La bella compagnia
 8878703877, 9788878703872

Table of contents :
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Sopralluoghi 19

Collana diretta da Orio Caldiron e Matilde Hochkofler

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Orio Caldiron

La bella compagnia

Bulzoni Editore

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La cura redazionale del volume è di Maria Grazia Miccoli TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-387-2 © 2009 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

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INDICE

9

Segui quella macchina

13

Che cos’è una bicicletta

41

Campioni d’incasso

55

La lente smisurata

63

L’illusionismo voyeristico

71

Immagini di un’immagine

79

Strappalacrime

99

Il principe e lo starnuto

117

Sceneggiare all’italiana

125

Il totem e la lavatrice

145

Sogni impossibili

161

Il tempo e la storia

173

Note

207

Indice dei nomi

219

Indice dei film

7

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SEGUI QUELLA MACCHINA

«Eravamo un gruppo di quaranta, cinquanta persone fra registi, sceneggiatori, attori, direttori della fotografia, scenografi e costumisti. Ci frequentavamo, parlavamo, ridevamo, mangiavamo insieme, giocavamo a calcio. Era una bella compagnia. Anche perché tutti lavoravamo, tutti avevamo successo. Si facevano centocinquanta, duecento film all’anno e quindi non c’era neppure troppa competizione». La testimonianza di Mario Monicelli ripropone come in un flash il clima di una stagione irripetibile, gli anni fervidi e irrequieti che vanno dal dopoguerra alla svolta degli anni sessanta, dal neorealismo alla commedia all’italiana. Il nuovo cinema convive sin dall’inizio con il melodramma e il comico, che nel giro di un paio di stagioni arrivano in cima alla classifica degli incassi. La parabola del mélo italiano si rifà all’opera lirica e al romanzo popolare, altrettanti momenti di formazione dell’immaginario nazionale. Il modello che prevale è un cinema d’appendice, ripiegato sugli interni familiari e sulle vicissitudini del cuore, in cui le donne tendono a rubare la scena agli uomini. Ma alla metà degli anni cinquanta, lo sceneggiato televisivo comincia a sostituirsi al cinema strappalacrime, senza neppure cambiare i fazzoletti. Sul fronte del comico, i cantieri più produttivi sono quelli in movimento, che traghettano il vivaio di esperienze e scritture dello spettacolo leggero e dei giornali umori9

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stici in film di frontiera, singolari incidenti di percorso nel laboratorio del Dottor Frankenstein. Se Totò a colori lavora sulla struttura del film-rivista recuperando la stratificata archeologia teatrale del grande mimo, Il segno di Venere si serve dell’irriducibile inconciliabilità di attori diversissimi come Franca Valeri e Sophia Loren, Peppino De Filippo e Vittorio De Sica, Virgilio Riento e Alberto Sordi, Tina Pica e Raf Vallone, per anticipare estri e umori della futura commedia all’italiana. Nello scenario dei processi di trasformazione dell’industria culturale, sono numerosi i segnali di continuità tra il cinema e la televisione. Mentre sugli schermi si afferma il divismo seriale dei Pane, amore e fantasia e dei Poveri ma belli, l’antidivismo degli attori presi dalla strada confluisce nei programmi tv, che attingono a piene mani dalla irrealizzata progettistica neorealista, soprattutto zavattiniana. Il palinsesto della televisione degli inizi assorbe spunti e suggestioni del panorama cinematografico del periodo, dall’inchiesta al film a episodi, dall’adattamento letterario al fatto di cronaca, fermandosi solo davanti ai generi forti, dal peplum al western, nei confronti dei quali scattano meccanismi di rimozione e di censura. Il cinema comico entra in crisi negli stessi anni in cui la commedia all’italiana, conclusa la vampirizzazione di attori e di sceneggiatori, assicuratasi insomma corpi e parole, rivendica la sua autonomia e punta ambiziosamente alla serie A. Il pubblico si riconosce sempre di più nel “riso amaro” che sbeffeggia lo scenario antropologico nazionale, senza escludere la complicità. L’epos del quotidiano delinea l’itinerario grottesco di una discesa agli inferi in cui i mostri siamo noi. Negli anni successivi, la commedia cambia profondamente, ma è ancora vitale nella sua fiducia che il cinema 10

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possa coincidere con la memoria collettiva, continuando a dialogare con il tempo e con la storia. Nella convinzione che ridere e piangere sono importanti. Anche piangere dal ridere. Ricordate la scena del luna park di I soliti ignoti? Cosimo, nel goffo tentativo di recuperare la leadership della banda, monta in una delle piccole vetture dell’autoscontri guidata da un ragazzino e, come in un film-gangster, indica quella del rivale dicendo: «Segui quella macchina». Il passaggio di testimone tra Carotenuto e Gassman, tra comico e commedia, è la soglia mediologica che attraversa con allegria, malinconica e irresistibile, gli snodi affrontati negli anni precedenti e in quelli successivi dal cinema popolare italiano.

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CHE COS’È UNA BICICLETTA

Se pochi hanno colto meglio di André Bazin la novità programmatica di Ladri di biciclette, che sembra fare a meno degli attori, della storia, della stessa messinscena, inseguendo la durata reale1, in cui gli avvenimenti conservano l’integrità fenomenica salvaguardando tutta la loro singolarità e tutta la loro ambiguità, nessuno ha saputo ricondurre con più stringente coerenza di Gilles Deleuze la rottura neorealista a una più generale geografia del cinema contrassegnata dall’erranza, dall’aleatorietà dell’incontro, dal ruolo centrale del bambino, altrettante forme attraverso cui il neorealismo disgrega l’universo del cinema classico e dà vita alla strategia della veggenza che inaugura il cinema della modernità2. Nella stessa occasione il filosofo francese si chiede perché è toccato all’Italia e non a altri paesi inoltrarsi per prima nel nuovo territorio, rimettendo in discussione la drammaturgia tradizionale, come se il cinema dovesse ricominciare da zero con la «realtà dispersiva e lacunare»3 di Roberto Rossellini, i bambini dotati di un sovrappiù di visione e di sensibilità di Vittorio De Sica, «gli incontri frammentari, effimeri, spezzati, mancati» di Cesare Zavattini4. Si tratta di una domanda complessa che occorrerebbe riproporsi in modo sistematico anche per Ladri di biciclette, non tanto per collocarlo nella filmografia di De Sica e Zavattini tra la spoglia tragedia di Sciuscià (1946) e la incan13

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tata “eventicità” di Miracolo a Milano (1951), ma soprattutto per seguirne la lunga gestazione a partire dallo spunto d’avvio catturato da Zavattini nel libro omonimo ma diversissimo di Luigi Bartolini e via via modificato, elaborato, allargato, asciugato attraverso le diverse versioni del soggetto e della sceneggiatura5. Nonostante le grandi differenze culturali e psicologiche che contrappongono le personalità di De Sica e di Zavattini, la loro lunga collaborazione appare ancor oggi assolutamente eccezionale, tesa a scavalcare di continuo nella quotidiana realtà del lavoro cinematografico la tradizionale suddivisione di ruoli tra regista e sceneggiatore. L’avventura della lavorazione Solo addentrandosi nella straordinaria storia interna del film, dalla “sceneggiatura dal vero” che tesaurizza di volta in volta i minuziosi e reiterati sopralluoghi all’avventura di una lavorazione svoltasi prevalentemente per le strade, si può toccare con mano la complementarietà degli apporti principali dando a Cesare quello che è di Cesare e a Vittorio quello che è di Vittorio, senza trascurare il contributo significativo di Suso Cecchi d’Amico. Ma non è possibile comunque dimenticare il debito che la modernità di Ladri di biciclette ha contratto con la rifondazione cinematografica di Zavattini, il quale nel corso di una riflessione appassionata e battagliera, tra contraddizioni ingenue e anticipazioni geniali, ha più volte riconosciuto le inespresse potenzialità del cinema nella capacità di raccontare “ciò che sta accadendo”, di cogliere il “durante”6. Il 1947 comincia a Roma nel segno della speranza. La polizia annuncia di avere concluso un accordo con i boss 14

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della borsa nera, una tregua che dovrebbe assicurare la pace sociale e il ritorno alla normalità. Solo fino a pochi mesi prima la situazione era inquietante. La delinquenza minorile, la prostituzione, il gioco d’azzardo, il vagabondaggio dominavano la vita della capitale, in cui il banditismo rendeva malsicure le strade. Ma la tregua è di breve durata. Già da febbraio le notizie di cronaca sembrano altrettanti bollettini di guerra, pieni di bische clandestine, borseggi, aggressioni, furti, rapine, truffe, risse e tafferugli, scontri tra agenti e borsari neri, conflitti tra bande rivali. Spariscono dai mercati generali milioni di uova, quintali di zucchero e di burro, che i carabinieri ritrovano durante un’indagine sulle pasticcerie. Scoppiano scandali d’ogni genere, dallo smercio della valuta falsa al traffico della penicillina, dalla vendita all’estero di olio e bestiame al riciclaggio delle automobili rubate7. La realtà tumultuosa della capitale, dalla piaga di piazza Vittorio, sbalorditiva esibizione di mercanzie di dubbia origine, alla precarietà delle borgate, in cui tra cumuli di immondizie, buche e pozzanghere mancano strade e servizi, confluisce nella lunga gestazione del progetto di Ladri di biciclette, nella sceneggiatura scritta sulla pelle delle cose. Nei titoli di testa i nomi si moltiplicano, ma il mobilissimo motore del film è Zavattini, un vulcano di idee che segue contemporaneamente vari progetti, sempre in conflitto tra mercato e utopia, tra le richieste della committenza e gli azzardi della sperimentazione più radicale. Nel suo Diario cinematografico annota giorno per giorno le suggestioni della cronaca che potrebbero diventare film di grande attualità (come il caso del reduce che, travolto dalla disperazione e dall’indifferenza, annuncia il suo suicidio) e insieme le perplessità dei produttori che preferiscono puntare su storie più rassicuranti8. 15

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L’avventura era cominciata l’anno prima con l’uscita di Ladri di biciclette di Bartolini, una vivacissima incursione nella Roma occupata, in cui lo scrittore-pittore, protagonista e io narrante, appare con i suoi atteggiamenti anarchici e beffardi insieme con le modelle, le prostitute, i ladri, nella colorita bohème che attende la liberazione della città. Zavattini lo segnala a De Sica, dicendogli: «C’è da prendere il titolo e lo spunto». Subito conquistato dal progetto, De Sica fa il giro dei produttori. Si immedesima in tutte le parti, piange, ride, si commuove, si sbraccia, ma nessuno abbocca. Neppure i produttori stranieri, che avevano fatto i soldi con Sciuscià, hanno voglia di ritentare. Soltanto quando, dopo una disastrosa puntata a Londra, sta ormai per rinunciare, si fanno avanti tre amici pronti a finanziare il film, assicurandogli il modesto budget di cui ha bisogno9. Sin dall’inizio viene messo da parte il narcisismo del pittore e il clima festoso e picaresco, le equivoche ambiguità degli anni di guerra, sostituiti con un’ambientazione postdatata all’oggi, con le strade sterrate della borgata di Val Melaina e i suoi cupi casermoni, i disoccupati che aspettano davanti all’ufficio di collocamento, l’attacchino che disimpegna la bicicletta al monte di pietà perché finalmente ha trovato lavoro, il furto della bicicletta non appena prende servizio e sta attaccando un manifesto di Gilda, l’affannosa ricerca della bicicletta che padre e figlio compiono nell’indifferenza di una città estranea, ostile. L’accordo con Bartolini, che in un secondo momento si rimangia la parola sentendosi tradito dal cinema e vorrebbe ricorrere ai tribunali, assicura la più totale libertà di rimaneggiamento. Zavattini prende le distanze dal romanzo, ma al tempo stesso compie una sorta di abilissimo smontaggio strutturale della ricca materia narrativa del 16

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libro e la riorganizza intorno alla storia, semplicissima e lineare, dell’operaio e della bicicletta10. L’incontro con la Santona La rielaborazione della storia si accompagna ai sopralluoghi che, tra la fine del ’47 e l’inizio del ’48, De Sica fa con i vari collaboratori, soprattutto con Zavattini, con Suso Cecchi d’Amico, con Sergio Amidei, che a un certo punto passa la mano. «Vorremmo vedere, dare un’occhiata, per ragioni di cinema», dice Vittorio entrando nel postribolo di via Panico, dove si rifugia il ladro del film. La maîtresse, che era stata una nota fantasista del varietà, fa gli onori di casa dicendo al regista: «Siamo colleghi. Desidera vedere qualche stanza?». «Per ragioni di studio, studio di umanità», sussurra Vittorio. Quando se ne va, la direttrice lo saluta dicendogli: «Lei è padrone qui dentro, venga quando vuole, può studiare quello che vuole»11. Strepitoso è l’incontro con la Santona in una stradina di fronte a villa Torlonia. Non è una guaritrice, ma una che vede nel cuore delle persone, intuisce il loro futuro, le consiglia. Il personaggio è singolare, ha cinquant’anni, i capelli rossi, gli occhi spiritati. I clienti li accoglie nella camera da letto affollata. La Santona è seduta in una poltrona, ognuno racconta a alta voce le sue pene davanti a tutti, lei si dondola un poco invocando Gesù e poi esprime il suo parere come se fosse in trance. Qualcuno della troupe si spaccia per l’operaio a cui hanno rubato la bicicletta. La Santona gli risponde che non vale la pena affannarsi nelle ricerche, tanto la bicicletta non la trova. La Santona non riconosce De Sica, che invece molti dei presenti salutano, e gli chiede come si chiama. «Cosa vuole il nostro Vittorio?». Il regista non ha il coraggio di par17

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larle del film e chiede consigli per un giornale che dovrebbe fare. Andrà bene o andrà male? La Santona gli dice che non dovrebbe avere incertezze nella vita. Suso Cecchi d’Amico non vorrebbe sottoporsi alla prova, ma viene spinta a forza dal gruppetto che accompagna il regista. Suso ammette esplicitamente di occuparsi di cinema. «Avevo visto che hai una faccia strana», commenta la Santona. «Ma il film che stiamo facendo andrà bene?» La risposta è che vanno bene le cose fatte a fin di bene. Quando escono, Vittorio, parlando con il tono dell’oracolo in trance, dice che se la parte della Santona nel film la facesse la Santona verrebbe fuori una cosa bellissima12. Solo due giorni dopo, il 18 aprile 1948, che segna la clamorosa vittoria elettorale della Democrazia cristiana nei confronti del Fronte d’unità popolare, è finita la sceneggiatura, dopo una serie di sedute di lavoro nel salotto della casa ai Parioli, in cui Vittorio e Cesare si insediano al mattino per ricomparire solo all’ora dei pasti. Emi De Sica ricorda ancora che Zavattini, da buon padano, adora il parmigiano e ne fa fuori quantità spaventose in un periodo in cui è ancora un prodotto di lusso. Lo scrittore riporta nel Diario la versione definitiva della storia a cui aveva iniziato a lavorare nell’agosto dell’anno precedente13. La ricerca degli interpreti Nel frattempo è cominciata la ricerca degli interpreti. Sin dai suoi esordi, De Sica ha sempre avuto la mano felice nella scelta dei piccoli attori che appaiono nei suoi film, ma questa volta il bambino giusto non si trova, nonostante le centinaia di bambini carini, romantici, lisciati, imbranati che affollano i provini. Spesso si presentano in lacrime e si siedono su una sedia all’estremità della stanza. Nella fila dei 18

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genitori, De Sica vede un operaio che tiene per mano il figlio. Gli fa segno di venire avanti. Pieno di speranza, l’operaio spinge in avanti il bambino. «No, sei tu che mi interessi, non il bambino», gli dice il regista. Lamberto Maggiorani, il protagonista di Ladri di biciclette, è stato trovato così, dopo una cinquantina di provini insoddisfacenti. Avevano girato per mesi fra le impalcature delle case in costruzione in cerca della faccia giusta. Si era fatto un provino anche a Gabriele Ferzetti, allora giovanissimo e sconosciuto. Era bello e bravo, ma assomigliava troppo a Laurence Olivier. Si capisce subito che Maggiorani non è un attore, ma il suo modo di camminare, di muovere le mani callose conquista De Sica che lo trova perfetto. Si fa promettere che dopo i tre mesi di lavorazione non si sarebbe montato la testa e sarebbe tornato al suo lavoro alle officine Breda. Sente di avere nei confronti dell’operaio, che ha moglie e tre figli, una grossa responsabilità e incontra anche il direttore dello stabilimento, che si impegna a riprendere l’operaio alla fine del film. Neppure le ricerche per la moglie del protagonista sono particolarmente fortunate. Almeno fino al momento in cui una giornalista insiste per incontrare De Sica. Quando la vede venirgli incontro, dice a bruciapelo: «Ma questa è Maria». Sembra un’agnizione da feuilleton o una rivelazione da racconto confessionale. La risposta della donna rompe l’incanto e ci riporta sul set di un film in preparazione: «Non sono Maria, sono Lianella Carell, una giornalista che da giorni le chiede inutilmente di intervistarla. Il film non lo faccio, non sono un’attrice». Sembra che nulla possa farle cambiare opinione, ma non è facile dire di no a De Sica, che le prende la mano e le dice: «Il cinema ha bisogno di lei, del suo volto. Io ho bisogno di lei». 19

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De Sica fa tutte le parti Le riprese – senza il bambino che non è stato ancora trovato – cominciano con la sequenza in cui Maggiorani tenta di rintracciare Baiocco, l’amico che all’inizio lo aiuta a cercare la bicicletta. Non si può girare con tutti i curiosi che si affollano intorno per vedere il cinema. Quando si volta infastidito, De Sica vede una faccia tonda, un nasone buffo, degli occhi vivacissimi. «Questo me l’ha mandato San Gennaro», pensa il regista che si avvicina al bambino. «Vorresti fare del cinema?». «Sì», risponde Enzo Stajola, con la voce da adenoideo, gli occhi pieni di malinconia, il volto clownesco che ancora oggi conquistano gli spettatori. Luisa Alessandri, l’aiuto-regista della maggior parte dei film di De Sica, ricordava che sul set di Ladri di biciclette vola anche qualche schiaffone. Il regista come al solito dirige i suoi non-attori impersonando tutte le parti. Nel gergo della troupe si dice che fa recitare anche le sedie. Ma quando l’esempio e la buona volontà non bastano, ci vuole un po’ di sadismo. Prende da parte Maggiorani e lo insulta, gli dice che è diventato un ladro agli occhi del figlio poliomielitico che ha a casa, che tiene per mano il figlio vero, non Stajola. Il transfert tra il figlio della finzione e il figlio vero produce l’effetto desiderato. Le lacrime dell’ultima sequenza sono di cocente umiliazione. Quando anche Lianella Carell non riesce a esprimere l’emozione prevista dalla storia, De Sica la prende da parte e con la sua voce suadente le dice: «Ricordati i tuoi guai! Tuo marito è scappato in Francia, vive con un’altra donna. Tu sei sola con i tuoi bambini, li devi mantenere». E giù lacrime. Anche il piccolo Enzo non vuole saperne di piangere. Non servono a niente i pizzicotti e gli schiaffi. Qualcuno della troupe si avvicina a De Sica e gli dice: «Gli abbiamo messo delle cicche nella tasca, faccia finta di scoprirle e lo 20

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chiami ciccaiolo». Il regista accoglie subito il suggerimento. «Aho’», gli dice inchiodandolo alla sedia con l’indice teso. «Ce l’ha con me?», risponde il bambino. «Sì, perché sei un ciccarolo». Stajola si mette istintivamente le mani nelle tasche e, quando si accorge che sono piene di cicche, scoppia a piangere. Prova a difendersi, ma la sua voce è rotta dai singhiozzi. Si mette a piangere disperatamente, perché l’essersi fatto trovare con delle cicche in tasca per lui è un dramma14. L’aneddoto è uno dei tanti momenti della lavorazione complessa e faticosa di un film girato quasi sempre per strada, con pochi soldi, un solo taxi e un solo camion, una sola sedia per il regista. Il paradosso di Ladri di biciclette, come la maggior parte dei film neorealisti, è che il suono non viene girato in presa diretta assieme all’immagine, ma ricostruito al montaggio. Solitamente gli sceneggiatori non partecipano a questa fase, ma Zavattini è l’eccezione che conferma la regola: «Se vai a vedere certi film cui ho collaborato, come potrebbe essere Ladri di biciclette, vedi che non c’è, mi pare, un fotogramma di più. E lì ci ho lavorato anche in sede di montaggio. Due mesi alla moviola. Perché avevo passione, poi una scontentezza, come a scrivere su un foglio di carta. Un fotogramma in più io lo sentivo come un peso»15. Il sequel mancato Ladri di biciclette – tra Oscar e Nastri d’argento, uno dei film italiani più premiati in assoluto – ha rischiato di avere se non proprio un sequel almeno una seconda puntata che rimette in discussione l’utopia neorealista dell’attore preso dalla strada, anzi dalla fabbrica. Certo, Lamberto Maggiorani è tornato alla Breda, fedele alla promessa di non pensare più al cinema. Ma l’anno successivo, in un momento 21

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di recessione, è tra i primi a essere licenziato. Non sa dove sbattere la testa. Spera che De Sica possa aiutarlo, ma il regista gli ricorda che non è un attore, che gli ha prestato per tre mesi il suo volto, e che ora deve trovarsi un altro lavoro. Maggiorani non si arrende all’idea che nessuno voglia saperne di lui, che nessuno nel mondo del cinema lo possa aiutare con una piccola parte, giusto qualcosa per tirare avanti. A suo tempo De Sica aveva voluto proprio lui, Lamberto Maggiorani, rinunciando a Cary Grant che i produttori americani gli avevano imposto come condizione per finanziare il film. Ma De Sica aveva detto di no e aveva voluto Maggiorani. Possibile che non valga niente? Eppure le porte del cinema restano chiuse per il disoccupato di Ladri di biciclette, che rivive come in un incubo la vicenda del celebre film. La storia di Lamberto Maggiorani diventa nel 1952, subito dopo Umberto D., il soggetto intitolato Tu, Maggiorani, che registra con i toni scarni e essenziali le peregrinazioni dell’operaio che vaga disperato per le vie della città dove era stato protagonista per un giorno16. È stanco e smarrito. Passa davanti a un cinema dove si proietta Ladri di biciclette. Non vorrebbero farlo entrare, anche se è il protagonista. Ma finalmente entra e rivede il film. Si commuove e poi torna fuori. Nessuno si accorge di lui. La gente esce dal cinema, qualcuno si alza il bavero del cappotto, tutti si avviano verso le loro case riscaldate, dimenticando quello che hanno visto. Il soggetto è straordinario, uno dei più belli dei moltissimi che Cesare Zavattini ha scritto per il cinema e sono rimasti irrealizzati. Anche in Bellissima, il soggetto richiestogli da Luchino Visconti per il film del 1951, aveva espresso tutta la sua disincantata amarezza per le favole cinematografiche. Ma in Tu, Maggiorani va più a fondo, il suo atto d’accusa è più radicale, più estrema la sua insoddisfazione per le false illusioni, le confortanti bugie del 22

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cinema tradizionale. Forse per questo è rimasto sepolto tra i soggetti nel cassetto, che i produttori non hanno mai voluto prendere in considerazione. L’articolazione narrativa Si sono suggerite sin qui le vicende essenziali della lunga gestazione, ma è ora il momento di affrontare l’analisi del film. Sin dalle prime immagini, Ladri di biciclette s’impone allo spettatore con la singolare efficacia di quelle che saranno, ora svelate e ora nascoste, le contrapposizioni ricorrenti dell’intero film, sempre in qualche modo sospeso tra semplicità e complessità, spazio chiuso e spazio aperto, individuo e folla, traiettorie centrifughe e percorsi centripeti. La scrittura desichiana, che si muove con grande compostezza e fluidità lungo il tracciato narrativo, apparentemente impegnata a riproporre una sorta di punto di vista medio ancorato all’ontologia del reale, è una scrittura che proprio perché tende a nascondersi piuttosto che a mostrarsi, contribuisce a esplicitare ancora di più le polarizzazioni oppositive del film, esaltandone la struttura ritmica in una abilissima articolazione sinfonica, in cui paradossalmente sono l’eleganza dei raccordi, l’efficacia dei contrappunti, la saturazione degli elementi a svelare le tensioni interne del testo filmico, la sua straordinaria capacità di risolvere il mondo in immagine. Scandito da due fondamentali doppie dissolvenze, il film si articola in tre parti, tre blocchi narrativi di lunghezza diseguale e di differente organizzazione interna17. La prima, la più breve, è una sorta di lungo prologo che va dalla presentazione del quartiere di Val Melaina attraverso l’arrivo dell’autobus all’uscita dalla casa della Santona, quando Maria si sistema sulla canna della bicicletta di An23

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tonio e se ne vanno procedendo a zig zag: delle 737 inquadrature dell’intero film, questa prima parte ne comprende soltanto 98. La seconda parte va dalla inq. 99, in cui nella penombra della stanza da letto Bruno pulisce la bicicletta del padre sospesa ai ganci, all’inq. 227 in cui Antonio e Maria si dirigono straziati verso l’uscita dello scantinato con altre persone che finiscono per superarli, mentre continua la musica delle prove della rivista dei filodrammatici e in un’altra stanza si svolge la riunione della cellula del Pci. La terza parte comprende il blocco narrativo che va dall’inq. 228 in cui il tram scarica Antonio e Bruno a piazza Vittorio all’inquadratura finale, la 737, in cui Antonio e Bruno si allontanano mescolandosi alla folla che esce dallo stadio. È il blocco narrativo più lungo e complesso, articolato in nove sequenze, scandite da otto dissolvenze incrociate principali, che corrispondono a altrettanti momenti esemplari del viaggio-ricerca dentro la città: piazza Vittorio, Porta Portese, messa del povero, scena del fiume, sosta in trattoria, visita alla Santona, casa di tolleranza, quartiere dei ladri, tentativo di furto davanti allo stadio. La compattezza della drammaturgia tradizionale sembra contaminarsi già qui, nella disomogeneità delle tre parti in cui il film si articola, in una serie di squilibri e dispersioni, rarefazioni e addensamenti, che vengono configurando la drammaturgia neorealista sospesa tra innovazione e tradizione, classicità e modernità18. Nella prima parte, in cui non c’è ancora Bruno, il protagonista sembra essere Antonio con il problema del posto, «e pure bono, municipale», tanto atteso e subito compromesso dalla mancanza provvisoria della bicicletta, «ce l’ho e non ce l’ho», ma in realtà chi prende le decisioni è Maria, che con energia trova la soluzione in grado di risolvere la crisi. La seconda parte, in cui è centrale la bicicletta ritrovata e subito perduta, si apre sul rapporto tutto particolare, fatto di apprensiva amorevo24

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lezza, di Bruno con la bicicletta, per insistere dapprima sull’imitazione e la vicinanza con il padre, loro due che escono di casa in tuta per andare a lavorare, il saluto ripetuto di Bruno al padre davanti alla pompa di benzina, a cui corrisponde simmetricamente il viaggio di ritorno a casa così diverso e reticente, per concludersi nella scena dello scantinato con l’incontro con Baiocco, «M’hai d’aiutà, Baiocco», e il sopraggiungere di Maria, «Non so’ venuto a casa per non aver lagne», che esce di scena per tutto il resto del film. Tranne la sequenza collettiva di piazza Vittorio, dove la ricerca comincia con il piccolo gruppo di spazzini guidati da Baiocco, la terza parte è dominata dal rapporto tra padre e figlio, dalla progressiva lievitazione della presenza di Bruno, che dà vita a un complesso sistema di traiettorie visive e di sguardi incrociati. L’intreccio di percorsi Se si ripercorre il film sin dall’inizio – da quando l’autobus arriva a Val Melaina fino alle scale affollate dell’ufficio di collocamento, dalla chiamata di Ricci all’incontro con la moglie che ha appena riempito due secchi d’acqua alla fontanella, dall’ingresso in casa con la decisione di impegnare le lenzuola alla spedizione al monte di pietà con il recupero della bicicletta, via via, fino all’ingresso al centro affissioni con la bicicletta in spalla e alla visita alla Santona a via della Paglia – ci si accorge subito che la linearità del racconto si viene costruendo attraverso una straordinaria ricchezza di annotazioni in cui la studiata strategia delle simmetrie e dei raccordi amalgama un ampio intreccio di percorsi testuali e di implicazioni sottotestuali. Si pensi al gioco tra campi medi, lunghi e lunghissimi dell’incipit che scopre la campagna circostante e vi ambien25

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ta gli squallidi edifici del quartiere popolare, poi riproposti, dopo i campi ravvicinati dell’ufficio di collocamento, nel campo lungo in cui il giovane disoccupato va a chiamare Antonio che, rassegnato e disilluso, se ne sta in disparte accovacciato accanto alla fontana: un’inquadratura che oltre a un tratto distintivo del personaggio in corso di definizione coglie la realtà d’insieme del nuovo quartiere alla frontiera della città. La logica corporativa dell’impiegato del collocamento che va per categorie – «Sei de’ n’altra categoria», «E cambiame categoria» – è sopraffatta dalla folla di disoccupati, una parte non trascurabile degli uomini del quartiere che non vedono vie d’uscita a una situazione oggettivamente difficile, nonostante la conciliante razionalizzazione dell’impiegato e il suo invito alla pazienza. Quando poco dopo Antonio riattraversa lo spiazzo con in mano il foglio del posto, il suo è una sorta di percorso di guerra in uno spazio solo in parte urbanizzato, tra strade sterrate e terraines vagues, steccati e fili spinati, le code delle donne che con i secchi aspettano il loro turno per prendere l’acqua alla fontana. Il protagonismo un po’ teatrale di Antonio ruba la scena a Maria che lo segue arrancando sotto il peso dei due secchi pieni: soltanto quando la moglie scende dal terrapieno in equilibrio precario cercando di non cadere, Antonio si accorge della sua difficoltà e prende uno dei secchi. Lo slancio di Maria La drammatica intensità del momento – e la rabbia del posto a portata di mano e già a rischio – si stempera nei comportamenti e nei rituali della vita di coppia evocati dalla messinscena del corteo nuziale da parte di un gruppo di 26

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bambini in cui si imbattono Antonio e Maria, pronti a riprendere le schermaglie coniugali davanti all’ingresso dell’edificio in cui abitano, lei tutta preoccupata di non farsi sentire dagli altri condomini, lui deciso a ribadire la rabbia impotente e disperata tra un «mannaggia a me quanno so’ nato» e un «vie’ voglia de buttasse a fiume». Se nello spazio esterno fuori casa è l’uomo che comanda, o meglio mette in scena la tradizionale gerarchia del ruoli, nello spazio domestico dell’appartamento in cui vivono, la esagitata rabbia di Antonio si capovolge nell’immobilismo, prima sta fermo sulla soglia con il secchio in mano, poi si siede sul letto, con un atteggiamento apatico, di attesa, mentre Maria da quando entra nella camera da letto ha già preso in mano la situazione, tira fuori dal cassetto un pacco con le lenzuola nuove, fa alzare il marito e sfila le lenzuola dal letto e poi va in cucina dove con un calcio sposta la bacinella in cui ha messo le lenzuola sporche e gli rovescia addosso il secchio d’’acqua. E ancora lei che tratta con l’impiegato del monte di pietà, ribadendo le caratteristiche delle lenzuola e implorando una cifra almeno un po’ superiore, mentre solo in un secondo momento nel riquadro dello sportello si affaccia anche Antonio a ribadire la richiesta. Non siamo a casa, ma la nuova sequenza è in piena continuità con lo slancio decisionale di Maria, la sua energia propositiva avviata sin dalla cucina, anche se fuori casa è nervosa, si morde le unghie. Si sente che la sua sicurezza è messa alla prova. Il cambio di sportello segna l’avvicendarsi dei ruoli tra lui e lei, per cui il recupero della bicicletta è affidato esclusivamente a Antonio, che segue anche l’azione incrociata dell’individuazione della bicicletta tra le tante disposte verticalmente nel magazzino e la collocazione delle lenzuola in cima a una gigantesca scaffalatura, una sorta di abissale deposito delle miserie quotidiane della povera gente, ma 27

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anche una rappresentazione fortemente icastica dell’ineludibile rapporto tra merce e denaro. La contrapposizione tra spazio chiuso e spazio aperto si intreccia con la strategia della visione, che avrà un particolare sviluppo nella seconda e soprattutto nella terza parte del film, nella breve sequenza al di fuori del centro affissioni quando Antonio solleva Maria per farle vedere l’interno, «lo vedi quant’è grande», e nel brano più lungo e strutturato della visita alla Santona, indicata esplicitamente da una delle sue clienti come «quella che vede». La casa della Santona, che riceve direttamente nella propria camera da letto in un’assoluta promiscuità tra pubblico e privato, sacro e profano, familiari e clienti, proletari e borghesi, innesca un rituale da ultima spiaggia, una sorta di soglia di frontiera oltre la quale non c’è più nulla. Non è un caso che sia Maria a andarci per prima facendone una questione di riconoscenza, ma in qualche modo insegnando la strada a Antonio che ci andrà con Bruno durante l’affannosa ricerca della bicicletta, subito dopo la sosta in trattoria in cui sono le «candele e i santi de’ tu’ madre» a evocargliela. Se in quell’occasione la capacità di vedere della Santona, alla quale Antonio aveva in un primo tempo irriso, richiamandosi alla logica della «testa sul collo», si rivelerà invece singolarmente transitiva facendogli subito incontrare il ladro all’uscita in via della Paglia, la sua prima apparizione qui alla fine del prologo sembra suggerire una speciale investitura enunciativa come se i poteri che la superstizione popolare attribuisce alla Santona, miracolosamente sospesi tra i due slogan contrapposti di «quella sì e quella no» e di «dammi la luce», non fossero altro che una particolarissima incarnazione dei poteri visivi del cinema, un’icona della veggenza. La seconda parte del film si apre con la presentazione di Bruno, il deuteragonista del terzo e più articolato blocco 28

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narrativo, colto qui nel rapporto ravvicinato e stringente con la bicicletta, mezzo di trasporto privilegiato nei confronti degli autobus sovraccarichi ricorrenti a più riprese prima e dopo il furto, ma anche tramite di responsabilità e di appartenenza al nucleo familiare, mezzo di comunicazione all’interno dei rapporti tra padre e figlio, in cui il figlio – destinato a essere il paradigma di riferimento della strategia degli sguardi dell’intero film – “vede” più e meglio del padre. È lui che, dopo aver cercato di pulire la bici nella penombra, dice «nun ce se vede», è lui che si accorge della botta che le hanno inflitto al monte, è lui che prima di uscire si guarda allo specchio per sistemarsi i capelli e chiude le imposte perché la sorellina possa dormire. Il dramma annunciato La complicità tra padre e figlio, il sottolineato parallelismo tra i due uomini di casa, comincia con la frittata che la madre ha preparato per entrambi, prosegue nel viaggio in bicicletta che dalla periferia va verso il centro, si suggella nel momento della separazione quando Bruno entra nel chiosco della pompa della benzina mentre Antonio prosegue verso l’ufficio affissioni. Il movimento centripeto dell’andata si rispecchierà nell’inverso percorso centrifugo del ritorno che, avvenendo dopo il furto, è una sorta di simmetrico capovolgimento di prospettiva in cui l’insistenza su annotazioni sarcastiche e negative concorre a sottolineare la rabbia repressa del personaggio, il suo cupo e aggrondato disorientamento, lo scombussolamento topografico, altrettante avvisaglie di un dramma annunciato su cui Bruno comincia a rivolgere i suoi sguardi preoccupati, i suoi muti interrogativi. Nella lezione di attacchinaggio, che il collega più esperto impartisce a Antonio nel suo primo giorno di lavoro, il 29

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sogno, l’illusione cinematografica sontuosamente rappresentata dalla debordante Rita Hayworth di Gilda, si contrappone alla minuta realtà quotidiana dei due piccoli ambulanti che trotterellano accanto agli attacchini per chiedere l’elemosina ai rari passanti. Sono gli stessi due piani contrapposti che si ripropongono nella sequenza immediatamente successiva del furto, in cui Antonio sulla scala cerca di sistemare il manifesto di Rita Hayworth mentre sul marciapiede il gruppetto di ladri è in ricognizione, fa i sopralluoghi. Si direbbe che sia già in atto a questo punto qualcosa simile a una doppia regia, la regia dei ladri che si dispongono strategicamente nello spazio dell’azione imminente e la regia della narrazione nel suo insieme, due tracciati che confluiscono nel crocicchio delle strade e delle traiettorie visive, al centro del quale si ritrova lo stesso protagonista quando, inseguendo il ladro prima a piedi e poi in taxi, finisce con il riconoscersi nel ruolo del derubato che la furfantesca regia dei ladri gli ha riservato fin dall’inizio. Lo strappo del furto Quando ripercorre all’incontrario il tratto di strada che va dal tunnel a via Crispi, in cui stava attaccando il manifesto, è avvenuto lo strappo del furto, la rottura che taglia trasversalmente il percorso narrativo del protagonista tra prima e dopo, tra la mancanza temporanea della bicicletta poi recuperata e la sua perdita fortuita e irrimediabile, altrettante figure dell’assenza tra di loro stratificate come gironi infernali che vanno sempre più giù in una spirale di smarrimento e di paura. Il momento della cesura è rappresentato dalle inquadrature ravvicinate di Antonio che uscendo dal tunnel va verso la macchina da presa fino a un 30

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primo piano frontale, in cui si guarda attorno con gli occhi sbarrati e si asciuga il sudore con la mano dando il via alle soggettive attraverso cui cogliamo lo slargo, i pedoni, le automobili, un mondo disperso e frammentato che si configura come un caos, all’interno del quale di lì a poco arranca stremato, passando tra le automobili. Il nuovo primo piano frontale di Antonio seduto sulla scala, e come ripiegato su se stesso, suggella la sequenza del furto, riproponendo dal punto di vista di una più intima risonanza emotiva il momento della cesura in cui il mondo si inabissa nel caos, con il risultato di dilatare indefinitamente il senso di smarrimento. La terza parte del film si apre con la sequenza di piazza Vittorio, racchiusa fra il tram che scarica padre e figlio sulla strada mentre sullo sfondo gli spazzini sono a lavoro e il tram con cui si incrocia il camion della nettezza urbana che li conduce a Porta Portese. Si tratta di una lunga sequenza dal ritmo incalzante che accompagna il risveglio della piazza, l’indaffarato andirivieni degli ambulanti, l’allestimento progressivo delle bancarelle, il minuto accumulo delle merci, articolandosi nei modi di un percorso narrativo, intriso di elementi “documentaristici” in bilico tra fiction e non-fiction, che tende al catalogo e alla mappa. Nella struttura complessiva dell’intero film – e della terza parte che rappresenta il momento della ricerca della bicicletta e del viaggio all’interno della città – la sequenza ha un ruolo di grande rilievo in quanto squaderna davanti agli occhi degli spettatori, oltre a quelli ansiosi di Antonio, Bruno, Baiocco, Bagonghi, Meniconi, la frantumata realtà del tempo storico, la realtà in pezzi del dopoguerra, che bisogna ricomporre – ricostruire – per riconoscere. Il disorientamento successivo al furto sembra trovare qui il suo orizzonte più generale, quell’orizzonte epistemologico della frantumazione e della disseminazione a cui rimanda la nuova drammaturgia del neorealismo che ha 31

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consumato, o sta per consumare, il suo congedo dalla drammaturgia tradizionale con le sue certezze ottocentesche, nello stesso momento in cui si pongono le premesse per le tappe successive di una agitata deambulazione che attraversa da una parte all’altra lo scenario della città da Porta Portese alle piazze e ai vicoli di Trastevere, dalla chiesa della messa del povero ai lungoteveri alberati, dalla trattoria all’abitazione della Santona, dal quartiere dei ladri allo stadio. Il percorso topografico mette a fuoco la particolarissima geografia del film, la sua capacità di far lievitare gli esterni più anonimi e al tempo stesso di attenuare il fascino ridondante degli scorci più suggestivi, confermando la vocazione urbana e architettonica di un far cinema dal vero a cui l’impalpabile freschezza del “plein air” assicura le risonanze della spontaneità e della improvvisazione, nonostante le continue smentite dell’abilissima e sofisticata costruzione narrativa. Scesi dal camion della spazzatura, Antonio e Bruno restano soli sotto l’acqua battente. Non c’è più un centro del fotogramma, la prospettiva visiva tradizionale che fa capo ai protagonisti cede a una impostazione pluricentrica con focalizzazioni plurime. Sotto la pioggia, pedoni e ciclisti vanno nelle direzioni più diverse, nei piani sfalsati della strada e del lungotevere sopraelevato. Si accentuano l’incertezza e il disorientamento, l’impacciata solitudine dei protagonisti. Il gioco prospettico si moltiplica nell’inquadratura successiva, in cui la bicicletta in primo piano inaugura il frenetico e confuso fervore dello sgombero degli ambulanti, ma è anche una specie di cortocircuito allucinatorio che avvia i tracciati visivi e i rimbalzi degli sguardi dell’intera sequenza. Antonio e Bruno si immettono nel caos ma non sanno in quale direzione procedere. Vanno e vengono 32

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secondo un’erranza sempre più demotivata fino a quando si riparano sotto il cornicione. Se Bruno rivolge sempre di più i suoi sguardi inquirenti al padre – volta a volta interrogazioni, verifiche, richieste di complicità – quella di Antonio nei confronti del figlio continua a essere una sorta di comunicazione disturbata, insieme sfalsata e inadempiente. L’arrivo dei pretini, che per ripararsi dalla pioggia li raggiungono sotto il cornicione continuando a parlare tra di loro in tedesco, moltiplica gli sguardi perplessi di Bruno e di Antonio, ancora una volta divergenti, ma sintonizzati almeno sulla impossibilità di capire quella lingua sconosciuta e misteriosa. Se il padre sembra attonito e presto arreso, la curiosità del figlio arriva fino al punto di strizzare gli occhi per sentire meglio. La messa del povero Il senso di sospensione prosegue anche nella sequenza successiva in cui comincia a spiovere sull’arco di Porta Portese proprio quando lo sguardo di Antonio incrocia la sagoma del ladro sulla bicicletta, intento a confabulare con il vecchio. È un altro cortocircuito visivo, un’altra allucinazione dietro la quale corrono i protagonisti fino a trovarsi in uno spazio vuoto punteggiato dall’indifferenza di isolati passanti. Il vecchio, svoltando dietro l’angolo dell’edificio di fronte, inaugura un altro momento dell’affannosa peregrinazione di padre e figlio, che attraversano una serie di vicoli e piazze trasteverine disposte a incastro una dentro l’altra secondo una prospettiva esplicitamente teatrale, un teatro delle illusioni ottiche in cui i due si perdono e si rincorrono. 33

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L’inseguimento del vecchio porta alla lunga sequenza della messa del povero, dotata di una precisa articolazione interna e di una organizzata dislocazione topografica, dalla chiesa al refettorio, dal cortile con la tavola imbandita alla sagrestia. È un altro mondo, se non un altro film, in cui i protagonisti sembrano precipitare pur continuando a intrecciare con il vecchio un faccia a faccia sempre più stringente ma improduttivo. Nell’accumulo dei personaggi, dalle patronesse tutte birignao, all’avvocato che fa le barbe, dalle giovani inservienti in grembiule agli assistenti azzimati e isterici – che sembra rivisitare con piglio polemico e sottolineature sarcastiche il clima idillico dei collegi desichiani d’anteguerra da Teresa Venerdì (1941) a Un garibaldino in convento (1942) – la solitudine dei protagonisti, la incomunicabilità del loro personale problema continua a essere totale come era accaduto accanto ai preti stranieri, nel caos indaffarato di piazza Vittorio e di Porta Portese, come se per loro il meccanismo della carità organizzata girasse a vuoto, impegnato a seguire i propri asettici rituali e non la specificità del bisogno del singolo. L’intera sequenza, suggellata dal passaggio finale attraverso il ripostiglio delle immagini sacre, sembra destinata a confermare l’incapacità della religione, avvilita nei rituali estrinseci, a risolvere i problemi dell’uomo. Il rapporto tra padre e figlio si incrina su una divergenza che riguarda le tattiche dell’inseguimento, finendo con un ceffone che avvia la sequenza del fiume. Il senso di colpa nei confronti del figlio porta a una sorta di allucinazione sonora per cui, angosciato dalle urla sempre più forti e insistenti della gente, Antonio teme per la vita del figlio e correndo lungo il fiume comincia a gridare «Bruno, Bruno» e lo ripete ancora passando sotto l’arco del ponte, un cupo rintocco di morte che attraversa il buio nel vociare confuso. 34

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La sospensione è assoluta fino a quando il corpo non viene portato a riva, mentre il sollievo per lo scampato pericolo si risolve nell’apparizione di Bruno in cima alla scalinata. Il padre accorre verso di lui. La drammaticità della perdita possibile gli fa vedere il figlio con occhi nuovi, sembra restituire a Antonio il rapporto con Bruno. Da qui i tentativi inutili di farlo parlare, gli accenni alla squadra di calcio, la proposta di andare a mangiare una pizza che apre la sequenza straordinaria della trattoria, momento di compensazione e di alleggerimento, complicità tra uomini, trasgressione alle regole materne, condivisione della travagliata aritmetica del bilancio familiare. Dopo la visita alla Santona, l’inseguimento del ladro contrappone ancora una volta spazi chiusi e spazi aperti, dalla casa di tolleranza, spazio chiuso per eccellenza, spazio di reclusione da cui, con l’eccezione di Bruno che non entra neppure, i personaggi possono uscire ma non le inquiline, al quartiere dei ladri, altrettanti mondi diversi con propri modelli di comportamento e proprie regole: solo il ladro sembra poter passare tranquillamente dall’uno all’altro. Se nel vicolo affollato tutti stanno addosso a Antonio con esibita prepotenza, l’interno della casa del ladro è la rivelazione di una miseria e di una disperazione ancora più estreme di quella dei protagonisti. All’interno donne, all’esterno uomini. All’esterno esibita spavalderia, all’interno cupa desolazione. Mentre il pendolarismo tra interno e esterno viene ribadito dalla madre del ladro che urla dalla finestra e poi dall’invito del carabiniere a guardare il minaccioso assembramento che si è formato nella strada, la centralità del vedere si ripropone negli sguardi straziati e interrogativi della figlia che entra in casa quando la piccola comitiva formata da Antonio, Bruno e il carabiniere ne esce. 35

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La solitudine e la rabbia La solitudine, la rabbia, l’impotenza hanno toccato il fondo. Antonio ha trovato il ladro ma non può riavere la bicicletta. Procedendo nervosamente a passo spedito, non si accorge che Bruno è rimasto indietro e rischia di farsi investire dalle automobili mentre attraversano uno slargo. Quando arrivano nel piazzale, il bambino va a sedersi sul marciapiedi, mentre il padre guarda nella direzione dello stadio, di cui si scorge una delle curve gremite di tifosi. Antonio vede dapprima Bruno che, stanco e sudato, si passa le mani sul viso e poi il parcheggio dove centinaia di biciclette sono allineate ordinatamente. L’intreccio tra dimensione oggettiva della rappresentazione e sguardate soggettive dei personaggi, che nel corso dell’intero film è venuto contribuendo a definire la partecipazione emotiva dello spettatore, è qui particolarmente stringente. Appoggiata accanto al portone di un edificio, Antonio vede una bicicletta incustodita. L’inquietudine del personaggio è evidente. Stanco e nervoso, si siede sul marciapiede accanto al figlio. Si scambiano un’occhiata in silenzio prima di guardare tutti e due verso lo stadio. Bruno osserva suo padre che abbassa la testa con le mani sul viso. Il passaggio di un gruppo di ciclisti, con l’inquadratura frontale delle ruote che sfrecciano davanti a loro, ha la forza quasi traumatica di un flash mentale, una sorta di allucinazione. Dopo aver guardato per un istante il figlio, Antonio si alza di scatto, mentre la folla esce dallo stadio e comincia a riversarsi lentamente sul piazzale. Ancora uno sguardo alla bicicletta incustodita, mentre i tifosi riprendono le biciclette lasciate al parcheggio. Sempre più irrequieto, Antonio si toglie il cappello, si passa rabbiosamente una mano tra i capelli con un’espressione angosciata. Si capisce che sta per prendere una decisione. 36

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Si avvicina a Bruno, tira fuori i soldi dal portafoglio, gli intima di prendere il tram e di aspettarlo a Montesacro. Si dirige verso la bicicletta appoggiata al muro e la inforca, mentre dal portone sbuca immediatamente il proprietario che comincia a gridare. L’inseguimento, l’accorrere dei testimoni, il sovrapporsi delle urla al rumore del traffico delle automobili e dei tram si raccordano con il primo piano frontale di Bruno che ha perso l’autobus e, richiamato dalle grida, si volta di scatto in tempo per vedere suo padre in fuga. Antonio riesce ancora a percorrere pochi metri prima di essere raggiunto da un piccolo assembramento di folla, di cui resteranno poi soltanto il proprietario della bicicletta e alcuni testimoni. Il dramma che si consuma – tra strattonamenti, spinte, insulti, il piccolo gruppo di persone arriva fino al parcheggio, si consulta sul commissariato in cui andare fino a che il proprietario cambia idea e lascia perdere – ha in Bruno il suo protagonista sconvolto, singhiozzante, decisivo. Quando restano soli, Antonio è stravolto, cammina in avanti come un automa, sembra incapace di reggersi sulle gambe. Bruno lo guarda, vorrebbe dire qualcosa ma non ce la fa. Antonio coglie lo sguardo del bambino e, per la vergogna, non riesce a trattenere le lacrime. Bruno gli tende la mano, che il padre stringe con forza, guardandolo ancora una volta. Il romanzo di formazione si conclude. Il figlio è diventato padre di suo padre. Si allontanano di spalle, tenendosi per mano, fino a confondersi nella folla che va sciamando nell’incipiente oscurità della sera. Attori e non-attori Nel processo compositivo del film che sembra inglobare, assorbire, nascondere le componenti formative più di37

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verse nella scorrevole fluidità di un linguaggio cinematografico di singolare intensità espressiva, destinato a confermare l’assoluta complementarietà tra predisposizione “scritta” e realizzazione cinematografica, tra sceneggiatura e regia, un aspetto non può essere trascurato, tra i tanti che andrebbero analiticamente presi in considerazione, per il rilievo tutto particolare che assume nella elaborazione creativa e nella strutturazione narrativa del film e cioè la strepitosa recitazione degli attori e dei non-attori, amalgamati dalla mano sapiente e abilissima di De Sica, che recita per quelli che non sanno recitare, plasma la disponibile argilla dei volti anonimi. Non si pensa soltanto alle prestazioni sorprendenti e “miracolose” dei protagonisti, ma ad una moltitudine di fulminee apparizioni, altrettante microfisionomie di grande forza rivelativa, dall’impiegato del monte che dice «So’ usati, so’ usati» alla signora che cerca la Santona, «quella che vede», al ladro che fa da palo, al tassista che aiuta Antonio, all’ambulante che vernicia il telaio a piazza Vittorio, alle patronesse e agli assistenti della messa del povero, al cliente irrimediabilmente brutto della Santona, al cantante ammiccante e sornione della trattoria, alle inservienti e alle pensionanti del bordello, una folla di volti inediti che ci viene incontro uscendo per sempre dall’anonimato. Se è facile riconoscervi un tratto inconfondibile della “poetica della realtà” teorizzata da Zavattini sin dall’inizio degli anni quaranta19, non si può dimenticare la dichiarazione di De Sica del ’42: «A me piacciono soprattutto i volti, a dir così inediti, gli attori che non sono attori, quelli non ancora corrotti dal mestiere e dalla pratica nei quali tutto è genuino e schietto. Se fosse possibile mi piacerebbe scegliere i miei interpreti nella strada, tra la folla. Vorrei 38

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che il mio protagonista fosse quel giovane il quale siede davanti a me nel tramvai o quella ragazza che conduce per mano un bambino e di tanto in tanto l’accarezza con gli occhi bellissimi, o quella vecchia donna scarmigliata che in questo momento sta litigando sull’uscio di quella bottega»20.

