L' obbligazione e il contratto [4 ed.] 9788892138247

A vent'anni dalla prima, la quarta edizione conferma il successo della "didattica modulare" che consente

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L' obbligazione e il contratto [4 ed.]
 9788892138247

Table of contents :
Cover
Occhiello
Dedica
Il corso di istituzioni di diritto privato
Presentazione
Citazione
Prefazione
Parte I - capitolo I Il rapporto obbligatorio
Parte I - capitolo II Le vicende dell'obbligazione
Parte I - capitolo III I fatti illeciti
Parte II - capitolo I Il contratto in generale
Parte II - capitolo II L'efficacia
Parte II - capitolo III L'interpretazione
Parte II - capitolo IV La patologia
Parte II - capitolo V I contratti dei consumatori
Parte II - capitolo VI I singoli contratti
Indice

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LE ISTITUZIONI DEL DIRITTO PRIVATO 2

Francesco Macioce

L’OBBLIGAZIONE E IL CONTRATTO Quarta edizione

G. Giappichelli Editore – Torino

© Copyright 2021 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100 http://www.giappichelli.it

ISBN/EAN 978-88-921-3824-7

Composizione: La Fotocomposizione - Torino Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

Alla memoria dei miei genitori, al futuro dei miei figli

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PREFAZIONE ALLA QUARTA EDIZIONE

IL CORSO DI ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO

L’idea di dar vita ad un insieme di monografie volte a svolgere un «corso di Istituzioni di diritto privato» nasce dal convincimento che lo studio delle Istituzioni, come si è consolidato nella nostra tradizione, costituisca per gli studenti un’esperienza estremamente utile che non va perduta. Ciò non vuol dire che ci si debba sottrarre al necessario adeguamento ai nuovi modelli di didattica basata sugli schemi della laurea triennale e di quella magistrale fissati nelle dichiarazioni di Lisbona, della Sorbona e di Bologna, ma impone di scegliere, nell’attuazione di questi, strumenti capaci di combinare, pur nel mutato contesto, la solidità dell’impianto sistematico che ha caratterizzato i nostri migliori manuali con contenuti capaci di adattarsi alle diverse esigenze formative presenti nell’esperienza attuale. In questa prospettiva ho ritenuto che la risposta più efficace potesse individuarsi in un «corso di istituzioni» organizzato in più volumi, alcuni corrispondenti alle tradizionali partizioni del diritto privato: fonti del diritto, soggetti, situazioni soggettive, attività giuridica, beni e situazioni di appartenenza, obbligazioni e contratti, famiglia e successioni, pubblicità e circolazione dei diritti. Altri dedicati invece a temi più specialistici, quali: i contratti dell’impresa, la responsabilità di imprese, i contratti dei consumatori, la tutela dei diritti; a questi potranno aggiungersene man mano altri, in relazione all’emergere di nuove esigenze. In tal modo ciascuno potrà costruire il proprio corso, componendo i vari volumi in modo corrispondente alle proprie esigenze didattiche e a quelle delle figure professionali cui il corso è orientato, oppure utilizzandoli separatamente. I volumi specialistici potranno essere utilizzati anche nei corsi di laurea magistrale o in quelli post laurea, con il vantaggio di costituire parte di un disegno organico unitariamente concepito, che garantisce continuità agli svolgimenti specialistici o più avanzati, armonicamente collegati per il metodo, il linguaggio e l’impostazione, con i volumi di base. Ciascun volume è di dimensioni contenute ma, avvalendosi del collegamento con gli altri, compone un sistema che consente di combinare la specifica informazione con l’impianto complessivo e le scelte di metodo che attraversano l’insieme del «corso». La realizzazione di questo disegno è stata resa possibile dalla partecipazione all’opera complessiva di un ristretto numero di colleghi con i quali da molti anni ho la fortuna di condividere percorsi di studio e attività didattiche che trovano naturale convergenza, in alcuni casi per affinità di scuola e di

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IL CORSO DI ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO

formazione, in altri per vicinanza di metodo e comunanza di interessi ravvivata da continuo ed intenso dialogo. Ciascuno di loro ha assunto la responsabilità di uno dei volumi che compongono il «corso» in modo da garantire la compattezza e coerenza espositiva nell’ambito di ciascun tema. Questi fattori, cui si unisce l’unità della concezione e un costante controllo nella coerenza dell’impostazione complessiva e dei risultati esposti nei singoli volumi, consentono di considerare l’opera come unitaria pur nell’individualità dei singoli contributi. Essa riflette la scelta di fornire una esposizione del diritto privato ordinata intorno a principi chiari e visibili, che facilitino la comprensione del sistema e delle sue parti, e la loro organizzazione in un insieme ordinato, com’è necessario a chi si avvia agli studi; ciò faciliterà anche l’analisi critica che potrà essere pienamente e rigorosamente esercitata più rispetto a principi e schemi logici dichiarati che a esposizioni problematiche e sfuggenti quanto ai loro fondamenti e alle implicazioni operative. Un insegnamento assai autorevole, e a me particolarmente caro, ammonisce che un’opera sistematica, quale vuol essere quella che qui si presenta, sia nei singoli contributi che nel suo insieme, «può considerarsi riuscita se perviene a cogliere attraverso un’attenta cernita, e ad esprimere in una sintesi felice le linee essenziali della dottrina del proprio tempo». Questo modello ideale è stato costantemente presente agli autori dei volumi in cui si svolge il nostro «corso», e si è tradotto nella costante attenzione alle profonde trasformazioni conseguenti a fenomeni caratteristici del nostro tempo, capaci di influenzare significativamente la complessiva ricostruzione del sistema e l’interpretazione e applicazione delle norme che lo compongono quali, in particolare: a) i nuovi assetti istituzionali conseguenti da un lato all’evolversi e all’espandersi del diritto di derivazione europea; dall’altro da modificazioni della nostra Carta Costituzionale incidenti sulla ripartizione di competenze tra privato e pubblico e, in quest’ultimo ambito tra competenze normative statali e regionali; b) le profonde trasformazioni del tessuto socio-economico che il nostro ordinamento è chiamato a regolare; c) il contatto sempre più intenso e la competizione con altri ordinamenti, che postula di per sé una uniformazione delle regole, attraverso innovazioni legislative o un’interpretazione adeguatrice della disciplina esistente. Da ciò una costante attenzione non solo al momento prescrittivo ma an-

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che a quello della concreta applicazione della norma e dei meccanismi attraverso i quali la regola astratta si collega al caso concreto. In questo senso lo sforzo comune degli autori è stato quello di dare conto dello scopo delle norme indagate e delle conseguenze pratiche dell’interpretazione prescelta per fornire da un lato una sorta di guida per la soluzione di casi analoghi, dall’altro gli strumenti per la valutazione critica delle scelte suggerite. L’esposizione è stata perciò attenta al diritto positivo ma anche alla realtà economica che il diritto privato contribuisce a governare: in questa prospettiva il diritto della famiglia e delle successioni viene studiato dal punto di vista della circolazione della ricchezza familiare; la disciplina delle forme di appartenenza è indagata coniugando l’analisi della proprietà e dei diritti reali con quella del diritto d’autore, delle privative industriali; la responsabilità civile è colta nelle sue connessioni con la tutela del mercato, costituendo, assieme ai contratti dell’impresa, il laboratorio nel quale si cercano i nuovi equilibri tra disciplina codicistica e legislazione speciale volta a graduare la protezione accordata alle parti, alle categorie degli imprenditori o dei consumatori. L’opera complessiva e i singoli volumi che la compongono sono stati pensati prevalentemente per la didattica e, in tal senso, essi costituiscono uno strumento per la comprensione del testo normativo che regola le materia esposte e per la ricostruzione complessiva del sistema. Questa è però una conquista individuale cui il lettore può giungere solo attraverso il suo personale impegno di apprendimento, seguendo un percorso che si svolge attraverso un continuo controllo delle basi normative e del fondamento logico delle soluzioni che gli vengono proposte. Rispetto a questo risultato il testo va inteso come il manuale d’uso che fornisce gli strumenti per una partecipazione attiva al processo di conoscenza e comprensione di cui è protagonista chi si accinge allo studio di un sistema complesso e in continuo cambiamento qual è quello in cui siamo chiamati ad operare. Mario Nuzzo

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IL CORSO DI ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO

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IL CORSO DI ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO

PRESENTAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Nella presentazione alla prima edizione di questo “manuale in più volumi” indicavo come tratti caratterizzanti dell’opera una esposizione del diritto privato ordinata intorno a principi chiari e visibili, che faciliti la comprensione del sistema e delle sue parti, e la organizzazione di queste in un insieme ordinato, necessario a chi si avvia agli studi. L’utilizzazione del manuale da parte di molti colleghi, in diverse università e in corsi alcuni istituzionali altri specialistici ha, nel suo complesso, confermato l’utilità di un modello volto a combinare l’unità della concezione con l’individualità dei singoli contributi: ciò ha consentito di contenere le dimensioni dei singoli volumi, ciascuno dei quali si avvale del collegamento con gli altri, riuscendo così ad evitare inutili ripetizioni e perciò a fornire, pur in un contenuto numero di pagine, una visione sufficientemente completa del sistema. L’esperienza didattica e i suggerimenti dei colleghi che hanno sperimentato i volumi che compongono il manuale hanno fornito preziose indicazioni per una ulteriore integrazione dell’insieme e per il chiarimento o l’approfondimento di singoli punti. Proprio da questa esperienza nasce la seconda edizione che contiene, accanto agli aggiornamenti resi necessari dall’evoluzione della legislazione o dal mutamento di orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, aggiunte di parti importanti e adattamenti volti a favorire il lavoro degli studenti facilitando i collegamenti tra i diversi volumi e l’individuazione dei percorsi logici su cui si basa l’esposizione. Mario Nuzzo

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Il Codice Civile è senza alcun dubbio il più bel monumento che attestar possa la civiltà di un popolo, dappoiché in esso si comprendono tutti gl’interessi morali della società e sol per esso le si assicura uno stabile e prospero avvenire * dalla Prefazione de “Il Codice Civile commentato colle leggi romane” a cura di Lahaye ed altri, Napoli 1846, Versione italiana a cura di alcuni avvocati napoletani

* Postilla Curiosando in una libreria antiquaria mi sono imbattuto nella Prefazione che ho voluto proporre come rinnovato invito alla lettura del testo. In un momento in cui costante è il richiamo ai valori costituzionali e da tempo ed a ragione si privilegia una lettura costituzionalmente orientata delle norme privatistiche, mi è sembrato provocatorio, e quindi anche salutare, ricordare e confermare – attraverso la riflessione che ho richiamato e senza per questo volere alleggerire di un sol grammo il grave peso dell’ineludibile richiamo alla nostra Carta fondamentale – la persistente vitalità e la centralità di un codice che – nonostante l’intensa opera del legislatore del nostro tempo – non mostra cedimenti ed ancora oggi appare in grado, nella sua architettura complessiva, di esprimere un sistema di norme compiuto e capace, esso stesso, di indicare le modalità di composizione razionale e di sviluppo civile di quegli interessi personali e patrimoniali che da sempre alimentano le relazioni fra gli uomini.

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PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

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PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

La seconda edizione del libro, incoraggiata dal rapido esaurimento delle scorte e della recente ristampa, intende soddisfare due esigenze. La prima risponde alla opportunità di completare la parte generale della obbligazione e del contratto con un capitolo dedicato ai fatti illeciti che si ritenuto di ripartire, per comodità espositiva, in diverse sezioni. L’esigenza di completamento della parte dedicata alle obbligazioni (sacrificata, in un primo tempo, in ragione della programmata trattazione in un autonomo volume di questa materia) nasce dalla stretta relazione, annunciata sin dalle prime pagine del «nuovo» capitolo, fra l’istituto dell’obbligazione e il fatto illecito. Tale collegamento è reso evidente dalla duplice circostanza che il fatto illecito è fonte di obbligazione e che la tutela dei diritti del danneggiato muove dal risarcimento del danno che è tema anch’esso fortemente connesso all’obbligazione, in una prospettiva comune – sotto questo profilo – tanto alla responsabilità contrattuale che a quella di fonte extracontrattuale. Lo studente, e lo studioso, potranno perciò ora trovare nel volume l’esposizione completa degli istituti disciplinati in via generale nel libro IV del Codice, e cioè l’obbligazione, il contratto e il fatto illecito. Ad altri volumi delle Istituzioni restano affidati l’illustrazione e l’approfondimento di aspetti particolari e di profili speciali del Capitolo sulla responsabilità di diritto privato, sia in materia contrattuale che extracontrattuale. La seconda esigenza risponde alla necessità di aggiornamento del testo, inevitabile col trascorrere degli anni, ma nel nostro caso urgente ed indifferibile se si considerano le numerose ed importanti novità legislative che in questi ultimi anni hanno modificato ed integrato il sistema del diritto privato «arrestato» al tempo della prima edizione. Una novità di sicuro rilievo è rappresentata dall’entrata in vigore del Codice del consumo che ha unificato da un punto di vista formale le disposizioni a tutela del consumatore e ne ha operato un riassetto sistematico, talora introducendo novità di ordine dogmatico, come nel caso della nullità di protezione.

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PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Alcuni importanti interventi del legislatore, operando in particolare nella direzione di un incremento dei poteri di autonomia dei soggetti e di una intensificazione della tutela del contraente «debole», hanno inciso in modo profondo su taluni istituti del diritto privato. Con la modifica dell’art. 458 c.c. il legislatore, «assolto» il c.d. patto di famiglia dal sospetto di illiceità, ha aperto una significativa breccia al rigore del divieto dei patti successori; contestualmente, con l’introduzione degli artt. 768 ss. c.c. ha assegnato all’imprenditore la facoltà di imprimere all’azienda una «successione» frutto di una scelta di libertà in armonia con la dinamicità propria dell’attività di impresa. Con la previsione del negozio atipico e generale di destinazione patrimoniale (art. 2645 ter c.c.) il legislatore ha certamente ampliato la sfera di autonomia privata, pur alimentando l’incertezza interpretativa che già avvolgeva il richiamo alla meritevolezza degli interessi, in relazione alle ragioni che giustificano la deroga al principio della responsabilità patrimoniale del debitore. Con il d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122 recante disposizioni per la tutela dei diritti patrimoniali degli acquirenti di immobili da costruire, il legislatore ha decisamente rafforzato la tutela di un soggetto particolarmente «esposto» al rischio di non conseguire il bene promesso, e per realizzare questo scopo è ricorso a strumenti e tecniche proprie della tutela del consumatore, stabilendo l’obbligo per il costruttore di rilasciare una fideiussione a garanzia; obbligo il cui inadempimento è sanzionato con la nullità del contratto, rilevabile solo dall’acquirente. Il progetto di legge sul franchising in discussione in Parlamento ha concluso il suo iter ed ora l’affiliazione commerciale è disciplinata con regole specifiche dalla legge 6 maggio 2004, n. 129. Nel breve tempo corso dalla prima edizione del volume ad oggi sono stati varati, per limitarci naturalmente alle norme di più immediato interesse privatistico, il Codice delle assicurazioni private (d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209), che contiene la definizione di danno biologico, importante «categoria» di danno nata sul terreno dottrinario e giurisprudenziale; il Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42); il T.U. in materia di protezione del diritto d’autore (d.lgs. 16 marzo 2006, n. 140); il Codice della proprietà industriale (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30); il Codice dell’ambiente (d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152); provvedimenti tutti nei quali sono contenute importanti disposizioni, di cui si è dato conto nel testo, volte ad incrementare il ricorso a tecniche di tutela preventiva dell’illecito in grado di assicurare una protezione senza dubbio più efficace degli interessi lesi. Queste ed altre ancora le numerose e rilevanti modifiche ed integrazioni portate al sistema normativo del diritto privato dalle recenti riforme sopra indicate.

PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

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Nel dar conto di tali novità legislative si è cercato di non trascurare, accanto al momento descrittivo dell’istituto quello applicativo, prestando frequente attenzione a specifiche disposizioni normative ed attingendo indicazioni tratte dai più accreditati orientamenti della giurisprudenza. Continua così l’impegno che gli autori hanno speso nel progetto e nella esecuzione dell’opera e lo sforzo di coniugare l’esperienza irrinunciabile della conoscenza teorica con l’approfondimento dell’esperienza concreta. Francesco Macioce Roma, giugno 2007

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PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE

Migliorate voi stessi ed altrui: è questo il primo intento ed è la suprema speranza d’ogni riforma, d’ogni mutamento sociale (I doveri dell’uomo, G. Mazzini, 23 Aprile 1860)

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PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

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PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

Questa terza edizione soddisfa esigenze che possono ricondursi a tre ordini di considerazioni. In primo luogo essa risponde all’esigenza, ordinaria e ricorrente nei Manuali istituzionali, di aggiornare il testo sia dando conto degli interventi del legislatore che hanno integrato o modificato alcune norme o ne hanno introdotte di nuove, sia riordinando motivazioni e prospettando rinnovate soluzioni laddove il mutamento di una convergenza dottrinale o la rivisitazione di una consuetudine giurisprudenziale lo rendano necessario; si pensi alla importante introduzione nel codice di consumo delle pratiche commerciali scorrette o alle novità introdotte dal c.d. decreto sulle liberalizzazioni; e per altro verso alle precisazioni in ordine alla natura della procura. In secondo luogo occorre considerare che l’accertamento della efficienza didattica del testo, verificata nel corso delle lezioni, dei seminari, dei colloqui con gli studenti, nei dialoghi di tutoraggio, nelle conversazioni con i colleghi, ha consentito di individuare luoghi in cui è parso opportuno illustrare con maggiore chiarezza alcuni passaggi; si pensi alle precisazioni svolte in tema di azione revocatoria, per esempio alla indicazione dei parametri alla stregua dei quali operare la valutazione del carattere pregiudizievole dell’atto di disposizione posto in essere dal debitore, presupposto essenziale per l’esperibilità del rimedio. In terzo ed ultimo luogo, non certo in ordine di importanza, debbo confessare che da tempo coltivo il disegno, sapientemente ispirato dal Curatore della collana, di arricchire il titolo II del libro IV concernente il contratto in generale con un nuovo capitolo dedicato ai singoli contratti. Tale proposito non va soltanto nella direzione di soddisfare l’ambizione e l’aspirazione, di carattere formale, alla completezza del trattato istituzionale (limitatamente, si intende, all’istituto del contratto); considerando peraltro che questo obiettivo – come noto – è stato sacrificato in nome del rispetto del calibrato rapporto fra unità di misura dell’apprendimento e materiali didattici, ed è stato surrogato attraverso scelte metodologiche di segno diverso che vanno dal sintetico completo compendio, alla trattazione limitata ad al-

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PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

cuni istituti, svolti con una maggiore ampiezza e selezionati in base a specifiche finalità didattiche. Tale proposito va invece e soprattutto in un’altra direzione, diretta a soddisfare l’esigenza di carattere didattico e culturale di affiancare alla disciplina generale del contratto, necessariamente teorica e di principio, un articolato territorio di riscontro concreto nel quale lo studente ed il lettore abbiano la possibilità di verificare l’applicazione delle regole generali alle singole fattispecie contrattuali, scoprire la ricchezza della disciplina delle singole figure, cogliere la tensione del rapporto fra parte generale e parte speciale dei contratti così ricco di implicazioni. La scelta di limitare la trattazione soltanto ad alcuni dei tipi contrattuali previsti dal codice, con la consapevole conseguenza di sacrificare numerose fattispecie contrattuali contemplate al di fuori del codice civile, in leggi successive (come ad es. il factoring o la subfornitura, o i contratti informatici) ma anche precedenti (come il contratto di edizione), ovvero previste dal codice ma generalmente escluse dal novero dei contratti “civilistici” (come i contratti bancari), ovvero ancora elaborate dalla prassi e consolidate nelle pronunce della giurisprudenza, non è casuale e non obbedisce solo alla evidente necessità formale di contenere l’utilizzo dello spazio. La predetta scelta di circoscrivere l’esame ai soli contratti previsti nel titolo III del libro IV del codice civile, e segnatamente a quelli di rilievo prettamente civilistico, corrisponde al contrario ad una opzione intenzionale e consapevole, che muove dal rilievo che tali contratti sono in grado di indicare, ciascuno con la originalità della propria “causa” e tutti nel complesso delle loro diverse funzioni, l’archetipo delle principali attività economiche che alimentano le relazioni di mercato. Il quadro, ricchissimo, delle fattispecie contrattuali che affiancano i tipi codicistici, incontro ineludibile dello studente e dello studioso che vogliano raggiungere una conoscenza completa ed adeguata delle tecniche contrattuali e delle risposte del diritto ai bisogni economici, resta consegnato alla completa ed analitica trattazione svolta nell’altro volume della Collana dedicato ai Contratti dell’impresa, a cura di Monticelli e Porcelli, nella Seconda edizione rivista e ampliata di quest’anno, nel quale trovano compiuta disamina sia i numerosi contratti extra codicem (contratti della pubblicità, contratti informatici, contratti della p.a.) sia alcuni contratti pur previsti dal titolo III (come la vendita, o l’appalto o la somministrazione) frequentemente utilizzati nell’esercizio di una impresa ed in questa prospettiva esaminati. La centralità del ruolo ricoperto dai contratti compresi nel titolo III del libro IV del codice, nell’ambito del più ampio quadro delle fattispecie contrattuali che hanno cittadinanza nel nostro ordinamento, risiede e si coglie – come già accennato – nella capacità delle norme che disciplinano tali con-

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tratti di interpretare le funzioni fondamentali cui tutti gli altri, diversi, nuovi schemi contrattuali assolvono e che a quelli finiscono inevitabilmente per rapportarsi (si pensi, solo per fare qualche esempio, alle relazioni fra leasing e contratto di locazione, fra factoring e cessione del credito). A dispetto della feconda ed inesauribile fantasia del mercato, i contratti del codice civile continuano ad evocare gli antichi schemi contrattuali, ad appropriarsi di fondamentali contenuti causali; essi fondano la loro vitalità su una “sufficienza aperta” che conferisce loro una sorta di immortalità giuridica. Nella disegnata relazione fra i principali contratti del codice civile e l’ampio orizzonte delle numerose, tendenzialmente infinite, fattispecie contrattuali che il nostro ordinamento conosce e conoscerà in futuro, si coglie un momento del fondamentale dialogo fra il vecchio e il nuovo, dialogo che va ben oltre il diritto privato, in cui il moderno si innesta saldamente e con profitto sulle nervature dell’antico. Francesco Macioce Roma, ottobre 2013

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PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

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L’opera del legislatore non è ancora completa quando si sia limitato a rendere il popolo tranquillo. Persino nel caso in cui tale popolo sia contento, rimane ancora molto da fare. Bisogna che le istituzioni completino l’educazione morale dei cittadini. Rispettandone i diritti individuali, avendo riguardo alla loro indipendenza, evitando di disturbare le occupazioni, devono tuttavia consacrarne l’influenza sulla cosa pubblica, chiamarli a concorrere con le loro risoluzioni e i loro suffragi all’esercizio del potere, garantire loro un diritto di controllo e di sorveglianza tramite la manifestazione delle loro opinioni e, formandoli in tal modo, attraverso la pratica, a queste elevate funzioni, dare loro ad un tempo e il desiderio e la facoltà di adempiervi. (La libertà degli antichi, paragonata a quella dei moderni, Benjamin Constant)

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PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

PREFAZIONE ALLA QUARTA EDIZIONE

La prefazione a questa quarta edizione del Manuale non può non muovere dalla testimonianza di amicizia e di stima che sento di dover riservare alla memoria del Prof. Mario Nuzzo, con il quale il sottoscritto – insieme ad altri amici e colleghi – ha condiviso l’iniziativa di realizzare un Manuale modulare di diritto privato. Mario Nuzzo ne è stato apprezzato coordinatore. La sua prematura scomparsa ha lasciato un vuoto non facilmente riparabile nella comunità scientifica e accademica. Sono convinto che il migliore tributo che possa riconoscersi oggi al ricordo di Mario Nuzzo è proprio l’impegno degli Autori a mantenere in vita questa felice intuizione, aggiornando i Manuali perché siano al passo con i tempi. È con questo spirito che vede luce la quarta edizione del Modulo “L’obbligazione e il contratto” sotto l’impulso di tre principali fattori. L’utilità di rivisitare quanto già scritto per valutare l’opportunità di interventi migliorativi della struttura e dei contenuti; la necessità di veri e propri aggiornamenti tecnici, imposti dalle novità legislative che nel tempo corso dalla precedente edizione ad oggi hanno interessato tutti i settori del diritto privato e in particolare il libro quarto del codice civile; infine l’opportunità, della quale molto si era parlato con il Coordinatore, di arricchire i manuali proponendo ai lettori saggi scelti di giurisprudenza su alcuni argomenti trattati nei volumi. Per questo Modulo si era pensato di corredare ciascun contratto tipo di una sentenza, preferibilmente di Cassazione, sul presupposto che la giurisprudenza di legittimità consente una più completa ricostruzione della vicenda processuale e rende più esplicito e manifesto il principio di diritto regolatore della controversia. Si era ritenuta l’opportunità di una breve introduzione dei fatti di causa, di qualche nota di inquadramento istituzionale, prima di lasciare “voce” al Giudice attraverso la trascrizione del testo della decisione, omettendone i passaggi meno funzionali a quanto preme evidenziare. Così ho fatto. La speranza è, come sempre, di non aver mancato l’obiettivo di mantenere attivo un servizio di informazione e formazione istituzionale che sappia ri-

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PREFAZIONE ALLA QUARTA EDIZIONE

spondere alle esigenze specifiche della comunità studentesca, senza trascurare quelle degli operatori del diritto, cercando di realizzare un prodotto nuovo, essenziale ma completo, qualcosa di meno di una Monografia sui singoli temi affrontati, ma anche qualcosa di più di una semplice “Parte” di un Manuale unico. Francesco Macioce Maggio 2021

Obligatio est iuris vinculum, quo necessitate adstringimur, alicuius solvendae rei secundum nostrae civitatis iura (Iustiniani Institutiones 3, 12)

Parte Prima

L’OBBLIGAZIONE

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L’OBBLIGAZIONE

IL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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Capitolo Primo

IL RAPPORTO OBBLIGATORIO SEZIONE I: NOZIONI GENERALI 1. 2. 3. 4. 5.

L’obbligazione nell’ambito della categoria del dovere giuridico L’interesse del creditore Il credito come valore patrimoniale I caratteri della obbligazione. Il vincolo e la coercibilità L’obbligazione naturale

SEZIONE II: I SOGGETTI 6. 7.

I criteri di individuazione Le obbligazioni con pluralità di soggetti. Obbligazioni solidali e parziarie, divisibili e indivisibili 8. Le vicende modificative dei soggetti dell’obbligazione: generalità 9. Cessione del credito e factoring. Surrogazione 10. Delegazione di pagamento e delegazione di debito. Espromissione. Accollo SEZIONE III: L’OGGETTO 11. 12. 13. 14. 15. 16.

Il carattere patrimoniale della prestazione e l’interesse del creditore Obbligazioni di dare, di fare e di non fare. Obbligazioni di mezzi e di risultato Le obbligazioni pecuniarie. Il principio nominalistico e l’introduzione dell’euro La misura degli interessi e l’usura La svalutazione monetaria. I danni nelle obbligazioni pecuniarie Le obbligazioni alternative

SEZIONE IV: LE FONTI 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25.

La nozione Il contratto Il fatto illecito Le altre principali fonti delle obbligazioni. Promessa di pagamento e ricognizione di debito I titoli di credito. L’assegno e la cambiale La promessa al pubblico La gestione di affari altrui Il pagamento dell’indebito L’arricchimento senza causa

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L’OBBLIGAZIONE

IL RAPPORTO OBBLIGATORIO

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SEZIONE I: NOZIONI GENERALI 1. L’obbligazione nell’ambito della categoria del dovere giuridico Il concetto di rapporto giuridico, e cioè di relazione fra gli uomini (soggetti di diritto) rilevante per l’ordinamento giuridico, costituisce uno strumento generale del diritto idoneo a descrivere, in termini differenziati, il modo di operare delle diverse situazioni soggettive di potere o di dovere che danno veste giuridica alle posizioni dei soggetti di tale rapporto. Peraltro, il territorio in assoluto più adeguato per la configurazione della figura del rapporto è certamente quello della obbligazione ove, per la presenza di questa, il rapporto assume la denominazione di rapporto obbligatorio. Inoltre il rapporto obbligatorio, e dunque l’obbligazione, costituisce uno strumento che spesso si affianca agli altri rapporti giuridici, quelli ad es. costruiti sulle situazioni c.d. esistenziali, o proprietarie o possessorie o di garanzia, agevolandone l’attuazione (si pensi agli obblighi alimentari, funzionali alla realizzazione dei doveri di solidarietà familiare; ovvero ai numerosi vincoli che circondano le situazioni proprietarie, alcuni dei quali assumono vera e propria conformazione di obbligo: ad es. nei confronti del Comune). Si intende, pertanto, come il concetto di obbligazione sia saldamente ancorato a quello più generale di rapporto nel cui ambito, pertanto, deve essere studiato. Tale vocazione dell’obbligazione a porsi come momento fondamentale e unificante delle situazioni soggettive e del rapporto giuridico, ha certamente contribuito a quel processo che – nell’ambito dei diritti patrimoniali, che in particolare qui interessano in quanto è ad essi che l’obbligazione per sua natura si riferisce – ha condotto ad una attenuazione della distinzione tra diritti reali e diritti di credito accreditando rifondazioni di tali categorie su basi diverse da quelle tradizionali (v. vol. 4 di prossima pubblicazione). Tuttavia, una distinzione che, avendo riguardo alla struttura e al contenuto dei diritti patrimoniali, intenda ritagliare all’interno di questa categoria i contorni della obbligazione, può utilmente muovere dalla considerazione che le situazioni giuridiche soggettive attive – al contrario, come vedremo, di quelle passive – attribuiscono al soggetto attivo del rapporto giuridico il potere di

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L’OBBLIGAZIONE

trarre da un bene della vita, che la norma gli riconosce, tutte le utilità necessarie per il soddisfacimento del suo interesse. Ora, è agevole constatare che la posizione del soggetto rispetto a un bene può esprimersi in una situazione di appartenenza, dando luogo ad un interesse alla conservazione organizzato intorno ai concetti di disposizione e di godimento del diritto, ovvero in una situazione di non appartenenza così da generare un interesse al conseguimento del bene stesso. Tale distinzione è ancora valida e utile perché consente senza dubbio di riportare l’obbligazione alla seconda delle indicate situazioni e cioè a quelle vicende poste a tutela di un interesse al conseguimento di un bene di cui il soggetto non ha la disponibilità. Tale interesse, allorché riveste rango di diritto soggettivo (cfr. vol. 1, p. 69, 1a serie) ed è assistito da una pretesa giuridica, dà luogo alla figura del diritto di credito, diritto di natura relativa, opponibile – di massima – nei confronti di un soggetto determinato la cui attività è, generalmente, indispensabile per il soddisfacimento dell’interesse stesso. La relazione che vede protagonisti da un lato, quello attivo, il titolare di un diritto di credito, quindi il creditore, e dall’altro, quello passivo, colui sul quale grava l’obbligo, cioè l’obbligazione, quindi l’obbligato – o debitore – costituisce il rapporto obbligatorio. La «saldatura» fra le posizioni rappresentate nel rapporto obbligatorio è la più intensa che possa registrarsi nell’ambito dei rapporti giuridicamente rilevanti: tale rapporto esprime una naturale tensione destinata a risolversi con la liberazione del debitore dal vincolo e – generalmente – con la soddisfazione dell’interesse del creditore.

2. L’interesse del creditore Strumento di realizzazione dell’interesse del creditore e ad un tempo punto di riferimento della sua pretesa assistita dal diritto, l’obbligazione esprime dunque una situazione necessitata e si ricollega alla categoria del dovere giuridico in senso lato. Nella prospettiva del rapporto il nome obbligazione individua dunque la situazione giuridica soggettiva di cui è portatore il soggetto passivo alla quale è correlata – come si è visto – la situazione giuridica soggettiva attiva che fa capo al creditore. Ciò che caratterizza l’obbligazione è dunque la inerenza dell’obbligo ad un soggetto determinato, il debitore, e la direzione di tale obbligo, destinato a soddisfare l’interesse precipuo di un altro soggetto, il creditore. In questa prospettiva l’interesse del creditore costituisce un elemento cen-

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trale del rapporto obbligatorio e funzionale alla sua realizzazione: l’obbligazione, invero, rappresenta lo strumento di soddisfacimento dell’interesse del creditore e deve (art. 1174) corrispondere ad un suo interesse.

3. Il credito come valore patrimoniale Non sempre la realizzazione della condotta, la scadenza del termine o l’esecuzione della prestazione, e dunque la soluzione della tensione del creditore al conseguimento del bene, costituiscono condizione della liberazione della ricchezza «imprigionata» nell’obbligazione e della soddisfazione concreta dell’interesse creditorio. In altre parole, l’adempimento dell’obbligo e l’estinzione dell’obbligazione possono non essere condizione indispensabile perché il creditore consegua utilità dal suo diritto. I diritti di opzione, i c.d. futures, i c.d. derivati di borsa, ma anche le obbligazioni di società o i titoli del debito pubblico, sono altrettanti esempi di obbligazioni destinate a circolare come entità patrimoniali autonome, che di per sé esprimono un valore, indipendentemente dall’esito «finale» del rapporto obbligatorio, e che spesso, anteriormente alla scadenza, creano valore aggiunto. Da questo punto di vista, prima che il rapporto obbligatorio trovi l’attuazione sua propria attraverso l’adempimento della prestazione, il creditore può trarre da esso utilità dirette, non dissimili da quelle che sono appannaggio del proprietario, collegate al diritto di credito non tanto come pretesa a conseguire un bene quanto come godimento delle utilità che tale diritto è in grado in sé e per sé di fornire.

4. I caratteri della obbligazione. Il vincolo e la coercibilità Nell’obbligo del debitore e nel diritto del creditore ricevono qualificazione giuridica i concetti di vincolo e di pretesa. Il vincolo che astringe il debitore e dunque la necessità che egli ponga in essere un determinato comportamento per il soddisfacimento dell’interesse del creditore, trova la sua giustificazione nella pretesa, che indica il diritto di «costringere» il debitore a tenere quel comportamento. Naturalmente la coercibilità della pretesa non equivale affatto alla coercizione del debitore. Il debitore resta infatti libero di non attuare il comportamento dovuto ma, in questo caso, dovrà soggiacere a tutte quelle conseguenze che la legge prevede per la mancata realizzazione di tale comportamento e, in particolare, al potere del creditore di agire in via esecutiva per

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conseguire, nonostante l’inerzia del debitore, ciò che gli è dovuto (cfr. vol. 1, p. 260, 1a serie). Se manca la coercibilità della pretesa non esiste obbligazione. Il vincolo che grava sul debitore, costituendo ragione sufficiente dell’attribuzione patrimoniale che l’obbligazione è destinata a realizzare in favore del creditore, spiega anche la stabilità dell’attribuzione stessa, cioè la definitiva acquisizione al patrimonio del creditore della prestazione eseguita dal debitore. Tale stabilità non è invece prospettabile rispetto a quelle prestazioni che un soggetto effettui in assenza di un vincolo giuridico e dunque di una obbligazione. In questo caso il soggetto che abbia effettuato la prestazione non dovuta, e quindi senza esservi tenuto ha interesse a recuperare la prestazione eseguita, a meno che non risulti che abbia inteso effettuare una liberalità. D’altro canto, il soggetto che, pur non avendovi diritto, ha ricevuto quella prestazione, non può contare sulla regola giuridica che assicura al creditore la stabilità e la definitività della prestazione ricevuta e che assiste soltanto le obbligazioni. Tale vicenda è disciplinata principalmente dall’art. 2033 che, nell’ipotesi descritta, attribuisce a chi ha effettuato la prestazione non dovuta, il diritto di ripetere cioè di chiedere la restituzione della prestazione effettuata. Dalla esecuzione di tale prestazione, che il legislatore con espressione esemplificativa chiama «pagamento dell’indebito», nasce il diritto di credito di chi ha pagato e l’obbligo di restituire di chi ha ricevuto.

5. L’obbligazione naturale In una zona intermedia fra i comportamenti giuridicamente dovuti (c.d. obbligazioni civili in contrapposto a quelle naturali di cui qui si parla) e quelli non dovuti (dai quali nasce il diritto di ripetere e l’obbligo di restituire la prestazione che tuttavia si fosse eseguita) si collocano quelle prestazioni che – pur non essendo dovute – perché poste in essere in assenza di un vincolo giuridico e quindi di un’obbligazione, sono però caratterizzate da una rispondenza del comportamento del debitore ai doveri che la società civile indica come moralmente o socialmente vincolanti. L’ipotesi è disciplinata nell’art. 2034 secondo il quale stabilisce che, in tema di obbligazioni naturali «non è ammessa la ripetizione di quanto è stato spontaneamente prestato in esecuzione di doveri morali o sociali, salvo che la prestazione sia stata eseguita da un incapace. I doveri indicati dal comma precedente, e ogni altro per cui la legge non accorda azione ma esclude la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato, non producono altri effetti».

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Si tratta in sostanza di situazioni in cui chi ha interesse a ricevere la prestazione non ha azione per l’attuazione di tale interesse ma non è tenuto a restituire quanto ha ricevuto se l’altro spontaneamente la esegue. Si pensi, ad esempio, al convivente che effettui prestazioni di mantenimento in favore del partner non essendo a ciò tenuto in virtù di un obbligo giuridico, che presuppone la qualità di coniuge e dunque il matrimonio dal quale nascono reciproci diritti ed obblighi. Tuttavia la coscienza sociale avverte come doverosa la condotta del convivente economicamente più forte che mantenga il partner, cosicché sarebbe certo ripugnante accordare al primo azione di ripetizione una volta cessata la convivenza. Al riguardo, non ha rilievo che il solvens avverta o meno come moralmente vincolante la propria condotta, essendo sufficiente, affinché tale comportamento ricada sotto la disciplina dell’art. 2034, che la prestazione sia obiettivamente valutata come moralmente o socialmente dovuta in base al diffuso sentire nel contesto sociale quale storicamente determinato. Il fondamento tecnico della disciplina è nel fatto che se la prestazione viene spontaneamente effettuata in esecuzione di doveri morali o sociali, ciò è sufficiente nella valutazione del legislatore a giustificare l’acquisizione al patrimonio del creditore della prestazione eseguita dal debitore. Per indicare questa situazione parte della dottrina ha parlato di obbligazione imperfetta; come si è già detto il codice civile ricorre invece al termine “obbligazione naturale”, per sottolineare che la natura non positiva il dovere di eseguire la prestazione non trova fondamento in una norma giuridica, limitandosi questa a disciplinare le conseguenze della prestazione spontaneamente eseguita.

SEZIONE II: I SOGGETTI 6. I criteri di individuazione Soggetti del rapporto obbligatorio sono il creditore, titolare di una situazione giuridica soggettiva attiva, che si struttura come diritto relativo e in particolare come diritto di credito, e che ha natura di diritto soggettivo, di situazione cioè che, nell’ambito delle tutele assegnate dall’ordinamento agli interessi dell’uomo, riceve la protezione più estesa e più intensa (circa la tutela della posizione del creditore nei confronti di atti lesivi del suo diritto di credito provenienti da soggetti diversi dal debitore, in base all’art. 2043: v. vol. 4,

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1a serie); ed il debitore, sul quale grava una situazione giuridica soggettiva passiva, l’obbligo (o debito), correlata e speculare all’altra che spetta al creditore (cfr. vol. 1, p. 68, 1a serie). Il creditore – come si è visto – è titolare di una pretesa nei confronti del debitore e quest’ultimo è tenuto a porre in essere un certo comportamento al fine di soddisfare quella specifica pretesa. Tale obbligo di cooperazione del debitore è tuttavia così centrale nell’ambito del rapporto obbligatorio che il legislatore spesso indica l’intero rapporto con il termine obbligazione. Nel momento in cui nasce – nei modi che vedremo – l’obbligazione, i soggetti del rapporto obbligatorio, che ne costituiscono il presupposto soggettivo, sono sempre individuati o quanto meno individuabili. Può accadere infatti che i soggetti non siano ancora concretamente individuati ma che esistano peraltro tutti gli elementi idonei a consentirne in futuro la individuazione. È il caso, ad es., della promessa al pubblico, rispetto alla quale il creditore sarà individuato in base al verificarsi di una determinata situazione o al compimento di una certa azione (art. 1989); ovvero dei titoli di credito, per es. di un assegno bancario, in cui il creditore è determinato in base alla legittimazione a pretendere la prestazione incorporata nel documento, nelle forme prescritte dalla legge (art. 1992); ovvero ancora delle così dette obbligazioni reali nelle quali il debitore è individuato in relazione alla titolarità del diritto di proprietà o di un diritto reale di godimento (ad es. gli oneri condominiali gravano su colui che è proprietario della cosa). In realtà, a ben vedere, nel momento in cui il vincolo obbligatorio viene ad esistenza, e dunque nasce l’obbligazione, la persona del creditore è certamente nota: ed invero, nella promessa al pubblico la semplice promessa non fa nascere alcun vincolo, che – come vedremo – sorge invece soltanto quando il soggetto si trova nella situazione prevista dalla norma, e cioè quando diviene nota la persona del creditore (v. p. 31). Anche negli altri casi illustrati i soggetti, ancorché variabili, sono sempre determinati. Creditore è l’ultimo giratario del titolo, ovvero colui al quale è stata trasferita la situazione reale che importa anche il trasferimento della obbligazione: ed infatti si parla, a tal riguardo, di obbligazioni ambulatorie proprio per evidenziare la mutabilità dei soggetti. Un fenomeno di mutamento del soggetto del rapporto obbligatorio si ha in tutti i casi di successione nel credito e nel debito, nei quali un nuovo creditore o un nuovo debitore si sostituiscono a quelli originari (cfr. sez. II, parr. 8, 9, 10).

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7. Le obbligazioni con pluralità di soggetti. Obbligazioni solidali e parziarie, divisibili e indivisibili Nel rapporto obbligatorio i soggetti possono essere più d’uno: si possono dunque avere, più creditori o più debitori. Quando ciò avviene il modo di atteggiarsi della pretesa creditoria o del vincolo obbligatorio muta in relazione al carattere divisibile o indivisibile dell’obbligazione (rectius della prestazione). Se la prestazione è divisibile (ad es. un’obbligazione pecuniaria avente ad oggetto una somma di denaro) l’obbligazione può essere solidale o parziaria. Nell’obbligazione solidale si possono presentare due situazioni: se si è in presenza di più debitori, ciascuno di essi è tenuto all’adempimento per la totalità e l’adempimento di uno libera tutti gli altri (solidarietà passiva). In presenza di più creditori, ciascuno di questi potrà chiedere al debitore l’adempimento dell’intero e l’adempimento fatto ad uno dei creditori libera il debitore anche nei confronti degli altri (solidarietà attiva) (art. 1292). Si ha invece obbligazione parziaria quando ciascuno dei debitori è tenuto soltanto a pagare la sua parte di debito e ciascuno dei creditori può domandare il soddisfacimento del credito soltanto per la sua parte (art. 1314). Il carattere solidale o parziario dell’obbligazione dipende dalla legge o dalla volontà delle parti. L’art. 1294 c.c. stabilisce però che se dalla legge o dal titolo non risulta diversamente, in presenza di più debitori, l’obbligazione si presume solidale (sulla nozione di presunzione v. vol. 1, p. 270, 1a serie). Se la prestazione è indivisibile (art. 1316) (ad es. l’obbligazione di dare un’automobile ovvero di mettere in scena una rappresentazione teatrale) l’alternativa sopra descritta non può porsi, essendo evidentemente incompatibile il carattere indivisibile delle obbligazioni con la natura parziaria del vincolo obbligatorio: ne deriva che le obbligazioni indivisibili sono sempre regolate dalle norme che disciplinano le obbligazioni solidali (artt. 1292-1313) in quanto applicabili.

8. Le vicende modificative dei soggetti dell’obbligazione: generalità Si è detto in precedenza che i soggetti dell’obbligazione possono mutare: tale mutamento può dipendere dalla tecnica di individuazione di uno dei soggetti del rapporto predisposta dalla legge come avviene ad esempio nelle obbligazioni propter rem in cui obbligato è chi ha la titolarità di un diritto reale (v., ad es., art. 1104 c.c.), cosicché se la titolarità del diritto reale si trasferisce ad un altro soggetto con essa passa anche l’obbligazione accessoria che perciò si dice ambulatoria.

