune territorio abbia contribuito a creare solidarietà e desiderio di cambiamento da cercare e realizzare collettivamente. Il quartiere globalizzato del centro, come si prefigura all’Esquilino, sembra invece andare in un’altra direzione. Il posto dell’Esquilino nel disegno della città

Un ultimo contributo alla comprensione del quartiere va cercato nella politica che l’amministrazione comunale ha elabo-

rato negli ultimi anni per il centro storico della città. Il progetto policentrico, l'investimento sulla riqualificazione delle periferie e la natura dell'economia romana fanno pensare che il centro storico debba evolversi verso una caratterizzazione prettamente terziaria, centrata sull’industria culturale del tempo libero e del-

l’intrattenimento. Il che vuol dire che non si vogliono nel centro

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storico quartieri popolosi o popolari. In questa logica, le uniche ad avere cittadinanza sono le istituzioni di prestigio quali università, banche, uffici, strutture per il turismo, alberghi, poli

museali e sempre meno abitanti. A questa prospettiva, che parte da lontano e ha avuto effetti certi in tutto il resto del centro storico, con qualche lieve variazione per i rioni di Testaccio e Trastevere — anch'essi con forte tradizione popolare oramai ridotta a pochi elementi —, l’Esquilino sembra da sempre resistere. Qui si concentra il 19% degli abitanti del centro storico, il numero maggiore, anche se la tendenza complessiva conferma la prospettiva di uno spopolamento. Certamente il contrasto con il trend generale è in parte dovuto proprio agli stranieri, che costituiscono una percentuale

importante dei residenti nel centro storico (26%). Tuttavia questo non è l’unico contributo che gli immigrati portano: a una riflessione più attenta ci si accorge che la presenza straniera costituisce un deterrente alla scelta di risiedervi, tale da rendere

meno improbabile l'ipotesi che proprio la presenza degli stranieri e l'impatto estraniante delle botteghe cinesi possa costituire l'ostacolo alla crescita di una popolazione stabile in un rione che, molto più degli altri, ha grandi possibilità di accoglienza per il numero elevato di alloggi. Gli immigrati non sempre sono in condizioni di acquistare un immobile e quindi sono spesso affittuari; il loro progetto migratorio può cambiare velocemente se mutano le condizioni di inserimento, costringendoli a cambiare quartiere, se non regione o nazione. In questo modo, ciò che appare come un fenomeno di degrado legato alla presenza dello straniero migrante, in realtà, serve a trasformare lentamente un

territorio in vista di nuovi progetti. Inoltre, l’amministrazione comunale, che ha disposto zione di un assessorato alle Periferie, ha escluso dalle tenze di questo organo di governo del territorio tutto il cipio, all’interno del quale si trova l’Esquilino. Cosicché,

la creacompeI Munila stra-

tegia di azione dell’assessorato, improntata sulla partecipazione

della cittadinanza alle scelte che coinvolgono i quartieri e la trasformazione dei luoghi dove vive, non ha, per il centro storico, possibilità di essere praticata. Questa esclusione fa dell’area del centro un luogo «periferico» rispetto al valore della partecipazione popolare, offrendo una volta di più alle istituzioni la possibilità di decidere delle risorse e delle trasformazioni da

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portare senza la richiesta e la partecipazione-mediazione degli interessi dei cittadini o dei maggiori fruitori del territorio interessato. Lo dimostra l’opera di riqualificazione di piazza Fanti e dell'Acquario (edificio dei primi del Novecento) al centro del giardino, nella zona Est prossima alla stazione, vero e proprio punto dolente per l’ordine pubblico per via dell’alta concentrazione di persone africane: qui si è determinato l’effetto imprevisto di avere recuperato uno spazio pubblico senza che potesse però essere lasciato alla libera fruizione dei cittadini; infatti, la ristrutturazione si è conclusa con la consegna di tutta l’area all'Ordine degli architetti di Roma e provincia senza che la popolazione potesse esprimere alcuna proposta in merito. In un’altra situazione, c'è voluta tutta l’attenzione dell’ Associazione Geni-

tori della scuola elementare «Di Donato» per negoziare con il comune la destinazione d’uso di alcune palestre contigue alla scuola «Manin», affidate dalla scuola, con il concorso dell’amministrazione, a soggetti privati che ne avrebbero fatto un uso prettamente commerciale, sottraendole così a una fruizione libera e gratuita dei residenti. Questi esempi sembrano suggerire che le trasformazioni sociali che si vanno producendo all’Esquilino, nel cuore di Roma, rischiano di risultare invisibili, nascoste dalle pre-comprensioni su cosa siano il centro e la periferia e dal prevalere degli interessi che considerano di grande pregio un’area come questa. In questo senso, l’Esquilino appare come un laboratorio, un campo da gioco sul quale convergono forze diverse e contraddittorie, la cui composizione è ancora oggi tanto lontana quanto difficile da prevedere.

7.

Milano, ex-zona 13: il territorio come arcipelago

Perché la ex-zona 13

In un recente studio sulla povertà a Milano”, la ex-zona 13 è risultata al secondo posto per gravità della situazione sociale _! La povertà a Milano. Distribuzione territoriale, Servizi sociali e problema

abitativo, a cura di F. Zajczyk, Milano, Franco Angeli, 2003.

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nella classifica stilata dai ricercatori. Collocata tra alcune fondamentali infrastrutture della mobilità cittadina — l’aeroporto di Linate, la tangenziale Est, la ferrovia, la statale Paullese — secondo il censimento del 2001, la ex-zona 13 conta 22.809 abi-

tanti, con una densità di abitanti per kmq pari a 2.368 e una superficie di kmq 9,6308. L'aspetto interessante — che ci ha spinto a occuparci di quest'area — è che il cattivo posizionamento dell’ex-zona 13 nella classifica sociale di Milano merita di essere meglio approfondito. A prima vista, infatti, quest'area non appare in uno stato di rilevante degrado e, d’altro canto, la zona non presenta delle specificità tali da renderla un caso particolare. Al contrario però, l’ex-zona 13 può essere considerata un ottimo esempio di processi che si vanno diffusamente producendo in una città come Milano. Una periferia operaia relativamente ben integrata

Prima di arrivare a discutere i mutamenti in corso in questi anni, è utile rintracciare sinteticamente i fili che hanno contri-

buito a creare l’attuale configurazione del territorio. Dal punto di vista urbanistico-residenziale, la zona comprende quattro quartieri: Bonfadini-Taliedo, Forlanini-Monluè, Ponte Lambro e Zama-Salomone. Pur trattandosi di rioni assai differenti, ciascuno dei quali ha una propria identità e storia, la ex-zona 13 può essere considerata un buon esempio del percorso di sviluppo dell’area milanese, dove elementi storici pregressi si sono fusi con i due grandi processi del XX secolo: l’industrializzazione e l’ondata migratoria dal Sud Italia. 8 La denominazione «ex-zona 13» si riferisce alla suddivisione del decentramento amministrativo precedente l’ultima ristrutturazione avvenuta nel 1999, anno in cui Milano viene suddivisa in nove spicchi, ognuno dei quali parte dal centro-città e arriva nelle zone più lontane. In questo modo si sono ottenute macrozone che vanno a sostituire le precedenti 20 zone della città. Poiché tale riconfigurazione urbana presenta dati medi che risultano essere poco significativi, a motivo della sua estensione e frammentazione interna, la ricerca ha concentrato l’attenzione sull’area corrispondente alla precedente zona 13, potendo in tal modo ricostruire anche l'evoluzione storica di questo quartiere.

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Dieci storie di quartiere

Il quartiere Bonfadini-Taliedo è stato per tutto il Novecento un quartiere industriale, dove si sono insediati prima gli stabilimenti della Montecatini e della Caproni e poi, nel secondo dopoguerra, innumerevoli attività industriali, artigianali e commerciali. Verso la fine degli anni ’50, sotto la spinta del boom dell’immigrazione dal Meridione, il comune di Milano e l’Istituto autonomo delle case popolari Milano (Iacpm) effettuarono interventi sempre più ingenti nel settore dell'edilizia economica e popolare, con un forte aumento della popolazione e la nascita di una nuova parrocchia. Il quartiere Forlanini-Monluè è, invece, l'assemblaggio di realtà molto diverse. Collocato a ridosso dell’aeroporto di Linate, il quartiere è stato segnato dalla realizzazione della tangenziale Est, che nel 1972 lo taglia in due: da una parte, oltre a un consistente nucleo abitativo, rimane la cascina Monluè — il più antico insediamento abitativo della zona — con la presenza dell’antica chiesa (S. Lorenzo in Monluè), importante punto di riferimento nella storia dell’intera città di Milano; nell’altra parte, si colloca la vasta area del Parco Forlanini, dove — accanto ad al-

cune vecchie cascine agricole — si trova un’ampia zona di verde pubblico attrezzato e alcuni impianti sportivo-ricreativi per l’intera città (e di recente divenuta oggetto di attenzione della stampa a proposito del progetto della cosiddetta greer belt, ossia la cintura verde che dovrebbe sorgere in futuro attorno a Milano). Le due parti sono unite solo da un piccolo sottopassaggio pedonale, male illuminato e ritenuto insicuro. Questa scissione,

oltre ad isolare fisicamente Monluè, ha imposto l'esigenza di costruire una nuova parrocchia più centrale e vicina agli abitanti del quartiere, dove si trova in particolare l’area denominata «Nuovo Forlanini», case a edilizia popolare poi cedute a riscatto agli assegnatari e oggi abitate da famiglie del ceto medio. Rispetto ad altre parti della zona, il Nuovo Forlanini si differenzia

nettamente sia per la razionalità nella distribuzione dei servizi, sia per la cura con cui vengono mantenuti il patrimonio edilizio e gli spazi di verde. Il quartiere Ponte Lambro ha alle sue spalle una storia secolare che vede nel corso del Novecento alcuni cambiamenti

fondamentali: prima l'insediamento delle lavanderie artigianali

che si spostarono da Porta Ticinese; poi, nei primi anni ’70,

l'intervento dello Iacpm che avvia un massiccio programma di

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edilizia economica in seguito al quale nacquero due file di case popolari (le «stecche» o «case bianche»), parzialmente occupate da famiglie di immigrati dal Meridione. Nel 1981, un nuovo programma portò alla realizzazione delle abitazioni in via Rilke (le «case gialle»): pensate come case parcheggio che avrebbero dovuto essere occupate per periodi brevi, in realtà vennero anch’esse assegnate (o occupate abusivamente) in via definitiva. All’interno di questo caseggiato, già nel 1994, ben il 40% degli inquilini era abusivo. Tuttora c’è un elevato turr over abitativo e la percentuale degli abusivi rappresenta circa il 20% degli abitanti.

A seguito di questi investimenti, la popolazione di Ponte Lambro è cresciuta notevolmente, attirando dalla città abitanti dei ceti più bassi, gli esclusi dal mercato abitativo oltre che dal

lavoro: nel giro di pochi anni, in un quartiere di piccole dimensioni, si è quindi concentrato un numero molto elevato di persone, con scarso livello culturale e scarso radicamento sociale.

Sfruttandone le caratteristiche ambientali (fisiche e sociali) si stabilirono in quest'area anche alcuni gruppi di famiglie mafiose, che nel giro di pochi anni arrivarono a detenere il controllo del territorio, condizionando pesantemente la vita di chi vi abitava e lavorava. Di fronte a questo progressivo degrado, il contesto sociale ha però reagito: è della metà degli anni ’80 l’apertura del Centro territoriale sociale e del Centro di aggregazione giovanile, mentre dalla fine degli anni ’90 il comune di Milano ha iniziato ad elaborare una serie di progetti per la riqualificazione dell’area, dietro la spinta delle iniziative del comitato di quartiere, nato intorno alla metà di quello stesso decennio con l’intento di riappropriarsi del proprio rione. Parallelamente, importanti operazioni di polizia contribuivano a sgominare i principali gruppi criminali presenti a Ponte Lambro: ebbe molto risalto sulla stampa del tempo, ed è tuttora viva nella memoria degli abitanti del quartiere, la notte in cui avvenne il famoso blitz «dei veli bianchi» nel 1995. Il quartiere Zama-Salomone — che sino a 50 anni fa apparteneva a Monluè — vede sorgere le prime abitazioni (le cosiddette «case minime») durante il regime fascista. Il quartiere - noto come la «Trecca» — fu terminato nel 1937 e accolse 500 famiglie di proletariato e sottoproletariato urbano che il regime fascista intendeva confinare ai margini della città. La Trecca era

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Dieci storie di quartiere

un quartiere di «case di ringhiera» tipiche della Milano storica, con i ballatoi e i servizi in comune, ma anche con uno spiccato spirito di appartenenza e di condivisione, abitate prevalentemente da operai occupati alla Caproni, alla Montecatini e al Verzè (mercato ortofrutticolo) di Porta Vittoria. Demolite nel 1976-77, le famigerate case minime vennero sostituite dai nuovi fabbricati detti «case bianche», capaci di ospitare circa 400 nuclei familiari. Quest'ultimo intervento di ricostruzione dell’ex quartiere Trecca ha contribuito notevolmente a cambiare il volto della zona. A trent'anni dalla loro costruzione le case popolari si presentano in un evidente stato di grave incuria e abbandono. Infine, non si può sottacere la presenza di ben due campi nomadi: uno di antica data collocato in via Zama e l’altro in via Bonfadini.