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CAMPIONI D’INCASSO

La singolare abilità artigianale di un regista come Alessandro Blasetti consiste nell’attitudine camaleontica di mettersi al servizio del film, di ogni film, con un senso profondo del ritmo cinematografico e della orchestrazione dei mezzi espressivi, valorizzando al massimo, in una concezione del cinema come arte collettiva, fondata sulla solidale collaborazione delle diverse componenti, gli apporti dei soggettisti-sceneggiatori e degli attori professionisti. Se l’atteggiamento polemico di Blasetti, sceso più volte in campo contro la «dittatura del regista»1, si spinge talora a enfatizzare l’apporto essenziale del soggettista – ben al di là del caso eccezionale di una personalità debordante e autoriale come quella di Zavattini – nei confronti del problema dell’attore egli considera ormai esaurito il ciclo storico dell’attore preso dalla strada, conclusa la necessità contingente di far ricorso all’attore naturale per servirsi quanto più possibile degli attori professionisti, gli unici in grado di «arrivare a superare la distanza tra lo schermo e il cuore dello spettatore», di «poter coscientemente esprimere la parola dell’autore e interpretare coscientemente le intenzioni del regista»2. La lunga gestazione di Fabiola – dall’avvio del progetto al primo trattamento sottoposto al giudizio preventivo dei critici più autorevoli, dai numerosi rifacimenti della sceneggiatura con gli apporti di uno stuolo di professionisti e 41

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di scrittori alla laboriosa formazione di un cast internazionale, dai travagliati problemi finanziari di un budget inconsueto per l’epoca alle difficoltà di una lavorazione iniziata al Centro Sperimentale di Cinematografia, proseguito prima a Cinecittà e poi all’Arena di Verona – è per tanti versi una delle storie di set più “romanzesche” e esemplari del cinema italiano che, alimentata dall’inevitabile fioritura di aneddoti, si snoda lungo l’arco di quasi due anni dal 1947 al marzo 1949, quando il kolossal di Alessandro Blasetti arriva finalmente sugli schermi italiani3. Il kolossal infinito Il rapporto di grande sintonia tra «il regista con gli stivali» e il produttore Salvo D’Angelo risale ai tempi di Un giorno nella vita (1946), realizzato con l’Orbis Film prima del passaggio del testimone all’Universalia. La nuova società riprende con rinnovata energia l’ambizioso proposito di far decollare in Italia una produzione di ispirazione cattolica, che non era andata oltre qualche sporadica sortita, avviando insieme inedite forme di coproduzione internazionale4. Il progetto di Fabiola – e cioè di una grande impresa cinematografica capace di conciliare il supercolosso antico-romano e l’attualità neorealista, l’ispirazione religiosa e l’attrattiva spettacolare – sembra al regista e al produttore l’occasione giusta, confermata dalla possibilità di attingere a un “classico” della narrativa edificante a cui corrisponde un consolidato repertorio dell’immaginario popolare5. La capacità blasettiana di pensare in grande non penalizza il film nel segno della magniloquenza esteriore, come lascia intendere parte della critica d’epoca, ma riesce piut42

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tosto a attribuire un empito energetico e sostenuto alle ambizioni spettacolari del racconto. Se i nuovi maestri del neorealismo sembrano rinunciare alle lusinghe dello spettacolo e alle risorse della messinscena, mettendosi da parte per far posto alla “realtà”, il regista di Fabiola si compiace, come gli autori di formazione classica, di far sentire la sua presenza nella studiata definizione delle inquadrature, nella complessità dei movimenti di macchina, nella scansione drammaturgica del montaggio. Non si può negare tuttavia che l’intero impianto del film sia subordinato ai richiami dell’attualità, dal rientro dei reduci dopo le lunghe peregrinazioni in terre lontane alla forzata clandestinità dei cristiani dei primi secoli, in cui si avvertono gli echi della resistenza antifascista. I temi della pace, della giustizia, dell’uguaglianza sono al centro della rilettura del passato alla luce della più viva contemporaneità6. Il primo kolossal di fine anni quaranta è anche il grande successo popolare del periodo, il campione d’incassi che fa da spartiacque tra la fase iniziale del dopoguerra, conclusa con la sconfitta delle sinistre alle elezioni del 18 aprile 1948, e il progressivo avanzare della guerra fredda, tra la parabola, breve e circoscritta, ma profondamente innovativa del neorealismo e l’avvio della lunga stagione del postneorealismo7. Il regista non manca di polemizzare con i critici che, preoccupati di sottolineare soprattutto i limiti della «grossa macchina», non colgono i pregi del film e tantomeno il suo ruolo in termini di lunga durata8, ma si guarda bene dal proseguire per la stessa strada preferendo per Prima comunione (1950), l’ultimo film con l’Universalia, i toni più dimessi del cinema di commedia. Se prima si era reso necessario l’intervento di ben quattordici sceneggiatori, l’imponente schieramento di forze si riduce ora al solo Cesare Zavattini9. 43

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L’importanza del soggetto e la necessità degli attori professionisti sono aspetti della poetica di Blasetti che si ritrovano anche in Altri tempi (1952), dove l’inquietudine del regista – alla ricerca di nuove possibilità per lo spettacolo cinematografico nello scenario dei media di massa – le contamina con la proposta della misura breve del “frammento”, dell’episodio a senso compiuto, quasi un minifilm, e insieme con il ricorso alla letteratura, nella cui inesauribile biblioteca attinge la campionatura della novellistica ottocentesca. Si avverte nei confronti del ruolo fondamentale dei soggettisti, la maliziosa, spiazzante tentazione di sostituirli mettendo sotto contratto Camillo Boito, Edmondo De Amicis, Renato Fucini, Luigi Pirandello, Eduardo Scarfoglio, mentre a proposito degli attori professionisti la chiamata di correità riguarda mezzo cinema italiano, da Aldo Fabrizi a Andrea Checchi, da Arnoldo Foà a Folco Lulli, da Paolo Stoppa a Rina Morelli, da Sergio Tofano a Marisa Merlini, da Amedeo Nazzari a Elisa Cegani, da Vittorio De Sica a Gina Lollobrigida10. Il successo di Altri tempi, che si assicura il quinto posto nella graduatoria degli incassi della stagione, fa scuola. Se il richiamo alle fonti letterarie non sembra incidere più di tanto in un panorama in cui il rapporto tra cinema e letteratura è già ricorrente e sedimentato – e certo nessuno mostra di cogliere la proposta di standard diversi da quello dominante del lungometraggio di finzione per arrischiarsi nelle «riserve della novellistica, degli atti unici, delle poesie, delle cronache»11 – il film a episodi si afferma subito come una delle tendenze del cinema industriale, spesso accontentandosi dell’assemblaggio più casuale e indiscriminato al posto della ricerca d’unità della miscellanea blasettiana12. 44

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I personaggi quasi veri Se Fabiola anticipa la fioritura del peplum di fine anni cinquanta, Prima comunione sottolinea l’affermazione della commedia che caratterizza l’intero decennio13. Il film di Blasetti è molto diverso da È primavera… (1950) e Due soldi di speranza (1952), le due commedie che Renato Castellani realizza per l’Universalcine di Sandro Ghenzi: un altro caso di sintonia tra regista e produttore, che non è mai troppo invadente, interviene con consigli e suggerimenti, ma segue con grande partecipazione l’iter realizzativo dei vari film, fino a considerarli alla fine anche suoi14. La maggiore diversità riguarda la scelta degli attori non professionisti. Castellani preferisce trovarli negli ambienti stessi in cui si svolgono i suoi film, contrassegnati dal mito della giovinezza, dalla vivacità dei personaggi che sembrano “quasi veri”, riproposti con estrosa scioltezza dall’abile tecnica compositiva del regista. Sia in Prima comunione che in È primavera… e Due soldi di speranza si ritrova l’uso della voce narrante, che scandisce l’esuberanza narrativa dei materiali evocati dalla commedia italiana del periodo. Ma in Prima comunione la voce over tallona i personaggi, li segue nelle varie fasi del racconto, ne commenta le azioni: è sempre al presente, per cogliere i personaggi sul fatto, per mostrare a loro, e a noi, cosa fanno e cosa potrebbero fare, nell’orizzonte del possibile. La voce fuori campo di È primavera... e Due soldi di speranza è sempre al passato remoto, stabilendo un distacco dal soggetto narrante, lontano dai suoi personaggi nel momento stesso in cui li evoca, li contempla sullo schermo15. Nel primo caso la voce narrante, configurandosi come scrittura letteraria, entra in collisione con la scrittura cinematografica o la subordina a se stessa. Se non succede 45

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per la particolare abilità della regia blasettiana capace di straordinaria, duttile mobilità, può avvenire quando si misura con una scrittura registica meno energica e definita. Nel secondo caso il rischio è quello di sovrapporre alle vicende e ai personaggi una sorta di sguardo superiore, che tolga spessore e autonomia ai personaggi, li condanni alla effimera effervescenza della funzione fabulatrice nel momento stesso in cui sembra celebrarne la singolare vitalità esistenziale16. La frontiera di Pietro Germi L’incontro tra Pietro Germi e Luigi Rovere avviene in sala di proiezione. Il mobiliere torinese è già nel cinema da qualche anno: conclusa l’esperienza della Rdl con Dino De Laurentiis, è ora uno dei producer della Lux Film di Riccardo Gualino. Si è imbattuto in Piccola pretura, rievocazione delle esperienze di pretore in Sicilia del magistrato palermitano Giuseppe Guido Lo Schiavo, ma non trova il regista adatto. Entra per caso nella saletta in cui si stanno passando i giornalieri di Gioventù perduta (1948) e resta colpito dalla pulizia e dalla forza della immagini proiettate sullo schermo17. Non appena Germi accetta di fare il film, si forma attorno a lui un gruppo di sceneggiatori guidato da Federico Fellini e Tullio Pinelli, a cui si aggiungono Mario Monicelli e Giuseppe Mangione18. In nome della legge (1949) inaugura una fase nuova e più importante nel cinema di Germi, che segna la sua piena maturazione di regista capace di imprimere al racconto il ritmo incalzante e l’impatto visivo di una rappresentazione fortemente partecipata e emozionale. L’ambizione etico-politica dell’utopia neorealista cede alla scoperta della Sicilia come una sorta di 46

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«frontiera americana» della società nazionale, alla mitizzazione di un «mondo di sentimenti primordiali»19, che l’enfatica voce fuori campo presenta fin dall’inizio come «ridente giardino», «terra nuda e bruciata», «mondo misterioso»20. Nell’ambiente della Lux si avvia anche Il cammino della speranza (1950), che il regista genovese realizza con il gruppo di sceneggiatori e la troupe del precedente. Ma il grande successo di In nome della legge non si ripete, nonostante le qualità del film, tempestoso viaggio d’emigrazione di un gruppo di siciliani, raccontato con cadenze sostenute, intense, epiche di singolare efficacia e di particolare originalità. Il terzo film con Rovere è Il brigante di Tacca del Lupo, in cui il riferimento a John Ford, un modello che affiora anche in altre occasioni, è più che mai evidente e traghetta una rappresentazione della lotta contro il brigantaggio dai toni cronistici e antiretorici, sullo sfondo della società meridionale lacerata dalle contraddizioni irrisolte della rivoluzione risorgimentale. Il film, se conferma il linguaggio secco, essenziale, nervoso dell’abile artigiano, mostra anche l’incertezza di fondo di chi non riesce a padroneggiare tutte le fila del racconto, i sottintesi storici, le implicazioni politiche21. Il rapporto con il produttore torinese, importante per la maturazione di Germi, si chiude all’indomani dell’uscita del film. La rottura era già avviata sin dalla decisione del regista di accettare la proposta di La presidentessa (1952), una pochade fuori dalle sue corde. La crisi – gli uomini all’antica, tutti d’un pezzo, che ricorrono nei film e nelle dichiarazioni sono lo schermo della sua interna fragilità – si riconferma con Gelosia (1953), cupo melodramma d’ambientazione siciliana, in cui il linguaggio tornito, fortemente strutturato, quasi “fisico” del suo cinema, gira a vuoto. L’insoddisfazione del «grande falegname», ridotto a quelle 47

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che egli stesso considera esplicitamente mere «prestazioni d’opera», rimanda certo al disagio esistenziale, al personale rovello della sua biografia privata22. Ma siamo sicuri che non c’entrino per nulla il cambiamento in corso dell’immaginario cinematografico e l’avventurosa improvvisazione di un’industria, incapace, nonostante il rilevante incremento quantitativo, di assestarsi su adeguati standard produttivi? Il viaggio nei generi Se il mercato è dominato dal film comico e dal melodramma, anche la Lux si adegua. Si è snobisticamente sottratta fino a quel momento alla tentazione di Totò, principe dei comici e re degli incassi, ma ora cede alle insistenze di Carlo Ponti e produce L’imperatore di Capri (1949). Luigi Comencini – in gravi difficoltà per il clamoroso flop del suo film d’esordio – accetta di dirigerlo, anche se lo considera estraneo al suo temperamento23. Nonostante il regista non vi si riconosca, il film guadagna il sesto posto nella classifica della stagione. Il passaggio dal comico al melodramma avviene sul set torinese di Persiane chiuse (1951), prodotto da Luigi Rovere24. La professionalità artigianale del regista ha la meglio sulla banalità della vicenda ambientata nel mondo della malavita, tra bische e locali notturni, dove un padre cerca la figlia, finita nel giro della prostituzione. Il film va così bene al botteghino che Carlo Ponti e Dino De Laurentiis – hanno appena lasciato la Lux per mettersi in proprio – vogliono subito fare il bis con La tratta delle bianche (1952)25. L’abilità di Comencini è notevole. In entrambi i casi, il massimo distacco dalla greve materia narrativa si 48

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salda alla capacità mimetica di riprodurre gli stereotipi del film francese di mala e le atmosfere ambigue del noir americano, dando vita a un racconto disinibito e moderno all’insegna dell’irrealtà che sembra vera26. Finita la fase dell’apprendistato tecnico, in cui prevalgono le esigenze della committenza, può ora avventurarsi nel progetto di Pane, amore e fantasia (1953), che all’inizio non trova un produttore. Nessuno si è ancora accorto che il regista milanese è perseguitato dalla maledizione del successo. Se i film di transizione sono andati bene, il nuovo film sarà il campione d’incassi della stagione, e uno dei maggiori successi del cinema italiano27. Il rapporto con la cronaca, lo spunto di attualità, lo scatto dell’indignazione sono tratti distintivi del cinema di Luigi Zampa, un acuto osservatore del costume che oscilla tra il dramma e la commedia, dimostrando di saper cogliere in immagini di limpida efficacia gli umori del momento28. Sta dalla parte del pubblico, «non seguendolo passivamente ma interpretando e in qualche misura dirigendo le sue opinioni con un intento di moralità un po’ scettica, un po’ romanesca»29. L’intensa collaborazione con Vitaliano Brancati sembra saldare la sua ricerca alla ricognizione beffarda e amara del trasformismo, del malcostume dilagante ai vari livelli del sociale, della corruzione e del clientelismo che rendono sempre più difficile l’esercizio dell’onestà e della coscienza civile. Il film più emblematico è al proposito Anni facili (1953) che – dopo Anni difficili (1948) e prima di L’arte di arrangiarsi (1955) – può essere considerato l’impietosa radiografia del ritorno del fascismo, svolta nei termini sarcastici di cui farà tesoro nel decennio successivo la commedia all’italiana. Solo un anno prima il regista aveva realizzato con Processo alla città (1952) uno dei suoi film più importanti, che 49

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ricostruisce con singolare efficacia narrativa il “caso Cuocolo”, un celebre fatto di cronaca nera dell’inizio del secolo scorso radicato nel complicato intreccio di interessi e di complicità a cui rimanda la camorra napoletana. L’indagine giudiziaria del magistrato Spinacci si perde nel labirinto di vicoli, gradinate, bassi in rovina per ritrovare nella sequenza del pranzo di Pozzuoli il cuore nero della città, in cui come un cancro la camorra ha contaminato tutti i livelli del potere e delle istituzioni. Il regista tocca qui uno dei momenti più alti del suo cinema, dimostrando di sapersi misurare con la complessità, facendo risuonare con grande forza gli echi del presente nell’atto d’accusa della classe dirigente e dell’intera società protonovecentesca30. Mario Soldati, eclettico iperattivo L’iperattivismo – eclettico, cinico, nevrotico? – di Mario Soldati gli fa girare nel periodo una decina di film per le più diverse società31. Botta e risposta (1950), prodotto da Dino De Laurentiis, è un indovinato film-rivista che – grazie alla presenza di Louis Armstrong, Katherine Dunham, Ella Fitzgerald, i Nicholas Brothers – acquista oggi il valore aggiunto di documento32. Anche se non si sente particolarmente legato alla Lux, è con il producer Carlo Ponti che realizza Quel bandito sono io (1950), curiosa coproduzione italo-britannica tratta da un’esile commedia di Peppino De Filippo, sceneggiata da Steno e Monicelli, fotografata da Mario Bava, con un gruppo di attori inglesi di cui la più nota è Margaret Rutherford, la futura Miss Marple. Prodotto per la Lux da Valentino Brosio, Donne e briganti (1950) è uno scanzonato film di cappa e spada fatto su misura per Amedeo Nazzari che, messa da parte la musoneria d’ordi50

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nanza, sfodera, con ciocie ai piedi e trombone tra le braccia, le sue qualità di disinvolto dongiovanni. Soldati fa il bis con Le avventure di Mandrin, che sostituisce l’Italia meridionale con la Savoia settecentesca, dove le scollature di Silvana Pampanini mettono di buon umore l’atletico Raf Vallone. Modellato su Donne e briganti, è anch’esso un cappa e spada italo-francese, ma al posto della Lux è subentrato il marchese Nicolò Theodoli della Ics, specializzata in produzioni di serie B, con cui il regista firma anche È l’amor che mi rovina (1951), O.K. Nerone (1951), Il sogno di Zorro (1952), tre scalcinati film comici con Walter Chiari. Il più divertente è O.K. Nerone che contamina i moduli della parodia, ricorrenti nel cinema comico dell’epoca, con i ritmi della rivista e del musical. Il numero di Walter Chiari e Carlo Campanini che, truccati da africane, decantano le proprie qualità al mercato delle schiave, è esilarante. Se a lungo andare il gioco delle trovate avveniristiche è stucchevole, la complicità che si crea tra i due sciagurati e Nerone-Gino Cervi è tra le trovate più estrose del film. Quando la Lux entra in crisi, il regista ritrova sulla sua strada Ponti e De Laurentiis e fa con loro i due film salgariani, I tre corsari (1952) e Jolanda, la figlia del Corsaro Nero (1952), girati in contemporanea con la stessa troupe. Anche quando vanno all’arrembaggio, i pirati cercano di farlo con cautela perché si dispone soltanto di mezza nave ancorata sulla spiaggia a Palo, vicino al Castello Odescalchi33. Il regista, che non ha certo il mito di Salgari, si muove con assoluta disinvoltura e sovrano divertimento nell’affabulazione avventurosa dello scrittore veronese, prendendosi tutte le libertà possibili come un guastatore deciso a mandare all’aria i ricordi infantili dei lettori-spettatori più devoti e meno disponibili all’irriverenza della sua deco51

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struzione. Naturalmente c’è chi si strappa i capelli, trovando insopportabili e grossolane simili incursioni nel cinema di consumo più corrivo34, e tira un respiro di sollievo quando il regista ritorna alla cineletteratura con La provinciale (1953), più in linea con i film importanti di qualche anno prima35. La televisione all’orizzonte La disponibilità di Mario Soldati – all’epoca sembra a molti eccessiva, sgangherata, irresponsabile – può anche essere l’espressione dell’allegra dissipazione di uno straordinario talento letterario che, costretto a lavorare per il cinema, scopre masochisticamente di non riuscire mai a toccare il fondo, per quanto brutti e sconclusionati siano i suoi film. Ma nella carnevalizzazione del ruolo dell’autore, nel cinema capovolto di uno dei «peggiori registi italiani» c’è qualcosa di più. Si avverte la lungimirante prefigurazione del cambiamento epocale implicito nell’imminente avvento della televisione italiana, che dopo le prove tecniche degli anni precedenti debutta il 3 gennaio 1954. Sarà un caso ma il primo film trasmesso nel giorno dell’inaugurazione è Le miserie del signor Travet (1946) 36. Nei palinsesti successivi appaiono anche È l’amor che mi rovina, Piccolo mondo antico (1941), Daniele Cortis (1947). Nel dicembre 1957 – dopo un’apparizione al “Musichiere”, mentre Carla Del Poggio sostituisce l’amata Alida Valli in Piccolo mondo antico, il primo sceneggiato tratto da un romanzo italiano – lo scrittore, microfono in una mano e ombrello nell’altra, diventa uno dei più popolari personaggi televisivi con Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini, storico programma gastronomico-antropologico, ogget52

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to in Uno, due, tre della memorabile parodia di Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello37. Sarebbe un errore farne un caso personale, trascurando lo scenario più ampio dei processi di trasformazione dell’industria culturale, i segnali prima latenti e poi sempre più generalizzati della contiguità tra il cinema degli anni cinquanta e la televisione ai suoi primi passi. L’antidivismo degli attori presi dalla strada del neorealismo in crisi si mescola al divismo minore e maggiore (maggiorato?) dei panamorefantasia e dei poverimabelli prima di confluire nella «domenica della buona gente», alimentando le fortune dei programmi tv che sembrano attingere a piene mani dalla irrealizzata progettistica zavattiniana e più in generale neorealista. Il palinsesto della prima televisione nazionale non solo si alimenta di cinema ricorrendo ai cicli di film, destinati a moltiplicarsi nella proliferazione selvaggia dei decenni successivi, ma assorbe spunti, suggestioni, interferenze del panorama cinematografico del periodo, dall’inchiesta al film a episodi, dall’adattamento letterario al fatto di cronaca, fermandosi solo davanti alla irriducibilità dei generi forti, dal peplum al western, nei confronti dei quali scattano meccanismi di rimozione e di censura. Certo, il comico e la commedia sono invece i generi che, nel momento in cui incrementano l’omologazione del pubblico, favoriscono insieme il passaggio al nuovo mezzo di comunicazione dei protagonisti dell’intrattenimento, gli attori e gli sceneggiatori, i corpi e le parole. Negli sguardi incrociati tra gli artigiani della regia e il mondo della produzione cinematografica, la sintonia implica la complementarietà, la solidale ma fragile reciprocità all’interno di un sistema fatto di compromessi e di assestamenti, in cui nessuno può fare da solo, nessuno ha interes53

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se a dire che il re è nudo. Non appena si aggiunge un posto a tavola per la televisione, il convitato di pietra, si rimettono in discussione antiche alleanze e tenaci complicità, si riaprono i giochi di ruolo e di potere. Cambiare diventa necessario. Il cinema che è diventato televisione dovrà cedere il passo al nuovo cinema che si delinea alla svolta di fine anni cinquanta per esplodere all’inizio dei sessanta38.

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LA LENTE SMISURATA

Sempre più ci si accorge che i risultati alti e importanti del cinema d’autore meno effimero e le fortune dei film italiani più popolari le dobbiamo anche all’estro dei nostri maggiori sceneggiatori. Sarebbe però un errore, in un soprassalto di contrizione, indulgere al trionfalismo e promuovere d’ufficio gli sceneggiatori nella rubrica degli autori, auspicando frettolosamente riabilitazioni sul campo, mettendosi a cercare bastoni di maresciallo nei loro cassetti. La tentazione è forte, anche perché il ruolo dello sceneggiatore implica un alto grado di ambiguità, rischia sempre di apparire qualcosa di più e qualcosa di meno della figura del regista. Sempre sospeso tra l’essere soltanto un collaboratore dell’autore che si limita ad avviare il processo realizzativo del film, di cui però ignora l’esito ultimo, o un superautore che regge le fila di vari progetti nei quali è possibile riconoscere, al di là della variabilità dei registi, la coerente continuità dei modelli narrativi e strutturali1. Se si tratta di uno scrittore e, in particolare, di uno scrittore come Vitaliano Brancati, le cose non sono affatto diverse o migliori. Nella ventina di film che ha inventato da solo, o in collaborazione con altri, raramente è riuscito a far affiorare il suo contributo personale, sopraffatto dalle ambivalenze di una scrittura in vista di un’altra scrittura e dalle contraddizioni della macchina cinema che spesso condiziona il suo lavoro2. 55

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L’irruzione di uno sconosciuto Se facciamo invece il percorso contrario e andiamo a cercare il cinema nella narrativa di Brancati, ci accorgiamo che nel bellissimo racconto Il vecchio con gli stivali, che risale al ’44, c’è un momento di rottura in cui la passività del protagonista, il suo viaggio acquiescente dentro l’ottusità del regime, «cambia totalmente» fino a sembrare la storia di un «altro», l’irruzione improvvisa e spiazzante di uno «sconosciuto»: «Come attraverso una lente smisurata, egli era in grado di vedere quanto fossero imbecilli, quanto fossero balordi, quanto fossero prepotenti a destra e vigliacchi a sinistra, quanto fossero scavezzacolli, corti, malpartoriti, sconci! Per lui era di un gusto inaudito potere strisciare accanto a un vicesegretario federale dicendogli mentalmente: “Gran coglione” e mentre quello si piantava in posa statuaria, e sollevava col respiro, come un’ampia mammella, il mucchio di nastrini, medaglie, medagliette, teschi, pugnali, Aldo Piscitello a un passo da lui, con la faccia umile e magra, gli diceva mentalmente: “Ladro!…Ladrone di passo!…Sì, ladro!”»3. Nella «lente smisurata», che capovolge l’atteggiamento del piccolo uomo, si ritrova il meccanismo stesso della comicità che esorcizza le maschere del conformismo, facendo incontrare Bergson e Gogol’. Nella sua personale lettura del saggio di Bergson, nel rapporto tra il riso e la libertà, tra l’apparenza e il gioco, lo scrittore siciliano sottolinea il ruolo del comico nei regimi totalitari, nei quali «basta un minimo di coscienza critica a farci vedere tutta la società come una moltitudine di marionette i cui fili sono in mano, non del fato ma di un’entità più meschina: il dittatore»4. Quanto a Gogol’, alla forza irridente del suo grottesco, si sa che il comico paradossale di Brancati gli deve mol56

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to, anche quando non esclude la simpatia che fa il solletico ai personaggi5. E se la «lente smisurata» fosse una metafora del cinema? Non è un caso che quando, dopo varie sceneggiature su commissione, il rapporto con il cinema diventa più intenso, rispunti Aldo Piscitello, il «piccolo uomo» disarmato e insieme agguerritissimo di Il vecchio con gli stivali, il primo personaggio brancatiano a passare sullo schermo con Anni difficili di Luigi Zampa. Il film segna nel 1948 l’incontro con un lucido osservatore del costume che sa cogliere in flagrante gli umori del momento6. Spesso sottovalutato, Zampa è un regista di grande interesse ancora tutto da studiare. Viaggio nel ventennio Anni difficili – uno dei primi, amari viaggi a ritroso nel ventennio – suscita all’epoca un grande polverone e rischia persino di essere sommerso dalle polemiche se non trovasse paradossalmente due difensori d’eccezione in Giulio Andreotti e Palmiro Togliatti7. Nel dibattito, avviato su «Vie Nuove» da alcuni articoli di segno opposto, avrebbe dovuto intervenire anche Italo Calvino con uno scritto rimasto finora inedito, dove il giovane scrittore vede l’aspetto più interessante del film nella rappresentazione dei giovani cresciuti sotto il fascismo: «Tutto il film potrebbe essere definito un atto di accusa delle nuove generazioni contro quelle che le hanno immediatamente precedute. Il figlio sempre in guerra, che non è fascista ma che giudica il fascismo con pensosa moderazione, il figlio che ci lascia la pelle proprio all’ultimo, è un sobrio e verissimo ritratto di una generazione». L’accusa di qualunquismo rimbalza da una recensione all’altra, ma è sbagliata: «Lo spettatore di coscienza, 57

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visto il film, deve porsi la domanda: “Cosa deve fare, oggi, Piscitello?”. Io non sono d’accordo con quelli che hanno definito “qualunquista” Anni difficili. Mi sembra al contrario un film antiqualunquista per eccellenza, un film in cui viene gridato ben alto: “Se non vogliamo uccidere i nostri figli non bisogna dire: “Non m’impiccio di politica”, per poi subire la politica degli altri, ma bisogna essere tutti d’un pezzo, e lottare, e organizzarsi!”. […] Piscitello che ha l’esperienza dell’altra volta, cosa farà Piscitello?»8. Gli umori beffardi Negli altri film in cui prosegue la felice collaborazione tra Brancati e Zampa – da Anni facili (1953) a L’arte di arrangiarsi (1954) – s’impone la ricognizione del malcostume dilagante ai vari livelli della vita sociale, della corruzione e del clientelismo che rendono sempre più difficile l’esercizio dell’onestà e della coscienza civile. La rappresentazione sarcastica del trasformismo fa tutt’uno con la radiografia del ritorno del fascismo nel comporre l’itinerario grottesco di una discesa agli inferi, in cui i mostri sono in noi e con noi9. Le disavventure del piccolo uomo, proiettate nello scenario della storia italiana, acquistano l’incisività di un viaggio impietoso dentro l’autobiografia d’una nazione, popolato di volti, figure, situazioni di corrosiva vivacità. La commedia all’italiana di lì a poco farà tesoro degli umori beffardi della trilogia per dispiegare l’epos della quotidianità, in quanto ha di sfuggente e insieme di essenziale, di magmatico e di spiazzante, che costituisce uno dei contrassegni più riconoscibili della sua vasta fioritura, della sua stessa presenza nel cinema nazionale10. Si direbbe che la componente “politica” della commedia trovi nell’epos 58

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brancatiano del piccolo uomo una sorta di privilegiata chiave d’accesso alla inafferrabile vischiosità del quotidiano, all’inesauribile miniera di storie e personaggi che rappresenta. Lo sfaccettato panorama di forme e di strutture della commedia sembra trovare le sue premesse nell’intensa pagina di Maurice Blanchot: «Il quotidiano è la banalità (ciò che ritarda e ricade, la vita residua che riempie le pattumiere e i cimiteri, rifiuti e detriti), eppure questa banalità è della massima importanza, poiché rimanda all’esistenza nella sua spontaneità, così come la viviamo, nel momento in cui, vissuta, si sottrae ad ogni organizzazione speculativa, forse ad ogni coerenza e regolarità. […] Dovunque ritroviamo i due lati del quotidiano, quello fastidioso, penoso e sordido (l’amorfo, lo stagnante) e quello inesauribile, irrecusabile, sempre incompiuto e che sempre sfugge alle forme o alle strutture (in particolare quelle della società politica: burocrazia, ingranaggi del governo, partiti). […] Lo spontaneo, ciò che si sottrae alle forme, l’informale, può diventare amorfo: lo stagnante può confondersi con la corrente della vita che è anche il movimento stesso della società». Solo l’apparizione improvvisa e imprevedibile del tragico sospende il confuso quotidiano, le sue sfumature e le sue incertezze, «il perpetuo alibi di un’esistenza ambigua che si serve delle contraddizioni per eludere i problemi e rimane indecisa in una quiete irrequieta»11. La componente tragica Sull’incrinatura tragica richiama l’attenzione Gesualdo Bufalino, che ritrova nell’opera di Brancati «spettri di non vissuto, spettri di malvissuto», fino a vedere in lui uno «scrittore tragico fra i più segreti e nuovi della nostra letteratura» e nelle «figure della sua delusione civile e sentimentale non solo i divulgati attori di un’opera di pupi provinciali e borghesi», ma piuttosto «i martiri di un ingorgo 59

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senza speranza, le spie d’una tetraggine che talvolta si vorrebbe perfino dir metafisica»12. La tetraggine dell’ultimo Brancati trova una singolare conferma in Dov’è la libertà…? (1954) di Roberto Rossellini, stracciato dalla critica dell’epoca13. L’esperimento, in parte incompiuto, è invece di grande interesse e merita una riconsiderazione. Si tratta di una lettura inconsueta del personaggio di Totò, dell’approdo drammatico dell’epopea del piccolo uomo comico, della tragedia dell’uomo ridicolo14. Il barbiere che esce di prigione sembra sopravvissuto al naufragio della sua vita, un morto in permesso destinato a muoversi come un pesce fuor d’acqua nella insensatezza del gratuito al di fuori di ogni riconoscibile identità. Sono straordinarie le sequenze dell’infimo dormitorio dalle pareti sbrecciate dove il protagonista trova un primo rifugio, della balera suburbana dove si avvia la maratona di danza, del reincontro con la famiglia degli strozzini arricchitisi alle spalle degli ebrei deportati. Solo la riapparizione fantasmatica di uno degli ebrei truffati, mette il personaggio dinanzi alla soglia del senso, lo costringe a rispecchiarsi nell’orrore incontenibile. La performance di Totò, maschera della quiescenza disillusa e della ribellione al mondo com’è, anima una delle interpretazioni più sofferte e inquietanti del grande attore, che consegna alla commedia italiana avvenire gli umori neri, i cupi rintocchi della riconciliazione impossibile. Nei decenni successivi alla morte dello scrittore alcuni dei suoi romanzi più noti sono arrivati sullo schermo in trasposizioni spesso molto libere – da Il bell’Antonio (1960) di Mauro Bolognini a Don Giovanni in Sicilia (1967) di Alberto Lattuada e Paolo il caldo (1973) di Marco Vicario – nelle quali è dominante il motivo del gallismo, il «dongiovannismo siciliano, l’erotismo esistenziale dei siciliani» 60

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che, secondo Leonardo Sciascia, «si può dire approssimativamente, consista nel pensare e sognare la donna con tale assiduità e intensità, e talmente assottigliandone e sofisticandone il desiderio, da non reggere poi alla presenza di lei, da essere umiliati e come devastati»15. Sarebbe assurdo vedere o rivedere con i libri in mano questi e altri film d’ispirazione letteraria, per verificare la corrispondenza tra romanzo e film con il criterio del questo c’è/questo non c’è. Il gioco della fedeltà/infedeltà, è migliore il romanzo/è migliore il film è un gioco antico ma non per questo meno futile della critica giudiziaria che confonde il rapporto tra cinema e letteratura con il match di pugilato o la lista della spesa. Il più brancatiano Se invece l’avvio letterario è visto come suggestione ideale, fonte immaginativa, spunto creativo, le tracce brancatiane possiamo andarle a cercare anche (soprattutto?) in film dove il nome dello scrittore non appare neppure nei titoli di testa, ai quali sappiamo del resto che non bisogna credere più di tanto. Il più brancatiano è allora Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi. Sin dalle prime immagini in cui il barone Cefalù guarda fuori dal finestrino l’accecante pianura e rievoca «le serenate del Sud, le calde, dolci, snervanti notti della Sicilia», il film trova la sua folgorante caratterizzazione nello scenario storico, geografico, antropologico scoperto sin da In nome della legge e Il cammino della speranza. Ma la «Sicilia frontiera sociale» cede ora, secondo Sciascia, alla «Sicilia frontiera passionale»: «la materia passionale vi è deliziosamente rovesciata sotto i segni dell’eros comico brancatiano». La coincidenza con lo 61

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scenario siciliano è il tramite per assicurarne il significato universale, dal momento che il regista è convinto che nell’isola tutti i difetti, le remore, gli errori della società italiana si ingigantiscano e si esasperino. «La Sicilia si fa teatro di una commedia della società italiana, è come un pretesto o, più esattamente, come una specie di palcoscenico in cui una vicenda reale ma paradossalmente articolata trova quegli elementi di paesaggio, di architettura, di clima che servono ad esasperarla»16. Straordinaria è in tutto il film la capacità di identificazione spaziale, l’attitudine felicissima a far lievitare gli spazi fisici in cui si svolge il racconto. Dalle grandi sale vuote del palazzo avito alle stanze che rimandano una all’altra come in un cannocchiale, dalle imposte socchiuse in cui gli sguardi osano e si ritraggono alle veneziane che si alzano e si abbassano in un armeggiare di esibito voyerismo, al cortile che si affaccia sull’ala dell’ex-massaro, via via, fino alla grande piazza deserta, alle strade provinciali in cui le automobili convivono con i muli, agli affollati andirivieni del passeggio domenicale, dove il gioco illusionistico del barocco teatralizza lo spazio, generalizza lo spettacolo, cosicché siamo tutti attori, non c’è più distinzione tra pubblico e palcoscenico. Nel rimbalzo tra spazi chiusi e spazi aperti, tra talamo e tribunale, apatia e revêrie, palazzo e passeggio, moglie e amante, amante della moglie e moglie dell’amante, lo scenario si restringe nel caldo torrido, nel torpore appiccicoso in cui divampa il desiderio. Più brancatiano di così.

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L’ILLUSIONISMO VOYERISTICO

Se si cerca di cogliere in uno sguardo d’insieme l’attività di Antonio Leonviola, si scopre subito che l’aneddotica fiorita intorno all’inconsueta figura del regista veneto, con il suo personale apporto di battute micidiali e di ironici ammiccamenti, non ha contribuito a fissarne la memoria nelle vicende del cinema italiano, ma ha conseguito piuttosto l’effetto contrario della rimozione1. Singolare destino di un cineasta che, nonostante non abbia realizzato un gran numero di film, si impone sul set e fuori dal set per l’intenso vitalismo e per l’esuberanza del carattere, ma anche per l’energia con cui delinea sin dall’inizio il suo profilo d’autore. Rita da Cascia – l’esordio nel lungometraggio avvenuto nel ’43 dopo alcuni apprezzati film sperimentali e il lavoro di operatore di cineattualità2 – suggerisce l’immagine del regista formatosi sui classici in grado di padroneggiare con inconsueta efficacia i materiali narrativi al di fuori degli schemi tradizionali del racconto agiografico. Il ritratto della santa degli impossibili ha la forza di un antico bassorilievo scolpito nel legno e insieme l’essenzialità di un moderno oratorio che procede per folgorazioni e eclissi. Il percorso religioso s’incarna nella concretezza terrena della drammaturgia nello stesso momento in cui la protagonista femminile fa tutt’uno con il paesaggio di pietre e di dirupi dove vive la rivelazione di sé a se stessa. La forza plastica dell’inquadratura e il gioco illusionistico delle ombre e 63

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delle luci si saldano all’interpretazione straordinaria di un’attrice insolita come Elena Zareschi, che si appropria del personaggio con lo slancio prepotente con cui si anima sullo schermo l’eccezionalità della vocazione 3. Nel clima del dopoguerra contrassegnato dal neorealismo non sembra esserci posto per un autore visionario attratto dal luccichio della finzione. Il ritorno alla regia avviene, con Le due verità (1951), nel segno del melodramma giudiziario che si interroga provocatoriamente sulla attendibilità del reale 4. La morte della protagonista e l’ultimo scorcio della sua esistenza sciagurata danno vita a ricostruzioni differenti, opposte, quasi due film, in cui lo scambio di ruoli tra i protagonisti e il capovolgimento delle strategie narrative ha la scansione geometrica del teorema. Il corpo femminile Se si pensa all’adozione di un facile pirandellismo, si è fuori strada, perché il gioco di carte messo in scena dal curioso personaggio del barbone avvocato, interpretato con risalto luciferino da Michel Simon, non si perde nella dialettica filosofica, non rivisita l’uno, nessuno e centomila con cui il grande drammaturgo conduce i suoi personaggi nella camera della tortura del rovello esistenziale, ma è piuttosto una paradossale dimostrazione dei poteri del cinema5. Il film gioca di scherma con le situazioni e i personaggi. Basta un’intonazione della voce o un movimento della macchina da presa perché tutto cambi. Il neorealismo insegue la chimera della realtà, quando la sola realtà è la macchina da presa, la sua forza seduttiva. Nel cerchio magico tracciato dall’illusionismo cinematografico, il regista lavora 64

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su Anna Maria Ferrero, su un affascinante corpo d’attrice in cui riesce a far esplodere l’ambiguità. L’interesse maggiore della rivisitazione dell’attività di Leonviola consiste nel suo rifiuto delle ambizioni sociologiche e referenziali del cinema italiano dell’epoca. Il regista sta sempre dentro al cinema, agisce all’interno della sua storia, ne esplora le potenzialità. Rita da Cascia sembra l’opera di un primitivo che scopre per la prima volta la capacità evocativa del cinema, la forza della sua affabulazione che procede per epifanie e illuminazioni. La sintonia tra il tema e il mezzo è tale per cui alla fine si scopre che è il cinema stesso a identificarsi con la santa degli impossibili. Ma Le due verità si scrolla di dosso un’identificazione così impegnativa per affrontare polemicamente le pretese realistiche del cinema coevo sul terreno più duttile e sofisticato del gioco illusionistico, che secolarizza la magia originaria e si congeda dai fremiti del sacro per riproporre il corpo femminile in tutta la sua forza di seduzione, nelle sue caratteristiche di enigma da decifrare, di mistero carnale da celebrare nello scenario postribolare dei letti sfatti e delle camere a ore. Sul ponte dei sospiri (1953) nasce con l’ambizione di rinnovare uno dei generi più frequentati dello spettacolo cinematografico come il cappa e spada attraverso la demistificazione dell’ironia, lo smontaggio degli ingredienti tradizionali e dei meccanismi collaudati. La contaminazione tra sguardo d’autore e cinema popolare viene brutalmente esorcizzata dall’intervento del produttore che rimonta il film togliendo di mezzo tutto il lavoro di riscrittura critica del regista e riducendolo all’unidimensionalità lombrosiana, considerata la sola in grado di assicurare il gradimento delle platee più vaste6. Il progetto viene stravolto, ma nessuno vince fino in fondo. Nonostante le arbitrarie manomissioni, la rozzezza 65

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padronale dell’imprenditore non vince la partita perché nel film si afferma a tratti lo spirito iconoclasta con cui il regista affronta la sfilacciata materia narrativa del feuilleton, la brillante disinvoltura con cui strizza l’occhio agli spettatori spiazzandoli nelle loro attese più prevedibili. Ma l’aspetto più curioso – sempre all’interno del profondo rapporto con il cinema e la sua storia che il regista sa instaurare in modo esemplare – si trova nel prologo condotto all’insegna del muto, con l’uso delle situazioni tipiche del film silenzioso e l’adozione sistematica delle didascalie7. La regressione alle origini del mezzo espressivo sembra realizzare l’ambizione profonda di Leonviola, l’aspirazione a riattraversare le modalità narrative e gli stilemi espressivi come un momento forte della formazione dell’autore che si misura con la modernità proprio perché metabolizza la lezione del passato, compie fino in fondo il pellegrinaggio alle fonti della settima arte. La vocazione affabulatrice Non è un caso che all’inizio di Noi cannibali (1953) il regista stesso, guardando in macchina, apra la tenda del teatro d’avanspettacolo come un sipario. Qualcosa di più della civetteria di un’apparizione sulla soglia, quasi la volontà di richiamare l’attenzione sul film che ci accingiamo a vedere, sul suo rigore strutturale, sulla sua fedeltà al cuore nero del melodramma. La polemica contrapposizione alle pretese referenziali del cinema contemporaneo è ancora più profonda e sofisticata perché tutto il film sembra adeguarsi al canone dell’ambientazione realistica nello stesso momento in cui la forza della definizione dell’immagine lo stravolgono secondo moduli assolutamente personali, attestando66

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ne di continuo la vocazione affabulatrice, la sua adesione allo statuto della finzione più radicale. Se tutta la vicenda si svolge nel porto di Civitavecchia, tra le catapecchie ricavate nelle macerie lungo la ferrovia e i capannoni industriali che sorgono nelle vicinanze, non può sfuggire che l’intera scenografia dal vero viene essenzializzata e prosciugata fino a comporsi nelle strutture astratte della pittura metafisica. Si pensa ad una delle prime sequenze in cui Virginia (Silvana Pampanini) e Aldo (Vincenzo Musolino) dopo aver fatto l’amore trovano riparo in un anfratto tra gli scogli e progettano di recuperare la barca del padre di lei. Il tempo sospeso dell’idillio e del sogno a occhi aperti si allarga al lungo corteo delle monache vestite di bianco in una sorta di grande affresco, dove l’intimità dei due giovani s’intreccia al canto religioso che da indistinto mormorio cresce progressivamente di volume. La sequenza iniziale dell’avanspettacolo, in cui il doppiosenso pesante e la becera volgarità rimbalzano a più riprese dal palcoscenico alla platea, trova il suo momento culminante nello spogliarello della protagonista, scandito dalla chiassosa partecipazione del pubblico. La strategia della visione, innescata dalla compagnia di varietà, sembra stabilire lo statuto della protagonista femminile e insieme dell’intero film. Sin da quando attraversa con Aldo le rotaie della ferrovia attorno alla quale sorgono le catapecchie, Virginia viene accolta con gli stessi epiteti sguaiati, le stesse grevi sottolineature che avevano salutato la sua esibizione sul palcoscenico: è sempre un corpo che si espone agli avidi sguardi maschili, non un essere umano a cui concedere la possibilità di vivere la propria vita. Il meccanismo voyeristico si esalta nella sequenza in cui Tango (Folco Lulli), laida incarnazione del padrone ossessionato dal possesso sessuale, attraverso il cannocchiale spia 67

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Virginia che con Aldo cerca di recuperare il peschereccio del padre affondato nella baia. Il cannocchiale, a cui nel corso del film Tango ricorre spesso nel diagramma infoiato del desiderio, ritorna più volte fino a diventare l’icona della visione, della visione en abîme che è al centro della messinscena dell’autore. Quando tra le catapecchie irrompe a suon di tamburi la festa per la nascita di un maschio a uno degli abitanti, s’improvvisa tra le rotaie un allegro ballo popolare in cui tutti si lasciano coinvolgere. Virginia, che si avvicina attratta dalla musica e incuriosita dalla novità, non riesce a sottrarsi all’omaccione che le chiede «un giro». La sua ingenuità dà il via ad una delle sequenze più forti e scandite dell’intero film. Il ballo popolare si risolve nella spirale di violenza dello stupro collettivo, mentre come un automa il corpo della donna passa da un maschio all’altro in un vortice di brutalità inarrestabile e avvilente. In una crudele simmetria, una sorta di feroce contrappasso, la festa per la nascita di un maschio prefigura la perdita del bambino di cui Virginia è incinta. Se si esclude la marcetta della festa, la colonna sonora riduce al minimo i motivi musicali, mentre enfatizza gli effetti sonori, come nel caso dell’altoparlante della fabbrica che moltiplica la risata ghignante di Tango, che avvelena l’attesa di paternità del protagonista. Aldo e Virginia sono imprigionati in se stessi, condannati a non vedere oltre la condizione in cui vivono il loro destino di disgraziati. Dopo la morte di Virginia, Aldo ritrova Maria (Milly Vitale), la sua prima fidanzata, e cammina con lei tra le tombe del cimitero. Sembrano fantasmi, incapaci di ritrovare l’antico slancio, murati nel lutto e nel tradimento. Mentre Maria sale sul treno per ritornare alla sua vita strozzata, incapace di dire una parola di compren68

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sione, Aldo si avvia lungo i binari della ferrovia che hanno segnato come le linee della mano i percorsi del suo destino. Gli risuona in testa la musica dell’avanspettacolo dove all’inizio aveva rivisto per la prima volta Virginia. Cammina come uno zombie nell’itinerario che altri hanno tracciato per lui, alla fine del quale c’è il buio della galleria che, come un originario grembo materno, si prepara a inghiottirlo per sempre. Dal mélo al peplum Il paradosso di Noi cannibali, melodramma fiammeggiante in cui Leonviola ha liberato i demoni della sua scommessa cinematografica, insieme barocca e austera, rigorosa e spiazzante, è che non inaugura una stagione di risultati significativi e di ardimentosi azzardi, ma in qualche modo la conclude. Non contano molto né Siluri umani (1954), un film di guerra che celebra un’impresa poco nota della marina italiana8, né Il suo amore più grande (1956), che rifà con altri attori e maggiori mezzi il suo film d’esordio. Il puntiglioso professionismo del regista ne esce confermato, mentre la sua vibrante capacità di raccontare per immagini si perde nello scialbo anonimato. Ballerina e buon Dio (1958) è una favola diseguale che procede a corrente alternata. Nella pasticciata ingenuità dell’insieme, in cui errori di casting e approssimazioni di sceneggiatura si danno la mano a confondere lo spettatore, s’impone la sequenza degli scalcinati acrobati da strada, straordinario brano d’antologia in cui il regista ritrova il suo gusto per gli umori acri, le sottolineature sopra le righe, la freschezza fantastica dell’apologo. Il suo passaggio nell’universo fumettato del peplum – che comprende quattro titoli in un paio d’anni da Maciste, 69

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l’uomo più forte del mondo (1961) a Maciste nella terra dei Ciclopi (1961), da Le gladiatrici (1963) a Taur, re della forza bruta (1963) – non va oltre l’abilità artigianale, attraversata a tratti dalla folgorazione scenografica, dall’esibita efferatezza della crudeltà gratuita, dal gioco degli uomini forti, ritrovando la spontaneità dello spettacolo foraneo che, tra ingenuità e sofisticheria, è all’origine dell’ispirazione del regista9. Il congedo dal cinema10 avviene con I giovani tigri (1967), curiosa galleria di mostri di buona famiglia, a cui è estranea ogni forma di condanna moralistica. Nella disinvoltura dell’impaginazione, nonostante la dichiarata volontà di metterci paura con i loro programmi criminali, i protagonisti risultano ambiguamente simpatici. Spia del cinismo di un autore sfuggente e fuori dalle regole? Può darsi. Ma anche ulteriore conferma che nei film di Antonio Leonviola i contenuti narrativi passano in seconda linea nei confronti del linguaggio filmico, della sperimentazione espressiva. Nel suo film d’addio, si diverte a sbeffeggiare le ambizioni rinnovatrici e modernistiche della nouvelle vague, riducendole allo scombinato balletto che procede a doppia velocità ma gira a vuoto.