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La modificazione del soggetto può essere provocato altresì da fatti giuridicamente rilevanti (in genere da atti di volontà) che producono la sostituzione di taluno dei soggetti del rapporto obbligatorio. Si verifica in questa ipotesi un fenomeno di successione nel credito o nel debito. Un fatto di primaria e generale rilevanza che provoca tale fenomeno è costituito dalla successione mortis causa: diritti di credito ed obblighi che facevano capo ad una persona si trasmettono dopo la morte agli eredi o ai legatari secondo i criteri e le modalità della successione legittima o testamentaria, e circolano come elementi di quel patrimonio, come vera e propria ricchezza destinata a divenire attuale alla scadenza dell’obbligazione. Altri fatti, per lo più originati da una volontà negoziale, sono disciplinati dal codice civile negli artt. da 1260 a 1276. Le modificazioni che interessano il lato attivo del rapporto obbligatorio e cioè il creditore danno luogo ad una successione nel credito, quelle che invece riguardano il lato passivo, quindi il debitore, danno luogo ad una successione nel debito. In queste ipotesi un nuovo creditore o un nuovo debitore si sostituiscono, rispettivamente, al creditore e al debitore originari.

9. Cessione del credito e factoring. Surrogazione La principale figura di successione nel lato attivo del rapporto obbligatorio è la cessione dei crediti. Si tratta di un contratto fra creditore cedente e terzo cessionario, che realizza il trasferimento a quest’ultimo del diritto di credito, e che non richiede il consenso del debitore ceduto (art. 1260, primo comma). Tutti i crediti possono essere ceduti, purché non abbiano carattere personale e purché il trasferimento non sia vietato dalla legge ovvero escluso per volontà delle parti: in quest’ultimo caso il patto che esclude la cedibilità del credito è opponibile al cessionario soltanto se questi ne era a conoscenza al tempo della cessione (art. 1260, secondo comma). La cessione, di per sé, è uno schema astratto, nel senso che può non esprimere la causa, la ragione del trasferimento e quindi la sostanza dell’operazione economica che vi sottende. La legge prevede peraltro che la cessione possa avvenire a titolo oneroso ovvero gratuito: così, se a fronte della cessione viene pagato un corrispettivo si sarà in presenza di una vendita, mentre se la cessione avviene gratuitamente e per spirito di liberalità ricorrerà una donazione. Generalmente il cedente è tenuto a garantire al cessionario soltanto l’esistenza del credito e non anche la solvibilità del debitore ceduto: in tal caso la cessione si dice pro soluto. Tale garanzia è sempre dovuta, salvo patto con-

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trario, se la cessione è onerosa, mentre se la cessione è a titolo gratuito la garanzia stessa è dovuta in limiti più ristretti ed esattamente soltanto nei casi in cui la legge pone a carico del donante la garanzia per evizione (art. 1266). Il cedente può peraltro assumersi la garanzia della solvenza del debitore ed in questo caso la cessione si dice pro solvendo (art. 1267). L’effetto della cessione e cioè il trasferimento del diritto di credito si verifica sulla base del mero consenso espresso tra cedente e cessionario (si tratta quindi di un contratto consensuale a efficacia reale: v. p. 189 ss.) e – come osservato – non occorre per la perfezione dell’atto il consenso del debitore ceduto. La legge peraltro prevede la necessità che quest’ultimo sia informato della cessione affinché sappia a chi pagare. La conoscenza della cessione diviene quindi criterio per valutare l’efficacia della cessione sia nei confronti del debitore ceduto che nei confronti di altri soggetti ai quali sia stato ceduto lo stesso credito. Tale conoscenza si realizza attraverso la notificazione, cioè la comunicazione al debitore dell’avvenuta cessione, che ha l’effetto di rendergli opponibile la cessione stessa, cosicché il debitore che paghi al creditore originario dopo tale notificazione non è liberato dall’obbligo. La notificazione trova un equipollente nell’accettazione che il debitore faccia della cessione, ed il cessionario può sempre provare che il debitore che abbia effettuato il pagamento al cedente prima della notificazione o indipendentemente da questa, era a conoscenza della cessione, ed anche in tal caso egli non è liberato dall’obbligo (art. 1264). La notificazione – come si accennava – serve anche a disciplinare il conflitto fra più aventi diritto accordando la legge prevalenza alla cessione che sia stata per prima notificata al debitore (o da questi accettata) ancorché di data posteriore (art. 1265). La cessione di crediti pecuniari, a titolo oneroso fra imprenditori relativa a crediti di impresa, è espressamente disciplinata dalla legge 21 febbraio 1991, n. 52 ed è assoggettata ad una disciplina particolare. Possono formare oggetto di cessione crediti futuri e crediti in massa ed è previsto che il cedente garantisca, nei limiti del corrispettivo pattuito, la solvenza del debitore salvo che il cessionario non vi rinunci. Tale cessione riproduce lo schema di un contratto affermatosi nella prassi giuridica anglosassone con il nome di factoring, operazione che di regola realizza uno scopo di finanziamento del cedente ad opera del factor cessionario: quest’ultimo, infatti, sovente concede anticipazioni sui crediti ceduti, a seconda dei casi accollandosi il rischio dell’insolvenza del debitore ceduto o lasciandolo a carico del cliente. Successione nel credito può ancora aversi per effetto di surrogazione, cioè di sostituzione al creditore originario di un terzo soggetto, in conseguenza di vicende non riconducibili alla cessione dei crediti. Tale sostituzione può essere causata da fatti eterogenei e può derivare dalla volontà del creditore che,

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ricevendo il pagamento da un terzo può surrogarlo nei propri diritti (art. 1201); dalla volontà del debitore, che può surrogare nei diritti del creditore il mutuante dal quale abbia ottenuto la somma necessaria a pagare il debito (art. 1202); o dalla legge, a vantaggio dei soggetti indicati nell’art. 1203.

10. Delegazione di pagamento e delegazione di debito. Espromissione. Accollo Si ha successione nel debito nei casi di delegazione, di espromissione e di accollo. La delegazione può consistere in un ordine che un soggetto (delegante) dà ad un altro (delegato) di pagare ad un terzo soggetto (delegatario): ricorre in questo caso la figura della delegazione di pagamento (art. 1269). L’ordine può riguardare il pagamento di un debito che il delegante ha nei confronti del delegatario: in questo caso non si ha una vera e propria successione nel debito perché il delegato non si obbliga verso il delegatario e non nasce dunque tra tali soggetti nessuna obbligazione. Il delegato che accetti l’ordine e paghi al delegatario estingue il debito del delegante nei confronti del delegatario (c.d. rapporto di valuta) e la sua prestazione trova giustificazione nei rapporti correnti fra lui e il delegante (c.d. rapporto di provvista). Così il delegato può contemporaneamente estinguere un suo debito nei confronti del delegante; è quanto accade ad es. nell’ordine di bonifico bancario impartito dal titolare di un conto corrente bancario: la banca è tenuta ad accettare l’incarico, e attraverso il pagamento estinguerà, parzialmente, il suo debito nei confronti del cliente e conseguirà l’effetto di estinguere il debito di quest’ultimo nei confronti del terzo delegatario. Un vero e proprio fenomeno di successione può invece ricorrere nella delegazione di debito in cui «il debitore assegna al creditore un nuovo debitore il quale si obbliga verso il creditore» (art. 1268): in questo caso l’ordine non riguarda il pagamento ma la promessa di effettuarlo e dunque l’assunzione di un’obbligazione. Normalmente la delegazione è cumulativa, comporta cioè l’aggiunta di un nuovo debitore a quello originario cosicché quest’ultimo non è liberato dalla sua obbligazione: in questo caso non si ha trasferimento del debito ma nascita di una nuova obbligazione. La delegazione ha efficacia liberatoria, quando il creditore dichiari di liberare il debitore originario, si ha un fenomeno di successione nel debito, poiché il delegato subentra al debitore delegante. La delegazione può essere titolata o astratta, a seconda che le parti, nell’impartire l’ordine o nell’assumere l’obbligo, abbiano fatto o meno riferimento ad uno dei rapporti obbligatori preesistenti e sottostanti l’operazione eco-

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nomica (quello di valuta inerente ai rapporti fra debitore delegante e creditore delegatario e quello di provvista relativo ai rapporti fra debitore delegante e terzo delegato). La natura astratta o titolata della delegazione influisce sul regime delle eccezioni. In ogni caso il delegato può opporre al delegatario le eccezioni relative ai suoi rapporti con quest’ultimo; ma egli non può opporre al delegatario, qualora la delegazione sia astratta, nel significato sopra spiegato, né le eccezioni che avrebbe potuto opporre al delegante (fondate quindi sul rapporto di provvista) né quelle che il delegante avrebbe potuto opporre al delegatario (fondate quindi sul rapporto di valuta) salvo che entrambi tali rapporti siano nulli (art. 1271). Se invece la delegazione è titolata, il delegato potrà opporre tutte le eccezioni fondate sul rapporto o sui rapporti ai quali le parti abbiano fatto riferimento. Nell’espromissione la persona del debitore muta non in conseguenza di un ordine di quest’ultimo ma per effetto dell’iniziativa spontanea del terzo (espromittente) che assume verso il creditore (espromissario) il debito gravante sul debitore originario (espromesso). Anche l’espromissione può essere cumulativa o privativa a seconda che il terzo resti obbligato in solido col debitore originario ovvero che il creditore dichiari di volerlo liberare (art. 1272, primo comma). Anche qui, come nella delegazione, l’espromittente non può opporre al creditore le eccezioni relative ai suoi rapporti con il debitore originario e fondate dunque sul c.d. rapporto di provvista, ma – al contrario di quanto stabilito a proposito della delegazione – può opporre al creditore tutte le eccezioni che a questi avrebbe potuto opporre il debitore originario e fondate dunque sul rapporto di valuta (art. 1272, secondo e terzo comma). Infine, l’assunzione dell’obbligazione da parte del terzo può essere frutto di un accordo con il debitore; è quanto accade nell’accollo in cui il terzo (accollante) assume su di sé il debito del debitore originario (accollato) nei confronti del creditore (accollatario). L’accollo può avere mera rilevanza interna e limitare i suoi effetti al rapporto fra accollato e accollante, con la conseguenza che quest’ultimo rimane obbligato in solido con il debitore originario (art. 1273, terzo comma). Se il creditore aderisce alla convenzione, l’accollo ha rilevanza esterna ed è riconducibile allo schema del contratto a favore di terzo (art. 1411: v. p. 179), cosicché il creditore accollatario è nella medesima situazione in cui si trova il beneficiario di una stipulazione in suo favore (art. 1273, primo comma). Anche in questo caso il creditore può contare sulla responsabilità solidale dell’accollante e dell’accollato (accollo cumulativo) e soltanto una sua espressa dichiarazione può importare la liberazione del debitore originario (accollo privativo) (art. 1273, secondo comma).

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L’accollante può sempre opporre al creditore le eccezioni che avrebbe potuto sollevare il debitore originario (rapporto di valuta) oltre a quelle nascenti dal contratto di accollo (art. 1273, ultimo comma).

SEZIONE III: L’OGGETTO 11. Il carattere patrimoniale della prestazione e l’interesse del creditore Il comportamento che il debitore è obbligato a tenere costituisce la prestazione che forma oggetto della obbligazione. La prestazione deve avere carattere patrimoniale, essere cioè suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse del creditore anche non patrimoniale (art. 1174). L’indice della patrimonialità si traduce in genere nella espressione monetaria del valore economico della prestazione medesima, e deve essere apprezzato come tale dalle parti all’interno del rapporto. Esso costituisce un requisito obiettivo della prestazione ed è necessario che corrisponda ad una valutazione condivisa dalla generalità dei consociati in un dato ambiente giuridicosociale, i quali devono essere disposti a sopportare un sacrificio economico per godere i vantaggi di quella prestazione: la previsione di un corrispettivo costituisce un indice che le parti hanno voluto assoggettare il rapporto al diritto e dar vita ad un obbligo giuridico. Tale regola non è inficiata dalla eventuale natura non patrimoniale dell’interesse del creditore (per es. di carattere culturale) perfettamente compatibile con la patrimonialità della prestazione (ad es. prezzo del biglietto per assistere ad una manifestazione teatrale). Il carattere patrimoniale della prestazione consente di instaurare un significativo collegamento dell’obbligazione alla figura del contratto che – come vedremo – postula il riferimento ad un rapporto giuridico patrimoniale.

12. Obbligazioni di dare, di fare e di non fare. Obbligazioni di mezzi e di risultato La diversa natura della prestazione dovuta fonda e giustifica una ricca articolazione della figura della obbligazione in distinte categorie alle quali fanno spesso riscontro peculiari discipline (cfr. vol. 1, 1a serie).

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Si distinguono così obbligazioni di dare, di fare e di non fare. Non sempre l’obbligazione di dare è relativa alla consegna di una cosa determinata (obbligazioni specifiche); talora la prestazione di dare si riferisce ad una cosa determinata solo nel genere (obbligazioni generiche: art. 1178). Come vedremo, la distinzione rileva soprattutto con riguardo al momento in cui la proprietà della cosa si trasferisce al creditore: nel primo caso è generalmente sufficiente il consenso, nel secondo non è sufficiente la manifestazione di volontà ma occorre un’ulteriore attività diretta ad individuare la prestazione separandola dal genere. Tale distinzione rileva – come vedremo – anche in materia di inadempimento: le cause che giustificano o escludono l’inadempimento sono valutate con maggior rigore rispetto alle obbligazioni generiche poiché genus numquam perit ed il debitore è potenzialmente sempre in grado di procurarsi la prestazione dovuta. D’altro canto le obbligazioni di dare una cosa specifica sono sempre accompagnate da quella di custodirla e ciò costituisce, per alcuni versi, una intensificazione dei doveri di diligenza e degli obblighi di protezione che gravano sul debitore di una prestazione determinata (art. 1177). Nell’ambito delle obbligazioni di fare trova spazio la distinzione fra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato. Nelle prime la prestazione dovuta si identifica e si esaurisce nell’attività posta in essere dal debitore, nelle seconde la prestazione coincide invece con il risultato. Costituisce, ad es., obbligazione di mezzi quella dell’avvocato che si obbliga a fornire la prestazione professionale della assistenza o della difesa in giudizio, ma che non può assicurare l’esito favorevole della causa; è invece obbligazione di risultato quella dell’artigiano che, ad es., abbia ricevuto l’incarico di incorniciare un quadro. A tale distinzione corrisponde una diversa valutazione della condotta adempiente ed una corrispondente differente disciplina dell’inadempimento: nelle obbligazioni di mezzi, infatti, la diligenza del debitore esaurisce lo sforzo dovuto per realizzare l’interesse del creditore e lo pone al riparo dalle conseguenze dell’inadempimento anche se tale interesse rimane insoddisfatto; nelle obbligazioni di risultato l’adempimento si identifica con il conseguimento della utilità promessa ed il debitore per potersi liberare dal vincolo ha l’onere di fornire la prova rigorosa e difficile della impossibilità oggettiva del mancato raggiungimento del risultato, dovuta peraltro ad eventi estranei alla sua sfera di controllo (v. p. 56).

13. Le obbligazioni pecuniarie. Il principio nominalistico e l’introduzione dell’euro Tra le obbligazioni di dare si colloca una importantissima categoria di obbligazioni, quelle pecuniarie che si caratterizzano per avere ad oggetto, come

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res che il debitore è tenuto a dare, un bene del tutto peculiare e distinto dagli altri beni, cioè il danaro. Questo infatti costituisce unità di misura del valore di tutti gli altri beni, nonché mezzo di scambio di essi; inoltre il danaro rappresenta lo strumento ordinario di assegnazione di valore a qualsiasi genere di danno. Ciò spiega la tradizionale importanza di questo tipo di obbligazione, la sua centralità nell’ambito della disciplina legislativa (artt. 1277 ss.) e la sua dilagante diffusione nell’economia moderna. L’adempimento di una obbligazione pecuniaria si dice pagamento. I debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il valore nominale del debito (è cioè necessario e sufficiente che la quantità di moneta che deve essere data alla scadenza sia quella espressa al momento del sorgere dell’obbligazione, restando indifferenti i mutamenti di valore che si siano verificati nel tempo corrente fra il sorgere del vincolo e la sua esecuzione). Tali regole sono espressione del c.d. principio nominalistico, nei suoi profili di disciplina della moneta come mezzo di pagamento, nonché come unità contabile e indice di valore. La regola esposta per cui i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al momento del pagamento vale anche per i debiti espressi in moneta diversa dall’euro (art. 1278), a meno che il titolo della obbligazione non rechi la clausola «effettivo» (art. 1279). Al fine di prevenire l’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio la legge 5 luglio 1991, n. 197 prescriveva, per i pagamenti superiori a venti milioni di lire (pari ad euro 10.329,00) il necessario ricorso ad intermediari abilitati ovvero a particolari mezzi di pagamento come l’assegno bancario o circolare; il d.lgs. 21 novembre 2007, n. 23, ha abbassato tale limite ad euro 1.000,00. Inoltre, a partire dal 1° gennaio 2002 la lira è stata sostituita dall’euro che attualmente è nel nostro Stato, come in tutti gli altri Paesi aderenti alla Unione Europea (ma non ancora per quelli che hanno aderito nel primo semestre del 2004), la moneta avente corso legale: il legislatore nazionale (legge 17 dicembre 1997, n. 433 e d.lgs. 24 giugno 1998, n. 213) ha adottato il principio della continuità delle obbligazioni pecuniarie sorte nella vigenza della vecchia moneta, che conservano immutato il loro contenuto, nonché la conversione automatica dei valori espressi in lire nella nuova moneta secondo un rapporto di cambio fisso pari – come è noto – a 1936,27 lire per unità di euro. L’art. 49 del d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231 (normativa antiriciclaggio), come modificato dall’art. 1, commi da 898 a 904, della legge 28 dicembre 2015 (c.d. legge di stabilità), ha introdotto limitazioni all’uso del contante statuen-

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do che, con decorrenza 1° gennaio 2016, “è vietato il trasferimento di danaro contante o di libretti di deposito bancari o postali al portatore o di titoli al portatore in euro o valuta estera, effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi, quando il valore oggetto di trasferimento, è complessivamente pari o superiore a euro tremila”. Il recente d.lgs. n. 218 del 2017 ha recepito la direttiva 2015/2366/UE e disciplinato i servizi di pagamento nel mercato interno. La nuova legge ha ampliato la tutela dei correntisti in caso di responsabilità per pagamenti non autorizzati (c.d. “phishing” cioè utilizzo abusivo da parte di terzi delle credenziali di accesso ai conti correnti mediante l’invio di mail o messaggi ingannevoli); infatti, ove sia riscontrabile una corresponsabilità della banca, è stata sensibilmente ridotta la franchigia, al di sotto della quale non è previsto alcun indennizzo da parte dell’istituto di credito. Inoltre è stato previsto un tetto massimo per le commissioni interbancarie applicate alle operazioni di pagamento con carte di credito e debito, con l’evidente obiettivo di promuovere l’utilizzo delle carte, tendenza di recente raccolta anche dalla legislazione dell’emergenza che ha introdotto il c.d. cashback, iniziativa messa in campo dal Governo per incentivare i pagamenti non in contante attraverso un sistema di restituzione in denaro di una percentuale di quanto pagato cashless, nell’arco di un semestre. Il principio nominalistico, nel suo aspetto relativo alla moneta come unità di credito, non ha carattere inderogabile ed esistono nel sistema correttivi diretti a mitigarne il rigore. Una prima eccezione al principio nominalistico deriva dalla natura del debito oggetto della obbligazione pecuniaria. Tale principio, infatti, trova rigorosa applicazione con riguardo ai debiti c.d. di valuta che vengono individuati attraverso una certa quantità di moneta. Nei debiti c.d. di valore, invece, la prestazione del debitore è diretta ad assicurare al creditore l’attribuzione di un valore. Il debito di valore può essere tale dal suo nascere (così l’obbligo di risarcimento del danno) ovvero può subentrare al debito di valuta (per es. nel caso in cui il debitore ritardi la prestazione dovuta): in entrambi i casi la quantità di danaro non è più idonea ad esprimere il valore del bene andato perduto ovvero promesso, cosicché per conservare tale corrispondenza è necessario che la prestazione pecuniaria sia adeguata al valore di scambio, che assicuri cioè al creditore l’acquisto di beni di valore equivalente a quelli che avrebbe potuto acquisire con la quantità nominale di danaro al momento dell’illecito o al tempo della scadenza dell’obbligazione. Nei casi indicati il debito di valore ha fonte legale: tanto nel caso di risarcimento del danno (artt. 1218 e 2043) tanto in quello di ritardo nell’adempimento (art. 1224), la necessità di adeguare il valore nominale della prestazio-

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ne al valore di scambio al momento del pagamento trova infatti previsione e disciplina nella legge. Il debito di valore può avere altresì fonte convenzionale. Ciò si verifica tutte le volte che le parti inseriscono nel contratto clausole di riferimento al valore della prestazione, c.d. clausole oro, o clausole di indicizzazione al costo della vita, che conseguono il risultato di adeguare il debito pecuniario ai parametri di valore prescelti.

14. La misura degli interessi e l’usura Il correttivo più incisivo e anche più diffuso al rigore del principio nominalistico è costituito dalla disciplina degli interessi che trovano disciplina e nella legge e nella volontà delle parti. In ogni caso la nozione di interesse si fonda sulla idea che il danaro sia un bene fruttifero; invero l’art. 820 definisce frutti civili quelli che «si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia». L’interesse dà inoltre sempre luogo ad una obbligazione accessoria, anch’essa di natura pecuniaria, che si aggiunge a quella principale. I crediti liquidi ed esigibili producono «di pieno diritto» interessi c.d. corrispettivi (art. 1282) che rappresentano il corrispettivo del mancato godimento del denaro da parte del creditore (sono tali per es. gli interessi concordati fra le parti sui depositi bancari); gli interessi compensativi sono dovuti anche su crediti non esigibili, qualora la controprestazione sia stata eseguita ed il debitore sia stato posto in condizioni di godere «anticipatamente» della cosa (ad es. gli interessi che decorrono sul prezzo, ancorché non ancora esigibile, qualora la cosa venduta e consegnata al compratore produca frutti o altri proventi: art. 1499). Gli interessi moratori trovano causa e fondamento nel ritardo del debitore nell’eseguire la prestazione dovuta e sono dovuti nella misura legale o in quella convenzionalmente stabilita dalle parti. Tali interessi svolgono una funzione risarcitoria, come è dimostrato dalla stesa rubrica della norma che li disciplina, intitolata «danni nelle obbligazioni pecuniarie» (art. 1224). I limiti che le parti incontrano nel determinare convenzionalmente il saggio degli interessi (variabile e variato numerose volte nel tempo, ed ora fissato con d.m. 12 dicembre 2011 nel 2,5 per cento annuo: v. art. 1284), sono di ordine formale e sostanziale. L’art. 1284, terzo comma, stabilisce infatti che il patto sugli interessi deve essere fatto in forma scritta, in difetto essendo dovuti gli interessi nella misura legale. Quanto ai limiti sostanziali, le parti non possono stabilire una misura degli interessi tali da poterli considerare usurari:

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la legge 7 marzo 1996, n. 108 ha definito tali i tassi che risultino sproporzionati rispetto alla prestazione della controparte, quando il debitore si trovi in condizioni di difficoltà economica e finanziaria. Tale sproporzione può essere liberamente apprezzata dal giudice che tuttavia deve tenere presente come valore di riferimento non vincolante di detta sproporzione il tasso medio praticato da istituti bancari e intermediari finanziari, trimestralmente rilevato dal Ministero del Tesoro, aumentato della metà; il superamento di tale limite consente comunque di qualificare l’interesse convenuto come usurario. Inoltre la legge 28 febbraio 2001, n. 24 ha precisato che tanto ai fini della configurazione del reato di usura quanto ai fini della disciplina del contratto di mutuo, sono da considerarsi usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento. Ulteriore limite posto alle parti nella determinazione degli interessi è il divieto dell’anatocismo, che consiste nella capitalizzazione degli interessi dovuti al fine di produrre nuovi interessi. Secondo l’art. 1283, infatti, gli interessi scaduti non producono interessi se non dal giorno della domanda o per effetto di apposita convenzione successiva alla scadenza e purché si tratti di interessi dovuti da almeno sei mesi. Per alcuni anni la prassi bancaria di capitalizzazione trimestrale degli interessi sui saldi dei conti correnti passivi è stata ritenuta valida considerando la relativa pattuizione intervenuta fra la Banca e il cliente alla stregua di un uso normativo che rendeva non applicabile la disciplina dell’art. 1283 c.c. Successivamente tale pattuizione è stata ricondotta all’uso negoziale (M. NUZZO, Introduzione alle scienze giuridiche, p. 23, 1a serie) e ritenuta pertanto nulla ai sensi della citata norma. L’art. 120 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, c.d. TUB, come modificato dal d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342 e dal d.l. 14 febbraio 2016, n. 18, convertito nella legge 8 aprile 2016, n. 49, ha attribuito al Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio il potere di stabilire le modalità e i criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni bancarie. Il CICR, con delibera 3 agosto 2016, n. 343, ha emanato le disposizioni attuative del citato art. 120 ponendo la parola fine al tema dell’anatocismo bancario. Per quanto riguarda le operazioni di raccolta del risparmio e di esercizio del credito l’art. 3 della predetta delibera stabilisce infatti che gli interessi debitori non possono produrre interessi, con la sola eccezione degli interessi di mora, e sono calcolati esclusivamente sulla sorte capitale in conformità di quanto stabilito nelle norme generali degli artt. 1194, 1234 e 1284 c.c.; per quanto attiene ai rapporti di conto corrente o di conto di pagamento lo stesso articolo prescrive che sia assicurata, nei confronti della clientela, la stessa pe-

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riodicità nel conteggio degli interessi sia debitori sia creditori, comunque non inferiore ad un anno.

15. La svalutazione monetaria. I danni nelle obbligazioni pecuniarie Un cenno a sé richiede la disciplina dei danni nelle obbligazioni pecuniarie. Stabilisce infatti l’art. 1224 che il debitore, a fronte del ritardo nel pagamento di un debito pecuniario, è tenuto dal giorno della mora a corrispondere gli interessi legali (c.d. interessi moratori) anche se questi non erano in precedenza dovuti ed anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno; ma se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura. Gli interessi moratori – come sopra accennato – hanno funzione risarcitoria e trovano giustificazione nella circostanza che il mancato godimento tempestivo del danaro, privando il creditore della liquidità, costituisce di per sé ragione di danno che viene sostanzialmente risarcito in via automatica. Tuttavia tale danno può non esaurire l’ambito del pregiudizio risentito dal creditore di una obbligazione pecuniaria per effetto dell’inadempimento o del ritardo: perciò il secondo comma della norma in esame assegna al creditore che dimostri di aver subito un danno maggiore, e che non abbia convenuto la misura degli interessi moratori, l’ulteriore risarcimento. Il danno ulteriore che il creditore può dimostrare di aver subito è per lo più riferito al fenomeno della inflazione della moneta ed identificato nel danno da svalutazione monetaria. La prova della quale il creditore è onerato consiste nel dimostrare che se egli avesse tempestivamente conseguito la disponibilità della somma dovuta, l’avrebbe impiegata in beni sottratti alla svalutazione. In un primo tempo la giurisprudenza, considerando la svalutazione come fatto notorio e quindi presumibile in via generale, aveva ritenuto tale ulteriore danno provato per il fatto stesso della svalutazione e dunque immanente al fenomeno del ritardo nell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie. Successivamente, tale affermazione è stata ridimensionata e ad una presunzione generale di danno si sono sostituite presunzioni personalizzate, operanti cioè con riferimento ad alcune categorie di creditori che, in ragione dell’attività esercitata, si presume avrebbero fatto un impiego del danaro al riparo dall’inflazione. Ne deriva che al creditore comune permane immutato l’onere specifico della prova di tale danno ulteriore.

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16. Le obbligazioni alternative L’adempimento esatto comprende l’intera prestazione ed anche tutte le prestazioni che costituiscono l’oggetto dell’obbligazione. Nelle obbligazioni alternative, invece, caratterizzate dalla presenza di una pluralità di prestazioni, il debitore si libera eseguendone soltanto una (art. 1285). Tipico esempio è il concorso a premi in cui il vincitore può scegliere, ad es., fra un personal computer e un televisore. La scelta, che normalmente spetta al debitore (art. 1286, primo comma) può consistere nella esecuzione di una delle prestazioni o in una dichiarazione: nel primo caso l’obbligazione si estingue, nel secondo si trasforma in obbligazione semplice (concentrazione). In ogni caso la legge tende a favorire l’esercizio del potere di scelta stabilendo decadenze a carico delle parti ed assegnando al giudice, qualora il potere sia attribuito ad un terzo e questo non lo eserciti, il potere di operare la scelta (art. 1287). L’esistenza di due prestazioni importa, in generale, un rafforzamento della tutela del creditore di fronte al rischio della impossibilità della prestazione. Infatti, se una delle prestazioni non poteva formare oggetto della obbligazione sin dal suo sorgere ovvero se diventa impossibile per causa non imputabile ad alcuna delle parti, l’obbligazione si considera semplice ed il debitore si libera eseguendo la prestazione rimasta possibile (art. 1288); se l’impossibilità riguarda entrambe le prestazioni l’obbligazione si estingue (art. 1290, primo comma). Se una delle prestazioni diviene impossibile per causa imputabile ad una delle parti, questa ne risponde in modo diverso a seconda del soggetto cui era stato attribuito il potere di scelta. In linea generale se l’impossibilità è a carico di chi ha il diritto di scelta costui perde tale diritto o è tenuto al risarcimento del danno; se l’impossibilità è invece a carico della parte che non ha il diritto di scelta, l’altra conserva la facoltà di scegliere la prestazione alternativa a quella divenuta impossibile, ovvero di esigere il risarcimento del danno (art. 1289). Con le obbligazioni alternative non vanno confuse le obbligazioni facoltative. In queste ultime la prestazione è unica ma il debitore ha facoltà di liberarsi effettuando una prestazione diversa: per es. un albergatore promette di sistemare il cliente in uno dei suoi alberghi di montagna, ma si riserva la facoltà di assegnargli una camera in un albergo del centro storico oppure in un residence sulla strada statale. L’obbligazione è semplice sin dall’inizio e la prestazione è una sola; la facoltà di prestare una cosa diversa è qui convenuta al momento del sorgere dell’obbligazione e ciò vale a tenere distinta l’obbligazione facoltativa dalla prestazione in luogo dell’adempimento (v. p. 40) in cui la

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prestazione sostitutiva è invece oggetto di un accordo successivo alla nascita del vincolo obbligatorio. Si comprende pertanto che in questo tipo di obbligazioni il rischio della impossibilità sopravvenuta non imputabile della prestazione, è disciplinato dalla regola generale (v. p. 56).

SEZIONE IV: LE FONTI 17. La nozione I soggetti – come vedremo – godono di ampia autonomia nel campo dei contratti, mentre di analogo potere non dispongono con riguardo alla figura della obbligazione. Il legislatore ha confermato infatti una lunga tradizione secondo la quale la legge conserva una sorta di monopolio nella individuazione dei fatti giuridici idonei a dar luogo ad un rapporto obbligatorio. Secondo l’art. 1173 sono fonti di obbligazioni il contratto, l’atto illecito e ogni altro atto o fatto idonei a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico. Le prime due figure costituiscono modelli astratti, nel senso che il legislatore si limita a descriverne i requisiti generali, dettando tuttavia presupposti e condizioni per la loro individuazione in concreto. Del contratto ci occuperemo ampiamente più avanti; sul fatto illecito occorre rinviare ad altro volume specificamente ad esso dedicato. Qui è pertanto sufficiente solo qualche cenno.

18. Il contratto Il legislatore descrive il contratto in generale individuandolo nell’accordo avente contenuto patrimoniale provvisto dei requisiti indicati nell’art. 1325, e tale figura pone a fondamento di tutti i contratti speciali disciplinati nel codice civile (per es., vendita, locazione, trasporto) o in leggi successive (per es., subfornitura, factoring, multiproprietà), nonché di tutti i contratti che, pur non contemplati da una norma, sono creati dalla volontà dei soggetti, purché diretti a perseguire interessi ritenuti dal legislatore meritevoli di tutela (es., leasing, franchising, sponsorizzazione) (art. 1323). Dal contratto sorgono numerose obbligazioni, alcune primarie e cioè intimamente collegate alla realizzazione della causa (ad es., obbligo di consegna-

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re la cosa ed obbligo di pagare il prezzo nel contratto di compravendita); altre secondarie e mutevoli, a seconda del tipo negoziale cui accedono. Così l’obbligazione di custodire contraddistingue i contratti che presuppongono la consegna o la restituzione di una cosa determinata. La recente disciplina della vendita di beni di consumo di cui agli artt. 128 ss. cod. cons., contempla una obbligazione centrale come quella diretta ad assicurare la conformità al contratto del bene venduto (art. 129 cod. cons.), che potrebbe definirsi transtipica, considerata l’applicabilità della citata normativa ad una serie di tipi negoziali diversi dalla vendita (ad esempio appalto) comunque finalizzati alla fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre (art. 128, primo comma, cod. cons.). Al contrario, secondari e specifici sono, ad es., l’obbligo del conduttore di dare avviso al locatore della necessità di eseguire le riparazioni che non sono a carico del conduttore (art. 1577); ovvero gli obblighi derivanti alle parti di un contratto di appalto per effetto delle variazioni apportate al progetto (artt. 1659, 1660, 1661).

19. Il fatto illecito I fatti illeciti saranno trattati nel capitolo successivo. Ci limitiamo qui a qualche osservazione generale che riteniamo utile per un corretto inquadramento del fatto illecito nell’ambito delle fonti delle obbligazioni. Come per il contratto, anche per il fatto illecito il legislatore ricorre ad una definizione di carattere generale nella quale si limita a disciplinare i requisiti della cosiddetta clausola di responsabilità civile descritta nell’art. 2043 individuandoli in un comportamento doloso o colposo che abbia provocato ad altri un danno che possa qualificarsi ingiusto. Si tratta di una norma che tutela il soggetto nei confronti di comportamenti altrui lesivi dei suoi diritti e tuttavia il legislatore non elenca, come invece in altri codici europei avviene, i diritti o i beni la cui lesione produce l’obbligo di risarcimento del danno. Per questa ragione il nostro sistema di responsabilità civile può ritenersi fondato su un modello di illecito atipico, in contrapposizione ad altri ordinamenti giuridici che invece individuano la tipologia delle situazioni giuridiche oggetto della lesione (ad esempio vita, salute, proprietà) ed adottano pertanto un sistema fondato sulla tipicità dell’illecito. L’opera di «selezione» dei danni risarcibili, affidata nei sistemi ad illecito tipico alla specifica menzione delle singole situazioni giuridiche considerate dalla norma, è svolta, nel nostro ordinamento ed in genere in quelli parimenti fondati sulla atipicità dell’illecito, dal requisito della ingiustizia del danno che, da una iniziale e rigorosa interpretazione che

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lo identificava con la lesione di diritti soggettivi assoluti, è venuto man mano a ricomprendere anche altre situazioni giuridiche soggettive (per esempio diritti di credito, aspettative). Dal fatto illecito non deriva quella pluralità di obbligazioni che abbiamo visto nascere dal contratto, ma un’unica obbligazione, quella risarcitoria, la quale peraltro può assumere varie forme (ad es., il ristoro monetario, la restituzione della cosa illecitamente sottratta, o la cessazione del fatto lesivo). L’obbligazione risarcitoria è una obbligazione di carattere generale che non è collegata in modo privilegiato ad alcuna delle fonti disegnate dall’art. 1173. Il risarcimento è infatti conseguenza dell’inadempimento di un’obbligazione sia di fonte contrattuale sia di fonte diversa, ed esso è misura generale che assiste la lesione di qualsiasi diritto. Con riguardo al territorio dell’obbligazione, il risarcimento, sia nella forma di equivalente monetario del danno che in quella di una sua riparazione specifica, costituisce una forma di conversione dell’obbligazione inadempiuta. L’inesecuzione di un contratto e il compimento di un atto illecito, in quanto fatti produttivi di obbligazioni risarcitorie, segnano e distinguono il territorio della responsabilità nel diritto privato che, in relazione alla fonte, si definisce come responsabilità contrattuale, a seconda che i fatti risarcibili presuppongano un contratto e la sua violazione, ovvero extracontrattuale (o aquiliana), qualora prescindano dalla preesistenza di qualsiasi rapporto contrattuale fra il danneggiante e il danneggiato e si manifestino nel contatto sociale espresso nei descritti termini della lesione di diritti che abbia causato un danno ingiusto.

20. Le altre principali fonti delle obbligazioni. Promessa di pagamento e ricognizione di debito La terza ed ultima categoria di fonti delle obbligazioni consiste, come accennato, negli altri atti o fatti idonei a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico. La categoria rappresenta una novità del codice del 1942 e segna il passaggio da un sistema rigido di elencazione delle fonti a un sistema aperto. L’ampiezza del riferimento normativo al parametro della conformità all’ordinamento giuridico, esclude la tassatività della formula, sebbene la conseguente atipicità di tale categoria debba essere spiegata perché diversa da quella che, come abbiamo visto, caratterizza sia il contratto che il fatto illecito. Con riguardo a queste ultime figure, infatti, l’atipicità si manifesta nella previsione di un modello generale di contratto, alla cui disciplina generale si

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rapportano anche i contratti atipici (art. 1323), ovvero nella previsione di una figura generale di illecito che consente di selezionare gli interessi tutelati attraverso la clausola del danno ingiusto. L’atipicità delle ulteriori fonti delle obbligazioni non si giova di un modello generale ma comporta che la formula legislativa non debba essere letta come limitata ai fatti o agli atti ai quali la legge espressamente riconnette il sorgere di un’obbligazione (promesse unilaterali, gestione di affari, pagamento dell’indebito, arricchimento senza causa), ma possa essere estesa a figure non espressamente previste dalla legge purché sia rispettato il limite della conformità all’ordinamento giuridico. Ne consegue che la ricognizione di tali fonti non può che aver luogo nell’area di esplicazione dell’autonomia privata e, in particolare, in una vicenda in senso lato volontaria e contrattuale. E invero, in questo ambito, si è posto il problema del carattere giuridico del vincolo con riferimento a rapporti sorti per motivi di cortesia (ad es. trasporto) ovvero originati da contatto sociale (come il caso del parcheggio di un’autovettura in un’area custodita) rispetto ai quali non è sufficiente la mancanza formale di un contratto e l’inesistenza di una volontà contrattuale per negare la nascita di un’obbligazione. Tra le principali fonti disciplinate dalla legge e diverse dal contratto e dal fatto illecito, assumono rilievo le promesse unilaterali che consistono in dichiarazioni di volontà provenienti da un soggetto e vincolanti per il promittente indipendentemente da qualsiasi partecipazione del destinatario della promessa. Vige al riguardo un principio di rigida tipicità legale sancito nell’art. 1987 che esclude che la promessa unilaterale di una prestazione possa produrre effetti obbligatori al di fuori dei casi ammessi dalla legge. Promessa di pagamento e ricognizione di debito sono regolate nella stessa disposizione (art. 1988) che le assoggetta al medesimo trattamento. Per spiegarne gli effetti occorre una breve premessa in tema di disciplina dell’onere della prova. L’art. 2697 intitolato all’onere della prova, detta invero una regola fondamentale in materia di tutela dei diritti che svolge un ruolo importante sia sul piano delle situazioni giuridiche che nell’ambito processuale (v. vol. 7, 1a serie). Tale norma, che forse più propriamente avrebbe potuto essere titolata criteri di ripartizione dell’onere della prova, stabilisce che colui che vuole far valere in giudizio un diritto deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento, mentre colui che intende sottrarsi alle conseguenze dell’accertamento di quel diritto ed eccepisce dunque l’inefficacia di tali fatti ovvero la loro modificazione od estinzione, deve provare i fatti sui quali la sua eccezione si fonda. Applicando questa regola alle fattispecie della promessa di un pagamento e della ricognizione di un debito, si avrebbe che colui al quale sia stata fatta la promessa o nei confronti del quale sia stato riconosciuto il debito, al fine

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di ottenere il pagamento della somma promessa (ma anche l’esecuzione di una prestazione non necessariamente pecuniaria) o del debito riconosciuto, debba provare il fatto costitutivo del proprio diritto e cioè non solo la promessa o il riconoscimento, che di per sé sono inidonei ad esprimere la ragione giustificativa del vincolo, ma anche il rapporto da cui la promessa o il riconoscimento traggono la loro giustificazione. Ad es. riconosco di doverti una certa somma di danaro quale compenso per le lezioni di pianoforte relative al passato mese di maggio 2004; prometto di pagarti una percentuale sul corrispettivo della vendita di un bene che ti incarico di alienare. Ebbene l’art. 1988 sottrae la promessa di pagamento e la ricognizione di debito a tale regola e dispensa il beneficiario della dichiarazione dal fornire la prova del rapporto fondamentale, che dunque viene ritenuto esistente attraverso il meccanismo delle presunzioni. Si tratta peraltro di una presunzione non assoluta ma relativa che può pertanto essere superata dalla prova, che il promittente o l’autore del riconoscimento riescano a dare, della mancanza del rapporto giustificativo (causale) oggetto della presunzione di legge. La norma finisce dunque per dettare una regola che ribalta, nel caso specifico, l’onere della prova, presumendo in favore del creditore i fatti che costui dovrebbe provare ed addossando al debitore il compito di fornire la prova di quelli contrari e cioè l’inesistenza del rapporto fondamentale.

21. I titoli di credito. L’assegno e la cambiale Un analogo trattamento «privilegiato» rispetto alla regola generale sull’onere della prova è riservato dalla legge a particolari promesse unilaterali di pagamento, i titoli di credito, disciplinati nel titolo V del libro IV del codice civile. La legge distingue titoli al portatore, in cui il diritto si trasferisce con la consegna del titolo e la legittimazione all’esercizio del diritto è collegata al possesso del titolo (art. 2003); titoli nominativi nei quali la legittimazione all’esercizio del diritto è connessa al possesso del titolo e alla intestazione a favore del possessore, ma tale intestazione ed il trasferimento del titolo sono soggetti a particolari requisiti formali (art. 2022); infine titoli all’ordine, nei quali la legittimazione all’esercizio del diritto è parimenti fondata sul possesso ma il trasferimento è reso snello e agevole dal sistema delle successive girate (cessioni del credito) che possono essere nominative ovvero in bianco, e in quest’ultimo caso la legittimazione spetta al suo portatore (art. 2009). Assegno e cambiale sono tra i titoli di credito più diffusi. Al riguardo, il limitato numero di eccezioni che il debitore può opporre al possessore del titolo e quindi la più facile realizzabilità della pretesa e la con-

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seguente più agevole circolazione del credito derivante dalla promessa, si spiegano con il fenomeno della c.d. cartolarizzazione del credito, in base al quale questo viene incorporato in un documento che acquista una sua autonomia ed è destinato a circolare solo attraverso il trasferimento del documento stesso. L’assegno bancario contiene l’ordine che il traente impartisce ad una banca perché paghi una somma al soggetto indicato nel titolo, secondo uno schema che richiama la delegazione di pagamento. L’ordine sarà giustificato dalla giacenza di una provvista a disposizione del traente presso la banca, dovuta, ad esempio, all’esistenza di un rapporto di conto corrente. L’assegno circolare contiene invece una promessa di pagamento effettuata dalla banca: la certezza dell’esistenza di una provvista, che fa capo al soggetto debitore emittente del titolo (banca), rende questo mezzo di pagamento particolarmente affidabile. La cambiale può assumere la forma del pagherò cambiario o della tratta. Il primo consiste nella promessa di pagamento di una determinata somma effettuata dall’emittente del titolo (debitore cambiario) al creditore che risulta dal titolo stesso, ad una certa scadenza. La cambiale tratta consiste invece nell’ordine che il traente rivolge al trattario di pagare una somma di denaro ad un terzo prenditore. La tratta, al pari della delegazione, di cui ricalca lo schema, è suscettibile di accettazione da parte del trattario che, in tal caso, rimane obbligato verso il prenditore; in difetto di accettazione il creditore può contare esclusivamente sull’obbligazione assunta dal traente.

22. La promessa al pubblico Fonte di obbligazione ai sensi dell’art. 1989 è la promessa, rivolta al pubblico, di una prestazione a favore di chi si trovi in una determinata situazione o compia una determinata azione (ad esempio in favore di chi ritroverà un oggetto smarrito ovvero in favore di colui che redigerà il miglior progetto per la soluzione di problemi tecnici). Secondo il dettato della norma la promessa è vincolante non appena resa pubblica, per esempio attraverso la stampa o la televisione: invero tale promessa non può essere più revocata una volta resa pubblica, a meno che non ricorra una giusta causa e sempre che la revoca sia fatta in forma equipollente alla promessa (art. 1990, primo comma). Pertanto, in presenza di una giusta causa, la promessa al pubblico è relativamente revocabile. Tale, sia pur limitata, revocabilità esclude il carattere vincolante della promessa, invero incompatibile con la facoltà di revoca. Quando però la situazione prevista nella promessa si è già verificata o l’azione è già stata compiuta, la possibilità di revoca viene in ogni caso meno, anche in presenza di una giusta causa, e la promessa diviene dunque assolu-

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tamente irrevocabile (art. 1990, secondo comma). È allora evidente che solo in questo momento può dirsi sorta l’obbligazione, la quale presuppone la assoluta stabilità del vincolo e dunque la assoluta irrevocabilità della promessa.