Problemi e risorse

Ricordare la storia del quartiere è utile per comprendere l'origine dei problemi attuali. Come si è visto, l’ex-zona 13 è un impasto complesso di tanti elementi giustapposti: forte presenza industriale e operaia, peso dell’immigrazione dal Sud, intensi processi di insediamento abitativo pubblico, arrivo di immigrati extracomunitari. Il risultato è stata la concentrazione dei problemi tipici di tutte le periferie: povertà economica e culturale, bassi livelli di istruzione, disoccupazione, crisi dell'economia e del commercio locale, carenza di modelli educativi, difficoltà di integrazione tra abitanti autoctoni e immigrati provenienti dal Sud Italia, problemi di rapporto tra culture diverse, solitudine degli anziani, degrado delle abitazioni, abusivismo, illegalità, isolamento sociale e fisico. Ma, nonostante tutto questo, nel

quadro di un contesto dinamico dal punto di vista economico,

sociale e culturale, questo 72x, oltre a determinare problemi an-

che acuti — come nel caso di Ponte Lambro — ha altresì generato importanti risorse di auto-organizzazione.

Intere parti del quartiere si sono trasformate in maniera profonda nel corso degli anni dal punto di vista urbanistico e della composizione sociale, ma l’organizzazione interna rimane buona e la dotazione infrastrutturale più che accettabile.

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Un tale risultato si spiega grazie alla combinazione di risorse presenti in questa zona. Innanzitutto, risorse istituzionali. Certamente, gli intervistati

si lamentano della carenza di servizi in zona, sia pubblici (socio-assistenziali, di pubblica sicurezza, sportivi, trasporti, biblioteche) sia privati (edicole, luoghi di commercio al dettaglio, di aggregazione e divertimento per i giovani), ma rimane vero che,

anche in rapporto ad altri contesti, la zona conserva una straordinaria capacità di infrastrutturazione istituzionale di base, con una buona rete scolastica, di trasporto e di sicurezza. A ciò si deve aggiungere una buona capacità dell’ente pubblico di impostare azioni di contrasto e di promozione sociale. Basti ricordare l'intervento che è stato realizzato a Ponte Lambro, con l’azione di repressione delle infiltrazioni mafiose e il più recente processo per la definizione di un nuovo Contratto di quartiere. Alla Trecca, invece, si deve ricordare l’avvio di al-

cuni interventi di riqualificazione: dal punto di vista ambientale, con la bonifica dei vecchi capannoni industriali, ormai dismessi e fatiscenti, e la loro sostituzione con nuovi caseggiati di edilizia

residenziale e di aree di verde pubblico attrezzato; dal punto di vista sociale, con l’arrivo nell’ottobre 2005, presso le «case bian-

che» di via Salomone, della portiera sociale dell’Aler — Azienda lombarda edilizia residenziale — e della custode sociale di una fondazione convenzionata con il comune di Milano. Indubbiamente, l’azione delle istituzioni pubbliche può avvantaggiarsi della presenza di un Terzo settore relativamente vivace. Abbiamo già ricordato il ruolo che il comitato di quartiere ha avuto nel richiamare l’attenzione su Ponte Lambro. Ma più in generale, l’area dispone di numerose risorse dal punto di vista delle cooperative e delle associazioni di volontariato di ispirazione sia cattolica che laica, con interessi che spaziano dagli stranieri, agli anziani (centro ricreativo e socio-culturale di via Zante e di via Salomone), ai disabili, ai malati di Aids e termi-

nali, per citare solo i casi principali. Altre iniziative significative, in convenzione con il comune

o altri enti pubblici, sono

per esempio i due centri di aggregazione giovanile, uno a Ponte Lambro e l’altro proprio di fronte alle «case bianche» di via Salomone. Un ruolo di grande rilievo lo hanno avuto le realtà ecclesiali, sia per la storica presenza di importanti realtà religiose sia per la

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grande attenzione che la Chiesa milanese ha da sempre riservato alle periferie. Più di recente, la Chiesa ambrosiana ha sperimen-

tato alcune forme innovative dal punto di vista organizzativo,

con l'introduzione dell’Unità pastorale Forlanini che istituzionalizza la collaborazione tra parrocchie. Oltre alla presenza delle parrocchie, va poi ricordato il lavoro delle suore vincenziane, che svolgono un insostituibile compito di assistenza sanitaria nei confronti delle persone anziane e più emarginate, e delle Piccole sorelle di Charles de Foucauld, che abitano in un appartamento collocato all’interno delle case popolari di via Salomone, dove svolgono un ruolo molto apprezzato di condivisone e di apertura ecumenica soprattutto nei confronti delle famiglie di immigrati, anche di religione musulmana. Infine, risulta ben radicata e attiva la Caritas locale, che gestisce due Centri di ascolto e un Centro di prossimità domiciliare. La globalizzazione al lavoro

In realtà, quanto abbiamo detto sin qui coglie solo alcuni aspetti di una realtà molto più complessa e dinamica. L’elemento centrale è che l’intero quartiere è oggetto di grandi trasformazioni, alcune avviate, altre solo annunciate, le quali sono

destinate a cambiare profondamente la configurazione dell’intera area. Ciò che è importante sottolineare è che tali mutamenti, da

un lato, sono espressione di interessi, progetti, logiche che prescindono completamente non solo dal quartiere ma anche dalla città e, dall’altro, essi si danno su porzioni territoriali anche limitate, secondo logiche molto diversificate. Il risultato è quello di una rapida e profonda eterogeneizzazione del territorio, che rende molto bene il senso dell’impatto della globalizzazione sul tessuto urbano. Delle dieci periferie italiane che abbiamo studiato, questo effetto può essere colto con chiarezza solo nella ex-zona 13 di Milano. Cominciamo con una schematica presentazione di alcune delle principali linee di trasformazione. i) Percorrendo la via Mecenate, sia dalla parte dei numeri

pari sia di quelli dispari, ci si imbatte nei capannoni della ex

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fabbrica di aeroplani Caproni, non a caso nei pressi del primo campo di aviazione di Milano. La zona attorno agli enormi capannoni — la cui produzione cessò dopo la seconda guerra mondiale — ha conosciuto prima un periodo di declino e abbandono per poi presentare a metà degli anni ’80 un’edilizia con prevalenza di piccoli insediamenti industriali o di autotrasporti merci. Recentemente, i capannoni sono stati quasi completamente ri-

strutturati per ospitare gli «East End Studios» che, come recita il sito di presentazione omonimo sono oggi la più grande struttura convegnistica privata in Italia. Un event point all'avanguardia, risultato di un attento restauro degli edifici un tempo adibiti alle storiche Officine Aeronautiche Caproni. Il complesso si sviluppa su una superficie lorda di 22.000 mq, con 15.000 mq netti coperti di spazi attrezzati e polifunzionali che possono ospitare eventi di ogni dimensione dalle 50 alle 2.200 persone oppure articolare in più spazi uno stesso evento per un totale di 9.000 persone.

Oltre agli East End Studios, ormai attivi, dalla parte dei

numeri dispari è previsto il progetto chiamato «Mecenate 79». Tale progetto, presentato il 10 maggio 2005, è promosso da Unior S.p.A. e da un importante studio di architettura milanese, dove lavorano alcuni dei principali collaboratori di Gregotti che hanno al loro attivo, tra l’altro, la vittoria del concorso per la

«Città delle Culture» all’ex fabbrica Ansaldo di via Borgognone e il nuovo quartiere generale milanese degli stilisti Dolce & Gabbana. Il progetto «Mecenate 79» è particolarmente ambizioso sia per la vastità dell’area — 36mila metri quadrati — sia per il valore economico: 150 milioni di euro a lavori conclusi. Gli elementi più vistosi del progetto di riqualificazione dell’area saranno tre torri di vetro che ospiteranno un albergo e tre residence. Nei capannoni degli inizi del Novecento, con facciate a mattoni e tetto a sched, monumenti di archeologia industriale, come il gigantesco hangar dove venivano assemblati gli aeroplani, troveranno spazio negozi, centri commerciali, uffici e palestre. Il nuovo quartiere sarà attraversato da una strada pedonale alberata e dotato di parcheggi sotterranei. Il progetto è già stato approvato dal comune, i lavori dureranno un triennio. tî) Il progetto «Milano Santa Giulia» noto anche come Montecity-Rogoredo è il più vasto piano di riqualificazione in

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atto a Milano. Esso è promosso da Risanamento S.p.A.-Gruppo Zunino. Il progetto architettonico è stato affidato a uno dei nomi più autorevoli dell’architettura contemporanea — Norman Foster — il cui studio, con sede a Londra, ha già progettato il faraonico Parlamento tedesco a Berlino e il gigantesco aeroporto di Hong Kong. Dopo la chiusura dello stabilimento Montedison e delle Acciaierie Redaelli (le attuali aree Montecity e Rogoredo) ci fu un susseguirsi di piani urbanistici di riqualificazione del territorio che consideravano però interventi separati per le due aree. Con l’accesso alla proprietà da parte di Zunino, le due aree vennero unificate e ripensate in modo unitario e omogeneo, in particolare dopo l’acquisto della Nuova Immobiliare da parte della società Risanamento. Il 16 marzo 2005 è stata stipulata la convenzione per l’attuazione del Programma integrato d’intervento del progetto tra il comune di Milano e la società Risanamento SpA. La stipula della convenzione rappresenta il passaggio che dà il via alla realizzazione del progetto, comprese le opere di urbanizzazione primaria e secondaria nonché il centro congressi. L’area di Milano Santa Giulia — che sorge proprio a fianco della tangenziale Est di Milano e a due passi dall’aeroporto di Linate — è vastissima e si estende su una superficie di 1.200.000 mq: per queste sue dimensioni, si parla di una «città nella città». ti) Ponte Lambro è, invece, oggetto di un nuovo piano di ristrutturazione in quanto rientra nel progetto «Contratti di quartiere Il» promossi dal comune di Milano. Gli edifici oggetto del Contratto di quartiere sono quelli delle cosiddette «case bianche» (due edifici lineari di sei piani fuori terra), risultato della ripetizione di un unico sistema distributivo che prevede al piano terra gli accessi ai vani scala e alle cantine: ciò ha determinato la mancanza di servizi e negozi al livello di «fruizione della città», con conseguente progressivo processo di degrado e abbandono degli spazi stessi. Pertanto, le esigenze del quartiere cui far fronte sono sostanzialmente di due ordini: riqualificazione edilizia e tecnologica e frazionamento delle unità abitative. Nel primo caso, si prevede un intervento di manutenzione straordinaria sugli stabili, adottando soluzioni progettuali tese ad assicurare la qualità del manufatto edilizio, un’adeguata progettazione e utilizzazione degli spazi comuni, il risparmio

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delle risorse energetiche. Il secondo intervento riguarda invece il frazionamento di 22 unità abitative esistenti di ampia metra-

tura (circa 96 mq e 81 mq), utilizzati da nuclei familiari di 1-2

utenti o sfitti, in alloggi di taglio minore, rispondendo pertanto alle esigenze e richieste abitative del quartiere e all’obiettivo di valorizzare e incrementare il patrimonio di edilizia residenziale pubblica. Alla progettazione delle nuove funzionalità e dell’immagine del quartiere è stato chiamato Renzo Piano, architetto italiano di fama internazionale. tv) L'ultimo tassello che deve essere ricordato è l’inserimento di popolazione immigrata, già cominciato negli ultimi anni e destinato con ogni probabilità a continuare nei prossimi. Fino a oggi, questo arrivo è stato selettivo, con la capacità degli immigrati di sfruttare alcune nicchie presenti all’interno del quartiere. Due sono gli insediamenti più importanti. Il primo riguarda la famosa Trecca — un punto nevralgico nella vita dell’intera zona — che oggi risulta abitata quasi interamente da anziani soli e da stranieri. Il che rende questo stabile un microcosmo a parte, separato dal contesto circostante, dove si concentrano casi di povertà estrema. Il secondo riguarda Ponte Lambro, dove, a partire dal 1996-97, negli alloggi più fatiscenti del nucleo storico e nelle case popolari, hanno cominciato a giungere sempre più numerosi lavoratori stranieri attirati dai bassi prezzi degli alloggi in vendita e in affitto. L’impatto di tutti questi fenomeni — così diversi e così autonomi l’uno dall’altro — su un territorio come quello della exzona 13 saranno necessariamente molto rilevanti. L’aspetto che ci interessa qui segnalare è che, già oggi, si può notare la fortissima spinta alla frammentazione che si va producendo sull’intera zona, i cui elementi sono sottoposti a sollecitazioni del tutto diverse e soprattutto incomunicanti tra loro. Intanto, i processi avvengono per via del combinarsi dell’azione di una pluralità di attori privati: attori finanziari, come nel caso di Santa Giulia; attori economici, come in via Mece-

nate; attori sociali, come gli immigrati della Trecca. A essi si ag-

giungono, infine, gli attori istituzionali, come nel caso del Con-

tratto di quartiere a Ponte Lambro. Per certi aspetti, si va riproducendo quello che è accaduto in altre epoche storiche, con la sostituzione di alcune popolazioni con altre, di alcune funzioni