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IMMAGINI DI UN’IMMAGINE

L’insegna della Lux Film risplende durante la notte sul palazzo romano di via Po 36. Nonostante sia nata qualche anno prima, soltanto tra anteguerra e dopoguerra la prestigiosa casa di produzione si viene imponendo nel panorama cinematografico nazionale con un’immagine inconsueta di serietà piemontese, in cui si riconosce la lucida determinazione dell’avvocato Riccardo Gualino, il grande imprenditore della Rumianca e della Snia Viscosa, che ama la pittura ma intuisce le straordinarie potenzialità del cinema. Si racconta che il giovane sceneggiatore Federico Fellini, non ancora passato alla regia, mostri con orgoglio alle ragazze con cui esce la sera la scritta luminosa dicendo: «Io lavoro qui». Non è del tutto vero perché il cinema si fa altrove, ma spiega il senso di appartenenza ispirato dalla casa di via Po, la magia dell’andirivieni di attrici, attori, registi, sceneggiatori, musicisti che si affollano nella tarda mattinata al primo piano dell’edificio, dove hanno i loro uffici i producer, da Dino De Laurentiis a Carlo Ponti, da Valentino Brosio a Luigi Rovere, da Domenico Forges Davanzati a Baccio Bandini. Sono loro che, in un regime di relativa autonomia, realizzano i film per conto della Lux. Il terzo piano è riservato all’avvocato Gualino. Al secondo si discutono i progetti, si esaminano le sceneggiature, si trattano i preventivi con l’amministratore delegato, il musicologo Guido 71

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Maggiorino Gatti, il direttore della casa che si incontra quotidianamente con il patron. Ma al secondo piano si trovano anche l’attivissimo ufficio stampa e l’ufficio artistico che cura gli stampati promozionali, le brochure, i manifesti, le locandine, le immagini grafiche e fotografiche che accompagnano i film nel loro rapporto con gli esercenti e con il pubblico1. Cinema e romanzo Nei primi anni quaranta il film-scommessa è I promessi sposi (1941) di Mario Camerini con uno stuolo di attori, quasi un album di famiglia del cinema italiano di allora. Il grande impegno produttivo della casa si intravede nel manifesto di Dante Manno imperniato sullo sguardo fiero di Gino Cervi-Renzo e sulla dolcezza di Dina Sassoli-Lucia, mentre sullo sfondo Don Abbondio è alle prese con i bravi di Don Rodrigo. Le sobrie locandine fotografiche sembrano dimenticare il gigantismo della lavorazione – a Cinecittà si è ricostruito anche il Duomo di Milano a grandezza naturale – per suggerire altrettanti momenti salienti del romanzo italiano per eccellenza da sfogliare con lo spettatore in cerca d’identità2. La predilezione per il cinema da biblioteca ispira Un colpo di pistola (1942), il film d’esordio di un regista colto e raffinato come Renato Castellani, che viene subito inscritto d’ufficio nella corrente calligrafica, in cui i giovani critici d’assalto paventano, in uno sfarfallio di trine e merletti, la rinuncia al realismo. Se Nico Edel – a cui si devono molte copertine di «Il Dramma» – si concede una composizione stilizzata con due pistole che trafiggono il grande cuore rosso al centro, Angelo Cesselon in uno dei suoi 72

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primi manifesti punta sulle figure di Andrea AnickoffFosco Giachetti e di Sergio Brutzky-Antonio Centa, sovrastate dal volto intenso di Mascia-Assia Noris. Entrambi i cartellonisti si propongono di colpire al cuore, ma solo il secondo coglie la sfida dei due caratteri contrapposti e l’enigma della scelta amorosa, che è al centro del racconto di Pusˇkin. Il successivo Zazà (1943) ripesca la commedia tardoottocentesca di Pierre-Francisque Berton e Charles Simon in cui l’amore infelice della canzonettista dell’Alhambra assume i toni patetici di un estenuato romanticismo, che trovano in Isa Miranda – una delle prime attrici italiane dell’epoca chiamate a Hollywood, dove Claudette Colbert le scippa il ruolo di Zazà nell’omonimo film di George Cukor – un’interprete vibrante d’umanità, vittima sacrificale di un mondo maschile, dove si mescolano perbenismo e ipocrisia, fascinazione e ingenuità. Renato Castellani è recidivo nel suo esasperato formalismo che enfatizza i costumi di Maria De Matteis e le scenografie di Gastone Medin, celebra gli addobbi soffocanti dello spettacolo nel momento in cui ne rivela la dimensione ambigua nella messa in scena di gusto spiccatamente steinberghiano. Nella copertina della commedia ristampata per l’occasione, Brunetta, una delle più note disegnatrici di moda, schizza un incisivo profilo della protagonista dominato dai lunghi guanti ornati di pizzo, forse più una toilette che un personaggio. Il grande pittore Filippo De Pisis – che predilige la magia del bianco e nero e la suggestione del chiaroscuro – nella brochure che la Lux dedica al film capovolge la prospettiva, tratteggia la canzonettista di quinta mentre si affaccia al proscenio per cantare a un pubblico di ombre scure, di silhouette solo accennate, di larve umane che si intravedono appena nella liquida superficie del colore. 73

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Bilancio di una stagione Lux Film, il lussuoso quaderno con cui nel 1949 la casa festeggia i quindici anni della propria attività e presenta il listino della nuova stagione, è l’occasione per il bilancio d’una politica produttiva fortemente caratterizzata nel suo stesso eclettismo, ma insieme anche la galleria dei numerosi pittori cartellonisti che collaborano con la casa per i manifesti e le locandine destinate agli esercenti, per le brochure rivolte ai giornalisti e per tutte le iniziative pubblicitarie e di promozione in cui l’ufficio stampa agisce d’intesa con l’ufficio artistico, diretto da Augusto Favalli. Si tratta di un lungo elenco che comprende Manfredo Acerbo, Ercole Brini, Ennio Canino, Angelo Cesselon, Averardo Ciriello, Andrea Curti, Carlo Longi, Dante Manno, Lorenzo Nistri, Giorgio Olivetti, Enzo Rossi, Pino Stampini, Alfredo Ventura3. Il folto gruppo – a cui negli anni precedenti e in quelli successivi si aggiungono altri autori – attraversa varie generazioni di disegnatori che, pur conservando ciascuno il proprio stile, si sintonizzano con l’immagine della casa. Se manca qualche grande nome, lo spaccato è comunque rappresentativo della cartellonistica italiana nel dopoguerra, che media felicemente il rapporto tra cinema e pubblico, suggerendo con le proprie interpretazioni grafiche altrettanti percorsi attraverso cui lo spettatore entra in contatto con l’immaginario cinematografico. Il ricorso al nome del pittore prestigioso è raro, ma avviene almeno un paio di volte e sempre a proposito di film di Giuseppe De Santis. Renato Guttuso realizza per Riso amaro (1949) il celebre dipinto di Silvana Mangano tra le mondine curve nella risaia, mentre Domenico Purificato firma il manifesto di Non c’è pace tra gli ulivi (1950), suggestivo 74

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omaggio alla bellezza di Lucia Bosè. Quando il film aveva ancora il titolo provvisorio di Pasqua di sangue, nella pubblicità era stato utilizzato anche un disegno di Ennio Canino. Il più attivo Il cartellonista più attivo è Carlo Longi che alterna drammi e commedie, firmando numerosi manifesti e brochure dal dopoguerra all’inizio degli anni cinquanta4. Se il bozzetto per L’onorevole Angelina (1947) di Luigi Zampa, con una bonaria Magnani in primo piano e sullo sfondo le donne della borgata che protestano, è riduttivo e vignettistico, il manifesto di Molti sogni per le strade (1948) di Camerini ci restituisce la vera Anna nella sua forza drammatica, nell’intensità dolorosa dello sguardo. Il mélo tradizionale di Amanti senza amore (1948) di Gianni Franciolini dà vita a un’immagine di routine imperniata sul triangolo sentimentale di lui, lei, l’altro: un’impostazione che si ritrova anche in Il delitto di Giovanni Episcopo (1947) di Alberto Lattuada, dominato dalla presenza sensuale di Yvonne Sanson. La capacità di rappresentazione drammatica del cartellonista si rivela soprattutto nella grande brochure di Fuga in Francia (1948) di Mario Soldati, una delle migliori da lui realizzate, che nell’abile articolazione dei piani narrativi sembra riprendere la lezione di Anselmo Ballester, il veterano dei pittori italiani del cinema5. Numerosi gli altri film illustrati nel periodo, dalla brochure per Gioventù perduta (1948) di Pietro Germi, sobria e essenziale, a quella molto enfatica di Il lupo della Sila (1949) di Duilio Coletti. Il gusto umoristico di Longi si ritrova in Come persi la guerra (1947) di Carlo Borghesio, con un Macario quasi 75

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astratto che ricorda le vignette di vita militare di Bruno Angoletta, e in Proibito rubare (1948) di Luigi Comencini, con uno dei ragazzi simpaticamente ammiccante in primo piano, mentre il prete spunta in uno schizzo infantile sul muro. Il rapporto con Macario prosegue con il divertente manifesto di Come scopersi l’America (1950) di Borghesio e la fantasiosa locandina di Adamo ed Eva (1950) di Mario Mattoli. Nei numerosi incontri con Totò – il principe degli incassi, a cui la Lux si avvicina in ritardo, dopo le iniziali resistenze – è particolarmente felice il disegno per la fotobusta di L’imperatore di Capri (1949) di Comencini, mentre il manifesto di I pompieri di Viggiù (1949) di Mattoli è sovraffollato e poco incisivo. Il manifesto di Carosello napoletano (1954) di Ettore Giannini ripropone con singolare vivacità i vari momenti del musical, invitando gli spettatori a entrare nel mondo della canzone napoletana, rassicurati dal sorriso di Sophia Loren e dalla chitarra di Giacomo Rondinella. L’impatto emotivo Averardo Ciriello – viene dall’illustrazione di libri e riviste – è un cartellonista di forte impatto emotivo. Si occupa di alcuni film di origine letteraria, che proseguono la collaudata tradizione della casa, come La figlia del capitano (1947) di Camerini, I miserabili (1948) di Riccardo Freda, Il mulino del Po (1949) di Lattuada. Il primo è dominato dal volto corrucciato di Amedeo Nazzari-Pugaciov, mentre il secondo si misura abilmente con i due episodi del film facendone risaltare lo spessore romanzesco. Il terzo sembra alleggerire l’ampio affresco narrativo del romanzo di Bacchelli, come aveva fatto anche il regista, esaltando la storia d’amore di Carla Del Poggio e Jacques Sernas6. 76

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La locandina di Senza pietà (1948) di Lattuada semplifica al massimo il cupo melodramma d’autore, mentre il manifesto di Il cammino della speranza (1950) di Germi evoca con rude intensità l’epopea dell’emigrazione. C’è già aria di peplum all’italiana nella brochure di Attila (1950) di Pietro Francisci, che coniuga con policroma disinvoltura storia e leggenda, amore e guerra in un abile gioco di primi piani e di sfondi allusivi. Ma Ciriello è molto dotato anche nel comico, almeno a giudicare dallo straordinario disegno per L’imperatore di Capri, in cui coglie con ironia la maliziosa espressione del mimo napoletano. Dante Manno ha un tratto forte e sottolineato nel rappresentare l’irruenza sessuale del nuovo personaggio della “maggiorata” nella locandina di Riso amaro e nel manifesto di Miss Italia (1950) di Coletti: le sue altere Silvana Mangano e Gina Lollobrigida sono le “signorine grandi firme” del dopoguerra, la versione aggiornata delle donnine anni trenta di Boccasile. Il gusto per i ritratti femminili si ritrova in Anna (1951) di Lattuada, ancora la Mangano in uno dei maggiori successi del momento, e in Europa ’51 (1952) di Roberto Rossellini, con un’angosciata Ingrid Bergman che all’epoca pubblico e critica rifiutano. La locandina di Ulisse (1954) di Camerini, fin troppo affollata di scene e personaggi, ripropone la tradizione del film a grande spettacolo, uno dei suoi filoni tradizionali a cui la Lux ricorre anche quando già si annunciano gli anni della crisi. Manfredo Acerbo, anche pittore dalla vasta attività espositiva, sottolinea con i suoi caratteristici tratti sbozzati il clima sospeso di In nome della legge (1949) di Germi. Sono numerosi i disegni che dedica a Campane a martello (1949) di Zampa e a Il grido della terra (1949) di Coletti, che vengono utilizzati soprattutto per la pubblicità nelle riviste. Nei lavori degli anni successivi si impone il bozzetto 77

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complesso e articolato per Dov’è la libertà...? (1954) di Rossellini. I disegni che realizza per Senso (1954) di Luchino Visconti sono particolarmente incisivi ma non vengono utilizzati per il manifesto definitivo del film. Giorgio Olivetti dopo la brochure un po’ rozza di Il passatore (1947) di Coletti, firma l’impegnativa fotobusta di Paolo e Francesca (1950) di Raffaello Matarazzo, efficace illustrazione dei momenti più significativi del dramma dantesco. Enrico De Seta, uno tra i più prolifici cartellonisti italiani, lavora pochissimo per la Lux, ma il suo manifesto per Un turco napoletano (1953) di Mattoli è memorabile. Il primo tentativo rifiutato dalla committenza è una stilizzata geometria in cui le lettere del nome del comico diventavano i lineamenti del suo volto. Nel manifesto definitivo il disegnatore si vendica inserendo Totò in un harem pieno di donnine in abiti succinti, di cui è un riconosciuto specialista.

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STRAPPALACRIME

Negli anni cinquanta i dibattiti sono riti di esorcismo. Non fa eccezione neppure quello sul cinema popolare che si svolge sulle colonne di «l’Unità» dal novembre 1955 all’aprile 1956 1. Perché milioni di spettatori li premiano con incassi record mentre i critici li bollano come filmacci d’appendice? Tutti insistono sulla disparità di giudizio tra critica e pubblico, ma pochi sono disposti a mettere in discussione i propri strumenti critici. Il fantasma del neorealismo è ancora il mito di riferimento di gran parte della critica che attribuisce all’autore l’aureola del mandato pedagogicosociale, fuori del quale ci sono soltanto basse speculazioni commerciali e bieche corruzioni del gusto. Il caro estinto continua a essere il parametro, più un imbuto che una chiave di lettura, a cui viene commisurata ogni novità. Non importa che il mondo stia cambiando e il cinema non sia più quello di dieci anni prima. L’ingenuità di Matarazzo La bestia nera del dibattito è Raffaello Matarazzo. I suoi Catene (1949), Tormento (1950), I figli di nessuno (1951), Chi è senza peccato…(1952) sono citati di solito con lo sdegno totalizzante che esclude ogni volontà di analisi. Nel suo intervento lo stesso regista – che si mette dalla parte del 79

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pubblico, in difesa dei trentasette milioni di spettatori che hanno visto i suoi film, tanti per un paese di quarantasei milioni di abitanti – rifiuta il giudizio sommario, si appella crocianamente al principio di distinzione, non si riconosce nella «meccanica calcolatrice» fatta di sorprese e colpi di scena, respinge l’accusa di facile, deteriore sentimentalismo. «La storia di personaggi che soffrono perché vittime di ingiustizie sociali, o perché schiacciati da un destino cieco e crudele; le vicende imperniate sulla verità della vita quotidiana, verità non cercata nei fatti esteriori, ma nella concretezza stessa dell’esistenza di ognuno; il dissolversi improvviso, fatale di una felicità che sembrava raggiunta e che, invece, di colpo, il caso, il fato ci toglie da sotto gli occhi con terribile inesorabilità, non sono forse questi gli argomenti che più e veramente interessano la maggioranza?», si chiede. «Quello che ama di più è vedere come attraverso l’opera dello stesso fato, per mezzo delle storture raddrizzate, nei limiti resi possibili dall’umanità stessa, o infine, grazie alla rassegnazione là dove inutile e vana è la lotta, si possa arrivare a una felice conclusione, a una più umana e sopportabile condizione di vita. Cioè la speranza, la speranza in un mondo migliore: ecco la grande aspirazione, lo spettacolo più bello e gradito per tutti coloro che certamente non vivono nel migliore dei mondi»2. L’ingenuità di Matarazzo – che dietro la macchina da presa piange come una fontana mentre Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson si riabbracciano nell’ultima inquadratura di Catene – è la stessa dello scrittore popolare che partecipa alla vita dei propri personaggi e si commuove soffrendo con loro 3. Non sono molto diversi neppure i meccanismi attraverso cui una narrativa tutt’altro che rivoluzionaria porta la donna alla ribalta affidandole il compito di sciogliere i nodi drammatici e di ristabilire la “normalità”, ma 80

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facendone anche il tramite nei confronti del mondo notturno dei desideri inconfessabili in cui incalzano le strategie dell’inconscio4. Se sono stati sottolineati a più riprese i limiti mediologici di una querelle che si ostina a ignorare i sommovimenti in corso nello scenario dell’industria culturale di massa5, forse non si è insistito abbastanza sulla diffidenza nei confronti dell’universo melodrammatico che squaderna davanti ai nostri occhi lo spettacolo dell’iperbole, mettendo in scena le emozioni nell’«assolutezza di contrapposizioni basilari come tenebra e luce, salvezza e dannazione»6. Soltanto vent’anni dopo si potrà ammettere senza giri di parole che l’intero sistema retorico del melodramma rappresenta «una vittoria sulla repressione», riuscendo a sconvolgere «tutto ciò che normalmente costituisce il “principio di realtà”, con le sue cesure, i suoi compromessi, le sue ipocrisie tranquillizzanti»7. Nello «scandalo» del melodramma, sempre eccessivo, estremo, inconciliabile, si può finalmente riconoscere non solo lo statuto di un genere dell’intrattenimento popolare, ma una forma moderna dell’immaginario dotata di una interna necessità, che resiste al di là delle trasformazioni8. Niente declamazioni, niente perdoni Sin dal primissimo dopoguerra il mélo italiano aveva rivendicato la propria legittimità nell’ambito del cinema spettacolare in cui la “continuità” prevale sulla “frattura”, contrapponendosi ai film-manifesto del neorealismo in cui la “frattura” avrebbe dovuto imporsi sulla “continuità”9. Mario Mattoli – uno dei grandi artigiani dell’anteguerra – si candida a svolgere un ruolo importante nel nuovo corso 81

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con La vita ricomincia (1945), in cui affida a Alida Valli, la sua attrice feticcio, il compito di rappresentare il corpo stesso di un cinema sotto processo che, sullo sfondo sin troppo esemplare delle macerie di Napoli e di Cassino, respinge le accuse e continua a «parlare al vostro cuore»10. Nessun dubbio sul verdetto. La filosofia del regista che non risparmia le frecciate alla volgarità dei neoricchi e all’ambiguità dei potenti, coincide con la saggezza conciliatrice del professor Eduardo De Filippo: «Niente, è la vita che ricomincia come prima. Non è successo niente, non c’è stato niente. Niente scene, niente declamazioni, niente perdoni». Si direbbe almeno in parte lo slogan della Excelsa Film che, dopo una decina di titoli degli anni di guerra, nel ’45 oltre a La vita ricomincia produce Roma città aperta, assicurandosi con i film di Rossellini e di Mattoli i primi posti nella classifica degli incassi11. Il richiamo dell’attualità Nonostante Alida sia più bella che mai, non ha altrettanto successo Il canto della vita, l’altro film prodotto in quell’anno fatidico dalla stessa casa. Il veterano Carmine Gallone si affanna ad aggiornare la ricetta del dramma larmoyant, fatta di cinici seduttori e figli della colpa, sfoggiando i contrassegni dell’attualità – rastrellamenti tedeschi, improbabili partigiani, sfilate alleate tratte dai cinegiornali – senza mai riuscire a farli diventare parte integrante della vicenda, arroccata in un’immobile ambientazione contadina12. Il tentativo è condiviso da altri infaticabili del cinema popolare che sfornano un gran numero di titoli sintonizzati sul presente. Se Fatalità (Bianchi, 1947) è una datata storia passionale rivitalizzata dalle illusioni della ricostruzio82

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ne, L’ebreo errante (Alessandrini, 1948) mescola con disinvoltura il manicheismo del vecchio feuilleton con l’orrore insostenibile dei lager, oscillando tra l’antica leggenda e un’affrettata pacificazione. Il grido della terra (Coletti, 1949) perde di vista la vicenda sentimentale a vantaggio del tema inconsueto della nascita dello Stato di Israele, tra soprassalti della guerriglia antibritannica e partecipi incursioni nel vissuto della comunità ebraica. La città dolente (Bonnard, 1949) vede la frontiera jugoslava nell’ottica della propaganda anticomunista, enfatizzando le vicissitudini delle migliaia di italiani che, in nome della patria e della famiglia, hanno sacrificato tutto pur di restare italiani13. Ma l’attualità è anche quella della “cronaca nera” che torna alla ribalta dopo la lunga rimozione del ventennio fascista. L’altra (Bragaglia, 1947) inaugura il filone del melodramma noir interpretando nella chiave pirandelliana delle molte verità il caso Graziosi, uno dei primi drammi passionali del dopoguerra, appena riproposto da un lungo processo. Tombolo, paradiso nero (Ferroni, 1947) nella famigerata pineta di Livorno si ritaglia un intero girone di criminali, «segnorine», magnaccia, dando vita a un film a corrente alternata in cui i sopralluoghi neorealisti non interferiscono più di tanto con il gaglioffo voyeurismo della vicenda. Il filone – anzi l’avvio di un filone destinato a crescere negli anni seguenti – suscita le rimostranze di un critico per bene, come l’autorevole Mario Gromo che vi riconosce la fragilità della produzione commerciale pronta a scivolare nel conformismo delle formule: «Prima, e per forza, tutti bravi Pierino, tutti a braccia conserte, tutti nel primo banco: ora, e per convenienza presunta, tutti cattivi, tutti cattivoni, tutti cattivacci. Era prima vietato sullo schermo il delitto? E giù delitti. L’adulterio? E giù adulteri. La prostituta? E giù prostitute. Il dopoguerra è stato una sentina, un miasma? E giù a frugare in quella sentina, in quel miasma»14. 83

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Il film-opera Nel frattempo Gallone ci riprova con Avanti a lui tremava tutta Roma (1946), in cui il tema resistenziale, con tanto di paracadutisti inglesi e di ufficiali tedeschi, si intreccia alle effusioni di Tito Gobbi e Anna Magnani, impegnati dentro e fuori il palcoscenico a rifare la Tosca. Ma è soltanto con Rigoletto (1946) che si assicura il primo posto nella classifica della stagione, rifacendo tale e quale la celebre opera di Giuseppe Verdi15. Il singolare campione d’incasso – preceduto di poco da Il barbiere di Siviglia (Costa, 1946) – inaugura la fioritura del film operistico, che tiene banco per un decennio con diciotto cineopere, di cui sette firmate dal vecchio maestro16. L’intero repertorio classico dell’opera lirica italiana passa dal palcoscenico allo schermo, dando vita a uno dei primi generi cinematografici postbellici, in grado di raggiungere il pubblico più “profondo”, che mostra di apprezzare sia le semplici trasposizioni delle opere liriche consacrate che le rielaborazioni attente agli specifici della drammaturgia cinematografica, le biografie romanzate dei compositori e degli interpreti come le attualizzazioni variamente pretestuose e ibridate. Il successo del cinema operistico attraversa – dopo averla di poco preceduta – l’affermazione trionfale del mélo per concludere la sua parabola entro lo stesso decennio. Saltano agli occhi le differenze di fondo tra melodramma cantato e mélo, tra film opera e dramma larmoyant, ma anche le affinità che si rifanno al grande modello del melodramma musicale ottocentesco, considerato da più parti come un momento decisivo nella formazione dell’immaginario nazionale, uno dei contrassegni più riconoscibili della nostra identità collettiva17. L’aveva detto a modo suo anche Matarazzo nella battuta – «Io sono uno che viene dal popo84

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lo, un contadino che fa della musica» – messa in bocca al genio di Busseto in Giuseppe Verdi (1953), lucidissima riflessione su spettacolo popolare, committenza, modi di produzione, mercato18. I rapporti con il romanzo popolare Il mélo italiano era venuto cercando la propria strada anche nel territorio del romanzo popolare e della letteratura di consumo, riscoprendo schemi narrativi e sentimenti tematici del feuilleton ottocentesco italiano, il frequentato crocevia che vede la nascita del prodotto di massa19. I maggiori successi arridono a Guido Brignone. Nel ’49 l’eclettico money-maker, attivo sin dal muto, per la Flora Film riesuma La sepolta viva di Francesco Mastriani e Il bacio di una morta di Carolina Invernizio, nei quali, ormai assenti i fremiti di rivendicazione sociale propri della prima fase del romanzo d’appendice, l’appiattimento sull’universo dei lettori piccoloborghesi e sottoproletari si salda al ripiegamento sugli interni familiari, sulle vicissitudini del cuore. Sin da queste scelte sembra prevalere il “modello Invernizio” di un romanzo apolitico, fatto di delitti sensazionali, clamorose redenzioni, figlie perdute e ritrovate, in cui il codice dell’onore ruota intorno ai personaggi femminili20. Il saccheggio della letteratura ottocentesca era iniziato già negli anni precedenti in cui le fortune del cinema feuilletonistico si erano venute definendo insieme al film in costume che – nella varietà degli sfondi storici e degli scenari geografici, nella ridondanza dei motivi melodrammatici di amore, morte e avventura – si contrappone all’hic et nunc neorealista, com’è confermato dagli incassi clamorosi di Genoveffa di Brabante (Zeglio, 1947), La figlia del capita85

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no (Camerini, 1947), Il corriere del re (Righelli, 1947), La monaca di Monza (Pacini, 1947). Si tirano giù dagli scaffali romanzi d’appendice e opere reputate, drammi polverosi e tenaci longseller, da Luigi Capuana (Malìa) a Raffaele Viviani (Notte di tempesta), da Honoré de Balzac (Eugenia Grandet) a Antonio Fogazzaro (Daniele Cortis), da Carlo Bertolazzi (Vanità) a Rocco Galdieri (Fatalità), da Grazia Deledda (Le vie del peccato) a Salvatore Di Giacomo (Assunta Spina), da Roberto Bracco (Sperduti nel buio) a Gabriele D’Annunzio (Il delitto di Giovanni Episcopo), da Xavier de Montépin (Il fiacre n. 13) ad Aleksandr Pusˇkin (Aquila nera), da Ponson du Terrail (Il fabbro del convento) a Lev Tolstoj (Amanti senza domani), da Victor Hugo (I miserabili) a padre Dante (Il conte Ugolino), con incassi molto differenziati ma comunque significativi. Sta a sé – in uno scenario in cui si intrecciano avventura e melodramma, testi letterari e librettistica d’opera – il caso di Riccardo Freda che con Aquila nera (1946), I miserabili (1948), Beatrice Cenci (1956), propone un modello importante e finora solo in parte riconosciuto del grande cinema spettacolare italiano, un cinema di debordante vitalità girato all’americana con inimitabile talento visivo21. Negli anni seguenti il “modello Invernizio” è più vivo che mai. Il veterano Carlo Campogalliani – classe 1885, nel cinema sin dal 1909, attivo in Italia, Francia, Germania, Sud America – riprende con alterna fortuna quattro dei centoventi romanzi dell’«onesta gallina della letteratura popolare»: La mano della morta (1949), La figlia del mendicante (1950), L’orfana del ghetto (1954), L’angelo delle Alpi (1956). L’effetto boomerang va ben oltre la scrittrice di Voghera fino a investire un’intera biblioteca della narrativa popolare e d’appendice. «La romantica popolare è presa d’assalto, vengono svaligiati i carretti dei librai che girano per le fiere; 86

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ecco a decine le cieche di Sorrento, le mani tagliate, i fornaretti di Venezia, le mute di Portici», osserva ironicamente Ennio Flaiano. «Al primo apparire, questi personaggi e le loro storie erano piaciuti per quel tanto di ingenuo e grossolanamente drammatico che contenevano. Potevano anche essere indispensabili a un certo pubblico; ma l’accanimento dei produttori nel riproporli, la monotonia che ne è derivata, fanno ritenere che ormai il danno sia maggiore dei benefici. L’offerta ha superato la richiesta»22. Il successo del cinema feuilletonistico – a dispetto dei flop che servono a ricordare la natura mercantile del fenomeno – continua in realtà per tutto il periodo registrando incassi ragguardevoli. La mobilitazione ancora una volta indiscriminata implica livelli estremamente diversi della scrittura romanzesco-drammaturgica, da Grazia Deledda (L’edera, Amore rosso, Proibito) a Marco Praga (Ultimo incontro), da Dario Niccodemi (La nemica, L’ombra) a Henry Kistemaekers (La fiammata), da Giovanni Verga (La lupa) a Antoine-François Prévost (Gli amori di Manon Lescaut), da Francesco Mastriani (La cieca di Sorrento) a Luciana Peverelli (François il contrabbandiere), da Eugène Sue (I misteri di Parigi) a Alphonse de Lamartine (Graziella), da Alphonse D’Ennery (Le due orfanelle) a Octave Feuillet (Il romanzo di un giovane povero), da Paul Féval fils (Il figlio di Lagardère) a Georges Ohnet (Il padrone delle ferriere), coinvolgendo un gran numero di case di produzione importanti, minori e minime. Il film-canzone Il richiamo alla musica non riguarda soltanto il melodramma ma anche la canzone, soprattutto quella napoleta87

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na, che vanta sia una tradizione particolarmente forte, sia una struttura narrativa in grado di evocare in forma condensata un intero dramma in miniatura23. Il film-canzone è l’altro ricchissimo filone che corre parallelo alle fortune del mélo, con cui interferisce dando vita a una vasta gamma di contaminazioni e di sovrapposizioni. ’O sole mio! (Gentilomo, 1946), il film che fa da battistrada, è anche uno degli esempi più interessanti non solo per l’intreccio tra tema resistenziale e tema canoro – la vicenda del cantante italo-americano che trasmette messaggi in codice cantando alla radio è una sorta di parabola mediologica –, ma anche per la contaminazione tra approccio neorealista e drammaturgia della sceneggiata24. Il successo del film, che si guadagna il terzo posto nella classifica della stagione, inaugura la lunga fioritura del cinema canzonettistico che conta una miriade di titoli, tra i quali non mancano i drammoni strappalacrime come Monastero di Santa Chiara (Sequi, 1949), Core’ngrato (Brignone, 1951), La città canora (Costa, 1952), Addio, mia bella signora! (Cerchio, 1953), Torna, piccina mia! (Campogalliani, 1955), in cui la messa in fabula della tradizione melodica s’inscrive in una geografia sentimentale che è sempre idealmente ai piedi del Vesuvio 25. Il mito della napoletanità a cuore spiegato alimenta anche l’attività di Roberto Amoroso, Natale Montillo, Enzo Di Gianni, Antonio Ferrigno, rivolta prevalentemente al mercato meridionale e ispirata ai criteri del bassissimo costo, per cui il produttore factotum può essere volta a volta sceneggiatore, operatore, montatore, attore o comparsa26. Singolare e già mitica figura di imprenditore, Amoroso è il titolare di una minuscola casa di produzione che sigla Malaspina (Fizzarotti, 1947), Madunnella (Grassi, 1948), Nennella (May, 1948), La figlia della Madonna (Bianchi Montero, 1949), Lo zappatore (Furlan, 1950), altrettanti 88

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esempi di un cinema naïf che, secondo gli schemi collaudati della sceneggiata teatrale, mescola romanzo d’appendice e tradizione canzonettistica, amor sacro e amor profano27. Si sprecano le femmine senza cuore, i giovani innocenti, gli amori contrastati, i perfidi rivali, anche nei film realizzati da Montillo per la S.A.P. [Sant’Antonio Proteggimi] Film attingendo a piene mani al patrimonio canoro partenopeo: Calamita d’oro (Fizzarotti, 1949), Napoli, eterna canzone (Siano, 1949), Luna rossa (Fizzarotti, 1951), Rosalba, la fanciulla di Pompei (Montillo, 1952), Balocchi e profumi (Montillo-De Bernardi, 1953)28. Secondo Vito Pandolfi, che nel corso di un viaggio al sud ha modo di verificare l’accoglienza del pubblico più periferico, Rosalba – confrontato a prodotti più ambiziosi e professionalmente rifiniti – rivela «un aspetto più fresco, meno stucchevole, e direi, per quanto possa sembrare assurdo, una maggior buona fede, persino nel suo volgare pietismo»29. Di Gianni – autore e capocomico nel teatro di rivista, compositore e paroliere – dà vita alla Eva Film per la quale produce e dirige Destino (1951), Pentimento (1952), Madonna delle rose (1953), Incatenata dal destino (1955), tutti e quattro interpretati dalla moglie Eva Nova. Se nei primi cantano Nilla Pizzi, Gino Latilla, Natalino Otto, nell’ultimo Eva – nonostante il giudizio negativo nei confronti del mondo della canzone visto come il regno del male – si prende la rivincita sfoggiando l’intero repertorio da “Passione” a “Maruzzella”, da “Luna marinara” a “Roselline”, da “La pansè” a “I’ te vurria vasà!”, da “Soldatini di ferro” a “Dimme addo’ staie”. Il cinema povero dell’Aeffe Film di Ferrigno comincia con la canzone napoletana e finisce con Richard Wagner. I primi successi dell’ex esercente sono infatti Cuore forestiero (Fizzarotti, 1952), …e Napoli canta! (Grottini, 1953), Piccola santa (Bianchi Montero, 1954). La sua attività produttiva si 89

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conclude con La trovatella di Pompei (1957) e Sigfrido (1958) di Giacomo Gentilomo. Il primo è il tipico drammone giudiziario, il secondo si rifà molto liberamente alla saga nibelungica. La Romana film L’unica apparizione sullo schermo di Fortunato, Nino e Pasquale Misiano – sono i tre pensionanti della Sora Teresa in cui s’imbatte il Totò di Dov’è la libertà...? (1954), di Roberto Rossellini, appena uscito di prigione – costituisce un singolare documento della loro presenza esuberante e insieme minacciosa nella scena cinematografica30. La Romana Film dei fratelli Misiano è una piccola roccaforte del cinema seriale che sforna film a getto continuo, un occhio ai costi di lavorazione e l’altro alla vendibilità del prodotto. Fortunato vi mette a frutto il suo lungo background di comparsa, capogruppo, segretario di produzione che risale a metà degli anni trenta31. Nella quarantina di titoli realizzati nel periodo c’è di tutto. Ma il modello della sceneggiata napoletana – con le sue consuete oscillazioni tra film-canzonetta e dramma passionale – è prevalente sin dai primi successi. Monaca santa (Brignone, 1948), dalla canzone “Ammore busciardo”, è la storia di un’orfana dall’ugola d’oro abbandonata dalla zia monaca, sfruttata dal solito mascalzone, ma decisa a diventare una cantante di successo. Carcerato (Grottini, 1951) è un digest di passioni ardenti, tradimenti più presunti che reali, sconfitta del villain con riconciliazione finale. Lacrime d’amore (Mercanti, 1954), dalla canzone “Ddoje lacreme”, è dedicata alla sbandata sentimentale della moglie di un industriale e di un cantante napoletano: rientreranno entrambi in famiglia. 90

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Il più prolifico è Luigi Capuano – ex giornalista sportivo e comandante pilota, una delle figure più dimenticate del cinema minore – il cui apporto alla Romana Film comprende una dozzina di titoli da Gli innocenti pagano (1952) a Ergastolo (1952), da Condannatelo! (1953) a Scapricciatiello (1955), da Amaramente (1956) a Onore e sangue (1957), che svariano tra ritorno del reduce, seduzione e abbandono, rapimento di bambini, innocenti ingiustamente accusati, false testimonianze, appropriazioni indebite, senza rinunciare nemmeno alla muta che riacquista la parola in tempo per accusare il vero colpevole. S’incontra con la factory di Misiano anche Vittorio Cottafavi, l’aristocratico maestro del melodramma freddo che – dopo Traviata ’53 (1953) – realizza con Una donna libera (1954), uno dei suoi vibranti ritratti femminili, così in anticipo sui tempi da essere considerati protofemministi. Il cinema di Cottafavi non mette esplicitamente in discussione i luoghi comuni della convenzione melodrammatica né la banalità delle situazioni e delle peripezie di avvio, ma agisce dall’interno con uno spostamento di prospettiva, di sguardo, che di fatto introduce un altro piano, una diversa e più intima dimensione. «A partire dal melodramma, io cercavo qualcosa di interiore, qualcosa di vero», dirà più tardi. «Tentavo di farlo soprattutto con i personaggi di donne: l’anima di una donna mi interessa di più, è più sensibile, più capace di penetrare il dolore, e in ogni caso più capace di arrivare nel dolore all’esasperazione totale»32. La Titanus e il cinema popolare Nessuna altra casa può vantare la continuità di interessi nei confronti del cinema popolare della Titanus, di cui è 91

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proverbiale l’attenzione al mercato di profondità33. Gustavo Lombardo trasmette la linea editoriale al figlio Goffredo, che verrà definendo la sua strategia senza tradire le premesse. Il momento del passaggio del testimone coincide con i primi anni cinquanta che inaugurano i clamorosi successi di Catene, Tormento, I figli di nessuno, tutti e tre in cima alle classifiche. Senza la febbre di risultati così straordinari non si spiegherebbe il tremendo ricalco matarazziano di Noi peccatori (Brignone, 1953), scombinato fumettone con mariti ciechi, madri in prigione, incidenti automobilistici, mogli paralizzate34. Nel melodramma, la vocazione nazionalpopolare non fa distinzione tra destra e sinistra, tra Augusto Genina e Giuseppe De Santis. Subito dopo Roma ore 11 (1952), che traghetta la cronaca in rito collettivo, mescolando ideologia e spettacolo, impegno e divismo, generi alti e pratiche basse, è la volta di Maddalena (1954), delirante film-testamento, insieme trucido e sublime, che, tra zaffate postribolari e bagliori mefistofelici, mette in scena l’impossibilità maschile di vedere la donna se non schizofrenicamente sdoppiata in madonna o puttana35. Il marchio della Titanus risalta in tutta la sua referenzialità in Menzogna (1952), il film “napoletano” del quasi settantenne regista del muto Ubaldo Maria Del Colle, che l’anno prima aveva esordito come assistente in I figli di nessuno. La moglie di Gustavo, la diva Leda Gys, vuole aiutare il compagno d’arte in difficoltà facendogli girare un film. Roberto Murolo che in Catene aveva consolato Nazzari con “Lacreme napulitane”, qui canta “Nu quarto ’e luna”. Yvonne Sanson vi interpreta il suo consueto ruolo di vittima della casalinghitudine, mentre Irene Galter e Alberto Farnese rifanno i fidanzati poveri di Roma ore 11. Giuseppe De Santis accetta di firmare la supervisione, ma poi ci ripensa e la scritta viene tolta dai manifesti. 92

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La Lux di Gualino L’influenza della Lux di Riccardo Gualino nella produzione italiana – almeno per quanto riguarda la definizione del mélo nazionale, la sua interna elaborazione tra pretesti letterari, richiami all’attualità, spettacoloni in costume – va commisurata alla sua capacità di irradiazione, di moltiplicazione delle esperienze che si intrecciano tra di loro come nel “romanzo di formazione” di svariate generazioni di produttori36. Se Dino De Laurentiis a via Po lavora almeno su due modelli differenti come il grande spettacolo in costume (La figlia del capitano) e l’epos del presente (Riso amaro, De Santis, 1949), Carlo Ponti punta sul film-romanzo (I miserabili; Il mulino del Po, Lattuada, 1949) e sul noir variamente contaminato (Senza pietà, Lattuada, 1948; Fuga in Francia, Soldati, 1948). Nella breve parabola della Ponti-De Laurentiis è esplicito il tentativo di conciliare gli opposti estremismi (Il brigante Musolino, Camerini, 1950 e Europa ’51, Rossellini, 1952), ma non sono meno evidenti il richiamo del drammone strappalacrime costruito a tavolino (Anna, Lattuada, 1951) o l’aggiornamento del mélo in chiave torrida (La tratta delle bianche, Comencini, 1952; Sensualità, Fracassi, 1952; La lupa, Lattuada, 1953). Quando si separano, Ponti è un giano bifronte che guarda indietro (L’ultimo amante, 1955, il remake del mattoliano Stasera niente di nuovo è quasi una dichiarazione d’intenti) e avanti con La donna del fiume (Soldati, 1954), costruito su misura per Sophia Loren con scampoli del melodramma popolare d’epoca da un esercito di sceneggiatori doc, mentre De Laurentiis sostituisce rapidamente il “modello Amato” con il “modello Selznick”, puntando tutto sulle superproduzioni (La tempesta, Lattuada, 1958). Non è conosciuta come meriterebbe l’operosa intraprendenza di Luigi Rovere a cui si deve un gruppo di opere 93

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di grande interesse, realizzate con De Laurentiis, da Il bandito (Lattuada, 1946) a Il passatore (Coletti, 1947), da In nome della legge (Germi, 1949) a Il cammino della speranza (Germi, 1950). Ma anche al di fuori della Lux, Rovere riesce a fare, con vari intrecci produttivi, un paio di noir (Il bivio, Cerchio, 1951, bell’esempio di poliziesco torinese, e Persiane chiuse, 1951, in cui Comencini sostituisce Puccini in crisi), un altro Germi (Il brigante di Tacca del Lupo, 1952) e due Pellegrini (Ombre sul Canal Grande, 1951, e Sinfonia d’amore, 1954). Si vorrebbe saperne di più di Domenico Forges Davanzati che alla Lux è coinvolto come organizzatore e producer in film di Coletti (Il grido della terra, 1949; Romanzo d’amore, 1950), De Santis (Non c’è pace tra gli ulivi, 1950), Visconti (Senso, 1954) per produrre poi in proprio ancora De Santis (Un marito per Anna Zaccheo, 1953) e, con altri, due Capuano (Ballata tragica, 1954; Luna nuova, 1955). Ma anche di Valentino Brosio, singolare figura di intellettuale imprestato al cinema, scomparso novantaseienne all’inizio del 1999. Alla Lux sin dall’anteguerra – e coinvolto in film fondamentali di Camerini, Soldati, Castellani – nel dopoguerra è direttore di produzione di Righelli (Abbasso la miseria!, 1945; Abbasso la ricchezza!, 1946), Soldati (Donne e briganti, 1950), Matarazzo (Paolo e Francesca, 1950; Vortice, 1953). Il rapporto con Matarazzo va al di là della Lux, è più profondo e poco conosciuto. Brosio lo si ritrova sia nei film prodotti dalla Titanus insieme con la Labor Film, la piccola casa fondata da Matarazzo con Tito Pirri (Catene, Tormento, I figli di nessuno, Chi è senza peccato...), sia in quelli realizzati con altre produzioni (Giuseppe Verdi; Guai ai vinti!, 1954). Dei colonnelli della Lux, il solo a passare alla regia è Clemente Fracassi, il direttore di produzione (I miserabili, Senza pietà, Fuga in Francia, Il mulino del Po) che sostituisce Soldati sul set di Romanticismo (1951) e, travolto dal 94

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successo, fa il bis con Sensualità, Aida (1953), Andrea Chénier (1955). Le presenze femminili Specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame? Non è possibile ripensare al mélo del dopoguerra senza rievocare le presenze fantasmatiche di Silvana Mangano, Lucia Bosè, Silvana Pampanini, Ingrid Bergman, Anna Magnani, Alida Valli, Eleonora Rossi Drago e di tutte le altre – e naturalmente di tutti gli altri – che sono state lo schermo della passione ma anche la passione dello schermo, rimbalzando in migliaia di immagini al fondo delle quali abbiamo intravisto la nostra salvezza o il nostro smarrimento37. Ma il cinema dei corpi fiammeggianti cede ormai alle immagini pallide e svenevoli delle truppe di rincalzo. Silvana Mangano – un nome per tutti – passa le consegne a Myriam Bru, la stellina del commendator Rizzoli, protagonista di Ti ho sempre amato! (Costa, 1953), Appassionatamente (Gentilomo, 1954), Gli amori di Manon Lescaut (Costa, 1954), Le due orfanelle (Gentilomo, 1954). Anche quando si risale alle lontane fonti letterarie, il modello è ancora una volta quello dei feuilleton matarazziani. Non a caso Nazzari spunta in più di un titolo, perfetto testimonial del melodramma all’italiana senza del quale non si celebra il rito, ma anche inappuntabile professionista, quasi sempre più sensibile e misurato di quanto solitamente non gli venga riconosciuto. Costa vi riversa la sua capacità di attraversare con sovrana fermezza tutti i generi, ma anche il suo irriducibile senso dello spettacolo che sa imprimere ai fumettoni strappalacrime la micidiale capacità di “tenere” il pubblico fino all’ultimo fotogramma38. 95

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Gentilomo vi sfoga il suo maniacale perfezionismo, l’ossessione per il dettaglio marginale, ma anche la scansione limpida e composta d’una regia di grande scorrevolezza. Fanno B movie, ma con tanti titoli operistici e canori alle spalle hanno il senso musicale del ritmo cinematografico. Dal cinema alla tv Lo sceneggiato televisivo è già pronto a raccogliere l’eredità del cinema d’appendice con una pioggia di titoli – Il dottor Antonio, Piccole donne, Cime tempestose, L’alfiere, Il romanzo di un giovane povero, Orgoglio e pregiudizio, Piccolo mondo antico, Umiliati e offesi, Capitan Fracassa, Le avventure di Nicholas Nickleby, Canne al vento, L’isola del tesoro, Il romanzo di un maestro, Ottocento – mobilitando tutti insieme appassionatamente Giovanni Ruffini, Louisa May Alcott, Emily Brontë, Carlo Alianello, Octave Feuillet, Jane Austen, Antonio Fogazzaro, Théophile Gautier, Charles Dickens, Fëdor Dostoevskij, Grazia Deledda, Robert Stevenson, Edmondo De Amicis, Salvator Gotta in un tripudio di grandi sentimenti e di sofferte emozioni che il cinema aveva in parte già attraversato. L’intera filmografia cinematografica di Anton Giulio Majano – sin dall’inizio uno dei maestri dello sceneggiato tv con Daniele Danza, Silverio Blasi, Vittorio Cottafavi, Sandro Bolchi, Giacomo Vaccari, che ebbero all’epoca ascolti da capogiro – s’iscrive nel cinema d’appendice, da L’eterna catena (1952) a Una donna prega (1953), da La domenica della buona gente (1953) a Cento serenate (1954), da Terrore sulla città (1957) a Il padrone delle ferriere (1959). Il primo – con due fratelli coltelli, uno angelo e l’altro demonio, la fidanzata dell’uno che finisce con l’altro, il 96

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losco figuro in odore di stupro, l’innocente ingiustamente accusato, la trasferta nella Legione straniera, la tragica fine del cattivo – è quasi un manifesto. «Non c’è motivo di infierire», sostiene Arturo Lanocita, per il quale il film «ripropone motivi di narrativa popolare altrettanto eterni quanto questa catena promessa dal titolo di cui poi non si trova traccia nella pellicola». E ancora: «Le apparenze ingannatrici si sovrappongono alla realtà con la pertinace soperchieria del fato. [...] Lo stesso regista [...] figura come autore del soggetto, nei titoli di testa, mentre i veri autori sono i cantastorie che, nelle piazze, accompagnandosi con la chitarra, da secoli narrano la triste vicenda del giovane vittima delle calunnie e delle fatalità»39. Il segreto di Majano – che nelle scene madri tira fuori il fazzoletto come i suoi spettatori – è la sincerità40.