23. La gestione di affari altrui A nessuno è dato occuparsi degli affari altrui senza il consenso dell’interessato e tuttavia, nella ricorrenza di determinati presupposti, la legge consente per fini di solidarietà sociale ad un soggetto di ingerirsi nella altrui sfera giuridica, purché l’interessato non sia in grado di provvedere da sé (ad esempio il proprietario di un immobile è assente e necessitano urgenti opere di manutenzione del solaio). Perché si abbia gestione di affari altrui disciplinata negli artt. 2028 ss. è necessario che il gestore non abbia ricevuto alcun incarico dall’interessato, che agisca in assenza di qualsiasi vincolo obbligatorio e che inoltre intervenga scientemente e cioè con la consapevolezza di curare un affare altrui. Sebbene l’oggetto della gestione possa consistere tanto in un’attività materiale che in una attività giuridica (compimento di negozi) l’art. 2029 stabilisce che il gestore deve avere la capacità di porre in essere contratti: ed invero la legge attribuisce al gestore un potere di rappresentanza diretta. La gestione di affari produce una pluralità di obbligazioni sia nei confronti del gestore che nei confronti del gerito. Il gestore che abbia utilmente iniziato la gestione è infatti tenuto a continuarla e a condurla a termine (art. 2028) e tale obbligo di continuazione sussiste anche se l’interessato muore prima che l’affare sia concluso, fin tanto che l’erede non possa provvedervi direttamente. Inoltre il gestore è soggetto alle stesse obbligazioni che deriverebbero da un mandato (art. 2030, primo comma) e cioè dal contratto con il quale una parte si obbliga a compiere atti giuridici per conto dell’altra (art. 1703: v. p. 179 e amplius, vol. 3, 1a serie). La gestione va pertanto condotta con la diligenza richiesta dall’art. 1710 per l’esecuzione del mandato; tuttavia il giudice, in considerazione delle particolari circostanze che hanno indotto il gestore ad assumere la gestione, ha facoltà di moderare il risarcimento dei danni ai quali il gestore stesso sarebbe tenuto per aver agito colpevolmente (art. 2030, secondo comma). Dalla gestione derivano obbligazioni anche a carico dell’interessato. È sufficiente che la gestione sia stata utilmente iniziata e che l’interessato non abbia manifestato il proprio divieto, perché nascano a carico di quest’ultimo l’obbligazione di adempiere gli impegni che il gestore abbia assunto in nome di lui, e l’altra di tenere indenne il gestore delle obbligazioni da questi assunte in nome proprio e di rimborsargli le spese sostenute (art. 2031).

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Qualora il gestore abbia agito in difetto di taluno dei presupposti di una valida gestione, è in facoltà dell’interessato fare ugualmente propri i risultati della gestione ratificandone l’operato (art. 2032).

24. Il pagamento dell’indebito Pagamento dell’indebito e arricchimento senza causa riguardano i casi in cui l’attribuzione patrimoniale non sia giustificata. Invero ogni spostamento patrimoniale deve avere una giustificazione causale, deve presupporre cioè l’esistenza di un rapporto obbligatorio che generalmente, ma non necessariamente, deriva da un contratto. La causa, come vedremo, è un requisito che si riferisce al contratto ed indica la giustificazione, alla luce dei principi espressi dall’ordinamento giuridico, dello spostamento patrimoniale che il contratto attua; lo stesso requisito, qualora sia riferito – sebbene impropriamente ed in una accezione non tecnica – all’obbligazione, indica il titolo dal quale l’obbligazione stessa nasce e dunque informa sulla giustificazione dell’attribuzione patrimoniale realizzata attraverso l’esecuzione della prestazione. Del pagamento dell’indebito ci siamo occupati illustrando l’obbligazione naturale. Si ricorderà che la prestazione eseguita in virtù di un dovere morale o sociale e non in presenza di un vincolo giuridico, in quanto non dovuta, sarebbe soggetta alla regola della ripetibilità, disattesa invece dall’art. 2034 che sotto questo profilo reca una evidente eccezione all’art. 2033. In base a quest’ultima norma, che dunque afferma un principio generale in materia di prestazioni sine causa, colui che esegue un pagamento non dovuto (ma la norma si applica anche a prestazioni non aventi carattere pecuniario) ha diritto di ripetere, cioè di ottenere la restituzione di quanto abbia pagato (art. 2033). La fattispecie descritta viene definita dalla legge indebito oggettivo in quanto la prestazione eseguita o non era dovuta in assoluto o era dovuta ma a persona diversa dall’accipiens. In quest’ultima ipotesi, qualora il debitore abbia eseguito il pagamento a chi appariva legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, trova applicazione la disciplina del pagamento al creditore apparente (art. 1189), cosicché il debitore è liberato se prova di aver pagato in buona fede, mentre chi abbia ricevuto il pagamento è tenuto a restituire la prestazione al vero creditore. Può avvenire che un soggetto, pur non essendovi tenuto, effettui una prestazione effettivamente dovuta al beneficiario ma da altri. Anche in questo caso (indebito soggettivo) la prestazione è ripetibile ma soltanto se il solvens si sia creduto debitore in base ad un errore scusabile e sempre che il creditore non abbia in buona fede dismesso il titolo o le garanzie del suo credito, perché in

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tal caso la restituzione di quanto ricevuto lo lascerebbe privo di tutela nei confronti del vero debitore (art. 2036, primo comma). Qualora la ripetizione non sia ammessa, colui che ha pagato il debito altrui subentra nei diritti che il creditore aveva nei confronti del debitore (art. 2036, ultimo comma). L’obbligo di restituzione sorge anche a carico di colui che abbia indebitamente ricevuto una cosa determinata (art. 2037); mentre l’art. 2038 provvede a disciplinare l’ipotesi di alienazione della cosa indebitamente ricevuta. Le prestazioni contrarie al buon costume (per esempio il pagamento di una somma di denaro ad un funzionario statale perché acceleri l’espletamento di una pratica) non solo non sono sorrette da una giustificazione causale, ma sono anzi caratterizzate da una causa illecita (art. 1343), cosicché sono senz’altro soggette ad azione di ripetizione da parte del solvens: tuttavia qualora l’immoralità sia bilaterale, come nell’esempio sopra riportato, la prestazione eseguita resta definitivamente acquisita al patrimonio dell’accipiens (art. 2035). La regola, che certo non vuole sancire un premio per chi abbia ricevuto la prestazione, intende invece precludere la ripetizione a colui che, per ottenere la restituzione, debba addurre la violazione, anche da parte sua, dei boni mores. Tale norma, assieme a quella che disciplina la obbligazione naturale, costituisce una ulteriore eccezione al principio della ripetibilità delle prestazioni non dovute.

25. L’arricchimento senza causa Anche l’arricchimento senza causa è, come accennato, espressione del medesimo principio che esige la giustificazione degli spostamenti patrimoniali e dunque vieta ingiustificati arricchimenti, concetto al quale si riportano le stesse norme che disciplinano il pagamento dell’indebito. Questa esigenza è così forte dall’aver indotto il legislatore ad offrire al soggetto che si sia ingiustamente impoverito, la possibilità di rimediare al pregiudizio subito attraverso un’azione generale, esperibile nei confronti di colui che si sia correlativamente ed ingiustamente arricchito, e svincolata dalla ricorrenza di particolari presupposti. L’azione di arricchimento senza causa ha infatti carattere residuale, è cioè ammessa soltanto nel caso in cui non esistano altre azioni per farsi indennizzare del pregiudizio subìto (come ad es. l’azione di ripetizione dell’indebito) (art. 2042). Non importa se l’arricchimento e l’impoverimento ingiustificati derivino da un atto dell’arricchito piuttosto che dall’attività dell’impoverito (per esempio qualora il primo si appropri in buona fede di beni altrui, ovvero qualora

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il secondo esegua una prestazione non dovuta per la quale non sia esercitabile la ripetizione di indebito): a carico dell’arricchito sorge in ogni caso l’obbligo di indennizzare colui che si sia impoverito della correlativa diminuzione patrimoniale, nei limiti dell’arricchimento (art. 2041, primo comma). All’ingiustificato arricchimento conseguente all’acquisto di una cosa determinata, la legge pone rimedio obbligando chi l’ha ricevuta a restituirla in natura (art. 2041, secondo comma).

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Capitolo Secondo

LE VICENDE DELL’OBBLIGAZIONE SEZIONE I: L’ADEMPIMENTO 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

La nozione L’esatto adempimento e la prestazione sostitutiva Il luogo dell’adempimento. Le obbligazioni cc.dd. portables e quérables Il tempo dell’adempimento e il termine dell’obbligazione I soggetti dell’adempimento. Adempimento dell’incapace e adempimento del terzo I destinatari dell’adempimento. Il pagamento a soggetti non legittimati e il principio dell’apparenza L’attività diretta all’adempimento. Gli obblighi di diligenza e di buona fede

SEZIONE II: LE ALTRE MODALITÀ DI ESTINZIONE DELL’OBBLIGAZIONE 8. 9. 10. 11.

La compensazione La confusione e remissione La novazione L’impossibilità sopravvenuta

SEZIONE III: TUTELA DEL CREDITO E RESPONSABILITÀ DEL DEBITORE 12. Tutela del credito anteriormente all’inadempimento 12.1. L’azione surrogatoria e l’azione revocatoria ordinaria 12.2. L’azione revocatoria sommaria o semplificata 12.3. Il sequestro conservativo 13. L’inadempimento. L’adempimento inesatto e il ritardo nell’adempimento 14. La responsabilità del debitore. La diligenza nell’adempimento e la impossibilità non imputabile della prestazione 15. La responsabilità del debitore nel tempo di pandemia 16. La mora del debitore e la mora del creditore 17. Il ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali 18. La responsabilità del debitore e il risarcimento del danno. Responsabilità fondata sul contratto e responsabilità civile 19. Risarcimento del danno per equivalente e in forma specifica 20. Le esimenti legali diverse dalla impossibilità non imputabile e le esimenti convenzionali della responsabilità del debitore

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SEZIONE IV: LE GARANZIE DEL CREDITO 21. La garanzia generica. Le garanzie reali 22. Le alienazioni in garanzia 23. Le alienazioni sospensivamente condizionate all’inadempimento del debitore nel quadro degli strumenti convenzionali di autotutela esecutiva del creditore: in particolare il patto c.d. marciano 24. Le garanzie personali. La fideiussione omnibus. Il contratto autonomo di garanzia

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SEZIONE I: L’ADEMPIMENTO 1. La nozione Si è detto in precedenza dell’intenso collegamento fra l’interesse del creditore e l’obbligo del debitore; l’atto che ad un tempo, nella generalità dei casi, determina la soddisfazione dell’interesse creditorio e la estinzione del vincolo obbligatorio con conseguente liberazione del debitore, si dice adempimento e costituisce il modo fisiologico di estinzione dell’obbligazione (impropriamente il codice civile parla in qualche luogo di pagamento, poiché la prestazione del debitore non sempre ha ad oggetto una somma di denaro). L’adempimento si realizza pertanto con la esecuzione da parte del debitore della prestazione oggetto della obbligazione. L’adempimento è descritto e disciplinato nel capo II del titolo I del libro sulle obbligazioni, ma alla sua definizione concorre una importante norma collocata nel capo III che disciplina l’inadempimento delle obbligazioni e cioè l’ipotesi opposta in cui non vi è un adempimento e il debitore omette di eseguire la prestazione dovuta (art. 1218). Tale norma sancendo, come vedremo, la responsabilità del debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta, consente di annoverare fra i requisiti dell’adempimento idoneo a far conseguire al debitore la liberazione dal vincolo e al creditore la realizzazione della sua pretesa, un elemento importante e cioè l’esattezza dell’adempimento che esige la integrale conformità della prestazione eseguita a quella dedotta nella obbligazione. Tale principio trova un riscontro nell’art. 1181 che consente al creditore di rifiutare un adempimento parziale anche se la prestazione sia divisibile. Tuttavia, il potere del creditore di far valere i contenuti di tale inesattezza non è un potere illimitato perché soggetto, come vedremo, al principio di buona fede.

2. L’esatto adempimento e la prestazione sostitutiva L’adempimento esatto rinviene una disciplina alternativa nell’art. 1197. La norma ribadisce il principio per cui il debitore non può liberarsi eseguen-

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do una prestazione difforme da quella dovuta, anche se di valore uguale o maggiore, ma aggiunge che se il creditore acconsente il debitore può adempiere eseguendo una prestazione diversa in sostituzione di quella originaria. Tale accordo non ha tuttavia effetti estintivi dell’obbligazione i quali si producono soltanto attraverso la esecuzione della diversa prestazione; infatti, in caso di inadempimento della prestazione sostitutiva il creditore può sempre esigere la prestazione originaria. Il nome latino dell’istituto (datio in solutum) collegando espressamente l’efficacia solutoria alla datio della res e dunque alla materiale esecuzione della prestazione, evidenzia chiaramente questi concetti e la natura reale di detto accordo. Tale disciplina spiega i suoi effetti anche nell’ambito del regime della responsabilità del debitore: l’impossibilità sopravvenuta della prestazione sostitutiva, ancorché si verifichi per causa non imputabile al debitore, non ha effetti liberatori, rimanendo questi tenuto ad eseguire la prestazione originaria. Anche qualora sia ceduto un credito in luogo dell’adempimento, l’estinzione dell’obbligazione si ha soltanto con la riscossione del credito da parte del cessionario, sempre che le parti non abbiano stabilito diversamente (art. 1198).

3. Il luogo dell’adempimento. Le obbligazioni cc.dd. portables e quérables L’esattezza dell’adempimento deve inoltre essere valutata anche in relazione al rispetto delle regole che disciplinano il luogo e il tempo dell’adempimento, ai quali il legislatore dedica gli artt. da 1182 a 1187. Si tratta di norme che dettano per lo più una disciplina suppletiva, destinata cioè ad operare qualora le parti non abbiano provveduto con propria pattuizione a determinare le modalità spaziali e temporali dell’adempimento. I criteri indicati dall’art. 1182 entrano infatti in gioco allorché il luogo dell’adempimento non sia determinato dalla convenzione o dagli usi o non possa comunque desumersi dalla natura della prestazione o da altre circostanze. In questa ipotesi la legge indica due diversi criteri generali per la disciplina del luogo dell’adempimento che danno vita a due diverse categorie di obbligazioni: le obbligazioni aventi ad oggetto una somma di denaro debbono essere adempiute al domicilio che il creditore ha al tempo della scadenza (obbligazioni c.d. portables); ogni altra obbligazione deve invece essere adempiuta al domicilio che il debitore ha al tempo della scadenza (obbligazioni c.d. quérables), ad eccezione di quelle aventi ad oggetto la consegna di una cosa certa e

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determinata, che devono essere adempiute nel luogo in cui si trovava la cosa quando l’obbligazione è sorta.

4. Il tempo dell’adempimento e il termine dell’obbligazione Più articolata è la disciplina del tempo dell’adempimento, dettata negli artt. da 1183 a 1187. Al riguardo può darsi che non sia stato previsto alcun termine: l’art. 1183, primo comma, autorizza in questo caso il creditore a pretendere immediatamente l’adempimento e se, in virtù degli usi o per la natura della prestazione ovvero per il modo e luogo della esecuzione si renda necessario un termine, in difetto di accordo delle parti, assegna al giudice il potere di determinarlo. Al giudice spetta inoltre il potere di stabilire il termine allorché questo sia rimesso alla volontà del debitore; ovvero, su istanza del debitore che intende liberarsi, quando il termine stesso sia rimesso alla volontà del creditore (art. 1183, secondo comma). Può invece darsi che un termine per l’adempimento sia stato previsto. In questo caso, qualora il termine non risulti espressamente stabilito in favore del creditore o di entrambi, si presume stabilito in favore del solo debitore (art. 1184). La determinazione del termine svolge anche una funzione di tutela delle posizioni soggettive delle parti. Durante la pendenza del termine il debitore è posto al riparo da richieste della prestazione avanzate dal creditore prima della scadenza, a meno che il termine sia fissato in esclusivo favore del creditore medesimo (art. 1185, primo comma); e qualora il debitore abbia adempiuto in anticipo, pur non avendo la facoltà di ripetere la prestazione, può tuttavia ripetere ciò di cui il creditore si sia arricchito per effetto del pagamento anticipato (art. 1185, secondo comma). D’altro canto la illustrata disciplina del c.d. beneficio del termine per il debitore non può incidere negativamente sulle aspettative del creditore aventi ad oggetto la conservazione della possibilità dell’adempimento; invero, se il debitore sia divenuto insolvente o abbia diminuito per fatto proprio le garanzie che aveva date o non abbia dato quelle promesse, decade dal suddetto beneficio ed il creditore ha facoltà di esigere immediatamente la prestazione (art. 1186).

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5. I soggetti dell’adempimento. Adempimento dell’incapace e adempimento del terzo Sotto il profilo soggettivo le norme sull’adempimento fissano regole in relazione a due categorie di soggetti: i soggetti legittimati ad adempiere e quelli legittimati a ricevere l’adempimento. Con riguardo alla prima di tali categorie deve dirsi che il soggetto tenuto ad adempiere e ad un tempo legittimato all’adempimento è in linea generale il debitore, al quale non è peraltro precluso di valersi dell’opera di ausiliari (art. 1228). Non occorre che il debitore abbia la capacità legale, che si acquista in generale con il compimento del diciottesimo anno di età; né, se maggiore di età, che sia provvisto della capacità di intendere e di volere (art. 428). L’art. 1191, precludendo al debitore incapace di impugnare il pagamento a causa di tale incapacità, rende irrilevante ogni indagine in tal senso. La soluzione appare coerente con la natura dell’adempimento che si ritiene non negoziale; e potrebbe giustificare una rilevanza della capacità di agire allorché l’adempimento consista nel compimento di un atto negoziale. Il soggetto incapace che abbia adempiuto non è peraltro privo di tutela perché ha diritto di farsi indennizzare dal creditore nei limiti dell’arricchimento che questi abbia conseguito. Inoltre, occorre chiarire che la norma si limita a disciplinare l’esattezza dell’adempimento della prestazione e non incide sulla valutazione della validità del contratto, che potrebbe essere impugnato dall’incapace in ragione del suo stato di incapacità. L’ipotesi che un terzo adempia in luogo del debitore è certamente anomala rispetto alla dinamica fisiologica del rapporto obbligatorio e alla vicenda dell’adempimento. L’art. 1180 prevede e disciplina il caso in cui l’adempimento sia effettuato da un terzo. L’eventualità che l’obbligazione sia adempiuta da un soggetto diverso dal debitore originario ricorre nelle ipotesi, diverse e già esaminate, di negozi che importano una modificazione dei soggetti passivi dell’obbligazione: in questi casi, infatti, all’originario debitore se ne sostituisce un altro tenuto all’adempimento in via esclusiva o solidale con il debitore originario. Nell’ipotesi disciplinata dall’art. 1180, invece, il terzo è del tutto estraneo a qualsiasi accordo modificativo dei soggetti dell’obbligazione ed il suo pagamento è giustificato dalla mera volontà di adempiere il debito altrui. Nella fattispecie in esame, nel conflitto fra l’interesse del creditore a ricevere comunque quanto gli è dovuto e quello del debitore ad adempiere personalmente e ad impedire che altri adempiano i suoi obblighi contro la sua volontà, la legge ha accordato preferenza al primo: indice di una politica del diritto che tende a soddisfare le ragioni del creditore, e a risolvere i vincoli obbliga-

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tori rimuovendo ostacoli alla circolazione della ricchezza. Vi è certo anche un interesse personale ad adempiere, che però viene in questo caso sacrificato. In base alla citata norma, invero, il debitore non ha alcun potere inibitorio ma soltanto quello, ben più limitato, di manifestare al creditore la sua opposizione a che il terzo adempia. In questo caso il creditore può rifiutare l’adempimento (art. 1180, secondo comma). In difetto di tale opposizione il creditore, a meno che non abbia un interesse a che il debitore esegua la prestazione personalmente, non può rifiutare l’adempimento del terzo (art. 1180, primo comma); anche la ratio di questa disposizione si spiega con l’esigenza di favorire la soluzione del vincolo obbligatorio. L’adempimento del terzo ha effetto liberatorio per il debitore il quale è tuttavia esposto ad un’azione di arricchimento. L’adempimento del terzo può peraltro costituire il presupposto perché avvenga una modificazione dei soggetti dell’obbligazione. Invero il creditore che abbia ricevuto il pagamento da un terzo può surrogarlo nei diritti che egli aveva nei confronti del debitore (art. 1201). Il terzo subentra quindi al creditore originario ed ha luogo – come già segnalato – una modificazione nel lato attivo del rapporto obbligatorio, analogamente a quanto abbiamo illustrato in tema di cessione del credito.

6. I destinatari dell’adempimento. Il pagamento a soggetti non legittimati e il principio dell’apparenza Sul versante dei destinatari dell’adempimento, è certo che il soggetto legittimato a ricevere la prestazione è il creditore e che attraverso l’adempimento effettuato a costui, l’obbligato consegue la liberazione dal debito. Tuttavia il creditore non è il solo legittimato a ricevere la prestazione. Il pagamento infatti può essere eseguito con efficacia pienamente liberatoria al rappresentante del creditore o alla persona da quest’ultimo indicata quale legittimato a riceverlo, ovvero alle persone autorizzate dalla legge o dal giudice a riceverlo (art. 1188, primo comma). Egualmente il pagamento può avere efficacia liberatoria anche se effettuato a persona non legittimata purché il creditore lo ratifichi o ne abbia approfittato (art. 1188, secondo comma): in difetto di tale ratifica il debitore dovrà pagare nuovamente al creditore. Il pagamento al creditore incapace ha efficacia liberatoria purché il debitore provi che il pagamento si è risolto in un vantaggio per l’incapace medesimo (art. 1190). Eccezionalmente il pagamento al creditore non legittimato può avere effica-

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cia liberatoria (indipendentemente dalla circostanza che il creditore lo abbia ratificato o ne abbia approfittato), qualora il destinatario del pagamento appaia legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche (creditore apparente) ed il debitore abbia effettuato detto pagamento in buona fede, ignorando cioè di danneggiare il vero creditore (art. 1189, primo comma). In questo caso – come già osservato (v. p. 33) – chi ha ricevuto il pagamento è tenuto alla restituzione verso il vero creditore secondo le regole stabilite per la ripetizione dell’indebito (art. 1189, secondo comma). Si ritiene che la norma trovi applicazione anche al caso del pagamento al rappresentante apparente del creditore. La norma costituisce applicazione di un principio diretto a tutelare l’apparenza e a proteggere il ragionevole affidamento che il soggetto riponga in una situazione di fatto che possa univocamente apprezzarsi come provvista dei requisiti giuridici di volta in volta richiesti dalla legge e normalmente sufficienti per l’esercizio del diritto. Tale principio trova espressione in numerose disposizioni del codice: così l’art. 534 fa salvi dall’azione con la quale l’erede rivendica i beni facenti parte dell’eredità, i diritti acquistati dai terzi di buona fede in base a convenzioni a titolo oneroso con l’erede apparente; l’art. 1415 pone al riparo dall’azione di simulazione i terzi che in buona fede abbiano acquistato diritti dal titolare apparente (acquirente simulato).

7. L’attività diretta all’adempimento. Gli obblighi di diligenza e di buona fede L’attuazione del rapporto obbligatorio è governata da regole volte ad assicurare la lealtà del comportamento dei soggetti dell’obbligazione ed a presidiare la loro condotta. L’art. 1175 si rivolge sia al debitore che al creditore ed ha riguardo al loro complessivo comportamento che deve essere ispirato alle regole della correttezza e al canone della buona fede, intesa in senso oggettivo, dunque non come condizione psicologica ma come criterio di comportamento diretto a salvaguardare l’interesse altrui nei limiti di compatibilità con l’interesse proprio. Questa regola, che risulta fondamentale per una gestione equilibrata e corretta degli interessi composti nel rapporto obbligatorio, impedisce al creditore, ad esempio, di eccepire l’inesattezza della prestazione in caso di difformità di qualche centesimo di euro, o di invocare il ritardo qualora siano trascorse solo poche ore dalla scadenza del termine che non rivesta carattere essenziale. Poiché l’obbligazione è strutturata intorno al vincolo che grava sul debitore, sia pure al fine di soddisfare l’interesse creditorio, il legislatore ha det-

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tato ulteriori norme regolatrici del comportamento del debitore e in particolare dell’attività preordinata all’adempimento. In apertura del capo dedicato all’adempimento delle obbligazioni il codice detta una norma che, pur svolgendo, come vedremo, un ruolo primario e determinante sul terreno della responsabilità del debitore per inadempimento, contiene ad un tempo un criterio generale di valutazione dell’adempimento prescrivendo che il debitore deve adempiere l’obbligazione usando la diligenza del buon padre di famiglia (art. 1176, primo comma). Si tratta di una diligenza media e tuttavia variabile in relazione alla natura della obbligazione (è intuibile che la diligenza nel trasporto di scorie radioattive richieda un grado di attenzione ben maggiore di quella impiegata per la consegna di un certo numero di bottiglie di acqua minerale). I contenuti di tale diligenza si ricavano a contrario da quelli propri della colpa: cosicché la diligenza si specifica nella scrupolosa osservanza di norme di legge o di regolamenti amministrativi, e nell’impiego della perizia e della prudenza necessarie per la esecuzione della prestazione; ma – come vedremo – anche nell’impegno che il debitore deve porre nell’apprestare ogni mezzo idoneo a realizzare la pretesa del creditore. Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale è richiesto in generale un grado di diligenza più elevato rispetto a quella media (art. 1176, secondo comma); anche se, proprio per tale ragione, la legge dispone che se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, il professionista risponde dei danni solo in caso di dolo o colpa grave (art. 2236).

SEZIONE II: LE ALTRE MODALITÀ DI ESTINZIONE DELL’OBBLIGAZIONE

8. La compensazione Accanto all’adempimento, che costituisce il modo ordinario di estinzione del rapporto obbligatorio, la legge prevede modi alternativi di estinzione dell’obbligazione che si distinguono in satisfattivi e non satisfattivi a seconda che importino o meno la soddisfazione dell’interesse del creditore dedotto nella obbligazione (così, mentre la compensazione, come vedremo, realizza, sia pure indirettamente, l’interesse creditorio, la remissione del debito lascia il creditore insoddisfatto). La compensazione produce l’estinzione di due debiti reciproci: stabilisce

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l’art. 1241 che, quando due persone sono obbligate l’una verso l’altra, i due debiti si estinguono per le quantità corrispondenti. Se per esempio Tizio deve 1000 euro a Caio e Caio deve 500 euro a Tizio, i due debiti saranno parzialmente compensati e Tizio, invece di dare la somma di 1000 e ricevere l’adempimento per 500, avrà ad un tempo realizzato il suo credito ed estinto il suo debito corrispondendo la somma di 500 euro. Perché operi la compensazione occorrono particolari requisiti, variabili secondo la forma di compensazione ammessa dalla legge: legale, giudiziale e volontaria. La compensazione legale opera automaticamente qualora i debiti reciproci siano omogenei (abbiano cioè ad oggetto una somma di danaro o altre cose fungibili), esigibili (non siano cioè soggetti a termine o a condizione) e infine liquidi (siano cioè determinati nel loro ammontare) (art. 1243, primo comma). Alla compensazione giudiziale si ricorre quando il debito opposto in compensazione, pur non essendo liquido, sia di facile e pronta liquidazione (art. 1243, secondo comma); in questo caso il giudice può dichiarare la compensazione per la parte del debito che riconosce esistente. Mentre la compensazione legale ha effetto dal giorno della coesistenza dei debiti (art. 1242), quella giudiziale produce i suoi effetti dal momento della sentenza. Infine, la compensazione volontaria si fonda sull’accordo delle parti le quali possono far luogo alla compensazione dei loro debiti sul solo presupposto della reciprocità senza che debba ricorrere alcuna delle caratteristiche sopra indicate (omogeneità, esigibilità, liquidità o pronta liquidazione). Non tutti i crediti, quantunque reciproci, possono essere compensati dalle parti. Vi sono infatti crediti rispetto ai quali la compensazione non è ammessa: per esempio il credito alimentare, o i crediti dichiarati impignorabili, i quali, essendo destinati a soddisfare esigenze primarie debbono essere effettivamente corrisposti dal debitore (art. 1246). Tali limiti operano anche nel caso di compensazione legale e giudiziale.

9. La confusione e remissione Si ha confusione quando le qualità di creditore e di debitore si riuniscono nella stessa persona. Così, se il debitore diventa erede del creditore. Invero, la riunione dei ruoli in un unico soggetto fa venir meno il principio della necessaria dualità dei soggetti dell’obbligazione ed il rapporto obbligatorio si estingue per effetto della concentrazione delle qualità di creditore e di debitore, e dunque dei rispettivi crediti e debiti in un’unica persona.

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La remissione del debito è l’atto con il quale il creditore rinuncia al proprio credito. Essa produce effetto dal momento in cui è comunicata al debitore: si tratta dunque di un negozio unilaterale a carattere ricettizio. Per la produzione dell’effetto estintivo dell’obbligazione e liberatorio dal vincolo è tuttavia richiesta una partecipazione del debitore alla formazione della fattispecie. Infatti, poiché – come vedremo – non è dato produrre effetti nella altrui sfera giuridica mediante una semplice manifestazione unilaterale di volontà, neanche allorché si tratta, come nel caso di specie, di attribuire un beneficio, è necessario che il debitore manifesti indirettamente il suo consenso all’estinzione del vincolo astenendosi dal rifiutare il beneficio che gli deriva dalla remissione. Invero, la dichiarazione emessa dal debitore entro un congruo termine di non voler profittare, impedisce al negozio remissorio di produrre i suoi effetti (art. 1236). Questo meccanismo, che coinvolge la volontà del debitore sotto il profilo della mancanza di rifiuto di voler profittare del beneficio, rendendola rilevante ai fini della produzione dell’effetto, ha indotto taluno a ritenere che la remissione si realizzi attraverso un contratto che – come vedremo – richiede infatti il consenso di almeno due parti.

10. La novazione Si ha novazione oggettiva allorché le parti sostituiscono alla obbligazione originaria una obbligazione nuova che sia diversa dalla prima per l’oggetto o per il titolo (art. 1230, primo comma). Quando le caratteristiche della nuova obbligazione riguardano il debitore o il creditore, la novazione si dice soggettiva e si realizza attraverso le figure già esaminate della delegazione, della espromissione e dell’accollo (art. 1235); così, se il creditore accollatario libera il debitore accollato, l’obbligazione originaria si estingue e a questa se ne sostituisce un’altra soggettivamente diversa, corrente fra il creditore e il nuovo debitore accollante. Diversità quanto all’oggetto può aversi, ad es., quando le parti sostituiscono ad un’obbligazione pecuniaria un’obbligazione avente ad oggetto la consegna di una cosa determinata (per es. un quadro). Se invece sia insorta controversia tra le parti di un contratto di compravendita, queste possono comporla attraverso una transazione (art. 1965) con la quale è possibile sostituire al rapporto controverso un nuovo rapporto (c.d. transazione novativa): il debitore non sarà più tenuto, così, in base al contratto di compravendita bensì in base ad un diverso titolo, il contratto di transazione dal quale è sorta la nuova obbligazione. La sostituzione della nuova obbligazione a quella originaria, comportando

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l’estinzione di quest’ultima, può avere conseguenze gravi per il creditore che perde ogni garanzia e ogni situazione giuridica connessa al credito originario. Ciò spiega perché la legge richiede che l’animus novandi, cioè la volontà di novare l’obbligazione, risulti in modo chiaro e non equivoco (art. 1230, secondo comma); e perché cura di precisare che le modificazioni accessorie dell’obbligazione (come il rilascio di un documento o la sua rinnovazione, l’apposizione o l’eliminazione di un termine) non importano di per sé novazione. Lo scopo della novazione consiste nella estinzione del rapporto obbligatorio originario: cosicché se questo è nullo, la novazione è senza effetto e non darà luogo al sorgere di alcuna nuova obbligazione (art. 1234, primo comma). Ma se l’obbligazione che le parti intendono novare è semplicemente annullabile la novazione può avere effetto a condizione che il debitore, che poteva sottrarsi alla pretesa del creditore esperendo l’azione di annullamento, abbia invece assunto la nuova obbligazione conoscendo il vizio che inficiava quella originaria (art. 1234, secondo comma). La norma costituisce un’applicazione dell’istituto della convalida del negozio annullabile (art. 1444) del quale ci occuperemo più avanti.

11. L’impossibilità sopravvenuta La stessa impossibilità sopravvenuta (al sorgere del vincolo obbligatorio) della prestazione per causa non imputabile al debitore che – come vedremo – esonera il debitore dall’obbligo di risarcimento del danno (art. 1218), ha effetto estintivo dell’obbligazione (art. 1256, primo comma) e dà luogo – come pure vedremo – ad una delle cause di risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive. Anche l’impossibilità che sia dovuta a causa imputabile al debitore produce l’estinzione dell’obbligazione, perché il debitore non può certo ritenersi tenuto ad eseguire una prestazione impossibile; ma in tal caso alla obbligazione originaria si sostituisce a carico del debitore una nuova obbligazione avente ad oggetto il risarcimento del danno. Sul significato della impossibilità rinviamo a quanto osserveremo a proposito della responsabilità del debitore per inadempimento. L’impossibilità soltanto temporanea non estingue l’obbligazione ma esonera il debitore da responsabilità per il ritardo nell’adempimento; tuttavia l’obbligazione si estingue se il ritardo fa venir meno l’interesse del creditore ad ottenere la prestazione ovvero elide la ragione di sussistenza del vincolo (art. 1256, secondo comma). In caso di impossibilità solo parziale, il debitore si libera eseguendo la parte di prestazione rimasta possibile (art. 1258, primo comma).

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In ordine alla incidenza dell’attuale situazione di crisi sanitaria e della legislazione emergenziale sulle cause di impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabili al debitore, v. più avanti p. 58, § 15.

SEZIONE III: TUTELA DEL CREDITO E RESPONSABILITÀ DEL DEBITORE

12. Tutela del credito anteriormente all’inadempimento La tutela dell’interesse del creditore all’adempimento e dunque del suo diritto di credito trova una regolamentazione per così dire «finale» nella disciplina del ritardo e dell’inadempimento, dando luogo – nella ricorrenza dei presupposti che saranno indicati – alla responsabilità del debitore, tenuto al risarcimento del danno (art. 1218). Ma la tutela del credito si manifesta anche, ed intensamente, durante la pendenza del rapporto obbligatorio e si realizza attraverso un articolato ventaglio di rimedi previsti e regolati prevalentemente in sede di disciplina generale del contratto ovvero nell’ambito delle specifiche disposizioni in materia di singoli contratti. Occorre preliminarmente chiarire che il creditore, allorché il debitore sia in ritardo o abbia inesattamente adempiuto la prestazione ovvero è certo che non adempirà sebbene la prestazione sia ancora possibile, ha a disposizione – per tutelare il suo credito – oltre al risarcimento del danno (in genere conseguente all’accertamento della colpa del debitore) ed a secondo dei casi, ulteriori rimedi: per esempio l’azione di adempimento, con la quale egli, sul presupposto della inesecuzione della prestazione e della sua imputabilità al debitore, chiede la condanna del debitore stesso all’adempimento della obbligazione. Il creditore, inoltre, può ricorrere alla esecuzione forzata (artt. 2910 ss.) e promuovere l’espropriazione dei beni del debitore o l’esecuzione in forma specifica delle obbligazioni di consegnare, di fare e di non fare. Un efficace strumento di tutela del diritto di credito consiste nella sostituzione della prestazione e in genere nella sua regolarizzazione, cioè nella riduzione della prestazione inesatta a conformità con quella dovuta: si tratta di rimedi che, rappresentando un vantaggio per lo stesso debitore, spesso costituiscono diritti di quest’ultimo cosicché il loro esercizio non potrebbe essere validamente rifiutato dal creditore (art. 1175). Tali rimedi – come accennato – sono previsti in seno alla disciplina dei singoli contratti e verranno pertanto trattati nel relativo volume. Ma, come accennato, la legge si preoccupa altresì di tutelare il diritto di

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credito prima ed indipendentemente dal verificarsi di qualsiasi ritardo o inadempimento, e dunque anche prima che il creditore possa esigere l’adempimento: in questa fase del rapporto è evidentemente tutelato l’interesse attuale del creditore al futuro adempimento. Si tratta infatti di una tutela, per così dire, «anticipata» del credito, la quale trova attuazione generale nella già ricordata norma che impone alle parti di comportarsi secondo correttezza non solo nel momento della instaurazione del rapporto obbligatorio, ma anche in quello della sua attuazione (art. 1175); e nell’altra che prescrive che il contratto debba essere eseguito secondo buona fede (art. 1375). La violazione di tali precetti incide sulla qualificazione della condotta del debitore e concorre pertanto alla individuazione della colpa e all’affermazione della conseguente responsabilità per l’inadempimento che – come osservato – si traduce in una delle forme di tutela del credito. Né può ritenersi estranea al quadro normativo delineato la disposizione dettata in tema di interpretazione del contratto che prescrive – come vedremo – l’adozione del criterio della buona fede. Inoltre, uno dei contraenti può sospendere la esecuzione della prestazione dovuta se, rispetto al tempo in cui è sorta l’obbligazione, si sono verificati mutamenti tali nelle condizioni patrimoniali dell’altra parte da porre in evidente pericolo il conseguimento della controprestazione (art. 1461). Una tutela diretta e segnatamente dedicata al creditore nella fase che precede l’inadempimento e dunque durante la vita del rapporto obbligatorio, è contemplata nella fondamentale disposizione dell’art. 2740, secondo la quale il debitore risponde dell’adempimento con tutti i suoi beni presenti e futuri. Tale norma conferisce al creditore un duplice potere: quello di vigilare affinché tale garanzia (c.d. garanzia patrimoniale generica) non subisca alterazioni tali da pregiudicare la possibilità del futuro adempimento, e quello di attuare tale garanzia, una volta verificatosi l’inadempimento, promuovendo la espropriazione forzata dei beni, la vendita all’incanto e la soddisfazione sul ricavato (art. 2910), ovvero altre forme di esecuzione dirette al conseguimento del medesimo bene che egli avrebbe ottenuto attraverso l’adempimento del debitore (artt. 2930 ss.: come vedremo (v. p. 135), una particolare forma di esecuzione c.d. in forma specifica del credito, è prevista dalla legge in materia di contratto preliminare). La tutela preventiva del credito nella fase anteriore all’inadempimento e dunque – come osservato – prima ancora che il creditore abbia la facoltà di esigere l’adempimento, è affidata ad alcuni strumenti che ricordiamo qui nelle loro linee generali, costituendo essi oggetto di trattazione in altro volume della medesima collana (v. Tutela dei diritti …). Tali strumenti sono: a) l’azione surrogatoria; b) l’azione revocatoria ordinaria; c) l’azione revocatoria sommaria o semplificata; d) il sequestro conservativo.

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12.1. L’azione surrogatoria e l’azione revocatoria ordinaria Può avvenire che il debitore non eserciti i diritti patrimoniali che gli spettano (ad es. non riscuota un credito); ovvero che compia atti di disposizione del proprio patrimonio. In entrambe le ipotesi si verifica una alterazione della garanzia patrimoniale, nel primo caso in conseguenza della mancata acquisizione di una risorsa che avrebbe accresciuto il patrimonio del debitore, nel secondo caso attraverso una dispersione di risorse che ha diminuito la precedente consistenza patrimoniale. In entrambe le ipotesi è necessario che l’inerzia del debitore o la sua attività negoziale abbiano oggettivamente pregiudicato le possibilità di adempimento ponendo in pericolo le ragioni del creditore. Tale conseguenza, infatti, non si verifica necessariamente nei casi illustrati, e la relativa valutazione deve tener conto di più fattori correlati fra loro: l’entità del credito oggetto di tutela, la consistenza del patrimonio del debitore, nonché il valore del mancato incremento patrimoniale ovvero del bene di cui il debitore si sia privato. Nelle ipotesi descritte il creditore, a seconda dei casi, può sostituirsi al debitore ed esercitare i diritti e le azioni patrimoniali che a questo spettino nei confronti dei terzi e che lo stesso trascuri di esercitare (azione surrogatoria: art. 2900); ovvero può chiedere che siano dichiarati inefficaci nei suoi confronti gli atti di disposizione patrimoniale posti in essere dal debitore (azione revocatoria: art. 2901). La legge detta specifici presupposti e condizioni per l’esercizio di tali azioni. Quanto all’azione surrogatoria l’art. 2900 postula che i diritti e le azioni abbiano contenuto patrimoniale e che non siano, per loro natura o per disposizione di legge, riservati al loro titolare. L’azione revocatoria è invece diretta a colpire il negozio con il quale il debitore abbia disposto del proprio patrimonio (atto di disposizione) o mediante una alienazione (trasferimento o costituzione di un diritto) ovvero mediante l’assunzione di un’obbligazione. Non ogni atto di disposizione è però soggetto a revocatoria ma soltanto quegli atti dai quali sia derivato un pregiudizio per il creditore (eventus damni). Occorre, in altre parole, un atto di disposizione patrimoniale pregiudizievole, e poiché qualsiasi atto di disposizione importa un corrispondente depauperamento, è evidente che l’elemento del pregiudizio non può esaurirsi nella semplice diminuzione patrimoniale. Tale elemento è infatti la risultante di una valutazione che tiene conto di due concomitanti circostanze: l’entità del credito tutelato con la revocatoria e la consistenza patrimoniale dell’atto di disposizione posto in essere dal debitore. Nessuna di tali circostanze è però di per sé sufficiente a fondare o ad escludere l’azionabilità del rimedio: un atto di disposizione di un appartamento può essere pregiudizievole se il debitore non ha altri beni patrimonia-

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li, ma può essere indifferente se il debitore è un ricco possidente; la cessione dell’azienda da parte dell’imprenditore che non ha altri beni, se non un modesto sussidio di disoccupazione, può essere segnale preoccupante per il lavoratore che vanta un rilevante credito di lavoro, come può costituire vicenda del tutto trascurabile per chi deve ancora riscuotere un credito di pochi euro. Solo l’insieme di queste due condizioni può indicare, in relazione al singolo caso, se l’atto possa ritenersi in concreto pregiudizievole per il creditore e giustificare quindi il fondamento del rimedio. Infine, poiché l’azione revocatoria è un’azione diretta a contrastare una condotta fraudolenta del debitore, è necessario che costui fosse consapevole del pregiudizio, del nocumento cioè che l’atto arrecava alle ragioni del creditore (consilium fraudis). Questo elemento soggettivo è disciplinato in modo articolato e tiene conto, oltre che della scientia del debitore, di quella del terzo che con questi ha negoziato e della natura gratuita od onerosa dell’atto posto in essere. Mentre per gli atti a titolo gratuito è sufficiente che il debitore fosse a conoscenza del pregiudizio che l’atto arrecava al creditore, cosicché il terzo acquirente è sempre esposto all’azione, per gli atti a titolo oneroso è altresì necessario che il terzo fosse consapevole del pregiudizio (partecipatio fraudis). La tutela contro l’intento fraudolento del debitore è così forte che la legge consente di esperire l’azione anche nei confronti di quegli atti di disposizione patrimoniale che il debitore abbia posto in essere in epoca anteriore al sorgere del credito: ipotesi che, sulle prime, potrebbe apparire stravagante, se non irragionevole, perché tutti i negozi che il debitore abbia posto in essere prima di assumere tale qualità dovrebbero essere estranei all’esigenza di conservazione di una garanzia patrimoniale (art. 2740) che, in questo caso, sarebbe destinata a presidiare il futuro adempimento di una obbligazione non ancora sorta. Senonché la legge intende colpire anche quegli atti che, seppure precedenti, siano stati posti in essere dal debitore con lo specifico intento di compromettere l’adempimento del debito futuro, che siano dunque dolosamente preordinati a pregiudicarne il soddisfacimento; ove poi si tratti di atti a titolo oneroso è necessario che il terzo fosse partecipe di codesta dolosa preordinazione. Se l’atto di disposizione patrimoniale riguarda diritti immobiliari ed è dunque soggetto a trascrizione, occorre distinguere: mentre l’acquisto a titolo gratuito è sempre travolto dall’azione revocatoria perché la norma valuta prevalente l’interesse del creditore che vuole evitare un danno rispetto a quello del terzo che vuole conservare un beneficio senza aver sopportato alcun sacrificio patrimoniale, affinché l’acquisto del terzo a titolo oneroso sia fatto salvo occorre che il suo titolo sia stato trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda giudiziale di revocatoria (art. 2652, n. 5).