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con altre. Quello che è specifico è la grande varietà nello spettro delle connessioni che tali processi presuppongono e determi-

nano, con effetti tutti da verificare sul territorio. Grande varietà

che vede tra l’altro una evidente debolezza dell’amministrazione

comunale, secondo uno schema che si sta verificando anche in

altre zone della città di Milano, soprattutto laddove vi sono ingenti aree dismesse. I progetti in quest'area sono di grande interesse e esprimono la capacità di Milano di essere inserita in importanti circuiti economici e culturali. Ma occorre considerare che l'impatto di tali iniziative — su un quartiere che è quello che abbiamo descritto nelle pagine precedenti — richiede necessariamente una qualche forma di mediazione, perché troppo grande è la distanza tra i progetti dichiarati e la realtà del quartiere. Una delega eccessivamente ampia all'iniziativa degli imprenditori privati può finire per generare ulteriori divisioni, con un aumento delle disuguaglianze tra i vecchi e i nuovi abitanti, l’innesco di nuove dinamiche di marginalità e la nascita di nuovi problemi di sicurezza. Nella ex-zona 13 si verifica, insomma, quanto Bauman ha osservato, e cioè che nelle città un po’ ovunque nel mondo stanno cominciando a evidenziarsi mondi di vita separati, privi di con-

tatto e di interscambio tra loro?. In effetti, dal punto di vista della socialità, la ricerca registra già alcuni cambiamenti su cui forse varrebbe la pena riflettere approfonditamente. In primo luogo, pur essendo un’area che è oggetto di grandissimi investimenti, colpisce la presenza di disuguaglianze radicali, con il formarsi di microcosmi degradati che concentrano persone in una situazione problematica. Proprio per le loro caratteristiche, questi gruppi necessiterebbero di un maggiore accompagnamento e di un ambiente facilitante, ricco di Servizi sociali e assistenziali. E invece la situazione li pone in un contesto disagiato, con barriere e ostacoli fisici che ne rendono difficile

persino la mobilità, con la sensazione di essere stati abbandonati anche dall’amministrazione pubblica. Può essere importante citare qui la strana sensazione che ci ha comunicato una donna intervistata alla Trecca di vivere una vita che ormai non interessa più a nessuno e che ormai non ha più legami con niente. Nella ? Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, cit.

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lucida consapevolezza che i grandi investimenti in atto, a poche

centinaia di metri, non la riguarderanno in alcun modo. In secondo luogo, la gente comune, pur rendendosi conto dei cantieri, non conosce i progetti in atto. Anche le per-

sone più impegnate sanno qualcosa, ma non tutto: tant'è che

si parla di «mondo sommerso» e si lamenta la mancanza di coinvolgimento della zona che, invece, avrebbe «diritto a dire

la sua», a esprimere le proprie valutazioni e preoccupazioni. L'impressione è che stia tutto accadendo di nascosto — o se si preferisce lontano, a prescindere dal quartiere. Anche a Ponte Lambro — che pur è un’eccezione grazie al Laboratorio di quartiere — le cose non sono così facili, perché i ripetuti stopand-go imposti al programma e i continui tagli ai finanziamenti determinano un diffuso malumore che sconfina poi in un senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni. E questo è tanto più probabile quanto più il quartiere vede perdere quelle figure di mediazione con la realtà che nel passato hanno avuto invece una grande rilevanza. In terzo luogo, la perdita di leggibilità del territorio, l’aumento della eterogeneità della popolazione, i mutamenti nella stessa organizzazione della vita quotidiana — dovuti per esempio al traffico mutevole in base ai ritmi e agli orari delle diverse parti del quartiere o alla organizzazione di eventi particolari in una data zona in grado di determinare flussi anche consistenti di auto o di persone — associati alla formazione di un'immagine stigmatizzante di alcune aree imposta dai mass media, tende a far crescere tra la popolazione il senso di abbandono e di insicurezza. Il che minaccia uno dei dati distintivi di quest'area, che ha invece fatto della socialità di quartiere una risorsa importante per affrontare i diversi passaggi della sua storia. La sensazione è che si stia creando un mondo frammentato, fatto di logiche, tempi, velocità, orientamenti diversi, destinati

a non incontrarsi

perché tra loro incompatibili. In definitiva, se volessimo concludere con una metafora, la

ex-zona 13 dà il senso di un territorio che diventa sempre più un arcipelago, fatto però di isole che fanno fatica a comunicare tra di loro e la cui popolazione rischia di non incontrarsi mai.

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8.

Firenze, Isolotto-Torri un’eterotopia utopica

Cintoia:

verso

lo scioglimento

di

L’Isolotto: breve storia di un’eterotopia utopica

Il quartiere Isolotto-Torri Cintoia costituisce il nucleo centrale della circoscrizione amministrativa denominata «Quartiere

4» che si trova nella parte occidentale del territorio fiorentino, sulla riva sinistra del fiume Arno, lungo la direttrice che collega Firenze a Pisa e Livorno.

Il territorio sul quale insiste il Quartiere 4 ha una superficie di 17 kmq e una popolazione che, al 31 dicembre 2004, era pari a 66.602 abitanti, con una densità antropica di 3.918 abitanti per kmq, non molto dissimile al resto della città. Scendendo a livello di Unità territoriale omogenea elementare (Utoe), il quadro si specifica ulteriormente: l’area nella quale è stata realizzata l'indagine (grosso modo sovrapponibile con le Utoe di S. Bartolo a Cintoia, Isolotto Nord e Isolotto Sud) conta circa

27.000 abitanti e una densità antropica decisamente superiore alla media cittadina!°, La storia urbanistica del quartiere è legata a doppio filo con quella della città. La sua realizzazione come agglomerato urbano prevalentemente di edilizia residenziale pubblica (qui si concentra un quarto degli alloggi popolari della città) è infatti scandito dai diversi strumenti urbanistici che hanno interessato il capoluogo e ne hanno definito le direttrici di espansione. L'evoluzione del quartiere si compie interamente nel dopoguerra, quando si individua la zona dell’Isolotto — tra il quartiere del Pignone, la via Pisana e la cassa di espansione del fiume Arno — per localizzarvi uno dei due ingenti interventi abitativi!! finanziati dal Piano Ina-Casa: 1.500 unità alloggiative per circa 10mila persone. Un terzo degli abitanti del vecchio Isolotto è di origine extra-regionale, specie immigrati dal Sud Italia, arrivati a Firenze come addetti pubblici (in particolare delle forze di polizia), ma

!0 Tale densità va dai 12.258 ab/kmq dell’Isolotto Sud fino a scendere ai 3.545 di S. Bartolo a Cintoia. !! Il secondo intervento riguarda il quartiere di Sorgane, a Firenze Sud.

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vi si ritrovano anche profughi dall’Istria e dalla Grecia, migranti dalle campagne limitrofe, sfollati dal centro-città, emigrati dal Polesine. Nel secondo dopoguerra, arrivarono sul territorio più

di tremila individui che si trovarono a contatto l’uno con l’altro senza aver alcun rapporto sociale pregresso e non avendo, a priori, alcuna altra caratteristica comune se non l'essere stati assegnatari di un alloggio nel nuovo quartiere nascente. Come viene ricordato in un volume pubblicato a cura della Comunità dell’Isolotto!2, l'operazione compiuta attraverso il Piano InaCasa dei primi anni ’50 aveva l’ambizione di prevedere tutto in anticipo, costruire «come se» si trattasse di un insediamento

spontaneo, «come se» fosse un borgo rurale, «come se» fosse un paese fiorentino. In realtà, alla pianificazione degli spazi avrebbe dovuto affiancarsi una pianificazione sociale. Ma questo secondo lato della medaglia ebbe un’origine molto diversa, del tutto slegata dai disegni degli urbanisti: fu invece espressione di risorse umane e culturali specifiche che si vennero a incontrare proprio all’Isolotto. La prima di queste risorse è di matrice religiosa e nasce dalle esperienze di mobilitazione dal basso coagulatasi intorno alla Comunità di base creata da don Mazzi. Il contributo della Comunità nella storia del quartiere fu essenziale per trasformare una condizione di precarietà in un’avventura collettiva capace di avvicinare tutti (benestanti e operai, religiosi e laici, vecchi

e giovani, profughi istriani e fiorentini, meridionali e greci, militari ed insegnanti, comunisti e democristiani), e soprattutto di creare il necessario cemento sociale che andò a riempire di senso il lavoro degli urbanisti. Il lavoro della Comunità di base fu primariamente quello di favorire la predisposizione culturale all’accettazione dell’altro e della differenza, elementi che ancora oggi caratterizzano il nucleo storico del quartiere e che contribuiscono, almeno in parte, a definirne l’identità.

La seconda risorsa fu costituita dalla cultura che emanava negli anni ’50 e ’60 dal lavoro in fabbrica, cultura che contribuì enormemente

a forgiare quei giovani da poco arrivati in città.

2 Comunità dell’Isolotto, Oltre i confini. Trent'anni di ricerca comunitaria, Firenze, Lef, 1995.

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Lo sviluppo economico, il sindacato, la commissione interna, i

primi scioperi conferivano nuova consapevolezza della complessità e della conflittualità delle relazioni sociali. Anche questo versante contribuì in maniera decisiva a definire l'identità del quartiere.

Un terzo elemento è rappresentato dal ruolo svolto dal decentramento amministrativo, che ha reso il quartiere non semplicemente un’entità burocratica, ma un soggetto attivo, in grado di contribuire alla qualità della vita delle persone e di stabilire un reale contatto tra l’amministrazione e la realtà di tutti i giorni. Mescolando la dimensione propriamente istituzionale con quella carismatica — attraverso il contributo di un attivissimo e pluridecennale presidente di quartiere — si è riusciti a dotare il quartiere di una qualità elevata di servizi pubblici, investendo in modo particolare sulla scuola: sin dall’insediamento delle prime famiglie si avvertì la necessità di istituti scolastici all’interno della zona e subito si svilupparono richieste e pressioni in tal senso. L’attenzione nei confronti della scuola è stata una costante nella storia dell’Isolotto, sia dal punto di vista delle strutture che della qualità dell’insegnamento. La compresenza e l’incontro di queste diverse culture all’interno del quartiere ha creato delle condizioni particolari che hanno permesso la formazione di una socialità densa e accudente, ad alto capitale sociale, capace di tenere insieme la rile-

vanza dell'istituzione pubblica con il senso della partecipazione e della solidarietà tra i cittadini, l'accettazione del diverso con

la cura dei rapporti informali e interpersonali, la rivendicazione e il conflitto con l’idea di pace e di riconciliazione di matrice religiosa. Di questa socialità se ne trovano i segni ancora oggi, come

dimostra il fatto che, a poca distanza dalla biblioteca, troviamo il viale dei Bambini dove, una volta fatti i compiti, gli allievi della scuola della Montagnola — voluta dal primo comitato di genitori del quartiere che si opposero, all’inizio degli anni ’60, alla costruzione di un dancing — si ritrovano (da soli!) a giocare insieme agli amici, protetti da quel senso di «custodia sociale» che sembra impregnare l’aria; gli stessi piccoli sembrano averne consapevolezza quando raccontano i loro pomeriggi: «Se abbiamo fame andiamo al circolino dei vecchini; lì sono tutti molto simpatici. Scherzano, ridono, dalle sei in poi si mettono a ballare».

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Nel complesso, ancora oggi, dopo 50 anni dalla sua nascita, l’Isolotto storico appare come luogo «risolto», caratterizzato da un tessuto che mantiene tratti di tipo comunitario, carico di sto-

ria, denso di relazioni. Di quella vicenda, rimane un segno vi-

tale la vivacità e il calore relazionale che ancora si trovano nella

piazza del mercato, tra le bancarelle che offrono di tutto, dalla

verdura ai vestiti cinesi a buon prezzo. Tutto intorno, l’edilizia popolare, per quanto modesta, resta in buono stato di conservazione.