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IL PRINCIPE E LO STARNUTO

L’incontro di Totò con il cinema avviene nel 1947 quando Mario Mattoli vince la resistenza dei produttori che, dopo i flop dell’anteguerra, non hanno alcuna fiducia nelle sue possibilità cinematografiche. A fare da spartiacque è I due orfanelli, per il quale vengono usate le stesse scenografie ottocentesche di Il fiacre n. 13, un feuilleton strappalacrime tipo Le due orfanelle, di cui il nuovo film imbastisce la spericolata parodia, con orfanotrofi pieni di ingenue maliziose pronte a sostituire il grembiule con la camicia da notte, interi plotoni di dragoni che amoreggiano da lontano con le sospirose fanciulle, ignobili fattucchiere che nella palla di cristallo intravedono il passato e il futuro di ciascuno, conti zii e subdoli amministratori decisi a salvaguardare l’eredità dai diritti dei legittimi eredi con l’aiuto di seducenti fatalone pronte a tutto, duelli all’ultimo sangue e scalcinate guerricciole di ascendenza napoleonica dove tutti vanno alla carica tranne un minuscolo generale che aspetta pazientemente la fine. Nel credit del film appare, alla sua prima esperienza cinematografica, un giovanissimo Age, che ha scritto la sceneggiatura con lo smaliziato Steno, indovinando sin dall’inizio quella che si rivelerà ben presto la strada maestra della parodia. Il film andò bene e, avvenimento clamoroso per un film di recupero, incassò di più della stessa pellicola da cui aveva preso l’avvio1. Non è ancora il trionfo, ma la strada è quella giusta. Nei mesi successivi si viene delineando il grande successo che 99

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farà di Totò il divo numero uno del cinema italiano grazie a film come Fifa e arena (1948), che conquista il quinto posto nella classifica degli incassi, Totò al giro d’Italia (1948), che si aggiudica l’ottavo, I pompieri di Viggiù (1949), che figura al quarto. Il boom di Totò non poteva essere più clamoroso, anche sul piano del risultato economico. Nella stagione seguente Totò interpreta sei film, tra cui Totò cerca casa (1949), che raggiunge il secondo posto in classifica, L’imperatore di Capri (1949) il sesto, Totò le Mokò (1949) il settimo. Nella stagione 1950-51 il successo continua con altri film, tra cui Totò sceicco (1950), 47 morto che parla (1950), Napoli milionaria (1950), Figaro qua...Figaro là (1950), che si collocano entro i primi dieci posti della classifica dei maggiori incassi. Negli anni successivi la singolare fortuna del divo – che raccoglie i suoi maggiori favori presso il pubblico di periferia e di provincia – non accenna a diminuire se fino alla stagione 1956-57 almeno un film di Totò continua a essere compreso nella graduatoria dei primi dieci film di maggiore incasso. Anche negli anni sessanta, in cui la totomania sembra aver sbollito i suoi più acuti furori, il magico nome di Totò è ancora una garanzia per vastissimi strati del pubblico popolare2. Il divo dei poveri Straordinario divo dei poveri, Totò è stato il personaggio più famoso e amato di oltre un ventennio di cinema italiano, in cui ha profuso le sue singolari qualità in una serie di film confezionati per il consumo esclusivo del pubblico meno esigente, di cui seppe cogliere come nessun altro le tensioni, le aspirazioni e le frustrazioni. 100

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La travolgente parabola divistica comincia con Fifa e arena, che rifà il verso alla mitologia tipo “sangue e arena” delle corride, dei toreador, dei banderilleros, del pubblico esultante, delle miliardarie americane facili all’eccitazione, e prosegue con Totò sceicco che riprende l’«epopea della legione straniera e della casbah, strizzando l’occhio al mito di Atlantide e alla tradizione della letteratura romantica già saccheggiata dal cinema francese e americano. Totò parodiava sempre qualche cosa, muoveva sempre da uno spunto e si divertiva ad aggredirlo, a distorcerlo, a deformarlo. Si è sempre divertito a rifare qualcosa di già esistente, che liberamente reinterpretava, facendolo diventare l’occasione di una esibizione personalissima in cui sfogare una comicità insieme distruttiva e sorniona, irresistibile e sfuggente. Era la sua grande forza»3. Non resta molto di un personaggio o di un mito dopo che Totò lo ha attraversato, rovesciandolo dall’interno e facendosene beffe. Gli basta tirare in su o in giù la parrucca per cambiare personaggio, per capovolgerne il significato. Gli basta un berretto per calarsi nella parte del macchinista folle di Tototarzan (1950) che guida sino a Genova un treno diretto a Bari, eccolo chiudere gli occhi a una curva pericolosa o saltare dalla gioia dopo aver superato un lungo tunnel. Sono film sgangherati in cui domina il gusto di camuffarsi, di trasformarsi, di travestirsi. Eccolo vestito da hostess scoccare occhiate assassine a Mario Castellani e Ughetto Bertucci in Fifa e arena, damina settecentesca che gioca con il ventaglio in Figaro qua...Figaro là, procace condomina che civetta con Luigi Pavese, il padrone di casa di Tototruffa ’62 (1961), sussiegosa baronessa in Totò diabolicus (1962), temibile suora capellona in Totò e Peppino divisi a Berlino (1962). Totò risolve tutto nella mimica, nella obliquità permanente dello sguardo, nella inesauribile cangiabilità di un volto che può atteggiarsi nella bonomia o scatenarsi nella 101

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cattiveria, nella mobilità disarticolata del corpo che si fissa nel manichino di I pompieri di Viggiù o si libera nel Pinocchio di Totò a colori (1952), nel finto pazzo di Totò all’inferno (1955), straordinarie sedimentazioni di una lunga esperienza teatrale fondata sulla scansione dei movimenti, sul ritmo dei tempi scenici, sulla matematica delle entrate e delle uscite. Ma c’è anche il Totò che traduce la violenza parodistica, il gusto di contraddire e di sbeffeggiare nel sovvertimento della lingua, nella contaminazione dei materiali linguistici, con cui tra un “eziandio” e un “tampoco”, tra un “a prescindere” e un “è d’uopo”, si libera delle convenzioni ammuffite della burocrazia e dell’autorità. Il cinema di Totò è sin dall’inizio un cinema della fretta e dell’improvvisazione. Non ci vuole molto ad accorgersi che i deserti infuocati di Totò sceicco sono soltanto la spiaggia di Fiumicino, che la giungla di Tototarzan è stata ricostruita a Cinecittà, che l’aldilà di 47 morto che parla è stato girato alle solfatare di Pozzuoli, dove se si accende un pezzo di carta fuma tutta la montagna. Non c’è dubbio che in gran parte i film di Totò siano girati alla svelta, tirati via in due o tre settimane al massimo, sulla base di copioni raffazzonati alla meglio. Ma è un fatto che il cinema di questo straordinario attore dell’eccesso è per molti aspetti ancora vivo, fresco, immediato, nonostante, o forse grazie, le cadute di tono, i limiti farseschi, le approssimazioni. Se è stato fin troppo facile sottolineare volta per volta il livello tutt’altro che esaltante di questo o quel film – come ha fatto a più riprese la critica cinematografica che ha continuato per tanto tempo a rammaricarsi che al grande attore non venissero offerte le occasioni adatte alle sue innegabili qualità – bisogna anche ammettere che questo Totò ultimo della classe, da zero in condotta e zero in profitto, finisce miracolosamente con il sopravvivere a tanto cinema 102

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del dopoguerra che, a differenza delle gloriose “totoate”, ci sembra talora invecchiare a vista d’occhio. Tra reale e surreale La straordinaria fortuna cinematografica di Totò non si spiega se non si tiene conto dei registi che stavano dall’altra parte della macchina da presa, e cioè di Mario Mattoli, Carlo Ludovico Bragaglia, Steno, Mario Monicelli, Camillo Mastrocinque, che assieme a uno stuolo di sceneggiatori hanno accompagnato il cammino del principe tra le platee traboccanti del dopoguerra, degli anni cinquanta e degli anni sessanta. Nella comicità di Totò si sono sempre alternate le sottolineature surreali, i guizzi sopra le righe come i riferimenti realistici, gli spunti d’attualità, gli umori sarcastici. Nei molti film che hanno fatto con il comico napoletano, Steno e Monicelli – nel ’51, con l’umanissimo Ferdinando Esposito del loro Guardie e ladri, ottiene il Nastro d’argento come migliore attore protagonista – usano entrambi i registri, quello surreale e quello realistico. Si pensi a Totò cerca casa, ispirato alla crisi degli alloggi di grande attualità negli anni del dopoguerra ma pieno di citazioni della buffoneria surrealistica delle “torte in faccia”; oppure a Totò e i re di Roma (1952), che rivisita con umori acri e grottesche sottolineature l’universo ministeriale degli impiegati, dei capi ufficio, degli scatti di stipendio in un clima mortificante e jettatorio da gli esami non finiscono mai; o ancora Totò e le donne (1952), che cuce insieme una serie di siparietti sull’eterno femminino, chiamati a confermare le teorie misogine del cavalier Scaparro, il quale, esasperato dalle imposizioni della moglie invadente e bisbeti103

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ca, cerca rifugio in soffitta, dove può fumare, leggere i gialli, rivolgere preghiere propiziatorie al tabernacolo che ha eretto all’immagine di Landru. Quando la coppia si separa, Steno e Monicelli realizzano, ciascuno per proprio conto, numerosi altri film con Totò, accentuando l’una o l’altra delle costanti del grande comico. Steno punta soprattutto sulla componente surreale imparentata con le origini teatrali, Monicelli prosegue nella umanizzazione del personaggio avviata con i film precedenti, più legati agli spunti d’attualità e alla verosimiglianza delle situazioni. Il risultato più alto raggiunto da Steno è senz’altro Totò a colori, singolare summa dei grandi sketch teatrali, dal vagone-letto agli snob di Capri, dall’eccezionale Pinocchio al gran finale del direttore d’orchestra. Ma andrebbero ricordati anche gli altri titoli degli anni successivi. L’uomo, la bestia e la virtù (1953), da Pirandello, con uno spaesato Orson Welles. Totò nella luna (1958) con Ugo Tognazzi e Sylva Koscina. Totò, Eva e il pennello proibito (1959) con Abbe Lane e Mario Carotenuto. I tartassati (1959) con Aldo Fabrizi e Louis De Funès. Letto a tre piazze (1960) con Peppino De Filippo e Nadia Gray. Totò diabolicus (1962) in cui il grande comico impersona contemporaneamente il marchese Galeazzo di Torrealta, monsignor Antonino, il generale Scipione, il professor Carlo, la baronessa Laudomia e il poveraccio Pasquale Bonocore. I due colonnelli (1962) con Walter Pidgeon nel ruolo di un colonnello inglese che solidarizza con il colonnello italiano durante le traversie della seconda guerra mondiale. Totò contro i quattro (1963) con Aldo Fabrizi, Nino Taranto, Peppino De Filippo e Macario, una farsesca rimpatriata di vecchie glorie con Totò nei panni di uno scatenato commissario. L’ultimo incontro avviene nel ’68 con l’episodio Il mostro della domenica di Capriccio all’italiana, in cui Totò, il Goffredo di 104

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Buglione dei capelloni, affronta con forbice e macchinetta la moda dei capelli lunghi. Il varietà, l’avanspettacolo, la rivista Nonostante il riferimento al palcoscenico sia fondamentale per la definizione del comico, non è possibile ripercorrere qui né il periodo dell’apprendistato, avvenuto nel solco della più caratteristica tradizione napoletana, né il complesso intreccio di esperienze compiute soprattutto nel varietà, nell’avanspettacolo e nella rivista. Se le sue prime affermazioni avvengono nel mondo estroso e irrequieto del varietà italiano in crisi, il comico partecipa tra la fine degli anni venti e l’inizio dei trenta, alla ristrutturazione dello spettacolo minore, in cui la ricerca di una formula coincide con il rinnovamento del pubblico. Il crescente successo di nuovi modelli di comportamento e l’affermazione sempre più generalizzata del cinema hollywoodiano contribuiscono a modificare progressivamente sia la struttura dello spettacolo di varietà, costretto a fare i conti con la tenace concorrenza del cinema e con la nuova attrattiva dell’avvento del sonoro, che sembra accentuare il canone della verosimiglianza rappresentativa, sia con la composizione stessa del pubblico, ormai ben lontano dalle cerchie dei frequentatori più assidui alla ricerca degli ultimi guizzi della Belle Époque. Negli anni successivi, divenuto capocomico, l’attore si presenta con una sua compagnia nei vari cinema-teatro della penisola: è il grande momento dell’avanspettacolo, di cui diviene ben presto uno dei protagonisti più osannati. Si tratta di una stagione che ha profondamente segnato più di una generazione di spettatori per i quali le “luci del varietà” hanno coinciso 105

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con questo mondo sgangherato e un po’ guitto, punteggiato da golose apparizioni carnali e da risate irrefrenabili. Si pensa alla raffigurazione ormai proverbiale che di quelle sale fumose e gremite ha suggerito Federico Fellini, con un’adesione tanto più partecipe quanto più ironicamente distaccata. Anche se, evidentemente, i rapporti tra cinema italiano del dopoguerra e avanspettacolo, l’intreccio di imprestiti non sempre dichiarati, lo scambio di attori principali e di numerosi caratteristi vanno ripensati, al di là del “documentarismo” fantastico del regista di Roma (1972), non tanto nelle zone della reminescenza autobiografica, quanto piuttosto in quelle più intrinseche dei motivi strutturali e delle pratiche rappresentative4. Se Totò non è certo solo nella grande esperienza collettiva dell’avanspettacolo – che ha visto impegnati, accanto alle ex-formazioni di operetta come la Bluette-Navarrini e la Riccioli-Primavera, attori come Macario, Taranto, i De Rege, Dapporto, Rascel, Scotti, spesso alla testa di una propria compagnia – resta in qualche modo, se non il più rappresentativo di una fase di transizione dello spettacolo minore che forse esige interpreti meno egocentrici, certamente il più geniale. Il fatto è che Totò non si risolve nell’avanspettacolo, non coincide con il tratto di strada che fa con gli altri, ma piuttosto metabolizza anche questa esperienza, che si stratificherà nella composita archeologia del personaggio, costruito a misura della sua irriducibile eccezionalità5. Cesare Zavattini, che è stato tra gli intellettuali uno dei primi grandi ammiratori del comico per il quale ha scritto numerosi soggetti irrealizzati, dedica alcuni acuti ritrattini ai protagonisti dell’avanspettacolo nella sua rubrica sul «Tempo» settimanale dell’inizio anni quaranta. Lo «strepitoso elogio» di Totò prevale sulla mediocre regia degli spettacoli, sulla sgangherata guitteria delle formazioni e sull’in106

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vadenza del capocomico. «Ma quale straordinario artista!», conclude Zavattini. «La mia ammirazione ormai decennale si è sempre più rafforzata, resistendo ai copioni umbertini, alle messe in scena troppo domestiche. [...] Deve tutto a un fenomenale istinto: tra l’animalesco e l’infantile, le sue risate che si concludono in un pauroso verso gutturale, il suo instupidirsi con la lingua fuori e gli occhi alla Ben Turpin. La sua è un’impressione di continuo sensuale». La spontaneità di Totò dipende dal fatto che «continua ciecamente la sua biografia», è, integralmente e inconsciamente, la sua storia6. Lo scrittore coglie la crisi dell’attore, il quale, conclusa la stagione dell’avanspettacolo, si trova di fronte a una svolta. Se nelle considerazioni di Zavattini s’intravede l’auspicio che Totò rivendichi la sua autorialità di attore, magari passando al cinema con il suo aiuto, in realtà la crisi sembra risolversi in un’altra direzione. Nello stesso anno si avvia la collaborazione con Michele Galdieri, che sarà l’autore di quasi tutte le riviste interpretate da Totò tra guerra e dopoguerra, da “Quando meno te l’aspetti” (1940) a “Volumineide” (1942), da “Che ti sei messo in testa?” (1944) a “Con un palmo di naso” (1944), da “C’era una volta il mondo” (1947) a “Bada che ti mangio!” (1949). Singolarmente sintonizzato sulle reali possibilità dell’attore, nonostante gli eccessi crepuscolari e le indulgenze piccolo-borghesi, Galdieri favorisce l’approfondimento che la maschera di Totò conosce negli anni quaranta, in cui meglio si definiscono le risorse di ammiccante partecipazione satirica agli avvenimenti contemporanei, mentre si liberano in sketch meritatamente leggendari le sue originali qualità di mimo scatenato e inesauribile. Totò si trova ancora una volta al centro di un nuovo capitolo del teatro italiano di rivista, di un crocevia in cui confluiscono insieme il genere satirico e il comico-musica107

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le, l’irruenza farsesca e lo sfarzo coreografico: al culmine della sua maturità di animale da palcoscenico, l’attore si scatena in tutta la sua genialità plebea accanto a una commediante di grande temperamento, aggressiva e popolaresca come Anna Magnani, lasciando il segno in più di una generazione di spettatori che ancora ricordano la sua grandiosa vena comica7. I leoni nella foresta Nel coro delle stroncature che accompagnano i film del grande comico, la più singolare è la recensione di Ennio Flaiano di I pompieri di Viggiù che, rimuovendo il diffuso atteggiamento di esecrazione programmatica, si propone invece di spiegare i motivi del successo, di rendersi conto del fenomeno cinematografico del momento, senza rinunciare alla sua nota ironia: «Dei molti film che questa settimana hanno avuto successo, le nostre preferenze vanno al peggiore. [...] Non si può parlare di trama, di racconto: è solo un pretesto per mettere insieme molte ballerine, due cantanti, quattro o cinque comici di fama nei quadri di una rivista già nota: e così far conoscere anche al pubblico della provincia il fasto, la spregiudicatezza, la sana allegria che regna nel nostro teatro di varietà. L’errore dei critici è di voler considerare I pompieri di Viggiù un film, mentre si tratta di un documentario che anticipa in Italia le gioie della televisione. Del documentario questa pellicola ha infatti tutti i pregi, che non sono mai quelli previsti dal produttore. Ad occhi sinceri e scientifici appaiono come i pregi di una puntuale sincerità, gli stessi pregi della Natura. Del resto il direttore lascia girare la macchina senza curarsi di intervenire, di truccare la realtà, facendola migliore o peggiore. Gli basta che la 108

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pellicola non prenda luce, che la gente si muova e faccia chiasso: si comporta cioè con la stessa discrezione di un esploratore che fotografa un branco di leoni nella foresta e per prima cosa ha cura di non rivelare la sua presenza. Così inteso, I pompieri di Viggiù sono un capolavoro involontario di reportage e di osservazione. Si pensa alla Vita degli insetti del Fabre o ai Ricordi di viaggio del Darwin, alla sincera ingenuità che spesso queste opere denunciano e che non sono il loro pregio minore»8. Se i critici lamentano la stupidità della trama, l’assenza della regia, il cattivo gusto dell’insieme, Flaiano coglie in modo esemplare il valore di documento del film e, in una suggestiva e impietosa foto di famiglia dello spettacolo nazionale, suggerisce la differenza tra le riviste filmate hollywoodiane e il film-rivista all’italiana: «I comici, le ballerine e i cantanti sono ripresi allo stato naturale e mostrano un volto familiare, affettuoso, senza inganni. Ciò che il palcoscenico non rivela, lo schermo mette in evidenza, e cioè l’età degli attori, le loro lunghe lotte contro le rughe e i denti ribelli, la tenacia di certe comparse, le proporzioni dei costumi, insomma lo sforzo che costa a tutti l’onesto divertimento che procurano ogni sera al pubblico. Il film, diciamolo pure, ha qualche cosa di umano. E proprio in questo sta la sua forza. Lo spettacolo che offre non è mai corruttore, ossia non spinge al sogno, non esprime quella pornografia sentimentale, rosea dei film americani dello stesso genere. Nelle riviste filmate americane tutto è preordinato, esaltato, assume forme disumane e perfette: le stesse ballerine hanno la grazia e lo splendore di enormi vegetali, ma si direbbero senza anima, escluse dalle sofferenze di questo mondo, creature oniriche. Qui le ballerine sono vive, bene in carne, si presentano con nome e cognome e hanno la tessera del sindacato: alcune tendono all’embon109

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point, altre alla magrezza. Conoscono i viaggi disastrosi, gli alberghi di provincia, i bauli da ritirare, le buone e le cattive serate: non si può pretendere che ci dicano altro»9. I pompieri di Viggiù, sulle note della canzone omonima di Fragna-Lerici-Rastelli, saccheggia quattro riviste dell’epoca, da “Nuvole” di Nelli e Mangini a “C’era una volta il mondo” di Galdieri, da “Grand Hotel” di Garinei e Giovannini a “Buon appetito” di Galdieri. Il canone mattoliano dell’accumulo vampirizza quattro formazioni – Compagnia Taranto, Compagnia Totò, Compagnia Wanda Osiris, Compagnia Dapporto – riproponendo sketch e duetti, canzoni e sfilate in una super-rivista in cui il ballerino Harry Feist dà il cambio alla soubrette Elena Giusti, Laura Gore saluta Adriana Serra, Wanda Osiris scende le scale cantando “Sentimental”, mentre Carlo Dapporto si moltiplica nelle straordinarie imitazioni di Petronio Arbitro, Odoardo Spadaro, Monsieur Verdoux, Maurice Chevalier. Il ventaglio della rivista italiana colta sulla soglia degli anni cinquanta ci si squaderna davanti nella disparità delle sue varianti, dal domestico pauperismo delle formazioni più tradizionali allo sfarzo scintillare delle messinscene di lusso, dall’assolo talora geniale del comico di battuta pronto a farsi in quattro per conquistare il pubblico alla compassata nonchalance del mito a cui basta scendere le scale per mandare in visibilio gli ammiratori. Se la linea di tendenza più esplicita punta sulla rivista a grande spettacolo, mentre la trasformazione in commedia musicale è in agguato, la grandezza del comico-orchestra s’impone ancora nella misura della sua irripetibilità. Non si pensa soltanto allo sketch del manichino in cui Totò, Mario Castellani e Isa Barbizza scandiscono la perfetta geometria di un numero dal ritmo esemplare, ma anche al finale – tratto anch’esso da “C’era una volta il mondo” – che si arti110

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cola in cinque momenti diversi e contigui, pronti a risolversi l’uno nell’altro: la direzione d’orchestra, i fuochi d’artificio, la marcia funebre, la passerella tradizionale, la marcetta dei bersaglieri. Il cannocchiale dello spettatore La super-rivista fa a pezzi i quattro spettacoli di avvio per ricomporli in un nuovo medium che si articola nei diversi piani del palcoscenico, della platea, del dietro le quinte, con la storia pretestuosa dei vigili del fuoco alla ricerca del cantante diffamatore. Nel piano della platea Dolores Palumbo e Ernesto Almirante – quando l’uno sta per inforcare il cannocchiale, l’altra è pronta a strapparglielo – incarnano lo spettatore medio, travolto dalla forza irresistibile dei comici ma al tempo stesso affascinato dall’apparizione delle ballerine. Il cannocchiale dello spettatore è la chiave di volta del filmrivista, che sposta la sua attenzione dai diversi quadri dell’evento teatrale per ricomporli nella nuova struttura intrattenitiva dello spettacolo cinematografico. Non è mancato chi ha voluto confrontare acutamente la struttura-tipo della rivista teatrale – un modello ormai definito all’inizio degli anni cinquanta con sufficiente approssimazione, in qualche modo equidistante dall’avanspettacolo quasi definitivamente scomparso e dalla commedia musicale in formazione – con la griglia essenziale di Totò a colori, riscontrando evidenti differenze in uno scenario di significative analogie10. Non si tratta più di sfruttare il panorama orizzontale delle riviste di stagione svelando/nascondendo il meccanismo stesso dell’assemblaggio, ma di attingere alla rivisitazione del passato teatrale del comico in una sorta di recu111

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pero archeologico di sketch largamente noti e apprezzati – dal vagone-letto di “C’era una volta il mondo” al Pinocchio di “Volumineide” – insieme a numeri comunque già collaudati, come il duetto con Guglielmo Inglese, che è stato una delle più straordinarie spalle di Totò, o a momenti canonici e ricorrenti dello spettacolo dal vivo. Nella rapidità di confezione, tipica del cinema popolare, gli sketch più articolati e corposi vengono cuciti con siparietti di raccordo o nuovi adattamenti e più funzionali ambientazioni dei tratti topici come la passerella finale, che nel film si svolge tutta all’aperto, risolta nell’inseguimento tra il cigno di Caianiello e l’onorevole Trombetta. Nell’alchimia di un’operazione di recupero e di riconversione delle varie fasi dell’esperienza precedente del grande comico – che si vorrebbe poter seguire più da vicino anche attraverso il confronto delle tracce talora labili dei singoli copioni, nel momento in cui la straordinaria abilità di aggiungere e cambiare tipica dello spettacolo teatrale è irrimediabilmente perduta – un capitolo importante come la trasferta a Capri, riprende e sviluppa spunti e motivi di L’imperatore di Capri, in cui Totò, scambiato per il Bey Kahn di Agapur, qualsiasi stravaganza gli capiti di fare lancia una nuova moda e si trova al centro dell’ammirazione degli snob dell’isola, da Dodo della Baggina (Galeazzo Benti) a Pupetto Turacciolo (Toni Ucci) e Bubi di Primaporta (Gianni Appelius). Il film di Luigi Comencini – che coglie le potenzialità surreali, alogiche, irrazionali del comico ma le contamina con il sottotono neorealista – è più interessante di quanto solitamente possa sembrare a una prima lettura, anche perché attraverso l’ipnosi mette in gioco, sia pure in modo feuilletonistico, il motivo della fascinazione fino a farlo diventare uno degli aspetti più caratteristici dell’incontro con l’attore. Se l’attrattiva carnale si scontra con il gusto per 112

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l’esotico, su entrambi prevale la suggestione del bizzarro, dell’eccentrico, del comico. Il tramite della trasgressione è Galeazzo Benti che ritorna con un gruppo di adepti in Totò a colori, animando uno dei momenti più esilaranti che ha i suoi punti di forza nella telefonata di Franca Valeri, nell’ingresso di Pupetto dei Champs Elysées, nello sketch del pittore picassiano. Nelle sue apparizioni cinematografiche Leopoldo di Roccarasata, Poldo per gli amici, ha la singolare leggerezza del dilettante dotato, nasconde bene la sua partecipazione a numerose riviste degli anni quaranta, da “Ritorna Za Bum” di Mattoli e Marchesi a “Sono le dieci e tutto va bene” di Garinei, Giovannini e Marchesi. Il suo incontro con Totò avviene sul palcoscenico in “Imputati..alziamoci!” di Michele Galdieri e in “Un anno dopo” di Oreste Biancoli, due riviste dell’inverno-estate 1945 in cui è accanto a Lucy D’Albert, Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci. Nella sua simpatica disinvoltura senza età si manifesta l’autentica vocazione di un commediante particolarmente duttile nelle caratterizzazioni. La sua sfrontata disponibilità a camuffarsi si conferma nel numero del cantante esistenzialista di Totò all’inferno, dove, vestito con un sacco, sbeffeggia la moda delle canzoni di devastante tristezza in auge nei catacombali cabaret dell’epoca. La struttura della rivista è esplicita anche nel film di Mastrocinque, in cui si entra e si esce dall’inferno alternando le colorate scenografie dell’oltretomba con gli sketch monocromi dell’aldiqua, senza mai allontanarsi dal palcoscenico dello spettacolo leggero. L’incontro con Cleopatra che l’aspetta da duemila anni, lo sketch delle sorelle siamesi alla prima notte di nozze, il risveglio nell’ospedale psichiatrico circondato dai personaggi della messinscena infernale, sono tutti aspetti che rimandano alle riviste sgangherate ma esilaranti imbastite dallo stesso Totò e 113

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dal suo gruppo di collaboratori fissi, prima dell’incontro con Galdieri. Il colore calca la mano sull’artificiosità delle scenografie e dei costumi, sottolineando gli eccessi caricaturali di un inferno di cartapesta, con le sue cadute di tono e le sue vistose pacchianerie, quasi a ricordare ad ogni momento che siamo in una rivista. Il ruolo del colore Quale è il ruolo del colore in Totò a colori? Scelto come prototipo del colore che ci si accinge a produrre industrialmente anche in Italia – l’anno dopo Il più comico spettacolo del mondo (1953) sarà la prima pellicola tridimensionale – il film di Totò è prodotto da Carlo Ponti e Dino De Laurentiis sulla base di un vantaggioso accordo con la Ferrania. Sul piano della verifica sperimentale il film non contribuisce più di tanto all’affermazione del primo sistema italiano, anche per la nota disattenzione della critica nei confronti dei film interpretati dal principe11. Ma la mancanza di particolari ambizioni con cui il film nasce, il budget modesto che la produzione vi investe, l’atteggiamento del regista che conosce bene le potenzialità del comico purché gli sia lasciata libertà d’azione, sono tutti elementi che concorrono a fare di Totò a colori un’opera in cui l’uomo di teatro con la sua più che trentennale esperienza s’impone, come non avviene nei film precedenti e in quelli successivi, con la libertà gioiosamente sfrenata delle grandi performance. Sono note le perplessità dell’attore nei confronti del mezzo cinematografico e dei travisamenti del cinema, la scarsa considerazione per i suoi molti film destinati, secondo lui, ad essere presto dimenticati. Qui si sente invece nel suo elemento, come un pesce che abbia ritrovato l’acqua da 114

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cui proviene, padrone assoluto del campo, finalmente libero di dire e di fare quello che vuole, quello che ha fatto tante volte a teatro, misurando la capacità di provocazione comica direttamente sugli spettatori. La possibilità di considerare il fotogramma come un palcoscenico in cui muoversi senza regole e costrizioni fa del film un’occasione unica nella filmografia di Totò, in cui sembra di poter assistere in diretta a un esperimento cruciale, che non è tanto quello di passare dal bianco e nero al colore, quanto la trasformazione dello sketch teatrale in sequenza cinematografica12. La singolare vivacità dell’operazione – che favorisce l’incontro ravvicinato tra due mezzi espressivi nella ristrutturazione di modalità e forme dello spettacolo leggero – è confermata soprattutto dallo sketch del vagone-letto in cui la matematica dei tempi e la fluidità dei movimenti è tale da assicurare la lievitazione degli ingredienti di avvio, conseguendo risultati strepitosi e irresistibili sul piano dell’invenzione comica. Se si pensa al ruolo dello starnuto – annunciato, rimandato, riproposto, dilazionato – si trova un punto di riferimento privilegiato per considerare in modo più concreto la forza della riviviscenza teatrale, una interna chiave di lettura delle pratiche compositive della comicità dell’attore, che sposta come vuole la focalizzazione degli spettatori introducendo l’ingrediente della sorpresa. Lo starnuto esce completamente dalla trama intrecciata e stratificata degli interventi e dei rapporti che avvengono all’interno del vagone-letto, incarna la singolare capacità di spostare la nostra attenzione, di metterci in ansia, di farci partecipare alla possibilità dell’evento che può esplodere da un momento all’altro. Nella scatola magica del vagone-letto, nello scenario illusionistico istituito dal comico, tutto può succedere, anche uno starnuto13. Sarebbe un errore di fronte a un film di Totò in cui all’attore è concesso, più e meglio che in tante altre occa115

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sioni, di essere se stesso in modo esemplare e paradigmatico, dimenticare la disponibilità del regista, la sua intelligente discrezione, la sua capacità di rapportarsi al fenomeno Totò. Steno è uno dei grandi artigiani del cinema all’antica italiana, che non ha bisogno di attendere l’immancabile riabilitazione della critica perché nel corso della sua lunga carriera ha sempre avuto dalla sua il favore del pubblico. Con il principe si incontra più volte prima e dopo Totò a colori, ma non si possono dimenticare le altre, singolari folgorazioni di una attività cinematografica che, conclusa l’esperienza del «Marc’Aurelio», il regista affronta con l’ironia dissacratoria dell’umorista. Se tra quelli in coppia con Monicelli alcuni sono entrati da tempo nella galleria dei capolavori del cinema italiano di commedia, nei numerosi film con Totò girati da solo non mancano momenti irresistibili soprattutto sul piano della comicità più scatenata. Non è meno esaltante l’incontro con Alberto Sordi da Un giorno in pretura (1953) a Un americano a Roma (1954), da Piccola posta (1955) a Mio figlio Nerone (1956), altrettanti titoli di straordinaria ricchezza inventiva. Non si può dimenticare il sorprendente Febbre da cavallo (1976), scoperto e amato dal pubblico nel corso degli anni fino a riproporlo all’attenzione generale. Ma l’abilità di Steno – sempre a suo modo fedele alla commedia italiana – è quella di ambientarsi facilmente anche negli altri generi del cinema popolare, come il poliziottesco, di cui La polizia ringrazia (1972) è l’insuperato battistrada. Il suo segreto? Non prendersi mai troppo sul serio, rivolgendo anche verso se stesso l’ironia con cui guardava il mondo14.

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SCENEGGIARE ALL’ITALIANA

Se si tenta di ricostruire come è nata la sceneggiatura di Il segno di Venere (1955), sembra di sprofondare nelle sabbie mobili. Difficile, talvolta impossibile, sapere chi ha fatto che cosa. Il primo spunto risale a Franca Valeri che abbozza con tagliente ironia la storia di due sorelle, una bella e una brutta, alla ricerca della propria identità sentimentale, oroscopi permettendo. Il film dovrebbe dirigerlo Luigi Comencini che spera di sottrarsi alla serialità coatta di Pane, amore e fantasia (1953) e di Pane, amore e gelosia (1954), con una commedia intimista, imperniata sul personaggio Valeri e il suo retrogusto acidulo, decisamente in controtendenza. Secondo l’attrice, la scelta di Sophia Loren, per il ruolo di una delle protagoniste, scatena un terremoto: «Naturalmente, siamo diventate per forza cugine, perché era difficile che fossimo sorelle, lei così napoletana e io così milanese»1. Quando si accorge che, con l’arrivo di Vittorio, l’asse del film si sta completamente spostando sulla coppia Loren-De Sica, Comencini abbandona il progetto2. Secondo Risi, che a questo punto gli succede, il film «è nato un po’ disordinatamente, con una sceneggiatura faticata a cui abbiamo partecipato un po’ tutti. C’era Flaiano, c’era Franca Valeri che ha messo del suo, Zavattini che faceva delle lunghe sedute parlandosi addosso. Sempre bravissimo, simpatico, ma era un modo curioso di sceneggiare il 117

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suo»3. Mentre Comencini diffida dell’invadenza di Goffredo Lombardo, Risi condivide il modello produttivo della Titanus, che privilegia le scelte del cast, in cui entrano a far parte, oltre a De Sica, Alberto Sordi, Peppino De Filippo, Tina Pica, Virgilio Riento, Maurizio Arena, Raf Vallone, Lina Gennari: «Quella del cast è un’operazione che allora la Titanus faceva spesso e volentieri; il cast alla Grand Hôtel, il meglio del cinema italiano in quel momento. La Titanus era una società di natura un po’ americana. Lombardo era l’unico in fondo che faceva il cinema come si faceva a Hollywood, nel piccolo, naturalmente, delle possibilità italiane»4. La novità del personaggio Nell’estate 1954 Il segno di Venere, persi per strada i vari titoli provvisori da La chiromante a La signorina Cesira, comincia a prendere forma. Almeno sulla carta. Ennio Flaiano, sotto contratto per rielaborare il soggetto e scrivere la sceneggiatura, è già al lavoro. Ma in una lettera del 27 agosto al producer Marcello Girosi chiede più tempo per non compromettere l’originalità del progetto: «Il film è importante, delicatissimo, ci vuol niente a farne una porcheria; mentre con un po’ di pazienza e molto lavoro si può tirar fuori una cosa degna. La novità del personaggio [si riferisce a Cesira], la sua importanza non vanno presi sottogamba. Occorre studiare bene i caratteri, trovare nuove soluzioni, nuovi personaggi. […] Non so arronzare. […] Non posso limitarmi a fare delle macchiette»5. Consegnata la sceneggiatura, viene a sapere che Lombardo ha mandato le sue osservazioni a Zavattini, chiedendogli di intervenire. Scrive subito a Girosi: «Che cosa succe118

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de? […]. A parte la considerazione che l’autore della sceneggiatura sono io e che ci ho lavorato duramente […], mi sembra che il signor Lombardo abbia preso in esame più il soggetto che la sceneggiatura. […] Sa con quanta cordialità ho accettato l’intervento di Zavattini [«le lunghe sedute» di cui parla Risi], che a qualsiasi altro sarebbe suonato come un giudizio sfavorevole e come un voto di sfiducia per il lavoro futuro della sceneggiatura. […] Il film ha ragione di essere soltanto se impostato sul personaggio di Cesira, ritenuto – ora – a torto sgradevole. Comunque sia, lavorerò alla revisione della sceneggiatura soltanto subordinatamente a Zavattini o a chi sarà indicato come il direttore responsabile della sceneggiatura, declinando da questo momento ogni responsabilità sia per il lavoro che per i termini di consegna»6. Paradossi dello studio system Il paradosso dello studio system all’italiana è che, dopo le prime riunioni, gli sceneggiatori non s’incontrano più e ognuno lavora per conto suo. Franca Valeri – secondo la pratica consolidata nell’attività teatrale e radiofonica, oltre che nelle esperienze cinematografiche di poco precedenti – s’impegna soprattutto nella scrittura della sua parte. Edoardo Anton, il versatile giornalista che viene anche lui dal teatro e dalla radio, si occupa della definizione degli altri personaggi. Ma prima o dopo la fase Flaiano? Prima, perché avrebbe integrato, sin dal soggetto, il lavoro di Franca Valeri. E anche dopo, perché con Dino Risi contribuirà probabilmente alla stesura definitiva. Senza contare che un attore come Sordi rielabora sempre i propri personaggi e all’epoca ha già alle spalle uno sceneggiatore di fiducia come Rodolfo Sonego. Qualcuno aggiunge ai titoli di testa 119

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ufficiali anche Ettore Maria Margadonna. Qualcun altro Age e Scarpelli. Ma, almeno per questa volta, non c’entrano. Quanto alla partecipazione di Cesare Zavattini, voluta da Lombardo soprattutto per il prestigio di un marchio di fabbrica che da solo “fa neorealismo”, non deve essere andata oltre qualche suggerimento se in una lettera inedita del 19 novembre 1954 lo scrittore emiliano scrive a Girosi: «Non tema, non ho intenzione di riaccendere polemiche [ma allora c’erano state, magari nella fase iniziale], tanto più che avrete fatto benissimo e spero non avrete giudicato tutto col pollice verso il frutto delle lunghe sedute che facemmo». Ancora più esplicita la lettera, anch’essa inedita, del 30 novembre allo stesso Lombardo, in cui Za minimizza, respingendo al mittente i ringraziamenti del patron della Titanus: «Circa Il segno di Venere io ho fatto ben poco. Mi pare solo di aver contribuito a amalgamare meglio la prima con la seconda parte; se il copione ha dei meriti sono tutti di Flaiano e della Valeri»7. Nel passaggio dalla sceneggiatura al film, scompaiono completamente Ninetto, il bambino che Agnese ha avuto un paio d’anni prima da una marinaio sposato, e la zia Nicolina che lo tiene a balia a Salerno senza che la famiglia Tirabassi ne sappia nulla. Scomparso il pupo, che aveva suscitato la reazione traumatica del padre («Che vergogna! Tutta una vita onorata e adesso… anche il figlio della colpa») e la lungimirante rassegnazione della madre («Io, se ti devo dire la verità, quasi sono contenta! Tanto, quella, il guaio, sentivo che me lo combinava. Adesso non ci penso più»), il “guaio” resta ma viene spostato al presente e attribuito al pompiere Bolognini. L’errore giovanile che improvvisamente si materializza e gira per casa avrebbe esposto i fragili meccanismi della vicenda alle intemperanze strappalacrime del melodramma. Cancellata la componente feuillettonistica, il bambino in arrivo rientra nel mito 120

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della primavera tipico della commedia, mentre la faccia onesta di Raf Vallone farà il resto. Non è esagerato vedere nelle vicende della sceneggiatura di Il segno di Venere – che per molti versi rimanda a tanti altri film dell’epoca, da Un americano a Roma (1954) a Piccola posta (1955), da Peccato che sia una canaglia (1954) a La fortuna di essere donna (1955), da Padri e figli... (1957) a Il medico e lo stregone (1957) – qualcosa di simile al romanzo di formazione della commedia all’italiana. Un romanzo ingarbugliato e contraddittorio all’insegna del disordine. Ma, «come succede spesso nel cinema, dal disordine nasce una specie di ordine», dice Risi. Il segreto del film sta tutto qui, nel percorso dal «disordine» all’«ordine», a «una specie di ordine». Sta nel passaggio dal cinema comico che non c’è più alla commedia all’italiana che non c’è ancora. Il salto di qualità Il film comico – anarchico, frammentario, trasgressivo – accoglie per primo la sfida del varietà e dell’avanspettacolo, dai quali attinge sketch e battute per affidarle al vivaio sempre in fermento dei fucinatori d’ilarità. Non esita a impadronirsi anche delle nuove forme di teatro da camera, dove esplodono i caustici monologhi con cui si fa conoscere Franca Valeri, implacabile nel cogliere gli umori e i tic di un’affollata galleria di signorine snob, che nei manierismi alla moda esorcizzano l’incombente spauracchio dello zitellaggio. Nell’ardua impresa di far ridere, sembra deciso a non scegliere, tesaurizzando i contributi più diversi, quelli sofisticati della satira ma anche quelli beceri del teatro dialettale, che riesce ogni sera a rinnovare i fasti chiassosi della farsa. Se l’obiettivo è la commedia, con la razionalizzazione che comporta, si tratta di guadagnare la prospettiva più 121

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ampia e organica della visione d’insieme, di fare insomma il salto di qualità, senza perdere di vista la forza irresistibile del frammento, la sua capacità di folgorazione. Senza buttare a mare il prelievo sul reale del neorealismo, pur assicurandosi l’attitudine ampiamente comunicativa della commedia. Senza rinunciare all’attore solista, stella polare dello schermo comico, ma trovandogli il posto più adatto nello schieramento delle coralità, dove la folla dei caratteristi dà man forte al mattatore. Singolare crocevia del cinema italiano, Il segno di Venere s’imbatte nelle immagini archetipiche di un’epoca, strizza l’occhio all’assalto agli autobus di Ladri di biciclette (1948), al rito della mano morta di Peccato che sia una canaglia, al party esistenzialista di Totò a colori (1952), all’elogio della fotografia di La fortuna di essere donna, alla dettatura della lettera di Miseria e nobiltà (1954), al rendez-vous in questura di Piccola posta, ai giochi di coppia di Poveri ma belli (1956), agli appuntamenti a Piazza Esedra di Risate di gioia (1960), alla Casa del Passeggero che, dopo Risi, anche Fellini ricostruirà in studio per Intervista (1987). Il fascino di Il segno di Venere sta nella sua capacità di mischiare le carte, di svariare continuamente dal sapore neorealista al cicaleccio dialettale, dalle esibizioni degli interpreti ai soprassalti della vicenda. È una sorta di prova generale, di cantiere aperto. Il passaggio dal comico alla commedia non è ancora avvenuto, è un processo in corso: l’ordine non ha eliminato il disordine, ma ne conserva ancora l’estrosa esuberanza, le tensioni irrisolte, le contraddizioni feconde. Nella struttura a blocchi, si avverte il sapore divisionista del varietà, con i siparietti, l’andare a ruota libera, gli insistiti tormentoni, le brusche sterzate della farsa, le gloriose impennate del guittismo più sfrenato. Il sottotesto del film punta sull’asimmetria della coppia Valeri-Loren (in cui si intravedono le silhouette maliziose e 122

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trasgressive di Stanlio e Ollio), ma il punto di coagulo sembra essere la spregiudicata cattiveria di Risi, il suo sguardo refrattario, l’esibita mancanza di pietas. Si sintonizza sul costume che cambia, in bilico tra vieto tradizionalismo e incipiente modernizzazione, un occhio alle ossessioni maschiliste della tribù italica e l’altro alle contraddizioni della irrequietezza femminile, in un gioco di scena e fuori scena, tra rimozione e svelamento, che sarà di lì a poco il riconoscibile contrassegno delle sue commedie amare. Sempre attento ai segnali della “presse du coeur”, dai rotocalchi ai fotoromanzi, alle canzoni in voga e ai tenori di ieri, alla radio che sta per essere soppiantata dalla tv. Se il 1954 è l’anno zero della televisione italiana, il cinema comico aveva da tempo firmato un accordo di reciprocità con la radio, il medium più popolare del periodo8. Le sussiegose signorine di Franca Valeri prima di passare al cinema e alla tv, avevano debuttato alla radio. Edoardo Anton si divideva, o si moltiplicava, tra giornalismo e teatro, ma da tempo immemorabile era attivo soprattutto alla radio. Alessio Spano, il poeta cialtrone di “Il canto dell’allodola”, non esita a accompagnare il direttore della Rai in una trasferta a Ladispoli tanto peregrina quanto immaginaria. Se alziamo l’audio e spegniamo il video, Il segno di Venere non è più un film ma un programma radiofonico. Commedia? Radiogramma? Varietà? Nelle strategie mediologiche dei lavori in corso, una specie di Frankenstein che, con gli apporti più diversi, sta dando vita a un nuovo genere.