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Può avvenire che colui che abbia acquistato il diritto dal debitore ne disponga a sua volta a favore di un terzo. In questo caso la dichiarazione di inefficacia travolge l’acquisto del terzo subacquirente a titolo gratuito, perché la legge ritiene prevalente la tutela dell’interesse del creditore ad evitare un danno; l’inefficacia dell’atto non pregiudica invece i diritti acquistati a titolo oneroso dal subacquirente in buona fede (art. 2901 u.c.), salvi gli effetti della trascrizione della domanda di revocazione ai sensi dell’art. 2656 n. 5, che risolve il conflitto fra creditore e subacquirente sulla base della priorità temporale della trascrizione dell’atto di acquisto o della domanda giudiziale. Preme infine rilevare che, coerentemente ai presupposti e alle finalità propri dell’azione surrogatoria e di quella revocatoria, che sono strumentali alla esigenza di conservare la garanzia patrimoniale, il vantaggio che consegue il creditore il quale abbia vittoriosamente esperito tali azioni non consiste nell’acquisto del diritto oggetto della surrogatoria o della revocatoria. Nel caso della surrogatoria il diritto esercitato dal creditore viene acquisito al patrimonio del debitore allo scopo di «reintegrare» il valore patrimoniale che, a causa dell’inerzia del debitore, non era stato possibile acquisire al suo patrimonio. Analogamente, nessun effetto restitutorio consegue all’accoglimento dell’azione revocatoria. La restituzione del bene al debitore alienante si giustificherebbe infatti soltanto come conseguenza di un’azione di nullità o di annullamento o di inefficacia assoluta: ai sensi dell’art. 2902, invero, tale bene rimane nel patrimonio del terzo ma resta soggetto alle azioni esecutive del creditore insoddisfatto (inefficacia relativa).

12.2. L’azione revocatoria sommaria o semplificata La concreta soddisfazione del creditore sul bene oggetto di trasferimento presuppone la confezione di un titolo per l’esperimento dell’azione esecutiva, titolo rappresentato dalla sentenza che accoglie l’azione revocatoria. Ora, il tempo corrente fra la proposizione della domanda e il passaggio in giudicato della decisione del giudice può essere molto lungo e ritardare la soddisfazione del credito; e può addirittura impedirla se, come si è visto, il terzo acquirente dal debitore alieni a sua volta il bene ad un subacquirente al quale la dichiarazione di inefficacia non possa essere opposta per la mancanza di taluno dei presupposti indicati nell’ultimo comma dell’art. 2901 u.c. Il creditore può certo cautelarsi, quanto ai trasferimenti immobiliari, trascrivendo la domanda giudiziale, ma occorre che sussistano anche qui i presupposti della tutela, che sono rappresentati dalla anteriorità della trascrizione della domanda tenendo però conto sia della onerosità dell’acquisto del terzo subacquirente sia della sua buona fede, ed in ogni caso occorrerà attendere la defini-

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zione del giudizio. Il creditore può certo promuovere il sequestro conservativo, di cui fra poco diremo, ma si tratta di misura che colpisce i beni che si trovano ancora nel patrimonio del debitore quando si teme che il debitore ne possa disporre, e non anche i trasferimenti, e se il debitore abbia già trasferito il bene l’autorizzazione del sequestro è comunque subordinata alla avvenuta proposizione dell’azione revocatoria; inoltre non sempre ricorrono i presupposti per l’adozione della misura cautelare (il fumus boni iuris cioè il probabile fondamento del diritto di credito, e il periculum in mora cioè il rischio che il protrarsi del ritardo possa pregiudicare irreparabilmente la soddisfazione del credito). Queste considerazioni, che fanno dell’azione revocatoria ordinaria uno strumento di tutela del credito scarsamente efficiente, hanno indotto il legislatore ad introdurre nel codice civile il nuovo art. 2929 bis, unica norma della parimenti nuova Sezione I-bis, intitolata alla espropriazione di beni oggetto di vincoli di indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito. La disposizione consente al creditore che sia pregiudicato da un atto del debitore di costituzione di vincolo di indisponibilità o di alienazione, avente per oggetto beni immobili o mobili registrati, compiuto a titolo gratuito e successivamente al sorgere del credito, di procedere ad esecuzione forzata sul bene oggetto di trasferimento ancorché non abbia preventivamente ottenuto sentenza dichiarativa di inefficacia ex art. 2901 c.c. (primo comma). L’azione esecutiva può essere esperita anche nei confronti del terzo subacquirente del bene dal “contraente immediato”, sempre a condizione che l’acquisto sia a titolo gratuito (terzo comma). La norma ha un ambito di applicazione limitato: occorre che gli atti dispositivi abbiano ad oggetto beni immobili o mobili registrati; che siano compiuti a titolo gratuito (donazioni, costituzione di fondo patrimoniale, trust) perché per tali tipi di atti è più evidente lo scopo elusivo del credito da parte del debitore. E prevede una serie di cautele: l’atto da assoggettare ad esecuzione deve essere posto in essere successivamente al sorgere del credito; il creditore deve avviare la procedura mediante pignoramento e provvedere a trascriverlo entro un anno dalla data di trascrizione dell’atto pregiudizievole. Inoltre è fatta salva la facoltà del debitore o del terzo proprietario del bene alienato di provare la mancanza dei presupposti dell’azione, proponendo opposizione all’esecuzione nelle forme stabilite dal codice di rito: l’eventus damni (che ricorre quando l’atto abbia arrecato pregiudizio alle ragioni del creditore) e la scientia fraudis (che postula che il debitore abbia avuto conoscenza del pregiudizio arrecato). Il nuovo istituto realizza una sorta di anticipazione degli effetti della sentenza di revocatoria perché offre al creditore la possibilità di assoggettare ad

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esecuzione i beni immobili del debitore da questi trasferiti, successivamente al sorgere del credito, a titolo gratuito, senza dover attendere l’esito dell’azione revocatoria ordinaria; ed offre al creditore uno strumento diverso, ma analogo quanto alla ratio, alle finalità e agli effetti, all’azione revocatoria ordinaria, consentendogli di esperire, in via alternativa, si intende nella ricorrenza dei presupposti indicati dalla norma, la più agile azione revocatoria semplificata o sommaria.

12.3. Il sequestro conservativo Il creditore che abbia fondato timore di perdere la garanzia del proprio credito, può chiedere il sequestro conservativo dei beni del debitore (art. 2905, primo comma). Se questi abbia disposto del bene il sequestro può essere chiesto anche nei confronti del terzo subacquirente, purché il creditore abbia già proposto azione revocatoria diretta a far dichiarare la inefficacia della alienazione ex art. 2901 u.c. (art. 2905, secondo comma). Per effetto della esecuzione della misura cautelare non hanno effetto in pregiudizio del creditore sequestrante gli atti dispositivi del bene sottoposto a sequestro (art. 2906, primo comma).

13. L’inadempimento. L’adempimento inesatto e il ritardo nell’adempimento L’inattuazione del rapporto obbligatorio si dice inadempimento e descrive l’aspetto patologico dell’obbligazione. Questo può risolversi nella mancanza totale della prestazione ovvero nella inesattezza della sua esecuzione. Tale inesattezza può essere quantitativa o qualitativa a seconda che riguardi la quantità o la qualità della prestazione (esecuzione parziale e prestazione di una cosa difettosa), e può anche consistere in una difformità temporale, dando luogo all’ipotesi di ritardo nell’adempimento. L’inadempimento è definitivo quando la prestazione non è più possibile o non ha più alcun interesse per il creditore; l’inesattezza quantitativa o qualitativa della prestazione ovvero il ritardo possono risolversi in un inadempimento definitivo qualora il debitore non ponga rimedio alla inesattezza ovvero il ritardo perduri fino a quando la prestazione diventi impossibile o inutile. In caso di prestazione inesatta la legislazione più recente ha intensificato le facoltà del debitore di rimediare alla inesattezza e porre in essere un valido adempimento, consentendo altresì al creditore di attivare rimedi alternativi

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all’accertamento dell’inadempimento e al risarcimento del danno (o alla dichiarazione di risoluzione del contratto), tendenti alla soddisfazione della sua pretesa originaria e alla conservazione del contratto. Ad es. l’art. 1519 quater in tema di vendita di beni di consumo, stabilisce che se il bene consegnato è difforme da quello promesso, il consumatore può chiedere la riparazione o la sostituzione della cosa ovvero una riduzione del prezzo per ripristinare la conformità del bene. Tali rimedi erano già previsti in qualche norma del codice del 1942, a proposito ad es. dell’appalto, e ritenuti di applicazione generale: così ai sensi dell’art. 1668 il committente può chiedere che le difformità o i vizi della cosa fornita dall’appaltatore siano eliminati a spese di quest’ultimo, ovvero che il prezzo sia proporzionalmente diminuito. Si è inoltre accennato in precedenza che un generale diritto del debitore alla regolarizzazione della prestazione può essere affermato nei limiti in cui il rifiuto del creditore sia in contrasto con la regola della correttezza (art. 1175). Deve essere peraltro segnalato che il citato art. 1519 quater, e in particolare l’art. 1519 ter che stabilisce che il venditore ha l’obbligo di consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita, introducono una nozione di corrispondenza tra la prestazione effettuata e la prestazione promessa diversa da quella che si ricava dalla disciplina della garanzia per i vizi della cosa venduta (art. 1490) o della mancanza di qualità (art. 1497), ovvero dalla nozione di prodotto difettoso di cui agli artt. 114-127 cod. cons. Mentre infatti queste norme hanno riguardo, in particolare, al profilo della mancanza di funzionalità del bene venduto ovvero a quello concernente lo standard di sicurezza del prodotto messo in commercio, la conformità disciplinata dalle norme in tema di vendita di beni di consumo ha un contenuto più esteso ed è rapportata all’intero contratto e dunque al suo contenuto complessivo, comprensivo delle informazioni, della descrizione e della presentazione che il venditore abbia fatto del bene non solo attraverso il contratto stesso ma anche a mezzo delle dichiarazioni pubblicitarie. La inesattezza temporale, cioè il ritardo, riceve una disciplina analitica sulla quale ci soffermeremo tra breve.

14. La responsabilità del debitore. La diligenza nell’adempimento e la impossibilità non imputabile della prestazione È certo che le ipotesi di adempimento inesatto e di adempimento tardivo sono assimilate all’inadempimento definitivo quanto alle conseguenze che possono derivarne in tema di responsabilità del debitore. Stabilisce infatti l’art. 1218 che se il debitore che non esegue esattamente la

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prestazione dovuta non provi che l’inadempimento o il ritardo siano stati determinati da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, è tenuto a risarcire il danno al creditore. La norma sembra ritenere il debitore responsabile dell’inadempimento sino al limite della impossibilità oggettiva di eseguire la prestazione, non avendo alcuna importanza, per stabilire se l’inadempimento sia imputabile o meno, la circostanza che il debitore stesso si sia adeguatamente adoperato per adempiere la prestazione. Se ogni suo sforzo è stato vano, egli cionondimeno è responsabile e si libera soltanto se riesce a fornire la prova positiva di eventi che abbiano reso impossibile l’adempimento (eventi naturali, terremoti, forza maggiore, espropriazioni), fatti cioè estranei alla sua sfera di controllo e che nessuno sforzo umano avrebbe potuto superare. Si tratta di un modello assai rigido e severo di responsabilità che si definisce oggettiva perché prescinde da qualsiasi rilievo che riguardi la condotta del soggetto debitore in termini di adeguatezza o di difetto dell’attività diretta all’adempimento. Si è già accennato però all’esistenza di una norma che, sebbene contenuta nel capo dedicato all’adempimento, sembra dettare un diverso criterio regolatore della responsabilità del debitore. In base all’art. 1176, infatti, il debitore nell’adempiere l’obbligazione deve usare la diligenza del buon padre di famiglia, cioè la diligenza media; la norma consentirebbe al debitore di liberarsi dalla responsabilità fornendo la prova di aver impiegato la diligenza dovuta nell’adempimento, sebbene non abbia potuto adempiere la prestazione, e introdurrebbe in tal modo un modello di responsabilità fondata sulla negligenza e dunque sulla colpa (che perciò si definisce responsabilità soggettiva). In realtà i due criteri non sono incompatibili ed il modello di responsabilità deve considerarsi unitario. Invero, l’impossibilità cui fa riferimento la norma dell’art. 1218 assume un significato variabile a seconda della intensità e della misura della diligenza richiesta in generale dall’art. 1176 con riferimento al particolare tipo di rapporto obbligatorio ed in relazione alla natura della prestazione. La misura dello sforzo richiesto può essere massima nelle obbligazioni pecuniarie in ragione della fungibilità del bene, o con riguardo a cose determinate soltanto nel genere, che il debitore può sempre procurarsi, cosicché la diligenza richiesta al debitore si estende fino al limite della impossibilità oggettiva. Ad esempio il debitore pecuniario potrà legittimamente invocare, per liberarsi dalla responsabilità, la sua impotenza finanziaria, solo in casi eccezionalissimi, quando questa dipenda da eventi oggettivamente straordinari

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ed imprevedibili; e potrà considerarsi esonerato da responsabilità per il ritardo nel caso questo derivi, per es., da cause imputabili al servizio postale. La misura di tale sforzo può essere di grado assai elevato, come nelle obbligazioni c.d. di risultato, nelle quali il debitore, pur non garantendo tale risultato, deve tuttavia commisurare il suo impegno al raggiungimento di questo (ad es. l’obbligazione del depositario di restituire la cosa o del vettore di consegnarla a destinazione). Nelle obbligazioni che involgono la custodia della cosa o la consegna di una cosa determinata, in cui la responsabilità sembra regolata in base al criterio della impossibilità oggettiva ed assoluta, si possono registrare attenuazioni della regola di responsabilità, che viene fondata sulla colpa (ad es. il venditore risponde dei vizi della cosa venduta a meno che non provi di averli incolpevolmente ignorati: artt. 1490-1494); altre volte si possono registrare aggravamenti della responsabilità, che dunque risulta regolata da esimenti ancora più severe della impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile (ad es. la responsabilità che incombe al banchiere circa l’integrità della cassetta di sicurezza e la custodia degli oggetti che vi sono contenuti). In altri rapporti, come nelle c.d. obbligazioni di mezzi, lo sforzo di diligenza esaurisce il contenuto della prestazione cosicché il criterio della impossibilità subisce un certo grado di relativizzazione ed assolve funzione esimente dalla responsabilità quando il debitore dimostri di aver posto in essere l’attività conforme alla diligenza richiesta per i singoli rapporti. Tipica obbligazione di mezzi è quella professionale prevista dall’art. 1176, secondo comma, per la quale è previsto un livello di diligenza adeguato allo standard dell’attività stessa e dunque sicuramente elevato; abbiamo peraltro ricordato che tale livello di diligenza giustifica anche la regola di limitazione della responsabilità per i soli danni dovuti a dolo o colpa grave, qualora l’espletamento dell’attività richieda la soluzione di problemi particolarmente delicati (art. 2236). La responsabilità del debitore resta dunque fondamentalmente regolata dallo sforzo di diligenza dovuto in relazione al rapporto obbligatorio e alla natura della prestazione. L’impossibilità liberatoria, che postula la dimostrazione da parte del debitore della ragione specifica che ha impedito la prestazione, comprende ogni ipotesi in cui al debitore – per realizzare la prestazione – non può essere richiesto uno sforzo maggiore di quello posto in essere e che nessun altro debitore potrebbe esercitare, in relazione al contenuto della obbligazione e alla natura della prestazione. Occorre chiarire che l’effetto liberatorio consegue non solo alla prova della impossibilità, nel senso specificato, ma anche a quella della non imputabilità cioè alla non riferibilità alla sfera giuridica del debitore dell’evento che, nonostante gli sforzi in concreto profusi, abbia impedito la prestazione: ad es. la spedizione del bene è avvenuta in tempi e con modalità idonei ad assicurarne la consegna al destinata-

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rio nei termini convenuti, ma un guasto al mezzo di trasporto impiegato dal vettore ha ritardato l’esecuzione della prestazione. Può dirsi, in sintesi, che la responsabilità del debitore è fondata sulla colpa, ma che la misura dello sforzo richiesto al debitore è assai variabile in relazione alla natura della prestazione, cosicché a seconda dei casi, sono più rigorosi o più attenuati i parametri in relazione ai quali misurare tale sforzo. L’esame della giurisprudenza e l’analisi dei casi di responsabilità affermati in relazione ai singoli contratti, confermano questa variabilità di valutazione, ricondotta ad unità dal costante riferimento al criterio per cui l’impossibilità liberatoria viene individuata laddove risulta consumato l’impegno dovuto, di volta in volta, dal debitore.

15. La responsabilità del debitore nel tempo di pandemia L’attuale situazione di crisi sanitaria ha determinato un incremento delle cause di impossibilità della prestazione non imputabili al debitore, che muovono dalle previsioni della legislazione nel contesto emergenziale. Con riferimento ad esempio agli impedimenti alla mobilità dovuti alle condizioni personali dei soggetti o alle limitazioni ai trasferimenti in determinate aree del territorio, l’art. 28 del d.l. n. 9 del 2020 prevede il rimborso dei titoli di viaggio e dei pacchetti turistici e stabilisce espressamente che in questi casi ricorre, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 1463 del codice civile, la sopravvenuta impossibilità della prestazione dovuta, in relazione ai contratti di trasporto aereo, ferroviario e marittimo. L’art. 91 del c.d. decreto Cura Italia 17 marzo 2020, n. 18, nel disciplinare i ritardi e gli inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici, stabilisce che il rispetto di tali misure è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli artt. 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti. Analogamente l’art. 88 stabilisce che, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1463 c.c., ricorre la sopravvenuta impossibilità (liberatoria) della prestazione dovuta in relazione ai contratti di acquisto di titoli di accesso per spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali, e di biglietti di ingresso ai musei e agli altri luoghi della cultura. Ma anche laddove la prestazione sia ancora possibile, e sia questione di valutare l’impegno riposto dal debitore nell’adempimento, la misura dello sforzo richiestogli necessita di essere riconsiderata. Il tempo della crisi pandemica non è soltanto il tempo degli impedimenti obiettivi, dei divieti, delle pre-

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clusioni, delle limitazioni stabilite per legge o per decreto, che costituiscono il territorio eletto della impossibilità; e non è nemmeno soltanto quello delle risorse che mancano o diminuiscono, né mera flessione della produttività, che più facilmente e direttamente può condizionare l’adempimento delle obbligazioni pecuniarie; è anche, e forse soprattutto, quello della incidenza che le limitazioni alle libertà, di circolazione, di trasporto, di relazione, comportano sui complessivi mezzi destinasti all’adempimento, ne mortificano le potenzialità, rendono più difficile qualsiasi sforzo diretto all’adempimento del vincolo obbligatorio. Si tratta di un impegno e di uno sforzo che conservano il loro carattere variabile e che debbono essere specificamente valutati in relazione al contesto e nel quadro complessivo delle circostanze; per determinare se il debitore, nonostante la gravità della situazione, avrebbe potuto eseguire egualmente la prestazione impegnando la comune diligenza e sottraendola alla generale valutazione di impossibilità. Solo infatti oltre lo sforzo che ci si può legittimamente attendere nell’attuale contesto e con riferimento alla generalità dei debitori, si configura quella impossibilità della prestazione che, ove non sia imputabile al debitore, costituisce causa di esonero della responsabilità. La flessibilità che caratterizza la interpretazione proposta, del combinato disposto degli artt. 1218 e 1176 c.c., consente pertanto di dare una risposta alla responsabilità del debitore in tempo di crisi pandemica e di disegnare un modello di responsabilità nel quale lo sforzo esigibile dal debitore nell’adempimento dell’obbligazione non si misura soltanto sul contenuto del rapporto e sulla natura della prestazione, ma anche sul carattere temporaneo, contingente ed eccezionale della situazione emergenziale, e dunque attraverso una considerazione contestualizzata di tutte le circostanze concrete. Va da sé che questa riconsiderazione della misura ponderata dello sforzo debitorio, che soccorre il debitore travolto dalla crisi pandemica, se investe i rapporti obbligatori in corso, che erano sorti in tempo di “pace”, su presupposti economici e giuridici ben diversi da quelli emergenziali, difficilmente dovrebbe riguardare quelli nati durante la crisi; l’adempimento di un obbligo sorto durante l’emergenza, o rinegoziato, sconta infatti una dimensione dello sforzo dovuto dal debitore, attualizzata e coerente con il contesto nel quale è venuto ad esistenza e dunque, si potrebbe dire, già “misurato” dalle circostanze e suscettibile conseguentemente di essere valutato, ai fini della impossibilità liberatoria, secondo i parametri ordinari. Si tratta, in fondo, di una situazione temporanea e contingente e dunque limitata nel tempo, come certamente limitata nel tempo è la pandemia. Nessun tramonto invece per gli istituti, le norme e i principi che grazie ai loro “anticorpi” ci sembra consen-

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tano di costruire, come osservato, una risposta efficace alla responsabilità del debitore anche nel tempo della pandemia.

16. La mora del debitore e la mora del creditore Si è detto che anche il semplice ritardo, determinato – in genere – dalla scadenza del termine, può dar luogo ad inadempimento ai sensi dell’art. 1218, avuto naturalmente riguardo alla natura della prestazione e all’incidenza del ritardo sull’interesse del creditore. In presenza di un ritardo qualificato, c.d. mora, il debitore è invece senz’altro inadempiente. La costituzione in mora del debitore è atto formale del creditore consistente in una intimazione o richiesta fatta per iscritto. Tale richiesta non è necessaria e gli effetti della mora si verificano ugualmente in tre casi (c.d. mora automatica): a) quando il debito deriva da fatto illecito, poiché la lesione del diritto del danneggiato esige una pronta liquidazione; b) quando il debitore ha dichiarato per iscritto di non voler adempiere, essendo manifestamente inutile in tal caso esigere una richiesta da parte del creditore; c) quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore cosicché non appare giustificato né l’indugio del debitore né l’attesa del creditore. Il termine la cui scadenza determina l’automatica insorgenza della mora è certamente il termine convenuto in un contratto, ma può anche essere un termine previsto dalla legge, come è stabilito, ad esempio, in tema di ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali (v. p. 59). La mora produce due effetti: l’obbligo di risarcire il danno ai sensi dell’art. 1218, nonché il c.d. passaggio del rischio, che si risolve in un aggravamento della posizione del debitore moroso rispetto a quello che non sia incorso nel ritardo. La norma che disciplina gli effetti della mora sul rischio (art. 1221) prospetta una deroga alla regola posta nell’art. 1218 circa la responsabilità del debitore. Stabilisce infatti tale norma che la clausola generale di esenzione del debitore dalla responsabilità per l’inadempimento, e cioè la impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, non si applica nei confronti del debitore moroso: cosicché se l’impossibilità si verifica durante la mora, il debitore non è liberato ancorché tale impossibilità derivi da causa a lui non imputabile. La norma opera quindi lo spostamento sul debitore del rischio della impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile a sua colpa, che ordinariamente grava sul creditore. La disposizione si spiega perché la legge presume che se il debitore avesse adempiuto tempestivamente, il

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creditore non avrebbe subito alcuna perdita: tale ragione spiega l’ulteriore deroga alla indicata eccezione (che dunque comporta nuovamente l’applicazione della regola generale), secondo la quale il debitore moroso è liberato se riesce a provare che l’oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore, anche qualora egli avesse tempestivamente adempiuto l’obbligazione. L’attuazione del rapporto obbligatorio richiede spesso la cooperazione del creditore. Tale cooperazione è dovuta in base alla norma dell’art. 1175, già esaminata, che impone anche al creditore di comportarsi secondo correttezza. Nasce così a carico del creditore un vero e proprio obbligo destinato non solo a soddisfare il suo interesse al conseguimento della prestazione, ma anche quello del debitore a liberarsi dal vincolo. Il creditore è in mora quando rifiuta arbitrariamente ed ingiustificatamente di ricevere la prestazione ovvero di compiere quanto necessario perché il debitore possa adempiere. Occorre che tale rifiuto sia accertato a mezzo di un’offerta al creditore che deve essere fatta da un pubblico ufficiale e deve osservare gli ulteriori requisiti richiesti dall’art. 1208. Tale offerta può essere reale (cioè contemplare la messa a disposizione del bene al creditore) quando l’obbligazione ha per oggetto danaro, titoli di credito o cose da consegnare al domicilio del creditore, o consistere invece nella intimazione a ricevere, qualora si tratti di cose mobili da consegnarsi in un luogo diverso dall’indicato domicilio (art. 1209), ovvero nella intimazione a prendere possesso nel caso di consegna di un immobile (art. 1216). Se il creditore rifiuta l’offerta, il debitore può eseguire il deposito ed ottenere così la liberazione dalla obbligazione, quando questo sia accettato dal creditore o dichiarato con sentenza passata in giudicato (art. 1210). Il deposito, che deve presentare tutti i requisiti indicati nell’art. 1212, deve anche essere redatto da pubblico ufficiale e se ha per oggetto somme di danaro può essere eseguito presso un istituto di credito. Gli effetti della mora si verificano dal giorno dell’offerta se questa è accettata dal creditore o se è dichiarata valida con sentenza passata in giudicato (art. 1207, terzo comma). Tali effetti consistono: a) nell’assunzione del rischio della impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore, cosicché la liberazione del debitore che ne deriva non libera il creditore dall’obbligo di effettuare la controprestazione (in deroga a quanto stabilito nell’art. 1463); b) il debitore non è tenuto a corrispondere né gli interessi né i frutti non ancora percepiti dal creditore; c) il creditore è infine tenuto a risarcire i danni derivanti dalla mora e a tenere indenne il debitore dall’onere delle spese di custodia e di conservazione della cosa (art. 1207, primo e secondo comma).

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17. Il ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali Il recente d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 emanato in attuazione della direttiva comunitaria n. 2000/35/CE ha dettato una disciplina specifica per il ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali. La normativa si applica ai contratti tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni relativi alla consegna di beni o alla prestazione di servizi contro il pagamento di un prezzo; ed è ispirata alla tutela del creditore contraente debole esposto dalla controparte a dilazioni di pagamento eccessivamente lunghe o a tassi di interessi eccessivamente ridotti o particolarmente svantaggiosi. La citata legge contiene alcune norme volte a realizzare tale tutela e che apportano significative deroghe alla sopra illustrata disciplina codicistica del ritardo. Ai sensi dell’art. 4 gli interessi moratori decorrono in favore del creditore per effetto della semplice scadenza del termine, senza necessità di alcuna costituzione in mora; e sempre che il debitore non dimostri – secondo la norma generale – che il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (art. 3). In difetto della previsione di un termine di scadenza ad opera delle parti, la legge prevede alcuni termini legali scaduti i quali sono comunque dovuti gli interessi moratori (art. 4, n. 2). Inoltre la misura del saggio degli interessi, se non convenuta dalle parti, è assai maggiore di quella stabilita nell’art. 1284, essendo pari alla misura del saggio applicato dalla Banca Centrale Europea per le principali operazioni di rifinanziamento, maggiorato di sette punti percentuali (art. 5). Come sopra accennato, le parti possono stabilire termini di pagamento diversi da quelli «legali» (ferma restando la decorrenza degli interessi moratori dalla scadenza) ovvero possono pattuire una diversa misura degli interessi. Nel suddetto decreto viene infatti espressamente richiamata la libertà contrattuale in virtù della quale le parti – ad es. – possono stabilire un termine superiore rispetto a quello legale fissato nel n. 3 dell’art. 4 per la cessione di prodotti alimentari deteriorabili (art. 4, n. 4). Si tratta infatti di una disciplina per lo più derogabile dalle parti le quali peraltro, nell’esercizio della loro autonomia, incontrano significativi limiti a salvaguardia della posizione del contraente debole. Tale controllo dell’autonomia delle parti e del contenuto dell’accordo si svolge attraverso la previsione della nullità del contratto, che viene sancita non tanto in funzione di sanzione del comportamento della parte che abbia dato causa a tale nullità, quanto in funzione di protezione degli interessi della parte debole, e cioè nella specie del creditore. La tecnica

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utilizzata è spesso quella della nullità parziale che consente di eliminare le clausole avverse al contraente debole e di lasciare in vita per il resto il contratto. Invero l’accordo sul termine di pagamento e sulle conseguenze del ritardo è nullo se, avuto riguardo alla prassi commerciale, alla natura della merce o dei servizi, alla condizione dei contraenti e ai rapporti commerciali tra gli stessi, nonché ad ogni altra circostanza, risulti gravemente iniquo per il creditore (art. 7, n. 1). Il n. 2 di tale articolo codifica alcuni casi di iniquità di detto accordo indicando la clausola diretta a procurare al debitore senza giustificato motivo liquidità aggiuntiva a spese del creditore, ovvero l’altra con la quale l’appaltatore o il subfornitore principale impongano ai propri fornitori o subfornitori termini di pagamento ingiustificatamente più lunghi rispetto a quelli ad essi concessi. Il suddetto controllo dell’autonomia delle parti si attua anche attraverso la previsione di un penetrante intervento giudiziale sul contenuto del contratto. Il n. 3 del citato art. 7 consente infatti al giudice, una volta dichiarato nullo il contratto, di assoggettarlo ad una disciplina sostituiva della parte colpita dalla nullità, applicando i termini legali previsti dall’art. 4, ovvero di ricondurre ad equità il contenuto dell’accordo, tenuto conto dell’interesse del creditore, della corretta prassi commerciale e di ogni altra circostanza rilevante risultante dal contratto.

18. La responsabilità del debitore e il risarcimento del danno. Responsabilità fondata sul contratto e responsabilità civile La responsabilità per inadempimento è detta anche responsabilità contrattuale ed essa importa – come più volte osservato – l’obbligo di risarcimento del danno. La disciplina della responsabilità per inadempimento si applica peraltro a qualsiasi tipo di obbligazione ancorché non derivi da una fonte contrattuale. Occorre peraltro avvertire che la regolamentazione dei due regimi di responsabilità (quella fondata sulla lesione dell’interesse contrattuale e quella fondata sulla violazione della regola dell’art. 2043, cui abbiamo già accennato, diretta a tutelare i diritti del soggetto contro i danni ingiusti), e per alcuni aspetti la disciplina dei relativi danni, presentano notevoli differenze. Mentre si rinvia ad altro volume per una esauriente trattazione del fatto illecito e quindi della responsabilità civile o extracontrattuale (vol. 4), riteniamo qui opportuno accennare a questa differente disciplina, per due ragioni: perché il risarcimento del danno integra il contenuto di una obbliga-

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zione, per lo più pecuniaria, comune ai due tipi di responsabilità, la quale costituisce, come in precedenza accennato, il rimedio generale contro l’illecito sia contrattuale che extracontrattuale; perché alcune norme che regolano i danni da illecito aquiliano fanno espresso rinvio a norme che disciplinano il danno da inadempimento (art. 2056 in relazione agli artt. 1223, 1226, 1227). Sotto altri profili la disciplina del risarcimento presenta alcuni aspetti unitari, indipendentemente dal titolo: in questa prospettiva, alla tradizionale distinzione dei danni a secondo che derivino da inadempimento o da fatto illecito, è parso di poter utilmente sostituire quella fondata sul binomio danno al patrimonio e danno alla persona. Invero, come dal fatto illecito può derivare sia un danno al patrimonio sia un danno personale, così dall’inadempimento può conseguire non solo un pregiudizio patrimoniale ma anche un danno alla persona (ad es. il chirurgo plastico che abbia eseguito senza la dovuta diligenza il proprio intervento risponde del danno estetico procurato al paziente non solo a titolo di responsabilità contrattuale ma anche ex art. 2043). Alcuni danni peraltro, per la natura del pregiudizio che comportano in relazione all’interesse leso, sono collegati frequentemente all’area della responsabilità civile ma non se ne può escludere una rilevanza anche sul terreno della responsabilità contrattuale. Per es. il c.d. danno da vacanza rovinata nel quale incorre il tour operator inadempiente, e che è certamente di natura contrattuale, produce un danno non patrimoniale assimilabile al danno biologico; ancora, il danno biologico, inteso come danno alla integrità psico-fisica della persona in sé considerata (a prescindere da ogni possibile conseguenza patrimoniale della lesione), che ordinariamente è conseguenza di un fatto illecito, può derivare dalla violazione degli obblighi gravanti sul datore di lavoro, sia di quelli generali ai sensi dell’art. 2043 sia di quelli specificamente regolati dall’art. 2087 che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore. Norma fondamentale comune ai due regimi di responsabilità è l’art. 1223 il quale indica le due componenti del risarcimento: il danno emergente, e cioè la perdita che il creditore ha subito (ad es. la compagnia aerea che ha annullato un volo dovrà rimborsare la spesa del biglietto) e il lucro cessante, cioè il mancato guadagno che il creditore avrebbe potuto trarre se non si fosse verificato l’inadempimento o il ritardo (ad es. se avessi preso quel volo avrei concluso un affare che invece ho perduto). In ogni caso è necessario che tanto la perdita subita quanto il mancato guadagno siano conseguenza diretta dell’inadempimento o del fatto illecito: occorre cioè che tra la violazione dell’obbligo o l’atto illecito e il danno sussista un nesso di causalità che consenta di ricondurre a quella violazione o al comportamento colposo dell’agente il pre-

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giudizio subito dal creditore o dal titolare del diritto, secondo parametri di regolarità e di non eccezionalità (così se il creditore, per effetto della mancata riscossione di un credito non può pagare i propri fornitori e viene dichiarato fallito, il debitore non potrà essere ritenuto responsabile del fallimento del suo creditore o del suo suicidio). Altro è la dimostrazione della esistenza del danno nelle due suddette componenti, altro la prova dell’entità del pregiudizio subito: qualora sia impossibile o estremamente difficoltoso fornire la prova dell’ammontare preciso del danno, la legge ricorre alla valutazione equitativa del giudice. Ciò accade sovente con riguardo alla liquidazione del danno morale che l’art. 2059, compreso nel titolo dedicato ai fatti illeciti, ammette nei soli casi determinati dalla legge (tra i quali il più noto si ha quando il fatto illecito, ad es. danno all’integrità fisica, costituisca anche reato, ad es. lesioni personali), e che la giurisprudenza tende progressivamente a riconoscere al danneggiato in presenza di pregiudizi in vario modo collegati ai valori della persona (ad es. diritto alla salute). Nemmeno può escludersi che tale danno, consistente nel dolore, nelle sofferenze, nei disagi psichici e che si riconnette non soltanto alla lesione diretta di diritti non patrimoniali (ad es. diritto alla vita) ma altresì alle conseguenze non patrimoniali della lesione di diritti che abbiano contenuto patrimoniale, trovi riconoscimento anche riguardo a fattispecie di inadempimento: così la violazione dell’obbligo da parte dell’editore di non pubblicare alcune fotografie contenute nella pellicola che il soggetto gli ha consegnato, determina violazione del diritto all’immagine e può essere causa di offese all’onore della persona ritratta e quindi cagionare un danno non patrimoniale. Vale la pena di aggiungere al riguardo che – in modo speculare – anche dalla lesione di diritti non patrimoniali possono derivare conseguenze che si apprezzano sul terreno dei danni patrimoniali: così la diffamazione di un uomo politico può determinare la mancata rielezione, l’offesa alla onorabilità di un professionista una drastica contrazione della clientela con conseguente riduzione dei guadagni. Come si accennava, la disciplina del risarcimento è per alcuni aspetti sicuramente diversa nell’ipotesi di inadempimento e in quella di fatto illecito. Una prima differenza riguarda la prevedibilità del danno. Invero la condizione soggettiva del debitore inadempiente è generalmente caratterizzata da colpa. Tale concetto esprime l’imputabilità dell’inadempimento al debitore in quanto dovuto a inosservanza di una norma di legge o dei precetti di perizia e diligenza ai quali il debitore stesso avrebbe dovuto uniformare la sua condotta. Può avvenire peraltro che il debitore non abbia determinato l’inadempimento per ignoranza o per leggerezza, ma con precisa volontà di violare l’obbligo su di lui gravante. In questo caso l’inadempimen-

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to si dice doloso e la sua maggiore antigiuridicità rispetto a quello colposo giustifica l’estensione del risarcimento – ordinariamente contenuto nei limiti della prevedibilità del danno – anche a quei danni che il debitore non era in grado di prevedere al tempo in cui è sorta l’obbligazione (art. 1225). Altra importante differenza riguarda l’onere della prova. Abbiamo già avuto occasione di illustrare la fondamentale disposizione contenuta nell’art. 2697. È pertanto agevole spiegare che in base a questa norma il danneggiato da un fatto illecito deve provare, per ottenere il risarcimento del danno, tutti i fatti costitutivi della fattispecie dell’illecito e cioè: la colpa o il dolo dell’agente, il danno, la sua ingiustizia, e la relazione causale fra la condotta illecita e il pregiudizio subito (art. 2043). Il danneggiato in conseguenza dell’inadempimento (e dunque il creditore) è invece sufficiente che provi l’inadempimento non essendo necessario che fornisca anche la prova della colpa del debitore. La norma sancisce quindi una presunzione di colpa a carico del debitore inadempiente (art. 1218). In taluni casi anche il fatto stesso dell’inadempimento è in qualche modo presunto e pertanto non deve esser provato dal creditore (è ciò che accade quando ad es. sia mancata del tutto la prestazione): se ho consegnato una merce e non mi è stato pagato il prezzo nonostante sia scaduto il termine, sarà sufficiente che io dimostri l’esistenza di un contratto di vendita e l’adempimento della mia obbligazione e non già che fornisca la prova «negativa» dell’inadempimento del compratore. Anche in caso di ritardo il creditore potrà giovarsi della presunzione di continuità del credito e spetterà al debitore fornire la prova dell’adempimento o di altra causa estintiva dell’obbligazione. In genere è pertanto onere del debitore provare di aver adempiuto (per es. esibendo la quietanza, cioè la ricevuta, del pagamento effettuato) ovvero provare che l’inadempimento è stato determinato da una causa a lui non imputabile. Non per questo la responsabilità del debitore può definirsi oggettiva: essa, infatti, è pur sempre fondata sulla colpa, giacché è sempre in facoltà del debitore sottrarsi alle conseguenze dell’inadempimento dimostrando – come abbiamo visto – di aver profuso nell’attività diretta all’adempimento tutto lo sforzo necessario, anche estremo, in relazione al diverso contenuto del rapporto obbligatorio e alla diversa natura della prestazione. Di responsabilità oggettiva in tema di inadempimento può invece propriamente parlarsi nel caso in cui il debitore si avvalga nell’adempimento della obbligazione dell’opera di terzi (ausiliari): in tal caso egli infatti risponde del fatto doloso o colposo di costoro per il solo fatto di essersi servito della loro opera (art. 1228). Ipotesi di responsabilità oggettiva, per effetto delle quali il danneggiante è

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tenuto a risarcire il danno causato al danneggiato anche se questo non è dovuto ad una sua condotta colposa, sono frequenti nel territorio della responsabilità civile ove vengono espressamente disciplinati criteri di imputazione della responsabilità alternativi a quello fondato sulla colpa, e si configurano ipotesi di responsabilità presunta o aggravata e in taluni casi propriamente oggettiva (artt. 2047 ss.). Ulteriore differenza si ravvisa in materia di prescrizione. Mentre infatti il diritto al risarcimento del danno da illecito aquiliano si prescrive di regola in cinque anni, la possibilità di ottenere il risarcimento conseguente all’inadempimento si estingue con il decorso del termine ordinario di prescrizione (dieci anni), a meno che la legge non preveda termini diversi in relazione al titolo della obbligazione (ad es. i diritti nascenti dal contratto di trasporto si prescrivono in un anno: art. 2951). Costituisce invece principio generale applicabile in entrambe le aree di responsabilità per danni quello per cui se il fatto colposo del creditore (o del danneggiato) ha concorso a cagionare il danno, si fa luogo alla diminuzione del risarcimento dovuto secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate (art. 1227, primo comma). Inoltre poiché – come sappiamo – il creditore deve comportarsi secondo correttezza (art. 1175), egli non ha diritto al risarcimento di quei danni che avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza (art. 1227, secondo comma).

19. Risarcimento del danno per equivalente e in forma specifica Se il creditore e il debitore hanno – come vedremo – limitati margini nell’amministrare, e in particolare nell’escludere, convenzionalmente la responsabilità del debitore, possono invece ampiamente regolare il risarcimento del danno. Essi possono infatti convenire che in caso di inadempimento o di ritardo il risarcimento del danno sia dovuto in una misura prestabilita (art. 1382). La misura di tale prestazione che essendo collegata al risarcimento si dice penale (da cui il nome di clausola penale del relativo patto), ha non solo la funzione di dispensare il creditore dall’onere di fornire la prova del danno, ma anche quella di limitare il risarcimento alla somma pattuita, a meno che le parti non abbiano previsto la possibilità che siano risarciti danni ulteriori che in questo caso, però, il creditore ha l’onere di provare secondo le regole generali. Il risarcimento del danno si opera, ordinariamente, per equivalente attribuendo cioè al danneggiato il valore in danaro della prestazione inadempiuta. Si intende che quando l’obbligazione ha natura pecuniaria, il risarcimento

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coincide con l’oggetto della obbligazione cosicché il creditore riceverà lo stesso bene originariamente previsto. La legge contempla che, qualora sia possibile, il danneggiato possa optare per il risarcimento in forma specifica cioè per una modalità di riparazione che gli consenta di ottenere lo stesso bene che non era riuscito ad ottenere tramite l’adempimento o che gli era stato illecitamente sottratto (art. 2058). Tale forma di riparazione, che è in grado di ottimizzare la tutela del danneggiato, non è però sempre possibile (si pensi al caso in cui il bene è andato distrutto). Il risarcimento in forma specifica, quantunque previsto in linea generale in tema di illecito, e sebbene abbia in questo ambito ampia diffusione, soprattutto con riguardo alla tutela dei diritti della persona (v. vol. 7, 1a serie), trova applicazione anche in materia di inadempimento. Per es., il risarcimento del danno causato dal notaio per inadempimento della obbligazione di verificare l’esistenza di iscrizioni ipotecarie sul bene venduto, risultatone poi gravato, può essere disposto anche in forma specifica mediante condanna alla cancellazione del vincolo. Ancora, l’inadempimento di un contratto preliminare (come vedremo più avanti) può trovare rimedio nella esecuzione specifica dell’obbligo rimasto inadempiuto, per effetto di un meccanismo che, attraverso una sentenza costitutiva, è in grado di procurare al creditore il bene mancato (art. 2932). L’ipotesi da ultimo esaminata attiene, invero, alla esecuzione in forma specifica (artt. 2930 ss.) che non si identifica con il risarcimento del danno in forma specifica. Questo è infatti uno strumento diretto a reintegrare la sfera giuridica del danneggiato, mentre la prima costituisce una misura di realizzazione coattiva dei diritti: entrambi tali rimedi, peraltro, sono diretti a far conseguire al soggetto il bene che avrebbe avuto o mantenuto se il suo diritto avesse trovato spontanea realizzazione e dunque mirano ad una tutela specifica del danneggiato, nel nostro caso del creditore. Va segnalato peraltro che nella legislazione più recente si tende a sviluppare una linea di tendenza, già presente nel codice civile e che in precedenza abbiamo ricordato, diretta ad attribuire al creditore la facoltà di esigere la riparazione o la sostituzione del bene, offrendo ad un tempo la possibilità al debitore di porre rimedio al proprio inadempimento mediante iniziative dirette a «sanare» l’inesattezza o la difformità della prestazione fornita. Così l’art. 129 cod. cons., già ricordato, prevede il caso che il venditore abbia consegnato al consumatore acquirente un bene non conforme a quello promesso e sia dunque incorso in un adempimento inesatto o addirittura «diverso» a seconda della gravità del difetto. Ebbene, tale inadempimento trova soluzione nella richiesta di ripristino della conformità, mediante riparazione o sostituzione del bene e dunque in misure di realizzazione specifica dell’interesse

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creditorio, non importa se spontaneamente attuate dal venditore inadempiente o se disposte dal giudice. È certo però che la disposizione si lascia apprezzare nella misura in cui costituisce un rimedio, dunque una pretesa giudizialmente azionabile dal compratore: in questo caso, ma anche in generale, è evidente infatti che le parti ben possono convenzionalmente regolare la situazione successiva all’inadempimento attraverso una modifica della prestazione difettosa o attraverso un nuovo adempimento. Nello stesso quadro la medesima tutela dei diritti di una intera categoria di creditori (i consumatori) appare affidata – su un piano certo generale – a misure specifiche promosse dalle associazioni rappresentative dei consumatori, e dirette ad inibire al professionista l’impiego, nell’ambito delle condizioni generali di contratto utilizzate o delle quali raccomandi l’utilizzo, delle clausole di cui sia accertato il carattere abusivo ai sensi degli artt. 33 ss. cod. cons.