La difficoltà di estendere e di riprodurre il modello

A partire dagli anni ‘70, l’eterotopia utopica dell’Isolotto è stata al centro di processi di trasformazione intensi e contraddittori, le cui conseguenze si ritrovano molto evidenti sulla stagione che oggi sta attraversando l’intera area. Da una parte, quella spinta storica iniziale si è tradotta in una dinamica istituzionale di grande rilievo. E cioè, il punto di ricaduta dell’incontro tra la cultura religiosa della Comunità di base e quella operaia della fabbrica è stato il ruolo fondamentale che ha svolto nei decenni successivi l’unità amministrativa del quartiere. Per molti anni, l’amministrazione del quartiere è stata assai attiva e ha contribuito a ottenere importanti risultati dal punto di vista della qualità dei servizi pubblici e della cura degli spazi collettivi. Il quartiere, direttamente o in collaborazione con il Terzo settore, ha promosso centri di aggregazione per giovani e anziani; patrocinato l'instaurarsi di iniziative di microcredito attraverso il Fondo di solidarietà «Essere», che lavora sui micro-prestiti per persone in difficoltà utilizzando un fondo di aiuto sociale; disposto la creazione di giardini ed aree verdi in misura assolutamente superiore a qualunque altra area del comune; favorito la promozione di un tessuto di associazioni che innerva capillarmente l’intero territorio; istituito una solida rete di Servizi sociali rivolti

alle varie componenti della popolazione. A tale proposito, tanto per avere un’idea, va ricordato che sul territorio del quartiere è possibile trovare sei centri per anziani, cinque ludoteche, uno spazio pensato per ragazzi dai 6 ai 14 anni i cui genitori stanno

fuori casa per l’intera giornata, un centro d’ascolto per disagi familiari, tre luoghi di aggregazione e d’incontro per ragazzi dai 14

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anni in su, nonché varie iniziative culturali. Tra queste ultime, la

biblioteca di quartiere, autogestita da studenti universitari, il cui patrimonio librario — per qualità e quantità — fa impallidire tutte le altre biblioteche di quartiere. A ciò si aggiunga il grande impegno che è stato rivolto nei confronti delle popolazioni di nomadi presenti nella zona, sia sul fronte abitativo — con la costruzione di un villaggio stabile, con casette prefabbricate — sia su quello dell’integrazione sociale — con iniziative importanti dal punto di vista scolastico, lavorativo e relazionale.

Questa grande capacità del quartiere di organizzare e integrare la vita sul territorio è stata naturalmente possibile grazie alla sua capacità di farsi tramite con l’amministrazione comunale nel reperimento delle risorse. Ma, al di là degli innegabili successi, è proprio questo rapporto tra il dentro e il fuori, tra il quartiere e la città che ha costituito, col passare degli anni, il punto di maggior crisi del modello creato tra la fine degli anni 50 e il decennio degli anni ’60. L’Isolotto, infatti, ha dovuto col tempo fare i conti con uno

sviluppo urbanistico che ha seguito logiche differenti da quelle che si cercavano di sviluppare nel quartiere, creando ampie zone che avevano ben poco a che spartire con la sua anima. A poche centinaia di metri dalla piazza del mercato, lungo la direttrice del fiume, verso la Supestrada Firenze-Pisa-Livorno, si fa largo infatti un tessuto urbanistico diverso da quello che abbiamo descritto: si tratta di grandi casermoni di edilizia popolare costruiti a partire dalla fine degli anni ’60. Sono i quartieri dell’Argingrosso, di Torri Cintoia, della Casella, sempre nel Quartiere 4,

ma lontani anni luce dall’Isolotto. Qui, abbandonate le suggestioni «comunitariste» e la «poetica del quartiere» che avevano guidato il primo insediamento previsto dal Piano del ’54, i fattori significativi della progettazione propria della fase Gescal sono passati dalla «quotidianità» alla «funzionalità»: in luogo di insediamenti semi-intensivi si seguono le tecniche della prefabbricazione e l'opzione dell’edificio a macro-scala, su cui influisce la necessità di fare fronte al drammatico bisogno di alloggi e, a livello cittadino, il travagliato dibattito sul riposizionarsi di Firenze in chiave di città metropolitana e policentrica. In questi insediamenti, caratterizzati dalla bassissima qualità delle unità abitative, isolati e avulsi dal contesto in cui si inseriscono, è stata concentrata una popolazione che cumulava nu-

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merose situazioni di disagio sociale, con il risultato di rafforzare

l’idea di un quartiere problematico, mero agglomerato di microcosmi non integrati e separati da spazi vuoti.

E, in effetti, lontano dai livelli di integrazione dell’Isolotto,

in queste zone si sono costituite alcune piccole enclaves di marginalità ed esclusione, come la zona famigerata di via Canova (dove si trova un complesso di circa trenta edifici chiusi da ogni lato se non per un’unica via di accesso che si immette su di una strada a scorrimento veloce, e dove è stato concentrato un ele-

vatissimo numero di assegnazioni «sociali»), oppure la Casella (150 alloggi ultra-popolari detti «case minime», costruiti negli anni ‘50) e, ancora, l’Argingrosso (sul margine del fiume, dove

la scelta della macro-scala risulta inutilmente esasperata). Rispetto all’Isolotto, colpiscono i vuoti urbani non riempiti, insieme all’inesistenza di un «effetto quartiere» che traspare dalla scarsità e assenza degli spazi pubblici. Proprio la sensazione di ron appropriabilità degli spazi contraddistingue anche le modalità d’uso di una delle soluzioni architettoniche più ricorrenti nel quartiere, gli edifici 4 pi/ots che si caratterizzano per i lunghi porticati di pertinenza condominiale che avrebbero dovuto costituire, nelle intenzioni dei pro-

gettisti, luoghi comunitari per il vicinato: spazi coperti, protetti e in qualche modo intimi. Oggi sono spazi abbandonati, abitati da nessuno e da percorrere in fretta. Nonostante tutta l’opera del governo di quartiere degli ultimi 25 anni sia stata improntata dal tentativo di densificare con servizi i «vuoti urbani» creati da questo modello urbanistico così problematico, in queste zone i risultati sono stati modesti: fallite le esperienze spontanee di aggregazione come quelle delle corti condominiali; chiusi i pochi esercizi commerciali schiacciati dalla grande distribuzione; partiti i figli dei primi assegnatari. Il tessuto urbanistico e sociale, mai realmente compattatosi intorno ad un’idea di comunità o di quartiere, si crepa oggi aprendo interstizi che il disagio e il degrado hanno buon gioco a colmare. Le corti si trasformano in parcheggi o in contesti insicuri nei quali nemmeno il «Bibliobus», servizio promosso dalla biblioteca di quartiere, osa più sostare perché «quei rarissimi prestiti non ripagano dei rischi corsi e dei furti subiti»; i fondi commerciali passano freneticamente di mano, nell’attesa, forse, di un cambio di destinazione d’uso che consenta di trasformarli,

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come altrove in città, in mini alloggi da immettere sul famelico mercato immobiliare; scompaiono i negozi che permettevano ai residenti di fare la spesa senza recarsi al più vicino centro commerciale; gli anziani sono sempre più soli nei grandi appartamenti e diventano un’emergenza sociale con la quale tutti, anche la Chiesa, hanno difficoltà a entrare in contatto. Per loro,

l’unico punto di aggregazione è la piazza dell’Isolotto, ma non sempre sono così autonomi da poterci arrivare da soli a piedi. Resta come risorsa la solidarietà tra vicini, che riesce, almeno

in parte e solo in alcuni luoghi, a tamponare le emergenze, ma manca a ogni livello quell’elemento di custodia sociale che connota il nucleo storico del quartiere. In questa parte del quartiere, nonostante tutti gli sforzi e gli indubbi risultati ottenuti dal lato dell’integrazione sociale, affio-

rano di continuo nuovi problemi che tendono a indebolirne il tessuto interno. Come rivelano i dati, il territorio rimane esposto a tutta una serie di dinamiche. Il Quartiere 4 ha, insieme al quartiere Centro, una quota di età giovanile superiore alla media cittadina (come minore è l'incidenza degli anziani). Si tratta di un aspetto che da sempre denota questo quartiere: rispetto al resto della città, con il suo insediamento storico l’Isolotto ha espresso una piramide delle età con una base nettamente più ampia rispetto a quella rintracciabile negli altri quartieri fiorentini. Rispetto al territorio comunale, in questa zona si trova però anche la più bassa percentuale di laureati, mentre oltre la metà dei residenti ha titoli di studio

inferiori alla maturità. Va da sé che questa scarsa dotazione di capitale culturale determini significative ripercussioni anche sul profilo occupazionale della popolazione, caratterizzato da un alto tasso di attività giovanile associato a un elevato tasso di disoccupazione. È qui, dunque, più che altrove a Firenze, che si trova un’alta percentuale di soggetti che interrompono l’attività di formazione per entrare precocemente nel mondo del lavoro, restando a lungo in

attesa di un'occupazione. Qualora venga trovata, essa è tenden-

zialmente meno qualificata rispetto alle occupazioni svolte dagli abitanti degli altri quartieri. Tra gli occupati, infatti, la quota di professioni che richiedono specializzazioni medio-alte o livelli di responsabilità elevata è nettamente inferiore a quella stimata per l’intero comune.

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Certo, siamo lontani dall'idea stereotipata della periferia degradata, ma siamo lontani anche dall’Isolotto storico, dalle sue

speranze e dalla sua realtà. Se il modello che lì ha funzionato qua non porta i vantaggi sperati è probabilmente per una duplice ragione. La prima ha a che fare con l’indisponibilità di quelle risorse culturali che avevano costituito l’humus sul quale l’Isolotto ha potuto crescere. La seconda riguarda la dimensione dei problemi che un’urbanistica come quella realizzata nella seconda fase dello sviluppo del quartiere era destinata a provocare. La storia del quartiere — di quell’eterotopia utopica che ha conosciuto anche una qualche realizzazione — ha così dovuto scontrarsi con le conseguenze prodotte da logiche urbanistiche decise altrove, senza avere la capacità di incidere su di esse. E in

questo scontro ha dovuto misurarsi con l'impossibilità di riprodurre un modello che era venuto a costituirsi sulla base di un concerto di riferimenti culturali del tutto particolari, soprattutto nella loro capacità di combinarsi e integrarsi. Probabilmente, su questo destino ha pesato il fatto che, nell'immaginario collettivo cittadino, l’Isolotto è comunque sempre stato visto come una terra oltre il confine della Firenze perbene, un luogo di frontiera, prima discarica abitata dagli spazzaturai, poi contenitore dove erano stati mandati a condividere la comune marginalità «i poveri», ossia i tanti volti di quella numerosa e variegata popolazione a cui erano state consegnate le chiavi degli alloggi nel lontano 1954. Di fatto, la marginalità sociale dell’Isolotto — come periferia e come utopia — non è mai stata superata e ha pesato poi sul destino del quartiere, a partire dalle decisioni urbanistiche che le varie amministrazioni comunali hanno assunto nel corso degli anni. Verso lo scioglimento del quartiere

Negli ultimi anni, il quartiere sta subendo un'ulteriore trasformazione che ha a che fare con la nuova collocazione che esso va acquisendo nel disegno della città. Da quartiere operaio

di periferia, ultima cerchia della città centrale, esso tende a di-

ventare un territorio di attraversamento verso il nuovo polo ur-

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bano di Scandicci. Dal punto di vista urbanistico e sociale, le conseguenze sono principalmente due. La prima è che il quartiere conosce nuovi e significativi insediamenti, non più a prevalenza di edilizia sovvenzionata, ma di edilizia agevolata (quando non del tutto privata). Una tale tendenza rappresenta indubbiamente un elemento di riequilibrio per un quartiere che per storia e per cultura è stato popolare e operaio, ma rischia al tempo stesso di portare delle nuove discontinuità rispetto agli equilibri di convivenza già così faticosamente raggiunti.

La seconda conseguenza è l’indebolimento dei confini del quartiere, con le conseguenze che ciò determina sulla socialità interna. Nei sobborghi che circondano il quartiere nascono rapidamente nuovi rioni dove non c’è traccia della cultura dell’Isolotto, nonostante vi sia meno di un chilometro di distanza dalla

piazza del mercato. La scarna socialità che si riscontra in questi nuovi rioni è tale da spingere a chiedersi se dietro alle facciate color pastello esistano delle case abitate da uomini. Entrambi questi fattori — l’eterogeneità sociale della popolazione e la perdita dei confini — vanno nella direzione di un superamento di quell’idea, per quanto problematica, di un quartiere periferico integrato, capace di esprimere una propria cultura.

Girando per le strade e i palazzi in costruzione, di quell’eterotopia utopica che è stata alla base della vicenda di questo quartiere si fa fatica a conservarne persino la memoria. E sono ormai pochi, e soprattutto di una certa età, quelli che vivono il quartiere come una comunità nella città. Nelle nuove zone residenziali, gli interstizi della zona Gescal sembrano aver lasciato spazio all’aporia: difficile pensare in questo luogo a una declinazione di quell’idea di comunità affermata da don Mazzi e sostenuta dall’amministrazione di quartiere per tanti decenni. Anche perché l’intera zona si ridefinisce in modo funzionale rispetto alla città; il che le impedisce anche di provare a pensarsi come un'entità distinta e integrata.