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IL TOTEM E LA LAVATRICE

Nel cinema italiano di serie B, il successo della coppia formata da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia si delinea alla metà degli anni sessanta come un fenomeno abnorme per quantità di film e livello di incassi, che rappresenta l’ultima fiammata del cinema di “profondità” prima della crisi dell’industria e della ristrutturazione complessiva della società dello spettacolo. Il tramonto irreversibile della rivista e dell’avanspettacolo coincide con l’affermazione di massa del varietà televisivo dove, nel giro di pochi anni, confluiscono i protagonisti del teatro di rivista, che trovano nel piccolo schermo l’occasione di una rinnovata popolarità quando le loro azioni cinematografiche cominciano a essere in declino1. Il cinema comico – abituato a garantirsi più di un posto nella graduatoria dei primi dieci titoli di maggior incasso – entra in crisi con la scomparsa di Totò e l’eclisse dei comprimari che gli hanno fatto corona come Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi, Erminio Macario, Nino Taranto, negli stessi anni in cui la commedia all’italiana, conclusa la vampirizzazione di attori e di sceneggiatori, assicuratasi insomma corpi e parole, rivendica la sua autonomia e punta ambiziosamente alla serie A2. Il processo di omologazione piccoloborghese del pubblico – convinto a disertare la rozza vivacità dello spettacolo popolare per restare a casa davanti alle convenzioni edulcorate e perbeniste della rivista televisiva – è lo stesso 125

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per cui neppure al cinema trova più le componenti trasgressive della comicità senza rete del film comico di serie B, ma è indotto a riconoscersi nel “riso amaro” della commedia all’italiana, che viene affilando le proprie armi nella raffigurazione impietosamente grottesca dello scenario antropologico nazionale, dove la distanza critica non esclude la complicità. Si è creata cioè una sorta di forbice tra le esigenze del pubblico popolare di profondità e i modelli spettacolari della società della modernizzazione che investe in modi diversi il sistema dei media dell’epoca, dominato dal cinema e dalla televisione. Nella forbice si inserisce il fenomeno Franco e Ciccio, lontano sia dalla asettica professionalità della rivista televisiva che mette i mutandoni alle ballerine, sia dalle ambizioni critiche della commedia cinematografica, in cui gli elementari ingredienti comici sono subordinati a una più sofisticata strategia spettacolare e punta sul pubblico frustrato delle terze e quarte visioni, sul pubblico emarginato dei piccoli paesi, sul pubblico delle regioni meridionali o delle sacche di emigrazione del nord, che si sente estraneo ai processi della modernizzazione anche quando ne sia a livello strutturale l’inconsapevole protagonista3. Il “caso” esplode quando, tirando le somme della stagione cinematografica 1964-1965, si scopre che la decina di titoli interpretati dai due comici siciliani – I due mafiosi (1964), I due evasi da Sing Sing (1964), I due mafiosi nel Far West (1964), Sedotti e abbandonati (1964), 00-2 agenti segretissimi (1964), I due toreri (1964), I due pericoli pubblici (1964), Per un pugno nell’occhio (1965), I figli del leopardo (1965) – ha incassato oltre cinque miliardi di lire con una media di più di seicento milioni a film. Nessun altro attore del cinema nazionale si era mai avvicinato a un risultato così clamoroso. Neppure il Totò degli anni d’oro. Neppure 126

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Alberto Sordi, i cui incassi erano considerati fino a quel momento irraggiungibili4. La marginalità sottoproletaria Qualcuno pensa che si tratti di un fuoco di paglia, di un fenomeno vistoso e singolare ma già destinato, dopo essere arrivato rapidamente al vertice, a avviarsi al declino5. La profezia si rivela completamente sbagliata perché, con la sua quarantina di film, la seconda metà del decennio rappresenta il momento di maggior fortuna della coppia, che resta in sella fino ai primi anni settanta, continuando ad apparire in un gran numero di film prima di tentare carriere separate dagli alterni risultati. Franco Franchi e Ciccio Ingrassia sono entrambi di Palermo: hanno alle spalle storie diverse, biografie parallele che affondano nella marginalità sottoproletaria, tra fame, mortificazione, volontà di sopravvivere, arte di arrangiarsi6. Franco ha evocato più volte la fame degli inizi, acquietata a «cazzilli» e «pasta saliata», in un rione popolare di Palermo che aveva il destino nel nome, via Terre delle Mosche, e le prime esperienze con gli «striscianti», suonatori girovaghi considerati poco più che mendicanti, e poi con i «posteggiatori», che mantengono viva nelle piazze la tradizione dell’antica «posteggia» napoletana. La formazione dell’attore di strada – rozzo ma autentico – avviene negli anni tra guerra e dopoguerra nella compagnia girovaga di Salvatore Polara, in cui Franco mette a punto le prime macchiette di Ciccio Ferraù, parodia del gigante buono delle storie dei paladini, e di Michele Coniglio, che in onore del cognome preferisce mettersi a cantare piuttosto che usare la pistola. La maschera di Totò, visto e rivisto al cinema, è il 127

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modello a cui si ispira insieme alla mimica dissociata di Jerry Lewis7. Ciccio Ingrassia ricorda la sua precoce febbre di teatro che gli fa frequentare assiduamente le più infime sale dell’avanspettacolo come l’Orfeo, il Marqueda, il Panorquer. Nei teatri più prestigiosi, il Nazionale e il Politeama, ha occasione di ammirare Totò e la straordinaria capacità del suo idolo di stabilire il rapporto diretto con gli spettatori. Se le prime esibizioni non vanno oltre le feste familiari, i matrimoni, i battesimi, il vero debutto professionale avviene nel 1944 in una sala scalcinata della provincia palermitana accanto a Enzo Andronico. Affittato lo smoking d’obbligo, è costretto a tingersi le caviglie di vernice nera perché non ha i soldi per comperarsi le calze di seta. Nel corso di una decina d’anni, gira tutta l’Italia con modeste compagnie di avanspettacolo, a cui toccano le piazze meno ambite, conoscendo i sacrifici e i disagi tipici delle formazioni minori8. L’incontro tra Franchi e Ingrassia avviene nel 1954 al teatro Costa di Castelvetrano in provincia di Trapani, in cui il saltimbanco e il comico di avanspettacolo si esibiscono per la prima volta insieme nella parodia di “Core n’grato”, in cui Ciccio tenta di cantare con accorata partecipazione la nota canzone strappalacrime, mentre Franco lo “disturba” in maniera sempre più fastidiosa e aggressiva fino a travolgerlo in una serie di gag. Il rodaggio siciliano conferma la nascita di una nuova coppia comica, a cui si aprono le porte di compagnie meno occasionali e di impegni più remunerativi. Negli anni malinconici del tramonto dell’avanspettacolo, i due comici conoscono il loro momento di maggiore successo con alcune riviste che li segnalano nell’ambiente fino all’approdo alla commedia musicale con Rinaldo in campo e Tommaso d’Amalfi 9. 128

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L’incontro con il cinema Nel frattempo avviene l’incontro con il cinema. Scoperti da Domenico Modugno, che li lega a sé con un contratto-capestro di cinque anni, dopo una piccola partecipazione a Appuntamento a Ischia (Mattoli, 1960), arrivano subito al loro primo film da protagonisti, L’onorata società (Pazzaglia, 1961). Nella prima metà del decennio fanno seguito – tra film a episodi, brevi apparizioni, film imperniati interamente su di loro – ben diciassette titoli che delineano sin dall’inizio lo sfruttamento frenetico a cui si lasciano sottoporre nel corso della loro carriera cinematografica, segnata dai modi di produzione più corrivi e superficiali della serie B, dai ritmi parossistici della lavorazione che spesso rinuncia ai requisiti minimi degli standard professionali, sia per la scandalosa esiguità del budget, sia per timore di arrivare, come nella corsa all’oro, a filone esaurito10. Nell’inverno del 1965 – quando i risultati del box-office consacrano i risultati clamorosi dei loro film – non manca chi vuole verificare personalmente: «Questo “fenomeno nuovo” del cinema italiano bisogna davvero apprezzarlo sul set. Per un’industria che è arrivata alla perfezione tecnica del Gattopardo di Visconti o di 8½ di Fellini, il metodo Franchi-Ingrassia somiglia a un ritorno alla foresta. Si comincia ad abolire la dispendiosa differenza tra interni ed esterni. I prati intorno ai teatri di posa di Cinecittà diventano l’assolata pianura spagnola, la pampa argentina, la tundra artica, la puszta ungherese e la Foresta Nera, tutto in una volta. A pochi metri dai capannoni degli studios c’è un intero mappamondo sotto mano. Qui, tagliando gli arbusti con rozzi machetes, Franchi e Ingrassia girano un film in quindici giorni. Senza respiro. 129

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[…] La troupe è ridottissima, le scene non si ripetono più di due volte. Non si parla neppure di controfigure. Ho visto Franchi gettarsi a capofitto in una buca profonda due metri e coperta di sterpi appuntiti, graffiarsi, leccarsi la ferita e ributtarsi dentro. Le due ultime galline d’oro del cinema italiano lavorano senza assicurazione, come i mangiatori di fuoco nelle fiere»11. Nonostante il sospetto di intercambiabilità non sia affatto infondato, dal 1965 al 1969 i registi più attivi sono Giorgio C. Simonelli, Lucio Fulci, Gianni Grimaldi, Marcello Ciorciolini, Marino Girolami, Giuseppe Orlandini, Mariano Laurenti solo la punta di un iceberg di uno stuolo di altri prolifici artigiani presenti con uno o due film: da Mario Bava a Steno, da Sergio Corbucci a Bruno Corbucci, da Mario Mattoli a Riccardo Pazzaglia, da Michele Lupo a Luigi Scattini, da Mario Amendola a Renato Polselli, da Giorgio Bianchi a Ugo La Rosa. Gli sceneggiatori abituali sono Roberto Gianviti, Amedeo Sollazzo, Bruno Corbucci, Castellano e Pipolo, tutti provenienti dalla rivista e dall’avanspettacolo12. Più complesso il discorso sul fronte produttivo. Numerose case di produzione del B-movie si contendono i due comici che hanno dimostrato di saper trasformare in incassi miliardari il modesto budget di 100-120 milioni solitamente investiti nei loro film. La più attiva è la Fida Cinematografica di Edmondo Amati, che produce il maggior numero di titoli, spesso in coproduzione con la Spagna, seguita da vicino dalla Flora Film di Vittorio Martino e Leo Cevenini, più volte associata alla Variety Film. Se la prima debutta con Franchi e Ingrassia per differenziarsi poi con spionistici e spaghetti-western, la seconda viene dal mélo dei secondi anni quaranta, ma chiude con Franco e Ciccio e il giallo all’italiana. Non mancano minuscole case dalla vita breve come la Five Film di Giorgio Moneti e la Ima 130

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Film di Renato Angiolini e Renato Jaboni che scompaiono dopo appena qualche film, né le case prestigiose come la Titanus, che produce con l’etichetta di comodo della Ultra Film, salvo rispuntare fuori quando il successo supera le attese. Non è fortunata l’Italian International Film di Fulvio Lucisano, che dopo aver prodotto alcuni dei film più atipici della coppia (Due marines e un generale e Le spie vengono dal semifreddo), registra un mezzo flop con I due crociati. Quando il successo è ormai stabilizzato, anche la West Film di Italo Zingarelli, specializzata in western, si azzarda a produrre qualche film del duo13. Le strategie della coppia Il cinema di Franchi e Ingrassia si basa sui meccanismi di compensazione dei due comici, diversi sia nell’aspetto fisico, sia negli statuti recitativi. Nelle strategie della coppia, Franco è la maschera mobilissima, nonostante il fisico tozzo e i tratti fisiognomici fortemente marcati, mentre la figura allampanata e lo smunto volto allungato fanno di Ciccio la presenza di spalla che gioca di contrappunto. Se il primo è scatenato, incontenibile, ingestibile nella imbranata balordaggine e nella esagitata gestualità – tutto strabuzzare d’occhi, digrignare di denti, storcere di collo, avvitarsi su se stesso come fosse di gomma – è solo perché l’altro con l’esibita compostezza, il superciglioso sussiego, l’incongrua presunzione di efficienza interferisca nello spazio imprevedibile della scena comica per salvare la situazione, facendola precipitare del tutto14. La coppia dei due siciliani si anima nell’universo parallelo della parodia che carnevalizza il cinema coevo15, dal film d’autore al film di genere, lo cannibalizza in modi e forme irriducibili ad una strategia univoca, aprendo un 131

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campo magnetico di polarizzazioni che possono andare dal pretesto che si appropria soltanto del titolo di successo alla metabolizzazione parodica dell’intero film o di parti di esso, dal remake sbeffeggiato e capovolto alla variante più o meno derisoria, fino al pastiche sconclusionato e inattendibile16. In un replay senza inizio e senza fine, la parodia “rilegge” la mitologia cinematografica del periodo, gli dà una seconda possibilità – una chance in più, di cui spesso farebbe volentieri a meno – quella di essere “rivista e corretta” dal grado zero dell’intelligenza, dal livello infimo e sublime della stupidità17. La pratica della parodia Nella sua ambivalenza, la parodia è una pratica metalinguistica18 che passa sempre attraverso un modello cinematografico, recente o recentissimo, sulla scia del cui successo è una sorta di instant-film che vampirizza il testo di avvio, rifacendo il verso a situazioni e personaggi già familiari al pubblico delle sale19. La requisizione parodica non risparmia nessuno: nella sua onnivora disponibilità a “rifare” tutto e tutti, non fa differenza tra Pietro Germi e Marco Vicario, Luis Buñuel e Duccio Tessari, Federico Fellini e Giuseppe Collizzi, Alberto Lattuada e Luchino Visconti, Luigi Zampa e Bernardo Bertolucci20. Sedotti e bidonati (Bianchi, 1964) esce nove mesi dopo Sedotta e abbandonata (1964) di Germi, di cui raddoppia oltre al titolo anche i protagonisti maschili e le presenze femminili, ricorrendo alla vetusta trovata delle due (finte) sorelle siamesi, mentre il passaggio del testimone è assicurato da Leopoldo Trieste, presente in entrambi i film21. Come svaligiammo la banca d’Italia (Fulci, 1966) insegue il successo di Sette uomini d’oro (1965) di Vicario, campio132

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ne d’incasso della stagione precedente, uscendo anch’esso a nove mesi di distanza dal prototipo. Il riferimento, assente nel titolo, rispunta nel manifesto in cui Franchi e Ingrassia sono esplicitamente definiti «i due uomini d’oro»22. Brutti di notte (Grimaldi, 1968) esce poco meno di un anno dopo la fortunata provocazione di Belle de jour (Bella di giorno, 1967) di Buñuel puntando su un ineffabile Ciccio psicoanalista e su Franco che alla fine è di spalle sul lettino come Catherine Deneuve. La stessa distanza ravvicinata da pronto intervento si ritrova in Satiricosissimo (Laurenti, 1970), flebile presa in giro di Fellini Satyricon (1969) di Fellini e via via fino a Ultimo tango a Zagarol (Cicero, 1973), considerato da qualcuno «uno dei migliori film-parodia di tutti i tempi»23, che insegue il successo-scandalo di Ultimo tango a Parigi (1972) di Bertolucci. Non mancano i film nei quali il “décalage” nei confronti del prototipo è più dilazionato come I figli del leopardo (Sergio Corbucci, 1965) che viene più di un anno e mezzo dopo Il Gattopardo (1963) di Visconti. Nei confronti del capolavoro viscontiano, Corbucci non ha la stessa disinibita irriverenza dimostrata in Totò, Peppino e…la dolce vita (1961), prende le distanze dall’imitazione più pedissequa come dal ribaltamento più gaglioffo, trascura le ragioni profonde dell’originale, l’intreccio tra scenario storico e storia privata, preferisce lavorare ai margini, divertendosi con Raimondo Vianello che anima alcuni dei momenti più esilaranti del film impersonando un improbabile generale garibaldino24. Nei film che riprendono i successi del cinema di commedia del passato recente, come I due vigili (Orlandini, 1967) e Franco e Ciccio…ladro e guardia (Ciorciolini, 1969), ispirati esplicitamente a Il vigile (1960) di Zampa e a Guardie e ladri (1951) di Steno e Monicelli, l’intenzione parodica sconfina con lo sciacallaggio25. Se il primo si misura con Alberto Sordi 133

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in una delle sue incarnazioni esemplari – ha una tale forza di prelievo di materiali realistici e di ribaltamento comico da risultare impraticabile a ogni tentativo di riutilizzazione nonostante i vantaggi/svantaggi del raddoppio – è perché il rapporto tra la serie B e la serie A, tra la comicità povera delle farse di Franchi e Ingrassia e i protagonisti della commedia all’italiana è un rapporto concorrenziale e polemico. Il discorso è diverso a proposito del secondo film, perché con Totò la parodia diventa subito omaggio nei confronti di un modello, per quanto alto e irraggiungibile, in cui i due comici siciliani si riconoscono. La ripresa marginale di alcuni spunti di avvio di Guardie e ladri si contamina del resto con Il più comico spettacolo del mondo (1953) di Mattoli, e altre situazioni della filmografia di Totò. Ma in entrambi i casi scompare il contesto, lo scenario sociale in cui prendeva corpo la presa in giro della divisa e del principio di autorità che essa incarna nel film di Zampa, si dissolve la bonomia insieme cordiale e gaglioffa dei ladri e delle guardie di Steno-Monicelli che si rincorrevano sullo sfondo pauperistico di un’altra Italia. Anche i film che non rimandano a un prototipo specifico, recente o remoto, si rifanno comunque alle coordinate più ricorrenti e caratteristiche del film di avventura e di cappa e spada. A proposito di I due sanculotti (Simonelli, 1966), I due crociati (Orlandini, 1968) e I nipoti di Zorro (Ciorciolini, 1968) non è il caso di risalire al lontano The Elusive Pimpernel (L’inafferrabile Primula Rossa, 1950) di Michael Powell e Emeric Pressburger o ai recenti L’armata Brancaleone (1965) di Mario Monicelli e Zorro il ribelle (1966) di Piero Pierotti, con i quali le pellicole in questione non hanno alcun rapporto, perché attingono con assoluta disinvoltura dal patrimonio comune della mitologia cinematografica, così come è stato riproposto in decine di occasioni in una lunga tradizione di rifacimenti e di variazioni26. 134

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Il modello del western All’interno di uno scenario tra i più frequentati dalla coppia, come la parodia del western, il riferimento a un film assunto come modello è prevalente, anche se la ricchezza trainante di uno dei generi forti dell’immaginario hollywoodiano mette a disposizione un territorio già ampiamente strutturato che costituisce una sorta di miniera inesauribile, pronta al riciclaggio. I due sergenti del generale Custer (Simonelli, 1965) non ha bisogno di evocare direttamente la saga fordiana della cavalleria per fare dei due imbranati gli arbitri della guerra di secessione, mettendo in scena un teatrino di riferimenti e citazioni in cui le vicissitudini dei nordisti che sconfinano nel campo nemico e viceversa contano meno dell’operazione di copertura messa in atto da due geni di West Point (Aroldo Tieri e Riccardo Garrone), delle sconclusionate arringhe del generale Custer (Ernesto Calindri), della farfugliante isteria di Kociss, figlio di Kociss (Franco Giacobini), dello spionaggio da boudoir di Beth Smith “la lince” (Margaret Lee), per non dire dei numeri a sé, beceri quanto basta, di Fernando Sancho, Nino Terzo, Armando Curcio, Enzo Andronico e così via. Ma il bersaglio preferito è il western all’italiana, le cui fortune incalzano parallele alle performance cinematografiche dei due comici e si prestano a incursioni “a caldo”, che sembrano altrettante invasioni di campo. Il più significativo è in questo senso il caso di Per un pugno nell’occhio (Lupo, 1965) che esce appena sette mesi dopo Per un pugno di dollari (1964), nel momento in cui il successo trionfale del film di Bob Robertson-Sergio Leone è insieme la rivelazione di un nuovo genere, lo spaghetti-western, più volte auspicato sin dagli anni d’oro del peplum ma mai affronta135

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to con altrettanta, vincente aggressività27. Il cast del film di Franchi e Ingrassia sciorina una decina di nomi spagnoli assolutamente sconosciuti, anche per confermare che è stato girato in Spagna come l’illustre prototipo. Il mitico poncho di Clint Eastwood campeggia fin dal manifesto come marchio di garanzia, anche se sotto il poncho Franco si mette una corazza di scatole di conserva di pomodoro. Se Per qualche dollaro in più (Leone, 1965), un titolo che sembra già parodia, non offre spunti ai titoli-parodia della filmografia della coppia siciliana, Il buono, il brutto, il cattivo (Leone, 1966), terzo capitolo della “trilogia del dollaro” diventa subito Il bello, il brutto, il cretino (Grimaldi, 1967), in cui accanto al brutto e al cretino, naturalmente Franchi e Ingrassia, il ruolo del bello è riservato al muscoloso Mimmo Palmara, che dopo un gran numero di pepla è passato allo spaghetti-western. Due rrringos nel Texas (Girolami, 1967) contamina il modello di Il buono, il brutto, il cattivo, da cui attinge personaggi e situazioni, con Francis (Francis il mulo parlante, 1950) di Arthur Lubin, prototipo di una fortunata serie hollywoodiana del decennio precedente. Il mulo diventa un cavallo, il colonnello Ciro dei cavalli leggeri, doppiato da Stefano Sibaldi, che con i suoi consigli assiste i protagonisti nella caccia al tesoro, incalzati dalle bande rivali di Gloria Paul, la buona Evelyne, e di Hélène Chanel, la perfida Sentenza Jane. Se si tiene conto dello statuto imitativo dello spaghettiwestern, che riprende i materiali narrativi e iconografici della saga della frontiera esagerandone fino all’iperbole i contrassegni della violenza gratuita, della contrapposizione schematica, dello scontro-perfermance, si conferma l’impressione di trovarsi di fronte ad una parodia di secondo grado se non a una parodia della parodia28. Il caso tipico è forse I due figli di Ringo (Simonelli, 1966), in cui il riferi136

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mento a Ringo – nato con Una pistola per Ringo (Tessari, 1964), ben presto seguito da una pioggia di figli più o meno legittimi, da Ringo nel Nebraska (1965) a Il ritorno di Ringo (1965), da Ringo, il volto della vendetta (1966) a Ringo e Gringo contro tutti (1966), da Ringo, prega il tuo Dio…ora t’ammazzo (1967) a Ringo, il cavaliere solitario (1968) – coglie il cotè autoironico del filone e lo contamina subito con la citazione di altre figure ricorrenti come Django e Gringo, eroi eponimi di altrettante minuscole saghe degli stessi anni. Non diversamente Ciccio perdona…io no! (Ciorciolini, 1968) non esita a rifare il verso a Dio perdona…io no! (1967) di Giuseppe Colizzi, plurimiliardario campione d’incasso che inaugura le fortune della coppia Terence Hill e Bud Spencer, anch’essi figure-simbolo di un cinemafumetto che vive nella dimensione ectoplasmatica del segno grafico, in cui i cazzottoni non fanno male e ci si rialza subito per ricominciare da capo. La parodia del war movie Non è possibile seguire nel loro scatenato fregolismo i due comici siciliani che nel giro di pochi anni vanno all’assalto dei generi dello spettacolo cinematografico alternando le casacche dei galeotti ai gessati dei gangster, le divise americane alle tute degli astronauti in una sorta di “boîte à surprise” che nonostante il frenetico cambiamento di costumi e scenari riesce ad essere ossessivamente ripetitiva e malinconicamente uguale a se stessa. La parodia del war movie è tra i generi più frequentati. Si rifà esplicitamente agli stereotipi di una lunga tradizione cinematografica, soprattutto americana, mediandola attraverso i volti familiari e riconoscibili degli attori di secondo piano, comici o brillanti, una 137

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sorta di compagnia di giro che riappare puntualmente ad ogni nuovo film, mandando all’aria, quando ci sono, le coordinate realistiche dell’impresa e riportando tutto alla tranquilla meschinità del piede di casa. Nei confronti delle corrusche vicende belliche il processo indubbiamente riduttivo, che accorcia le distanze e ridimensiona i ruoli, finisce con l’avere una funzione liberatoria se non di ribaltamento ironico. Si va dai I due parà (Fulci, 1965) che catapulta i due siciliani in Sudamerica, durante un colpo di stato, tra marines e barbudos, ambasciatori americani e pasionarie che hanno i volti rassicuranti di Umberto D’Orsi, Ignazio Leone, Enzo Andronico, Lino Banfi, Tano Cimarosa, Francesca Romana Colizzi, a I barbieri di Sicilia (Ciorciolini, 1967) che, al di là dell’incongruo riferimento rossiniano, vede il parrucchiere Ciccio e il barbiere Franco alle prese con il colonnello Von KrausCarlo Intermann, convinto di avere a che fare con due spie alleate incaricate di collaborare con lo sbarco in Sicilia. Indovina chi viene a merenda? (Ciorciolini, 1969) ruba il titolo a Guess Who’s Coming to Dinner (Indovina chi viene a cena?, 1967) – e infatti nel manifesto Franco e Ciccio indicano esplicitamente il soldato nero che appare nel film – ma dimentica completamente situazioni e personaggi della nota commedia di Stanley Kramer sull’integrazione razziale per riprendere piuttosto le situazioni-tipo di Le passage du Rhin (Il passaggio del Reno, 1960) di André Cayatte e The Great Escape (La grande fuga, 1963) di John Sturges. Non vola più alto neppure Due marines e un generale (Scattini, 1965), in cui Franco e Ciccio sono due marines americani in missione speciale ad Anzio prima dello sbarco alleato. Beffati dal generale tedesco Von Kassler – il grande Buster Keaton – che intende servirsi di loro per contrastare le mire americane, i due riescono ad avere la meglio 138

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travestendosi da Adolf Hitler e da Von Kassler. Sul set il comico americano si complimenta con Franco per l’incredibile mobilità della faccia e ogni mattina gli porta un sacchetto di noccioline: «Perché lui è una scimmia». La malinconica incongruità della presenza di Buster Keaton – vecchio e stanco, corroso dall’alcool, già minato dalla malattia che l’anno successivo lo condurrà alla morte – in uno stracciato B-movie giocato sul risparmio, con un mediocrissimo cast di contorno, evoca l’apparizione in carne e ossa di qualche anno prima al cinema-teatro Puccini di Milano, ex tempio dell’avanspettacolo in cui i film di Franchi e Ingrassia sono di casa, puntualmente registrata da Oreste del Buono: «Un Buster Keaton distrutto, la splendida faccia degenerata in maschera putrescente, costretto per racimolare qualche lira a esibirsi penosamente nel tentativo di ripetere le vecchie mosse folgoranti della smarrita età dell’oro, rimontando un letto riottoso, soccombendo a una perfida sveglia, lasciandosi perseguitare da un’arpia intestata a infliggergli un’iniezione con uno di quegli enormi siringoni che per fortuna vengono usati solo nell’ambito del varietà. Una desolata immagine d’impotenza, un indecoroso preludio alla morte»29. Se si esclude la spy story, le incursioni negli altri generi non sono né frequenti, né rilevanti. L’horror, la science fiction, il gangster movie sono rappresentati da un esiguo numero di film, tra cui spiccano 00-2 operazione Luna (Fulci, 1965), sgangherato viaggio nello spazio che sfrutta al meglio la comicità visiva della coppia, e Due mafiosi con Al Capone (Simonelli, 1966), dove i mafiosi del titolo sono in realtà due poliziotti siculo-americani alle prese con la criminalità organizzata della Little Italy. Il riferimento alla mafia – che attraversa l’intera filmografia della coppia da L’onorata società degli inizi fino a Due magnifici fresconi (Girolami, 1969) – si è venuto sempre più annacquando 139

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nell’assunzione meramente nominalistica per cui “mafioso” sta per “siciliano”. S’intende, in modo incongruo, ingiusto, offensivo. Ma se si ripensa a un film come Mafioso (1961) di Alberto Lattuada – da cui I due mafiosi (Simonelli, 1964) – con la sua lucida raffigurazione dei meccanismi di reclutamento e di sopraffazione del potere mafioso, salta agli occhi che l’immagine bonaria e affabulata dell’ “onorata società”, ancorata ai sistemi arcaico-tradizionali del passato, implicita nella filmografia della coppia, corrisponde ancora una volta alla ratio assolutoria e giustificazionista diffusa nel dibattito politico-culturale sulla mafia, contrassegnata dalla retrodatazione, dalla riproposta del mito arcaico della mafia del feudo, la mafia a cavallo, come copertura della strategia criminale della modernizzazione scandita sugli orari dei voli transoceanici30.

Lo spirito dei pupi L’attività del duo – dopo la consacrazione televisiva31 e la popolarità enfatizzata dalla pubblicità32 – prosegue con alterne vicende fino alla soglia degli anni ottanta. Non si può trascurare I zanzaroni (1967), l’unico film diretto da Ugo La Rosa, noto giornalista palermitano, che è stato anche regista teatrale e prolifico autore di documentari. Dei due episodi di cui si compone il film, Quelli che restano è la storia di Ciccio, il puparo che ha un solo spettatore, Franco. Quando decide di abbandonare l’attività, passa il testimone al suo estimatore. Ma allo spettacolo d’addio il teatro si riempie di bambini. Si ispira al teatro dei pupi anche Che cosa sono le nuvole?, il breve sketch tratto all’Otello shakespeariano che Pier 140

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Paolo Pasolini gira nel 1967 dopo i sopralluohi in Marocco per Edipo re. Totò è Jago, Ninetto Davoli è Otello, Laura Betti è Desdemona, Franco Franchi è Cassio, Ciccio Ingrassia è Roderigio, lo scrittore Francesco Leonetti è il marionettista che tira i fili. Sono tutti dipinti. Totò in verde, Ninetto in nero, Laura Betti in rosa aragosta. Quando Jago strangola Desdemona, il pubblico – un pubblico greve da avanspettacolo che sembra ben rappresentare le platee popolari del cinema di Franchi e Ingrassia – è inferocito33. Se la prende con Jago e Otello, che finiscono a pezzi. L’immondezzaro Domenico Modugno li carica sul camion e li porta alla discarica dove, guardando verso l’alto, scoprono le nuvole e la «straziante, meravigliosa bellezza del creato», mentre le altre marionette piangono silenziosamente la scomparsa dei loro compagni34. Nell’anno successivo lo spirito dei pupi siciliani sembra rivivere in Don Chisciotte e Sancho Panza (Grimaldi, 1968), curiosa e a tratti imbarazzante rivisitazione del capolavoro della letteratura spagnola, che trova il suo punto di forza nel tentativo di ricondurre i grandi personaggi alla misura suggestiva dei cantastorie, agli scontri elementari dei cavalieri antichi di cui si nutre la tradizione secolare dei pupi35. «Squallidi esemplari del sottocinema», «cinema da ritardati mentali», «rozzezza sconcertante», «comicità sub-umana», «fastidiosa grossolanità», «scontate esibizioni scimmiesche», «idiozia allo stato puro», «livello inqualificabile», «materia rozza, rozzissima», «ultimo stadio di una tentazione comica irrimediabilmente decaduta», «inconsistenza assoluta», «dovrebbe intervenire il codice penale», «avvilente esempio di qualunquismo», «deprimenti spiritosaggini», «tocca le vette eccelse della balordaggine», «una minaccia per i nervi degli spettatori», «non si capisce l’assenteismo della censura»: Franchi e Ingrassia non hanno avuto un 141

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buon rapporto con la critica che ha assunto nei loro confronti l’atteggiamento giudiziario con cui solitamente ci si libera della serie B36. Non mancano le isolate eccezioni di chi rifiutandosi alla rimozione aprioristica tenta di esaminare i meccanismi della loro comicità, cercando di cogliere le coordinate culturali di un fenomeno che non può essere condannato in blocco, o sottratto all’analisi, per il solo fatto di rientrare nelle “pratiche basse”, o “bassissime”. Sia pure in un contesto tutt’altro che programmaticamente positivo, l’intervento di Alberto Moravia coglie con singolare acutezza alcuni degli aspetti caratterizzanti di Franco Franchi, considerato come la componente significativa della coppia, in una felice lettura “antropologica”: «Tra le ombre irreali che in forma di personaggi si susseguono sullo schermo, Franchi sfonda la tela con la sua corposa evidenza. Simile, con le sue lamentose e turpi smorfie e la sua rigidezza legnosa ai totem fallici che stanno piantati agli ingressi dei villaggi polinesiani, Franchi ha una sua realtà di specie fescennina che al tempo stesso urta con la sua sfrenata volgarità e ispira quasi del sollievo: finalmente qualche cosa di concreto tra le nebbie dell’astrazione erotica. Il fatto stesso che Franchi si curi poco o niente di accordare le boccacce con la parte che interpreta e la vicenda alla quale partecipa, e, per così dire, reciti per conto suo, sta a testimoniare la penosa autenticità di questo comico»37. La vicenda della coppia siciliana che, arrivata fortunosamente al cinema, vi rimane per quasi un ventennio – taglieggiata, lusingata, mortificata, esaltata, come può esserlo un totem in una lavatrice – attraversa lo spettacolo italiano degli anni sessanta e dell’inizio dei settanta, come uno sbrecciato specchio deformante, refrattario alle mode e al principio d’autorità. 142

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Singolare affermazione dell’attore pretecnologico, prima della tecnologia del cinema e della televisione, schietta riprova della comicità meridionale38 dalla voce fatta di spine, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia non chiedono le amnistie di comodo e le assoluzioni benevole di chi invoca la polvere del circo o la nobiltà della “vastasata” palermitana. La loro sovrabbondante e ingombrante filmografia – da attori seriali, da lavoratori a cottimo – sprigiona un acre sapore d’epoca, una volgarità italiana all’antica, una candida oscenità che definiscono i limiti e i pregi di un cinema che si sarebbe tentati di chiamare apotropaico, insieme abominevole e scaramantico, tremendo ma anche in grado di tener lontani gli influssi malefici39.

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SOGNI IMPOSSIBILI

Sarà stata la voglia di autonomia, o la segreta convinzione di potercela fare da soli, o quel tanto di avventuroso e di picaresco, che c’era in loro dopo tanti incontri-scontri con i produttori. Ma l’esperienza cooperativa di Film Cinque – avviata all’indomani di Risate di gioia (1960) e di Tutti a casa (1960) da Mario Monicelli, Luigi Comencini, Age e Scarpelli con Alfredo Bini – è uno dei rari tentativi di produzione indipendente del cinema italiano, una delle storie ancora da scrivere se si ha il gusto degli avvenimenti “dietro le quinte” e dei progetti destinati a restare nel cassetto, talvolta più interessanti degli stessi film realizzati. Nel cassetto resta anche il primo spunto di L’armata Brancaleone, subito accantonato assieme ad altri dopo il clamoroso insuccesso di A cavallo della tigre (1961), il primo e unico progetto che i cinque temerari riescono a mettere a segno prima di rientrare nei ranghi della committenza tradizionale1. Secondo Age e Scarpelli che scrivono il primo abbozzo di soggetto, l’idea di avvio risale alla suggestione esercitata su di loro da Yojimbo (La sfida dei samurai, 1961) di Akira Kurosawa, straordinaria epopea – non priva di tratti parodici – dei “ronin”, i samurai senza padroni che nel Giappone dell’era Tokugawa (1603-1867) vivono di espedienti, offrendo i propri servigi al miglior offerente, diventando spesso guardie del corpo di giocatori e avventurieri2. «Ci siamo detti, vedendo quei guerrieri straccioni guazzanti nel 145

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fango», ricorda Age, «“pensa qui in Italia intorno all’anno 1000, cosa deve e può essere successo”. Se ne parlò: uno spunto, un ricordo, vecchie letture che riaffiorano, Rabelais, Ariosto, Sacchetti, Firenzuola, Muratori, Boccaccio. Ma di quel periodo non esistono praticamente testi e testimonianze»3. Il primo titolo provvisorio, un titolo di servizio a uso interno, è Le caccavelle, con riferimento alla forma degli elmi, che sembrano altrettante pentole o paioli. «Pietro Gherardi […] andò un mattino a Porta Ticinese, comprò dei ciaffi, li mise addosso a un gruppetto di comparse, e ne fece delle fotografie. Immagini curiose, buffe e anche incredibili. Era il nucleo centrale di L’armata Brancaleone»4. Nonostante il fallimento di Film Cinque, dopo una lunga gestazione la commedia all’italiana tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta vive uno dei suoi momenti più significativi di formazione e di decollo, a cui in un insolito clima di coralità sembrano concorrere tutti assieme appassionatamente i registi, gli sceneggiatori, gli attori destinati a dar vita al suo più importante decennio. Forse è un quadro troppo idillico, ma quando Age e Scarpelli mettono da parte il progetto di L’armata Brancaleone, Ettore Scola e Ruggero Maccari scrivono per Antonio Pietrangeli il trattamento e la sceneggiatura di La Picaresca, rielaborando una grande quantità di storie, episodi, spunti ricavati dai romanzi e dalle novelle di Mateo Aléman, Miguel de Cervantes, Francisco de Quevedo, Francisco López de Úbeda, Vicente Espinel 5. Il film – giudicato troppo costoso nonostante i tagli e i rimaneggiamenti – non si farà. Ma nel frattempo, tra Fantasmi a Roma (1961) e Io la conoscevo bene (1965), Scola, Maccari e Pietrangeli fanno i sopralluoghi in Spagna per cercare tra Madrid e Toledo, Valencia e la Siviglia le location del road 146

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movie secentesco, per il quale vengono contattati Jean-Paul Belmondo, Tony Curtis, Nino Manfredi per i ruoli di due giovani picari, Vittorio Gassman e Alberto Sordi per l’arcipicaro. L’apologia della fame È in questa occasione che Scola, travolto con Maccari dalle pile dei libri scovati per la circostanza, tratteggia le linee essenziali del romanzo picaresco, che gli sembra – come la commedia all’italiana? – «un genere assolutamente nuovo, intenso, lucidissimo», in grado di suggerire «la rappresentazione vigorosamente realistica, divertente, amara, a volte feroce della triste vita popolare di quel tempo»6, in cui gli strati inferiori della scala sociale erano duramente colpiti dalle carestie e dalle tasse, pagavano i lussi della corte e le agiatezze dei gentiluomini. Il romanzo picaresco è «una autentica apologia grottesca della fame», in cui viene in primo piano «il popolo, sempre presente con la sua umanità, il suo sarcasmo e la brutale satira di se stesso, in una variopinta sfilata di straccioni, mendicanti, ciechi finti e ciechi veri, ruffiane [...], prostitute, lenoni, invalidi, fanfaroni, avventurieri, spacconi, attori senza contratto, giocatori senza fortuna, ladri, ex galeotti». Il protagonista è il picaro, «un vagabondo astuto per necessità, pigro per sistema, cinico e irresponsabile, privo di ogni pudore e onore, solo timoroso della frusta, scaltro e malizioso, smargiasso e buffone». Non è un delinquente per mancanza di ambizione. «Mangiare e dormire sotto un tetto: sono questi i suoi unici grandi problemi, che gli si presentano con monotonia ogni giorno che nasce; ed egli deve risolverli con il suo genio malandrino, con la pazien147

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za, con la rassegnazione. Quello che accadrà domani non ha importanza (il “futuro”, “il destino”, “la morte” non spaventano mai il picaro): importante è solo arrivare a domani». Se la prima scuola è la famiglia, la sua vera maestra è la strada, dove in breve otterrà la sua laurea picaresca e imparerà che gli uomini – quelli che egli froda e deruba – sono peggiori di lui, che perlomeno non esercita la gratuita cattiveria, la disonesta cupidigia, l’egoismo, la vanità. È da qui che nasce il profondo pessimismo del picaro, la sua mancanza di scrupoli, il suo odio per la società che lo circonda, il suo orgoglio di appartenere a una “casta” plebea, lacera, infingarda, mal consigliata però dalla fame e non dal vizio 7. Sul finire degli anni cinquanta, per Monicelli, Age e Scarpelli, ma più in generale per la commedia all’italiana, il film della svolta era stato I soliti ignoti (1958), congedo dalle incertezze dei film immediatamente precedenti – professionalmente ineccepibili, Padri e figli... (1957) e Il medico e lo stregone (1957) sono ancora compromessi con il bozzettismo, tra commedia dialettale e farsa paesana – e insieme salto di qualità e atto di rifondazione di un intero genere in grado di tirare le fila delle esperienze decisive del neorealismo e del film comico dando vita a una struttura compositiva la cui maggiore novità è lo spiazzamento. Se l’inadeguatezza è la caratteristica dei vari personaggi da Cosimo a Peppe, da Mario a Tiberio, da Capannelle a Dante, è anche vero che la costante sproporzione tra mezzo e fine, ambizioni e vissuto, progetto e risultato sembra aver guadagnato lo spazio nuovo di un sovrappiù di realtà che coincide – è il paradosso dell’intero film – con un sovrappiù di comicità. Nello stesso momento in cui Monicelli riattinge la capacità di immersione nel reale, che era stato il territorio di avvio delle fertili esperienze degli anni cinquanta (da Guardie e ladri, 1951 a Totò e Carolina, 148

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1955), definisce la scansione grottesca degli avvenimenti in cui, aggirando la distinzione tradizionale tra comico e drammatico, nel tessuto parodico e beffardo del racconto fa esplodere il sottofondo amaro, la crudezza brutale della sconfitta incombente. Lo scenario urbano Sin dal maldestro tentativo del furto dell’auto mentre scorrono i titoli di testa, i personaggi fanno la loro prima apparizione in uno scenario urbano di sconfortante squallore, in una strada buia e quasi deserta, piena di ombre minacciose e di fioche luci lontane. Cosimo, con il suo impermeabile alla Humphrey Bogart che fa freddo a guardarlo, è alle prese con l’antifurto. Capannelle, un‘immagine stranita nel suo vestito da fantino, fa da palo allungando più che può lo sguardo nelle varie direzioni fino all’immancabile arrivo delle “madame”8. La ricerca della “pecora”, disposta a andare in prigione al posto del vecchio boss, coincide con il viaggio dentro la marginalità dei quartieri periferici, negli spazi sterrati tra i casermoni popolari in cui i ragazzini che giocano al pallone sanno tutto della vita e della malavita, attraverso cui incontriamo uno dopo l’altro i protagonisti del piccolo gruppo di imbranati pasticcioni, segnati dall’incapacità a essere disonesti fino in fondo, dalla precarietà della situazione familiare, dalle complicazioni più logistiche che interpersonali in cui riescono a sfogare l’inadeguatezza originaria, la statutaria vocazione al fallimento. Nei ritmi incalzanti della ballata popolare – a cui la fotografia di Gianni Di Venanzo e la musica jazz di Piero Umiliani imprimono i contrassegni visivi e sonori di una disincantata modernità – i preparativi del “colpo”, dai 149

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sopralluoghi al banco dei pegni all’incursione a Porta Portese, dalla lezione di scasso del grande specialista in casseforti al corteggiamento della cameriera del palazzo vicino per carpirle le chiavi, il film si viene allargando ben oltre i toni parodici di un genere cinematografico di successo fino alla improvvisa riapparizione di Cosimo al luna park. Salendo in una delle piccole vetture degli autoscontri guidata da un bambino, gli dice: «Segui quella macchina»9. Nella tenacia con cui i protagonisti di I soliti ignoti, pur continuando a vantare le pretese “scientifiche” dell’organizzazione, si immedesimano nel destino di perdenti, nella stessa scombinata, erratica, affannosa irresponsabilità con cui lo scalcinato gruppo di poveracci s’imbarca in un’impresa superiore alle proprie forze rispunta se non il picaro almeno quel tratto della formazione del romanzo moderno che Bachtin fa risalire alla figura del furfante, del buffone, dello sciocco, il cui riso ha un carattere pubblico da piazza popolare, prima del grande crocevia del romanzo picaresco, del Don Chisciotte di Cervantes, del Gargantua e Pantagruel di Rabelais10. Se Peppe detto er Pantera è il punto di raccordo dell’intero film, quello a cui si rapportano in varia misura gli altri personaggi11, non sarà inutile ricordare che subito dopo I soliti ignoti le strade di Monicelli e di Gassman s’incontrano di nuovo in La grande guerra (1959), straordinario esempio di sfida di tabù delle patrie glorie destinato a diventare un campione d’incassi, nel personaggio di Giovanni Busacca, il lazzarone, sfaticato e pusillanime che continua la riconfigurazione interna dell’attore, il suo superamento dagli stereotipi degli anni precedenti, in cui si avverte sempre il coturno e il suggeritore, verso le maschere moderne e gaglioffe dell’inadeguatezza12. S’intende che in questo caso l’inadeguatezza – condivisa dal popolo di contadini che si ritrova nelle trincee – non può che diventare tragica. 150

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Mentre il regista prosegue la sua attività con Risate di gioia, I compagni (1963), Casanova ’70 (1965), l’attore dopo aver rifatto Peppe nell’Audace colpo dei soliti ignoti (Nanni Loy, 1959), incontra Dino Risi con cui interpreta Il mattatore (1960), Il sorpasso (1962), La marcia su Roma (1962), I mostri (1963). Non è certo un caso, ma le sceneggiature sono spesso firmate Maccari e Scola, che in quegli anni passa alla regia e lo dirige tra l’altro in Se permettete, parliamo di donne (1964) e La congiuntura (1964). Il più significativo è, come si sa, Il sorpasso, travolgente epopea del millantato credito sullo sfondo di un boom economico più ombre che luci. Il gruppo di sprovveduti Il rincontro tra Gassman e Monicelli avviene nella metà degli anni sessanta sul set di L’armata Brancaleone (1966), che finalmente riprende il soggetto accantonato qualche anno prima13. Lo spunto di avvio è suggerito ancora una volta dal gruppo di sprovveduti chiamati a tentare un’impresa più grande di loro: ma il motivo dei piccoli cialtroni votati al fallimento si arricchisce e si amalgama con altri aspetti contenutistici, strutturali, linguistici che rinnovano gli umori canzonatori di I soliti ignoti, ma allargano il quadro fino a guadagnare, con libertà inventiva e scioltezza di racconto, la specifica originalità del film, che si affida principalmente al rapporto con il medioevo, al modello del viaggio, al linguaggio in cui parlano i personaggi. Il medioevo della tradizione romantica, fatto di paladini e donzelle, castelli turriti e mistici sospiri, si capovolge qui in uno scenario di ignoranza, di sporcizia, di crudeltà, di fame. Non si tratta tanto di far confluire nello spettacolo l’aggiornamento storiografico a cui la “nouvelle histoire” 151

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era venuta sistematicamente contribuendo nei livelli alti della ricerca scientifica14, ma di dar vita e concretezza narrativa alla decentralizzazione, al movimento verso il basso di cui parla Bachtin: «L’abbassamento è il principio artistico fondamentale […] del realismo grottesco: tutte le cose sacre e alte sono reinterpretate sul piano del “basso” materiale e corporeo o messe in correlazione e mescolate alle immagini di questo “basso”»15. L’inizio è straordinario. È buio. Spunteranno tra poco le luci dell’alba. Il silenzio è lacerato da un fischio di richiamo. Mentre spunta il sole, la rozza soldataglia barbara raggiunge un villaggio di contadini che sorge vicino a un castello diroccato. Quando uno dei soldati spalanca la porta di un’abitazione, il grido spaurito di una donna segna l’inizio dell’incursione. Snidano dai loro giacigli gli abitanti e con brutalità li spingono nell’aia. Nonostante non manchino le reazioni violente e i tentativi di fronteggiare gli aggressori con bastoni e rastrelli, i soldati prevalgono scatenandosi in un massacro efferato dove la crudeltà ha qualcosa di panico. Se il capo entra a cavallo nel pollaio menando colpi in ogni parte in uno sfarfallio di piume e di sangue, uno dei suoi sventra con le corna dell’elmo un malcapitato e un altro trucido non esita a mangiarsi voracemente una covata di pulcini vivi. Lo scempio è seguito momento per momento da Pecoro e Taccone, un uomo e un ragazzo che hanno trovato rifugio in una tinozza piena d’acqua dal colore indefinibile: una singolare prospettiva dal basso a cui più volte la macchina da presa fa ritorno. Due sgherri cercano di tener fermo un contadino per tagliargli la testa, ma il colpo di mannaia taglia via di brutto il braccio di uno dei soldati. La razzia continua senza risparmiare cose e persone. Mentre qualcuno butta giù dalle finestre i poveri averi degli abitanti, altri si danno allo 152

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stupro, inseguendo le donne fino al fiume o saltandogli addosso nella riserva di farina del mulino. Nello spiazzo pieno di cadaveri torna finalmente la pace, dopo la polvere, il chiasso, il caos incalzante del saccheggio. Una parte della banda se ne va dopo aver sistemato il bottino sul carro e un’altra parte rimane sull’aia. L’arrivo improvviso di un cavaliere con il suo scudiero sembra destinato a ristabilire la legge e l’ordine, – sia pure una legge e un ordine anonimi, senza volto, com’è lo stesso cavaliere completamente nascosto dall’armatura – e invece riaccende la girandola delle efferatezze e degli ammazzamenti. Nessuno dei soldati rimasti è in grado di tenergli testa, di sottrarsi ai suoi fendenti micidiali. Il nuovo massacro, non meno concitato e feroce del precedente, volge al termine. Il cavaliere si sta togliendo di dosso le frecce che l’hanno colpito quando una terribile sassata tiratagli da Manigold, l’unico soldato di ventura sopravvissuto, lo fa stramazzare a terra. Pecoro e Taccone escono dalla tinozza e assieme a Manigold spogliano il cadavere di tutti i suoi averi, tra cui una pergamena, e lo gettano nel fiume. Il medioevo feroce Siamo solo alla soglia del film, all’antefatto, ma «il medioevo cialtrone, fatto di polvere, di ignoranza, di ferocia, di miseria, di fango, di freddo»16 che è lo spunto originario del progetto, c’è già tutto – e sbozzato con pochi tratti nervosi, incisivi, efficacissimi – nello scontro grottesco di contadini e di soldati, di poveracci e di straccioni, di assaliti e di assalitori, che precede l’entrata in scena del protagonista e del suo piccolo gruppo di perdenti. L’“armata” non potrebbe essere più scalcinata, fatta su misura per il condottiero spaccamontagne che si proclama 153

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enfaticamente suo duce. Ne fanno parte il tozzo Pecoro, il ragazzino Taccone, il soldato Manigold e il vecchio mercante ebreo Abacuc, mentre il capo è Brancaleone da Norcia, che ha appena perso un torneo perché il suo cavallo Aquilante si ostina a scappare davanti all’avversario invece di andargli incontro come vuole l’etichetta. Il miraggio della pergamena di investitura del feudo di Aurocastro, sottratta al cavaliere, tiene unito il gruppo di miserabili, convinti di potersi spartire beni e femmine nelle lontane terre meridionali. Il modello del viaggio – che si rifà al romanzo di peregrinazioni, al romanzo picaresco d’avventure17 più che al road movie del cinema moderno e contemporaneo – sembra procedere per accumulo di personaggi e di situazioni. Il nobile bizantino Teofilatto si aggrega al gruppo dopo uno scontro all’ultimo sangue con Brancaleone, in cui riescono soltanto a abbattere un albero a colpi d’ascia e tagliare con la spada un campo di grano. L’intera “armata” si unisce a frà Zenone e alle sue pie schiere di fedeli in cammino verso la Terra Santa quando teme di essersi presa la peste durante il saccheggio di un paese abbandonato. La spedizione invece di puntare direttamente su Aurocastro non si sottrae alle occasioni che le si presentano, quasi sempre con risultati disastrosi. Scorta la pulzella Matelda al castello dove andrà sposa al proprietario, ma la nobile impresa finisce male perché Teofilatto la notte precedente si approfitta della promessa sposa, delusa dal comportamento troppo cavalleresco di Brancaleone. Teofilatto li convince a recarsi dai suoi parenti per incassare il riscatto di un finto rapimento, ma il padre circondato da una sorta di corte di fantasmi, allucinate apparizioni di una nobiltà al tramonto, gli rivela che è un bastardo a cui non verrà dato il becco di un quattrino. 154