20. Le esimenti legali diverse dalla impossibilità non imputabile e le esimenti convenzionali della responsabilità del debitore Si è detto in precedenza che il debitore inadempiente risponde dei danni a meno che non provi che l’inadempimento o il ritardo siano dovuti a impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. Tale impossibilità inimputabile costituisce la esimente legale generale della responsabilità del debitore. Ma il panorama al riguardo è vario e va oltre la rigida alternativa fra inadempimento imputabile e inadempimento non imputabile in relazione alla riferibilità soggettiva della causa che ha determinato la impossibilità della prestazione. Innanzitutto si sono esaminate ipotesi nelle quali l’esimente generale della responsabilità del debitore non opera: così nel caso in cui il debitore si sia avvalso dell’opera di ausiliari (art. 1228). Con riferimento ad alcuni rapporti la responsabilità del debitore sembra inoltre disciplinata in modo più grave rispetto al modello disegnato nell’art. 1218, e l’esimente della responsabilità viene regolata da una prova più rigorosa rispetto alla impossibilità non imputabile della prestazione. In realtà tale aggravamento è giustificato dalla particolare natura della prestazione e dal contenuto del rapporto che impongono al debitore uno sforzo estremo esteso fino al limite di una valutazione oggettiva della responsabilità. Così sono frequenti le ipotesi in cui la legge pone a carico del debitore che intenda liberarsi dalla responsabilità per l’inadempimento, la prova del caso fortuito o della forza maggiore. Il primo consiste in eventi imprevedibili e inevitabili (un’alluvione, un terremoto), la seconda in vicende derivanti da

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un ostacolo al quale non si può resistere e che non si può rimuovere (l’ordine legittimo di una autorità). In entrambi i casi all’esimente della causa non imputabile (ricollegabile, nel senso chiarito, al difetto dello sforzo richiesto di volta in volta e dunque al concetto di assenza di colpa), si sostituisce quella di un evento totalmente estraneo alla sfera del soggetto, di cui quest’ultimo deve fornire la prova positiva, oltre all’altra di non aver potuto né prevedere né evitare le conseguenze di tale evento sull’adempimento, alla stregua di tutta la diligenza in concreto richiesta ed impiegata. Ad es., nel contratto di trasporto di cose il vettore è responsabile della perdita e dell’avaria della cosa fino alla consegna al destinatario, a meno che non provi che la perdita o l’avaria siano derivate da caso fortuito, o in alternativa, da altre cause estranee alla sua sfera di controllo (imballaggio, fatto del mittente o del destinatario: art. 1693). In altri casi la esimente della responsabilità si riduce al solo caso fortuito cosicché il contenuto della prova liberatoria ne risulta ancora più limitato. Ciò avviene spesso in quei rapporti in cui alla responsabilità che deriva dall’obbligo di restituire la cosa ricevuta, al quale è funzionale l’altro della custodia (che il nostro ordinamento regola con particolare severità: obbligazione ex recepto, art. 1177), si aggiunge la particolare natura dell’obbligazione del custode, che presenta i caratteri della professionalità: tipico esempio è il servizio di cassette di sicurezza bancario, a proposito del quale l’art. 1839 stabilisce che la banca risponde verso l’utente per l’idoneità e la custodia dei locali e per l’integrità della cassetta, salvo il caso fortuito. Il furto, ad esempio, degli oggetti contenuti nelle cassette costituisce caso fortuito ed ha efficacia esimente solo se il banchiere dimostri di avere adottato tutte le misure di sicurezza secondo i migliori standards e che le modalità con le quali è stato consumato il reato non erano prevedibili. Quanto alla forza maggiore può farsi l’esempio del deposito in albergo: in virtù dell’art. 1783 l’albergatore è responsabile del deterioramento, della distruzione o della sottrazione delle cose ricevute in deposito e l’art. 1785 nell’indicare i limiti di tale responsabilità contempla l’ipotesi che tali eventi siano dovuti a forza maggiore o, in alternativa, alla natura della cosa o ancora a fatti da ricondurre al cliente. In qualche caso anche eventi naturali, come una inondazione, sono stati ritenuti non imprevedibili e non inevitabili in considerazione del fatto che in quell’area del territorio si erano in passato verificati episodi analoghi. Inoltre, l’esenzione della responsabilità del debitore può trovare fonte in un accordo fra debitore e creditore. Si è già accennato peraltro che l’ambito di liceità di detto accordo è molto ridotto in quanto è destinato ad operare solo con riguardo ad un inadempimento dovuto a colpa lieve, e dunque – per es. –

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rispetto alla condotta del debitore che abbia uniformato il suo comportamento ad un indirizzo giurisprudenziale superato e minoritario, o abbia posto in essere una condotta imprudente, per errore scusabile o lievi leggerezze. Infatti, l’art. 1229 sanziona con la nullità qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave. La norma trova applicazione anche nel settore della responsabilità extracontrattuale: l’art. 124 cod. cons. stabilisce infatti la nullità di un simile patto e la estende anzi ad ogni ipotesi di limitazione della responsabilità del danneggiante, anche dunque ai casi di colpa lieve. Ed invero la responsabilità del produttore nei confronti del consumatore per danno da prodotti difettosi, trova titolo ordinariamente nella responsabilità aquiliana (nella gran parte dei casi, infatti, produttore e consumatore danneggiato non sono legati da alcun vincolo contrattuale). Peraltro le parti possono attenuare o aggravare la diligenza richiesta in relazione ad un determinato rapporto obbligatorio, con evidenti conseguenze sulla valutazione dell’inadempimento. È inoltre possibile che il debitore sia esonerato da ogni responsabilità purché riversi su un terzo i relativi oneri (clausola di malleva). La norma di cui all’art. 1229, inoltre, regola l’esclusione preventiva della responsabilità: ma una volta che l’inadempimento si è verificato rientra nella facoltà delle parti amministrarne le conseguenze (per es. attraverso una transazione diretta ad impedire il sorgere di una controversia).

SEZIONE IV: LE GARANZIE DEL CREDITO 21. La garanzia generica. Le garanzie reali Abbiamo visto in precedenza che il creditore può fare affidamento sulla garanzia generica avente ad oggetto i beni presenti e futuri del debitore (art. 2740) e può fare ricorso ad alcuni strumenti (azione surrogatoria e azione revocatoria) che hanno lo scopo di conservare la predetta garanzia patrimoniale. Oltre a ciò, la legge prevede altre forme di garanzia specifica del credito, le c.d. garanzie reali e quelle personali, che si strutturano in modo profondamente diverso. Tanto per le une quanto per le altre occorre qui fare rinvio: ed invero le garanzie reali si realizzano attraverso la costituzione di diritti reali e dunque trovano specifica trattazione nel volume dedicato ai beni e alle forme giuri-

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diche di appartenenza; le garanzie personali danno luogo a contratti speciali detti appunto di garanzia, ai quali pure sarà dedicato apposito volume. Ci limitiamo qui pertanto a qualche cenno per spiegare la funzione di tali diritti con riguardo alla garanzia del credito. Le garanzie reali del credito si attuano attraverso la costituzione di diritti reali (detti infatti di garanzia) in favore del creditore. È noto che i diritti reali costituiscono situazioni assolute, che si riferiscono ad una res, sulla quale il titolare del diritto esercita un potere diretto ed immediato nonché assoluto, cioè opponibile alla generalità dei soggetti. Anche il pegno e l’ipoteca in quanto diritti reali, partecipano di tali caratteristiche. L’ipoteca ha ad oggetto beni immobili o diritti immobiliari e può avere fonte legale, giudiziale o volontaria. È legale, nel senso che il diritto di costituirla sorge ex lege, ad es., quella che spetta al venditore sull’immobile ceduto, a garanzia del pagamento dei conguagli di prezzo dovuti dal compratore (art. 2817); è giudiziale ad es., quella che ha facoltà di iscrivere il creditore in cui favore sia stata emanata sentenza di condanna al pagamento di una somma di danaro (art. 2818); è volontaria, infine, quella che trovi titolo nella volontà delle parti, in un contratto o in una dichiarazione unilaterale, ma non anche in un testamento. Qualunque sia la fonte, l’ipoteca prende vita soltanto a mezzo della iscrizione nei pubblici registri immobiliari (pubblicità costitutiva). L’ipoteca consiste quindi nel diritto reale di garanzia costituito in favore del creditore su un bene immobile di proprietà del debitore o anche di un terzo. Tale diritto costituisce una forte garanzia per il creditore ed è capace di assicurare un elevato grado di realizzabilità della pretesa creditoria in quanto attribuisce al creditore stesso il diritto di espropriare il bene vincolato alla garanzia, cioè dato in ipoteca, assicurandogli il successo di fronte a possibili alienazioni del bene o al possibile concorso di altri creditori. Invero, la c.d. realità del diritto fa sì che la soggezione del bene alla espropriazione da parte del creditore insoddisfatto, non venga meno neanche qualora il proprietario lo alieni a terzi: l’ipoteca infatti non comporta l’inalienabilità del bene, che può essere trasferito validamente ancorché gravato del diritto di garanzia. Cosicché il creditore ipotecario può espropriare il bene vincolato alla garanzia anche presso il terzo. Inoltre, una volta espropriato il bene, il creditore ha diritto di soddisfarsi sul prezzo del ricavato, con preferenza rispetto agli altri creditori (art. 2808). Proprio perché l’ipoteca ha la funzione di garantire l’obbligazione, l’estinzione di questa importa l’estinzione dell’ipoteca; tuttavia, parallelamente a quanto disposto per la formalità della iscrizione, la legge richiede la materiale cancellazione che presuppone il consenso del creditore o in mancanza la sentenza del giudice. Ben emerge dal descritto meccanismo l’alto grado di probabilità che il

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creditore ipotecario ha di soddisfare la sua pretesa. Se infatti non vi sono altri creditori privilegiati (e cioè altri creditori che a diverso titolo vantano un diritto di essere preferiti ai creditori ordinari nella soddisfazione del loro credito) o se il valore del bene concesso in ipoteca – come spesso accade – è comunque sufficiente a realizzare il credito, l’«aspettativa» del creditore quanto alla soddisfazione del suo diritto può facilmente apprezzarsi come relativa certezza. Analoga garanzia può essere realizzata attraverso la costituzione di un diritto di pegno in favore del creditore. Il pegno disciplinato dal codice civile si costituisce su beni mobili, attraverso lo spossessamento della cosa che dunque viene consegnata dal proprietario o dal terzo datore di pegno al creditore pignoratizio (art. 2786); ma può anche avere ad oggetto crediti (art. 2800) ed in quest’ultimo caso se il credito è costituito da un documento è necessaria la consegna di questo al creditore (art. 2801). Il creditore pignoratizio, in caso di inadempimento dell’obbligazione, ha diritto di vendere il bene all’incanto e di soddisfarsi sul ricavato con preferenza rispetto agli altri creditori (art. 2787). Il d.l. 3 maggio 2016, n. 59, convertito dalla legge 30 giugno 2016, n. 119, ha introdotto una nuova figura di diritto reale di garanzia, sul modello del pegno, il pegno mobiliare non possessorio. Per la costituzione di tale pegno “speciale” non è necessario il trasferimento del possesso al creditore, dunque il contratto costitutivo cessa di essere un contratto reale per divenire un contratto consensuale. Le caratteristiche di tale pegno non si riducono però alla mancanza dello spossessamento ma investono importanti profili di disciplina che ne fanno uno strumento peculiare, in grado di rispondere alle esigenze del mercato e di agevolare il ricorso al credito, coniugando il rilascio della garanzia con il permanere della disponibilità del bene in capo al debitore. Si tratta infatti non soltanto di un pegno senza spossessamento ma anche di un pegno qualificato perché riservato agli imprenditori iscritti nel registro delle imprese e relativo ai soli crediti inerenti l’esercizio dell’impresa; rotativo, perché se il debitore trasforma o aliena il bene gravato da pegno il diritto si trasferisce sul prodotto risultante dalla trasformazione o sul corrispettivo della cessione, o sul bene acquistato con tale corrispettivo; di un pegno che può avere ad oggetto beni e crediti tanto presenti quanto futuri; di un pegno c.d. omnibus, perché non è necessario che l’ammontare dei crediti garantiti sia determinato ma può essere soltanto determinabile con la previsione di un importo massimo; di un pegno assistito da un patto marciano e da altre incisive modalità di autotutela esecutiva (sulle quali si rinvia a quanto osservato nel § 23).

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22. Le alienazioni in garanzia È possibile, ed accade frequentemente nella pratica, che le parti trasferiscano un bene a scopo di garantire l’adempimento di un credito. Il trasferimento del bene, in quanto funzionale a garantire l’adempimento, è destinato a non produrre effetti stabili: se il debitore alla scadenza del termine non avrà adempiuto, il bene resterà definitivamente attribuito al patrimonio del creditore; se invece il debitore avrà adempiuto, il bene ritornerà nella sua piena disponibilità. Tale effetto viene in genere perseguito attraverso l’impiego di un contratto che è ordinariamente preordinato al trasferimento stabile della proprietà e cioè la vendita. In concreto, questa funzione può essere raggiunta sospendendo l’effetto traslativo all’inadempimento, prevedendo cioè che la proprietà del bene passi definitivamente al creditore al momento ed in conseguenza dell’inadempimento. Tale effetto è però vietato dall’art. 2744 che dichiara nullo il patto con il quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore (patto commissorio). La ratio della disposizione risiede nella tutela del debitore e in particolare nella necessità di non esporlo a indebite pressioni da parte del creditore, nonché nell’esigenza di assicurare ai creditori uguali condizioni per il soddisfacimento del loro credito nel rispetto delle procedure previste all’uopo dalla legge. La stessa funzione può essere raggiunta, anziché sospendendo l’effetto traslativo del diritto, all’inadempimento, prevedendo che tale effetto si realizzi immediatamente e che tuttavia si risolva se e nel momento in cui il debitore avrà adempiuto. Lo schema utilizzato è quello della vendita con patto di riscatto (art. 1500) nella quale il venditore si riserva la facoltà di riacquistare il bene e che infatti viene qualificata come vendita sottoposta alla condizione risolutiva dell’esercizio del diritto di riscatto. Ora, il trasferimento immediato del bene, in funzione di garanzia, non essendo collegato all’inadempimento, potrebbe considerarsi manifestazione lecita della autonomia privata; invero la funzione di garanzia non è di per sé vietata e tale scopo potrebbe essere raggiunto anche attraverso la utilizzazione di un altro negozio avente diversa funzione (negozio indiretto). Tuttavia, un orientamento assai resistente della giurisprudenza, avallato da parte della dottrina, ritiene vietata la vendita con patto di riscatto anche quando implichi un trasferimento immediato ed effettivo della proprietà in quanto tale contratto, pur non violando direttamente l’art. 2744, costituirebbe un mezzo per eludere il divieto e sarebbe pertanto egualmente nullo come negozio in frode alla legge (art. 1344); ai fini della validità non ha infatti rilievo il tipo di negozio

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utilizzato ma lo scopo perseguito, cosicché ogni negozio diretto al perseguimento di un fine illecito, ancorché astrattamente lecito, è colpito da nullità. La utilizzazione della vendita con patto di riscatto per realizzare il fine vietato, cela la reale operazione posta in essere tra le parti e ricostruita quale mutuo dissimulante un patto commissorio. Si ha così che il venditore, in realtà, è il debitore che prende a mutuo una somma di danaro e il compratore, in realtà, è il creditore finanziatore che riceve la cosa in garanzia; mentre il versamento del danaro non costituisce pagamento del prezzo ma esecuzione di un mutuo ed il trasferimento del bene serve solo a costituire una posizione di garanzia provvisoria destinata ad evolversi a seconda che il debitore adempia o meno all’obbligo di restituire le somme ricevute. Una funzione di garanzia è in genere presente nel contratto di lease back che costituisce una evoluzione del leasing (v. vol. 3, 1a serie). La figura ricorre quando il proprietario di un bene, avendo bisogno di liquidità ma non essendo disposto a privarsi dell’utilizzo del bene medesimo, lo vende ad una società di leasing la quale lo concede in godimento allo stesso venditore dietro pagamento di un canone. La sorte dell’effetto traslativo dipenderà dalla circostanza che il venditore finanziato paghi tutti i canoni e riscatti il bene, rimanendo titolare del diritto; ma se sarà inadempiente il bene resterà invece definitivamente attribuito alla società di leasing. In questo quadro anche il lease back può assolvere ad una funzione di garanzia. Recentemente, sembra prevalere la tendenza a riconoscere in linea di principio la liceità del contratto in questione e a sanzionarne la nullità per divieto del patto commissorio ogni volta si accerti che scopo effettivo dell’operazione è quello di dotare il venditore di una provvista finanziaria assistita da una garanzia reale.

23. Le alienazioni sospensivamente condizionate all’inadempimento del debitore nel quadro degli strumenti convenzionali di autotutela esecutiva del creditore: in particolare il patto c.d. marciano Se la ragione principale che giustifica il divieto del patto commissorio risiede nella tutela della posizione del debitore e nella necessità di sottrarlo al rischio di indebite pressioni da parte del creditore, ben si comprende come l’eliminazione pattizia di questo rischio abbia consentito alla giurisprudenza, incoraggiata da parte consistente della dottrina, di affermare la liceità di quei patti con i quali il creditore si riservi, per il caso di inadempimento del debitore, di acquisire la proprietà del bene oggetto di garanzia ad un prezzo stimato successivamente al verificarsi dell’inadempimento. Questa tecnica, diretta a scongiurare il pericolo di abusi da parte del creditore, immette nelle

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fattispecie che potremmo definire, con formula generale, di conversione convenzionale e condizionata di un diritto di garanzia su un bene in diritto di proprietà sullo stesso, una variabile, che dovrà necessariamente essere oggetto disciplina, la quale investe il rapporto fra valore del bene dato in garanzia ed importo del credito, essendo evidente che il valore del bene acquisito possa essere inferiore al valore del credito e non essere perciò idoneo a soddisfare integralmente l’interesse del creditore, ovvero maggiore ed in questo caso imponendo al creditore l’obbligo di restituzione dell’eccedenza. Tale previsione convenzionale è nota con il nome di patto marciano (dal nome del giureconsulto Elio Marciano che elaborò la convenzione secondo la quale alla data dell’inadempimento il creditore acquistava la proprietà del bene dato in garanzia purché ne fosse determinato il giusto prezzo) e, sulla scorta del segnalato indirizzo liberale della giurisprudenza, ha trovato ingresso nel dato normativo dando luogo ad una serie ad oggi numerosa di previsioni legislative riconducibili a tale figura: tanto numerose e significative da suggerire a parte della dottrina l’idea che il patto marciano si sia accreditato, come vedremo, come contratto atipico diretto a perseguire interessi meritevoli di tutela ex art. 1322, conquistando ad un tempo una sua tipicità legale nell’ambito dei contratti nominati. Il tema è complesso e delicato ed è ancora alla ricerca di una consolidata collocazione sistematica. Le fattispecie sono invero diverse, con alcuni tratti comuni e altri differenziati rispetto al modello base del patto marciano, non sempre di fonte convenzionale. Già infatti nel 2005 il d.l. 30 settembre 2005, n. 203 convertito nella legge 2 dicembre 2005, n. 248, ha introdotto con l’art. 11 quaterdecies, commi 1212 sexies, un congegno legale modellato su questo patto, il c.d. prestito vitalizio ipotecario. Si tratta di un finanziamento, riservato a persone maggiori di sessanta anni, il cui rimborso può essere chiesto in unica soluzione al momento della morte del soggetto finanziato. Ove il finanziamento non sia restituito entro un certo tempo da questo evento, il finanziatore ha diritto di vendere l’immobile dato in garanzia ad un valore determinato da un perito utilizzando le somme ricavate dalla vendita per estinguere il credito; le eventuali somme non portate a estinzione del credito sono riconosciute al soggetto finanziato o ai suoi aventi causa. Tale meccanismo realizza uno strumento di autosoddisfacimento del creditore in via stragiudiziale. Meccanismi analoghi sono stati previsti dal d.l. 3 maggio 2016, n. 59, convertito con modificazioni nella legge 30 giugno 2016, n. 119, che ha integrato il d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, Testo Unico delle Leggi in materia bancaria e creditizia (c.d. TUB), da ultimo aggiornato con d.l. 25 marzo 2019, n. 22 convertito con legge 20 maggio 2019, n. 41.

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L’art. 48 bis TUB contempla una forma di finanziamento bancario denominata “finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato”. La norma stabilisce che il contratto di finanziamento concluso tra un imprenditore e una banca può essere garantito dal trasferimento, in favore del creditore, della proprietà di un immobile, sospensivamente condizionato all’inadempimento del debitore. In caso di inadempimento il creditore ha diritto di avvalersi degli effetti del patto, acquista cioè la proprietà dell’immobile costituito in garanzia, purché al proprietariodebitore sia corrisposta l’eventuale differenza tra il valore di stima del diritto sul bene e l’ammontare del debito inadempiuto. L’automatismo dell’acquisto richiede l’adozione di alcune cautele: così l’inadempimento che legittima il creditore ad avvalersi del patto deve essere qualificato e cioè protrarsi per un considerevole periodo di tempo dalla scadenza (nove mesi); il creditore ha l’onere di notificare al debitore la volontà di avvalersi degli effetti del patto, specificando l’entità del credito per il quale procede, a mezzo di una dichiarazione che costituisce esercizio di un diritto potestativo; e di chiedere al Presidente del Tribunale del luogo ove si trova l’immobile la nomina di un perito per la stima, ciò anche al fine di determinare le eccedenze di valore rispetto al debito che devono essere corrisposte al debitore. Diversi i presupposti operativi della fattispecie contemplata dall’art. 120 quinquiesdecies TUB (finanziamento al consumatore). Qui, a differenza dell’ipotesi disciplinata nel citato art. 48 bis, il soggetto finanziato non è infatti un imprenditore ma un consumatore. La differenza è assai rilevante e giustifica una differente disciplina in funzione di una tutela specifica della persona del consumatore. La clausola che prevede il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale deve essere espressa, coeva al sorgere del contratto principale, e può essere azionata solo in caso di inadempimento particolarmente qualificato (ritardo di diciotto mesi); e soprattutto, pur prevedendo – come il finanziamento d’impresa – il diritto del finanziato alla restituzione dell’eccedenza di valore del bene rispetto al credito, contempla altresì l’estinzione dell’intero debito a carico del consumatore derivante dal contratto di credito, anche se il valore del bene immobile trasferito sia inferiore al debito residuo, mentre analogo effetto esdebitativo non è previsto con riguardo alla fattispecie disciplinata nell’art. 48 bis TUB. Infine, il citato d.l. n. 59 del 2016 ha previsto all’art. 1 il c.d. pegno non possessorio, figura il cui elemento fondamentale consiste nella mancanza dello spossessamento che è invece elemento costitutivo della garanzia pignoratizia prevista dal codice. La previsione normativa suggella una diffusa prassi, nata allo scopo di favorire il ricorso al credito consentendo al soggetto finanziato di mantenere la disponibilità degli strumenti produttivi. Infatti l’assenza del-

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lo spossessamento (che fa venir meno la natura reale del contratto costitutivo di pegno), importa la facoltà per il debitore, in caso di inadempimento dell’obbligazione garantita, di poter alienare, trasformare e comunque disporre del bene oggetto di garanzia senza che la privazione del possesso del bene possa sacrificarne l’attività produttiva. In tal caso il pegno si trasferisce sul prodotto trasformato o sul corrispettivo della cessione senza che ciò comporti la costituzione di una nuova garanzia (c.d. clausola di rotatività). Quando si verifica invece un evento che determina l’escussione del pegno il creditore ha facoltà di procedere alternativamente: a) alla vendita, tramite procedura competitiva, dei beni oggetto del pegno trattenendo il corrispettivo a soddisfacimento del credito fino a concorrenza della somma garantita, e con l’obbligo di restituire l’eccedenza; b) alla escussione o cessione dei crediti oggetto di pegno fino a concorrenza della somma garantita; c) alla locazione del bene oggetto del pegno imputando i canoni a soddisfacimento del proprio credito fino a concorrenza della somma garantita; d) all’appropriazione dei beni oggetto del pegno fino a concorrenza della somma garantita, a condizione che il contratto preveda anticipatamente i criteri e le modalità di valutazione del valore del bene oggetto di pegno e dell’obbligazione garantita. Se le prime tre ipotesi richiamano facoltà spettanti al creditore già contemplate dalla disciplina codicistica dettata in tema di pegno, prevedendo alcune agevolazioni procedurali, l’ultima introduce nel contratto costitutivo di pegno una clausola marciana e dunque costituisce ulteriore ed espressa ipotesi normativa riconducibile al tema in esame. Le fattispecie legali appena esaminate e che possono essere unificate sotto il profilo funzionale quali strumenti convenzionali di autotutela esecutiva (in quanto consentono al creditore di incamerare il bene concesso in garanzia per il solo verificarsi dell’inadempimento senza fare ricorso alle procedure esecutive) offrono conferma della esattezza dell’opinione espressa, come segnalato, sia in dottrina che in giurisprudenza, circa la validità del patto marciano, che rinviene la sua giustificazione nel superamento del divieto del patto commissorio e nel riconoscimento che gli interessi perseguiti dalle parti attraverso tale patto costituiscono interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322 c.c. Viene così a configurarsi la possibilità di riconoscere un modello generale, un contratto cioè atipico, per il cui regolamento sarà inevitabile il riferimento alla disciplina dei sottotipi individuati dal legislatore, spesso affidata a norme inderogabili proprio in considerazione delle esigenze di tutela del debitore e della residualità della modalità autoesecutiva nel sistema della tutela dei diritti. Così, in via esemplificativa, se appare elemento essenziale della fattispecie l’obbligo di restituzione dell’eccedenza, l’effetto esdebitativo del patto deve essere espressamente previsto dalla legge e sottratto in linea gene-

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rale alla autonomia delle parti, e dunque ammesso solo in seguito ad una scrupolosa verifica di tutti gli elementi contrattuali. Al riguardo, sebbene tra le alienazioni in oggetto e la datio in solutum sussista una incompatibilità radicale (in considerazione del fatto che l’obbligo di restituzione dell’eccedenza è inconciliabile con la causa solutoria della datio), tuttavia limiti alla introduzione nel patto dell’effetto esdebitativo potrebbero essere mutuati da quelli che generalmente vengono opposti alla datio, e consistenti nella sproporzione tra l’ammontare del debito e il valore del bene che si traduca in una iniquità del contenuto del contratto, ovvero considerando l’abusività della clausola che impone al consumatore, in caso di inadempimento, il pagamento di una somma di importo manifestamente eccessivo o prevede nelle ipotesi di dipendenza economica condizioni contrattuali particolarmente gravose (v. oltre cap. V, I contratti dei consumatori).

24. Le garanzie personali. La fideiussione omnibus. Il contratto autonomo di garanzia Tra le forme di garanzia personale del credito particolare rilievo assume la fideiussione con la quale un soggetto (fideiussore) garantisce l’adempimento di una obbligazione altrui, obbligandosi personalmente verso il creditore. Si ha così che al debitore originario si aggiunge un nuovo debitore (il fideiussore) il quale risponde dell’obbligazione con tutto il suo patrimonio e dunque con tutti i suoi beni presenti e futuri. La efficienza economica della fideiussione dipenderà dalla consistenza del patrimonio del fideiussore e dalla sua solvibilità. La connessione fra l’obbligazione garantita e quella del fideiussore è resa manifesta dall’art. 1939 che sancisce l’invalidità di quest’ultima se è invalida la prima (c.d. accessorietà della fideiussione). Il fideiussore che ha pagato è surrogato nei diritti che il creditore aveva nei confronti del debitore (art. 1949) ed ha azione di regresso nei confronti del debitore principale per ottenere il rimborso di quanto pagato (art. 1950). Una forma di garanzia largamente impiegata nella prassi, soprattutto bancaria, è quella relativa alla c.d. fideiussione omnibus, una fideiussione cioè prestata non per uno o più debiti determinati, ma per tutti i debiti che il debitore assumerà in futuro senza limiti di tempo e di quantità, in genere a favore di un istituto bancario. Tale forma di garanzia in un primo tempo è stata ritenuta nulla per indeterminatezza dell’oggetto contrattuale (art. 1325), anche se poi alcune pronunce della giurisprudenza ne hanno affermato la validità, dando vita a vivaci dispute. Perciò è intervenuto il legislatore che ha modificato l’art. 1938 sancendo che la fideiussione prestata per obbligazioni future è valida qualora sia previsto l’importo massimo garantito.

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La natura causale della fideiussione è testimoniata dal principio di accessorietà che abbiamo sopra ricordato (art. 1939) e da quelle norme che consentono al fideiussore di opporre al creditore le eccezioni fondate sulla invalidità e sulla inefficacia del debito (art. 1945). Se al garante fosse invece preclusa ogni eccezione e se egli fosse quindi tenuto a pagare al creditore a semplice richiesta, salvo a potersi poi rivalere nei confronti del debitore principale, ricorrerebbe una garanzia astratta, cioè svincolata dall’obbligazione principale, della cui validità molto si è discusso in ragione della assenza del requisito causale (contratto autonomo di garanzia), e degli abusi cui tale contratto potrebbe condurre in quanto diretto ad attribuire al creditore un potere assoluto di escutere il proprio credito.

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Capitolo Terzo

I FATTI ILLECITI SEZIONE I: LA NOZIONE 1. Le regole operative 2. Danni senza risarcimento e cause di giustificazione 3. Le evoluzioni attuali della responsabilità civile SEZIONE II: LA STRUTTURA DELL’ILLECITO 4. Gli elementi costitutivi dell’illecito: il comportamento doloso o colposo del danneggiante 5. L’equiparazione fra dolo e colpa. Gli illeciti specificatamente puniti a titolo di dolo o di colpa grave. La colpa omissiva 6. La responsabilità oggettiva 7. Attività di impresa e tecniche di tutela: il problema della traslazione del rischio 8. Il danno ingiusto 9. Il nesso causale SEZIONE III: LE RESPONSABILITÀ SPECIALI 10. Codice civile e legislazione speciale 11. Segue: quelle previste dal codice civile 12. Segue: quelle previste dalla legislazione speciale 13. La responsabilità del produttore 14. La responsabilità per danno all’ambiente 15. La responsabilità del magistrato 16. Danno e responsabilità SEZIONE IV: LA TUTELA 17. La tutela: risarcimento del danno per equivalente e in forma specifica 18. L’azione inibitoria 19. Differenze fra i due regimi di responsabilità: rinvio e qualche ulteriore considerazione SEZIONE V: IL DANNO 20. Tipologie di danni: il danno alla persona 21. Danni patrimoniali e non patrimoniali 22. Il danno biologico 23. Il danno esistenziale 24. Rilievi conclusivi

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I FATTI ILLECITI

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SEZIONE I: LA NOZIONE 1. Le regole operative Abbiamo già visto come il fatto illecito sia nel nostro ordinamento fonte di obbligazioni (Cap. Primo, par. 18). Esso determina infatti il sorgere, a carico del suo autore, dell’obbligo di risarcire il danno ad altri causato. Dei “fatti illeciti” il codice civile si occupa nel titolo IX che chiude il libro IV. La norma che ne costituisce il fondamento e ne descrive la struttura è l’art. 2043 c.c. secondo la quale “qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Elementi costitutivi della fattispecie sono dunque: – il comportamento doloso o colposo del danneggiante; – il danno ingiusto; – il nesso di causalità tra il comportamento e il danno. In questo senso il fatto illecito disciplinato dall’art. 2043 c.c. si distingue dall’inadempimento disciplinato dagli articoli 1218 ss. c.c. Il fatto illecito si sostanzia infatti nella violazione del dovere generale di non recar danno ad altri. Prima dell’illecito non esiste un’obbligazione del danneggiante nei confronti del danneggiato; l’obbligazione nasce dall’illecito ed ha come oggetto il risarcimento del danno da questo causato. L’inadempimento si sostanzia invece nella mancata esecuzione di una prestazione cui il debitore era tenuto nei confronti del creditore in forza di una preesistente obbligazione. Questa distinzione si esprime dicendo che il fatto illecito è fonte di responsabilità extracontrattuale e l’inadempimento è fonte di responsabilità contrattuale; essa è praticamente importante perché mentre alcune regole sono comuni ad entrambe le ipotesi, altre hanno contenuto diverso. In questa prospettiva, e salvo quanto si dirà più specificamente in seguito, si può fin d’ora rilevare come, a differenza di quanto avviene per il fatto illecito, all’inadempimento, che può assumere varie modulazioni, dal semplice ritardo

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alla “difformità del bene” nella vendita di beni di consumo all’inadempimento totale e definitivo, l’ordinamento reagisce attraverso un sistema di rimedi articolato in relazione alla fonte dell’obbligazione rimasta inadempiuta e alle specifiche caratteristiche dell’inadempimento; così, ad es., nel caso in cui l’obbligazione nasca da contratto si potranno utilizzare i rimedi dell’eccezione di inadempimento e della risoluzione (cfr. Cap. Quarto, par. 20), in caso di prestazione inesatta la legge, con crescente frequenza, consente al debitore di rimediare all’inesattezza e al creditore di attivare rimedi alternativi al risarcimento del danno e alla risoluzione del contratto, come avviene, ad esempio, nella disciplina della vendita dei beni di consumo la quale prevede che in caso di difformità del bene consegnato da quello promesso il consumatore può chiedere la riparazione o la sostituzione della cosa o una riduzione del prezzo (cfr. Cap. Secondo, par. 13). Solo nel caso in cui tali rimedi siano insufficienti a riparare integralmente il pregiudizio conseguente alla inosservanza dell’obbligo gravante sul debitore inadempiente questi potrà essere condannato al risarcimento del danno secondo le regole e nei limiti stabiliti dagli articoli 1223 ss. c.c. A ciò va aggiunto che con riguardo alla responsabilità contrattuale l’art. 1225 c.c. stabilisce che, in caso di inadempimento o ritardo, il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione, mentre il danno in quel momento imprevedibile è risarcibile solo in caso di dolo del debitore; nella responsabilità extracontrattuale, invece il danno è sempre integralmente risarcibile. Nella responsabilità contrattuale il diritto al risarcimento del danno si prescrive ordinariamente nel termine di dieci anni; nella responsabilità extracontrattuale il termine di prescrizione è, in via ordinaria, di cinque anni. Nella responsabilità contrattuale chi agisce per il risarcimento del danno, deve allegare l’inadempimento dell’altra parte, e deve inoltre provare il titolo del proprio credito (cioè l’esistenza di un fatto idoneo a far sorgere l’obbligazione quale ad esempio, un contratto, una promessa unilaterale, ecc.), l’esistenza e la quantità del danno e il nesso di causalità tra inadempimento e danno. Spetterà al debitore, secondo la regola generale dell’art. 2697 c.c., provare di aver esattamente adempiuto o di non aver potuto adempiere per una causa a lui non imputabile. Nella responsabilità extracontrattuale, invece, il danneggiato dovrà provare tutti gli elementi costitutivi dell’illecito e dunque l’esistenza in concreto di un comportamento illecito, della colpa o del dolo del danneggiante, di un danno ingiusto, del nesso di causalità tra il comportamento illecito e il danno, oltre alla quantità del danno. La diversità di disciplina dei due tipi di responsabilità è stata compiutamente illustrata nelle p. 60 ss.

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2. Danni senza risarcimento e cause di giustificazione Si è detto più volte nel precedente paragrafo come il danno conseguente al fatto illecito altrui sia risarcibile solo se è ingiusto; la giurisprudenza ha precisato che ciò si verifica nel concorso di due condizioni: – che il danno sia conseguenza di un comportamento che il danneggiante non aveva diritto di porre in essere; – che esso sia conseguenza della lesione di un interesse giuridicamente protetto del danneggiato (cfr. in questa collana M. NUZZO, Introduzione alle scienze giuridiche, p. 67 ss., 1a serie). Da ciò consegue che non sono risarcibili: a) i danni in senso solo economico, quali ad esempio quelli consistenti in un pregiudizio diffuso ed indeterminato che non corrisponde alla lesione di un interesse giuridicamente tutelato specificamente riferibile al danneggiato o quelli che sono conseguenza di comportamenti leciti perché consentiti dall’ordinamento e dunque posti in essere nell’esercizio di un diritto. Si pensi, per il primo profilo, al pregiudizio che un commerciante subisce per effetto di un’iniziativa legittimamente intrapresa da un concorrente nella stessa zona, in conseguenza della quale egli viene a perdere parte della sua clientela; dell’offerente ad un’asta che non riesce ad aggiudicarsi un’opera d’arte perché superato da altro partecipante il quale abbia fatto un’offerta maggiore. Per il secondo all’imprenditore la cui attività produce immissioni (di fumo, di calore, di rumore) nel limite della normale tollerabilità (art. 844 c.c.), le quali possono essere fonte di diminuzione del valore dell’immobile del vicino ma non generano danno risarcibile se non provocano danno alla salute (art. 32 Cost.). Il giornalista che pubblica un articolo che discredita un professionista il quale risente un danno per effetto della contrazione della clientela che gli revoca stima e fiducia, non risponde se ha agito nella ricorrenza dei presupposti del diritto di libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e specificamente del c.d. diritto di cronaca, se cioè i fatti narrati siano veri, o ragionevolmente ritenuti tali, sussista un interesse pubblico alla loro conoscenza, e siano state rispettate le regole di una esposizione continente e non offensiva; b) i danni causati nell’adempimento di un dovere, si pensi al caso del reparto della Protezione civile che abbatte una abitazione pericolante a seguito di un terremoto in base ad un ordine di servizio del Ministero della protezione civile; c) i danni che si producono in conseguenza di fatti illeciti rispetto ai quali la legge prevede una specifica causa di giustificazione.

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In base all’art. 2044 c.c. non è responsabile chi cagiona il danno per difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta (legittima difesa). Se un sostenitore di un’opposta tifoseria al termine di una partita di calcio brandisce una bottiglia minacciando di colpirmi sono autorizzato a difendermi e se nel far ciò procuro un danno all’aggressore non sono tenuto a risarcirlo. È tuttavia necessario che la reazione sia proporzionata all’offesa: occorre, cioè, che sia possibile esprimere una valutazione almeno di equivalenza, in termini di apprezzamento di valore da parte dell’ordinamento, fra il bene minacciato e quello danneggiato: così ad esempio in caso di furto di un ciclomotore non potrebbe essere considerata proporzionale una reazione della vittima che, per conservare il possesso del bene, sacrificasse la vita del ladro; d) i danni che sono conseguenza di un fatto che l’agente ha commesso per la necessità di salvare sé od altri dal pericolo di un danno grave alla persona (stato di necessità). Occorre a tal fine che il pericolo sia attuale, che cioè persista al momento in cui la condotta dannosa viene posta in essere, non sia stato volontariamente causato né altrimenti evitabile. Il che si verifica, ad esempio, se in prossimità di un impianto di risalita sciistico mi avvedo che un incauto e disattento sciatore sta per colpire alla testa con la parte anteriore dello sci un addetto all’impianto il quale, essendosi chinato per raccogliere gli occhiali, non si avvede del pericolo; nella impossibilità di raggiungere e di azionare la leva di arresto dell’impianto, intervengo per proteggere l’addetto all’impianto da un sicuro pericolo di un grave danno e danneggio lo sci dello sciatore in un contesto in cui l’alternativa è solo assistere all’inevitabile ferita dell’addetto all’impianto o agire tempestivamente; e) i danni prodotti con il consenso dell’avente diritto, cioè del titolare del bene danneggiato; tale consenso costituisce una condizione che generalmente esclude la responsabilità del danneggiante e dunque il suo obbligo risarcitorio (v. art. 2045 c.c.) Perché il consenso escluda la responsabilità occorre che il bene di cui si autorizza la lesione sia disponibile; la giurisprudenza ha peraltro precisato che anche in caso di diritti indisponibili può aversi un legittimo consenso al compimento di un singolo atto; così ad esempio si ritiene che il diritto all’immagine non sia come tale disponibile, ma il consenso ad uno specifico uso di una foto di una persona esclude, nei limiti dell’autorizzazione concessa, l’illiceità del singolo atto di utilizzo. Si pensi ancora all’art. 5 c.c. che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando siano contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume, consentendoli invece in caso contrario.

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L’idoneità del consenso dell’avente diritto ad escludere l’antigiuridicità di un atto altrimenti illecito è in alcuni casi espressamene prevista dalla legge: così ad esempio la legge 3 aprile 1957, n. 235 consente e disciplina il prelievo di parti del cadavere a scopo di trapianto terapeutico; la legge 26 giugno 1967, n. 458 ammette il trapianto di rene tra persone viventi; la legge 22 maggio 1978, n. 194 consente, in alcuni casi, l’interruzione della gravidanza; più di recente la legge 1° aprile 1999, n. 91 in materia di prelievi e trapianti di organi e di tessuti, ha introdotto il principio per cui la mancanza di dichiarazione di volontà contraria dell’interessato è considerata quale assenso alla donazione. In tutti questi casi gli atti che producono danno essendo giustificati dall’ordinamento non possono qualificarsi come antigiuridici al fine dell’applicazione delle regole in tema di responsabilità civile. L’ordinamento tiene tuttavia conto del fatto che un danno in senso economico si è verificato e, in relazione a ciò prevede in alcuni casi una qualche tutela riparatoria: l’art. 2045 in tema di stato di necessità (che per analogia si ritiene applicabile alle altre cause di giustificazione), prevede che al danneggiato sia corrisposta una indennità per la cui determinazione rimanda all’equo apprezzamento del giudice. Tale indennizzo è diverso dal risarcimento: mentre il risarcimento comprende sia la perdita subita, c.d. danno emergente, sia il mancato guadagno, c.d. lucro cessante, realizzando così una restaurazione integrale della sfera patrimoniale del danneggiato, l’equo indennizzo costituisce un rimedio sganciato dai criteri di una vera e propria reintegrazione e offre al danneggiato un parziale ristoro del danno subito.

3. Le evoluzioni attuali della responsabilità civile Torniamo ora all’art. 2043 c.c.: il ripetuto utilizzo del termine “fatto illecito” nella intestazione del titolo IX del libro IV del codice civile, nella rubrica e nel testo dell’art. 2043 c.c. indica una scelta terminologica del legislatore spesso criticata in base al rilievo che il più delle volte fonte del danno e riferimento ultimo del fondamento della responsabilità è una condotta umana (così, ad es. in occasione del crollo di un ponte che è in sé un fatto per stabilire chi è responsabile del danno occorrerà indagare sulla condotta dell’ingegnere che lo ha progettato, della ditta che lo ha realizzato, di quella che ne deve periodicamente verificare la stabilità, per individuare a chi è imputabile, per colpa o dolo, l’evento dannoso). Come si è rilevato il riferimento al fatto come elemento caratterizzante della disciplina in esame conserva però una utilità volendo esprimere l’idea che vi sono ipotesi (peraltro non poche) in cui l’imputazione della responsabilità

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al soggetto tenuto al risarcimento si basa sulla circostanza che quest’ultimo riveste una certa qualità o si trova in una specifica situazione giuridica ovvero svolge una determinata attività, in relazione alla quale è tenuto a rispondere del danno indipendentemente dal fatto che questo sia conseguenza di un suo comportamento doloso o colposo (c.d. responsabilità oggettiva). Il che si verifica con crescente frequenza tanto da indurre la dottrina a rilevare come l’area dell’illecito civile costituisca forse il territorio del diritto privato nel quale è dato registrare l’evoluzione più accelerata e radicale degli schemi e dei modelli tradizionali. Non v’è infatti elemento della fattispecie in esame che non abbia offerto l’occasione di una profonda rielaborazione concettuale, nella condivisa direzione di un ampliamento dell’area della responsabilità. Prima dell’avvento delle moderne società industriali, in un ambiente caratterizzato essenzialmente da un’economia di tipo agricolo, i danni erano effettivamente per lo più conseguenza di comportamenti individuali; in questo contesto la regola di responsabilità assolveva ad una funzione essenzialmente repressiva e sanzionatoria in coerenza con la dominante concezione etica che, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, assumeva a criterio primario se non esclusivo di imputazione della responsabilità quello fondato sulla colpa. Per realizzare una adeguata tutela del danneggiato appariva (necessario e) sufficiente individuare in concreto il colpevole del danno ingiusto, lesivo dei tradizionali diritti sui quali i codici ottocenteschi avevano costruito i diritti della persona e quelli sulle cose, per sanzionarne la condotta e scoraggiarne in futuro la reiterazione attraverso la minaccia e l’applicazione della regola di responsabilità. Con l’avvento delle società industriali il quadro muta, e continua a mutare fino ai giorni nostri. Le occasioni di danno si moltiplicano in conseguenza dell’intensificarsi delle relazioni fra gli uomini, delle loro modalità di attuazione e delle sempre più sofisticate articolazioni del processo di produzione dei beni. Diviene più difficile la individuazione dell’autore del danno e l’imputazione della responsabilità sulla base del criterio della colpa, che in molte occasioni si rivela inadeguato. Per dar risposta alla richiesta di giustizia che si moltiplica in presenza di danni necessariamente inerenti al processo produttivo e dunque destinati a prodursi indipendentemente dalla colpa dell’impresa produttrice diviene necessario elaborare nuove tecniche di tutela essenzialmente volte a: a) l’abbandono del principio della colpa quale criterio esclusivo di imputazione della responsabilità, con il progressivo ampliarsi dei casi di responsabilità oggettiva; b) una interpretazione del requisito della ingiustizia del danno tale da ricomprendere la lesione di qualunque situazione giuridicamente protetta;

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c) la previsione di regimi speciali di responsabilità in relazione a talune attività; d) il progressivo spostamento dell’accento nel giudizio di responsabilità dal danneggiante al danneggiato e l’incentrarsi della regola di responsabilità sull’elemento del danno e sulla esigenza della sua riparazione, con la previsione di forme di assicurazione obbligatoria per i danni di più rilevante impatto sociale; e) il proliferare, soprattutto nell’ambito del danno alla persona, di nuove e diversificate ipotesi di danno (si pensi alle figure del danno biologico e del danno esistenziale); f) lo sviluppo di rimedi preventivi accanto a quelli repressivi e lo studio di formule di quantificazione idonee ad incrementare l’efficacia deterrente della disciplina della responsabilità. La relativa facilità con cui specie le grandi imprese riescono ad amministrare i costi del risarcimento trasferendoli sui consumatori attraverso variazioni del prezzo che tengono conto del rischio di dover rispondere dei danni inerenti all’operatività ordinaria dell’impresa, induce ad introdurre nella quantificazione del risarcimento il criterio del profitto conseguito dal trasgressore. La disciplina dell’illecito comincia a svolgere accanto alla tradizionale funzione riparatoria del danno, una funzione di prevenzione dell’illecito attraverso meccanismi dissuasivi basati sull’eliminazione del profitto realizzabile dall’impresa produttrice di danno. La consapevolezza di queste “derive” che orientano la “rotta” della responsabilità civile verso un sistema assai più articolato di quello tradizionale consente di affrontare con maggiore consapevolezza lo studio della struttura e della funzione delle varie figure di illecito e dei relativi rimedi.