Sfilando attraverso complessi abitativi apparentemente vuoti, tra cortili non usati e parchi giochi senza bambini, non si può non chiedersi cosa pensino di tutto ciò gli abitanti di questa nuova zona di frontiera, che esprimono il proprio bisogno di socialità e aggregazione migrando massicciamente non già verso la piazza del mercato a rincorrere tracce di una comunità

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alla quale non sentono, e forse non desiderano, appartenere, ma verso i non-luoghi della modernità liquida, come i centri commerciali e il Warner Village, sorti anche in questo quartiere, come ovunque. Qui sta formandosi probabilmente la nuova frontiera del quartiere, la nuova

periferia da studiare. Una realtà che non

può più essere letta tanto nella sua contrapposizione con il centro cittadino, quanto nel suo diventare interstizio, territorio di

scorrimento, quartiere senza qualità. Di questo cambiamento di clima gli abitanti non hanno chiara consapevolezza, anche se è diffuso un senso di disagio, come se si avvertisse di essere alla

vigilia di qualcosa che rischia di non essere piacevole. Gli stessi amministratori pubblici si rendono conto che la cultura che ha prevalso in quest'area sembra in via di dissoluzione e che si deve fare i conti con nuovi orientamenti culturali. Alcuni campanelli d’allarme hanno già suonato. In un contesto in cui la presenza della pubblica amministrazione è stata sempre così forte da anticipare risposte a bisogni che non erano ancora stati espressi e forse nemmeno percepiti come tali, essa rischia di essere intrappolata in una logica di mera conservazione del passato, incapace di riconoscere che i tempi sono cambiati. E quando invece vuole battere la strada opposta della promozione del nuovo, non sempre i vecchi modelli sembrano tenere, come dimostra il caso de «La Stazione di confine», un centro di cul-

tura e arti, di formazione e comunicazione, nato dalla collaborazione tra l'assessorato alla Pubblica istruzione del comune di Firenze e l’insieme di circa trenta associazioni e cooperative che

vuole offrire a bambini, giovani ed adulti un luogo di incontro e di scambio. Questo progetto non è in realtà mai decollato per mancanza di interesse da parte di un mondo giovanile che forse ha più bisogno di trovare autonomamente le proprie modalità di aggregazione. In definitiva, la ridefinizione in corso dell’intera area sembra

modificare un po’ tutto: la composizione sociale della popolazione, la sua collocazione nel quadro dello sviluppo cittadino, il quadro culturale di riferimento, il ruolo del pubblico e in spe-

cial modo del decentramento amministrativo basato sul Quartiere: Tutto ciò richiede la capacità di ripensare il territorio, ricostruendo delle dinamiche di socialità che non siano meramente

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occasionali o sovrastrutturali, così da impedire che lo scioglimento del concetto tradizionale di quartiere non sia anche la premessa di una ancora più grave disgregazione sociale. 9.

Bologna, Navile: da quartiere operaio a snodo funzionale

Un quartiere nel mezzo del cambiamento

Quale unità amministrativa definita dai confini attuali, il Navile nasce ufficialmente nel 1985, anno dell’ultima riforma del-

l’assetto dei quartieri cittadini — quando il numero si riduce da 18 a 9 e vengono accorpati tre precedenti quartieri della zona (Lame, Bolognina, Corticella) e incluse due zone di nuova co-

struzione (la Noce e la Dozza). A parte Corticella, che ha storia e caratteristiche peculiari

(per cui viene esclusa dalla presente analisi), lo sviluppo del quartiere è principalmente da ricondursi al secondo dopoguerra, quando la crescita industriale ha reso la fabbrica il cuore pulsante non solo della vita economica, ma anche di quella sociale. In quegli anni, il Navile ha rappresentato una delle zone dove la cultura operaia bolognese ha toccato i vertici della propria organizzazione e espressione.

Molto noto — anche perché scelto nel 1991 dall’allora segretario del Pci, Occhetto, per annunciare la svolta del suo partito

— la Bolognina è la parte di più antica tradizione operaia, che si costituisce già nella prima fase dell’industrializzazione della città. Fu quello un momento di significativo cambiamento per l'assetto territoriale dell'intera area urbana: pur mantenendo zone di campagna come Corticella, è in quel periodo che la città vede avviarsi un processo di prima industrializzazione che interessa inizialmente l’area della prima cintura, appena fuori le mura perimetrali, dove hanno inizio l'ammodernamento e l’in-

dustrializzazione della città. Proprio in Bolognina sorgono, inoltre, i depositi della ferrovia e quello dei tram. Nel secondo dopoguerra, lo sviluppo industriale, i finanziamenti del piano Marshall, il conseguente b0077 economico e

l’arrivo di immigrazione interna fanno emergere la necessità di un nuovo Piano regolatore, quello del 1958. Da questa pianificazione nascono nuovi insediamenti abitativi che si espandono

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su intere zone e che portano allo sviluppo di via Lame e a un’ulteriore crescita di Bolognina, i cui danneggiamenti causati dalla guerra riguardano, soprattutto nella zona della ferrovia, un 30% dei fabbricati già esistenti. Il contesto operaio contribuisce in maniera rilevante alla creazione di un tessuto sociale estremamente coeso e integrato,

con una fortissima consapevolezza di classe, rafforzata da uno spiccato radicamento territoriale. Questo elemento culturale è assai importante nel favorire l'assorbimento dei progressivi arrivi di manodopera proveniente prima dalle zone agricole della campagna vicina — dalla provincia di Bologna, quindi da Ferrara, da Comacchio e dal Polesine in seguito alle inondazioni del ’53 = e, successivamente, dal Sud Italia.

Attraverso piani di bonifica del territorio, zone come le Lame e parte di Corticella, in origine considerate isole da evitare, vengono

recuperate

attraverso

interventi urbanistici che

puntano a collegare il territorio con la città e a migliorare qualitativamente e quantitativamente il patrimonio abitativo.

Di quella vicenda storica rimangono sul territorio significative tracce urbanistiche soprattutto nell'ampia presenza dell'edilizia popolare, pur con caratteristiche diverse in relazione alle varie epoche storiche. Alla Bolognina, in particolare in tutta l’area che è a ridosso dell’ex mercato ortofrutticolo, si incontrano le costruzioni degli anni ‘30-40 accomunate dalla presenza di ampi cortili interni, le «corti», che in passato hanno rappresentato spazi di socialità condivisa per i residenti. A Lame, in zona Pescarola, si trovano edifici di proprietà comunale che risalgono invece ad anni più recenti e che, pur riproducendo i modelli standardizzati dei quartieri periferici, mantengono un elevato grado di decoro. Colpisce la cura che ancora oggi caratterizza sia gli edifici che il verde pubblico, segno evidente di una radicata socialità che ha sviluppato in maniera molto forte uno spiccato senso di appartenenza collettiva. Il punto di svolta avviene a partire dagli anni ‘80 con la trasformazione del processo produttivo della città: la terziarizzazione e il decentramento delle fasi di lavorazione cambiano il quartiere, che annacqua progressivamente la propria identità operaia e avvia un processo di trasformazione i cui esiti sono

oggetto della nostra osservazione sul campo. Basti dire che oggi il quartiere Navile è per Bologna la zona

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Dieci storie di quartiere

in cui vi è la più alta concentrazione di fabbriche dismesse, segno tangibile della fine di un’epoca. Al suo interno si trovano la Sasib, la Casaralta, la Cevolani e la Minganti, tutte fabbriche in

passato importanti (non solo a livello locale) e oggi chiuse. Con la chiusura delle fabbriche sono arrivati i centri commerciali e le nuove attività terziarie, che hanno cambiato il volto del territorio rendendolo sempre più uno snodo di collegamento e di passaggio tra diversi elementi strutturali della realtà bolognese. Il cambiamento, insomma, va nella direzione di ridurre l'identità

di quartiere per rafforzare invece la complessificazione funzionale del territorio. Dal punto di vista della mobilità, le due strade principali che collegano la città con il quartiere Navile e con la tangenziale e l’autostrada sono punti molto trafficati, dove è normale il for-

marsi di code di auto nelle ore di punta. Il sistema della mobilità è complesso: la direzione degli spostamenti degli abitanti del quartiere non è solo verso il centro, ma anche verso altri quartieri esterni, per motivi legati al luogo di lavoro, al tempo libero, alla rete familiare e amicale. Peraltro, si riscontra anche una mo-

bilità sostenuta dal centro e da altre parti della città verso il Navile per ragioni legate alla fruizione degli ormai numerosi centri commerciali. Per il futuro, si prospettano nuovi importanti cambiamenti infrastrutturali. Il quartiere, infatti, situato nella parte Nord della città in direzione dei comuni della Bassa Padana, ha una

collocazione geografica che lo rende uno snodo del futuro sviluppo di Bologna: in considerazione del fatto che la città si può espandere solo verso Nord — in quanto a Sud poggia sui colli e a Est e Ovest confina già con nuovi comuni — sarà proprio

il Navile, con i suoi 2 milioni di metri quadri di superficie in trasformazione, a subire i cambiamenti più profondi, come testimoniano le grandi operazioni urbanistiche annunciate. Queste ultime, più in particolare, riguardano le seguenti aree urbane: î) la stazione ferroviaria di Bologna. La costruzione in corso della nuova stazione interrata per i treni ad alta velocità rende necessario un intervento di ristrutturazione complessiva dell’insieme dei suoi edifici. Il vasto e articolato insieme di aree che la Rete ferroviaria italiana intende valorizzare con nuovi impianti si colloca a Sud della attuale ferrovia e interesserà il quartiere Porto. Il Navile sarà comunque coinvolto nel progetto costi-

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tuendo il fronte Nord per i nuovi edifici, pur se a tale scopo si renderà necessaria la revisione delle connessioni tra il centrocittà e la Bolognina, oggi lasciate al solo ponte di Galliera e a un sottopasso; îî) il comparto urbanistico dell’area del vecchio mercato ortofrutticolo. Si tratta di un’estensione di circa 30 ettari, di fon-

damentale rilevanza nei processi di riqualificazione e riequilibrio dei servizi per tutto il quadrante Nord-Ovest della città, soprattutto in relazione alla vicinanza con la stazione centrale, il previsto collegamento diretto con l’aeroporto, la città storica a Sud e l'integrazione con il progetto della nuova sede degli uffici comunali (progetto in corso di realizzazione sul margine Est dell’area). Il nuovo piano prevede la realizzazione di oltre 92.500 mq di residenza (1.200 alloggi e uno studentato da 6.500 mq), oltre 17.000 mq di altri usi terziari e commerciali, 2.000 mq per un nuovo ostello cittadino e oltre 15.000 mq per attrezzature pubbliche. Al momento si stima che possano essere realizzati 300 alloggi di edilizia sociale in questo comparto; it) il comparto urbanistico Bertalia-Lazzaretto. Esso interessa la zona tra la ferrovia, la tangenziale, l’area Pescarola e

Lame, dove è in corso di completamento la progettazione urbanistica complessiva di un nuovo quartiere integrato a destinazione residenziale e universitaria. Una volta realizzate queste nuove funzioni, del vecchio Navile resterà ben poco, nel senso che le condizioni della socialità

che si erano venute a creare nell'epoca dell’industrializzazione e del quartiere operaio saranno completamente sparite. Ed è rispetto a questo mutamento strutturale che le trasformazioni sociali debbono essere lette.

La frammentazione del tessuto sociale

Cambiamenti così imponenti dal punto di vista strutturale sono accompagnati da profonde trasformazioni anche dal lato delle popolazioni che abitano il territorio. E in effetti, anche solo osservando i dati demografici è possibile intuire le principali direzioni di tali mutamenti. Le statistiche ci dicono, prima di tutto, che a partire dalla fine degli anni ’90 si è registrato un picco di crescita della po-

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polazione anziana. Se si prende come riferimento la serie storica 1994-2004, la quota di coloro che hanno più di 65 anni è aumentata nel quartiere del 6% circa, più della media comunale. Gli operai di una volta sono oggi pensionati e continuano a pesare numericamente sul quartiere. Specularmente, la variazione percentuale del totale della popolazione tra 0 e 24 anni è negativa (-10%), ma mentre la fascia infantile cresce quella giovanile diminuisce. Infatti, la variazione in percentuale, rispetto al

994, della popolazione residente tra 0 e 10 anni è del 35% — un tasso di crescita che spiega la necessità di incrementare l’offerta di asili nido, scuole materne e elementari, come richiesto anche

dalle famiglie residenti. Al contrario, la popolazione 14-18 è in diminuzione, con un tasso negativo del 22%, che sale addirit-

tura a quasi il 41% per la fascia 19-24 anni. In considerazione del fatto che la fascia adulta tra i 30 e i 44 anni, nel periodo 1994-2004, ha visto un aumento della variazione percentuale del 16%, mentre la fascia 45-64 anni vede, negli stessi anni, una

diminuzione percentuale dell’11% circa, si può concludere che nel quartiere è in atto un importante ricambio di popolazione: è come se i figli della classe operaia — la generazione oltre i 40 anni — se ne andasse, mentre arriva una nuova ondata di fami-

glie giovani — almeno in parte immigrate — che ridanno slancio demografico all’area. Sulla base di questo quadro generale, dal punto di vista sociologico è utile distinguere almeno quattro strati che oggi abitano il quartiere e che contribuiscono a complessificarne enormemente la dinamica interna. Il primo strato è composto dagli anziani, difensori (un po nostalgici) della cultura locale, appartenenti all’antica classe operaia. L’autosufficiente e propositiva realtà operaia che ha dominato e plasmato la vita del quartiere per gran parte del Novecento rimane presente in modo molto significativo nell’area, ma ha cambiato completamente il suo ruolo. In larga misura, si tratta di persone in pensione, che mostrano un fortissimo sentimento di attaccamento al passato, ai «tempi d’oro» delle fabbriche, quando nel quartiere tutto funzionava bene, si viveva con

un grande spirito di solidarietà, si producevano fermenti culturali — occasioni di impegno politico e sociale — e momenti ricreativi che sostenevano la socialità quotidiana. AI di là dell’ine-

vitabile idealizzazione del passato, rimane pur vero che per una

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generazione che ha vissuto in un contesto caratterizzato da una profonda condivisione di valori e stili di vita, quanto sta accadendo appare come una disgregazione pericolosa; per qualcuno, forse anche come la fine di un sogno. Rintanati nei tantissimi e attivissimi centri sociali di cui ancora pullula il quartiere — dove peraltro i giovani non vanno, al di là di qualche sporadico tentativo di coinvolgimento — i vecchi operai si guardano intorno, chi interessato a capire i cambiamenti, chi disorientato, chi spaventato perché non riconosce più il proprio quartiere, ma quasi tutti ancora capaci di attingere energie da quel sapere di partecipazione politica e civile, di auto-organizzazione e iniziativa che ha caratterizzato tutta la loro vita. Rimane comunque notevole il patrimonio di cultura civica di quell’esperienza, che si traduce in una straordinaria attenzione verso il proprio contesto sociale, a partire dalla cura del verde pubblico, considerato uno spazio condiviso verso cui ciascuno