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Il linguaggio maccheronico Lo sproloquiante linguaggio maccheronico, felice amalgama di spropositi verbali e di ammiccamenti parodistici, è una delle componenti più irresistibili dell’intero film. La lingua di L’armata Brancaleone è una mescolanza di «“alto italiano”, di latinismi, di francesismi, tedeschismi, dialettismi di varia provenienza: insomma di una sorta di pastiche gaddiano per le grandi platee»18. La koiné linguistica – a cui non sono estranei i ricordi liceali degli sceneggiatori – si basa soprattutto su una sintassi arcaicizzante, che scandisce la costruzione delle frasi secondo ritmi ampollosi. Sull’esempio del lavoro già compiuto da Totò, vengono sbeffeggiate le forme del linguaggio ufficiale, quando non sono parodiate le tipiche allocuzioni mussoliniane: «Siete voi pronti a morire pugnando?» oppure «E più di prima teso come spada alla meta nostra». Se le iperboli da poema eroicomico costituiscono il punto di riferimento, l’inventiva pirotecnica degli sceneggiatori non esita a mescolare parole create per l’occasione – come «cavalcone» per passerella – con latinismi e pseudolatinismi, arcaismi e forme straniere, deformazioni linguistiche e trasgressioni grammaticali, in un gioco continuo di rimandi e di citazioni che spesso fa centro19. Oltre la lingua, il tratto che accomuna L’armata Brancaleone e Brancaleone alle crociate (1970), seguito che Monicelli non avrebbe voluto fare, è l’impianto teatrale. Si tratta di un aspetto sul quale ha insistito in più occasioni lo stesso Gassman, che non si è mai sentito il personaggio della porta accanto, il tipico interprete della commedia all’italiana. «Non mi resta facilissimo apparire un personaggio della quotidianeità», dice l’attore. «Ho un fisico un po’ particolare, che ha bisogno di certi ruoli, e ho un tipo di recitazione che ha sempre avuto bisogno di personaggi un 155

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pochino sopra le righe. […] Brancaleone era tutto basato su procedimenti teatrali, il gusto della magniloquenza esagerata, della dismisura, il contrario del cinema insomma». E ancora: «Secondo me il “palco” era proprio di carattere teatrale: una serie di spunti molto divertenti, con quest’intuizione di italiano maccheronico condito di latino e di dialetti, in un contesto di avventure, però di stampo teatrale. […] C’era nel personaggio un fondo teatrale e di goffaggine, con una lontana eco del Don Chisciotte. È stato forse il mio personaggio che funzionò di più […]. Era fortissimo, da un lato, e nello stesso tempo era fatto di paglia»20. L’impianto teatrale si avverte ancora di più nel secondo film che nella parte finale si ispira esplicitamente all’opera dei pupi, con i protagonisti che parlano in versi elementari da «Corriere dei Piccoli»: «Sangui de lu sangui miu/Tua sarrà, lo vogghia Iddiu,/chista spata turlindana/ di la stirpi ciciliana,/che in mia manu di già fici/granne stragge di nimici!», dice re Boemondo sollevando il rampollo che Brancaleone gli ha portato e la sacra spada21. Si potrebbero moltiplicare le citazioni dell’interloquire sicilianeggiante e ritmato di Boemondo sotto le mura di Gerusalemme, ma è più importante notare che l’uso scherzoso dei versi da filastrocca continua nei costumi dei personaggi che ricalcano le carte da gioco, assicurando alla sequenza un carattere visivo tutto particolare, una sorta di smalto policromo che sottolinea l’artificio della messa in scena, quasi un’apertura verso la commedia musicale che è al fondo dell’impresa22. Se il primo film era più “sgangherato”, il secondo è più “costruito”. La dimensione teatrale del protagonista – su cui giustamente Gassman richiama l’attenzione – contamina anche il regista che non “ripete” il primo film ma lo esaspera, moltiplica i suoni, i rumori, le tirate oratorie, i monologhi con la morte sullo sfondo dell’accecante paesaggio 156

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algerino in una messa in scena che sembra per tanti versi puntare sulla “mise en abîme” dei materiali compositivi del dittico, una sorta di lucido esorcismo nei confronti di un terzo, indesiderato capitolo. Il cerchio si chiude molti anni dopo con I picari (1987), che riprende Lazzarillo de Tormes e Guzman de Alfarache da cui aveva preso le mosse l’irrealizzata La Picaresca di Pietrangeli, oltre a tanti altri racconti e novelle di scrittori celebri e meno celebri. «Faccio I picari con lo spirito che ha caratterizzato diversi miei film, come ad esempio I soliti ignoti, che era imperniato su una banda di cialtroncelli, formati da un’umanità spicciola», dice Monicelli nell’occasione. «In un certo senso, mi rifaccio a L’armata Brancaleone, che ha trattato di un gruppo di sciagurati che attraversano un’Italia di orsi e di foreste. Quelle erano avventure picaresche con un linguaggio particolare che attirava molto […]. I personaggi di Brancaleone erano degli sprovveduti, dei malandrini, dei teppisti dell’epoca. I picari hanno mille vicissitudini, vengono mandati nelle galere da dove scappano; hanno una diversa tempra, sono dei ruffiani, sfruttatori di donne, crudeli»23. Nonostante la minuziosa ricostruzione, il recupero delle fonti letterarie dell’atteggiamento picaresco che da sempre fa parte integrante dell’autore e del suo mondo, si conferma più che legittimo ma poco produttivo sul piano dell’invenzione, non riesce a superare «la freddezza complessiva» dell’insieme, «una certa nobile impassibilità» che resta sospesa a mezzo, senza far corpo con la bravura degli attori24. L’eccezione è rappresentata dall’hidalgo spiantato che vive nel suo palazzo vuoto, continuando a mantenere un servo senza avere i soldi per pagarlo, incapace di rinunciare all’eroica simulazione di stato che lo mantiene in vita. Gassman è bravissimo nel capovolgere l’interpretazione esagitata e estroversa di Brancaleone in una recitazione 157

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umbratile, trattenuta, sottotono. Solo un lampo di voracità sottolinea per un attimo la smorfia con cui aggredisce l’ostia della comunione, il solo illusorio pasto che ancora può permettersi. I duetti con Guzman-Giannini, che si è messo al suo seguito, sono notevoli, anche sul piano dell’incontro tra diversi statuti recitativi. Quando viene portato via per essere messo in prigione per debiti, l’hidalgo gli regala il suo cavallo. L’archetipo dell’avventura In una sequenza, Monicelli si concede una piccola citazione in codice, un omaggio all’archetipo dell’avventura che gli è sempre sfuggito, nonostante l’aspirazione a impadronirsene, a metterlo in un film. Spinti dalla fame, Guzman e Lazzarillo entrano in un mulino a vento per rubare qualche sacco di farina, ma sono sopraffatti da quella che sembra una scossa di terremoto. Non si tratta, però, di un improvviso sommovimento tellurico, ma della mattana di un cavaliere lungo lungo e magro magro che si è aggrappato a una delle pale del mulino, sconvolgendo il meccanismo della macina e creando un chiassoso trambusto che fa accorrere i contadini e fuggire, infarinati dalla testa ai piedi, i due poveracci. Il cavaliere dalla triste figura, che aveva scambiato le grandi pale del mulino per giganteschi uomini d’arme, non poteva certo sottrarsi all’obbligo d’onore di misurarsi con loro in singolar tenzone. Poco lontano, il fido scudiero in sella al mulo è in attesa con il cavallo del suo strano padrone. Don Chisciotte e Sancio Panza sono soltanto due silohuette appena abbozzate, tra il dipinto di Daumier e la litografia di Picasso, due immagini mute, appaiono solo un momento prima di essere inghiottite dalla girandola di 158

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avvenimenti e di disgrazie che attende i protagonisti. Ma la licenza poetica del regista è sufficiente a farci capire chi c’è dietro i picari di ieri e di oggi che popolano il suo cinema, questi «maestri dei sogni impossibili»25 che si muovono con l’assoluta inadeguatezza degli imbranati combinaguai nello spazio impregiudicato dell’avventura libera e allegra. Sì, c’è il sogno impossibile di misurarsi con il cavaliere della modernità, l’eroe della contraddizione, lo «sregolato burattinaio» che «prende le cose per quelle che non sono e le persone le une per le altre; ignora gli amici e riconosce gli estranei; crede di smascherare e indossa una maschera»26. Che sia lui il protagonista segreto ma ricorrente della commedia all’italiana, così come la intende «un patito del teatro»27 come Monicelli? Certo, qualcosa di Don Chisciotte c’è anche in Brancaleone. Il discorso potrebbe ricominciare proprio da qui. Con le pagine che al grande personaggio dedica Paul Auster in uno dei suoi romanzi più belli e labirintici, dove molto si discute su chi può aver scritto il Don Chisciotte. Il testimone delle avventure del protagonista non può essere che Sancio Panza, sempre sul posto. Ma lo scudiero non sa né leggere né scrivere, nonostante l’irresistibile parlantina e l’indubbio talento linguistico. Sancio può averlo dettato a qualcun altro, probabilmente al barbiere o al prete, buoni amici del suo padrone. L’idea di un Don Chisciotte visto da Sancio Panza non è nuovo, ma si adatta perfettamente alle corde di Mario Monicelli, che avrebbe modo di guardare dal basso un personaggio tentato spesso di volare troppo in alto. Chissà se il regista è d’accordo con la conclusione provvisoria a cui arriva Paul Auster nella sua digressione donchisciottesca: «Don Chisciotte stava compiendo un esperimento. Voleva saggiare la dabbenaggine dei suoi simili. Sarà mai possibile, si chiedeva, 159

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pararsi di fronte al mondo e snocciolare menzogne e assurdità come se niente fosse? Dichiarare che i mulini a vento sono cavalieri, che un bacile da barbiere è un elmo, che le marionette sono persone in carne e ossa? Sarà mai possibile persuadere gli altri a darti ragione anche quando non ti credono? In altre parole, fino a che punto la gente avrebbe tollerato lo sproposito se lo sproposito la divertiva? La risposta è ovvia, no? All’infinito. Tant’è che il libro lo leggiamo ancora oggi. Con sommo divertimento per di più. E alla fine è proprio quello che tutti chiediamo a un libro...che ci diverta»28.

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IL TEMPO E LA STORIA

Nel mercato sotto il ponte di Saint-Michel la folla assiste alla nuova attrazione dei girovaghi italiani, appena approdati sulle rive della Senna. Si tratta di «El Mondo Niovo», la cassetta di legno con un rudimentale oculare attraverso cui lo spettatore guarda all’interno, mentre si alternano le stampe che riproducono gli eventi storici descritti dall’imbonitore: «In sta cassetta mostro el Mondo Niovo / con dentro lontananze e prospettive. / Vogio un soldo per testa e ghe lo trovo»1. Non è tanto un pretesto per far sfilare uno dopo l’altro gli avvenimenti decisivi degli ultimi tre anni, dalla convocazione degli Stati Generali alla presa della Bastiglia, quanto piuttosto un modo per entrare sin dalla prima sequenza nei meccanismi dell’immaginazione popolare, che costituiscono lo scenario di riferimento di Il mondo nuovo (1982) di Ettore Scola, il nucleo originario e fondante della sua articolazione strutturale. La scatola magica La cassetta del Mondo Nuovo mette in scena anzitutto il rapporto con la storia, in cui le consapevolezze del presente rimbalzano negli interrogativi del passato rischiando il “senno del poi”. I vari piani del racconto si intrecciano, si sovrappongono, si rimandano l’un l’altro in una sorta di 161

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passaggio del testimone per cui si crede di inseguire un filo della vicenda quando siamo già coinvolti in un altro percorso. Ma la cassetta è anche lo spazio chiuso della diligenza, in cui i protagonisti riflettono sul momento storico in cui sono immersi, rappresentando le diverse prospettive della dama di corte, la contessa austriaca Sophie de la Borde, dello scrittore inglese Thomas Paine, dell’industriale Vendel, della vedova Adelaide Gagnon, della cantante lirica Virginia Capacelli e del magistrato De Florange che l’accompagna, mentre Jacob, il parrucchiere della contessa, flirta con il postiglione e lo studente Emile e la cameriera Maddalena amoreggiano tra i bagagli2. La cassetta incarna la metafora fondamentale del teatro, la scatola magica in cui si dipanano le lontananze e le prospettive, si dispiegano i giochi illusionistici degli sguardi incrociati non solo dei personaggi tra di loro, ma anche dell’autore e dello spettatore, coinvolti nell’intreccio dei percorsi e delle sfalsature in cui si anima il singolare viaggio del film. Gli spettatori sono indotti a partecipare agli avvenimenti attraverso la mediazione degli ospiti della diligenza, mentre la grande berlina verde tirata da sei cavalli li precede fin quasi alla fine. Non condividono il ruolo di sfondo dei personaggi popolari, indifferenti, estranei, assenti, almeno fino alla brusca sterzata con cui il tragitto dei percorsi incrociati si avvia alla conclusione e tutti vogliono correre a Varennes, essere presenti sulla scena della storia. Gli uni e gli altri vorrebbero guardare in faccia il re e la regina, ma si dovranno accontentare di vederne i piedi. Lo stimolo della curiosità, l’insaziabilità del voyeur, la determinazione dell’espion nel far quadrare gli indizi – ma non è l’identikit dell’autore cinematografico? – si incarnano in modo esemplare nello straordinario personaggio di Nicolas-Edme Restif de la Bretonne che corre da una parte 162

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all’altra del film, incalzato dall’ossessione di essere sul posto e di cogliere l’attualità in fieri. Sin dalla sua prima apparizione, quando, emergendo improvvisamente dal buio con il mantello e il cappello a larghe falde, risponde al richiamo di Madame Faustine, affacciata alla finestra del bordello, fiuta il mistero degli affannosi andirivieni e dei furtivi tramestii che durante la notte avrebbero sconvolto la routine di palazzo reale. I sovrani sarebbero in fuga, confermando le voci che corrono da più di un mese? Non esita a raggiungere il passaggio delle Tuileries, dove inopinatamente gli viene messo in mano uno dei due grossi pacchi destinati alla carrozza che attende la bella sconosciuta e la sua cameriera. Quando di prima mattina, alla stazione delle messaggerie reali, ritrova i pacchi e le signore, decide di seguire la pista. L’inquietudine mercuriale, il gusto per l’intrigo misterioso, il senso dell’avventura sono i tratti dello scrittore-detective che in modo particolarmente suggestivo, quasi da giallo, avviano il meccanismo del viaggio mentre predispongono l’incontro con Giacomo Casanova, braccato dagli emissari del conte di Waldstein decisi a riportarlo nel castello in Boemia per fargli riprendere le sue mansioni di bibliotecario-buffone di corte. L’incontro “impossibile” – ma in qualche modo plausibile – come un capitolo inedito o smarrito di Le Nuits de Paris di Restif de la Bretonne che «crede di vedere anche quando inventa»3 – anima alcuni dei momenti più significativi dell’intero film. Quando ospita Restif nel suo cabriolet, Casanova, che viaggia in incognito e si presenta come il cavaliere di Seingalt, si scuote dal dormiveglia solo al sopraggiungere della diligenza. Non intende assolutamente mangiare la polvere e – allacciate le cinture – costringe il postiglione a lanciarsi in un sorpasso spericolato, in cui, finalmente di buon umore, sembra dimenticare gli acciacchi dell’età e ritrovare le energie perdute. 163

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La fine di un mito Il cabriolet giunge finalmente alla stazione di posta. Il cavaliere si affretta con il suo nécéssaire da viaggio verso lo stanzino di decenza. Mentre Restif intervista lo stalliere per ricostruire il passaggio della berlina misteriosa, «grande, grandissima, mai vista una carrozza così», Giacomo dispone sulle ginocchia vasi, vasetti, pennelli e piumini per darsi una ripassata al trucco. Si dipinge di rosso le labbra come una bagascia e si dà il bianco alla faccia. Si guarda allo specchio inforcando un paio di spessi occhialetti mentre rinforza il bistro sugli occhi. Quando si toglie la parrucca per incipriarla, scopre i radi capelli scomposti che mette in ordine con le mani. La nuvola di polvere di riso lascia intravedere un vecchio quasi calvo dallo sguardo smarrito. La minuziosa opera di restauro è un impietoso “dénouement”, la drammatica rivelazione della fine di un mito, l’improvvisa irruzione della realtà più cruda nel teatrino delle apparenze imbellettate4. Sono numerosi gli altri momenti dell’incontro che andrebbero ricordati, dall’ospitalità nella diligenza dopo l’incidente del cabriolet alla sosta dei passeggeri nel bosco mentre la diligenza affronta una salita, dalla cena nell’albergo di Nannette all’ultimo viaggio insieme prima di incontrare le guardie di Waldstein. Il mito del grande amatore è al centro del breve tratto che Giacomo compie con la contessa de la Borde, la cantante bolognese e la vedova Gagnon. Mentre gli altri uomini restano a cassetta, Restif e Vendel sono una sorta di specchio complice e ammirato in cui si celebra il rito della seduzione. Soprattutto Restif è un comprimario che gli fa da “spalla”, enfatizzando un riferimento, completando una frase rimasta sospesa. Casanova tiene banco come ai tempi in cui le corti europee si dispu164

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tavano la sua presenza. Ma il gioco dell’amore che incanta le dame non diverte più il gentiluomo veneziano che sul più bello perde il filo, indugia a guardare fuori dal finestrino il paesaggio circostante, sembra aver ormai oltrepassato irreversibilmente la soglia dell’ombra5. Il «senso del teatro» che Casanova ricorda in un altro momento del film come uno degli accorgimenti con cui recita più che racconta le sue avventure agli ospiti del duca di Waldstein, esplode nella passeggiata nel bosco, in cui il gentiluomo si accompagna con le dame, esibendosi con la cantante Capacelli in un celebre brano del Don Giovanni di Mozart, nel duetto di Leporello che con Donna Elvira passa in rassegna il «catalogo delle belle» amate dal suo padrone: «In Italia seicento e quaranta / in Lamagna duecento e trentuna, / cento in Francia, in Turchia novantuna, / ma in Spagna son già mille e tre. / V’han fra queste contadine, / cameriere, cittadine, / v’han contesse, baronesse, / marchesane, principesse, e v’han donne d’ogni grado, / d’ogni forma, d’ogni età»6. Si tratta di un brano di singolare efficacia in cui il Grande Seduttore sembra scrollarsi di dosso il cupo sentimento dello sfacelo che l’accompagna per abbandonarsi alla sorridente, infantile, rêverie amorosa, regressiva e pantagruelica come le leccornie gastronomiche di cui s’ingozza nelle osterie delle stazioni di posta, rimborsando i locandieri con pagherò in bianco. Nella breve pausa, il personaggio si ricompone nel suo ruolo di icona dell’ancien régime lanciando strali contro la rivoluzione che ha sconvolto il mondo di prima, un’immagine irriducibile nel ricordo ma destinata a scomparire con lui. Si direbbe che i conversari amorosi lasciati a mezzo nella diligenza, la digressione mozartiana e l’elogio del passato di poco prima siano altrettanti, progressivi avvicinamenti allo scambio di battute tra Giacomo e la contessa 165

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Sophie, che sul ciglio della strada scorge fra i resti di un frettoloso “déjeuner sur l’herbe” un fazzoletto con lo stemma della famiglia reale. La contessa austriaca gli confessa che, vistolo a corte quando aveva quindici anni, è stato il primo amore della sua vita. Ma anche questa allettante provocazione – come più tardi quella più esplicita della vedova Gagnon – non scuote lo sguardo assente del vecchio gentiluomo, chiuso nel suo cerimonioso declino. Sospesa tra passato e presente, tra ritrovamento e addio, è quasi una tragedia in due battute, una scena madre che, invece di esplodere, implode in se stessa, deflagra silenziosamente nelle segrete intermittenze del cuore. Il gusto della caricatura Nel trittico francese che va da Il mondo nuovo a Il viaggio di Capitan Fracassa (1990), Ballando ballando (1983) rappresenta una sorta di intermezzo. Ettore Scola vi recupera il gusto del disegnatore satirico, coltivato sin dalla stagione dei giornali umoristici, moltiplicando i personaggi che si animano e acquistano spessore a partire dai tratti appena sbozzati della raffigurazione caricaturale, in cui i tic fisici, comportamentali, psicologici di ciascuno tendono al grottesco. Si tratta di un film-scommessa che – desunto dallo spettacolo del Théâtre du Campagnol di Jean-Claude Penchenat – rinuncia al parlato del tradizionale film narrativo per affidarsi esclusivamente alla musica e al gesto di un gruppo di personaggi-maschere, incaricati di ripercorrere cinquant’anni di storia francese, in cui si riflettono gli avvenimenti dell’Europa e del mondo. La memoria, sospesa tra passato e futuro, è ancora una volta al centro degli interessi del regista, che continua a interrogarsi sul tempo e la sto166

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ria, fino a farne lo scenario privilegiato della sua indagine, così attenta alle emozioni, ai sentimenti, ai cortocircuiti tra pubblico e privato. La scelta del luogo chiuso è fondamentale anche in Ballando ballando, in cui la sala da ballo è il teatro dell’azione, intesa ancora una volta come scatola magica, “boîte a surprise” che, grazie agli andirivieni dei flashback e ai sinuosi movimenti di macchina, si apre al viaggio dentro il passato, attraverso le sedimentazioni dell’immaginario popolare. Il centro strategico del film è il corpo che nel ballo sembra trovare una sorta di continuo ampliamento e di riduzione all’essenziale. Come in un gioco di specchi – a cui non è estraneo il senso del teatro, tra l’azzardo dell’improvvisazione e la fedeltà al testo – i corpi dei ballerini vengono trascrivendo le impervie modalità del discorso amoroso, fissando nel pentagramma altrettanti punti di non ritorno, in cui, tra avvicinamenti e allontanamenti, si inscrive la loro vocazione alla solitudine7. Senza cedere alla nostalgia o alla massificazione, perché le articolazioni interne e le scansioni strutturali riescono a contemperare la visione d’insieme, l’incalzare del tempo inesorabile e vorace, con le folgorazioni individuali, gli assolo dei singoli, colti nella loro irriducibile vulnerabilità. Quando verso la fine risuonano le note di “Que reste-t-il de nos amours” di Charles Trenet è difficile sfuggire alla sofferta lacerazione dei ricordi personali. Il rapporto con il teatro Il viaggio di Capitan Fracassa accentua il rapporto con il teatro che, attraverso la mediazione del precinema, era fondamentale anche in Il mondo nuovo. La struttura teatrale è 167

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dichiarata esplicitamente fin dall’inizio del film, che comincia con un carrello in avanti verso il palcoscenico che si apre e finisce simmetricamente con il palcoscenico che si chiude, suggellando il viaggio verso Parigi. Se la diligenza di Il mondo nuovo riprende il modello fordiano di Stagecoach (Ombre rosse, 1939) – chiamato a storicizzare il paradigma della varia umanità in viaggio “in partibus infidelium” nella compresenza dialettica della diverse prospettive se non delle componenti sociali del contesto storico – il carro dei comici è tutto immerso nella metafora teatrale per cui i protagonisti della vicenda coincidono con i personaggi a cui danno vita sulla scena. Sono sopraffatti dalla dialettica tra realtà e rappresentazione, tra vero e falso, si agitano e si ribellano alla loro condizione per ritornare a riconoscersi alla fine nella maschere che hanno indossato per tutta la vita, condannati a condividerne in qualche modo le scelte e i destini. Se nessuno si sottrae al gioco illusionistico della scena, la forza mitopoietica del teatro fa del carro dei comici una sorta di casa viaggiante della vita, in cui le persone e i sentimenti nascono e muoiono per continuare a nascere di nuovo, a cambiare, a trasformarsi. Lo spazio chiuso della scena teatrale, che sembra muoversi in una realtà di cartone, tra le quinte logore e immutabili della coazione a ripetere, si apre ai soprassalti del tempo e della storia, in cui filtra il caldo soffio della vita. L’irruzione della temporalità – sospesa tra la vita e la morte, la scoperta dell’amore e la delusione sentimentale – implica un’articolazione drammaturgica più sofisticata e complessa, attenta al gioco del doppio, alla scansione dei flashback, al ritmo insinuante dei movimenti di macchina che, nelle elaborate traiettorie del teatro nel teatro, allargano lo spazio della visione fin quasi a farlo uscire dal quadro. Il rapporto con il testo di avvio è illuminante. Se il libro di Théophile Gautier s’incentra sulla storia d’amore del 168

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barone di Sigognac e di Isabella, il film rilegge il romanzo dal punto di vista dei rapporti tra Pulcinella e il barone: è Pulcinella che rievoca in un lungo flashback la storia del barone che lascia il «castello della miseria» per unirsi alla compagnia dei guitti, si innamora prima di Sofia e poi di Isabella, per la quale si scontra con il duca di Vallombrosa, una delle migliori lame del regno, restandone gravemente ferito. L’intervento in extremis di un rinomato cerusico lo strappa alla morte, consentendogli di «ripassare la sua vita». Quando guarisce è un altro uomo, pronto a lasciarsi alle spalle le ambizioni nobiliari per dedicarsi al teatro. Scriverà i testi delle nuove rappresentazioni, attingendo alle vicende feuilletonistiche del romanzo, agnizioni comprese, come alle illusorie speranze di arricchimento economico e di ascesa sociale che il suo titolo aveva lasciato intravedere ai commedianti nel corso del lungo viaggio verso Parigi8. Servo e padrone La dialettica tra servo e padrone, che si istaura sin dall’inizio tra Pulcinella e il giovane barone di Sigognac, è uno dei fili conduttori dell’intero film che, grazie alla partecipe interpretazione di Massimo Troisi, diventa un irresistibile tormentone. Pulcinella ce la mette tutta, perché Pietro, affidandogli tutti i suoi risparmi, gli assicura che, giunti a Parigi, avrebbero potuto contare sulla gratitudine di Luigi XIII. Il vecchio barone aveva salvato la vita al padre del re, ricevendone in dono la spada che è l’unica ricchezza rimasta ai Sigognac: reintegrati nel titolo e negli averi, sarebbero tornati agli antichi splendori. La bella favola contagia subito tutti i comici. Pulcinella diventa una sorta di servo-padrone per insegnare a Sigognac 169

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a comportarsi da padrone: «Se io devo essere il vostro servitore ubbidiente voi dovete essere un padrone autorevole. Perché mi date questo voi? Il tu mi dovete dare, io sono un servo. Tu, tu, tu fai questo, tu fai quello, tu aiutami a salire, ti faccio vedere come si fa. Che ci vuole? Prima cosa: sguardo fiero, spalle dritte, state su […]. Camminate tutto così su ‘sto cavallo. […] Con un servitore come me farete invidia a cani e porci. E a me che mi darete in cambio? Mangiare, dormire, bere, vestiti»9. Servitore di un padrone che non sa fare il padrone, Pulcinella non esita a ispirarsi ai servi delle farse interpretate sul palcoscenico. Quando, irritato per il comportamento del duca di Vallombrosa invaghitosi di Isabella, Sigognac lo tratta male, crede di aver raggiunto lo scopo: «Ma quanto siete bello, barone. Come mi trattate male… bene. Voi siete un vero padrone incazzoso, autoritario e fesso come tutti i padroni». Il rapporto è diventato in realtà più complesso, passando attraverso le varie fasi di un progressivo avvicinamento umano e sentimentale, in cui, nella condivisione della vita in comune, si compiace delle sue prime imprese amorose e del suo cambiamento d’umore, prima sempre cupo mentre ora è allegro, sorridente, scatenato. Se cerca di impedirgli di calcare la scena, diventando uno zompafossi, uno zingaro come tutti gli attori, alla fine gli presta la sua maschera di cuoio in un atto decisivo di affiliazione10. Quando nella sequenza d’inizio, Pulcinella, avvolto in una coperta come in uno scialle, è in trepidazione per la salute del giovane come fosse suo figlio, si direbbe che il papà è diventato mamma, una umanissima madre apprensiva e iperprotettiva, in cui si ritrova la dimensione androgina, panica, saturnina della grande maschera napoletana. Non si arrenderà mai al cambiamento totale di Sigognac che da barone diventa attore, compiendo il percorso inver170

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so da quello auspicato dal suo apprendista-servo. Neppure quando, rappresentando sul palcoscenico la farsesca “carnevalizzazione” dell’incontro con il re, Sigognac-Fracassa gli rivela che il vecchio Pietro si era rimbambito, raccoglieva scudi falsi, inventava storie strampalate assolutamente inattendibili, neppure allora Pulcinella sembra ammettere che non ci sono più né servi né padroni, rivendicando ancora una volta il suo diritto ad avere cinque di tutto: cinque pranzi al giorno, cinque camicie, cinque calzoni, cinque scarpe. Il viaggio e la memoria Il viaggio è stato un percorso di iniziazione attraverso la fame, la miseria, la malattia, in un paesaggio spoglio, autunnale, disertificato. Nell’atmosfera plumbea, malinconica, cimiteriale non c’è posto per l’utopia di Il mondo nuovo, ma a tratti si accende la vivacità creativa dell’illusione, lo scintillio pirotecnico della rappresentazione, l’esplosione dei colori, in cui l’antico gioco delle maschere ripropone il senso profondo della vita, il tempo finalmente ritrovato dei rapporti tra gli uomini. Se il viaggio della compagnia dei commedianti è metaforicamente il viaggio del cinema italiano dalle conquiste del passato recente al difficile snodo dell’inizio anni novanta, il film di Ettore Scola è anche un atto di fiducia nel cinema, nelle sue possibilità di rappresentazione di un mezzo espressivo ancora vitale, nelle sue capacità di salvaguardare la memoria di tutti e di ognuno, continuando a dialogare con il tempo e con la storia11.

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NOTE

CHE COS’È UNA BICICLETTA 1

André Bazin, Ladri di biciclette [1949], in Che cos’è il cinema?, tr. it., Milano, Garzanti, 1973, pp. 303-318: «Il film [...] si guarda dal barare con la realtà, non solo combinando la successione dei fatti in una cronologia accidentale [...], ma trattando ognuno di essi nella sua integrità fenomenica. [...] Gli avvenimenti [...] conservano tutto il loro peso, tutta la loro singolarità, tutta la loro ambiguità di fatto. [...] Ladri di biciclette non dipende più in nulla, dalla matematica elementare del dramma, l’azione non gli preesiste come un’essenza, essa sgorga dall’esistenza preliminare del racconto, è l’“integrale” della realtà. [...] È uno dei primi esempi di cinema puro. Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente nell’illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema». Sui limiti, e gli equivoci, della concezione baziniana cfr. Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Milano, Bompiani, 2007, pp. 226-240. S’intende che la lettura di Bazin di Ladri di biciclette è molto più stratificata e complessa di quanto possa apparire. L’assenza della “storia” può sembrare persino paradossale, soprattutto se si tiene presente un’intervista di Zavattini del 1962 in cui dice tra l’altro: «Se oggi esamino Ladri di biciclette, lo trovo forse non abbastanza gracile. [...] Ci sono malgrado tutto delle incrostazioni di natura spettacolare [...] un po’ convenzionale. [...] Per la mia mentalità, per le mie prospettive, per il mio gomitolo (come si doveva svolgere), lo considero un romanzo d’appendice, come considero un romanzo d’appendice Sciuscià». Cfr. Lorenzo Pellizzari, La notte che ho dato la mano a Zavattini, «Cinema e Cinema», 20, luglio-settembre 1979, pp. 63-64.

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2 Cfr. Gilles Deleuze, Cinema 1. L’immagine-movimento, tr. it., Milano, Ubulibri, 1984, pp. 240-242. Cfr. Roberto De Gaetano, Il cinema secondo Gilles Deleuze, Roma, Bulzoni, 1996. Sulla modernità cinematografica si veda Giorgio De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Parma, Pratiche, 1993. 3 Ivi, p. 241. 4 Gilles Deleuze, Cinema 2. L’immagine-tempo, tr. it., Milano, Ubulibri, 1989, p. 11. 5 Si veda Cesare Zavattini, Uomo, vieni fuori! Soggetti per il cinema editi e inediti, a cura di Orio Caldiron, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 97-105. 6 Cfr. Orio Caldiron, Cesare Zavattini, il paradosso dell’autore in Id., Il paradosso dell’autore, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 15-36. Su De Sica si veda Lino Miccichè (a cura di), De Sica. Autore, regista, attore¸Venezia, Marsilio, 1992. 7 Cfr. Vitaliano Riderelli, Val Melaina, «Avanti!», Roma, 2 luglio 1947. 8 Cfr. Cesare Zavattini, Diario cinematografico [1979], in Id., Cinema. Diario cinematografico. Neorealismo ecc., a cura di Valentina Fortichiari, Mino Argentieri, Milano, Bompiani, 2002, pp. 48-59. 9 Cfr. Vittorio De Sica, Gli anni più belli della mia vita, «Tempo», 50, 16 dicembre 1954, poi in Orio Caldiron (a cura di), Vittorio De Sica, «Bianco e Nero», 9-12, settembre-dicembre 1975, p. 280. 10 Cfr. la lettera di Zavattini a Pietro Maria Bardi del luglio 1947 in Cesare Zavattini, Lettere. Una cento mille lettere. Cinquant’anni e più…, a cura di Silvana Cirillo, Valentina Fortichiari, Milano, Bompiani, 2005, pp. 154-155. Nonostante la paternità zavattiniana del soggetto sia fuori discussione, Bartolini insisterà a lungo in una polemica sterile e infondata. Si veda la lettera del 29 giugno 1948, in cui Za cerca di ristabilire la verità, ripercorrendo l’intera vicenda. Cfr. Cesare Zavattini, Lettere cit. pp. 167-169. 11 Cesare Zavattini, Diario Cinematografico cit., pp. 70-71. 12 Ivi, pp. 74-77. 13 Ivi, pp. 77-83. Il soggetto è riportato in Cesare Zavattini, Uomo, vieni fuori! cit., pp. 97-101.

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14 Cfr. Paolo Nuzzi, Ottavio Iemma, De Sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi, Roma, Editori Riuniti, 1997, pp. 93-141. 15 La dichiarazione di Zavattini è in Giacomo Gambetti, Cesare Zavattini mago e tecnico, Roma, Ente dello Spettacolo, 1986, pp. 6061. Si veda il brano del diario privato riportato in Cesare Zavattini, io. Un’autobiografia, a cura di Paolo Nuzzi, Torino, Einaudi, 2002, p. 156: «Ho costruito questo film dallo zero, dal soggetto, lentamente ho spiegato a De Sica i modi espressivi di questa storia, ho combattuto tenacemente per tenerla al di qua di De Amicis. Ho lavorato indefessamente al montaggio. De Sica mi ha seguito in tutto, ciecamente, compreso il finale che ho voluto io contro tutti e contro lo stesso De Sica che volevano un finale confortante. Ho scelto io il bambino mentre De Sica aveva scelto un bambino bello ma privo di umanità. Ho scelto io persino le canzonette sia alla “cellula” che alla trattoria; i luoghi come Val Melaina, Monte Sacro, Porta Pia eccetera; novecentonovantanove parole della sceneggiatura sono mie». 16 Il soggetto di Tu, Maggiorani è ora in Cesare Zavattini, Uomo, vieni fuori! cit., pp. 138-146. 17 Si rimanda alla sceneggiatura desunta a cura di Laura Gaiardoni e pubblicata in Orio Caldiron, Manuel De Sica (a cura di), “Ladri di biciclette” di Vittorio De Sica. Interventi testimonianze sopralluoghi, Roma, Pantheon, 1997, pp. 65-159. Sul film – che ha avuto il Nastro d’argento 1949 per il miglior film, la regia, il soggetto, la sceneggiatura, la fotografia, il commento musicale; l’Oscar 1949 dell’Academy Award per il miglior film straniero, oltre a numerosi altri premi in varie parti del mondo – la bibliografia è sterminata. Si veda almeno Giaime Alonge, Vittorio De Sica “Ladri di biciclette”, Torino, Lindau, 1997, e Guglielmo Moneti, “Ladri di biciclette”: le visioni lungo la strada, in Id., Neorealismo fra tradizione e rivoluzione. Visconti, De Sica e Zavattini verso nuove esperienze cinematografiche della realtà, Siena, Nuova Immagine, 1999, pp. 93-150. Il saggio più recente è quello di Robert S. C. Gordon, “Bicycle Thieves”, London, British Film Institute, 2008. 18 Sulla drammaturgia neorealista cfr. Francesco Casetti, Lo spazio instabile, in Lino Miccichè (a cura di), “Sciuscià” di Vittorio De Sica. Letture documenti testimonianze, Roma-Torino, Philip Morris Progetto Cinema-Lindau, 1994, pp. 71-76.

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19 Le prime dichiarazioni risalgono al Quadernetto di note apparso in «Cinema», 90, 25 marzo 1940, e soprattutto a I sogni migliori, «Cinema», 92, 25 aprile 1940, ora in Cesare Zavattini, Cinema cit., pp. 644-651. 20 Vittorio De Sica, Volti nuovi del cinema, in Cinema italiano anno XX, Roma, Edizioni di Documento, 1942, ora in Vittorio De Sica cit., pp. 253-254.

CAMPIONI D’INCASSO 1 Cfr. Alessandro Blasetti, Dieci anni contro la dittatura del regista, «Cinema Nuovo», 140, luglio-agosto 1959, ora in Id., Il cinema che ho vissuto, a cura di Franco Prono, Bari, Dedalo, 1982, pp. 147-154. 2 Cfr. Alessandro Blasetti, Perché ho diretto proprio questo film, «Film», 31-32, 16 agosto 1950, ora in Id., Scritti di cinema, a cura di Adriano Aprà, Venezia, Marsilio, 1982, p. 301. 3 Cfr. Adriano Baracco, Fabiola: toghe, martiri e cambiali, «La Fiera del Cinema», 3, marzo 1961, pp. 60-65. 4 Salvo D’Angelo – che nei titoli di testa del film figura del resto come produttore per l’Universalia – interviene anche nel finanziamento di La terra trema di Luchino Visconti, che nel settembre del 1948 viene presentato in un clima particolarmente teso alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia. Solo un paio d’anni dopo, nel maggio 1950, il film è distribuito nelle sale, ma in un’edizione ridotta e doppiata in italiano. Cfr. Gianni Rondolino, Luchino Visconti, Torino, Utet, 1981, p. 199, che riporta la testimonianza di Francesco Rosi sulla prima veneziana: «Visconti e D’Angelo erano vestiti di lino bianco, ma le loro facce erano più bianche ancora dei loro abiti. Visconti per l’emozione di come sarebbe stata accolta la sua opera; D’Angelo, perché sicuramente pensava al Banco di Sicilia, fonte di finanziamenti dell’Universalia Produzione, e a quello che avrebbe detto e deciso in seguito a quel film. Erano i momenti in cui i governanti democristiani si scagliavano contro il cinema italiano perché, anziché lavare i panni sporchi in casa, li portava fuori, alla luce del sole e all’estero». 5 Sull’importanza di Fabiola, or the Church of the Catacombs (1854) del cardinale inglese Nicholas Patrick Wiseman – e insieme di

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The Last Days of Pompei (1835) dell’inglese Edward George BulwerLytton, di Ben Hur (1880) dell’americano Lew Wallace, di Quo vadis? (1896) del polacco Henryk Sienkiewicz – si veda Giovanni Calendoli, «Cabiria» e il film della “romanità”, in Id., Materiali per una storia del cinema italiano, Parma, Maccari, 1967, pp. 67-77. 6 Cfr. Mino Argentieri, Un lungo viaggio verso il realismo e oltre ancora, in Stefano Masi (a cura di), Alessandro Blasetti 1900-2000, Roma, Comitato Alessandro Blasetti, 2001, pp. 95-110. 7 Sull’intero periodo si veda Gian Piero Brunetta, Il cinema neorealista italiano. Da “Roma città aperta” a “I soliti ignoti”, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 30-107. Cfr. Lino Miccichè (a cura di), Il neorealismo cinematografico italiano, Venezia, Marsilio, 1999 (I ed. 1975). Non va trascurato lo scenario suggerito da Lorenzo Quaglietti, Storia economico-politica del cinema italiano, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 74-106. Cfr. Barbara Corsi, Con qualche dollaro in meno. Storia economica del cinema italiano, Roma, Editori Riuniti, 2001, pp. 38-50. 8 Le dichiarazioni del regista sono riportate da Dom [Domenico Meccoli], Blasetti e i “pregiudizi”, «Cinema», 21, 30 agosto 1949, ora in Blasetti, Scritti di cinema cit., p. 296: «Fabiola venne presentato sui nostri schermi in un momento particolarmente critico del cinema italiano. Erano i giorni della polemica contro gli esercenti, addirittura accusati, più o meno esplicitamente, di sabotaggio. Ebbene, gli esercenti si contesero Fabiola. A Roma fu proiettato in cinque sale e si dovette rifiutare l’offerta di altre tre sale. Questo era un beneficio per la produzione italiana, significava la rottura di una situazione: e difatti, dopo Fabiola, altri film italiani conobbero successi superiori a quelli di film di pari valore proiettati in antecedenza. [...] Il Centro sperimentale di cinematografia […] era stato lasciato dalla guerra in condizioni pietose. La lavorazione di Fabiola ha rimesso in efficienza il suo grande teatro […]. Inoltre, Cinecittà, dal campo di profughi che era, è tornata ad essere – per il denaro e le esigenze di Fabiola – il più vasto ed importante stabilimento d’Europa tanto da poter, subito dopo, ospitare la lavorazione di un film americano». Sulle lungimiranti novità tecnologiche del film si veda la testimonianza di Citto Maselli, Il martirio di san massimone, in Alessandro Blasetti 1900-2000 cit., pp. 314-318, che ricorda tra l’altro «il famoso dolly da due metri

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e sessanta con cui Antonioni potè girare Cronaca di un amore e che altro non era se non una copia in piccolo della gru inventata da Craveri e Blasetti per Fabiola». Cfr. ivi, p. 317. 9 Cfr. Cesare Zavattini, Prima comunione, «Cinema», 25, 30 ottobre 1949, pp. 221-224, ora in Id., Uomo, vieni fuori! Soggetti per il cinema editi e inediti, a cura di Orio Caldiron, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 113-127. 10 Il processo di Frine – uno degli episodi più celebri di Altri tempi – inaugura una nuova stagione dell’attore De Sica, presenza fissa della commedia dei prossimi anni, mentre il suo istrionico elogio della «maggiorata fisica» tiene a battesimo un’epoca del divismo nazionale. 11 Alessandro Blasetti, Zibaldone numero uno, «Teatro-Scenario», 15-16, agosto 1951, ora in Id., Scritti di cinema cit., p. 303. 12 Sulla proliferazione del film a episodi si veda Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Roma, Bulzoni, 1985 (I ed. 1975), pp. 58-59. Cfr. Marco Rossitti, Il film a episodi in Italia tra gli anni Cinquanta e Settanta, Bologna, Hybris, 2005. 13 Cfr. ivi, p. 109. 14 Cfr. Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935-1959, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 256. Sugli sceneggiatori che oltre a Zavattini svolgono un ruolo importante in tutto il periodo – da Suso Cecchi d’Amico a Ettore Maria Margadonna – si veda il panorama suggerito da Federica Villa, Botteghe di scrittura per il cinema italiano. Intorno a «Il bandito» di Alberto Lattuada, Roma, Biblioteca di Bianco & Nero, 2002, pp. 17-75. 15 Cfr. Sandro Bernardi, Castellani nostro contemporaneo, «Cinema & Cinema», 45, giugno 1986, pp. 25-28. 16 Sul ruolo della voce over nella commedia del periodo si rimanda a Federica Villa, Il narratore essenziale della commedia cinematografica italiana degli anni Cinquanta, Pisa, Ets, 1999, che comprende anche un’ampia analisi di Due soldi di speranza. Cfr. ivi, pp. 123-153. 17 Le dichiarazioni di Luigi Rovere sono riportate in L. C. [Luigi Cuciniello], Un principiante di carattere, «Film D.O.C.», 2, estate 1994, p. 7.

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18 Sui rapporti tra Germi e il team Fellini-Pinelli si veda Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 111-112, che suggerisce un’interessante interpretazione “felliniana” di La città si difende (1951), un altro dei film che Germi realizza al di fuori della Lux e del rapporto con Rovere. 19 Leonardo Sciascia, La Sicilia e il cinema [1963], in Id., La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Torino, Einaudi, 1970, pp. 247-248. 20 Cfr. Sebastiano Gesù (a cura di), Pietro Germi e la Sicilia, Acicatena, Incontri con il cinema, 1988. 21 Cfr. Mario Sesti, Tutto il cinema di Pietro Germi, Milano, Baldini&Castoldi, 1997, pp. 187-196. 22 Cfr. Adriano Aprà, Massimo Armenzoni, Patrizia Pistagnesi (a cura di), Pietro Germi. Ritratto di un regista all’antica, Parma, Pratiche, 1989, pp. 60-61. Cfr. Orio Caldiron, Pietro Germi, la frontiera e la legge, Roma, Bulzoni, 2004. 23 Cfr. Dom [Domenico Meccoli], Comencini e il film comico, «Cinema», 19, 31 luglio 1949. 24 Il film avrebbe dovuto rappresentare l’esordio nella regia di Gianni Puccini, che dopo soli quattro giorni di riprese negli studi torinesi della Fert abbandona il set. Cfr. Augusto Borselli, Autunno a Cinecittà, «Bis», 28, 21 luglio 1951, che considera la brutale sostituzione di un regista in crisi «una pagina nera della storia del cinema italiano di questo dopoguerra». Si veda anche Ernesto G. Laura, Parola d’autore. Gianni Puccini tra critica, letteratura e cinema, Roma, Ancci, 1995, pp. 254-257. 25 Cfr. Adriano Aprà, Comencini e Risi: elogio del mestiere, in Giorgio Tinazzi (a cura di), Il cinema italiano degli anni ’50, Venezia, Marsilio, 1979, p. 208. 26 Si veda la testimonianza di Luigi Comencini in Davide Bracco, Stefano Della Casa, Paolo Manera, Franco Prono (a cura di), Torino città del cinema, Milano, Il Castoro, 2001, pp. 104-105, che a proposito di Persiane chiuse cita l’espressione di Mario Soldati: «L’irrealtà che sembra vera». 27 Non va trascurato La valigia dei sogni (1953), in cui Comencini affabula lo straordinario lavoro di recupero del cinema muto promosso dalla Cineteca Italiana a partire dalla fine degli anni ’30. Sul

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film cfr. Matteo Pavesi (a cura di), La valigia dei sogni. Restauro di un ricordo, Milano, Il Castoro, 1997, che sottolinea l’interesse mediologico del film. Sul “neorealismo rosa” si veda Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico cit., pp. 101-121. Cfr. anche Lino Miccichè (a cura di), Pane, amore e fantasia. Neorealismo in commedia, Roma-Torino, Philip Morris Progetto Cinema-Lindau, 2002. 28 Sugli altri film di Zampa del periodo – da Campane a martello (1949) a Cuori senza frontiere (1950) – si veda Alberto Farassino (a cura di), Lux Film, Pesaro-Milano, Nuovo Cinema-Il Castoro, 2000, p. 37. 29 I. C. [Italo Calvino], La paura di sbagliare, «Cinema Nuovo», 43, 25 settembre 1954, pp. 171-173. 30 Cfr. Renzo Renzi, Luigi Zampa, «Cinema Nuovo», 14, 1 luglio 1953, pp. 12-13. 31 Cfr. Alberto Farassino, Le due cinecittà. Mario Soldati fra Torino e Roma, in Giorgio Barberi Squarotti, Paolo Bertetto, Marziano Guglielminetti (a cura di), Mario Soldati. La scrittura e lo sguardo, Torino, Lindau, 1991, pp. 179-180. Cfr. Luca Malavasi, Mario Soldati, Milano, Il Castoro, 2004, pp. 92-119. 32 Il carattere pretelevisivo è confermato anche dal fatto che – come avviene in I pompieri di Viggiù – il film ripropone brani di spettacoli ancora in corso durante la lavorazione. 33 Cfr. L’avventurosa storia del cinema italiano cit., pp. 356-357. 34 Cfr. f. z. [Franco Zannino], «Rassegna del film», 11, febbraio 1953, p. 43, che stigmatizza «l’irridente leggerezza» di I tre corsari, «un pasticcio grossolano» che «ci ha offesi non tanto nel gusto, quanto nel ricordo delle affascinanti storie scritte da Emilio Salgari per i nostri teneri anni». 35 Cfr. Giulio Cesare Castello, «Cinema», 104, 28 febbraio 1953, che considera La provinciale «il segno di un ritorno (speriamo non effimero) alla ricerca di uno stile e di una civiltà espressiva». Si veda anche il partecipe intervento di Attilio Bertolucci in Mario Soldati. La scrittura e lo sguardo cit., pp. 145-146. 36 Non va dimenticata l’irrequietezza del Blasetti di Altri tempi, che lavora sui formati inconsueti dello spettacolo cinematografico e sulle inesplorate risorse della letteratura breve in termini che potrebbero sembrare pretelevisivi. Anche Blasetti approda in tv all’inizio

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degli anni sessanta, realizzandovi più d’una decina di programmi, dove riaffiorano sogni, progetti, intuizioni della stagione cinematografica. Castellani vi arriva nel 1971 con La vita di Leonardo da Vinci. Comencini nel 1972 con l’inchiesta I bambini e noi e Le avventure di Pinocchio. 37

Cfr. Aldo Grasso, Storia della televisione italiana, Milano, Garzanti, 2004, pp. 24-25; 58-59. Nel 1954, pochi giorni prima di Senso di Luchino Visconti – a proposito del quale Gualino, compiaciuto di averlo prodotto, soleva dire «Questo non è un film. È un’opera d’arte» – esce nelle sale anche Ulisse di Mario Camerini che, campione d’incassi della stagione, costituisce un significativo modello per lo sviluppo dello sceneggiato televisivo degli anni successivi. Lo stesso De Laurentiis, che è all’origine dell’operazione, nel 1968 rifà il bis con Odissea di Franco Rossi, il primo grande esempio di coproduzione televisiva europea. Cfr. Tullio Kezich, Alessandra Levantesi, Dino. De Laurentiis, la vita e i film, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 100-104. 38

Si veda l’intervento di Francesco Casetti, Enrico Ghezzi, Enrico Magrelli, Appunti sulla commedia italiana degli anni cinquanta, in Il cinema italiano degli anni ’50 cit., pp. 178-200. Cfr. anche Barbara Corsi, Con qualche dollaro in meno cit., pp. 62-72.