SEZIONE II: LA STRUTTURA DELL’ILLECITO 4. Gli elementi costitutivi dell’illecito: il comportamento doloso o colposo del danneggiante Il fatto, che costituisce uno dei presupposti dell’illecito cui si è prima sommariamente accennato, deve essere “doloso” o “colposo”. Dolo e colpa rappresentano declinazioni della volontà dell’uomo che costituiscono l’elemento soggettivo dell’illecito perché si riferiscono ad una qualificazione della condotta del danneggiante (atto) ovvero ad un elemento che consente di risalire alla imputabilità dell’evento ad un soggetto determinato (fatto).

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L’elemento materiale del fatto o atto illecito può invero essere scomposto in due fondamentali momenti: la condotta o attività che l’agente pone in essere e l’evento dannoso che ne scaturisce. Quando l’evento “è voluto dall’agente come conseguenza della propria azione od omissione” (secondo la definizione dell’art. 43 c.p.) ricorre il dolo dell’agente ed il fatto illecito si qualifica doloso. Il dolo – ferma restando la volontarietà della condotta – esprime dunque l’intenzione di realizzare l’evento dannoso; la sola intenzione di porre in essere la condotta che dà luogo al danno non è sufficiente per qualificare l’atto come doloso, anche se parte della dottrina ritiene che anche la mera coscienza da parte dell’agente della idoneità del suo comportamento a danneggiare qualcuno consenta di qualificare l’illecito come doloso. Se colpisco un uomo deliberatamente e gli provoco delle lesioni personali rispondo certamente del fatto a titolo di dolo, ma se attraverso un incrocio stradale con il semaforo rosso occorre verificare, per la sussistenza del dolo, se l’incidente che ne deriva è stato ben messo in conto dal trasgressore come esito della sua spericolata condotta (e in questo caso il dolo sussisterebbe) ovvero se l’agente confidava che nonostante l’alto rischio avrebbe evitato ogni collisione. È invece certo che quando l’evento non sia voluto né l’agente abbia accettato il rischio del suo verificarsi, ma è conseguenza di un comportamento improntato a negligenza, imprudenza, imperizia, o violazione di specifiche norme, l’agente è in colpa e l’illecito si qualifica come colposo (anche qui la nozione è ricavata dal testo dell’art. 43 c.p.): si pensi al caso di chi in un negozio, nonostante l’avvertenza di non toccare la merce, essendo interessato ad acquistare un oggetto lo tragga dallo scaffale senza la dovuta cautela cosicché il bene sfuggendo di mano cade a terra e si rompe. Nella responsabilità contrattuale il dolo si sostanzia nella volontà di non adempiere, mentre ricorre la colpa quando si rimprovera al soggetto di non aver impiegato la diligenza dovuta e di non aver posto in essere lo sforzo necessario ad adempiere. Il termine dolo riferito all’elemento soggettivo dell’atto illecito o ad uno specifico atteggiamento della volontà del debitore inadempiente, ha significato essenzialmente diverso da quello che lo stesso termine assume nella disciplina generale del contratto, come vizio della volontà. Nel primo caso il termine indica una condotta intenzionalmente diretta a provocare un danno ovvero una volontà specifica e consapevole di non adempiere l’obbligazione; nel secondo un raggiro volto a carpire il consenso contrattuale dell’altra parte (cfr. Cap. Quarto, parte II, par. 9).

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5. L’equiparazione fra dolo e colpa. Gli illeciti specificatamente puniti a titolo di dolo o di colpa grave. La colpa omissiva Nel sistema del codice il dolo o la colpa sono, in linea di principio, alternativamente sufficienti per il completamento della fattispecie dell’illecito civile. Ciò si ricava dal testo dell’art. 2043 c.c., il quale espressamente stabilisce che “qualunque fatta doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”, e da numerose altre norme; si pensi, ad esempio, all’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349 il quale stabiliva che: “qualunque fatto doloso o colposo che … comprometta l’ambiente … obbliga l’autore del fatto al risarcimento”, all’art. 2600 c.c. il quale stabilisce che l’imprenditore che compie atti di concorrenza sleale, oltre che essere soggetto alle sanzioni stabilite dall’art. 2599 c.c., è altresì tenuto al risarcimento del danno “se gli atti di concorrenza sleale sono stati compiuti con dolo o con colpa”. Dolo e colpa non rilevano solo nell’illecito commissivo, il quale si realizza attraverso un’azione; essi possono realizzarsi anche nell’illecito omissivo che si ha in caso di violazione di un obbligo legale di attivarsi per impedire l’evento. Anche l’omissione è infatti compatibile con la qualificazione del fatto come doloso o colposo. In alcuni casi peraltro la responsabilità sussiste soltanto in caso di dolo o colpa grave: ad esempio gli atti emulativi che il proprietario pone in essere e dai quali deriva danno agli altri e nessuna utilità per lui, sono vietati soltanto se posti in essere con l’esclusivo scopo di nuocere o recare molestia (art. 833 c.c.); l’art. 96 c.p.c. stabilisce che la parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave può essere condannata al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata; ancora, chi avendo acquistato la proprietà di un immobile con atto di data successiva ma trascritto prima pregiudica il diritto dell’acquirente precedente che non abbia trascritto, risponde del danno nei confronti di quest’ultimo soltanto se abbia proceduto alla trascrizione nella consapevolezza del precedente acquisto, ponendo in essere una condotta qualificata dalla volontà di abusare del suo diritto e vanificando il principio generale prior in tempore potior in iure; la legge 13 aprile 1988, n. 117 stabilisce che il giudice risponde dei danni prodotti nell’esercizio dell’attività giudiziaria soltanto se commessi con dolo o colpa grave (art. 2). Si può anzi osservare che alla progressiva perdita di necessaria centralità del requisito della colpa per il moltiplicarsi dei casi di responsabilità c.d. oggettiva, corrisponde un ampliamento dei casi in cui l’illecito è punito solo a titolo di dolo o di colpa grave in relazione all’esigenza di attenuare la responsabilità dell’autore dell’illecito innalzando la soglia della punibilità.

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Si tratta di una scelta di politica legislativa, limitata ad ipotesi tipiche e tassativamente previste, che si giustifica, negli esempi sopra fatti ora per il privilegio accordato alla situazione del proprietario (prospettiva alla quale il codice civile non è certo immune), ora per preminenti esigenze di difesa personale, ora per il timore che un eccessivo ampliamento della soglia di responsabilità del giudice possa minarne l’indipendenza e l’imparzialità. Da presupposti del tutto diversi muove la opposta tendenza – che opera in direzioni più ampie e può quindi definirsi generale – che segna il progressivo sganciamento del modello di responsabilità dal criterio esclusivo della colpa. Lo stesso codice civile negli articoli che seguono al 2043 individua numerose ipotesi in cui l’imputazione della responsabilità è effettuata secondo criteri diversi da quelli previsti in via generale dall’art. 2043 c.c. Ciò avviene quando: a) la norma trasferisce la responsabilità su un soggetto diverso dall’autore materiale (art. 2048 c.c.); b) l’imputabilità dell’illecito è esclusa solo dalla prova ad opera del danneggiante di aver adottato tutte le cautele idonee a scongiurare il danno, o del verificarsi di eventi esterni che lo hanno prodotto (responsabilità indiretta o aggravata); c) il danno viene imputato al responsabile indipendentemente da qualsiasi riferimento al criterio della colpa (responsabilità oggettiva).

6. La responsabilità oggettiva L’uso che il codice fa del modello “estremo” della responsabilità oggettiva è un uso contenuto e limitato: la sua capacità di offrire adeguata risposta ai nuovi danni della società moderna è percepita dal codice con limitata consapevolezza e trova misurata applicazione. Si deve alla dottrina e alla giurisprudenza, soprattutto alla prima, il merito di aver elaborato e proposto un criterio di imputazione della responsabilità in grado di fornire adeguate risposte alla crescente domanda di risarcimento collegata alla intensificazione delle occasioni di danno, e alla moltiplicazione dei pregiudizi arrecati alla persona. Il rapido e vertiginoso progredire delle attività di produzione di beni e servizi, ha infatti enormemente aumentato il benessere della società civile e la qualità dei consumi; ma ha anche aumentato in via esponenziale l’esposizione della persona a nuovi e molteplici danni. Si tratta di danni per lo più conseguenti all’esercizio di attività di imprese di produzione di beni o di servi-

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zi, in taluni casi del tutto nuovi rispetto al passato: si pensi al danno all’identità personale, conseguente ad una rappresentazione distorta e falsa che i media propongono al pubblico di una persona nota, o all’uso disinvolto di dati personali contenuti in apposite banche e dai quali possa derivare danno alla persona. Tali danni possono essere certo contenuti attraverso l’adozione di adeguate misure di cautela ma difficilmente possono essere evitati: non è infatti pensabile un arresto dell’attività di impresa che verrebbe a segnare un regresso ed una involuzione delle condizioni generali di vita, né un continuo e serrato monitoraggio, da parte degli operatori economici, dell’attività da questi esercitata, controllo che aumenterebbe i costi di impresa e ne porrebbe a rischio la presenza sul mercato. In molte ipotesi – come si è osservato – è assai difficoltoso risalire al responsabile attraverso il tradizionale giudizio di imputazione per colpa, in altre la prova risulterebbe oltremodo difficile, eccessivamente lunga e costosa e scoraggerebbe il danneggiato che il più delle volte non dispone delle possibilità economiche appannaggio della impresa danneggiante; è così evidente che l’esigere per la formulazione del giudizio di responsabilità la colpa del danneggiante, si risolverebbe spesso in una negazione di tutela.

7. Attività di impresa e tecniche di tutela: il problema della traslazione del rischio L’esigenza di una efficiente riparazione dei danni può essere soddisfatta attraverso due tecniche diverse: a) la prima fa capo al mercato assicurativo che consente di traslare la responsabilità sull’assicuratore rendendo relativamente “certo” il risarcimento. Questo sistema presuppone che l’imprenditore si assicuri contro i danni che inevitabilmente derivano dall’esercizio della sua attività (c.d. danni anonimi). In alcuni casi in cui i danni costituiscono una evenienza frequentissima ovvero l’esigenza di riparazione si presenta intimamente collegata a valori di solidarietà sociale, il legislatore ha normativamente imposto il meccanismo assicurativo; ciò avviene ad esempio: – nell’art. 122, d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (codice delle assicurazioni private), il quale stabilisce l’obbligo della assicurazione degli autoveicoli per la responsabilità civile verso i terzi agevolando la posizione processuale del danneggiato al quale conferisce espressamente azione diretta nei confronti dell’assicuratore (art. 144) prevedendo, per il caso si contravvenga all’obbligo di assi-

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curazione, che al risarcimento provveda l’impresa designata dall’ISVAP a mezzo dell’apposito fondo di garanzia per le vittime della strada (artt. 283, 286); – nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. b) L’altra tecnica si sostanzia nel far gravare la responsabilità indipendentemente dall’antigiuridicità del comportamento o dalla colpa, sulla base del c.d. rischio d’impresa. Il danno viene accollato all’impresa ogni volta che l’evento sia ricollegabile all’esercizio di quella attività rimanendo esclusa la responsabilità soltanto se il danno dipende da caso fortuito e cioè da un fatto imprevedibile, incalcolabile, estraneo al rischio tipico dell’attività esercitata, così da recidere lo stesso nesso di causalità fra tale attività e il verificarsi del danno. Questa strada è stata percorsa in qualche occasione dal legislatore, ad esempio: – il produttore è responsabile dei danni cagionati da difetto del prodotto messo in circolazione (art. 114 Codice del consumo), e le disposizioni che prevedono ipotesi di esclusione della responsabilità (art. 118) non sembrano sufficienti ad escludere la configurazione della responsabilità oggettiva; – colui che cagiona danno per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell’art. 2050 c.c., secondo un criterio che si ritiene coincidente o assai prossimo a quello della responsabilità senza colpa (art. 15, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali).

8. Il danno ingiusto Il fatto illecito doloso o colposo o il fatto illecito tout court per dar luogo a risarcimento deve cagionare ad altri un “danno ingiusto”. Già sappiamo che esistono danni “giusti”, o meglio giustificati, che non danno luogo a risarcimento ma solo a un indennizzo. Ma quando il danno può dirsi ingiusto? Formalmente tale requisito, che può tradursi utilmente nel termine antigiuridico o “contra ius”, interferisce con la clausola generale introdotta dall’aggettivo “qualunque” e viene svolgere quella funzione di selezione degli interessi tutelati, indispensabile in un sistema – come il nostro – fondato sull’atipicità dell’illecito. È noto invece che nei sistemi fondati sulla tipicità si procede ad una elencazione specifica dei beni e degli interessi tutelati, suscettibile tuttavia anch’essa di interpretazione estensiva e di applicazione analogica.

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Non basta dunque che il danno non sia giustificato: occorre anche che sia ingiusto, che si manifesti cioè come conseguenza della violazione di una norma imperativa che causa la lesione di un diritto. La tutela contro i danni può quindi ritenersi ancorata alla protezione di interessi che l’ordinamento riconosce meritevoli di tutela risarcitoria la lesione dei quali si configura appunto come danno ingiusto. L’ingiustizia del danno ha costituito nel tempo l’indice primario di quelle che sono state definite le mobili frontiere della responsabilità civile: tale requisito ha consentito una politica di amministrazione dei danni risarcibili permettendo, in sintonia con l’evolversi della società civile, una espansione dell’area degli interessi tutelati. Si è così passati da un’interpretazione tradizionale che limitava il danno risarcibile alla lesione di diritti soggettivi assoluti (diritti della personalità e diritti reali), cosicché soltanto il titolare di uno dei diritti rientranti nelle indicate categorie poteva chiedere il risarcimento per il danno subito; ad una diversa che ha riconosciuto tutela risarcitoria a situazioni giuridiche diverse. La prima apertura in questa direzione si è avuta con il riconoscimento della tutela aquiliana del diritto di credito. Il problema teorico sottostante al mutamento d’indirizzo si può così riassumere. Il diritto di credito che attende di tradursi, attraverso l’adempimento dell’obbligo, nella soddisfazione dell’interesse del creditore, è suscettibile di violazione (inadempimento). Il soggetto che è in grado di ledere il diritto del creditore, deludendone le aspettative, è il debitore. Si tratta allora di verificare se un terzo, estraneo al rapporto obbligatorio, possa con la sua condotta violare il diritto del creditore in quanto tale. L’ipotesi tipica è la morte del debitore. Leading case il caso Meroni. Un noto giocatore di calcio appartenente alla squadra del Torino perse la vita in un incidente stradale: la società di calcio citò in giudizio il responsabile del sinistro che, causando la morte del giocatore, aveva privato la società della relativa prestazione calcistica. I giudici accolsero la domanda sulla base della natura infungibile della prestazione di fare riconoscendo così tutela risarcitoria ad un diritto di credito, fermo restando – naturalmente – l’obbligo del responsabile di risarcire anche il danno direttamente arrecato alla vittima. In genere la morte di una persona tenuta per legge al mantenimento dei familiari, determinando l’impossibilità di effettuare la prestazione di mantenimento, realizza la lesione del corrispondente diritto di credito dei familiari e la conseguente responsabilità di chi abbia causato la morte dell’obbligato. La giurisprudenza ha anzi esteso la tutela risarcitoria in favore del convivente di fatto, al cui mantenimento provvedeva la vittima, sebbene il convivente

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non possa vantare alcuna pretesa nei confronti del partner scomparso il quale provvedeva al mantenimento non in virtù di un obbligo giuridico ma in forza di un dovere morale e sociale (art. 2034 c.c.). In questa ipotesi l’area del danno risarcibile è stata estesa ad una situazione giuridica che nemmeno può qualificarsi tecnicamente diritto costituendo un semplice interesse giuridicamente rilevante. L’alterazione delle condizioni che rendono possibile l’adempimento e che incidono sulla persona del debitore può dar luogo, in altri casi ancora, alla tutela c.d. aquiliana del credito: se convinco il debitore dell’opportunità di non adempiere (offrendo ad esempio un prezzo più alto per un bene che il venditore aveva già promesso ad altri) e costui accetta, ledo il diritto del creditore (induzione all’inadempimento); se il venditore aliena due volte lo stesso bene a due soggetti, colui che acquista per secondo e trascrive per primo conoscendo il precedente acquisto, partecipa all’inadempimento del venditore in quanto contribuisce a creare le condizioni per la inopponibilità dell’acquisto al primo acquirente che abbia omesso di trascrivere o abbia trascritto dopo, così costituendosi “complice” dell’inadempimento del venditore rispetto alla obbligazione di trasferimento della proprietà del bene assunta nei confronti del primo acquirente (cooperazione all’inadempimento). L’area del danno risarcibile è stata estesa ricomprendendovi anche la tutela di situazioni giuridiche soggettive diverse dal diritto soggettivo, e cioè: – la tutela dell’aspettativa, situazione protetta in funzione del ragionevole affidamento dell’acquisto del diritto. La tutela è stata riconosciuta con riferimento a diversi diritti soggettivi correlati all’aspettativa: ad esempio, si è riconosciuta la risarcibilità ex art. 2043 c.c. del danno subito dai creditori di una società fallita in conseguenza della ingiusta revoca da parte di un istituto bancario degli affidamenti di credito prima concessi; del danno subito dal nascituro per effetto di una nascita indesiderata o in conseguenza di una diminuzione dell’integrità fisica per un errore medico che abbia impedito di ricorrere all’aborto terapeutico; – la tutela degli interessi legittimi, interessi cioè tutelati solo in via indiretta e mediata rispetto alla tutela primaria di interessi pubblici: ad esempio, l’interesse del proprietario di un edificio a non vedere pregiudicato dal diniego illegittimo di licenza edilizia il diritto ad ottenere l’autorizzazione. Per molto tempo una consolidata giurisprudenza ha escluso in via di principio la risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi, che più di recente la Corte di Cassazione ha però riconosciuto in base alla regola generale dell’art. 2043 c.c., affermando che il giudice, onde stabilire se la violazione dell’interesse legittimo sia riconducibile allo schema normativo dell’art. 2043 e dar luogo a risarcimento, qualificherà il danno come ingiusto “in relazione alla sua inci-

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denza su un interesse rilevante per l’ordinamento, che può essere indifferentemente un interesse tutelato nelle forme del diritto soggettivo (assoluto o relativo), ovvero nelle forme dell’interesse legittimo (quando cioè questo risulti funzionale alla protezione di un determinato bene della vita, poiché è la lesione dell’interesse al bene che rileva ai fini in esame) o altro interesse (non elevato ad oggetto di immediata tutela ma) giuridicamente rilevante (in quanto preso in considerazione dall’ordinamento a fini diversi da quelli risarcitori, e quindi non riconducibile a mero interesse di fatto)” (Cass. S.U. 22 luglio 1999, n. 500). Anche situazioni non solo diverse da quelle assolute ma finanche estranee al novero di quelle formalmente riconosciute, come le aspettative di mero fatto, sono state talvolta ammesse al risarcimento. Al riguardo è stato dato ingresso al c.d. danno da perdita della chance; si pensi al caso in cui a causa di un incidente stradale un giovane e promettente ballerino subisca una lesione permanente all’omero che gli impedisce di proseguire nei suoi corsi di danza facendogli perdere la chance di una carriera da professionista. In questo caso la giurisprudenza ha ritenuto che il danno sia risarcibile quando la possibilità perduta non sia meramente ipotetica e potenziale, ma si concretizzi nella perdita di una consistente possibilità di raggiungere il risultato sperato. Considerazioni analoghe possono farsi con riferimento al possesso che è una situazione di mero fatto. Da tempo ormai si riconosce che la lesione della situazione possessoria posta in essere da un terzo non proprietario del bene costituisce illecito civile ed è fonte di responsabilità ex art. 2043 c.c. L’art. 2043 c.c. muta così la sua funzione originaria; esso da norma secondaria volta a determinare le conseguenze della violazione di un diritto attribuito da una norma diversa e preesistente, diviene norma autosufficiente, dispensatrice della tutela risarcitoria sua propria in tutte le occasioni in cui deve riconoscersi che l’ordinamento giuridico esige la tutela di un interesse anche non formalizzato in una norma diversa. È il caso dell’interesse all’identità personale non compreso formalmente tra i diritti della personalità espressamente riconosciuti e protetti dalla legge, cui è stata però riconosciuta tutela ritenendo l’interesse ad apparire come si è compreso nei diritti inviolabili della persona cosicché la sua lesione genera danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. Si tratta di un percorso per molti versi analogo a quello che ha condotto al riconoscimento della risarcibilità del diritto alla riservatezza e, da ultimo, degli interessi legittimi.

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9. Il nesso causale Da quanto finora esposto risultano altresì segnati i confini, sia pure in posizione assai più avanzata che in passato, della clausola generale di responsabilità contenuta nell’art. 2043 c.c.: non qualunque fatto da cui derivi un pregiudizio è risarcibile ma soltanto quei fatti che siano dolosi o colposi ovvero che possono essere imputati al responsabile in base a criteri diversi da quello della colpa; dai quali sia derivato un danno che sia ingiusto, che non sia cioè giustificato e che leda inoltre un interesse rilevante e protetto dall’ordinamento giuridico. Non basta, è necessario che il fatto illecito che si invoca come fonte di responsabilità abbia cioè “prodotto” quel danno: il che si esprime affermando la necessità che fra l’illecito e il danno esista un “nesso” di derivazione causale. Tale requisito che – come si è detto – vale a circoscrivere ulteriormente l’area del danno risarcibile, si spiega con la considerazione empirica che un fatto può essere l’antecedente di una serie assai numerosa di conseguenze che sarebbe irragionevole ascrivere tutte indiscriminatamente all’autore dell’illecito. Facciamo un esempio. Tizio al volante della sua auto tampona Caio. Caio non riporta alcun danno alla persona ma la sua auto per il contatto del paraurti su una delle ruote non è più in grado di marciare. Caio sale su un taxi per fare ritorno a casa. Il taxi è coinvolto in un altro incidente in cui Caio riporta lesioni al ginocchio; viene trasportato in ospedale ove viene sottoposto il giorno seguente a intervento chirurgico che, per negligenza dell’anestesista, provoca una grave crisi cardiaca in seguito alla quale Caio decede. L’esempio che può far sorridere proprio per il paradossale epilogo dell’accaduto, mostra in fondo la “lontananza” degli eventi intermedi (lesione al ginocchio, morte) rispetto al fatto illecito che ha innescato la perniciosa e sfortunata sequenza degli eventi. Se osserviamo il problema della individuazione degli eventi ragionevolmente riferibili ad un fatto, da un punto di vista naturalistico ed empirico dovremmo concludere che ciascuno di tali eventi non si sarebbe verificato in assenza del fatto (cioè di quell’iniziale tamponamento): in altre parole il fatto costituisce l’antecedente materiale di tutti gli eventi successivi collegati al primo da un nesso di causalità c.d. materiale. Ma se la causalità materiale è necessaria per configurare un nesso di riferimento tra fatto illecito ed evento dannoso, essa non è però sufficiente: occorre ricercare un ulteriore criterio causale che possa consentire di instaurare un ragionevole collegamento fra il tamponamento e la morte di Caio. Una indicazione normativa è contenuta nell’art. 2056 c.c. che richiamando l’art. 1223 c.c. in tema di inadempimento, limita il risarcimento ai danni che siano conseguenza immediata e diretta (dell’inadempimento o) dell’illecito. Il riferimento alla im-

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mediatezza riduce e misura quella “distanza” degli eventi intermedi che rende irragionevole il ricorso alla regola risarcitoria. Dunque la causalità naturale o materiale deve subire una correzione o integrazione; perché un determinato evento possa farsi ragionevolmente risalire ad una condotta occorre un ulteriore elemento e cioè quella diretta ed immediata relazione che viene espressa con il richiamo al nesso di causalità giuridica: giuridica perché tale relazione descrive le conseguenze ascrivibili al fatto e quindi i danni risarcibili dal suo autore. Casualità inoltre adeguata, o ragionevole, o ancora regolare, attributi tutti che consentono di porre l’accento sul criterio di “normalità” che lega un fatto alla produzione di un evento dannoso e di escludere quindi quelle conseguenze che si pongono come “eccezionali” rispetto al criterio della ragionevole probabilità che un certo fatto produca un determinato evento dannoso. Affermare od escludere l’esistenza del nesso causale non è sempre compito facile né scontato. Nell’esempio fatto è evidente la eccezionalità dell’evento morte rispetto al danno alla vettura provocato dal tamponamento. Ma se, ad esempio, un commerciante di armi violando norme penali e amministrative vende un’arma ad un minore e quest’ultimo, mentre la mostra ad un amico nella sua abitazione lo ferisce ad un braccio, il negoziante risponde della lesione? È evidente che il requisito in esame unitamente all’altro della ingiustizia del danno non costituiscono soltanto momenti formali di ampliamento o di riduzione dell’area della responsabilità civile bensì strumenti di selezione dei danni risarcibili (così come l’ingiustizia costituisce – come si è detto – strumento di selezione degli interessi tutelati). Si svelano in tal modo, specie nell’opera dei giudici e del loro fare diritto vivente, scelte che si ascrivono ad una politica differenziata di amministrazione degli interessi tutelati e dei danni risarcibili. Così, ad es., accreditare la causalità nell’area della materialità del nesso rilevante secondo una teoria c.d. della conditio sine qua non, significa tendere ad accrescere fino a saturazione le esigenze di riparazione del danno (specie nelle ipotesi in cui sia difficile formulare criteri di imputazione della responsabilità con riguardo agli eventi cc.dd. intermedi); al contrario, accreditare il principio della adeguatezza casuale significa ordinare secondo un criterio di rilevanza statistica e sociale i danni risarcibili. In via generale quando si spiega il nesso causale si fa riferimento alla condotta e all’evento per evidenziare la estraneità di talune conseguenze alla condotta stessa. Ma – come già abbiamo avuto modo di affermare – il riferimento alla condotta dell’agente non esaurisce le ipotesi di fatto illecito che a volte richiedono semplicemente l’esistenza di un determinato rapporto in cui il soggetto imputabile si trova con una persona (art. 2049 c.c.) o con una cosa (art. 2051 c.c.).

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In questi casi la necessità di ricercare un nesso causale sussiste egualmente anche se tale indagine è agevolata dal criterio oggettivo di imputazione della responsabilità: a ben vedere infatti la valutazione riguardante la presunzione assoluta o relativa di responsabilità viene ad investire anche l’altra sulla consistente probabilità di esistenza del nesso causale. Cosicché il giudizio sulla ricorrenza del nesso di casualità fra danno e custodia è certamente “rafforzato” rispetto a quello espresso da una ordinaria condotta illecita. Ma cionondimeno sussiste. Ad esempio, sebbene il custode di un complesso immobiliare munito di piscina risponda dei danni che derivino agli utenti dall’uso della piscina, è stata esclusa la responsabilità in un caso in cui nel corso di una festa notturna uno degli ospiti decideva improvvisamente di tuffarsi riportando gravi lesioni; ancora, è stata esclusa la responsabilità dell’ente proprietario della rete autostradale in difetto della prova che il cane che aveva causato l’incidente era entrato in autostrada attraverso la parte rotta della rete di protezione, di cui si adduceva la omessa manutenzione. Il nesso di causalità sussiste non solo nel caso in cui il soggetto causa il danno attraverso la sua condotta positiva ma anche allorché ometta iniziative che avrebbero potuto impedire il danno e che aveva il dovere di assumere: l’addetto ad un bioparco che entri nella gabbia di un animale in cattività e gli somministri il pasto e poi ometta di chiudere la porta è responsabile del danno che un terzo subisca per effetto dell’aggressione portata dall’animale. Alla produzione del danno possono concorrere con l’autore dell’illecito altre persone compreso lo stesso danneggiato. In quest’ultimo caso l’art. 2056 c.c., che richiama analoga norma in tema di concorso del fatto colposo del creditore, stabilisce che il risarcimento a carico del responsabile è diminuito di una percentuale che tenga conto della gravità della colpa del danneggiato e della entità delle conseguenze ascrivibili alla sua condotta concorrente. Nel caso invece in cui più persone abbiano contribuito a cagionare il danno, l’art. 2055, primo comma, c.c. stabilisce che tutte sono solidalmente obbligate al risarcimento integrale del danno indipendentemente dal grado e dalla misura del contributo individuale: questo rileva soltanto nei rapporti interni poiché colui che ha risarcito il danno può richiedere agli altri (regresso) quote di risarcimento determinate in relazione alla gravità delle colpe dei concorrenti e alla entità delle conseguenze che ne sono derivate (art. 2055 c.c., secondo comma); analoga disposizione regola il concorso di responsabili del danno derivante da prodotti difettosi (art. 121 Codice del consumo).

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SEZIONE III: LE RESPONSABILITÀ SPECIALI 10. Codice civile e legislazione speciale L’atipicità del nostro sistema di responsabilità civile e l’esistenza della clausola generale contenuta nell’art. 2043 c.c. non sono affatto incompatibili con la previsione di specifiche ipotesi di illeciti. Alcune di queste ipotesi sono contemplate nello stesso codice civile dopo l’art. 2043, altre sono disciplinate da leggi speciali. Si tratta di ipotesi molto diverse fra loro, in cui la giustificazione di una specifica regolamentazione va dal rilievo conferito ai soggetti, ai beni coinvolti nell’evento dannoso, a particolari rapporti dell’autore dell’illecito con persone o cose. In molte di queste è però possibile segnalare un unico comune denominatore: indipendentemente dal criterio di imputazione operante in concreto (se fondato sulla colpa o sulla responsabilità oggettiva) è dato invero riscontrare una intensificazione della tutela del soggetto danneggiato realizzata attraverso il ricorso ad una disciplina più severa rispetto al modello generale del regime di responsabilità. La legislazione speciale ha arricchito le ipotesi previste dal codice aggiungendone altre che alla regola generale si richiamano pur tendendo a differenziarsene in ragione di peculiarità specifiche della fattispecie. Non si tratta di un fenomeno nuovo e quanto si registra in tema di responsabilità civile esprime una tendenza che si è più volta concretizzata rispetto ad altri istituti: così i diversi statuti della proprietà soverchiano il diritto di proprietà tout court; la vendita, già articolata nel codice in una serie di vendite speciali, si frammenta in ulteriori categorie e tipi (vendita in multiproprietà, vendita di beni di consumo); così in una certa misura lo statuto del fatto illecito adatta le sue regole, concede spazio alle peculiarità delle singole figure. Come si è osservato, in ciascuna delle fattispecie codificate negli articoli del codice civile che seguono l’art. 2043, si registra un aggravamento della posizione dell’autore dell’illecito. A rigore perché ricorra l’ipotesi di responsabilità oggettiva è necessario che il danno sia imputato al soggetto sulla base del solo nesso causale indipendentemente da qualsiasi considerazione in ordine all’elemento soggettivo e dunque alla colpa del responsabile. La quasi totalità delle ipotesi previste dal codice civile contemplano una prova liberatoria. Occorre allora distinguere: a) se tale prova ha riguardo alla soglia di diligenza e di perizia impiegata dall’autore, nel senso che il danneggiante deve provare di avere impiegato il

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più alto grado di diligenza possibile al fine di evitare il danno, la responsabilità può – almeno formalmente – ritenersi fondata su un giudizio di rimprovero e dunque sulla colpa, ancorché lievissima; il difetto della diligenza richiesta dalla norma si risolve infatti in una valutazione in termini di colpa dell’operato dell’agente; b) se invece tale prova ha riguardo a fatti estranei alla condotta del soggetto ed incide sul nesso causale, la responsabilità sussiste anche quando a carico del soggetto non può essere formulato alcun addebito (quindi in totale assenza di colpa) e viene meno soltanto nel caso in cui il danneggiante riesca a provare l’assenza di qualsiasi riferimento causale tra il fatto e il danno.

11. Segue: quelle previste dal codice civile Tra le ipotesi in esame possono ritenersi fondate sulla colpa: – la responsabilità dei genitori e degli insegnanti per i danni cagionati dai figli o dagli allievi (art. 2048 c.c.); – la responsabilità del proprietario di una costruzione per i danni arrecati in conseguenza di difetto di manutenzione (art. 2053 c.c.); – la responsabilità del proprietario di un veicolo per i danni derivati da difetto di manutenzione (art. 2054, ultimo comma, c.c.). Nel primo caso, la responsabilità dei genitori e degli insegnanti viene fondata dalla giurisprudenza su una presunzione relativa di culpa in educando o di culpa in vigilando, cosicché la prova liberatoria che tali soggetti sono tenuti a fornire per andare esenti da responsabilità consiste nell’aver impiegato le dovute misure di controllo e vigilanza e di avere impartito una adeguata educazione al minore. Nel secondo e nel terzo caso, il danno cagionato dalla rovina dell’edificio o dalla circolazione del veicolo e che sia dovuto a difetto di manutenzione da parte del proprietario può essere facilmente ricondotto ad un difetto di diligenza nella cura e nella conservazione della efficienza del bene. Diversamente se il danno provocato dalla rovina dell’edificio (art. 2053 c.c.) o dalla circolazione del veicolo (art. 2054 c.c.) sia da ricondurre ad un vizio di costruzione del bene. Nella prima ipotesi il proprietario si libera soltanto provando che la rovina non è dovuta a vizio di costruzione: il che significa che il vizio di costruzione consente di affermare la responsabilità del proprietario indipendentemente dal fatto che egli sia anche costruttore e che il vizio sia dunque ascrivibile alla sua sfera di azione. Nella seconda ipotesi tanto il proprietario quanto il conducente sono responsabili del danno causato da

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vizi di costruzione del veicolo cosicché viene loro addossata una responsabilità che prescinde totalmente da qualsiasi valutazione della loro condotta soggettiva. Ricordiamo, per completezza, le altre ipotesi di responsabilità previste dall’art. 2054 c.c. e legate alla circolazione dei veicoli senza guida di rotaie. Il conducente risponde del danno prodotto dalla circolazione del veicolo a meno che non provi di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno: la prova è sicuramente rigorosa ma è anche certo che la dimostrazione di aver tenuto una condotta esente da qualsiasi addebito vale a scagionare il conducente. D’altro canto della connotazione soggettiva della responsabilità in questione può trovarsi conferma anche nel secondo comma della norma che disciplina il caso dello scontro tra veicoli stabilendo una presunzione di colpa dei conducenti dei veicoli fino a prova contraria: la giurisprudenza ritiene sufficiente per assolvere uno dei conducenti la prova anche indiretta che il comportamento di uno di essi sia stato il fattore causale esclusivo dell’evento dannoso, non evitabile da parte dell’altro con l’adozione di efficienti manovre di emergenza: come si vede la colpa esclusiva di uno dei conducenti annulla la responsabilità dell’altro il che non consente a nostro avviso di parlare nel caso in esame di responsabilità oggettiva. In altre fattispecie previste dal codice, come si è osservato, la prova liberatoria non investe la misura della diligenza riposta dall’agente in una condotta o in una attività bensì la configurazione stessa di una relazione causale tra la fattispecie di responsabilità e il danno; in queste ipotesi la responsabilità viene in ogni caso ascritta al soggetto, indipendentemente da qualsiasi rimprovero possa essere allo stesso mosso e costui si libera soltanto provando l’inesistenza del nesso causale. Chi ha la custodia di una cosa ovvero chi ha la proprietà o si serve di un animale è responsabile dei danni provocati dalla cosa o dall’animale salvo che provi il caso fortuito e cioè un evento imprevedibile e inevitabile (ovvero dovuto alla condotta esclusiva del danneggiato) che ha costituito la causa esclusiva del danno. Il casus (così come la vis maior) è assenza di colpa; e quando costituisce un criterio di imputazione della responsabilità tale criterio è sicuramente un criterio oggettivo. Così il proprietario di un appartamento risponde in ogni caso del danno prodotto dalla caduta del vaso di fiori esposto fuori della finestra; la pubblica amministrazione alla quale numerose decisioni ritengono applicabile l’art. 2051 c.c. per i danni causati dalle insidie di una strada pubblica, purché l’estensione del bene non sia incompatibile con l’esercizio di un controllo volto ad evitare l’insorgenza di pericoli, risponde fino al limite del fortuito. Il proprietario di un maneggio ma anche il cliente cui venga affidato un

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cavallo per una passeggiata in campagna rispondono dei danni provocati dall’animale (ad es., alla recinzione di un fondo, al raccolto di un campo) anche se a montare il cavallo è un esperto cavaliere. Per liberarsi da responsabilità quest’ultimo deve provare il caso fortuito che non attiene al suo comportamento, che nella specie potrebbe essere irreprensibile, ma a quello dell’animale e deve essere tale da farsi risalire ad un evento che viene ad assumere efficacia causale esclusiva ed assorbente, compreso il fatto del terzo o la colpa del danneggiato e in genere ogni circostanza estranea al proprietario che si ponga come causa autonoma dell’evento dannoso. Ad esempio, il cavallo viene deliberatamente spaventato da un amico che, per gioco, gli fa scorrere davanti un topolino meccanico; mentre il semplice imbizzarrimento dell’animale non varrebbe a costituire caso fortuito attesa la naturale imprevedibilità di tutti gli animali e del cavallo in particolare. In un caso si è esclusa la responsabilità del proprietario di un cane a causa della colpa esclusiva del danneggiato (idonea ad integrare il caso fortuito) che si era introdotto in un magazzino nell’ora di chiusura al pubblico ed era stato aggredito. L’art. 2050 c.c. stabilisce che colui che esercita un’attività pericolosa (ad es. confezionamento di gas in bombole, produzione di farmaci, preparazione di fuochi d’artificio), è tenuto al risarcimento a meno che non provi di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Al di là della formula, che sembrerebbe meno rigorosa del caso fortuito, e sembrerebbe consentire un’indagine diretta a controllare l’idoneità e l’efficacia delle misure di cautela adottate dall’esercente, in realtà il contenuto della prova liberatoria è inteso dalla giurisprudenza in modo particolarmente severo. È certo che il giudizio sulla idoneità della misura adottata ad evitare il danno è un giudizio che va espresso con riferimento alla situazione esistente prima del verificarsi del fatto (giudizio ex ante); si potrebbe infatti osservare che se il danno si è potuto verificare è evidente che è stata omessa l’adozione di quelle misure che avrebbero potuto evitarlo, salvo naturalmente che il fatto sia ascrivibile al fortuito. Si sostiene che non basta la prova di aver rispettato la normativa vigente e di aver osservato la comune prudenza, ma occorre la prova positiva di aver impiegato ogni possibile cura. Ora, la difficoltà di fornire tale prova e la residualità dell’ipotesi in cui non esisteva neanche il più sofisticato accorgimento per evitare il manifestarsi del danno, suggeriscono di ascrivere anche tale ipotesi al novero della responsabilità oggettiva. Nelle ipotesi esaminate si ritiene ricorrano presunzioni (con riguardo alla prova dell’elemento soggettivo che, nell’ambito della regola di responsabilità ex art. 2043 c.c., spetta al danneggiato) e cioè tecniche che consentono di ritenere come accaduto un certo fatto il cui accertamento giova ad un soggetto ed addossano all’altro, controinteressato, l’onere della prova contraria.

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Specificamente, nelle ipotesi che abbiamo indicato come responsabilità soggettiva si ritiene esistente una presunzione di colpa a carico del danneggiante sul quale viene trasferito l’onere probatorio del fatto idoneo ad escludere la sua colpevolezza; la responsabilità ne risulta così “aggravata”. Tale presunzione di colpa è relativa, proprio perché può essere superata attraverso la prova contraria. Nelle ipotesi che, invece, abbiamo ascritto alla responsabilità oggettiva, ciò che la legge “presume” ed afferma non è la colpa bensì la stessa responsabilità, che viene sancita in virtù di criteri diversi dalla colpa (in genere sulla base di qualificati rapporti dell’autore con persone o cose, o sulla base della natura dell’attività esercitata). Si tratta peraltro anche in questo caso di una “presunzione” sempre relativa, ancorché più “resistente” alla prova contraria, perché il caso fortuito, la forza maggiore, il fatto del terzo o la colpa esclusiva del danneggiato escludono la responsabilità. Nessuna prova contraria, invece, è riconosciuta al datore di lavoro per i danni commessi dal dipendente nell’esercizio delle sue incombenze. Presunzione di responsabilità dunque assoluta che non contempla neanche la prova del fortuito. Si tratta di ipotesi, per tale ragione, indiscussa di responsabilità oggettiva. Per l’imputazione della responsabilità al datore di lavoro è peraltro necessario che il fatto posto in essere dal dipendente sia un fatto illecito “ordinario” e dunque doloso o colposo ed occorre inoltre un nesso tra l’evento dannoso e le incombenze alle quali il dipendente è adibito: sotto questo profilo la giurisprudenza tende ad ampliare l’area di applicazione della norma ritenendo sufficiente l’esistenza di un nesso c.d. di occasionalità necessaria tra l’illecito e il rapporto che lega i due soggetti, nel senso che le mansioni affidate al dipendente abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno. In questa ipotesi si parla anche di responsabilità indiretta o per fatto altrui. Non è un caso che proprio da tale norma e dalla sua rigorosa conformazione si sia mosso per una ricostruzione della teoria del c.d. rischio d’impresa come fondamento della responsabilità oggettiva.

12. Segue: quelle previste dalla legislazione speciale La legislazione post codicistica ha disciplinato nuove fattispecie di responsabilità provvedendo a regolare con la tutela risarcitoria interessi emergenti (ad es. il danno ambientale), ovvero interessi fino ad oggi tutelati – per molteplici ragioni – in modo limitato (es. il danno derivante da un malgoverno dell’attività giudiziaria). Anche la dottrina che – in materia – ha seguito la tendenza più generale a prospettare una frammentazione di illeciti c.d. spe-

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ciali nel tentativo di evidenziare le differenze e le peculiarità delle molteplici vicende dell’istituto della responsabilità, ha indicato una serie numerosa di fattispecie in alcuni settori rilevanti delle attività sociali nei quali si sono sedimentate una serie di regole giuridiche ed una serie di pronunce della giurisprudenza in ragione del determinato settore di attività. Invero regole particolari anche giurisprudenziali disciplinano la responsabilità per danni cagionati nell’esercizio di un’attività professionale, specie medica, o nell’ambito dell’attività di informazione giornalistica o di comunicazione di dati personali. Così, ad es., il c.d. diritto di cronaca misura il limite della sua liceità, rispetto ai pregiudizi arrecati alla persona, nella verità, anche putativa, della notizia divulgata, nell’interesse sociale alla sua diffusione e nella continenza del linguaggio espositivo. È importante segnalare ad esempio che il d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, c.d. codice in materia di protezione dei dati personali, disciplina l’ipotesi di danno cagionato per effetto del trattamento di dati personali secondo il criterio contenuto nell’art. 2050 c.c. che viene espressamente richiamato dalla norma e quindi secondo un criterio di imputazione sostanzialmente oggettivo. Regole specifiche vengono applicate anche nel campo del danno alla persona ove è stata elaborata la figura del danno biologico che tuttavia è meglio trattare quando parleremo del danno e in particolare del danno non patrimoniale. È ora opportuno descrivere alcune fattispecie di responsabilità speciali disciplinate dal legislatore in settori delle attività sociali di particolare rilievo: la responsabilità per danno ambientale, la responsabilità per danno da difetto del prodotto e la responsabilità del giudice per malgoverno dell’attività giudiziaria. L’analisi di queste fattispecie consentirà di evidenziare la tendenza del moderno legislatore ad adottare modelli di responsabilità oggettiva che sono in grado di offrire risposte più adeguate all’esigenza di tutela del danneggiato a fronte della moltiplicazione delle occasioni di danno in tutte le attività socialmente rilevanti. Così invero per le prime due; ragioni facilmente spiegabili giustificano invece una disciplina in termini soggettivi della responsabilità del magistrato.