è responsabile e se ne deve fare carico. Non è inutile ricordare che proprio in questa zona sono state condotte alcune esperienze significative, quali ad esempio quella degli «orti sociali», che hanno intrecciato in modo originale la dimensione pubblica e quella privata: su terreni di proprietà comunale, sono allestite sette zone ortive recintate, dotate di impianti di irrigazione e autogestite dagli assegnatari, tutte persone anziane. Attraverso tale attività, oltre a favorire la socializzazione tra gli anziani, si è an-

che prodotta una funzione importante di riferimento e vigilanza del territorio. Un secondo strato di popolazione è costituito dall’invisibile generazione di mezzo. Girando per il quartiere — soprattutto nelle zone più caratterizzate dalle tracce della tradizione operaia — è facile porsi la domanda: ma dove sono gli adulti? Per le strade, nei bar, nei circoli, si vedono, infatti, solo anziani e gio-

vani. Ma la generazione di mezzo sembra invisibile. In realtà, la spaccatura rispetto al passato va cercata in questa generazione, in larga parte costituita dai figli di quegli operai ancora oggi orgogliosi del loro passato. In buona misura, quella generazione di mezzo è andata a vivere altrove. In ogni caso, non ha più la stessa esperienza della fabbrica dei genitori. Il lavoro si è molto diversificato nel tipo di attività — con la diffusione del terziario — e nella disposizione spaziale. Contrariamente a quanto avveniva nel quartiere operaio, gli adulti

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lavorano in tutta Bologna e anche fuori. A dire il vero, gli adulti li si vede ancora: nei pressi dei centri commerciali. Ma non è detto che siano quelli che abitano nel quartiere. Venendo meno questa generazione, viene a mancare un anello di congiunzione fondamentale tra la generazione dei nonni e quella dei nipoti. Il risultato è l'enorme difficoltà di trasmettere quei valori e quelle pratiche che hanno fatto la storia del quartiere, come per esempio la capacità di auto-organizzazione, la partecipazione politica, la consapevolezza del singolo di avere identità e responsabilità civiche e civili, le reti di socialità.

Il terzo strato riguarda la popolazione giovanile, un mondo in crisi. Le tante trasformazioni in atto sembrano infatti concentrare molte ombre sul mondo giovanile, che denuncia un grande disagio esistenziale. I dati raccolti dalla ricerca parlano di un utilizzo diffuso di alcol e droga, di intere giornate trascorse al bar, di bassi livelli di scolarizzazione superiore, di

mancanza di sbocchi lavorativi sia per chi esce presto dalla formazione scolastica sia per chi ha una preparazione scolastica di livelli superiori. Nell'insieme, emerge un quadro di un mondo giovanile in difficoltà, carente di stimoli, di iniziative, di capacità propositive.

Senza farsi prendere da un pessimismo di maniera, il dato che emerge è quello di giovani che non sembrano avere né punti di riferimento né idee per il loro futuro. Come se il territorio in cui vivono — non sentito pienamente parte di una città vivace

quale è Bologna — fosse incapace di offrire spunti e occasioni per la loro vita. Il che determina un rapporto complesso verso il quartiere, nei confronti del quale emergono sentimenti ambivalenti: rifugio e insieme prigione, protezione e insieme ostacolo. Dalla maggior parte dei ragazzi, il quartiere viene vissuto come una sorta di isola, anche se non sempre felice, ma dalla quale non si vuole o non si può uscire. Alcuni ragazzi riconoscono il bello del vivere nel quartiere, di conoscersi tutti, di sentirsi a casa, protetti; ma tanti finiscono anche per chiudersi in gruppi estremamente autoreferenziali, con pochi stimoli e curiosità verso l'esterno. Questo radicamento localistico porta a situazioni di conflitto nella definizione degli spazi di pertinenza, magari in contrapposizione con il circolo sociale dove si ritrovano gli anziani accusati di non tener conto delle esigenze dei ragazzi. Altri giovani, invece, appartenenti in particolare a famiglie che

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provengono dal Sud Italia e si sono trasferite a Bologna quando i figli erano piccoli, hanno un legame con il territorio dettato soprattutto dal non sentirsi riconosciuti, dal non identificarsi con il quartiere, dal non sentire Bologna come la propria città. Negli ultimi anni si sono verificati atti di vandalismo che possono essere letti come espressione di un disagio latente e come richiesta di attenzione da parte dei ragazzi. Un punto di forte criticità che trova terreno fertile nel disorientamento giovanile è l’affermato fenomeno del traffico di droga. In Bolognina, via Barbieri — una lunga strada alberata della zona — è conosciuta come luogo di spaccio a livello cittadino, dove è facile rifornirsi di qualsiasi genere di sostanza. Se il problema oggi non è emergente come negli anni ’80, probabilmente è solo perché si tratta ormai di un’abitudine assimilata. Infine, il quarto strato di popolazione riguarda gli ir727zigrati, il cui radicarsi risulta silenzioso e qualche volta problematico. Si tratta di una realtà molto variegata al suo interno. Una prima comunità è quella cinese: nella zona di Bolognina risiede il maggior numero di abitanti cinesi rispetto a tutto il territorio bolognese. La comunità cinese, presente già nel 1934, ha trasformato la zona di via Ferrarese dando vita a una Chinatown bolognese. Secondo i dati elaborati dal censimento 2001, nella zona dell’area statistica di via Ferrarese, l'incidenza della

popolazione straniera è più del 7% sul totale della popolazione. La stragrande maggioranza degli stranieri a Bolognina è composta da immigrati cinesi, cui seguono i marocchini (un terzo di quelli residenti a Bologna risiede infatti nel quartiere Navile). A queste comunità, si devono poi aggiungere i rom, che sono presenti nel Navile con quattro campi nomadi abusivi e un campo sosta attrezzato e autorizzato. Relativamente al tema degli immigrati, la situazione si presenta come sospesa. In un’area che ha sempre fatto della cultura della solidarietà e dell’internazionalismo la propria bandiera è chiaro che è difficile trovare atteggiamenti di esplicita chiusura e di rifiuto. E, tuttavia, ciò non significa che manchino le difficoltà. In primo luogo, la percezione sociale rispetto agli immigrati rileva che essi sono visti, nel migliore dei casi, come ospiti o più

diffusamente come presenze problematiche che contribuiscono a rendere il proprio territorio sconosciuto, diverso e alle volte

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Dieci storie di quartiere

più insicuro. In particolare, la presenza storica della comunità cinese inserita alla Bolognina — caratterizzata da un alto livello di separazione — tende a generare un forte senso di diffidenza, anche se in questi ultimi anni tale comunità sembra mostrarsi di più al territorio attraverso l'apertura di esercizi commerciali. In secondo luogo, nel quartiere sono presenti gravi ed evidenti situazioni di emarginazione e sfruttamento. Ad esempio,

quindici numeri civici di una via del quartiere appartengono a un unico proprietario che affitta appartamenti e altri spazi non idonei ad abitazione. Le circa 150 cantine degli stabili sono state infatti convertite in monolocali abitabili, affittabili a stranieri per 250 euro al mese. Mentre proprio sul bordo dell’area si trova il famigerato «condominio degli stranieri». Pur trattandosi di situazioni-limite, che sarebbe sbagliato generalizzare, questi casi segnalano comunque l’ipotesi che l’arrivo di queste nuove popolazioni possa rischiare, nei fatti, di dare avvio alla definitiva fine dell’idea di quartiere e di città di cui i vecchi operai erano stati portatori. Peraltro, la tendenza sembra essere quella del consolidamento di zone, dentro il quartiere, in cui si concentrano strutture dedicate a vario titolo all’esclusione sociale, nonché di zone caratterizzate da un forte degrado abi-

tativo (come il campo rom di via Gobetti, le fabbriche dismesse occupate abusivamente, le tavernette di via Barbieri).

A questo proposito destano qualche preoccupazione i destini del cosiddetto Lazzaretto, che si configura come

un’area

abitativamente vuota in cui si è scelto di concentrare alcune delle strutture a elevata criticità sociale per la città, tra le quali: il nuovo dormitorio a «bassa soglia» per persone senza dimora inaugurato nel dicembre 2005, avente 60 posti fissi e un ca-

pannone per altri 60 posti utilizzabili durante i mesi invernali; tre strutture di seconda accoglienza per gli immigrati regolari; un’area sosta, autorizzata nell'aprile 2006, per nuclei familiari

rom sgomberati nel maggio 2005 da un’area abusiva; una struttura dedicata a una sperimentazione abitativa per malati psichiatrici gestita dall'Azienda sanitaria locale. A tutto ciò si deve infine aggiungere una casa colonica abusivamente occupata nella quale convive un gruppo di giovani che si autofinanzia organizzando feste e affittando alcuni spazi della casa per eventi musicali con famiglie rom. Il rischio è quello di creare una concentrazione così elevata

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di problemi sociali da avere difficoltà enormi nella gestione interna e quindi riflessi negativi sull’intera area circostante. La cultura del collettivo in un’epoca di frammentazione

I mutamenti economici e urbanistici, che si sono susseguiti

negli ultimi vent'anni, i progetti di riorganizzazione funzionale dell’area, il nuovo 772x sociale che si va delineando, spiegano la

profonda trasformazione del quartiere Navile e la perdita — crediamo irreparabile — di quella omogeneità sociale e culturale che è stata per tanti anni il suo punto di forza. Ciò apre tutta una

serie di questioni relative ai futuri sviluppi. Indubbiamente, i quartieri del periurbano — come è il Navile — costituiranno il punto cruciale su cui si giocherà molto del futuro di Bologna. Al loro interno, sulla base delle sollecitazioni che il cambiamento determina, è possibile leggere oggi le principali sfide che la vita sociale incontrerà nei prossimi anni. La memoria ancora viva della loro storia nonché della loro socialità contrassegna questi quartieri come territori che dispongono di molte risorse e molte potenzialità. Nonostante le numerose difficoltà che sono state segnalate, non si dovrebbe infatti dimenticare che il Navile mantiene ancora oggi un’identità molto forte, caratterizzata dalla radicata consapevolezza di essere un quartiere integrato, prima ancora di appartenere alla città. Una consapevolezza che non si trova con la medesima intensità in tanti altri quartieri, magari più centrali e economicamente agiati.

Inoltre, stiamo parlando di una città e di un quartiere nei quali il ruolo delle istituzioni è da sempre importante e capace di raggiungere significativi risultati. Al di là della contrazione delle risorse finanziarie a disposizione, dei problemi di programmazione,

delle incertezze

attorno

al tema

del decentramento

amministrativo, le istituzioni pubbliche continuano a essere considerate dai cittadini dei soggetti attivi e degli interlocutori importanti per lo sviluppo urbano e sociale. Infine, soprattutto nella zona delle Lame, rimane ancora

forte la capacità di auto-organizzazione del sociale e l’associazionismo, soprattutto delle persone che hanno a cuore il quartiere e ne sono appassionate. La parte della popolazione che è più attiva e vivace spesso è la prima ad intuire i problemi e a cer-

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Dieci storie di quartiere

care soluzioni, senza aspettare lo stato e le istituzioni, pur non

rinunciando a sollecitarne l’azione. Associazioni culturali impegnate politicamente su tematiche attuali come l'immigrazione e i vari Sud del mondo, centri sociali anziani, associazioni sportive, comitati che si occupano

della cura del verde pubblico e delle condizioni abitative, realtà parrocchiali, sono tra le presenze che rimangono ancora molto significative e che rendono questo quartiere capace di esprimere anche oggi una socialità autonoma e responsabile. E tuttavia, nella complessità del quadro che abbiamo definito, in questa epoca di transizione in cui il quartiere cambia la sua struttura e incontra nuove popolazioni, emerge la necessità di acquisire una maggiore consapevolezza delle proprie risorse;

consapevolezza che non sia meramente auto-celebrativa, ma capace di coinvolgere anche chi sembra rimanere ai margini di tale vitalità territoriale. Per far sì che la conflittualità e le difficoltà di convivenza di oggi, anziché produrre paure e chiusure a volte violente, vengano convertite in laboratori per nuove soluzioni, è

necessario trovare i modi per realizzare una trasmissione di quel patrimonio di saperi relativo al vivere insieme di cui il territorio è gravido. Ed è attorno a questa sfida che tutta la storia del Navile e di Bologna è chiamata a misurarsi. 10. Torino, Barriera di Milano: emiferia fragile Barriera, un’emiferia dentro una città in movimento

Barriera di Milano non può essere considerata una periferia in senso classico, ossia un luogo marginale da un punto di vista geografico, economico, culturale, sociale e territoriale. Non

ha quei peccati originali che hanno i grandi complessi abitativi, segregati spazialmente. Barriera è piuttosto una zona interme-

dia della città, geograficamente schiacciata tra il centro e la periferia, strattonata tra spinte di sviluppo contemporaneamente centripete e centrifughe. Essa sta nel mezzo, fragile e disorien-

tata, timorosa che le trasformazioni che la stanno attraversando

possano farla diventare periferia senza essere nata propriamente come tale.