LA LENTE SMISURATA 1

Cfr. Orio Caldiron, Il paradosso dell’autore, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 9-12. 2

Cfr. Sebastiano Gesù (a cura di), Vitaliano Brancati, Acicatena, Incontri con il cinema, 1989, un volume a più voci che ricostruisce con ampiezza di riferimenti la filmografia dello scrittore siciliano. 3

Vitaliano Brancati, Il vecchio con gli stivali [1944], in Id. Racconti, teatro, scritti giornalistici, a cura di Marco Dondero, Milano, Mondadori, 2003, pp. 213-214. Nello stesso volume cfr. Giulio Ferroni, Introduzione, pp. XI-LXXXVII. 4 Vitaliano Brancati, Il comico nei regimi totalitari. L’uomo a molla [1954], ivi, p. 1763.

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5 Cfr. Vitaliano Brancati, Rilettura dei «Racconti di Pietroburgo» [1951], ivi, pp. 1534-1538. Cfr. Gian Piero Piretto, Rus’ dove vai?, in Franco Moretti, Pier Vincenzo Mengaldo, Ernesto Franco (a cura di), Il romanzo, vol. V, Torino, Einaudi, 2003, pp. 191-205. 6 Cfr. I. C. [Italo Calvino], La paura di sbagliare, «Cinema Nuovo», 43, 25 settembre 1954, pp. 171-173. 7 Cfr. Sebastiano Gesù (a cura di), Vitaliano Brancati cit., pp. 5058; Luca Baranelli, Gli anni difficili di Italo Calvino, «Millimetri», 67, settembre 2004, che rievoca il “caso”. L’apprezzamento di Togliatti si trova nell’articolo di Saverio Tutino, «l’Unità», 20 novembre 1948. 8 Cfr. Pietro Secchia, Polemica su un film italiano, «Vie Nuove», 44, 7 novembre 1948; Emilio Sereni, Anni difficili e discorsi facili, «Vie Nuove», 45, 14 novembre 1948. Il testo di Italo Calvino, tratto dall’archivio privato dello scrittore, è riproposto nell’articolo di Luca Baranelli Gli anni difficili di Italo Calvino, cit., pp. 11-15. 9 Cfr. Alfonso Gatto, L’arte di arrangiarsi, «Vie Nuove», 26, 18 luglio 1968. 10 Cfr. Maurizio Grande, La commedia all’italiana, a cura di Orio Caldiron, Roma, Bulzoni, 2003, pp. 105-121. 11 Maurice Blanchot, L’infinito intrattenimento. Saggio sull’«insensato gioco» di scrivere [1969], tr. it., Torino, Einaudi, 1977, pp. 322-323. 12 Gesualdo Bufalino, Brancati trent’anni dopo, in Id., Cere perse, Palermo, Sellerio, 1985, p. 25. 13 Significativa la collaborazione all’altro film rosselliniano Viaggio in Italia (1954), oggi considerato una sorta di manifesto del cinema moderno, ma all’epoca difeso soltanto da Jacques Rivette, Lettre sur Rossellini, «Cahiers du Cinéma», 46, aprile 1955, pp. 14-26, ora in Giovanna Grignaffini (a cura di), La pelle e l’anima. Intorno alla Nouvelle Vague, Firenze, La Casa Usher, 1984, pp. 109-119. 14 Il primo incontro di Brancati con Totò risale a La patente di Luigi Zampa, l’episodio di Questa è la vita (1954) in cui la grottesca raffigurazione dello iettatore pirandelliano è tutta virata in nero. Cfr. Vitaliano Brancati, Pirandello didascalico? [1948], ora in Id. Racconti, teatro, scritti giornalistici cit., pp. 1720-1722.

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Leonardo Sciascia, Del dormire con un occhio solo, in Vitaliano Brancati, Opere 1932-1946, a cura di L. Sciascia, Milano, Bompiani, 1987, p. VIII. 16 Leonardo Sciascia, La Sicilia nel cinema [1963] in Id. La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Torino, Einaudi, pp. 248-249. Cfr. Orio Caldiron, Pietro Germi, la frontiera e la legge, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 17-19.

L’ILLUSIONISMO VOYERISTICO 1

Antonio Leone Viola (1913-1995) firma con il nome Leonviola per distinguersi dal commediografo Cesare Giulio Viola. Si veda la voce relativa al regista in Roberto Poppi, Dizionario del cinema italiano. I registi dal 1930 ai giorni nostri, Roma, Gremese, 2002, pp. 241-242. Cfr. Paolo Mereghetti, Antonio Leonviola, s. v, in Gian Piero Brunetta, Dizionario dei registi del cinema mondiale, vol. II, Torino, Einaudi, 2005, pp. 406-407. 2 Sull’attività sperimentale del regista e in particolare su Fiera dei tipi (1934), si veda Orio Caldiron, Cinema e politica culturale in Italia: i Cineguf, in Id., La paura del buio. Studi sulla cultura cinematografica in Italia, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 190-191. Subito dopo parte per l’Etiopia dove, come operatore di guerra, gira molto materiale che sarà poi alla base dei documentari La battaglia dell’Amba Alagi e La marcia degli eroi. 3 Il film avrebbe dovuto chiamarsi originariamente Sedotta da Dio, ma il titolo è stato bocciato dalla censura. Si vedano le recensioni d’epoca citate in Francesco Savio, Ma l’amore no. Realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema di regime (1930-1943), Milano, Sonzogno, 1975, p. 248; Roberto Chiti, Enrico Lancia, I film. Tutti i film italiani dal 1930 al 1944, Roma, Gremese, 2005, pp. 304-305. 4 Cfr. Orio Caldiron, Sopralluoghi per il giallo in Id., Il paradosso dell’autore, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 161-166. 5 Cfr. Giovanni Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Milano, Mondadori, 1991.

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6 Il produttore Enrico Bomba interviene pesantemente nel montaggio originale, suscitando la reazione polemica del regista, che disconosce il film. 7 Cfr. Paolo Mereghetti, Antonio Leonviola cit., p. 407, che insiste giustamente nel rapporto tra spettacolo popolare e autorialità, pratiche basse e cultura alta. Le scenografie di Sul ponte dei sospiri di Giorgio De Chirico sono realizzate da Virgilio Marchi. Le colonne sonore di Le due verità e di Noi cannibali sono di Bruno Maderna. 8 Il film è stato completato da Carlo Lizzani. 9 Cfr. Gianfranco Casadio, I mitici eroi. Il cinema “peplum” nel cinema italiano dall’avvento del sonoro a oggi, Ravenna, Longo, 2007. 10 Non andrebbe trascurata l’attività di scrittore. Il sottovalutato Senza sapere niente di lei (1969) di Luigi Comencini, con un’intensa Paolo Pitagora, si ispira liberamente al suo La morale privata. Cfr. Alberto Pezzotta, “Senza sapere niente di lei”, in Adriano Aprà (a cura di), Luigi Comencini. Il cinema e i film, Venezia, Marsilio, 2007, pp. 175-176. Meno interessante La virtù sdraiata (The Appointment, 1969) di Sidney Lumet, con Omar Sharif e Anouk Aimée, tratto dal suo romanzo omonimo.

IMMAGINI DI UN’IMMAGINE 1 Cfr. Alberto Farassino (a cura di), Lux Film, Pesaro-Milano, Nuovo Cinema-Il Castoro, 2000. 2 Ernesto Nicosia (a cura di), “I promessi sposi”. Un film Lux diretto da Mario Camerini, Roma, Gli archivi del ’900, 2006. 3 Cfr. Gian Piero Brunetta, Il colore dei sogni. Iconografia e memoria nel manifesto cinematografico italiano, Torino, Testo&Immagine, 2002. Si veda anche Andrea Marcotulli (a cura di), Il cinema dipinto. Cento anni di immagini dai pittori italiani di cinema, Roma, Anica, 1995, che oltre a un’ampia iconografia contiene essenziali notizie biografiche dei maggiori cartellonisti. Sulla cartellonistica degli anni trenta e quaranta si veda Immagini in movimento. Memoria e cultura, Roma, La Meridiana, 1989. Prezioso soprattutto sul piano iconografico il libro di Maurizio Baroni, Platea in piedi 1945-1958. Manifesti e dati statistici del cinema italiano, Bologna, Bolelli, 1999.

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4 Cfr. Roberto Longi, Sergio Micheli (a cura di), Ritratti di Cinema. L’arte dell’illustrazione di Carlantonio Longi, Firenze, Gli Ori, 2002. 5 Cfr. Arturo Carlo Quintavalle, Anselmo Ballester: le origine del manifesto cinematografico, Parma, Centro Studi e Archivio della Comunicazione, 1981. 6 Si veda la testimonianza di Averando Ciriello in Sergio Naitza (a cura di), Il cinema immobile. Manifesti del cinema popolare e cartellonisti dagli anni sessanta agli anni ottanta, Cagliari, L’Alambicco, 1997, pp. 71-75.

STRAPPALACRIME 1 Il dibattito è riproposto in Materiali sul cinema italiano degli anni ’50, vol. II, «Quaderni di documentazione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema», 74, Pesaro 1978, pp. 203-265. Si veda l’intervento di Lino Miccichè, Dal neorealismo al cinema del centrismo, in Giorgio Tinazzi (a cura di), Il cinema italiano degli anni ’50, Venezia, Marsilio, 1979, pp. 21-32. Sulla complessa stratificazione del cinema del periodo si veda il dossier curato da Federica Villa, Cinema e cultura popolare nell’Italia degli anni Cinquanta, «Comunicazioni Sociali», 2-3, Milano, aprile-settembre 1995. 2 Raffaello Matarazzo, 37 milioni di spettatori hanno visto i miei film, «l’Unità», 18 dicembre 1955. 3 Si veda la documentazione raccolta in Adriano Aprà, Carlo Freccero, Aldo Grasso, Sergio Grmek Germani, Mimmo Lombezzi, Patrizia Pistagnesi, Tatti Sanguineti (a cura di), Raffaello Matarazzo. Materiali, vol. I, Torino, Movie Club, 1976. Non va trascurata neppure la testimonianza di Duccio Tessari («Matarazzo, dietro la macchina da presa, piangeva a calde lacrime. Be’, era un regista che in quello che faceva ci metteva il cuore, ci credeva in pieno») in Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935-1959, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 170. La dichiarazione di Carolina Invernizio («Io prendo così viva parte alla vita dei miei personaggi, che mi commuovo, piango con loro, mi sembra di assistere realmente alle scene che descrivo e

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sono costretta talvolta a sospendere per un istante il mio lavoro, tanta è la sofferenza che ne provo e che si ripercuote nel mio cervello e nel mio cuore») si trova in Umberto Eco, Marina Federzoni, Isabella Pezzini, Maria Pia Pozzato (a cura di), Carolina Invernizio, Matilde Serao, Liala, Firenze, La Nuova Italia, 1979, p. 31. 4 Cfr. Adriano Aprà, Capolavori di massa, in Adriano Aprà, Claudio Carabba, Neorealismo d’appendice. Per un dibattito sul cinema popolare: il caso Matarazzo, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1976, pp. 9-36. Si veda anche Orio Caldiron, Stefano Della Casa (a cura di), Appassionatamente. Il mélo nel cinema italiano, Torino, Lindau, 1999. Cfr. Orio Caldiron (a cura di), Le fortune del melodramma, Roma, Bulzoni, 2004. 5 Cfr. Alberto Abruzzese, Giorgio Fabre, L’industria culturale tra cinema e televisione, in La città del cinema (produzione e lavoro nel cinema italiano 1930/1970), Roma, Napoleone, 1979, pp. 29-34. Sull’esperienza spettatoriale cfr. Mariagrazia Fanchi, Elena Mosconi (a cura di), Spettatori. Forme di consumo e pubblici del cinema in Italia 1930-1960, Roma, Biblioteca di Bianco & Nero, 2002. 6 Peter Brooks, L’immaginazione melodrammatica [1976], tr. it. Parma, Pratiche, 1985, p. 5. 7 Ivi, p. 64. L’immaginazione melodrammatica porta alla luce la «regione dell’essere dove si celano i nostri desideri elementari e i nostri tabù, un regno che nell’esistenza quotidiana può apparirci precluso, ma cui dobbiamo accedere dal momento che si tratta del regno dei significati e dei valori». Cfr. ivi, p. 20. 8 Cfr. ivi, p. 65. 9 Si veda l’ampio panorama d’insieme in Gian Piero Brunetta, Il cinema neorealista italiano. Da “Roma città aperta” a “I soliti ignoti”, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 155-186. 10 Cfr. Stefano Della Casa, Mario Mattoli, Firenze, La Nuova Italia, 1990, pp. 52-53. 11 Cfr. Callisto Cosulich, La battaglia delle cifre, «Cinema Nuovo», 98, 15 gennaio 1997, pp. 18-21. Cfr. Alberto Farassino (a cura di), Neorealismo italiano 1945-1949, Torino, Edit, 1989. 12 Severo il giudizio di Antonio Pietrangeli, «Star», 16 febbraio 1946, ora in Id., Sala di proiezioni, Cesena, Il Ponte Vecchio, 1994,

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p. 205: «È difficile poter riscontrare in un’opera sola una così generosa profusione di luoghi comuni, di lampi fumosi e indigesti, di attentati alla decenza intellettuale e alla sensibilità degli spettatori, di qualunque condizione e levatura siano». 13 La dichiarazione di intenti di Bonnard è riportata in Cinema gira, «Cinema», 2, 10 novembre 1948, p. 35. 14 Mario Gromo, Con «ismi» e senza, «Cinema», 1, 25 ottobre 1948, p. 9. 15 Cfr. Carlo A. Felice, Sette giorni, «Film», 26 luglio 1947: «La maniera cinematografica non vi aggiunge che qualche gioco di piani più o meno ravvicinati. Sicché la pellicola si può giustificare come un surrogato del melodramma, come una raccolta di dischi, se preferite, con in più la fotografia in movimento dei cantanti sul palcoscenico». 16 Sull’argomento – come sull’intero panorama del cinema popolare dell’epoca – è ancora fondamentale il libro di Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Milano, Bompiani, 1975; rist. Roma, Bulzoni, 1985. Cfr. Gianfranco Casadio, Opera e cinema. La musica lirica nel cinema italiano dall’avvento del sonoro ad oggi, Ravenna, Longo,1995. 17 Cfr. Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico cit., pp. 56-57. Sono di grande interesse le considerazioni di Antonio Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1950, pp. 115-116, sul «gusto melodrammatico» e sul ruolo della musica nella cultura popolare. Sul problema della popolarità si veda l’intervento di Giorgio Tinazzi, Sulla «popolarità» nel cinema italiano del dopoguerra, in Vito Zagarrio (a cura di), Dietro lo schermo. Ragionamenti sui modi di produzione cinematografici in Italia, Venezia, Marsilio, 1988, pp. 81-88. 18 Cfr. Adriano Aprà, Capolavori di massa cit., p. 36. Come non ricordare anche l’incipit di Senso? «Ricordiamo tutti il celebre, vigoroso e trascinante avvio di Senso, con Manrico che canta, a tu per tu con la platea, il piede spavaldamente calcato sulla conchiglia del suggeritore, “Di quella pira”». Cfr. Luigi Pestalozza, Luchino Visconti e il melodramma, «Cinema Nuovo», 137, gennaio-febbraio 1959, p. 28. 19 Non va trascurato l’ampio scenario suggerito da Fausto Colombo, La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’ottocento agli anni novanta, Milano, Bompiani, 1998, pp. 48-56. Cfr.

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Vittorio Brunori, La grande impostura. Indagine sul romanzo popolare, Venezia, Marsilio, 1978. Non è possibile prendere in considerazione i numerosi interventi d’epoca sul fotoromanzo. Si veda almeno Cesare Zavattini, Il fotoromanzo: un moderno e legittimo strumento d’espressione, a cura di Carlo Pedrocchi, «Sogno», Milano, 12 settembre 1970. Cfr. Anna Bravo, Il fotoromanzo, Bologna, Il Mulino, 2003. 20 Cfr. Umberto Eco, Tre donne intorno al cor..., in Carolina Invernizio, Matilde Serao, Liala cit., pp. 22-23. 21 Cfr. Stefano Della Casa, Riccardo Freda, Roma, Bulzoni, 1999. Si veda anche Un uomo solo, il videoritratto che Mimmo Calopresti gli ha dedicato nel 1998 all’insegna dell’incontro tra due diverse generazioni del cinema italiano. 22 Ennio Flaiano, Per dormire, «Il Mondo», 45, 24 dicembre 1949, ora in Id., Lettere d’amore al cinema, Milano, Rizzoli, 1978, p. 148. 23 Cfr. Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico cit., p. 59. Si veda Vittorio Palliotti, Storia della canzone napoletana, Milano, Ricordi, 1958. 24 Un marito per Anna Zaccheo (1953) di Giuseppe De Santis – esuberante riflessione sui rapporti tra media popolari e modelli antropologici della napoletanità – non poteva ignorare la sceneggiata che dà vita a un paio di sequenze strepitose in cui sono acutamente catturate le convenzioni dello spettacolo popolare e il coinvolgimento del pubblico che canta in coro “Cummare cummarella”. Sul melodramma italiano in rapporto ai modelli americani cfr. Massimo Marchelli, Storia del cinema. Melodramma in cento film, Recco, Le Mani, 1996. Si veda Luciano De Giusti (a cura di), Giacomo Gentilomo cineasta popolare, Torino, Kaplan, 2008, che richiama l’attenzione su un regista troppo a lungo trascurato. 25 Il film di Mario Sequi – Alberto Moravia vi appare as himself all’inizio e alla fine in un curioso avallo del cinema canzonettistico, della sua “verità” romanzesca – ha suggerito l’intervento di Ennio Flaiano, Una canzone, «Il Mondo», 4, 12 marzo 1949, ora in Id., Lettere d’amore al cinema cit., pp. 114-115, in cui si legge tra l’altro: «Se questi film non si aiutassero molto bene da sé con i loro incassi, lo Stato dovrebbe aiutarli: perché il cinema popolare è proprio questo, erede della novellistica medievale, dei cantastorie, della lanterna

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magica. Si dirige ad un pubblico preciso, che non cambierà mai e che chiede al cinema un nutrimento fantastico e di facile digestione». 26 Si veda il quaderno Cinema popolare napoletano, Napoli, Cineteca Altro, 1976. Cfr. Adriano Aprà, Napoletana. Images of a City, Milano, Fabbri, 1993. Sulle origini del cinema napoletano si veda Jean A. Gili, Mélo et sceneggiata. Le mélodrame napolitain au temps du muet, «Positif», 436, giugno 1997, pp. 92-96. 27 «Perché mai tanta religione in questi film? Anzi, perché questa permanente, alleanza tra i bassi fondi e il soprannaturale?», si chiede Flaiano. «Sembrerebbe che per il popolino l’amore profano non possa essere attraente se non contaminato di amor sacro. Fuor della Chiesa, insomma, non c’è davvero salute, per questi personaggi che passano la loro vita cinematografica fra festicciole rionali e sofferenze amorose, chiamando i santi a testimoni delle loro vicende, mischiandoli alla loro filosofia, per darle un peso, come i cattivi poeti si rifanno alla mitologia per dare un peso alle proprie immagini». Cfr. Ennio Flaiano, Lettere d’amore al cinema cit., p. 140. 28 «Si potrebbe immaginare, nello stile dei “fumetti”, che una bruna e rotonda madunnella, vinta da una passione fatale per un core ‘ngrato, finisce tristemente monaca santa, mentre quel core ‘ngrato, assalito dal rimorso, si fa core furastiero, attingendo finalmente, in terre ostili e lontane, la vera pace che viene dal pentimento; oppure che un’esile e bionda Rosalba, la fanciulla di Pompei divenga facile vittima di un crudele destino, dietro cui sta una femmena senza core e, perda, di conseguenza, il suo onore e, magari, la vita; e così via, sempre sullo stesso tono scherzoso, ma – a dire il vero – non troppo lontano dalla realtà sottintesa da quei titoli». Cfr. f. z. [Franco Zannino], «Rassegna del film», 12, marzo 1953, p. 40. 29 Vito Pandolfi, I film detti popolari, «Rivista del cinema italiano», 8, agosto 1953, pp. 74-75. 30 Cfr. Giuseppe Marotta, Affettuoso ultimatum a Fortunato Misiano, in Id., Marotta ciak, Milano, Bompiani, 1958, pp. 33-36. 31 Cfr. Fortunato Misiano, Anche i produttori hanno una testa, a cura di Braccio Agnoletti, «Cinema», 86, 15 maggio 1952, pp. 262-263. 32 La dichiarazione è riportata in Gianni Rondolino, Vittorio Cottafavi cinema e televisione, Bologna, Cappelli, 1980, p. 47. Si veda

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anche Lorenzo Ventavoli, Pochi, maledetti e subito. Giorgio Venturini alla Fert (1952-1957), Torino, Museo Nazionale del Cinema, 1992. 33 Cfr. Pietro Pintus, Un «filo» di sentimento, in Guido Barlozzetti, Stefania Parigi, Angela Prudenzi, Claver Salizzato (a cura di), Modi di produzione del cinema italiano. La Titanus, Roma, Di Giacomo, 1986, pp. 11-15, in cui si richiamano le considerazioni dell’anonimo estensore di un’autopresentazione degli anni settanta che sottolinea «la componente nazionale popolare» e «gli interessi comuni a un substrato puramente popolare» individuabili nella filmografia della Titanus. Si veda anche Mino Argentieri, La Titanus e il mercato in Dietro lo schermo cit., pp. 22-23. 34 «Noi peccatori [...] è un frutto rappresentativo dell’albero fumettistico che è stato fatto crescere nel cuore del cinema italiano. Un frutto maturo perché, a parte il soggetto, è la tecnica stessa del “fumetto” che lo distingue e lo sorregge». Cfr. s. v. [Saverio Vollaro], «Rassegna del film», 15 giugno 1953, p. 33. Sui rapporti con fumetti e fotoromanzi si veda Claudio Carabba, Brutti e cattivi, in Adriano Aprà, Claudio Carabba, Neorealismo d’appendice cit., pp. 37-57. 35 Cfr. Leonardo Quaresima, Melodramma, «Cinema & Cinema», 30, gennaio-marzo 1982, pp. 47-53 e nello stesso numero della rivista gli altri interventi sull’«avventura neorealista» di Giuseppe De Santis. Si veda Sergio Grmek Germani, Vittorio Martinelli, Il cinema di Augusto Genina, Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1989, pp. 337361. Sui personaggi femminili del mélo italiano richiama l’attenzione Christian Viviani, Madone aux deux visages. Lyrisme et double dans le mélo populaire italien, «Positif», 436, giugno 1997, pp. 86-91. 36 Si veda l’ampia ricognizione di Alberto Farassino, Tatti Sanguineti, Lux Film. Esthétique et système d’un studio italien, Locarno, Festival International du Film, 1984. Cfr. anche Alberto Farassino (a cura di), Lux Film, Pesaro-Milano, Nuovo Cinema-Il Castoro, 2000. 37 Si veda il repertorio, piacevolmente “romanzato”, di Stefano Masi, Enrico Lancia, Stelle d’Italia. Piccole e grandi dive del cinema italiano dal 1945 al 1968, Roma, Gremese, 1989. 38 Si veda l’ampio dossier dedicato a Mario Costa in occasione dell’omaggio tributatogli dal Festival del Cinema Italiano nel 1991 e pubblicato nel catalogo della rassegna romana.

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39 Arturo Lanocita, «Il Nuovo Corriere della Sera», 9 giugno 1953. Sul “caso Majano” cfr. Raffaele De Berti, Dallo schermo alla carta. Romanzi, fotoromanzi, rotocalchi cinematografici e i suoi paratesti, Milano, Vita & Pensiero, 2000, pp. 121-144. 40 Cfr. Oreste De Fornari, Teleromanza. Storia indiscreta dello sceneggiato Tv, Milano, Mondadori, 1990, p. 54. Si veda Aldo Grasso, Storia della televisione italiana, Milano, Garzanti, 2004, pp. 118-119; 274-275; 392-393.

IL PRINCIPE E LO STARNUTO 1

Cfr. Orio Caldiron, Totò [1980], Roma, Gremese, 2001, che nell’introduzione suggerisce il quadro complessivo dell’attività cinematografica del grande comico. 2 Sulla tenace resistenza dell’ultimo Totò si veda Mario Soldati, E se un giorno Totò incontrasse Fellini?, «L’Europeo», 13 settembre 1964, poi in Id., Da spettatore, Milano, Mondadori, 1973, pp. 154-157: «Appena vediamo la faccia di Totò sentiamo subito che lui ha fatto piazza pulita di tutte le balle della nostra cultura e della nostra società». 3

La testimonianza di Age è in Orio Caldiron, Totò cit., pp. 35-39.

4

Sull’esperienza teatrale si veda Claudio Meldolesi, L’indipendenza prima di tutto. Il caso Totò, in Id., Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano, Roma, Bulzoni, 1987. Sul rapporto con l’avanspettacolo e la rivista cfr. Gianni Buttafava, Quattro capitoli sulla fortuna della rivista, in Rita Cirio, Pietro Favari (a cura di), Sentimental. Almanacco Bompiani 1975, Milano, Bompiani, 1975, pp. 184-189. 5 Cfr. Orio Caldiron, Totò, il trucco e il sogno, in Id., Il paradosso dell’autore, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 101-103. 6

Cesare Zavattini, Totò, «Tempo», 53, 30 maggio 1940.

7

Cfr. Orio Caldiron, Il paradosso dell’autore cit., pp. 104-106.

8

Ennio Flaiano, Il peggiore, «Il Mondo», 11, 30 aprile 1949, ora in Id., Ombre fatte a macchina, a cura di Cristina Bragaglia, Milano, Bompiani, 1997, pp. 131-133.

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Ivi, p. 132. Fabrizio Deriu, Una rivista cinematografica, in Leonardo Quaresima (a cura di), Il cinema e le altre arti, Venezia, La BiennaleMarsilio, 1996, pp. 251-257. 11 Sulle vicende produttive del primo film italiano a colori si veda Antonio Anile, I film di Totò (1946-1967). La maschera tradita, Recco, Le Mani, 1998, pp. 153-161. Sulla storia della critica si veda Orio Caldiron (a cura di), Totò e la gaia scienza, Roma, Bulzoni, 2004. 12 Sulla forza liberatoria del personaggio si veda Roberto Escobar, Totò. Avventure di una marionetta, Bologna, Il Mulino, 1998. 13 Cfr. Alberto Moravia, Totò a colori, «L’Espresso», 20 febbraio 1972, in Id., Al cinema. Centoquarantotto film d’autore, Milano, Bompiani, 1975, pp. 12-14. 14 Si veda Steno, Sotto le stelle del ’44, a cura di Tullio Kezich, Palermo, Sellerio, 1993, lo straordinario diario ritrovato tra le sue carte. 10

SCENEGGIARE ALL’ITALIANA 1

Cfr. Anna Maria Caroli, Franca valeri racconta, in Valerio Caprara (a cura di), “Il segno di Venere”. Un film di Dino Risi. Quando il neorealismo si trasforma in commedia, Roma-Torino, Philip Morris Progetto Cinema-Lindau, 2007, pp. 27-32. 2 Cfr. Lorenzo Codelli, Entretien avec Luigi Comencini, «Positif», 156, febbraio 1974, pp. 4-8, poi in Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1935-1959, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 344. 3 Le dichiarazioni di Dino Risi sono in Materiali sul cinema italiano degli anni cinquanta, vol. II, Pesaro, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, 1978, poi in L’avventurosa storia del cinema italiano cit., pp. 353-354. Su Zavattini sceneggiatore si vedano i maliziosi ricordi di Risi, I miei mostri, Milano, Mondadori, 2004, pp. 220-221. 4 Ivi, p. 354. 5 Anna Longoni, Diana Rüesch (a cura di), Soltanto le parole. Lettere di e a Ennio Flaiano (1933-1972), Milano, Bompiani, 1995, p. 38. 6 Ivi, pp. 39-40. 7 Le due lettere sono conservate nell’Archivio Cesare Zavattini presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia.

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8 Cfr. Paola Valentini, La scena rubata. Il cinema italiano e lo spettacolo popolare (1924-1954), Milano, Vita & Pensiero, 2002, pp. 87-118.

IL TOTEM E LA LAVATRICE 1 Cfr. Stefano De Matteis, Martina Lombardi, Marilea Somaré (a cura di), Follie del varietà. Vicende memorie personaggi 1890-1970, Milano, Feltrinelli, 1980. Nelle pagine dedicate alla crisi e al tramonto dell’avanspettacolo da Angelo Olivieri, Le stelle del varietà. Rivista, avanspettacolo e cabaret dal 1936 al 1966, Roma, Gremese, 1989, pp. 177-196, si ritrovano, oltre a Franchi e Ingrassia, anche molti dei comici minori che parteciperanno abitualmente ai loro film. 2 Anche prima della morte di Totò – avvenuta il 15 aprile 1967 – si erano diradate le apparizioni cinematografiche dei mattatori del film comico. L’omaggio di Mario Soldati – che nel ’64 riscopre la bravura di Totò: «È bravissimo: è sempre […] il più bravo, il più bravo di tutti. Il solo che possieda una comicità fisiologica, estrema, veramente poetica. […] Smaschera le ipocrisie e denuncia spietatamente le vanità della società che gli è contemporanea» – suggella un’epoca. L’intervento E se un giorno Totò incontrasse Fellini?, «L’Europeo», 13 settembre 1964, poi in Id., Da spettatore, Milano, Mondadori, 1973, pp. 154-157, è anche un ideale identikit della parodia all’italiana. 3 Si veda il quadro di riferimento essenziale suggerito da Lino Micciché, Linee e tendenze del cinema italiano, in «Film 81», Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 5-84. Sulla logica di genere, in cui si inserisce la serie interpretata dal duo siciliano, dalla clamorosa affermazione alla perdita del predominio, soprattutto pp. 19-21 e pp. 60-61. Si veda anche Saverio Esposito [Goffredo Fofi], Ciccio e Franco per chi e perché, «Ombre Rosse», 5, primavera 1972, pp. 99-102, in parte ripreso in Follie del varietà cit., pp. 373-376. 4 Franco Calderoni, Due mafiosi contro Goldginger, «Il Giorno», 13 ottobre 1965. Si veda anche l’intervento di [Alessandro] Ferraù, Il successo di Franchi e Ingrassia nella comicità “prima maniera”, «Giornale dello spettacolo», 20 luglio 1968, che ricorda il «generale sfaldamento nei quadri degli attori comici» come aspetto trainante del successo abnorme dei due siciliani.

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5 Alberto Cerretto, La risata con due facce, «Corriere d’Informazione», 26 giugno 1965: «Il fenomeno declina. Fatalmente, i loro film cominciano a stancare per sazietà. […] Il momento esplosivo del “lungo” e del “buffo” è passato». 6 Si veda Alberto Castellano, Vincenzo Nucci, Vita e spettacolo di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Napoli, Liguori, 1982, che ricostruiscono con ampiezza di riferimenti la singolare “autobiografia” della coppia. Franco Franchi, il cui vero nome è Francesco Benenato, è nato a Palermo nel 1928 e morto a Roma nel 1992. Ciccio [Francesco] Ingrassia è nato a Carini (Palermo) nel 1923 e morto a Roma nel 2003. Del gruppo di film che Ingrassia interpreta da solo, i più significativi sono Amarcord (1973) di Federico Fellini e Todo modo (1976) di Elio Petri, per il quale vince il Nastro d’argento come miglior attore non protagonista. Negli anni settanta sono il Gatto e la Volpe in Le avventure di Pinocchio (1972) di Luigi Comencini. Negli anni ottanta appaiono insieme nell’episodio La giara di Kaos (1984), il film pirandelliano di Paolo e Vittorio Taviani. 7 Cfr. ivi, pp. 41-49. 8 Cfr. ivi, pp. 51-57. 9 Cfr. ivi, pp. 60-64. 10 Si veda Stefano Della Casa, Mario Mattoli, Firenze, La Nuova Italia, 1989, pp. 105-111, che rievoca i primi incontri dell’avvocato Mattoli con i due comici siciliani, subito utilizzati nelle parodie dei generi poveri, la fascia più bassa dello spettacolo. 11 Angelo Greco, Noi divertiamo tutti, Sordi e Tognazzi no, «La Settimana Incom Illustrata», 14 novembre 1965. Le approssimazioni alienanti di un modo di produzione inadeguato non sfuggono allo stesso Franchi: «I nostri film non poggiavano su una sceneggiatura rigida ma su di un semplice canovaccio, su un soggetto ridotto ai minimi termini, e tutto quello che c’era da costruire era affidato alla nostra capacità di improvvisazione e di invenzione. […] Produttori e registi avevano intuito che era sufficiente metterci davanti ad una parete con una cinepresa in funzione e quanto più si produceva meglio era per loro. […] Addirittura una volta durante una pausa di lavoro mentre io e Ciccio parlavamo dei fatti nostri, sentiamo alle nostre spalle il regista pronunciare: “Buona”, avevano filmato la

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scena. Alle nostre rimostranze ci dissero che in sede di doppiaggio avremmo aggiustato tutto». Cfr. Vita e spettacolo di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia cit., p. 67. 12 Sugli sceneggiatori si veda la testimonianza di Ingrassia: «Era impensabile lavorare con autori del calibro di Age e Scarpelli impegnati con i tradizionali “mostri” della commedia all’italiana. Tra una miriade di sceneggiatori specializzati in vari generi di quel cinema cosiddetto di serie B, raggiungemmo una totale sintonia con quelli citati [Roberto Gianviti e Amedeo Sollazzo]. Anche quando il loro tipo di comicità non corrispondeva alla nostra, come nel caso di Castellano e Pipolo, non ci creavamo grossi problemi: integravamo le battute con quelle a noi più consone. […] Le situazioni previste ci venivano comunicate sul set con bigliettini scritti a penna. […] La sceneggiatura si riduceva ad indicazioni del tipo: “entrano in una stanza dove c’è un fantasma e qui accadono una serie di gag”». Cfr. Vita e spettacolo di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia cit., p. 76. 13 Si veda la lucida testimonianza di Ingrassia sui modi di produzione “selvaggi” a cui talvolta si arrivava: «Le difficoltà maggiori nascevano perché molti produttori per ridurre i costi facevano a meno del fonico e il risultato erano film muti. Si lavorava quindi senza una colonna sonora di riferimento che nella sala di doppiaggio è necessaria in quanto consente di rilevare eventuali imperfezioni e a ciò si può ovviare solo avendo sotto mano il copione completo di tutte le battute. A noi che lavoravamo in condizioni selvagge era negato anche questo. […] L’unico rimedio quindi per desumere dialoghi dimenticati era un’attenta osservazione dei movimenti labiali, con il risultato di allungare enormemente i tempi e i costi del lavoro, che superavano di gran lunga quello che si risparmiava rinunciando alla colonna sonora». Cfr. ivi, p. 77. 14 Sui meccanismi di coppia dei “silent clown” – e di quelli parlanti che si sono a loro ispirati – resta fondamentale il saggio di Petr Král, Les Burlesques ou Parade des sonnambules, Paris, Stock, 1986, soprattutto pp. 22-31; 304-340. 15 Si rimanda all’accezione bachtiniana della cultura comicopopolare, in cui ritorna a più riprese il mito del carnevale come «mondo alla rovescia» che celebra «l’avvicendamento, il processo di sostituibilità. Esso non assolutizza nulla, anzi proclama la gaia relati-

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vità del tutto». Non meno importante il movimento verso il basso come principio artistico fondamentale del realismo grottesco. Cfr. Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 1995, pp. 406-407. 16 Si veda il saggio di Jurij Tynjanov, Dostoevskij e Gogol’ (Per una teoria della parodia), in Id., Avanguardia e tradizione, Bari, Dedalo, 1968, p. 152, ricchissimo di spunti metodologici (soprattutto sulla meccanizzazione dei procedimenti espressivi mediante i quali si realizza la parodia) che non è possibile qui ricordare: «La parodia esiste in quanto attraverso l’opera traspare un secondo piano, quello parodiato; più questo secondo piano è ristretto, definito, limitato, più tutti i dettagli dell’opera hanno una doppia sfumatura e possono essere interpretati da una doppia visuale, tanto più forte è allora la parodicità». Cfr. Roy Menarini, La parodia nel cinema italiano, Bologna, Hybris, 2003. S’intende che altra cosa è il remake su cui cfr. Lorenzo Pellizzari, La macchina del remake e il gioco della parodia, «Cinema & Cinema», 39, aprile-giugno 1984. Cfr. anche l’excursus di Pietro Piemontese, Remake. Il cinema e la via dell’Eterno Ritorno, Roma, Castelvecchi, 2000. 17 Spetta a Robert Musil, L’uomo senza qualità, vol.I, Torino, Einaudi, 1974, pp. 54-55, aver richiamato con grande acutezza la complessità della nozione di “stupidità”: «Non esiste una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi, essa è pronta e versatile e può indossare tutti i vestiti della verità». Cfr. Robert Musil, Discorso sulla stupidità, Napoli, Shakespeare & Company, 1989. 18 Cfr. Raffaele De Berti, Lo specchio che svela. Linee per un’analisi della parodia nel cinema italiano, «Comunicazioni sociali», 1, gennaio-marzo 1996, pp. 30-42. 19 Sul rapporto con il pubblico si veda Gianfranco Corbucci, I “latrins lovers” delle platee sottoproletarie, «Cinema Nuovo», 186, marzo-aprile 1967, pp. 114-118. Cfr. anche Nicolò Costa, Il divismo e il comico, Torino, Eri, 1982, p. 95-99. 20 Non è certo possibile riferirsi a tutti i film saccheggiati dal duo siciliano. Si rimanda, per il panorama italiano degli anni sessanta e dintorni a Lino Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre, Venezia, Marsilio, 1995. La prima edizione risale al 1975.

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21 Sui singoli film è stato tenuto presente Roberto Poppi, Mario Pecorari, Dizionario del cinema italiano. I film dal 1960 al 1969, Roma, Gremese, 1992. Sulle date dei film – e in particolare sulle prime proiezioni pubbliche a cui si fa riferimento nel testo – ci si è naturalmente serviti di Aldo Bernardini (a cura di), Il cinema sonoro 1930-1969, Roma, Anica, 1992, che fa parte dell’Archivio del Cinema Italiano. Cfr. Marco Giusti, Dizionario del film italiano stracult, Milano, Sperling & Kupfer, 1999. 22 Sul giallo italiano si rimanda a Orio Caldiron, Sopralluoghi per il giallo, in Id., Il paradosso dell’autore, Roma, Bulzoni, 1999, soprattutto pp. 181-184. 23 Masolino d’Amico, La commedia all’italiana. Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975, Milano, Mondadori, 1985, p. 197. Si vedano le acute considerazioni sulle parodie del duo, pp. 136-143. 24 Cfr. Orio Caldiron (a cura di), Sergio Corbucci, Rimini, Ramperti, 1993. 25 Cfr. Riccardo Esposito, Piccola storia della parodia nel cinema italiano, «Amarcord», 3, giugno-luglio 1996, pp. 34-41. Su Steno si veda Bruno Ventavoli, Al diavolo la celebrità. Steno dal “Marc’Aurelio” alla televisione. 50 anni di cinema e spettacolo in Italia, Torino, Lindau, 1999, che non trascura il «mostruoso ciclone» rappresentato da Franchi e Ingrassia. Cfr. Massimo Giraldi, I film di Steno, Roma, Gremese, 2007. 26 Cfr. Enrico Giacovelli, Non ci resta che ridere. Una storia del cinema comico italiano, Torino, Lindau, pp. 104-108. Si veda dello stesso autore Il buffo, il brutto, il cretino, Roma, Gremese, 1996, che riporta numerose battute e minisketch dei due comici siciliani. Cfr. anche Roberto Chiesi, Antonella Gasparato (a cura di), Noio vulevam savuar…Da Petrolini a Troisi, da Verdone a De Sica, le scene cult del nostro cinema umoristico, Roma, Gremese, 2007. 27 Cfr. Lino Micciché, Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre cit., pp. 141-145. Si veda anche Luca Beatrice, Al cuore Ramon, al cuore. La leggenda del Western all’italiana, Firenze, Tarab, 1996. 28 Cfr. Alfonso Gatto, Il western cerca una sua morale, «Vie Nuove», 28 dicembre 1968. 29 Oreste del Buono, Il comune spettatore, Milano, Garzanti, 1979, pp. 92-93.

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Cfr. Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Roma, Bulzoni, 1985 [ma la prima edizione risale al 1975], p. 312: «La mafia, “l’onorata società” ha spesso la parte di protagonista nelle pellicole di Franchi e Ingrassia, ma ridotta a materiale di cordiale, inoffensiva burletta. Il quadro va però allargato. I due comici interpretano una più generale reazione contro l’impegno intellettuale e morale del nuovo cinema, sia drammatico sia satirico; segnano un ritorno all’innocenza della risata priva di sottintesi amari o anche solo di nervosismo epidermico». Cfr. anche Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da “La dolce vita” a “Centochiodi”, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 420. 31 L’enorme popolarità che Franchi e Ingrassia ebbero all’epoca deve molto alla loro partecipazione nel 1967 a Partitissima, il varietà televisivo del sabato abbinato alla lotteria di capodanno che cambia il suo titolo abituale (Canzonissima), perché l’edizione di Castellano e Pipolo è ispirata alla partita di calcio, con Alberto Lupo presentatore-arbitro, mentre Franco e Ciccio sono i due comici guardalinee. I tempi serrati dello sketch in cui è circoscritta la sua presenza, assicura alla coppia una misura da “comic strip” alla «Corriere dei Piccoli», accentuata dal finalino in rima: «Come sempre in un bisticcio / ritroviamo Franco e Ciccio / che alla fine di ogni match / fanno pace con lo sketch». Quando Ciccio ingiunge perentoriamente: «Soprassediamo!», Franco gli si butta letteralmente tra le braccia con un balzo disumano. Cfr. Aldo Grasso, Storia della televisione italiana, Milano, Garzanti, 2004, p. 181. 32

Nel 1967-1968 la presenza dei due comici siciliani sul piccolo schermo è ribadita dai caroselli di Evaristo e Casimiro, quindici brevi episodi realizzati da Guido De Maria (Vinder Film) per la Cera Grey. Nella serie del 1968, Evaristo utilizza la macchina del tempo per far viaggiare Casimiro, che diventa di volta in volta Napoleone, Tarzan, il Corsaro Nero. È ancora lo stesso Guido De Maria che nel 1969 continua a utilizzare Franchi e Ingrassia come testimonial della Cera Grey nella serie Ciccio Volpes e il Dott. Frankston, il celebre detective privato e il suo scimunito aiutante. Cfr. Marco Giusti, Il grande libro di Carosello. E adesso tutti a nanna…, Milano, Sperling & Kupfer, 1995, p. 141; p. 225; p. 557.

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33 Si vedano al riguardo le felici considerazioni di Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo cit., pp. 420-421: «Pasolini punta la sua attenzione […] sulla presenza attiva del pubblico, sulla sua indispensabilità per la perfetta realizzazione dell’opera. […] La comicità della coppia, il loro successo e la loro vitalità per tutti gli anni sessanta dipendono in effetti dall’esistenza di un pubblico popolare ancora consistente. La fine del sodalizio, più che da ragioni personali, è dovuta invece all’estinzione inesorabile e epidemica delle ultime grandi fasce di pubblici popolari». 34 Si rimanda al capitolo dedicato a Che cosa sono le nuvole? in Pier Paolo Pasolini, Le regole di un’illusione. I film, il cinema, a cura di Laura Betti, Michele Gulinucci, Roma, Fondo Pier Paolo Pasolini, 1991, in cui non va trascurata la testimonianza di Franco Franchi, pp. 151-152: «Quando io ho fatto Che cosa sono le nuvole? mi sembrò che Pasolini fosse un gran cervello, una persona dolcissima però molto addolorata, strana dentro. […] Amava la comicità, quella tradizionale però, quella dei famosi guitti, quella dei “vastasi”, insomma la comicità senza copione, perché appunto nelle “vastasate” il copione non esisteva, è nato quattro secoli dopo. Era una comicità fatta dai poveracci, ma sanguigna, acuta». 35 Cfr. Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, RomaBari, Laterza, 1991, p. 589: «Grazie alle loro [di Franchi e Ingrassia] decine e decine di apparizioni in parodie di film di successo, un repertorio secolare di spettacoli di piazza vive le sue ultime stagioni all’insegna dell’improvvisazione, dei giochi linguistici, dei doppi sensi, degli scambi di persona. […]Hanno avuto il merito di far rivivere sullo schermo lo spirito dei pupi siciliani, rivestendoli di abiti di mafiosi o di funzionari ministeriali, di rappresentanti di commercio e di pistoleri». 36 Sui rapporti con la critica si veda Vita e spettacolo di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia cit., pp. 136-152, da cui si è distillato l’essenziale florilegio citato nel testo. 37 Alberto Moravia, Lo spettatore è servito, «L’Espresso», 13 giugno 1965. 38 Sulla comicità meridionale cfr. Nico Cirasola (a cura di), Da Angelo Musco a Massimo Troisi. Il cinema comico meridionale, Bari, Dedalo, 1982.

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39 Come inguaiammo il cinema italiano (2004) è il partecipe omaggio di Ciprì e Maresco alla straordinaria mimica dei due comici siciliani e alle loro schiette ascendenze popolari. Si veda anche Marco Giusti (a cura di), Continuavano a chiamarli Franco e Ciccio, Milano, Mondadori, 2004; Marco Bertolini, Ettore Ridola, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Roma, Gremese, 2004.

SOGNI IMPOSSIBILI 1 Si vedano le dichiarazioni di Age e Bini in Franca Faldini, Goffredo Fofi (a cura di), L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti 1960-1969, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 126-127. 2 Yojimbo (1961) è anche all’origine, come si sa, di Per un pugno di dollari, di Bob Robertson-Sergio Leone che nel 1964 inaugura la stagione dello spaghetti-western. Sul film del maestro giapponese si veda Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Firenze, La Nuova Italia, 1991, pp. 94-98. 3 Le dichiarazioni di Age si trovano in L’avventurosa storia del cinema italiano cit., pp. 377-378. 4 Ivi, p. 377. 5 Cfr. Ruggero Maccari, Antonio Pietrangeli, Ettore Scola, La Picaresca, Mantova, Casa del Mantegna, 1984. 6 Ettore Scola, Nota sul romanzo picaresco in La Picaresca cit., p. 13. 7 Cfr. Ivi, p. 14. 8 Cfr. la sceneggiatura di I soliti ignoti di Age e Scarpelli, Suso Cecchi d’Amico, Mario Monicelli, pubblicata a Mantova, Casa del Mantegna, 1986. Il primo titolo del film era appunto Le madame. Sul picaresco nell’attività di quegli anni di Age e Scarpelli si vedano le acute considerazioni di Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da “La dolce vita” a “Centochiodi”, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 69: «La struttura del racconto picaresco, che è loro più congeniale, consente di muoversi con più libertà anche lungo scenari storici più dilatati e lavorare sui personaggi definendoli con ritratti a tutto tondo».