13. La responsabilità del produttore La responsabilità del produttore ha offerto – come si è detto – un territorio fertile per la costruzione del c.d. rischio di impresa che accredita nel settore delle attività economiche di produzione di beni, criteri di imputazione

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della responsabilità di natura oggettiva. L’opportunità di una regola che consentisse l’affermazione della responsabilità del produttore indipendentemente da una sua colpa, muoveva dalla riconosciuta difficoltà per il danneggiato di provare la colpa del responsabile. In realtà il danneggiato aveva e conserva anche oggi dopo la novella legislativa un’azione di responsabilità contro il rivenditore la quale, avendo natura contrattuale, esonera il danneggiato dalla necessità di provare la colpa del danneggiante facendo gravare su quest’ultimo l’onere di dimostrare di essersi comportato con la diligenza prevista dall’art. 1176 c.c. Era però assai agevole per il negoziante sottrarsi alla responsabilità dimostrando l’osservanza di tutte le prescrizioni inerenti lo stoccaggio, la conservazione e la custodia del prodotto, e dunque la sua estraneità al fatto (ad es. rispetto ad un improvviso scoppio di una bottiglia in un supermercato) con la conseguenza che l’esperienza pratica ha dimostrato l’insuficienza di tale soluzione. In questo contesto, il titolo II del Codice del Consumo (responsabilità per danno da prodotti difettosi) ha immesso nel codice le disposizioni del D.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 emanato in attuazione di una direttiva comunitaria. Ai sensi dell’art. 114 del predetto codice il produttore è responsabile dei danni cagionati da difetti del suo prodotto. Il difetto può riguardare la fabbricazione del bene ed essere dunque presente soltanto in un esemplare di una serie di prodotti, ovvero la sua progettazione e dunque investire l’intera serie prodotta. In ogni caso il prodotto si considera difettoso quando non offre la sicurezza che il consumatore può legittimamente attendersi tenuto conto di alcune circostanze indicate dalla norma (art. 117). È certamente insicuro e dunque difettoso un letto a castello che non ha sopportato il peso di un uomo e sia crollato, un giocattolo costruito con specchi suscettibili di infrangersi e di procurare lesioni, un medicinale privo di tappo che sigilli efficacemente la confezione. Di sicurezza dei prodotti il codice del consumo si occupa anche nel titolo I della parte IV dedicata alla Sicurezza e qualità dei prodotti (parte sotto la quale è collocato anche il titolo II relativo – come si è detto – alla responsabilità per danno da prodotti difettosi) attraverso una serie di disposizioni che mirano a garantire le aspettative dei consumatori in ordine alla qualità e alla sicurezza dei prodotti, e che espressamente fanno salve le disposizioni di cui al titolo II in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi (art. 111). Non possiamo qui intrattenerci sul concetto di sicurezza che costituisce tuttavia un elemento centrale del rapporto fra produzione e consumo venendo a interferire con la tutela della salute e la sicurezza delle persone; osserviamo soltanto che il livello di sicurezza del prodotto indicato nel titolo I delle norme dirette a garantire la sicurezza dei prodotti è più elevato rispetto a quello impiegato nel titolo II con riferimento alle

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norme che disciplinano la responsabilità. È tuttavia auspicabile che tale più elevato standard di sicurezza fissato nel livello minimo di rischio compatibile con la salute del consumatore, valga ad integrare e ad incidere sulla ricostruzione del significato che la sicurezza assume nell’ambito delle norme sulla responsabilità e quindi sulla definizione di prodotto difettoso come prodotto che “non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere”. Preme invece qui rilevare che secondo la interpretazione quasi unanime il produttore risponde oggettivamente del danno cagionato da difetti del prodotto messo in circolazione. Egli infatti non può andare esente da responsabilità dimostrando la propria mancanza di colpa. Vero è che l’art. 118 prevede una serie di ipotesi in cui la responsabilità del produttore è esclusa; tuttavia tale esenzione è stabilita non in ragione della assenza di colpa, ma in relazione a cause che recidono qualsiasi collegamento fra la difettosità del prodotto e l’attività di impresa. Tali cause, estranee al rischio di impresa, riguardano infatti o la circostanza che il produttore non abbia messo in commercio il prodotto o non lo abbia fabbricato per destinarlo al mercato, ovvero l’altra che il difetto sia conforme a una norma o a un provvedimento vincolanti, o infine la circostanza che lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche non permetteva, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, di considerare il prodotto stesso come difettoso e tuttavia un danno si sia verificato (c.d. rischio da sviluppo). La responsabilità del produttore è estesa al distributore quando il produttore non è individuato; inoltre – a seguito del d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 25 – la tutela stabilita per il prodotto commerciale è stata allargata a quello agricolo, mentre analoga previsione non esiste attualmente per i beni che consistono in servizi. Infine il risarcimento è limitato alla persona o a una cosa, ma diversa dal prodotto difettoso, e soltanto ove il danno ecceda una determinata franchigia.

14. La responsabilità per danno all’ambiente La responsabilità per danno ambientale presenta profili assai peculiari e risulta di incerta qualificazione in ordine al criterio di imputazione adottato. Innanzitutto è bene chiarire che un fatto che rechi danno all’ambiente può danneggiare sia diritti individuali (proprietà, salute) sia ad un tempo l’ambiente come bene pubblico considerato cioè in senso unitario come insieme di beni e valori che appartengono all’intera collettività. L’emissione di un gas nocivo, può distruggere il mio raccolto, può creare seri danni alla mia salute e – ad un tempo – inquinare l’aria ed una rilevante porzione del territorio,

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beni sui quali insiste un interesse diffuso della collettività alla loro conservazione, protezione e valorizzazione. Nel primo caso vengono lese posizioni soggettive individuali che trovano tutela nelle norme ordinarie secondo regole di responsabilità destinate a funzionare in base ai criteri di imputazione sopra esaminati, a seconda delle diverse fattispecie normative applicabili. Nel secondo caso si è in presenza di un danno che è la conseguenza della lesione non di un interesse individuale ma di un interesse collettivo, che si risolve quindi in un pregiudizio arrecato non ad un soggetto determinato ma a tutta una collettività individuata in base alla appartenenza ad una porzione del territorio. Per molto tempo, fino al 1986 (anno in cui è stata introdotta in Italia la legge n. 349 dell’8 luglio, legge istitutiva del Ministero dell’ambiente, che all’art. 18 disciplinava espressamente il danno ambientale) tale interesse diffuso della collettività e tale danno collettivo ricevevano una qualche tutela risarcitoria solo indirettamente attraverso cioè la utilizzazione degli strumenti privatistici a difesa della proprietà (disciplina delle immissioni, art. 844 c.c.) o attraverso il riscorso all’art. 32 Cost. e alla configurazione di un diritto soggettivo alla salute come diritto ad un ambiente salubre; tali norme, difendendo un interesse individuale, venivano a proteggere anche l’ambiente. Con la legge ora citata si era per la prima volta disciplinato il danno ambientale riservando allo Stato l’esercizio dell’azione risarcitoria e il beneficio del risarcimento. La materia è oggi regolata dal d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 norme in materia ambientale (T.U. sull’ambiente, detto anche Codice dell’ambiente) che ha abrogato l’art. 18 della citata legge n. 349 del 1086 (salvo il comma quinto) dettando nella parte VI agli artt. 299-318 disposizioni in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente. Il risarcimento del danno ambientale è disciplinato all’art. 311, n. 2 che così testualmente recita: “chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato”. La responsabilità per danno ambientale era, vigente la legge n. 349 del 1986, di tipo soggettivo (nonostante qualche voce contraria) e la legge attuale sembra egualmente aver configurato una responsabilità per colpa. Vero è però che proprio in questo settore in cui si manifesta con particolare evidenza sia la necessità di una tutela preventiva (come vedremo in seguito) sia l’esigenza di assicurare una tutela ripristinatoria e dunque in forma specifica degli interessi ambientali, con riguardo a particolari materie (inquinamento marino e danni da incidenti nucleari) rispettivamente l’art. 21 della legge n. 979 del 1982 e

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l’art. 15 della legge n. 1860 del 1962 avevano previsto forme di responsabilità oggettiva (così come avviene in altri Paesi, ad es. Francia e Stati Uniti con riferimento a materie analoghe). D’altro canto lo stesso contesto normativo dell’Unione Europea desumibile sia dal Trattato di Mastricht sia da numerose direttive sembra sollecitare ai legislatori nazionali l’adozione di modelli di responsabilità oggettiva in materia ambientale. Il principio “chi inquina paga”, principio cardine della politica dell’Unione in materia ambientale, viene spiegato in termini obbiettivi senza cioè alcun riferimento alla colpa come elemento che condiziona l’obbligo risarcitorio (art. 174, n. 2 del Trattato di Mastricht). Parimenti il principio di precauzione consente di considerare illecite condotte od omissioni degli operatori economici la cui attività possa costituire un pericolo anche solo potenziale per la salute umana e per l’ambiente in conseguenza del riscontro di una mera condizione di incertezza riguardo alla esistenza o alla portata dei rischi individuabili sulla base di una valutazione scientifica. Anche la Direttiva 2004/35 UE sulla responsabilità ambientale in tema di prevenzione e riparazione del danno ambientale (alla quale il nostro legislatore ha dato attuazione proprio a mezzo del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152) stabilisce nei “considerando” che precedono la parte dispositiva che “secondo il principio chi inquina paga l’operatore che provoca un danno ambientale o è all’origine di una minaccia imminente di tale danno dovrebbe di massima sostenere il costo delle necessarie misure di prevenzione o di riparazione. È inoltre opportuno che gli operatori sostengano in definitiva il costo della valutazione del danno ambientale ed eventualmente della valutazione della minaccia imminente di tale danno” (n. 18). Il successivo considerando (n. 20) mitiga la descrizione in termini oggettivi del principio chi inquina paga stabilendo che gli Stati membri non debbono ma possono consentire che gli operatori dei quali non sia accertato il dolo o la colpa siano dispensati dall’obbligo di sostenere il costo di misure di riparazione, ma limitatamente a quelle situazioni in cui il danno deriva da emissioni o eventi espressamente autorizzati o la cui natura dannosa non era nota al momento del loro verificarsi. Va inoltre segnalato che in presenza di un danno ambientale, che ora il Codice definisce all’art. 300 come “qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”, specificando poi in quattro ipotesi la nozione di deterioramento, l’art. 313 dà facoltà al Ministro dell’ambiente, titolare dell’azione giudiziaria, di adottare a carico del responsabile che non abbia attivato le misure di ripristino contemplate nel titolo II della parte VI, un’ordinanza immediatamente esecutiva con la quale ingiunge il ripristino ambientale a titolo di risarcimento in forma specifica ovvero il pagamento di una somma di da-

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naro. Il suddetto art. 313 al n. 3 prevede che tale ordinanza, con riguardo al risarcimento in forma specifica, produca i suoi effetti non solo nei confronti del responsabile del fatto dannoso, ma anche a titolo oggettivo, nei confronti del soggetto “nel cui effettivo interesse il comportamento fonte del danno è stato tenuto” o del soggetto che “ne abbia obiettivamente tratto vantaggio”, sottraendosi agli oneri economici necessari per apprestare le necessarie opere preventive, adottare le opportune cautele, rispettare gli obblighi imposti da norme, secondo l’esito dell’accertamento istruttorio di cui all’art. 312. Tale accertamento, che potrebbe in qualche modo evocare una valutazione in termini di colpa della condotta del soggetto, rileva peraltro come mero presupposto per l’emanazione della predetta ordinanza ed è inoltre successivo al fatto illecito: si tratta pertanto con ogni probabilità di una previsione di responsabilità oggettiva che tende a scongiurare il pericolo che dietro i soggetti responsabili si nascondano operatori occulti che possano trarre vantaggio dalla condotta illecita ambientale. Va ricordato che l’art. 313, n. 7 fa in ogni caso salvo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi.

15. La responsabilità del magistrato Anche l’attività giurisdizionale, come qualsiasi attività dell’uomo, è soggetta al rischio di errori che possono essere fonte per il cittadino di disagio e di danno. Normalmente l’errore rimane assorbito all’interno dell’ordinamento giudiziario e trova rimedio nel sistema delle impugnazioni: una sentenza sbagliata del Tribunale sarà corretta dalla Corte di Appello; e se anche il secondo giudice commetterà degli errori provvederà la Corte di Cassazione ad emendare la decisione rendendola giusta o a rimettere gli atti della causa ad un’altra Corte di Appello perché decida la controversia applicando il principio di diritto affermato dalla Suprema Corte. Il disagio del cittadino è in qualche modo tollerato dall’ordinamento e costituisce, se si vuole, il prezzo del complicato e garantistico sistema processuale di cui da tempo si invoca, ed in parte si è attuata, una semplificazione. I relativi danni rimangono così “internalizzati” nei costi per così dire di transazione e di accesso alla giustizia, ovvero attribuiti alla parte vittoriosa attraverso sistemi di compensazione interni al procedimento (condanna del soccombente alle spese di lite, rivalutazione dei crediti) diretti a compensare il tempo trascorso e gli sforzi impiegati per ottenere una decisione giusta.

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Allorché però tali tempi siano esorbitanti e la durata del processo superi ogni ragionevole limite il cittadino gode di una tutela ulteriore. Il fondamento normativo di tale tutela si basa sulle seguenti disposizioni: l’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, intitolato “Diritto ad un processo equo” stabilisce che ogni persona “ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole”; l’art. 47, secondo comma, della Carta di Nizza del 7 dicembre 2000 sui Diritti fondamentali dell’Unione Europea stabilisce che “ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge”; l’art. 111 Cost. nel testo riformato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 stabilisce al secondo comma che la legge deve assicurare una ragionevole durata del procedimento. Tale compito la legge ha assolto attraverso la emanazione di norme dirette a snellire le procedure, a concentrare alcune attività in una prospettiva volta ad abbreviare i tempi della giustizia, ad incrementare l’oralità (obiettivi questi concretamente perseguiti da numerose riforme del codice di procedura civile), ma anche reprimendo e sanzionando quei procedimenti che ciononostante abbiano avuto una durata eccessiva. La legge 24 marzo 2001, n. 89 stabilisce all’art. 2 che chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale a causa del mancato rispetto del termine ragionevole di durata del procedimento di cui al citato art. 6 della Convezione, ha diritto anche prima che il procedimento sia definito, ad un’equa riparazione. Nell’accertare tale violazione il giudice considera la complessità del caso, la condotta delle parti nonché il comportamento del giudice del procedimento. Il danno non patrimoniale si ritiene immanente alla durata irragionevole cosicché il giudice deve ritenere sussistente tale danno e provvedere al risarcimento ogni qual volta non ricorrano nel caso concreto circostanze particolari che facciano positivamente escludere tale danno. È agevole comprendere che in genere una ingiusta condanna penale può essere assai più dannosa di una ingiusta soccombenza in un procedimento civile. È questa probabilmente la ragione per la quale si è da tempo dato ingresso nel nostro ordinamento alla riparazione di un simile errore giudiziario: l’art. 629 c.p.p. riformato stabilisce che a favore dei condannati è sempre ammessa la revisione delle sentenze o dei decreti penali di condanna divenuti irrevocabili anche se la pena sia stata già eseguita o si sia estinta. L’art. 630 indica in quali casi la revisione si può chiedere e infine l’art. 643 stabilisce che colui che a seguito della revisione sia stato prosciolto ha diritto, qualora non abbia dato causa per dolo o colpa grave all’errore giudiziario, ad una “riparazione commisurata alla durata dell’eventuale espiazione della pena o

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internamento e alle conseguenze personali e familiari derivanti dalla condanna”. Si ritiene che tale danno non sia riconducibile ad un illecito e che sia il risultato di una condotta conforme all’ordinamento ma produttiva di un danno la cui riparazione ha carattere non risarcitorio ma indennitario per la cui liquidazione peraltro trovano ingresso, nell’ambito di una valutazione equitativa, i criteri civilistici elaborati per il risarcimento del danno, sia patrimoniale che non patrimoniale e in particolare del danno biologico e di quello esistenziale. Vero e proprio illecito costituisce invece la condotta ovvero la emanazione di un atto o di un provvedimento da parte di un giudice (appartenente a qualsiasi giurisdizione e dunque anche il giudice civile) che, con dolo o colpa grave, abbia causato un danno ingiusto. A stabilirlo è la legge 13 aprile 1988, n. 117, legge assai controversa, la cui emanazione è stata “incoraggiata” dall’abrogazione referendaria dell’art. 55 c.p.c. che dettava una disciplina assai limitativa in ordine alla responsabilità civile del magistrato (norma ora abrogata dal D.P.R. 9 dicembre 1987, n. 497 in seguito a referendum popolare). La legge 27 febbraio 2015, n. 18 ha modificato la disciplina della responsabilità civile dei magistrati, anche al fine di adeguare l’ordinamento italiano alle indicazioni della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. L’acceso dibattito che si è sviluppato intorno a questa legge si spiega per la delicatezza delle questioni che il tema coinvolge. Vengono invero in potenziale conflitto due principi di rango costituzionale: la responsabilità dei pubblici funzionari per gli atti compiuti in violazione dei diritti sancita dall’art. 28 Cost. e l’indipendenza e l’autonomia della magistratura che vuole i giudici soggetti soltanto alla legge ed indipendenti da altri poteri (artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost.). Se da un lato non appare giusto che un giudice che sbagli non debba pagarne le conseguenze, dall’altro l’esposizione a questo rischio potrebbe facilmente minare la serenità e la indipendenza del giudicante. Evidenti ragioni di cautela e di prudenza nel regolare la materia hanno pertanto suggerito al legislatore, nell’intento di tutelare il cittadino ingiustamente danneggiato, non solo di ancorare la responsabilità del giudice ad un criterio di imputazione soggettiva ma di esigere al riguardo un grado particolarmente elevato di colpa. L’art. 2 della citata legge 13 aprile 1988, n. 117, come novellato dalla citata legge n. 18 del 2015, ha pertanto limitato la responsabilità del giudice ai casi di dolo e colpa grave ed inoltre ha fissato una serie di regole volte a circoscrivere la fattispecie della responsabilità civile del magistrato e l’area del danno risarcibile. Innanzitutto presupposto dell’azione risarcitoria è che siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione contro il provvedimento fonte di danno, es-

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sendo certo possibile che l’errore del giudice trovi riparazione nel provvedimento di riforma emesso dal giudice sovraordinato (art. 4, n. 2). L’art. 2, n. 2 stabilisce poi che non può in ogni caso dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme e quella di valutazione del fatto e delle prove espletate nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Inoltre il legislatore da un lato provvede a specificare quando ricorre il diniego di giustizia, fonte di responsabilità, dall’altro descrive ipotesi tipiche di colpa grave che certamente confinano la responsabilità del magistrato a casi particolari e determinati. Così si ha diniego di giustizia quando il magistrato rifiuta, omette o ritarda il compimento di un atto dovuto nonostante la specifica istanza presentata dalla parte (art. 3). L’art. 2, n. 3 (nel testo modificato dalla citata legge n. 18 del 2015) indica i casi di colpa grave che fa consistere: a) nella manifesta violazione di norme di legge nonché del diritto della Unione europea; b) nel travisamento del fatto o delle prove; c) nell’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; d) nella negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; e) nell’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione. Infine la legge stabilisce che del danno risponde lo Stato e non il giudice, analogamente a quanto previsto con riguardo alla riparazione degli errori giudiziari disciplinata dal cod. proc. pen. e al risarcimento dovuto al cittadino per l’ingiusta durata del procedimento. Ma poiché al contrario di tali ipotesi la legge n. 117 del 1988 non si riferisce a danni derivanti da atti leciti e dunque imputabili in qualche modo all’ordinamento nel suo complesso e in particolare all’esercizio della funzione giurisdizionale, bensì a veri e propri illeciti posti in essere dal giudice, l’art. 7 prevede a favore dello Stato la possibilità di esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato in misura non superiore, eccetto il caso di dolo, alla metà dello stipendio annuo (art. 8).

16. Danno e responsabilità La “risposta” che l’ordinamento oppone con l’art. 2043 c.c. al compimento di un illecito produttivo di un danno risarcibile è una risposta repressiva e sanzionatoria e si risolve nell’obbligo di risarcire il danno prodotto. Nella prospettiva dell’art. 2043 c.c. la responsabilità è dunque collegata alla produzione di un danno. Occorre però chiarire alcuni importanti aspetti della relazione fra danno e responsabilità. Già sappiamo che non ogni danno è fonte di responsabilità e genera un obbligo risarcitorio ed è ciò che avviene – come si è visto – con riguardo ai

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cc.dd. atti leciti dannosi. L’equazione fra danno e responsabilità, anche sotto altri profili, è un’equazione imperfetta. Innanzitutto l’atto illecito, ancorché sovente sia anche dannoso, può non produrre alcun danno e ciononostante essere vietato e conservare la qualifica di illiceità che discende dalla violazione di una norma alla quale consegua la lesione di un diritto: l’invasione della proprietà privata è fatto vietato e dunque illecito indipendentemente dalla circostanza che si sia arrecato danno alle cose altrui. Inoltre occorre considerare che spesso si verificano danni indipendentemente dalla violazione della norma che tutela un determinato interesse: se, ad es., dalla installazione di un ripetitore telefonico conforme alle prescrizioni legali derivino danni alla salute del condomino, il proprietario dell’impianto può egualmente essere chiamato a risponderne. In questa ipotesi risulta peraltro violata la norma generale del non produrre danno a chicchessia (neminem laedere) che trova, nell’esempio fatto, un significativo riferimento nella tutela del diritto alla salute (art. 32 Cost.).

SEZIONE IV: LA TUTELA 17. La tutela: risarcimento del danno per equivalente e in forma specifica L’obbligo risarcitorio, il cui adempimento realizza la tutela dell’interesse leso attraverso la riparazione del danno, può attuarsi in due diversi modi: il risarcimento per equivalente e il risarcimento in forma specifica. Il primo consiste nella attribuzione al danneggiato di una somma di danaro che compensa il valore del bene andato distrutto o l’interesse violato senza tuttavia ripristinare tale valore e tale interesse nella consistenza che essi avevano prima del fatto illecito. Tale risarcimento si dice per equivalente perché avviene non attraverso la restituzione al danneggiato del bene o del valore perduto, bensì attraverso il riconoscimento in suo favore di un quid che solo “equivale” a quel bene e a quel valore. Il secondo consiste invece in una modalità risarcitoria che consente di reintegrare il bene distrutto e l’interesse leso ponendo il danneggiato nella medesima situazione che preesisteva all’illecito e dunque ricostituendo quei valori e restaurando quegli interessi che erano venuti meno con l’illecito. Tale risarcimento si dice in forma specifica perché mira a far conseguire al danneggiato lo stesso specifico bene o un bene simile rispetto a quello perduto.

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Il risarcimento in forma specifica, sebbene soddisfi in modo esemplare l’interesse violato dal fatto illecito, costituisce tuttavia una modalità risarcitoria secondaria ed eccezionale. Invero l’art. 2058, primo comma, c.c. autorizza il danneggiato a chiedere la reintegrazione in forma specifica solo quando sia in tutto o in parte possibile (se, ad es. si tratta di un bene infungibile la reintegrazione non può essere perseguita), ed il secondo comma di tale norma prevede che il giudice possa disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente qualora la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa per il debitore, il che avviene peraltro sovente se si considera che nel risarcimento per equivalente l’entità del risarcimento è commisurata alla perdita patrimoniale e non al costo del ripristino (art. 1223 c.c.). Inoltre la reintegrazione in forma specifica può concorrere con quella per equivalente allorché la prima sia solo in parte possibile (art. 2058, primo comma, c.c.). Dunque la modalità risarcitoria ordinaria è quella per equivalente anche se – come subito vedremo – vi è una tendenza dottrinaria, che peraltro si fonda su non isolati interventi legislativi, diretta a promuovere ed ampliare la tutela in forma specifica dei beni e dei diritti. Tale tendenza e tali interventi normativi si manifestano particolarmente in settori delle attività sociali in cui la tecnica del risarcimento per equivalente si palesa incapace di realizzare una tutela efficiente contro i danni e dove la particolare natura degli interessi lesi richiede una pronta reintegrazione ed una rapida ed integrale restaurazione del bene leso e del diritto violato. Ipotesi di risarcimento in forma specifica sono previste sia nel codice che in alcune leggi speciali. Così l’art. 872 c.c. sanziona la violazione delle norme che regolano le distanze legali fra costruzioni con la riduzione in pristino e cioè con l’eliminazione dell’opera illegittima. La pubblicazione della sentenza di condanna costituisce un rimedio contemplato in via generale dall’art. 120 c.p.c. il quale prevede che la sentenza sia resa pubblica mediante inserzione per astratto in uno o più giornali; anche tale misura realizza una forma di risarcimento in forma specifica perché ripara la violazione attraverso la restaurazione pubblica della verità giudiziaria. Tale misura è espressamente richiamata nell’art. 2600, n. 2 c.c. a tenore del quale il giudice che accerti atti di concorrenza sleale ai sensi degli artt. 2598 ss. c.c. da parte di un imprenditore può ordinare la pubblicazione della sentenza di condanna e dettare gli opportuni provvedimenti perché siano eliminati gli effetti distorsivi per il mercato e pregiudizievoli per il concorrente (art. 2599); gli artt. da 6 a 10 c.c., che dettano norme a protezione del diritto al nome e del diritto all’immagine, prevedono che la sentenza la quale abbia accertato l’abuso del nome o dell’immagine di una persona sia pubblicata in uno o più giornali.

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L’art. 1168 c.c. consente a chi è stato spogliato del possesso della cosa di chiedere contro l’autore dello spoglio la reintegrazione nel possesso della cosa; infine gli artt. 2930-2933 c.c. disciplinano, sotto il profilo della esecuzione forzata, rimedi in forma specifica contro la mancata attuazione di obblighi di consegna e di rilascio, di obblighi di fare e di non fare. Passando alle norme extracodicistiche, la protezione del diritto morale d’autore, del diritto cioè dell’autore di vedersi riconoscere la paternità della sua opera e preservarne la integrità, quale diritto della personalità, è efficacemente assicurata da misure risarcitorie specifiche quali la distruzione degli esemplari messi in commercio con i quali è stata perpetrata la violazione. In tema di diritti di utilizzazione economica spettanti all’autore dell’opera dell’ingegno l’art. 158 del recente T.U. in materia di protezione del diritto d’autore (d.lgs. 16 marzo 2006, n. 140) stabilisce che l’autore può ottenere che a spese dell’autore della violazione sia distrutto o rimosso lo stato di fatto da cui risulta la violazione attraverso la rimozione o la distruzione degli esemplari (art. 159). Il recente Codice della proprietà industriale introdotto con d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30 prevede all’art. 124, n. 1 la possibilità che siano definitivamente ritirati dal commercio i prodotti a mezzo dei quali sia stato violato un diritto di proprietà industriale; la stessa norma al n. 3 prevede che con la sentenza che accerti la violazione di tale diritto il giudice ordini la distruzione di tutte le cose costituenti la violazione. Una modalità risarcitoria in forma specifica è rappresentata anche dalla misura contemplata nel n. 3 dell’art. 125 ove si riconosce al titolare del diritto leso la facoltà di richiedere, in alternativa al lucro cessante, la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione. La modalità risarcitoria in forma specifica prescinde dalla imputabilità e dalla colpa: come è reso evidente dalle norme esaminate che, indicata la misura specifica, precisano che in caso di colpa è dovuto l’ulteriore risarcimento (ad es. l’art. 2600, primo comma in tema di concorrenza sleale; art. 158 l.d.a.).

18. L’azione inibitoria Sovente alle misure reintegratorie in forma specifica si accompagnano misure così dette inibitorie. L’azione inibitoria si sostanzia nell’ordine giudiziale di cessazione del fatto lesivo ovvero di interdizione a porre in essere una determinata condotta fonte di danno. Sotto il primo profilo il rimedio ha carattere sanzionatorio ed integra un mezzo di tutela successivo al verificarsi dell’illecito e specificamente volto ad impedirne la prosecuzione; sotto il secondo profilo il rimedio ha natura

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eminentemente preventiva impedendo non tanto e non solo la prosecuzione di un illecito passato quanto il compimento di un illecito futuro. La tutela inibitoria al pari di quella reintegratoria in forma specifica si dimostra particolarmente funzionale ad una tutela efficace della posizione del danneggiato; perciò è diffusa ed accreditata l’opinione che muovendo dall’art. 700 c.p.c., il quale consente di ottenere provvedimenti di tutela urgente di un diritto minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile, tende a fare dell’azione inibitoria un rimedio generale. Molte delle norme ricordate a proposito del risarcimento in forma specifica contemplano come misura riparatoria concorrente o alternativa l’azione inibitoria. Così colui che lamenta l’abuso del nome o dell’immagine può chiedere la cessazione del fatto lesivo. L’art. 2599 c.c. stabilisce che la sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione oltre a dettare – come si è visto – gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti. L’art. 156 l.d.a. consente all’autore il cui diritto di utilizzazione economica sia stato violato ovvero che abbia motivo di temerne la violazione, di agire per ottenere “che sia vietato il proseguimento della violazione”. Il recente T.U. in materia di ambiente significativamente dedica il titolo II della parte IV alla “prevenzione e ripristino ambientale”; in particolare l’art. 304, primo comma prevede che se esiste una imminente minaccia che si verifichi un danno ambientale l’operatore interessato debba adottare “le necessarie misure di prevenzione e di messa in sicurezza”; l’art. 305 stabilisce che quando il danno si è verificato l’operatore è tenuto ad adottare immediatamente tutte le iniziative praticabili per “controllare, circoscrivere, eliminare … qualsiasi fattore di danno, allo scopo di prevenire o limitare ulteriori pregiudizi ambientali ed effetti nocivi per la salute umana …”, nonché le necessarie misure di ripristino elencate nel successivo art. 306. L’art. 124 del c.d. Codice della proprietà industriale (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30) stabilisce che con la sentenza che accerta la violazione del diritto di proprietà industriale il giudice può disporre (oltre – come si è visto – al ritiro definitivo dal commercio) l’inibitoria della fabbricazione, del commercio e dell’uso delle cose costituenti violazione del diritto; analogamente l’art. 131 del predetto codice prevede che il titolare di un diritto di proprietà industriale possa agire per ottenere l’inibitoria di analoghe condotte illecite. Ad una funzione preventiva, nonostante l’inasprimento della sanzione, possono ricollegarsi quelle misure che vanno sotto il nome di pene private e che consistono nella facoltà del giudice di condannare l’autore dell’illecito ad una somma periodica commisurata a ciascuna futura violazione del diritto o della norma. Tale rimedio è specificamente previsto da alcune norme ma de-

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ve ritenersi che abbia portata generale e che il giudice possa ad esso fare ricorso quando le circostanze lo rendano opportuno. Restando nell’ambito degli esempi già fatti va segnalato che sia l’art. 156 della legge sulla protezione del diritto d’autore sia gli artt. 124, n. 2 e 131, n. 2 del citato Codice della proprietà industriale, danno facoltà al giudice che pronuncia l’inibitoria di fissare una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata e per ogni ritardo nella esecuzione del provvedimento.

19. Differenze fra i due regimi di responsabilità: rinvio e qualche ulteriore considerazione Quando il risarcimento avviene, come è la regola, per equivalente e cioè mediante l’attribuzione di una somma di denaro che equivale al valore del bene distrutto dall’illecito, la determinazione di tale somma e cioè la quantificazione del danno si effettua in base agli stessi criteri che la legge detta in tema di inadempimento e cioè di responsabilità fondata sul contratto. L’art. 2056 primo comma c.c. stabilisce infatti che il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226, 1227 c.c. Abbiamo peraltro già ricordato (pp. 60 ss.) le numerose differenze di disciplina fra la responsabilità contrattuale e quella per inadempimento. Il risarcimento deve pertanto comprendere sia il danno emergente (cioè la perdita patrimoniale subita) sia il lucro cessante, cioè il mancato guadagno e cioè i profitti che la vittima avrebbe potuto conseguire e che l’illecito ha impedito. L’art. 2056 c.c. specifica che mentre la prova del danno emergente segue le regole codificate in materia di inadempimento quella del lucro cessante è meno rigorosa in quanto il giudice può ricorrere con ampiezza maggiore alla valutazione equitativa pervenendo ad un equo apprezzamento secondo le circostanze del caso. Elementari considerazioni di politica dei danni risarcibili, in particolare di analisi economica delle categorie giuridiche, consentono di osservare che se in alcuni casi tali criteri possono ritenersi sufficienti a realizzare una integrale restaurazione patrimoniale della sfera del danneggiato, in altri non riescono ad avere una sufficiente funzione sanzionatoria per il trasgressore. Ciò avviene in particolare quando l’esposizione risarcitoria del trasgressore risulta inferiore al profitto che quest’ultimo viene a conseguire per effetto dell’illecito. Si spiega così perché in qualche occasione il legislatore abbia indicato ulteriori criteri per la quantificazione del danno imponendo al giudice di tener conto nella

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liquidazione di esso della gravità della colpa del trasgressore e in particolare del profitto da quest’ultimo conseguito per effetto dell’illecito. L’art. 18 della ora abrogata legge 8 luglio 1986, n. 349 contenente norme in materia di danno ambientale stabiliva che il giudice nel liquidare equitativamente il danno doveva tenere conto della gravità della colpa individuale, del costo necessario per il ripristino e del profitto conseguito dal trasgressore in conseguenza del suo comportamento lesivo di beni ambientali. Ora il recente Codice dell’ambiente stabilisce all’art. 314, n. 3 che la quantificazione del danno deve comprendere il pregiudizio arrecato alla situazione ambientale con particolare riferimento al costo necessario per il suo ripristino; la norma non richiama il parametro del profitto del danneggiante, ma nel caso non sia possibile giungere ad una motivata quantificazione del danno (non risarcibile in forma specifica) per equivalente, introduce meccanismi di valutazione presuntiva che determinano l’ammontare in misura non inferiore al triplo della somma corrispondente alla sanzione pecuniaria amministrativa. L’art. 125, n. 1 del Codice della proprietà industriale stabilisce che il risarcimento dovuto al danneggiato in seguito alla violazione di un suo diritto di proprietà industriale è liquidato applicando i noti ordinari criteri e tenendo altresì conto dei benefici realizzati dall’autore della violazione; il n. 3 della stessa norma stabilisce – come già ricordato – che il titolare del diritto leso può chiedere, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui eccedono tale risarcimento, la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione. È certo evidente che tali tecniche di quantificazione del danno non solo esaltano la funzione sanzionatoria della responsabilità civile ma assolvono ad una assai utile funzione deterrente dell’illecito e pertanto più in generale ad una funzione preventiva. Il rafforzamento della sanzione viene qui impiegato soprattutto in funzione preventiva, al pari di quanto accade, come prima osservato, a proposito delle cc.dd. pene private.

SEZIONE V: IL DANNO 20. Tipologie di danni: il danno alla persona Abbiamo già informato della tendenza culturale a frammentare la regola generale di responsabilità civile in diverse fattispecie e figure, in ragione ora

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della attività esercitata, ora degli interessi tutelati ed introducendo così responsabilità c.d. speciali, ciascuna dotata di un corpo di norme specifiche in punto di disciplina (circa i presupposti della responsabilità, la prova, i rimedi, e così via). Parallelamente si è sviluppata una ulteriore tendenza volta a qualificare il danno in relazione agli interessi di volta in volta oggetto della lesione. In molti casi il riferimento alla tipologia del danno è soltanto descrittivo: il danno all’ambiente è quello che si verifica quando si incorre in responsabilità ambientale; il danno da difetto del prodotto richiama un insieme di regole che governano la responsabilità del produttore e via dicendo. In altri casi, come nell’area del danno alla persona, si è invece assistito ad una imponente opera di costruzione dottrinaria e giurisprudenziale di diverse tipologie di danno nel tentativo di assicurare garanzia risarcitoria alla lesione dei più svariati profili della persona umana. In un certo senso ogni danno ha come punto di riferimento la persona (art. 2043 c.c.: “chi cagiona danno ad altri”) quale titolare di situazioni giuridiche soggettive protette dall’ordinamento, ma quando si parla di danno alla persona ci si intende riferire al danno che colpisce il valore della persona in quanto tale, il quale si manifesta nelle libertà fondamentali e nei diritti personalissimi e dunque anche nella integrità fisiopsichica del soggetto sotto il profilo cioè della sua salute complessiva. L’area di tali danni è di così rilevante portata da poter essere definita non solo centrale nel sistema di responsabilità civile ma anche e forse anche per questo trasversale a tutte le aree nelle quali si manifesta la tutela risarcitoria (ad es. il difetto del prodotto può causare un danno permanente alla salute, una sentenza sbagliata può essere causa di sofferenze ed umiliazioni).

21. Danni patrimoniali e non patrimoniali Prima però di affrontare questo tema occorre dire di una importante distinzione dei danni con riguardo alla loro natura patrimoniale o non patrimoniale, considerando che il danno non patrimoniale è specificamente collegato alla lesione di un valore della persona e quindi dei diritti della personalità. Va innanzitutto chiarito che la non patrimonialità del danno non necessariamente presuppone la non patrimonialità dell’interesse leso dall’atto illecito: se è certo che la lesione di un interesse non patrimoniale (per es. l’interesse a mantenere riservati i fatti della propria vita privata) produce sicuramente un danno che non è patrimoniale e cioè tale da rappresentare una perdita immediatamente convertibile in danaro (come d’altro canto è altrettanto certo che la lesione di un interesse patrimoniale – ad es. il danneggiamento di un

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bene di mia proprietà – comporta necessariamente un danno patrimoniale), non può escludersi né che dalla lesione di un interesse di natura non patrimoniale possano conseguire anche danni patrimoniali: la diffamazione di un professionista, che colpisce la persona in un suo bene personale, l’onore, può avere come conseguenza una diminuzione della clientela, conseguente al pubblico discredito, e quindi una contrazione dei guadagni; né parimenti può escludersi che dalla lesione di un interesse patrimoniale (la sottrazione, in seguito ad un furto, di un gioiello di famiglia custodito in una cassetta di sicurezza bancaria) possa conseguire la lesione di un interesse non patrimoniale, relativo – nell’esempio fatto – al valore affettivo del prezioso. La liquidazione del danno non patrimoniale, non esprimendo una perdita pecuniariamente valutabile secondo parametri obiettivi, è affidata alla valutazione equitativa del giudice. La scelta del legislatore codicistico, in materia di risarcimento dei danni non patrimoniali è una scelta restrittiva: il legislatore, infatti, preoccupato di contenere una dilatazione eccessiva delle richieste risarcitorie a seguito dell’illecito, ha stabilito all’art. 2059 che il danno non patrimoniale deve essere risarcito nei soli casi previsti dalla legge. L’ipotesi più importante è il caso in cui tali danni derivino da reato: l’art. 185 c.p. stabilisce infatti che ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui. Ne deriva che se il fatto illecito costituisce anche reato (lesioni personali, truffa, omicidio, diffamazione) al danneggiato è assicurato il risarcimento anche dei danni non patrimoniali. Tra le altre ipotesi previste dalla legge va ricordato anche l’art. 89 c.p.c. secondo il quale il giudice con la sentenza che definisce la causa può assegnare alla parte offesa da espressioni sconvenienti e offensive contenute negli scritti difensivi della controparte ed estranee all’oggetto della causa, una somma a titolo di risarcimento del danno anche non patrimoniale. Il limite stabilito dall’art. 2059 c.c. è stato progressivamente avvertito sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, sia pure in misura diversa e con esiti tutt’altro che omogenei, come una eccessiva mortificazione delle esigenze risarcitorie del danneggiato con riguardo alla sfera dei suoi interessi non patrimoniali. Di qui una lunga e laboriosa opera di interpretazione dottrinaria e giurisprudenziale diretta ad ampliare la risarcibilità del danno non patrimoniale. Neanche il legislatore post codicistico è rimasto insensibile a questa esigenza facendo uso della riserva contenuta nell’art. 2059 ed incrementando così le ipotesi di risarcimento del danno non patrimoniale.

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Così l’art. 2 della n. 89 del 2001 prevede espressamente la risarcibilità anche del danno non patrimoniale in caso di violazione del termine di ragionevole durata del procedimento. L’art. 15 del Codice in materia di protezione dei dati personali (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196) assegna il risarcimento del danno non patrimoniale a colui che subisce un danno per effetto del trattamento dei dati personali. L’art. 158, n. 3 del T.U. sulla protezione del diritto d’autore stabilisce che deve essere risarcito il danno non patrimoniale a chi venga leso nell’esercizio di un diritto di utilizzazione economica dell’opera dell’ingegno. L’art. 125, n. 1 del Codice della proprietà industriale introduce tra gli elementi per la quantificazione del danno spettante a chi ha subito la violazione di un diritto di proprietà industriale il danno morale allo stesso arrecato dalla suddetta violazione. Sul piano interpretativo un primo risultato è stato raggiunto confinando il limite segnato dall’art. 2059 ad un particolare profilo, sia pure assai importante, del danno non patrimoniale e cioè al c.d. danno morale soggettivo consistente nelle sofferenze, nelle paure, nelle tensioni, nelle angosce, nei turbamenti transitori o duraturi che l’atto illecito abbia prodotto, nella lesione cioè del sentimento complessivo della persona. Tale danno morale è effettivamente risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, in sostanza nell’ipotesi di reato. Codesta lettura della norma in esame ha consentito di ritagliare un’area di risarcibilità del danno non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, oltre i limiti formali segnati dall’art. 2059, in particolare anche quando il danno non derivi da reato, allorché il pregiudizio di natura non patrimoniale sia la conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto. Pertanto, nell’ipotesi di lesione dei diritti della personalità e in genere allorché venga leso un interesse della persona riconducibile alla tutela generale dei valori protetti dall’art. 2 Cost., il danno non patrimoniale è sempre risarcibile. Certo, specie con riguardo ai danni alla persona, non è sempre facile distinguere il danno morale dal danno non patrimoniale: si tratta sovente di interessi la lesione dei quali determina conseguenze sfavorevoli che turbano la fisiologia delle relazioni e del sentimento della persona (come ad es. il c.d. danno alla serenità familiare) e dunque colpiscono una sfera degli interessi della persona che, seppure non coincidente con quelli che si riportano al danno morale sono a questi certamente assai prossimi. Tale rilievo ha esposto questa opinione, sostenuta in particolare dalla giurisprudenza, a più di qualche critica. Un’altra via per superare il rigore posto dall’art. 2059 è stata quella di riconoscere la natura patrimoniale di alcuni pregiudizi che investono primariamente e direttamente interessi non patrimoniali della persona ma che hanno una particolare vocazione a tradursi in perdite patrimoniali (si è così ri-

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conosciuta la risarcibilità di taluni danni idonei a pregiudicare la vita di relazione).

22. Il danno biologico La figura di maggior rilievo in tema di risarcibilità del danno non patrimoniale è quella del danno biologico, frutto di una elaborazione soprattutto giurisprudenziale e penetrata al fine anche nel lessico legislativo oltre che nelle c.d. tabelle di liquidazione del danno non patrimoniale elaborate da alcuni Tribunali (note in particolare quelle adottate dal Tribunale di Milano). Il danno biologico consiste nella lesione della integrità fisica e psichica della persona ed esprime un pregiudizio suscettibile di risarcimento per effetto della lesione in sé e per sé considerata e dunque della menomazione della salute fisiologica del soggetto. Sebbene non siano mancate opinioni che hanno affermato la natura patrimoniale di tale danno, si tende a riconosce la natura non patrimoniale del danno biologico. D’altro canto all’origine di questa figura sta proprio l’esigenza di assicurare valore risarcitorio alla lesione della integrità fisio-psichica complessiva del soggetto indipendentemente dalle perdite commisurate alla capacità di produrre reddito e al livello di produttività del soggetto: ne deriva che il danno biologico è risarcibile a qualsiasi persona anche se questa non è in grado di produrre reddito (ad es. un bambino), e nella stessa misura anche se diverso è il livello di reddito attuale o presunto; tale figura nasce quindi sul terreno della promozione del valore della persona in una prospettiva di riconoscimento dell’uguaglianza indipendentemente dalle diversità economiche e sociali. Ciò non esclude che il giudice nel liquidare in via equitativa il danno biologico debba operare una forte personalizzazione di tale danno tenendo conto di tutte le peculiari condizioni soggettive del danneggiato. Il danno biologico è dunque un danno non patrimoniale risarcibile indipendentemente da una specifica previsione della legge ordinaria in quanto ricollegabile ad un valore costituzionalmente protetto. La mancanza di criteri ai quali fare riferimento per la valutazione di tale danno e la naturale diversità delle liquidazioni in concreto operate dai Tribunali, ha indotto il legislatore a dettare criteri legali per la determinazione del danno biologico. Il Codice delle assicurazioni private adottato con d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 contiene una definizione di danno biologico nella quale è stata recepita la figura così come elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza: gli artt. 138 e 139 definiscono il danno biologico come “la lesione temporanea o per-

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manente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”. Le norme citate dettano quindi criteri e misure per la liquidazione sia del danno biologico per lesioni di lieve entità derivanti da incidenti stradali (tra le quali le c.d. micropermanenti) sia del danno biologico per lesioni di non lieve entità (menomazioni alla integrità psico-fisica comprese fra 10 e 100 punti), prevedendo in entrambi i casi l’adozione da parte dell’Autorità amministrativa di specifiche tabelle contenenti criteri per la liquidazione e dando facoltà al giudice di aumentare l’ammontare che ne risulta fino al 20% per le lesioni di lieve entità e fino al 30% per le altre in relazione alle condizioni soggettive del danneggiato. La recente legge n. 124 del 2017 all’art. 1, commi 17, 18 e 19, ha novellato i citati artt. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni stabilendo che venga realizzata una specifica tabella unica su tutto il territorio della Repubblica: a) delle menomazioni all’integrità psico-fisica comprese tra dieci e cento punti; b) del valore pecuniario da attribuire a ogni singolo punto di invalidità comprensivo dei coefficienti di variazione corrispondenti all’età del soggetto leso. La tabella unica nazionale è redatta sulla base dei criteri di valutazione del danno non patrimoniale ritenuti congrui dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, ed espressamente indicati nel comma 17 del predetto art. 1 (lett. a-f). Per determinare l’entità del risarcimento del danno biologico la tabella adotta il sistema a punto variabile in funzione dell’età e del grado di invalidità ed indica il valore monetario da attribuire ad ogni singolo punto di invalidità da moltiplicare per il coefficiente ricavato dall’età del soggetto danneggiato. Al fine di considerare la componente del danno morale da lesione all’integrità fisica, la quota corrispondente al danno biologico stabilita in applicazione dei criteri di cui alle lett. da a) a d) è incrementata in via percentuale e progressiva, per punto, individuando la percentuale di aumento di tali valori per la personalizzazione complessiva della liquidazione (lett. f).