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Per cogliere la realtà del quartiere è necessario considerare sinteticamente il quadro cittadino. Torino è oggi una città che risente dei benefici provenienti dalla potente scossa delle Olimpiadi invernali 2006. Facendo superare lo stato di sfiducia che la crisi del settore manifatturiero, e in particolare della Fiat, avevano determinato, le Olimpiadi hanno creato uno spirito di coesione che da anni mancava alla città, spirito che si è poi espresso nella percentuale di voti straordinariamente elevata che il sindaco ha ricevuto alla sua rielezione, nella primavera 2006.

Torino «always on the move» è stato lo slogan proposto dall’amministrazione comunale per accompagnare il processo di trasformazione della città. E il movimento effettivamente c’è stato,

a dimostrazione che aggregati così complessi e dinamici come le città contemporanee

possono

avvantaggiarsi enormemente

dal-

l’identificazione di un grande progetto collettivo capace di attirare risorse materiali e finanziarie e costituire al tempo stesso comuni (anche se provvisori) riferimenti simbolici. A Torino, l’idea della «città a progetto» ha trovato una concreta realizzazione. Il successo dell’operazione è dovuto a molteplici fattori. Per quello che qui interessa, si può dire che non ci si è limitati al centro, ma si è guardato anche alle periferie. Un censimento del 1990 evidenziava a Torino la presenza di cinque milioni di metri quadrati di aree dimesse: i grandi edifici industriali non erano più in uso e rimanevano scoperte alcune grosse cicatrici

che dividevano la città. Le grandi aree non più produttive costituivano infatti delle spaccature innaturali e illogiche nel territorio, creando comparti che non riuscivano più a comunicare.

Dalla metà degli anni ’90 sono stati avviati numerosi progetti di trasformazione urbana e di dotazione infrastrutturale, a par-

tire dal Piano regolatore generale: l’interramento della ferrovia che nel passato divideva la città (con conseguente ampliamento della superficie vivibile), la costruzione della metropolitana e del passante ferroviario (che prevede il potenziamento della ferrovia come asse di trasporto pubblico a livello urbano e extraurbano), i progetti di riqualificazione urbana e sociale delle periferie costruite in tutta fretta tra gli anni ’50 e ’70 per ospitare gli immigrati provenienti dall’Italia meridionale. Il lavoro di riqualificazione delle periferie ha tra l’altro inserito Torino in una rete internazionale formata da alcune grandi città europee impegnate nel ripensare i propri sobborghi, con

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l’intento di verificare le metodologie di intervento più consone per questo tipo di interventi. Nel corso degli anni, Torino ha accumulato un buon bagaglio di conoscenze, analisi e pratiche che la mettono tra le città all'avanguardia a livello europeo. Ad oggi, si può dire che il lavoro sulle periferie ha, a Torino, una significativa tradizione, che le permette — tra l’altro — di non avere nessuno dei suoi territori in stato di abbandono. Molti dei soggetti intervistati dichiarano che Torino non ha periferie e che è una città policentrica con un forte centro. In questo quadro, in cui si è lavorato sul centro e sulla periferia, va affiorando una nuova questione, che ha a che fare con le erz:ferie, quelle parti della città disegnate all’inizio del Novecento con la prima industrializzazione e la prima immigrazione, poste a corona intorno al centro, popolate storicamente da una certa aristocrazia operaia e confinanti, ma non coincidenti, con le pe-

riferie vere e proprie. ] Barriera di Milano è una di queste. È un territorio inframmezzato, interrotto e frastagliato che si differenzia in modo sostanziale dalle periferie su cui il comune di Torino si è sempre confrontato e nelle quali la riqualificazione è avvenuta con riferimento ad ampie porzioni di territorio. In effetti, chi vive a Barriera non si sente in periferia. Anzi,

Barriera ha molti centri al suo interno ed è molto vicina al centro della città. Anche i processi che hanno avuto luogo nel quartiere non sono mai stati periferici rispetto alla vita della città: nel passato, i fenomeni produttivi legati alla grande industria hanno avuto proprio in Barriera uno dei fulcri principali, come pure le conflittualità sociali alle quali, nel corso degli anni ’70, si deve il

raggiungimento di importanti traguardi rispetto ai diritti sociali e di cittadinanza. E ancora oggi, il quartiere è protagonista dei grandi fenomeni infrastrutturali e migratori. Ciò significa, altresì, che Barriera di Milano non è né centro né periferia: da un lato, essa non è infatti abbastanza centrale da attrarre risorse e investimenti capaci di valorizzare il territorio; e dall’altro, essa non è nemmeno così degradata da risultare

oggetto di politiche specifiche, in una città dove tali politiche si cerca per tradizione di svolgerle. Il che la fa scivolare in un cono d'ombra, in un interstizio dove i processi avvengono al di fuori di un disegno strategico, quasi di risulta, poco più che effetti secondari.

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Il problema è che l’intervento sulle emiferie ha bisogno di strumenti specifici, diversi da quelli impiegati nelle periferie. Ciò di cui c'è bisogno, in modo particolare, sono interventi di micro-chirurgia e un nuovo modo di interpretare la partecipazione. Anche da un punto di vista urbanistico, Barriera di Milano

non ha i caratteri dell’edilizia pubblica dei quartieri periferici. È costituita quasi totalmente da edilizia privata, perché gli abitanti hanno nel corso del tempo acquistato gli alloggi. Il che significa che un eventuale intervento va organizzato con un setaccio molto fine e con una logica partecipativa molto più orientata alla simmetria tra il pubblico e il privato, piuttosto che alla dissimetria tipica degli interventi di riqualificazione sul patrimonio dell’ente pubblico, che si confronta con i propri affittuari. Per tutte queste ragioni, si è ritenuto interessante e per certi

aspetti provocatorio prendere in esame Barriera di Milano, un quartiere che a prima vista potrebbe apparire incongruente con i presupposti di una ricerca sulle periferie. Un tessuto urbano che perde di consistenza

La conformazione del territorio non aiuta il quartiere a combattere le spinte che vanno tutte nella direzione di una crescente frammentazione.

Nel passato, Barriera di Milano era effettiva-

mente circondata da barriere che riducevano la comunicabilità con il resto dei territori circostanti, barriere derivanti dai grandi complessi industriali che separavano il quartiere dal resto della città. Quel confine, che un po’ isolava e un po’ proteggeva, oggi non c’è più, perché le grandi industrie dismesse sono in fase di abbattimento e saranno presto sostituite da altrettanto grandi complessi edilizi. L'unica barriera ancora oggi esistente è posta al confine Nord, dove c’è il «trincerone», una ferrovia in disuso che separa il quartiere dal borgo limitrofo.

Dal punto di vista urbanistico, Barriera di Milano è suddivisa in quattro sottozone, che corrispondono alle zone censuarie e ad altrettanti borghi, peraltro non sempre conosciuti dai cittadini. Queste zone sono molto diverse tra loro e creano un quartiere dai tanti volti: il borgo Montebianco,

cuore storico,

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con le sue vecchie costruzioni di inizio Novecento, oggi è abitato soprattutto da stranieri che possono trovare alloggi a prezzo

contenuto. Il borgo Monterosa, geograficamente centrale, è costituito da case di ringhiera di inizio secolo e da abitazioni realizzate negli anni successivi, dove si è concentrata soprattutto l’ondata migratoria degli anni ‘50 e ’60. Il borgo Maddalene è più composito, con zone dove si trovano belle case degli anni °60 e ’70 (oggi abitate dagli ex colletti bianchi e da professionisti, la zona «bene» di Barriera) e altre in cui prevalgono le case popolari costruite secondo le logiche urbanistiche che negli anni °80 hanno disegnato tante periferie italiane: grandi anonimi casermoni destinati all’edilizia popolare. Al margine Est si trova infine il borgo Cimitero, poco abitato, adiacente al cimitero generale, composto da piccoli caseggiati. Nell’insieme, si osserva la quasi totale mancanza

di verde,

che è un problema fortemente percepito, soprattutto dalle giovani famiglie e dagli anziani. La complessità della conformazione urbanistica di per sé costituisce una ricchezza e un’opportunità, offrendo la possibilità di costruire percorsi e occasioni differenziate che possono rendere vivace la vita del quartiere. E in effetti, passeggiando nell’area si osserva l’esistenza di piazze e vie dove è possibile incontrarsi, soprattutto nelle giornate in cui c’è il mercato rionale. E tuttavia, tale complessità viene esaltata dalla perdita della centralità della fabbrica e dalla conseguente riduzione della omogeneità della popolazione. Se nel passato Barriera aveva costruito una sua identità legata attorno al ceto operaio, oggi invece il territorio è abitato da strati di popolazione piuttosto diversi, che spesso lo segmentano anche al suo interno. Isolati dove si concentrano professionisti e impiegati, aree dove si trovano ormai in prevalenza immigrati — con delle micro concentrazioni etniche, come nel caso dei ci-

nesi —, palazzi dove predominano gli anziani. Questi gruppi non hanno ambiti comuni di riferimento, ma usano il quartiere secondo tempi e modi del tutto differenti. Così si assiste all’alternarsi di popolazioni diverse nelle varie ore del giorno e della notte, anche negli stessi posti, come a segnalare l’incomunicabilità che esiste tra i diversi gruppi. Convivere con la diversità non è mai facile: e così nel quartiere si notano dinamiche di costruzione di margini simbolici

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che contribuiscono a tagliare e a separare il tessuto di un quartiere che è ormai sfibrato. Come nel caso del gruppo di giovani che frequenta una parrocchia del quartiere a cui non era mai capitato di vedere quelle vie, situate a poche centinaia di metri dall’oratorio, dove notoriamente esiste una forte concentrazione di famiglie con problemi sociali. La propria vita quotidiana non si incrocia con questa popolazione, che diventa così invisibile. Lo spezzarsi del territorio è ulteriormente accentuato dal suo coinvolgimento nelle trasformazioni della mobilità cittadina. I grandi e ariosi corsi che lo attraversano da Nord a Sud offrono grandi possibilità di comunicazione con l'esterno della città (l’autostrada Torino-Milano) e con la periferia Sud. Questa direttrice è oggi attraversata della metropolitana leggera n. 4, la più lunga della città, che parte dall’estremo Sud di Mirafiori e arriva a Falchera. La costruzione della metropolitana — così preziosa per l’intera città — non ha però migliorato la viabilità e le comunicazioni interne al quartiere. Le ha, anzi, peggiorate creando una frattura, perché la sede dei binari non può essere attraversata, e questo costringe pedoni e automobilisti a faticosi giri tra le strettissime vie di un quartiere già denso e trafficato. Un ulteriore fattore di frammentazione è dato dall’arrivo degli immigrati, un processo che sta avvenendo in modo piuttosto graduale e silenzioso. Di solito, gli stranieri che vanno ad abitare a Barriera di Milano, aspirano a diventare cittadini, portando con sé la famiglia e il più delle volte acquistando la casa.

I migranti stanno arrivando a Barriera in modo del tutto spontaneo, secondo una logica di mercato. Il risultato è un’estrema complessità del mondo immigrato: in un centro di formazione per adulti sono state contate, nel solo anno 2005, 58 etnie.