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9 Cfr. Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Roma, Bulzoni, 1985: «Ma rifacendo estrosamente il verso a un genere cinematografico che fino ad allora non aveva alcun riscontro nella nostra produzione, Monicelli viene a scoprire un’intera, antica, attualissima zona della realtà nazionale. La vicenda eroicomica allarga il suo ambito, arricchisce le sue risonanze sino ad assumere come vero protagonista il paese: la nostra Italia, l’Italia del tirare a campare, il regno dell’approssimativo e del non scientifico, la patria delle false dignità professionali, dove è quasi un punto d’onore dedicarsi a un mestiere cui non si è portati, sicché infine anche i lestofanti si rassegnano al modesto tran tran degli espedienti quotidiani, consolando di sogni megalomani il gramo bilancio di un’esistenza fallimentare». Non sarebbe stravagante scoprire al fondo del picarismo di Monicelli la tenace persistenza della matrice neorealista, almeno come la descrive Gilles Deleuze, Cinema I. L’immagine-movimento, tr. it. Milano, Ubulibri, 1984, p. 241. Id. Cinema 2. L’immagine-tempo, tr. it., Milano, Ubulibri, 1989, pp. 11-14. 10 Cfr. Michail Bachtin, Estetica e romanzo, tr. it., Torino, Einaudi, 1979, pp. 305-313. 11 Cfr. Alberto Cattini, L’analisi de “I soliti ignoti” e la commedia all’italiana, in I soliti ignoti cit., pp. 9-13. 12

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Cfr. Giacomo Gambetti, Vittorio Gassman, Roma, Gremese,

13 Cfr. Stefano Della Casa (a cura di), “L’armata Brancaleone”. Un film di Mario Monicelli. Quando la commedia riscrive la storia, RomaTorino, Philip Morris Progetto Cinema-Lindau, 2005. 14 Cfr. Jacques Le Goff, I riti, il tempo, il riso. Cinque saggi di storia medievale, Roma-Bari, Laterza, 2001. 15 Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, tr. it., Torino, Einaudi, 1995, pp. 406-407. 16 Mario Monicelli, L’arte della commedia, a cura di Lorenzo Codelli, Bari, Dedalo, 1986, p. 80. 17 Cfr. Michail Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, tr. it., Torino, Einaudi, 1988, pp. 194-196: «Il tipo del roman-

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zo di peregrinazioni è caratterizzato da una concezione spaziale e statica della varietà del mondo. Il mondo si presenta come una contiguità spaziale di differenze e di contrasti, e la vita come un alternarsi di varie situazioni contrastanti: successo e insuccesso, felicità e infelicità, vittoria e sconfitta, etc. […] Nei romanzi di questo tipo è elaborato soltanto il tempo d’avventura». 18 Sergio Raffaelli, La lingua filmata. Didascalie e dialoghi nel cinema italiano, Firenze, Le Lettere, 1992, p. 136. 19 Cfr. Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo cit., pp. 90-91, che dedica all’argomento alcune pagine di grande interesse. 20 Le dichiarazioni di Vittorio Gassman si trovano in L’avventurosa storia del cinema italiano cit., p. 378. Sulla base del ruolo dell’impianto teatrale, particolarmente rilevante in entrambi i film, non andrebbe trascurato il confronto con Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1956) di Ingmar Bergman. Se ne L’armata Brancaleone è ripresa ironicamente soltanto la danza sul filo dell’orizzonte, in Brancaleone alle crociate i riferimenti sono più numerosi – dai dialoghi con la morte all’episodio della strega – anche se rimangono volutamente estranei all’ispirazione del maestro svedese. 21 Cfr. Age, Scarpelli, Monicelli, Brancaleone alle crociate, Mantova, Casa del Mantegna, 1989, p. 124. 22 Cfr. Mario Monicelli, L’arte della commedia, cit., p. 89-90. 23 Le dichiarazioni di Mario Monicelli sono apparse nel press-book del film. Il regista ricorda anche altri titoli su cui non è possibile soffermarci: «Potrei ugualmente trovare lati picareschi ne La grande guerra e Amici miei, prima e seconda parte, che ho ereditato da Germi, ma c’è un altro mio film che si avvicina molto ad essi: Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, nel quale – tra la povertà dei contadini dell’anno mille, da una parte e l’ambiente della corte regale dall’altra – si riflette il tono favolistico, semplice, e elementare che è tipico dei racconti del genere». 24 Cfr. Sergio Reggiani, I picari, «La Stampa», 19 dicembre 1987. 25 L’espressione fa parte della canzone “Noi siam picari” che accompagna i titoli di testa del film. 26 Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, tr. it, Milano, Rizzoli, 1970, p. 64. Le splendide pagine che

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nella prima parte del libro il filosofo francese dedica a Don Chisciotte non possono essere sfuggite a Paul Auster che ne ha tenuto conto nel romanzo a cui ci si riferisce. 27 Cfr. le dichiarazioni di Gassman in L’avventurosa storia del cinema italiano cit., p. 378, per il quale in L’armata Brancaleone «viene fuori la parte di Monicelli che aspira al teatro. Monicelli è un patito del teatro». 28 Paul Auster, Città di vetro, in Id., Trilogia di New York, tr. it., Torino, Einaudi, 1996, p. 105. IL TEMPO E LA STORIA 1 Cfr. Gian Piero Brunetta, Il viaggio dell’icononauta dalla camera oscura di Leonardo alla luce dei Lumière, Venezia, Marsilio, 1997. «Nel momento in cui posa l’occhio contro la lente che gli ingrandisce l’immagine lo spettatore avverte anche una dilatazione dei propri poteri di percezione del mondo. Si sente investito da un desiderio d’avventura e da una mobilità mentale che non hanno certo mai avuto modo di manifestarsi nella vita quotidiana. Tutte le coordinate di riferimento del proprio spazio vitale, la percezione della limitatezza dei poteri dei propri sensi, vengono meno e lasciano posto a un senso di onnipotenza e onnipresenza visiva. […] L’impero dei segni è già alla portata di mano del bambino che posa lo sguardo nella cassela dell’incisione di Gaetano Zompini (“In sta cassela mostro il Mondo Nuovo, con dentro lontananze e prospettive”). Già a lui vengono concessi poteri illimitati di circolazione nello spazio e nel tempo senza peraltro sovraccaricarlo di fardelli metafisici, senza spaventarlo o assoggettarlo al potere di chi officia il rito della visione». Cfr. ivi, pp. 277-278. 2 Cfr. Sergio Amidei, Ettore Scola, Il mondo nuovo, Mantova, Casa del Mantegna, 1989, che ripropone la sceneggiatura del film, l’ultima scritta da Amidei, in cui si avvertono talora echi rosselliniani. 3 Giovanni Macchia, Le notti rivoluzionarie, in Id., Le rovine di Parigi, Milano, Mondadori, 1995, p. 181. Ma tutto il ritratto di Restif de la Bretonne è esemplare. Cfr. ivi, pp. 174-182.

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4 Sulla straordinaria performance di Marcello Mastroianni si vedano le considerazioni di Matilde Hochkofler, Marcello Mastroianni. Il gioco del cinema, Roma, Gremese, 2001, pp. 143-144. Ma non si può dimenticare neppure il contributo di grande risalto di Jean-Louis Barrault, l’indimenticabile Baptiste di Les Enfants du paradis. Cfr. Noëlle Girette (sous la direction de), Renaud Barrault, Paris, Bibliothèque nazionale de France, 1999. 5 Il personaggio di Restif de la Bretonne regge le fila del racconto, sospeso in qualche modo tra la lungimirante profezia della rivoluzione («State in guardia, magistrati, si prepara una rivoluzione, una rivoluzione terribile verrà perché la nobiltà non ha capito il popolo, perché non ha saputo tenersi in contatto con lui. Osservate come l’animo di tutti è inquieto. Sapete cosa significa questo? Che questo popolo scrollerà fra breve gli ostacoli della sociabilità. Ascoltate la voce di un plebeo che vede tutto, che vive col popolo e ne conosce i segreti pensieri») e l’annuncio di una travagliata contemporaneità, con cui si chiude l’edizione francese del film: «Talvolta mi piace, mi consola andarmene a passeggiare nel futuro: mi domando, ma gli uomini nel 1992, quando leggeranno la nostra storia, che cosa diranno? La severità del loro giudizio mi turba profondamente. Alcuni, sono certo, ci rimprovereranno di aver mancato di umanità. Gli estremisti, allora, ci approveranno. Io immagino che fra due secoli l’Europa avrà un solo governo: un governo nuovo. Ma mi sembra di leggere sulle pagine della storia quali orribili scosse avrà dovuto subire per arrivare a una perfetta armonia». Sulla sequenza, tagliata nell’edizione italiana, cfr. Orio Caldiron, Scola l’europeo, in Giulio Marlia (a cura di), Ettore Scola. Il volto amaro della Commedia all’italiana, Viareggio, Baroni, pp. 15-21. 6 Luigi Da Ponte, Il Don Giovanni, in Giovanna Gronda, Paola Fabbri (a cura di), Libretti d’opera italiani dal Seicento al Novecento, Milano, Mondadori, 1997, pp. 789-790. Cfr. Giovanna Gronda, Da Ponte e l’aria del catalogo, in Id., Le passioni della ragione, Pisa, Pacini, 1984, pp. 157-197. 7 Si veda l’ampia analisi del film suggerita da Gualtiero De Santi in «Cineforum», 233, aprile 1984, pp. 41-46. «Il ballo è un modo per ingannare l’isolamento, è l’uso del corpo che si manifesta con manovre furtive, ginocchi insinuanti, sfioramento dei lobi, dei capelli, delle

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mani; è la comunicazione tra un uomo e una donna che arriva alla frontiera della parola, in certi casi oltre. Nella festa popolare esso diviene il desiderio liberato dalle ipoteche del potere – e che per un breve tratto, nel tempo esiguo e fantastico dell’esecuzione, vi si sottrae. Il rifiuto della parola, come concentrato dei luoghi comuni della borghesia, ha un’innegabile valenza ideologica». Cfr. ivi, p. 46. 8 Cfr. Paolo Tortonese, Introduzione a Théophile Gautier, Il capitan Fracassa [1863], Milano, Rizzoli, pp. 5-27, 2000, che sottolinea il tema dell’«illusorietà del reale» in un romanzo più moderno e complesso di quanto solitamente si creda. 9 Cfr. Matilde Hochkofler, Massimo Troisi. Comico per amore, Venezia, Marsilio, 1998, pp. 194-204. 10 Cfr. Ettore Scola, Qualche nota di viaggio, in Furio Scarpelli, Ettore Scola, Il viaggio di Capitan Fracassa, Mantova, Casa del Mantegna, 1992, pp. 7-10. Si veda anche la postfazione di Alberto Cattini, Il tempo del sogno, pp. 134-141. 11 Cfr. Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da “La dolce vita” a “Centochiodi”, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 380381.

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INDICE DEI NOMI

Abruzzese, Alberto, 186 n. Acerbo, Manfredo, 74, 77. Age [Agenore Incrocci], 99, 120, 145-146, 148, 200 n., 202 n. Agnoletti, Braccio, 189 n. Alcott, Louisa May, 96. Aléman, Mateo, 146. Alessandri, Luisa, 20. Alessandrini, Goffredo, 83. Alianello, Carlo, 96. Almirante, Ernesto, 111. Alonge, Giaime, 175 n. Amati, Edmondo, 130. Amendola, Mario, 130. Amidei, Sergio, 17, 203 n. Amoroso, Roberto, 88. Andreotti, Giulio, 57. Andronico, Enzo, 128, 135, 138. Angiolini, Renato, 131. Angoletta, Bruno, 76. Anile, Antonio, 192 n. Anouk, Aimée [Françoise Sorya Dreyfus], 184 n. Anton, Edoardo, 119, 123. Antonioni, Michelangelo, 178 n. Appelius, Gianni, 112.

Aprà, Adriano, 176 n., 179 n., 184 n., 185 n., 186 n., 187 n., 189 n., 190 n. Arena, Maurizio, 118. Argentieri, Mino, 174 n, 177 n. Ariosto, Ludovico, 146. Armenzoni, Massimo, 179 n. Armstrong, Louis, 50. Austen, Jane, 96. Auster, Paul, 159, 203 n. Bacchelli, Riccardo, 76. Bachtin, Michail, 196 n., 201 n. Ballester, Anselmo, 75. Bandini, Baccio, 71. Banfi, Lino, 138. Baracco, Adriano, 176 n. Baranelli, Luca, 182 n. Barberi Squarotti, Giorgio, 180 n. Bardi, Pietro Maria, 174 n. Barlozzetti, Guido, 190 n. Baroni, Maurizio, 184 n. Barzizza, Isa, 110. Bartolini, Luigi, 14, 16, 174 n. Bava, Mario, 50, 130. Bazin, André, 13, 173 n. Beatrice, Luca, 197 n.

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Belmondo, Jean-Paul, 147. Benti, Galeazzo, 112, 113. Bergman, Ingmar, 202 n. Bergman, Ingrid, 77, 95 Bergson, Henri, 56. Bernardi, Sandro, 178 n. Bernardini, Aldo, 197 n. Bertetto, Paolo, 173 n, 180 n. Bertolini, Marco, 200 n. Bertolucci, Attilio, 180 n. Bertolucci, Bernardo, 132, 133. Berton, Pierre-Francisque, 73. Bertucci, Ughetto, 101. Betti, Laura, 141, 199 n. Bianchi Montero, Roberto, 88. Bianchi, Giorgio, 82, 130, 132. Bini, Alfredo, 145. Blanchot, Maurice, 59, 182 n. Blasetti, Alessandro, 41-45, 176 n., 177 n., 178 n., 180 n. Blasi, Silverio, 96. Boccaccio, Giovanni, 146. Boccasile, Gino, 77. Bogart, Humphrey, 149. Boito, Camillo, 44. Bolchi, Sandro, 96. Bolognini, Mauro, 60. Bomba, Enrico, 184 n. Bonnard, Mario, 83, 187 n. Bonucci, Alberto, 113. Borghesio, Carlo, 75-76. Borselli, Augusto, 179 n. Bosè, Lucia, 75, 95. Bracco, Davide, 179 n. Bragaglia, Carlo L., 83, 103.

Brancati, Vitaliano, 49, 55-62, 181 n., 182 n., 183 n. Bravo, Anna, 188 n. Brignone, Guido, 85, 88, 90, 92. Brini, Ercole, 74. Brontë, Emily, 96. Brooks, Peter, 186 n. Brosio, Valentino, 50, 71, 94. Bru, Myriam, 95. Brunetta, Gian Piero, 177 n., 183 n., 184 n., 186 n., 198 n., 199 n., 200 n., 202 n., 203 n., 205 n. Brunori, Vittorio, 188 n. Bufalino, Gesualdo, 59, 182 n. Bulwer-Lytton, Edward George, 177 n. Buñuel, Luis, 132, 133. Buttafava, Gianni, 191 n. Calderoni, Franco, 193 n. Calendoli, Giovanni, 177 n. Calindri, Ernesto, 135. Calopresti, Mimmo, 188 n. Calvino, Italo, 57, 180 n., 182 n. Camerini, Mario, 72, 76, 77, 86, 94, 181 n. Campanini, Carlo, 51. Campogalliani, Carlo, 86, 88. Canino, Ennio, 74, 75. Caprara, Valerio, 192 n. Caprioli, Vittorio, 113. Capuano, Luigi, 91, 94. Carabba, Claudio, 186 n., 190 n. Carell, Lianella, 20. Caroli, Anna Maria, 192 n.

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Carotenuto, Memmo, 11. Carotenuto, Mario, 104. Casadio, Gianfranco, 187 n. Casanova, Giacomo, 163-166. Casetti, Francesco, 175 n., 181 n. Castellani, Mario, 101, 110. Castellani, Renato, 45, 72, 73, 94, 181 n. Castellano, Alberto, 194 n. Castellano [Franco], 130, 195 n. Castello, Giulio Cesare, 180 n. Cattini, Alberto, 201 n., 205 n. Cayatte, André, 138. Cecchi d’ Amico, Suso, 14, 17, 18, 178 n., 200 n. Cecchi, Andrea, 44. Cegani, Elisa, 44. Centa, Antonio, 73. Cerchio, Fernando, 88, 94. Cerretto, Alberto, 194 n. Cervantes, Miguel de, 146, 150 Cervi, Gino, 51, 72. Cesselon, Angelo, 72, 74. Cevenini, Leo, 130. Chanel, Hélène, 136. Chevalier, Maurice, 110. Chiari, Walter, 51. Chiesi, Roberto, 197 n. Chiti, Roberto, 183 n. Cicero, Fernando, 133. Cimarosa, Tano, 138. Ciorciolini, Marcello, 130, 133, 134, 137, 138. Cirasola, Nico, 199 n. Ciriello, Averardo, 74, 76-77, 185 n.

Cirillo, Silvana, 174 n. Cirio, Rita, 191 n. Codelli, Lorenzo, 192 n. Colbert, Claudette, 73. Coletti, Duilio, 75, 77, 78, 83. Colizzi, Francesca Romana, 138. Colizzi, Giuseppe, 132, 137. Colombo, Fausto, 187 n. Comencini, Luigi, 48-49, 76, 94, 112, 117-118, 145, 179 n., 181 n., 184 n., 194 n. Corbucci, Sergio, 130, 133. Corbucci, Bruno, 130. Corbucci, Gianfranco, 196 n. Corsi, Barbara, 177 n., 181 n. Casadio, Gianfranco, 184 n. Costa, Mario, 84, 88, 95, 190 n. Costa, Nicolò, 196 n. Cosulich, Callisto, 186 n. Cottafavi, Vittorio, 91, 96. Craveri, Mario, 178 n. Cuciniello, Luigi, 178 n. Cukor, George, 73. Curcio, Armando, 135. Curti, Andrea, 74. Curtis, Tony, 147. D’Albert, Lucy, 113. D’Amico, Masolino, 197 n. D’Angelo, Salvo, 42, 176 n. Danza, Daniele, 96. Dapporto, Carlo, 106, 110. Davoli, Ninetto, 141. De Amicis, Edmondo, 44, 96, 175 n. De Bernardi, F. M., 89.

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De Berti, Raffaele, 191 n., 196 n. De Chirico, Giorgio, 184 n. De Filippo, Eduardo, 82. De Filippo, Peppino, 10, 50, 104, 118, 125. De Fornari, Oreste, 191 n. De Funès, Louis, 104. De Gaetano, Roberto, 174 n. De Giusti, Luciano, 188 n. De Laurentiis, Dino, 46, 48, 50, 51, 71, 93, 94, 114, 181 n. De Maria, Guido, 198 n. De Matteis, Maria, 73. De Matteis, Stefano, 193 n. De Pisis, Filippo, 73. De Rege, Giorgio, 106. De Rege, Guido, 106. De Santi, Gualtiero, 204 n. De Santis, Giuseppe, 74, 92, 93, 94, 188 n., 190 n. De Seta, Enrico, 78. De Sica, Emi, 18. De Sica, Manuel, 175 n. De Sica, Vittorio, 10, 13-39, 44, 117, 118, 174 n, 175 n, 176 n, 178 n. De Vincenti, Giorgio, 174 n. Del Buono, Oreste, 139, 197 n. Del Colle, Ubaldo Maria, 92. Del Poggio, Carla, 52, 76. Deledda, Grazia, 96. Deleuze, Gilles, 13, 174 n., 201 n. Della Casa, Stefano, 179 n., 186 n., 188 n., 194 n., 201 n.

Deneuve, Catherine, 133. Deriu, Fabrizio, 192 n. Di Gianni, Enzo, 88, 89. Di Venanzo, Gianni, 149. Dickens, Charles, 96. Dondero, Marco, 181 n. D’Orsi, Umberto, 138. Dostoevskij, Fëdor M., 96. Dunham, Katherine, 50. Eastwood, Clint, 136. Eco, Umberto, 186 n., 188 n. Edel, Nico, 72. Escobar, Roberto, 192 n. Espinel, Vicente, 146. Esposito, Riccardo, 197 n. Fabre, Giorgio, 186 n. Fabrizi, Aldo, 4, 104, 125. Faldini, Franca, 178 n., 185 n., 192 n., 200 n. Fanchi, Mariagrazia, 186 n. Farassino, Alberto, 180 n., 184 n., 186 n., 190 n. Farnese, Alberto, 92. Favalli, Augusto, 74. Favari, Pietro, 191 n. Federzoni, Marina, 186 n. Feist, Harry, 110. Felice, Carlo A., 187 n. Fellini, Federico, 46, 71, 106, 129, 132, 133, 179 n., 194 n. Ferraù, Alessandro, 193 n. Ferrero, Annamaria, 65. Ferrigno, Antonio, 88, 89. Ferroni, Giulio, 83, 181 n.

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Ferzetti, Gabriele, 19. Feuillet, Octave, 96. Firenzuola, Agnolo, 146. Fitzgerald, Ella, 50. Fizzarotti, Armando, 88, 89. Flaiano, Ennio, 87, 108-109, 117, 118-119, 120, 188 n., 189 n., 191 n. Foà, Arnoldo, 44. Fofi, Goffredo, 178 n., 185 n., 192 n., 193 n., 200 n. Fogazzaro, Antonio, 96. Ford, John, 47. Forges Davanzati, Domenico, 71, 94. Fortichiari, Valentina, 174 n. Foucault, Michel, 202 n. Fracassi, Clemente, 94. Franchi, Franco [Francesco Benenato], 125-143, 193 n., 194 n., 198 n. Franciolini, Gianni, 75. Francisci, Pietro, 77. Franco, Ernesto, 182 n. Freda, Riccardo, 76, 86. Fucini, Renato, 44. Fulci, Lucio, 130, 132, 138, 139. Furlan, Rate, 88. Galdieri, Michele, 107, 114. Gallone, Carmine, 82, 84. Galter, Irene, 92. Gambetti, Giacomo, 175 n., 201 n. Garinei, Pietro, 113. Garrone, Riccardo, 135.

Gasparato, Antonella, 197 n. Gassman, Vittorio, 11, 147, 150, 151, 155, 156, 157, 202 n., 203 n. Gatti, Guido M., 71-72. Gatto, Alfonso, 182 n., 197 n. Gautier, Théophile, 96, 168, 205 n. Genina, Augusto, 92. Gennari, Lina, 118. Gentilomo, Giacomo, 88, 90, 95, 96. Germani Grmek, Sergio, 185 n., 190 n. Germi, Pietro, 46-48, 61, 75, 77, 94, 132, 179 n., 202 n. Gesù, Sebastiano, 179 n., 181 n., 182 n. Ghenzi, Sandro, 45. Ghezzi, Enrico, 181 n. Giachetti, Fosco, 73. Giacobini, Franco, 135. Giacovelli, Enrico, 197 n. Giannini, Ettore, 76. Gianviti, Roberto, 130, 195 n. Gili, Jean A., 189 n. Giovannini, Sandro, 113, 158. Girolami, Marino, 130, 136, 139. Girosi, Marcello, 118, 120. Giusti, Elena, 110. Giusti, Marco, 197 n., 200 n. Gobbi, Tito, 84. Gogol’, Nikolaj V., 56. Gordon, Robert S. C., 175 n. Gore, Laura, 110.

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Gotta, Salvator, 96. Gramsci, Antonio, 187 n. Grande, Maurizio, 182 n. Grant, Cary, 22. Grasso, Aldo, 181 n., 191 n., 198 n. Grassi, Ernesto, 88. Gray, Nadia, 104. Greco, Angelo, 194 n. Grignaffini, Giovanna, 182 n. Grimaldi, Gianni, 130, 133, 136, 141. Gromo, Mario, 83, 187 n. Grottini, Armando, 89, 90. Gualino, Riccardo, 46, 71, 93, 181 n. Guglielminetti, Marziano, 180 n. Gulinucci, Michele, 199 n. Guttuso, Renato, 74. Gys, Leda, 92. Hayworth, Rita, 30. Hill, Terence [Mario Girotti], 137. Hitler, Adolf, 139. Hochkofler, Matilde, 204 n., 205 n. Iemma, Ottavio, 175 n. Ingrassia, Ciccio [Francesco], 125-143, 193 n., 194 n., 198 n. Invernizio, Carolina, 85, 86, 185 n. Jaboni, Renato, 131. Jerry, Lewis, 128.

Keaton, Buster, 138-139. Kezich, Tullio, 179 n., 181 n. Koscina, Sylva, 104. Kramer, Stanley, 138. Kurosawa, Akira, 145, 200 n. La Rosa, Ugo, 130, 140. Lancia, Enrico, 183 n., 190 n. Lane, Abbe, 104. Lanocita, Arturo, 97, 191 n. Latilla, Gino, 89. Lattuada, Alberto, 60, 75, 76, 77, 93, 132, 140, 178 n. Laura, Ernesto G., 179 n. Laurenti, Mariano, 130, 133. Lavantesi, Alessandra, 181 n. Le Goff, Jacques, 201 n. Lee, Margaret, 135. Leone, Ignazio, 138. Leone, Sergio, 135-136. Leonetti, Francesco, 141. Leonviola, Antonio, 63-70, 183 n., 184 n. Lizzani, Carlo, 184 n. Lo Schiavo, Giuseppe G., 46. Lollobrigida, Gina, 44, 77. Lombardi, Martina, 193 n. Lombardo, Gustavo, 92. Lombardo, Goffredo, 117, 120. Lombezzi, Mimmo, 185 n. Longi, Carlo, 74, 75. Longi, Roberto, 185 n. Longoni, Anna, 192 n. López de Úbeda, Francisco, 146.

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Loren, Sophia, 10, 76, 93, 117, 122. Loy, Nanni, 151. Lubin, Arthur, 136. Lucisano, Fulvio, 131. Lulli, Folco, 44, 67. Lumet, Sidney, 184 n. Lupo, Alberto, 198 n. Lupo, Michele, 130, 135. Macario, Erminio, 75-76, 104, 106, 125. Maccari, Ruggero, 146-147, 200 n. Macchia, Giovanni, 183 n., 203 n. Maderna, Bruno, 184 n. Maggiorani, Lamberto, 19, 20, 21, 22. Magnani, Anna, 75, 84, 95, 108. Magrelli, Enrico, 181 n. Majano, Anton Giulio, 96. Malavasi, Luca, 180 n. Manera, Paolo, 179 n. Manfredi, Nino, 147. Mangano, Silvana, 74, 77, 95. Mangione, Giuseppe, 46. Manno, Dante, 72, 74, 77. Marchelli, Massimo, 188 n. Marchesi, Marcello, 113. Marchi, Virgilio, 184 n. Marcotulli, Andrea, 184 n. Margadonna, Ettore M., 120, 178 n. Marlia, Giulio, 204 n. Marotta, Giuseppe, 189 n.

Martinelli, Vittorio, 190 n. Martino, Vittorio, 130. Maselli, Francesco, 177 n. Masi, Stefano, 177 n., 190 n. Mastriani, Francesco, 85. Mastrocinque, Camillo, 103, 113. Mastroianni, Marcello, 204 n. Matarazzo, Raffaello, 78, 7980, 84-85, 94, 185 n. Mattoli, Mario, 76, 78, 81, 82, 99, 103, 113, 129, 130, 134, 151, 194 n. May, Renato, 88. Meccoli, Domenico, 177 n, 179 n. Medin, Gastone, 73. Meldolesi, Claudio, 191 n. Menarini, Roy, 196 n. Mengaldo, Pier Vincenzo, 182 n. Mercanti, Pino, 90. Mereghetti, Paolo, 183 n., 184 n. Merlini, Marisa, 44. Miccichè, Lino, 174 n., 175 n., 177 n., 180 n., 185 n., 193 n., 196 n., 197 n. Micheli, Sergio, 185 n. Miranda, Isa, 73. Misiano, Fortunato, 90, 189 n. Misiano, Pasquale, 90. Misiano, Nino, 90, 91. Modugno, Domenico, 129, 141. Moneti, Giorgio, 130. Moneti, Guglielmo, 175 n.

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Monicelli, Mario, 9, 46, 50,103104, 133, 134, 145-160, 200 n., 201 n., 202 n., 203 n. Montillo, Natale, 88, 89. Moravia, Alberto, 142, 188 n., 192 n., 199 n. Morelli, Rina, 44. Moretti, Franco, 182 n. Mosconi, Elena, 186 n. Mozart, Wolfang A., 165. Muratori, Ludovico A., 146. Murolo, Roberto, 92. Musil, Robert, 196 n. Musolino, Vincenzo, 67. Naitza, Sergio, 185 n. Nazzari, Amedeo, 50, 76, 80, 95. Nicosia, Ernesto, 184 n. Nistri, Lorenzo, 74. Noris, Assia, 73. Nucci, Vincenzo, 194 n. Nuzzi, Paolo, 175 n. Olivetti, Giorgio, 74, 78. Olivier, Laurence, 19. Olivieri, Angelo, 193 n. Orlandini, Giuseppe, 130, 133, 134. Osiris, Wanda, 110. Otto, Natalino, 89. Pacini, Raffaello, 86. Palliotti, Vittorio, 188 n. Palmara, Mimmo, 136.

Palumbo, Dolores, 111. Pampanini, Silvana, 51, 67, 95. Pandolfi, Vito, 89, 189 n. Parigi, Stefania, 190 n. Pasolini, Pier Paolo, 140-141, 199 n. Paul, Gloria, 136. Pavese, Luigi, 101. Pavesi, Matteo, 180 n. Pazzaglia, Riccardo, 129, 130. Pecorari, Mario, 197 n. Pedrocchi, Carlo, 188 n. Pellizzari, Lorenzo, 173 n. Penchenat, Jean-Claude, 166. Pestalozza, Luigi, 187 n. Petronio Arbitro, 110. Pezzotta, Alberto, 184 n. Pezzini, Isabella, 186 n. Pica, Tina, 10, 118. Pidgeon, Walter, 104. Pierotti, Piero, 134. Pietrangeli, Antonio, 146, 157, 186 n., 200 n. Pinelli, Tullio, 46, 179 n. Pintus, Pietro, 190 n. Pipolo [Giuseppe Moccia], 130, 195 n. Pirandello, Luigi, 44, 104. Piretto, Gian Piero, 182 n. Pirri, Tino, 94. Pistagnesi, Patrizia, 179 n., 185 n. Pitagora, Paola, 184 n. Pizzi, Nilla, 89. Polara, Salvatore, 127. Polselli, Renato, 130.

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Ponti, Carlo, 48, 50, 51, 71, 114. Poppi, Roberto, 183 n., 197 n. Powell, Michael, 134. Pozzato, Maria Pia, 186 n. Pressburger, Emeric, 134. Prono, Franco, 176 n, 179 n. Prudenzi, Angela, 190 n. Puccini, Gianni, 94. Purificato, Domenico, 74. Pusˇkin, Aleksandr S., 73. Quaglietti, Lorenzo, 177 n. Quaresima, Leonardo, 190 n., 192 n. Quevedo, Francisco de, 146. Quintavalle, Arturo Carlo, 185 n. Rabelais, François, 146, 150. Raffaelli, Sergio, 202 n. Rascel, Renato, 106. Restif, de la Bretonne, NicolasEdme, 163, 203 n. Reggiani, Sergio, 202 n. Renzi, Renzo, 180 n. Riderelli, Vitaliano, 174 n. Ridola, Ettore, 200 n. Riento, Virgilio, 10, 118. Righelli, Gennaro, 86, 94. Risi, Dino, 117-123, 192 n. Rivette, Jacques, 182 n. Rondinella, Giacomo, 76. Rondolino, Gianni, 176 n., 189 n. Rosi, Francesco, 176 n.

Rossellini, Roberto, 13, 60, 77, 78, 90, 93. Rossi Drago, Eleonora, 95. Rossi, Enzo, 74. Rossi, Franco, 181 n. Rossitti, Marco, 178 n. Rovere, Luigi, 46-47, 48, 71, 93-94, 178 n, 179 n. Ruffini, Giovanni, 96. Rüesch, Diana, 192 n. Rutherford, Margaret, 50. Sacchetti, Franco, 146. Salizzato, Claver, 190 n. Sancho, Fernando, 135. Sanguineti, Tatti, 185 n., 190 n. Sanson, Yvonne, 75, 80, 92. Sassoli, Dina, 72. Savio, Francesco, 183 n. Scarfoglio, Edoardo, 44. Scarpelli, Furio, 120, 145-146, 148, 200 n., 202 n., 205 n. Scattini, Luigi, 130, 138. Sciascia, Leonardo, 61, 179 n., 183 n. Scola, Ettore, 146-147, 151, 161171, 200 n., 203 n., 205 n. Scotti, Tino, 106. Secchia, Pietro, 182 n. Sequi, Mario, 88, 188 n. Sereni, Emilio, 182 n. Sernas, Jacques, 76. Serra, Adriana, 110. Sesti, Mario, 179 n. Sharif, Omar, 184 n. Siano, Silvio, 89.

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Sibaldi, Stefano, 136. Sienkiewicz, Henryk, 177 n. Simon, Charles, 73. Simon, Michel, 64. Simonelli, Giorgio C., 130, 134, 135, 136, 139, 140. Soldati, Mario, 50-53, 75, 93, 94, 191 n., 193 n. Sollazzo, Amedeo, 130, 195 n. Somarè, Marilea, 193 n. Sonego, Rodolfo, 119. Sordi, Alberto, 10, 116, 118, 119, 127, 133, 147. Spadaro, Odoardo, 110. Spencer, Bud [Carlo Pedersoli], 137. Spinazzola, Vittorio, 178 n, 180 n., 187 n., 188 n., 198 n., 201 n. Stajola, Enzo, 20, 21. Stampini, Pino, 74. Steno [Stefano Vanzina], 50, 99, 103, 104-116, 130, 133, 134, 197 n. Stevenson, Robert, 96. Stoppa, Paolo, 44. Sturges, John, 138. Taranto, Nino, 104, 106, 110, 125. Tassone, Aldo, 200 n. Taviani, Paolo, 194 n. Taviani, Vittorio, 194 n. Terzo, Nino, 135. Tessari, Duccio, 132, 137. 185 n. Theodoli, Nicolò, 51.

Tieri, Aroldo, 135. Tinazzi, Giorgio, 181 n., 185 n., 187 n. Tofano, Sergio, 44. Togliatti, Palmiro, 57, 182 n. Tognazzi, Ugo, 53. Totò, 48, 60, 76, 78, 90, 99-116, 125, 126, 127, 134, 141, 155, 182 n., 191 n., 193 n. Trenet, Charles, 167. Trieste, Leopoldo, 132. Troisi, Massimo, 169. Turpin, Ben, 107. Tutino, Saverio, 182 n. Tynjanov, Jurij, 196 n. Ucci, Toni, 112. Umiliani, Piero, 149. Vaccari, Giacomo, 96. Valentini, Paola, 193 n. Valeri, Franca, 10, 113, 117-123. Valli, Alida, 52, 82, 95. Vallone, Raf, 10, 51, 118, 121. Ventavoli, Lorenzo, 190 n. Ventura, Alfredo, 74. Verdi, Giuseppe, 84. Vianello, Raimondo, 53, 133. Vicario, Marco, 60, 132. Villa, Federica, 178 n., 185 n. Visconti, Luchino, 22, 78, 94, 129, 132, 133, 176 n., 181 n. Vitale, Milly, 68. Viviani, Christian, 190 n. Vollaro, Saverio, 190 n.

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Wallace, Lew, 177 n. Welles, Orson, 104. Wiseman, Nicholas P., 176 n. Zagarrio,Vito, 187 n. Zampa, Luigi, 49-50, 57-58, 75, 77, 132, 133, 134, 180 n., 182 n.

Zannino, Franco, 180 n., 189 n. Zareschi, Elena, 64. Zavattini, Cesare, 13-38, 41, 43, 106-107, 117-120, 173 n, 174 n, 175 n, 176 n, 178 n., 188 n., 191 n., 192 n. Zeglio, Primo, 85. Zingarelli, Italo, 131.

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INDICE DEI FILM

A cavallo della tigre, 145. Abbasso la miseria!, 94. Abbasso la ricchezza!, 94. Adamo ed Eva, 76. Addio, mia bella signora!, 88. Altra, L’, 83. Altri tempi, 44, 178 n., 180 n. Amanti senza cuore, 75. Amaramente, 91. Americano a Roma, Un, 116, 121. Angelo delle Alpi, L’, 86. Anna, 77, 93. Anni difficili, 49, 57-58. Anni facili, 49, 58. Appassionatamente, 95. Appuntamento a Ischia, 129. Aquila nera, 86. Armata Brancaleone, L’, 134, 146, 151-155, 157, 201 n. Arte di arrangiarsi, L’, 49, 58, 182 n. Attila, 77. Audace colpo dei soliti ignoti, 151. Avanti a lui tremava tutta Roma, 84. Avventure di Mandrin, Le, 51.

Bacio di una morta, Il, 85. Ballando ballando, 166-167. Ballata tragica, 94. Ballerina e buon Dio, 69. Balocchi e profumi, 89. Bandito, Il, 94, 178 n. Barbiere di Siviglia, Il, 84. Barbieri di Sicilia, I, 138. Beatrice Cenci, 86. Bell’Antonio, Il, 60. Bella di giorno (Belle de jour), 133. Bellissima, 22. Bello, il brutto, il cretino, Il, 136. Bivio, Il, 94. Botta e risposta, 50. Brancaleone alle crociate, 155, 156, 202 n. Brigante di Tacca del Lupo, Il, 47, 94. Brigante Musolino, Il, 93. Brutti di notte, 133. Buffo, il brutto, il cretino, Il, 197 n. Buono, il brutto, il cattivo, Il, 136.

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Calamita d’oro, 89. Cammino della speranza, Il, 47, 61, 77, 94. Campane a martello, 77, 180 n. Canto della vita, Il, 82. Capriccio all’italiana, 104. Carcerato, 90. Carosello napoletano, 76. Casanova ’70, 151. Catene, 79, 92, 94. Che cosa sono le nuvole? [ep. di Capriccio all’italiana], 140, 199 n. Chi è senza peccato..., 79, 94. Chiromante, La, 118. Ciccio perdona...io no!, 137. Città canora, La, 88. Città dolente, La, 83. Città si difende, La, 179 n. Colpo di pistola, Un, 72. Come persi la guerra, 75. Come scopersi l’America, 76. Come svaligiammo la banca d’Italia, 132. Compagni, I, 151. Con qualche dollaro in meno, 181 n. Condannatelo!, 91. Congiuntura, La, 151. Core ’ngrato, 88, 128, 189 n. Corriere del re, Il, 86. Cronaca di un amore, 178 n. Cuore forestiero, 89. Cuori senza frontiere, 180 n.

Destino, 89. Dio perdona...io no!, 137. Divorzio all’italiana, 61. Don Chisciotte e Sancho Panza, 141. Don Giovanni in Sicilia, 60. Donna del fiume, La, 93. Donna libera, Una, 91. Donne e briganti, 50, 51, 94. Dov’è la libertà...?, 60, 78, 90. Due colonnelli, I, 104. Due crociati, I, 131, 134. Due evasi da Sing Sing, I, 126. Due figli di Ringo, I, 136. Due mafiosi con Al Capone, 139. Due mafiosi nel Far West, I, 126. Due mafiosi, I, 126, 140. Due magnifici fresconi, 139. Due marines e un generale, 131, 138. Due orfanelle, Le, 95. Due orfanelli, I, 99. Due parà, I, 138. Due pericoli pubblici, I, 126. Due rrringos nel Texas, 136. Due sanculotti, I, 134. Due sergenti del generale Custer, I, 135. Due soldi di speranza, 45, 178 n. Due toreri, I, 126. Due verità, Le, 64-65, 184 n. Due vigili, I, 133.

Daniele Cortis, 52. Delitto di Giovanni Episcopo, Il, 75.

É l’amor che mi rovina, 51, 52. ...e Napoli canta!, 89. É primavera..., 45.

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Ebreo errante, L’, 83. Edipo re, 141. Ergastolo, 91. Europa ’51, 77, 93. Fabiola, 41-43, 45, 177 n., 178 n. Fantasmi a Roma, 146. Fatalità, 82. Febbre da cavallo, 116. Fellini Satyricon, 133. Fifa e arena, 100, 101. Figaro qua...Figaro là, 100, 101. Figli del leopardo, I, 126, 133. Figli di nessuno, I, 79, 92, 94. Figlia del capitano, La, 76, 8586, 93. Figlia del mendicante, La, 86. Figlia della Madonna, La, 88. Fortuna di essere donna, La, 121, 122. Francis il mulo parlante (Francis), 136. Franco e Ciccio...ladro e guardia, 133. Fuga in Francia, 75, 93, 94. Garibaldino in convento, Un, 34. Gattopardo, Il, 129, 133. Gelosia, 47. Genoveffa di Brabante, 85. Gilda (id.) 16, 30. Giorno in pretura, Un, 116. Giorno nella vita, Un, 42. Giovani tigri, I, 70. Gioventù perduta, 46, 75.

Giuseppe Verdi, 85, 94. Gladiatrici, Le, 70. Gli amori di Manon Lescaut, 95. Gli innocenti pagano, 91. Grande fuga, La (The Great Escape), 138. Grande guerra, La, 150. Grido della terra, Il, 77, 83, 94. Guai ai vinti, 94. Guardie e ladri, 103, 133, 134, 148. Imperatore di Capri, L’, 48, 76, 100, 112. In nome della legge, 46-47, 61, 77, 94. Inafferrabile Primula Rossa, L’ (The Elusive Pimpernel), 134. Incatenata dal destino, 89. Indovina chi viene a cena? (Guess Who’s Coming to Dinner), 138. Indovina chi viene a merenda?, 138. Intervista, 122. Io la conoscevo bene, 146. Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, 51. Lacrime d’amore, 90. Ladri di biciclette, 13-39, 122, 173 n., 175 n. Letto a tre piazze, 104. Luna nuova, 94. Luna rossa, 89.

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Lupa, La, 93. Lupo della Sila, Il, 75. Maciste nella terra dei Ciclopi, 70. Maciste, l’uomo più forte del mondo, 69-70. Maddalena, 92. Madonna delle rose, 89. Madunnella, 88, 189 n. Mafioso, 140. Malaspina, 88. Mano della morta, La, 86. Marcia su Roma, La, 151. Marito per Anna Zaccheo, Un, 94, 188 n. Mattatore, Il, 151. Medico e lo stregone, Il, 121, 148. Menzogna, 92. Mio figlio Nerone, 116. Miracolo a Milano, 14. Miserabili, I, 76, 86, 93, 94. Miseria e nobiltà, 122. Miserie del signor Travet, Le, 52. Miss Italia, 77. Molti sogni per le strade, 75. Monaca di Monza, La, 86. Monastero di Santa Chiara, 88. Mondo nuovo, Il, 161-166, 167, 168, 171, 203 n. Mostro della domenica, Il [ep. di Capriccio all’italiana], 104. Mulino del Po, Il, 76, 93, 94. Napoli milionaria, 100. Napoli, eterna canzone, 89.

Nennella, 88. Nipoti di Zorro, I, 134. Noi cannibali, 66-69, 184 n. Noi peccatori, 92, 190 n. Non c’è pace tra gli ulivi, 74, 94. ’O sole mio!, 88. O.K. Nerone, 51. Ombre rosse (Stagecoach), 168, 193 n. Ombre sul Canal Grande, 94. Onorata società, L’, 129, 139. Onore e sangue, 91. Onorevole Angelina, L’, 75. Orfana del ghetto, L’, 86. 8½, 129. Padri e figli..., 121, 148. Pane, amore e fantasia, 10, 49, 117, 180 n. Pane, amore e gelosia, 117. Paolo e Francesca, 78, 94. Paolo il caldo, 60. Pasqua di sangue, 75. Passaggio del Reno, Il (Le passage du Rhin), 138. Passatore, Il, 78, 94. Passione fatale, 189 n. Peccato che sia una canaglia, 121, 122. Pentimento, 89. Per qualche dollaro in più, 136. Per un pugno di dollari, 135, 200 n. Per un pugno nell’occhio, 135. Persiane chiuse, 48, 94, 179 n.

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Picari, I, 157, 202 n. Piccola posta, 116, 121, 122. Piccola pretura, 46. Piccola santa, 89. Piccolo mondo antico, 52. Pistola per Ringo, Una, 137. Più comico spettacolo del mondo, Il, 114, 134. Polizia ringrazia, La, 116. Pompieri di Viggiù, I, 76, 100, 102, 108, 109, 110-111, 180 n. Poveri ma belli, 10, 122. Presidentessa, La, 47. Prima comunione, 43, 45, 178 n. Processo alla città, 49. Proibito rubare, 76. Promessi sposi, I, 72, 184 n. Provinciale, La, 52, 180 n. 47 morto che parla, 100, 102. Quel bandito sono io, 50. Quelli che restano, 140. Questa è la vita, 182 n. Rigoletto, 84. Ringo e Gringo contro tutti, 137. Ringo il cavaliere solitario, 137. Ringo nel Nebraska, 137. Ringo, il volto della vendetta, 137. Ringo, prega il tuo Dio...ora t’ammazzo, 137. Risate di gioia, 122, 145, 151. Riso amaro, 74, 77, 93.

Rita da Cascia, 63-64, 65. Ritorno di Ringo, Il, 137. Roma città aperta, 82. Roma ore 11, 92. Roma, 106. Romanticismo, 94. Romanzo d’amore, 94. Rosalba, la fanciulla di Pompei, 89, 189 n. Satiricosissimo, 133. Scapricciatiello, 91. Sciuscià, 13, 16, 173 n., 175 n. Se permettete, parliamo di donne, 151. Sedotta e abbandonata, 132. Sedotti e abbandonati, 126. Sedotti e bidonati, 132. Segno di Venere, Il, 10, 117123, 192 n. Senso, 78, 94, 187 n. Sensualità, 93, 95. Senza pietà, 77, 93, 94. Senza sapere niente di lei, 184 n. Sepolta viva, La, 85. Sette uomini d’oro, 132. Settimo sigillo, Il (Det sjunde inseglet), 202 n. Sfida dei samurai, La (Yojimbo), 145, 200 n. Sigfrido, 90. Siluri umani, 69. Sinfonia d’amore, 94. Sogno di Zorro, Il, 51. Soliti ignoti, I, 148, 149-150, 151, 157, 200 n., 201 n.

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Sorpasso, Il, 151. Spie vengono dal semifreddo, Le, 131. Stasera niente di nuovo, 93. Sul ponte dei sospiri, 65, 184 n. Suo amore più grande, Il, 69. Tartassati, I, 104. Taur, re della forza bruta, 70. Tempesta, La, 93. Teresa Venerdì, 34. Terra trema, La, 176 n. Ti ho sempre amato!, 95. Tombolo, paradiso nero, 83. Tormento, 79, 92, 94. Torna, piccina mia!, 88. Totò a colori, 10, 102, 104, 111-116, 122. Totò al giro d’Italia, 100. Totò all’inferno, 102, 113. Totò cerca casa, 100, 103. Totò contro i quattro, 104. Totò diabolicus, 101, 104. Totò e Carolina, 148. Totò e i re di Roma, 103. Totò e le donne, 103. Totò e Peppino divisi a Berlino, 101. Totò le Mokò, 100. Totò nella luna, 104. Totò sceicco, 100, 101, 102. Totò, Eva e il pennello proibito, 104. Totò, Peppino e...la dolce vita, 133.

Totòtarzan, 101, 102. Totòtruffa ’62, 101. Tratta delle bianche, La, 48, 93. Traviata ’53, 91. Tre corsari, I, 51, 180 n. Trovatella di Pompei, La, 90. Turco napoletano, Un, 78. Tutti a casa, 145. Ulisse, 77, 181 n. Ultimo amante, L’, 93. Ultimo tango a Parigi, 133. Ultimo tango a Zagarol, 133. Umberto D., 22. Uomo, la bestia e la virtù, L’, 104. Valigia dei sogni, La, 179 n., 180 n. Viaggio di Capitan Fracassa, Il, 166, 167-171, 205 n. Viaggio in Italia, 182 n. Vigile, Il, 133. Virtù sdraiata, La (The Appointment), 184 n. Vita ricomincia, La, 82. Vortice, 94. Zanzaroni, I, 140. Zappatore, Lo, 88. Zazà, 73. 00-2 agenti segretissimi, 126. 00-2 operazione Luna, 139. Zorro il ribelle, 134.

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Sopralluoghi

1. Roberto De Gaetano, Robert Bresson. Il paradosso del cinema, pp. 124, 1998. 2. Federica Lanza, La donna nel cinema maghrebino, pp. 134, 1999. 3. Stefano Della Casa, Riccardo Freda, pp. 134, 1999. 4. Daniela Terribili, Quentin Tarantino. Il cinema “degenere”, pp. 138, 1999. 5. Cesare Zavattini, Come nasce un soggetto cinematografico, pp. 174, 2000. 6. Matilde Hochkofler, Flash rubati, pp. 158, 2000. 7. Le verità di Zavattini, a cura di Silvana Cirillo, pp. 236, 2000. 8. Matilde Hochkofler, Le regole del gioco, pp. 130, 2000. 9. Cesare Zavattini, Serate al varietà, pp. 100, 2001. 10. Roberto Ellero, Dove va il cinema, pp. 100, 2001. 11. Paola Azzolini, Il cielo vuoto dell’eroina, pp. 240, 2001. 12. Natalino Bruzzone, John le Carré. La quadratura del Circus, pp. 160, 2001. 13. Antonio Piotti, Marco Senaldi, Maccarone, m’hai provocato!, pp. 122, 2001. 14. Orio Caldiron, Passaggio a Nord-Ovest, pp. 128, 2001.

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15. Antonio Costa, I leoni di Schneider, pp. 212, 2002. 16. Totò e la gaia scienza, a cura di Orio Caldiron, pp. 204, 2004. 17. Massimo Scaglione, I miei primi quarant’anni di Rai-tv, pp. 185, 2004. 18. Elena Zapponi, Pregare con i piedi. In cammino verso Finis Terrae, pp. 200, 2008.

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Finito di stampare nel mese di marzo 2009 da IRIPRINT Coordinamento tecnico CENTRO STAMPA di Meucci Roberto CITTÀ DI CASTELLO (PG)

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