Nonostante non ci siano grandi conseguenze in termini di disordine sociale, questo nuovo fenomeno contribuisce a cambiare profondamente la percezione del territorio e le sue prospettive per il futuro. L’emergere di nuovi problemi sociali

Un riscontro oggettivo della trasformazione che è in corso nel quartiere viene dalle valutazioni degli operatori sociali, dal

mondo della scuola ai Servizi sociali, che concordemente segna-

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lano la presenza di rilevanti problemi sociali. In effetti, i dati sull’immigrazione, gli alti tassi di disoccupazione, di insuccesso scolastico e di bassa scolarità e l’alto numero di casi seguiti dai Servizi sociali fanno intuire che il tessuto sociale si sta effettivamente indebolendo, tanto da alimentare il timore che una quota significativa di popolazione possa subire una progressiva deriva verso l'esclusione sociale. In sostanza, dietro l’apparente tranquillità che sembra ancora caratterizzare il territorio si coglie la presenza di una tensione latente ma in qualche modo già palpabile. Nonostante una loro forte presenza, le stesse istituzioni temono di non avere sotto controllo la situazione. I tassi di disoccupazione sono tra i più alti della città. La fascia di età maggiormente rappresentata tra i disoccupati è quella tra i 26 e i 45 anni. Gli over 45 sono persone espulse dal mondo del lavoro e oggi utenti dei Servizi sociali. E, d’altra parte, il quartiere ha anche tra i più bassi livelli cittadini di scolarità, nonostante la popolazione sia tra le più giovani, il che evidentemente costituisce un aspetto di grande preoccupazione. In un’area dove la densità della popolazione è quattro volte superiore a quella del resto della circoscrizione e tre volte superiore a quella della città di Torino, gli operatori sociali di Barriera raccontano del moltiplicarsi delle situazioni di povertà vera, sia tra le famiglie italiane sia tra quelle straniere. In una scuola della zona Monte Bianco, il 70% degli alunni è straniero e il 40% delle famiglie è seguita dai Servizi sociali. Nelle famiglie che fanno più fatica a raggiungere la fine del mese prevalgono quelle che hanno subito una separazione o dove ci sono problemi di alcolismo o di violenza. Queste indicazioni relative alla diffusa presenza di situazioni di povertà sono confermate dall'aumento delle nuove cartelle sociali, delle richieste di case popolari (quasi il 14% proviene dalla circoscrizione VI, di cui fa parte il quartiere) e delle domande giunte ai Centri di ascolto della Caritas. Anche i commercianti dichiarano di rendersi conto di operare in un quartiere nel quale una povertà grigia e sottile si sta impadronendo lentamente della quotidianità di molte persone. Peraltro, sono in aumento i casi di persone che chiedono aiuto per disturbi psichiatrici e che fanno uso di psicofarmaci, come è in continua ascesa l’uso e lo spaccio di droghe, rinno-

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vando così la tradizione che vede Barriera di Milano tristemente famosa per avere una delle piazze di eroina più importanti della città e per avere tra i più alti tassi di soggetti tossicodipendenti. La diffusa presenza di una tale molteplicità di fattori di disagio economico

e sociale spiega perché Barriera sia uno dei

quartieri torinesi in cui la sensazione di ansia rispetto alla sicurezza risulta così intensa: gli abitanti si dichiarano soddisfatti dei presidi sanitari, delle attività commerciali, dei trasporti e delle scuole, ma sono insoddisfatti per il senso di insicurezza che si

respira sulle strade e chiedono più presenza delle forze dell’ordine. A questo proposito, è interessante notare che le paure che i cittadini manifestano non corrispondono agli atti di vittimizzazione di cui essi sono stati protagonisti. Ciò che spaventa maggiormente è la rapida sostituzione della popolazione, lo spaccio e la microcriminalità, i minori che delinquono, il degrado ambientale ed edilizio. Esistono però anche dei luoghi che vengono identificati come porti sicuri: i grandi centri commerciali e gli oratori. In questi contesti ci si sente protetti dai pericoli esterni, finalmente rilassati e tranquilli. Barriera ovvero l'incertezza di una trasformazione

La chiave di lettura con la quale si può leggere quanto sta avvenendo a Barriera è quella di un quartiere che, da un lato, ha già perso le sue connotazioni tradizionali e, dall'altro, risulta al centro di una trasformazione dettata da logiche che trascendono largamente il quartiere e che su di esso semplicemente proiettano alcune delle loro conseguenze, più o meno previste. Barriera si sta ridisegnando in modo complesso dentro a una trasformazione di grande portata e ampiezza. Il tessuto artigiano, di piccola impresa e commerciale, che pure esiste e in alcuni settori è anche significativo, deve convivere con insediamenti che rispondono a dinamiche globali (si pensi all’Iveco, situata nella stessa circoscrizione), mentre le grandi opere infrastrutturali, con le relative trasformazioni urbanistiche — che rispondono a logiche inerenti, i primzis la circolazione delle merci sul piano cittadino e regionale — determinano importanti conseguenze sul disegno del territorio. Da questo

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punto di vista, il problema è essere capaci di ricollocare il quartiere dentro le linee di questo sviluppo complesso. Quel che è certo è che la sua identità tradizionale, in grado di sostenere una cultura e una socialità, si è già svuotata, così

come la sua organizzazione urbanistica interna è già stata compromessa. Ulteriori trasformazioni sono poi attese per i prossimi

anni. La sua tradizionale vocazione ad essere luogo di accoglienza, terreno di immigrazione — ieri delle popolazioni provenienti dal Sud Italia oggi di quelle provenienti dal Sud e dall’Est del mondo — rende Barriera un terreno dotato di permeabilità e flessibilità. Ma non si deve dimenticare una differenza: nel passato, la vocazione all'accoglienza era sostenuta dalla capacità di assorbimento della nuova popolazione dentro i contesti lavorativi che erano le fabbriche, e che ora non ci sono più. La conseguenza sulla vita quotidiana dei residenti la si riscontra nel fatto che è l’incertezza a dettare il tono delle dichiarazioni raccolte nel corso della ricerca sul campo. È come se un sottile e impercettibile senso di disagio si sia impossessato dei suoi abitanti, un velo che è difficile cogliere ad una lettura superficiale della realtà. La crisi che sta attraversando il quartiere è profonda perché nasce dalla perdita della sua tradizionale collocazione nel contesto cittadino: una parte di città, nata per essere di supporto alle fabbriche, non può più svolgere quella funzione sociale e produttiva perché le fabbriche sono state chiuse. Quella funzionalità storica, che ha costituito un baricen-

tro socio-economico e ha offerto un motivo di sviluppo consistente (basti pensare che in uno dei corsi più vitali di Barriera, nell’arco di un chilometro ci sono ben 9 agenzie bancarie) in grado di definire il quartiere e la sua socialità, non c’è più. Gli abitanti percepiscono che il quartiere è in bilico tra un passato che sembra ormai sfuggire di mano e sussistere solo per inerzia e un futuro a cui manca ancora una prospettiva. Chiuse

e trasformate le fabbriche, dove saranno occupati gli abitanti? Oggi si assiste ad un ricambio generazionale, perché i vecchi operai sono in pensione e i nuovi abitanti non sono le famiglie dei figli degli operai, ma le giovani famiglie straniere che, superata la crisi dell’arrivo, si sistemano in questa parte della città in cui le case sono a buon mercato, perché vecchie e mai ristrut-

turate. Ma difficilmente questi nuovi abitanti possono aspirare a trovare una qualche collocazione lavorativa a Barriera di Milano.

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L'illeggibilità del mutamento e l’incertezza che ne consegue trovano involontario riscontro anche nella sfuocata rappresentazione che Barriera ha oggi nell'immaginario torinese. Nel passato, il quartiere oscillava tra due poli opposti: da un lato, quartiere popolare fiero di un passato costruito negli anni in cui la fabbrica edificava la storia della città e, dall'altro, quartiere

popolare insicuro e invaso dalla microcriminalità e dallo spaccio di droga. Questo sdoppiamento della percezione collettiva si è sviluppato soprattutto dagli anni ’80, quando «quelli di Barriera» riempivano gli episodi di cronaca nei quotidiani locali con fatti di spaccio, microcriminalità, teppismo. La fatica dell’integrazione, che il quartiere ha effettivamente conosciuto proprio nel momento in cui il tessuto sociale e culturale della fabbrica cominciava a venire meno, è arrivata sino al grande pubblico,

mentre sul territorio l’eroina falcidiava le giovani generazioni che non erano riuscite ad inserirsi in una società che viveva il passaggio dal fordismo al postfordismo. Oggi il quadro si è ulteriormente complicato. Da un lato, infatti, si osserva che tutti gli intervistati rifiutano in maniera categorica l'appellativo di periferici. Dall’altro lato, la stampa tende a descrivere il quartiere secondo le tradizionali categorie del disagio: l’attenzione viene concentrata sulla fragilità individuale e sociale. Si narrano storie di individui fragili o violenti, vittime o aggressori, accomunati da una profonda solitudine esistenziale ancor più che dalla deprivazione economica, privi di reti sociali di protezione e sostegno. E così pure si narra del cambiamento, con un quartiere in trincea, dove una cittadinanza attiva fronteggia continue emergenze, di ordine sociale e strutturale — come la presenza massiccia di immigrati, il soffitto della scuola che crolla, la lentezza nelle ristrutturazioni urbane — interpellando e dialogando con le istituzioni locali. In realtà, queste rappresentazioni non fanno altro che restituire un quadro sconnesso e frammentato di quanto accade nel quartiere e contribuiscono, seppure involontariamente, ad aumentare il senso di insicurezza e di confusione che domina le percezioni dei suoi abitanti.

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Le risorse vitali e i loro limiti

Queste osservazioni portano a considerare un ultimo aspetto. Barriera di Milano, come altre zone di Torino, dispone infatti di un ricco capitale sociale, fatto dell'intreccio tra una buona tradizione amministrativa e una fitta presenza di associazioni della società civile. Abbiamo già accennato al ruolo delle istituzioni sia cittadine sia circoscrizionali. Di fatto, Torino — e Barriera in particolare - hanno una tradizione importante di presenza delle istituzioni pubbliche sul territorio. Ancora oggi, la qualità del sistema dei Servizi sociali e la rete delle scuole rimangono a livelli piuttosto elevati. A ciò si aggiunga che a Barriera la ricchezza delle realtà associative è notevole. I dati ufficiali stimano la presenza di 173 associazioni sul territorio circoscrizionale e 42 nel quartiere di Barriera di Milano. Molte di queste risalgono agli anni ‘70 e sono l’esito e la trasformazione dell'impegno politico o ecclesiale di quel periodo. Le associazioni nate in quegli anni hanno un forte radicamento

sul territorio a differenza delle nuove

associazioni, nate

successivamente, che coniugano l'impegno locale con lo sguardo e i collegamenti extralocalistici, specialmente internazionali. Anche la Chiesa è molto radicata sul territorio e le parrocchie continuano

a essere un elemento vitale. Ciò nonostante,

la fatica a sintonizzarsi con i bisogni espressi dalla nuova situazione è davvero grande, anche perché a modificarsi non è solo il quadro sociale, ma anche — e più in profondità — quello culturale. Di fronte a questi mutamenti, le parrocchie appaiono come disorientate perché si sta modificando il concetto di norma e normalità che interroga i codici morali del patrimonio religioso di cui esse sono depositarie. Nell'insieme, questo ricco tessuto associativo esprime un certo senso di disorientamento e dimostra di risentire esso stesso di quel senso di confusione che si respira nella società, tanto da dubitare del proprio ruolo e soprattutto da interrogarsi sul proprio lavoro e sulla propria presenza. In effetti, una matrice del problema sta anche nel venir meno dei tradizionali canali di rappresentanza sociale, che oggi risultano più deboli e meno compatti di una volta. La loro frammentazione, oltre a rendere più difficile la comprensione

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di ciò che accade nel quartiere, spinge i cittadini a tentare di confrontarsi con l’istituzione in modo diretto e autonomo, con

il risultato che i temi sui quali ci si concentra sono quelli più immediati e facilmente percepibili, come l'ordine, la sicurezza, il controllo e la manutenzione ordinaria del territorio. Il che finisce per divaricare ancora di più il modo in cui il quartiere viene letto da parte dei residenti e da parte degli operatori: questi ultimi parlano di Barriera come di un quartiere a rischio per l’insicurezza in relazione all’impoverimento e all’emarginazione sociale, mentre i cittadini sottolineano gli aspetti più legati al disordine e alla difficoltà di controllare il cambiamento. Lo sforzo che occorre realizzare è proprio quello che va nella direzione di ricomporre questi due livelli di comprensione del territorio, prendendosene cura nella sua complessità. Ma si

tratta di un lavoro ancora in larga parte da inventare, che necessita di nuovi protagonisti e di logiche di intervento differenti dal passato. Qui sta la difficoltà, qui sta la sfida. Per Barriera di Milano questo passaggio sarà comunque cru-

ciale per decidere del suo futuro che oggi pare come sospeso tra due scenari tra loro opposti. Il primo presenta una deriva depressiva, in cui prende il sopravvento la paura che la coesione sociale — tradizionale caratteristica del territorio — questa volta non tenga, e che le risorse e le differenze non riescano a interconnettersi per il gran numero di linee di rottura presenti sul territorio. A ciò si aggiungono il timore che la nuova conformazione del tessuto sociale — non più equilibrata tra abitare e produrre — lo scarnifichi e il rischio che nessuno stia veramente governando il processo di sviluppo del territorio, nonché il pericolo che il calo di produttività generi una permanente mancanza di prospettiva e di futuro. L’altro scenario è invece capace di valutare favorevolmente alcuni fenomeni in atto: dalla nuova linfa offerta dagli stranieri, visti come occasione per rivitalizzare l’area, fino all’arricchimento della complessità abitativa, urbanistica, economica e

strutturale del quartiere, che potrà traghettarlo fuori dalla monocultura che lo ha segnato negli ultimi decenni e farlo diventare più ricco e interessante, pur senza che esso perda le sue radici di socialità, solidarietà, senso della dimensione pubblica. Quale scenario sarà destinato a prevalere sarà il futuro a dirlo.

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