23. Il danno esistenziale Se da un lato pertanto alcuni danni di creazione giurisprudenziale (come il danno alla vita di relazione) sembrano poter venire ricompresi nel danno biologico, altri, invece, se ne affermano a fianco di esso dando luogo alla risarcibilità di pregiudizi che si ritengono autonomamente risarcibili, oltre dunque al danno biologico ed oltre al danno morale.

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Così si ammette sempre più di frequente da parte della giurisprudenza la risarcibilità del danno esistenziale e cioè della lesione di quelle opportunità che la vita (l’esistenza) offre e che l’illecito abbia irrimediabilmente compromesso o ridotto; a questo tipo di danno può essere ricondotto il danno alla serenità familiare e, in caso di uccisione di un familiare, il danno da perdita del rapporto parentale che si riconosce ai familiari stretti della vittima e che consiste nel venir meno di quel legame di solidarietà e di affetto che la scomparsa del familiare produce. Al danno esistenziale appartengono tutti quei pregiudizi, di carattere non patrimoniale, risarcibili perché attinenti a valori della persona costituzionalmente rilevanti che colgono specifiche utilità pregiudicate dall’atto illecito e specificamente risarcibili oltre, come si è detto, al danno patrimoniale, al danno morale e al danno biologico.

24. Rilievi conclusivi Nel complesso il quadro delineato, che offre senz’altro un qualche elemento di stabilità rispetto al disordinato laboratorio di qualche decennio fa, presenta ancora elementi di incertezza e diversità su molti degli aspetti delineati. Ancora controversa è, ad es., la risarcibilità del c.d. danno biologico iure successionis in favore dei familiari della vittima rimasta uccisa. Per riconoscere ai superstiti, oltre al diritto al risarcimento del danno biologico iure proprio conseguente alla perdita del familiare (ad es. per lo shoc psichico subìto), anche il diritto al risarcimento iure ereditario del danno biologico patito dalla vittima, si ritiene necessario accertare le condizioni che in concreto abbiano determinato l’insorgere di tale danno in capo alla vittima rendendone così possibile la trasmissione agli eredi; secondo l’opinione dominante tali condizioni ricorrono soltanto quando sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo fra l’evento e la morte, anche se talune sentenze hanno ammesso la risarcibilità del danno biologico iure ereditario anche nel caso di morte pressoché immediata. Una recente sentenza della S.C., alimentando un dibattito sorto all’interno della stessa Sezione, ha negato la risarcibilità autonoma del danno esistenziale proprio quando tale categoria di danno sembrava aver conseguito la sua definitiva consacrazione giurisprudenziale. Secondo tale orientamento, allo stato minoritario ma tutt’altro che isolato, “il risarcimento del danno non patrimoniale, fuori dall’ipotesi dell’art. 185 c.p. e delle altre minori ipotesi legislativamente previste, attiene solo alle ipotesi specifiche di valori costituzionalmente garantiti (la salute, la famiglia, la reputazione, la libertà di pensiero, ecc.), ma in questo caso non vi è generico danno non patrimoniale “esistenziale”, ma un

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danno da lesione di quello specifico valore di cui ad un individuato referente costituzionale”. Sullo sfondo di tali problematiche v’è un’esigenza non nuova che cerca di scongiurare un pericolo ancora attuale, quello cioè che nel tentativo di assicurare una tutela integrale di ogni pregiudizio subito dalla persona si finisca col duplicare alcuni risarcimenti: è compito del giudice, che decide la singola controversia, evitare questo rischio e ad un tempo assicurare l’integralità del risarcimento: così, ad es., una valutazione “generosa” del danno morale risentito dal superstite per la morte del familiare dovrebbe indurre se non a escludere il riconoscimento a contenere il risarcimento del danno conseguente alla perdita del rapporto parentale.

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Omnis res, quae dominio nostro subicitur, in stipulationem deduci potest (Iustiniani Institutiones 3, 19)

Parte Seconda

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Capitolo Primo

IL CONTRATTO IN GENERALE SEZIONE I: L’AUTONOMIA PRIVATA 1.

La categoria del contratto nell’ambito del fenomeno dell’accordo. Gli atti unilaterali 2. Brevi considerazioni sul negozio giuridico 3. La libertà contrattuale. I limiti alla libertà di contrarre: il contratto imposto 4. I limiti convenzionali. Il contratto preliminare 5. L’opzione 6. I divieti di alienazione 7. Prelazione legale e prelazione convenzionale 8. La libertà di forma del contratto 9. Autonomia contrattuale. La libertà di determinare il contenuto del contratto tipico: il limite delle norme imperative e i confini del tipo negoziale 10. L’intervento legale conformativo del contenuto. Legge, usi ed equità 11. Obbligo di rinegoziare 12. L’autonomia delle parti ed i contratti atipici. Il controllo degli interessi meritevoli e la disciplina del contratto

SEZIONE II: IL PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE 13. La struttura del contratto e i suoi elementi costitutivi. Le trattative e l’obbligo di comportarsi secondo buona fede 14. Condizioni generali di contratto. Moduli e formulari 15. Conclusione del contratto e nuove tecniche di controllo del consenso nella moderna legislazione sul contratto. La trasparenza nei rapporti contrattuali 16. La formazione dell’accordo 17. La conclusione del contratto fra nuove forme di manifestazione del consenso e nuove tipologie di documenti (rinvio) SEZIONE III: IL CONTENUTO 18. L’oggetto del contratto 19. La causa del contratto: lo scopo dei contraenti e la valutazione dell’ordinamento 20. I motivi: i casi in cui rilevano. La presupposizione tra condizione inespressa e contenuto del contratto

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SEZIONE IV: LA FORMA 21. La forma del contratto. Forma ad substantiam. Forma e trascrizione. La forma convenzionale 22. Nuove funzioni assolte dal requisito di forma 23. I documenti informatici e telematici. La forma per relationem

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SEZIONE I: L’AUTONOMIA PRIVATA 1. La categoria del contratto nell’ambito del fenomeno dell’accordo. Gli atti unilaterali Esaurita la trattazione delle obbligazioni (titolo I del IV libro), il codice civile passa a disciplinare la figura del contratto in generale (titolo II) e quindi i singoli contratti (titolo III). Questi ultimi saranno trattati in un autonomo volume: in questa sede è peraltro necessario fare qualche richiamo alle singole figure di contratto che valga a meglio illustrare la disciplina generale. In base alla definizione che ne dà l’art. 1321 il contratto è l’accordo di due o più parti diretto a costituire, modificare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale. La categoria dell’accordo è dunque più ampia di quella del contratto e quest’ultima si individua, all’interno di quella più vasta categoria, in virtù del contenuto patrimoniale del rapporto regolato. La patrimonialità del rapporto va posta in relazione al carattere patrimoniale della prestazione che costituisce l’oggetto della obbligazione (art. 1174) la quale – come si è visto – deve essere suscettibile di valutazione economica. La natura patrimoniale della prestazione e il contenuto patrimoniale del contratto trovano un significativo, coerente e reciproco riscontro nel rapporto che fra tali istituti si instaura nell’ambito delle fonti delle obbligazioni: il contratto ha contenuto patrimoniale ed è fonte di obbligazione il cui oggetto, cioè la prestazione, deve avere carattere patrimoniale. La coerenza sistematica che deriva dalle indicate connessioni fra natura patrimoniale della prestazione e contenuto patrimoniale del rapporto regolato dal contratto, non impedisce peraltro di affermare che il contratto è anche fonte di obblighi che non hanno propriamente contenuto patrimoniale quantunque la loro violazione possa essere valutata sul terreno dell’inadempimento o essere fonte di danno e dare quindi luogo a responsabilità. Si è già accennato infatti alla norma secondo la quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede (art. 1375); e che tanto il debitore quanto il creditore, vi è più quando l’obbligazione abbia fonte contrattuale, debbono comportarsi secondo correttezza (art. 1175). Ora, la buona fede in senso og-

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gettivo si specifica nella necessità di tenere una condotta leale che soddisfa una esigenza di solidarietà la quale, in quanto riferita al contratto, può dirsi contrattuale. Si tratta di obblighi che possono ascriversi all’etica contrattuale la cui violazione – come si accennava – concorre alla individuazione dell’inadempimento e del giudizio di responsabilità. D’altro canto, anche da accordi che non hanno natura contrattuale possono derivare e in genere derivano obbligazioni. Ad es. dal matrimonio, che non è un contratto, perché il rapporto fondamentale regolato ha indubbio contenuto personale, deriva per entrambi i coniugi l’obbligo di contribuire, ciascuno in relazione alle proprie sostanze, ai bisogni familiari (art. 143) e di mantenere, educare ed istruire i figli (art. 147), compiti che non potrebbero essere espletati senza l’assunzione di obbligazioni. Si tratta di obbligazioni che derivano dalla legge e da questa sono automaticamente ricollegate allo status di coniuge e di genitore: tuttavia esse non nascerebbero se non fosse stato posto in essere l’accordo matrimoniale che ne costituisce quindi, per così dire, la fonte «remota» e mediata dalla legge. L’esempio del matrimonio che non ha natura contrattuale ma si fonda sul consenso e costituisce quindi un accordo, giustifica la diversità cui si è accennato fra la categoria dell’accordo e quella del contratto. Ma vi sono anche accordi che hanno diretta natura patrimoniale e che tuttavia non sono contratti: così gli accordi collettivi di lavoro, le deliberazioni condominiali prese a maggioranza o all’unanimità o le deliberazioni di un ente giuridico.

2. Brevi considerazioni sul negozio giuridico Il contratto è spesso indicato come negozio e l’autonomia che le parti esplicano in relazione ad esso, negoziale; il legislatore non utilizza questo termine, ma il suo largo impiego nel lessico giuridico ne giustifica un breve cenno (sul tema, in questa collana, M. NUZZO, Introduzione alle scienze giuridiche, Cap. Quarto, Sez. Seconda, Gli atti di autonomia privata, p. 193 ss.). La figura del negozio giuridico è frutto di una elaborazione teorica, diretta ad individuare un istituto generale al quale riportare una serie di manifestazioni dell’attività giuridica di diritto privato caratterizzate da tratti comuni. L’utilità è quella che corrisponde alla formulazione di ogni categoria sistematica, ricondurre ad unità fenomeni diversi e, sulla base della loro comune identità, dettare una disciplina comune. Il rischio è quello insito in tutti i processi di generalizzazione, che presentano necessariamente un certo grado di astrazione, cioè quello di sacrificare in nome dell’unità i particolarismi e le specificità di ogni singola figura. L’elemento unificante sarebbe dato dal collega-

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mento particolarmente intenso e qualificato fra la manifestazione di volontà e l’effetto giuridico che da questa deriva. In alcune manifestazioni di volontà (per es. richiesta da parte del creditore di adempiere l’obbligazione) l’effetto giuridico (costituzione in mora) si verifica ex lege e non si ritiene un prodotto o un portato della volontà; cosicché deve escludersi che la mancanza o una anomalia della volontà stessa con riguardo al contenuto di tale effetto possa metterne in discussione la produzione. In altre invece, quelle appunto aventi carattere negoziale, l’effetto deve essere ricondotto alla volontà privata, essendo un portato specifico di questa cosicché eventuali anomalie di tale volontà impediscono il compiuto dispiegarsi dei predetti effetti. Nel c.d. atto non negoziale, dunque, la volontà espressa dal privato si limita all’atto senza estendersi all’effetto giuridico; negli atti negoziali la volontà domina e governa tale effetto e ad esso si indirizza. Il collegamento tra volontà privata ed effetti, proprio degli atti negoziali, non esclude – come vedremo – che la norma possa concorrere a definire gli effetti che a determinate manifestazioni di volontà si ricollegano e che in genere possa segnarne la direzione e controllarne il contenuto. Il contratto è negozio bilaterale perché fondato sull’accordo e quindi sull’incontro delle volontà espresse almeno da due soggetti; e si contrappone al negozio unilaterale che consta della manifestazione di volontà di un solo soggetto. I negozi unilaterali possono avere anche contenuto non patrimoniale (testamento) ma quando abbiano contenuto patrimoniale e siano posti in essere tra persone viventi sono soggetti alla disciplina stabilita per i contratti in generale (art. 1324). Il contratto è negozio tra vivi, a differenza ad es. del testamento che, oltre ad essere un negozio unilaterale, è destinato a produrre effetti successivamente alla morte del testatore (mortis causa). Il contratto è negozio a titolo oneroso, se importa sacrifici e vantaggi reciproci. Ed è a titolo gratuito se il sacrificio è sopportato da una sola parte e l’altra consegue un vantaggio. La donazione è un contratto a titolo gratuito; la vendita è un contratto a titolo oneroso la quale realizza uno scambio (cosa contro prezzo), ed è anche a prestazioni corrispettive perché le singole prestazioni sono funzionalmente collegate tra loro in vista della realizzazione di una funzione comune. Deve segnalarsi che si registra attualmente una tendenza a svalutare la portata del negozio come categoria astratta e a porre invece l’attenzione sulle diversità e sulle specificità soggettive dei contraenti, piuttosto che sulle identità delle diverse figure negoziali. In questo contesto la stessa unitarietà della figura del contratto in generale

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sembra dissolversi e fare spazio alla emersione di distinte figure generali di contratto individuate in relazione alla posizione soggettiva delle parti, ciascuna destinataria almeno in parte di una propria disciplina. Nel corso del nostro esame faremo frequente riferimento ai contratti del consumatore disciplinati dal Codice del consumo, la cui disciplina ha consentito la nascita di una figura nuova e generale di contratto, per più aspetti contrapposta a quella di diritto comune e punto di riferimento di una serie differenziata di regole giuridiche. Anche da un punto di vista classificatorio è significativo che la disciplina di tali contratti sia stata inserita nel titolo II, che riguarda la disciplina generale dei contratti, anziché – come pure sarebbe stato possibile – nell’ambito del titolo III dedicato ai singoli contratti. La illustrazione di questa nuova categoria contrattuale che emerge dalla normativa richiamata potrà essere più utilmente svolta dopo che avremo illustrato la disciplina in generale del contratto di diritto comune.

3. La libertà contrattuale. I limiti alla libertà di contrarre: il contratto imposto L’area del contratto è contrassegnata da libertà e autonomia, ma tale libertà subisce eccezioni e tale autonomia non è illimitata ma sotto diversi profili controllata ed indirizzata (sul rapporto tra ordinamento e autonomia privata si rinvia anche a M. NUZZO, Introduzione alle scienze giuridiche, Cap. Quarto, Sez. Seconda, p. 193 ss., 1a serie). Libertà e autonomia non sono concetti del tutto sovrapponibili. Il primo si ricava dai principi generali, il secondo ha contenuti normativi specifici ed è oggetto di disciplina nell’art. 1322. La libertà contrattuale è anzitutto libertà di decidere se concludere o meno un contratto, di determinarsi liberamente in ordine alla scelta di entrare o meno nel mercato, ad es. per procurarsi un bene, o per venderlo, per ottenere un mutuo e via dicendo. Questa libertà viene sacrificata in presenza di un obbligo legale a contrarre. Tale obbligo ricorre quando la conclusione di un contratto risponde ad esigenze che si ricollegano ad una pluralità di soggetti e si configurano come generali, o pubbliche, e trova giustificazione nei legittimi condizionamenti che la legge può porre alla libertà di iniziativa economica disciplinata dall’art. 41 Cost. (di cui la libertà contrattuale è una delle principali manifestazioni) e che deve essere indirizzata a fini di utilità sociale. Ad es. in materia di contratto di trasporto l’impresa che esercita servizi pubblici di linea è obbligata ad accettare le richieste di trasporto e dunque a concludere il contratto (art. 1679).

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In genere gli obblighi legali di contrarre sorgono a carico dell’impresa che operi sul mercato in regime di monopolio legale. L’art. 2597 pone a carico del monopolista l’obbligo di contrarre con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa e di osservare la parità di trattamento: si pensi ai contratti di somministrazione dell’energia elettrica o a quelli, almeno prima della recente liberalizzazione del mercato interno, di distribuzione e vendita del gas metano, soggetti peraltro a controlli tariffari da parte dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas. In tali casi l’impresa non è soggetta alla c.d. normativa antitrust di diritto interno, volta a sanzionare gli abusi di posizione dominante nonché le intese e le concentrazioni di imprese che abbiano come effetto l’alterazione della libera concorrenza (l’applicabilità della normativa in materia antitrust prevista dalla legge 10 ottobre 1990, n. 287, è esclusa dall’art. 8 della legge stessa alle imprese che per legge operano sul mercato in regime di monopolio). Il contratto è lo strumento impiegato dal legislatore per disciplinare i rapporti fra p.a. che intende affidare l’esecuzione di appalti pubblici di lavori, forniture, servizi e concessioni e le aziende che partecipano alla gara per aggiudicarsi il relativo affidamento. La materia è regolata dal d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici) e successive modificazioni, da ultimo d.l. “Semplificazioni” 16 luglio 2020, n. 76, convertito con legge 11 settembre 2020, n. 120, che disciplina il settore degli appalti pubblici e dei relativi contratti pubblici. In considerazione della sua natura pubblicistica il contratto viene sottratto alla ibera determinazione delle parti e assoggettato ad un corpo di regole specifiche volte ad assicurare la trasparenza, la concorrenza e la meritocrazia tra i vari operatori coinvolti.

4. I limiti convenzionali. Il contratto preliminare In altri casi la libertà di contrarre può essere limitata da una convenzione dalla quale sorgono obblighi negoziali di contrarre. Attraverso, ad es., il contratto preliminare le parti si vincolano a concludere un futuro contratto, detto definitivo. Il preliminare consente alle parti di «fermare» l’affare attraverso una determinazione dei suoi elementi fondamentali e di rinviare nel tempo la conclusione del contratto definitivo. Nel preliminare di vendita ad es. tanto il venditore quanto il compratore si obbligano a prestare il consenso necessario per la conclusione del contratto definitivo di vendita: stipulato il contratto preliminare i contraenti non sono più liberi di determinarsi in ordine al bene oggetto della promessa di scambio ma sono tenuti a concludere il definitivo.

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Al momento della stipula del definitivo le parti hanno dunque già consumato la loro libertà contrattuale ed il contratto definitivo di scambio è un contratto dovuto. L’obbligo di stipulare è anzi assistito da una tutela assai intensa che assicura – come si ricorderà – una particolare protezione dell’interesse del creditore (contraente adempiente) di fronte all’inadempimento dell’altro (per es. del venditore che si rifiuti di stipulare), diretta a fargli conseguire il bene specifico che avrebbe ottenuto attraverso l’adempimento. Ora, poiché tale bene consiste in un contratto e poiché questo non è altrimenti confezionabile che con l’accordo delle parti, alla cui formazione è di ostacolo il rifiuto opposto dall’inadempiente, la legge consente alla parte adempiente di conseguire il medesimo effetto giuridico che sarebbe derivato dal contratto definitivo; nell’esempio fatto l’effetto traslativo del diritto di proprietà del bene oggetto della vendita. Ciò risulta possibile, ai sensi dell’art. 2932 c.c., attraverso una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso e che si dice costitutiva perché fonte di tali effetti.

5. L’opzione Una limitazione convenzionale della libertà di contrarre deriva dal contratto di opzione. Si tratta peraltro di una limitazione unilaterale di tale libertà, operante cioè nei confronti di una soltanto delle parti del contratto. Attraverso l’opzione, invero, la parte che propone l’affare si obbliga a mantenere ferma la propria proposta, precludendosi quindi ogni possibilità di ritirarla e consente che l’altra parte si riservi la facoltà di accettarla, aderendo successivamente alla proposta irrevocabile e dando così luogo al contratto cui l’opzione si riferisce (art. 1331). Come si vede, il soggetto che concede l’opzione rimane vincolato con riguardo alla formazione di un futuro contratto la cui conclusione dipenderà esclusivamente dalla volontà dell’opzionario. È evidente nel meccanismo illustrato la ricorrenza di due contratti: ad es. in una opzione di vendita le parti concordano che l’opzionante venditore si obblighi a non ritirare la proposta di vendita e l’opzionario resti libero di accettare o meno tale proposta (contratto di opzione); se l’opzionario, che – come detto – non soffre alcuna limitazione della sua libertà contrattuale, deciderà di aderire alla proposta nel termine convenuto, nascerà un nuovo contratto originato dalla opzione (contratto di vendita). Tale contratto «successivo» verrà pertanto ad esistenza in virtù della sola manifestazione di volontà dell’opzionario, avendo la controparte già «consumato» la sua libertà negoziale con la stipula del contratto di opzione.

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6. I divieti di alienazione Limitazioni alla libertà di contrarre possono derivare dalla esistenza di divieti di alienazione. Tali divieti sono previsti dalla legge e importano in genere la nullità dell’atto compiuto in violazione del divieto (ad es. la inalienabilità temporanea degli alloggi di edilizia sovvenzionata dallo Stato, che mira ad evitare operazioni speculative); ovvero possono essere stabiliti da una convenzione. In tal caso il divieto ha effetto solo tra le parti, deve essere contenuto in convenienti limiti di tempo e rispondere ad un apprezzabile interesse di almeno una di esse (art. 1379). È evidente lo sfavore con cui il legislatore guarda a questa ipotesi, in ragione della limitazione posta da tale convenzione alla libera circolazione della ricchezza. Il patto di non alienazione non contiene un divieto assoluto ma fa sorgere un obbligo soltanto nei confronti del contraente, cosicché la violazione del contratto non dà luogo alla nullità del trasferimento ma è solo fonte di responsabilità per l’inadempiente. A ben vedere, pertanto, solo i divieti legali e non anche quelli convenzionali costituiscono una vera e propria limitazione della libertà contrattuale. La trascrizione dell’atto di disposizione previsto dall’art. 2645 ter ha peraltro l’effetto di rendere il vincolo di inalienabilità opponibile anche ai terzi (v. p. 147).

7. Prelazione legale e prelazione convenzionale Un ulteriore aspetto della libertà contrattuale consiste nella facoltà di scegliere il partner contrattuale ed anche al riguardo possono darsi limiti che hanno fonte nella legge o nella volontà delle parti. Ad es. l’affittuario di un fondo rustico ha diritto di prelazione in caso di trasferimento a titolo oneroso del fondo (art. 8, legge 26 maggio 1965, n. 590); il conduttore di un immobile urbano adibito ad uso diverso dall’abitazione ha diritto di prelazione nel caso di trasferimento a titolo oneroso dell’immobile locato (art. 38, legge 27 luglio 1978, n. 392); il coerede che intenda alienare la sua quota deve offrirla in prelazione agli altri coeredi (art. 732). In tutti i casi descritti il soggetto è libero di alienare o meno il bene ma qualora intenda farlo ha l’obbligo legale di preferire, a parità di condizioni, l’avente diritto alla prelazione. Si intende che se la prelazione non viene esercitata nei termini di legge, perché il preferito non intende acquistare affatto ovvero non intende negoziare alle condizioni proposte dall’alienante, la libertà contrattuale dell’obbligato riacquista la sua piena estensione. In caso di

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violazione del diritto di prelazione la legge consente all’avente diritto di riacquistare il bene presso il terzo (diritto di riscatto); tale facoltà compete al beneficiario che non abbia esercitato la prelazione, non solo quando il bene non gli sia stato offerto ma anche nel caso in cui il titolare, che pure abbia offerto il bene in prelazione, lo abbia poi alienato a terzi a condizioni diverse da quelle contenute nella proposta comunicata all’avente diritto. La prelazione può sorgere anche da un patto per effetto del quale una parte si obbliga a preferire l’altra nel caso in cui decida di stipulare un determinato contratto. La prelazione volontaria, che trova ampia diffusione nella pratica, è prevista dalla legge ad es. riguardo al contratto di somministrazione (art. 1566). Mentre la prelazione legale ha efficacia reale cosicché, come si è visto, l’avente diritto può recuperare il bene che sia stato alienato a terzi in violazione del diritto, la prelazione volontaria ha efficacia meramente obbligatoria limitata cioè alle parti: cosicché il prelazionario in caso di violazione del suo diritto avrà a disposizione soltanto un’azione risarcitoria nei confronti dell’obbligato. È discusso se la trascrizione del patto, contenuto in un titolo che abbia accesso ai pubblici registri immobiliari valga, con il conseguimento della sua opponibilità ai terzi che attraverso i registri sono legalmente edotti del vincolo, a conferire una sorta di natura reale anche alla prelazione convenzionale (ad es., prelazione di vendita in favore del conduttore, contenuta in un contratto di locazione immobiliare ultranovennale).

8. La libertà di forma del contratto Una ulteriore manifestazione della libertà contrattuale consiste nella facoltà di scegliere la forma del contratto. Tuttavia si tratta di un principio che soffre numerose eccezioni: per effetto di disposizioni dello stesso codice civile che impongono l’adozione di forme determinate (art. 1350); e, per alcuni aspetti, per effetto della stessa regola che disciplina la forma scelta dalle parti (art. 1352), la quale si presume essere stata adottata per la validità del contratto; perché, ancora, le leggi speciali successive alla emanazione del codice e che disciplinano rapporti di diritto privato, prescrivono sovente, in funzione di certezza della situazione giuridica rappresentata nel documento ed in funzione di garanzia di una delle parti del rapporto, l’adozione di requisiti formali dell’atto; infine perché, di fatto, i numerosi vantaggi che alla forma sono ricollegati dalla legge (ad es. in materia di prova o di pubblicità) inducono spesso le parti alla utilizzazione di requisiti formali anche quando non sono richiesti.

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9. Autonomia contrattuale. La libertà di determinare il contenuto del contratto tipico: il limite delle norme imperative e i confini del tipo negoziale La libertà contrattuale di cui si è finora discusso trova ulteriore specificazione attraverso l’autonomia contrattuale che investe direttamente il contenuto del contratto e che dà luogo a due fondamentali direttive. In base alla prima di esse le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto (art. 1322, primo comma); in base alla seconda hanno il potere di concludere contratti diversi da quelli regolati nel titolo III del libro IV del codice civile o in altre leggi (c.d. contratti atipici o innominati). L’area della autonomia contrattuale che consiste nella libera determinazione del contenuto del contratto tipico, costituisce un punto nevralgico dei rapporti fra autonomia privata e ordinamento giuridico, entrambi candidati a concorrere più o meno intensamente alla formazione del regolamento contrattuale. Innanzitutto tale autonomia può esercitarsi nei limiti imposti dalla legge (art. 1322, primo comma). È bene infatti ricordare che le norme giuridiche possono avere natura dispositiva o imperativa. Alle prime le parti possono derogare senza incorrere in alcuna sanzione: il legislatore propone un certo modo di disciplina degli interessi composti nel contratto lasciando libere le parti di adeguarvisi o meno. Le norme imperative invece non possono essere derogate, i privati sono tenuti a rispettarle e debbono adeguare il loro regolamento contrattuale alle relative prescrizioni sotto pena di nullità. La natura imperativa o dispositiva di una norma spesso non risulta in modo espresso e si ricava dalla valutazione degli interessi che la disposizione regola. Se tali interessi perseguono finalità di ordine generale la norma avrà carattere imperativo. Si tratta di una valutazione legale, che può essere assoluta o relativa, e che può naturalmente mutare nel tempo. Due tra le norme imperative più frequentemente citate nei manuali sono state fatte oggetto di significative deroghe o di proposte di rinnovamento. L’art. 2744 vieta come è noto il patto commissorio ma la più recente legislazione riconosce la validità del c.d. patto marciano (su queste figure v. § 21 bis). Si è visto che tale patto sostanzialmente realizza lo stesso effetto del patto commissorio impedendo però la lesione di quegli interessi di carattere generale che la norma imperativa riconduce alla posizione del debitore. L’art. 458 vieta i patti successori ritenendo che gli stessi comprimano e limitino indebitamente la libertà testamentaria la quale invero magis spectanda est. La legge 14 febbraio 2006, n. 55 ha tuttavia introdotto il capo V bis del titolo IV del libro II del codice civile (artt. da 768 bis a 768 octies) che disciplina il patto di famiglia, e cioè il

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contratto con il quale un imprenditore trasferisce la propria azienda, o il titolare di partecipazioni societarie le proprie quote, ad uno o più discendenti, stabilendo che al contratto devono prendere parte il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove al momento della stipula si aprisse la successione dell’imprenditore, e sancendo altresì l’obbligo degli assegnatari di corrispondere ai partecipanti al contratto somme corrispondenti al valore delle quote di riserva agli stessi spettanti sulla futura successione. Il divieto dei patti successori non è istituto comune a tutti gli ordinamenti giuridici europei; per esempio il diritto tedesco conosce ed ammette l’Erbvertrag (contratto successorio); segnali di apertura si sono avuti nel diritto francese che, ad esempio, agli artt. 929 ss. come novellati dalla legge 23 giugno 2006, ha previsto la possibilità di rinuncia anticipata all’azione di riduzione, a vantaggio di soggetti determinati. Anche in Italia è stata avanzata una proposta di riforma dei patti successori, allo scopo di riformulare il delicato rapporto fra libertà del testatore, vincoli derivanti dalla c.d. successione necessaria e autonomia negoziale, ricercando soluzioni in grado di assecondare le volontà espresse all’interno del nucleo familiare e consentire la programmazione da parte delle famiglie di coerenti indirizzi delle risorse, con vantaggio dei traffici commerciali. Il divieto dei patti successori si articola invero in patti istitutivi (con i quali il defunto dispone in vita della propria successione), dispositivi (con cui taluno dispone di diritti ereditari derivanti da una successione non ancora aperta) e rinunciativi (con i quali un soggetto rinuncia ai diritti che gli deriveranno da una successione futura). Il d.d.l. n. 1151 del 19 marzo 2019 tende ad introdurre nel nostro ordinamento i patti rinunciativi conferendo ad un soggetto la facoltà di rinunciare anticipatamente ai diritti che possono spettargli su una successione non ancora aperta e conseguentemente la possibilità dei legittimari di rinunziare ai loro diritti anche durante la vita del donante. In particolare tale progetto contempla la possibilità di stipulare “patti sulle successioni future che consentano di devolvere specifici beni del patrimonio ereditario a determinati successori specificamente indicati, nonché di rinunciare irrevocabilmente, da parte di soggetti successibili, alla successione generale o a particolari beni, ferma restando l’inderogabilità della quota di riserva”. Peraltro sin dal 2012 l’Unione Europea, nel dettare norme per l’armonizzazione delle successioni, con il Regolamento UE del Parlamento europeo e del Consiglio n. 650 del 4 luglio 2012, all’art. 25 ha dettato norme regolatrici dei patti successori che hanno valore “transordinamentale” stabilendo che i patti successori sono disciplinati, per quanto riguarda l’ammissibilità, la validità sostanziale e gli effetti vincolanti tra le parti, comprese le condizioni di scioglimento, dalla legge che sarebbe stata applicabile alla successione della persona se questa fosse deceduta il giorno della conclusione del patto, toglien-

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do in tal modo rilevanza alla diversa disciplina di altre leggi che dovessero essere chiamate a regolare la successione e in particolare di quelle che non ammettono la validità del patto. Ove invece gli interessi regolati dalla disposizione normativa si ricolleghino a mere esigenze individuali delle parti, la norma avrà carattere dispositivo. Si ritiene ad esempio che la norma che autorizza il creditore a iscrivere ipoteca sul bene venduto, a garanzia del pagamento di parte del prezzo non corrisposto all’atto della vendita (art. 2817) sia derogabile, cosicché le parti possono inserire nel contenuto del contratto una clausola in base alla quale il venditore rinuncia a tale diritto. Altre volte la natura dispositiva è dichiarata dalla stessa norma: il mutuo, ad es., si presume oneroso ma l’art. 1815 fa salva la diversa volontà delle parti. Il comodato invece è essenzialmente gratuito (1803, secondo comma) e la norma non può essere disattesa. Il compratore ha diritto che la cosa venduta sia immune da vizi, anche se è valido il patto che esclude o limita la garanzia purché il venditore non abbia in mala fede taciuto al compratore i vizi della cosa (art. 1490); ma la garanzia per evizione (art. 1476) che tutela il compratore da terzi che vantino diritti di proprietà sulla cosa venduta, non può essere esclusa. È naturale che tanto più numerose sono le norme imperative che disciplinano un contratto, tanto meno ha modo di dispiegarsi l’autonomia delle parti nella determinazione del contenuto. E infatti un contratto disciplinato prevalentemente da norme imperative è un contratto «blindato», che le parti possono accettare o respingere non disponendo di alcuno spazio di manovra, o di uno spazio assai ridotto, quanto alla manipolazione del suo contenuto. In presenza invece di un contratto tipico regolato prevalentemente da norme dispositive, le parti possono scegliere se aderire alla disciplina prospettata con tali norme ovvero rifiutarla occupando l’area così «liberata» con una diversa disciplina, frutto dell’esercizio del loro potere di autonomia privata e così intervenire, modificandolo, sul contenuto del contratto. Se la legge, e cioè le norme imperative, costituiscono un limite esterno a questo potere delle parti, vi è un altro limite che gioca il suo ruolo dall’interno del singolo contratto. La libertà di determinazione del contenuto di cui parla il primo comma dell’art. 1322 non può consistere nella assoluta libertà di costruzione del contenuto contrattuale e dunque nella integrale sostituzione del regolamento legale a quello voluto dalle parti, bensì nel più limitato potere di modifica di tale contenuto. Occorre considerare infatti che la norma si riferisce ai contratti tipici, quelli cioè disciplinati dalla legge (si è detto, nel titolo III del codice civile o in testi normativi successivi) i quali presentano un contenuto prestabilito e

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costituiscono il modello di un’operazione economica offerto alle parti dal legislatore. Tale contenuto si compone generalmente, come abbiamo osservato, di due nuclei, l’uno fatto di norme derogabili e l’altro di norme cogenti o imperative, ed è del tutto teorica l’ipotesi che la disciplina del contratto tipico non contenga alcuna disposizione di carattere cogente. Tale considerazione già vale di per sé a giustificare un ridimensionamento di quel potere da ipotetica determinazione integrale a realistica modificazione parziale del contenuto contrattuale. E tuttavia anche se – per assurdo – la disciplina del contratto tipico fosse composta di sole norme dispositive, non per questo le parti sarebbero assolte da ogni limite nel variarne il contenuto. Vi sono infatti disposizioni regolatrici del tipo contrattuale in sé non imperative, che le parti tuttavia non possono disattendere: si tratta infatti di norme individualizzanti il tipo (per es. la gratuità nel contratto di comodato) che, se derogate, non determinano la nullità della clausola modificativa del contratto o dell’intero contratto, come accade nel caso di norme imperative, ma comportano lo sconfinamento dai limiti che segnano quel tipo di negozio e la configurazione di un negozio diverso. Così il comodato «oneroso» perde l’identità di contratto di comodato ed è valutato dall’ordinamento, eventualmente, come un tipo diverso, cioè come locazione, o come un contratto atipico oneroso di prestito ad uso. Talora le norme che individuano il tipo concorrono a definire la causa del contratto anche se tali concetti non possono definirsi coincidenti (v. p. 160). Spesso anche le norme imperative contribuiscono ad individuare il tipo contrattuale, tuttavia poiché la loro violazione determina nullità non si pone al riguardo un problema di sconfinamento dal tipo. Qualora peraltro risulti – come vedremo – che le parti avrebbero voluto un negozio diverso se avessero conosciuto la nullità e qualora ne ricorrano i requisiti di sostanza e di forma, può verificarsi la trasformazione del negozio colpito da nullità in un tipo diverso (v. p. 216).

10. L’intervento legale conformativo del contenuto. Legge, usi ed equità L’autonomia contrattuale incontra poi, sotto l’aspetto che stiamo considerando, penetranti limiti in alcune disposizioni del codice che non si limitano a registrare la difformità dell’esercizio del potere privato rispetto al precetto normativo, e a sanzionarla, ma intervengono in vario modo sul contenuto contrattuale. Tale intervento è in genere operato direttamente dalla legge, talora attraverso la mediazione del giudice, e pone un limite all’autonomia ancora più incisivo di quello che si esprime nella nullità del contratto per con-

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trarietà a norme imperative: in taluni casi infatti la legge non si limita a respingere il regolamento perché contrario alle sue prescrizioni, ma lo riconduce al modello conforme a legge e destinato a regolare il rapporto. Invero, fonte di disciplina del contratto e quindi di determinazione del suo contenuto non è soltanto la volontà delle parti, ma anche la legge, gli usi e l’equità (art. 1374). La legge interviene ad es. sul contenuto del contratto prevedendo che quando talune clausole, o i prezzi di beni o di servizi risultano imposti dalla norma, sono di diritto inseriti nel contratto in sostituzione delle clausole difformi apposte dalle parti (art. 1339): così in un contratto di fornitura di prodotti farmaceutici che non rispettasse i prezzi imposti dall’autorità amministrativa. L’art. 1815 stabilisce che se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e questi non sono affatto dovuti; ma prima della modifica operata dalla legge 7 marzo 1996, n. 108 (art. 4), gli interessi erano invece ridotti alla misura legale. La legislazione speciale offre un’ampia casistica di norme integrative del contenuto contrattuale. Il legislatore è intervenuto più volte per disciplinare la durata ed il canone degli immobili urbani, stabilendo ad es. per quelli adibiti ad uso diverso dalla abitazione, determinate durate e stabilendo altresì che se le parti convengono una durata inferiore od omettono di determinarla, questa si intende pattuita per le durate legalmente previste (art. 27, legge 27 luglio 1978, n. 392); disposizioni analoghe regolano la durata quadriennale degli immobili destinati ad uso abitativo (art. 2, n. 1, legge 9 dicembre 1998, n. 431), ovvero la determinazione del canone nel contratto tipo stipulato fra le associazioni di categoria ai sensi del cit. art. 2, n. 3 della predetta legge. Ma l’intervento normativo può essere ancora più incisivo ed azzerare l’autonomia delle parti nel determinare il contenuto del contratto: ad es. la legge dispone la conversione automatica nel tipo del contratto di affitto a coltivatore diretto di tutti i contratti agrari che le parti abbiano posto in essere e che abbiano ad oggetto la concessione di fondi rustici (art. 27, legge 3 maggio 1982, n. 203). Tali interventi, che mostrano una progressiva riduzione dei confini dell’autonomia delle parti in ragione di un controllo sempre più esteso del contenuto del contratto, si giustificano in virtù di due principali ragioni che obbediscono a due coerenti ordini di necessità. L’esigenza di tutelare l’accesso a beni primari come l’abitazione, o la terra a fini di produzione agricola, e l’esigenza di tutelare la parte contrattuale più debole, quasi sempre appartenente ad una categoria di soggetti più ampia e socialmente rilevante. In ogni caso si tratta di corrispondere ad interessi, sicuramente superindividuali e a finalità di solidarietà sociale che soli possono giustificare il sacrificio della li-

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bertà contrattuale espressione, come si è visto, della stessa libertà di iniziativa economica garantita dalla Costituzione (art. 41). In particolare la seconda di tali esigenze, quella che concerne la tutela del contraente debole, ha indotto il legislatore a prevedere interventi giudiziali sullo stesso equilibrio normativo ed economico del contratto e cioè sulla conformazione dell’affare, tradizionalmente considerato prerogativa dei contraenti. Ad es., nei contratti conclusi tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie e sono inefficaci le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi (art. 33 del Codice del consumo). L’art. 9 della legge sulla subfornitura nelle attività produttive (legge 18 giugno 1998, n. 192) vieta l’abuso della dipendenza economica in cui può trovarsi una delle imprese contraenti che sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti ed obblighi; la norma aggiunge che tale dipendenza è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti. In difetto della legge sono fonti di integrazione del contratto gli usi normativi (che hanno efficacia in assenza di regolamentazione legislativa o quando la norma espressamente li richiami: art. 8 disp. prel. c.c.), e negoziali che costituiscono regole consolidate nella prassi commerciale le quali si considerano inserite nel contratto in quanto le parti non le abbiano escluse (art. 1340). In ulteriore subordine è ammesso il ricorso all’equità in base alla quale il giudice individua – alla luce del regolamento negoziale – la soluzione più equa. Il richiamo all’equità da parte del legislatore codicistico è frequente; ad alcuni di questi casi faremo riferimento illustrando la disciplina generale del contratto (così l’art. 1371 in tema di interpretazione; gli artt. 1450 e 1467 in materia rispettivamente di rescissione e di risoluzione). Ma il riferimento è frequente anche nei contratti speciali: si pensi ad es. alla misura della provvigione spettante al mediatore, che il giudice, in mancanza di convenzione, tariffe professionali o di usi, determina secondo equità (art. 1755). Si tratta peraltro di un criterio fondamentale e generale di integrazione del contratto che esprime l’esigenza, sottesa a gran parte della legislazione a tutela del consumatore, di realizzare un equilibrio contrattuale e cioè una ragionevole composizione degli interessi delle parti in relazione all’economia dell’affare.

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11. Obbligo di rinegoziare Il tema della autonomia privata deve oggi confrontarsi con una recente tendenza diretta alla previsione, nella ricorrenza di determinati presupposti, di un generale obbligo di rinegoziare il contratto. Il recente disegno di legge che prevede la delega al Governo per la revisione del codice civile (d.d.l. n. 1151 presentato nel 2019 al Senato della Repubblica, 2a Commissione Permanente Giustizia), raccogliendo diffusi e risalenti suggerimenti dottrinali, così prospetta questo profilo: «Il principio di cui alla lettera i) affronta il delicato tema delle sopravvenienze nella fase esecutiva dei contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero ad esecuzione differita. A tale materia, limitatamente ai contratti con prestazioni corrispettive, è dedicata – a legislazione vigente – soltanto la disposizione di cui all’art. 1467 del codice civile. Il Governo in sede di esercizio della delega è chiamato a prevedere il diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede o, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti». La previsione di un tale obbligo diviene oggi attuale alla luce della crisi pandemica che ha determinato un repentino, improvviso e grave mutamento delle circostanze esistenti al momento della conclusione del contatto. Invero l’art. 1467 c.c., nel consentire alla parte che deve la prestazione divenuta eccessivamente onerosa di chiedere la risoluzione del contratto e all’altra, contro la quale è domandata la risoluzione, di evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni contrattuali, instaura un rapporto gerarchico di regola ed eccezione, privilegiando come rimedio primario della sopravvenienza la risoluzione e relegando l’adeguamento del contratto a rimedio residuale. La previsione di un obbligo di rinegoziare appare espressione del principio di conservazione e di manutenzione del contratto (che trova nello stesso codice civile, ad esempio in tema di appalto, e nella legislazione speciale, ad esempio quella consumeristica, significative testimonianze). Tale principio conferma la tendenza dell’ordinamento ad accreditare soluzioni che, in caso di controversia, privilegiano la via dell’adeguamento contrattuale. La fase della esecuzione contrattuale, al pari di quella relativa alla sua formazione, sono invero caratterizzate dal rispetto del principio di buona fede, ispirate al canone dell’equità e assistite dal dovere generale di solidarietà nei rapporti intersoggettivi affermato dall’art. 2 Cost.. Tale obbligo di rinegoziazione potrebbe essere chiamato non soltanto a

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“salvare” il contratto di durata in corso di esecuzione, ma anche a prospettare rimedi alternativi conservativi del contratto ove le parti vi abbiano interesse: ad esempio anche nel territorio occupato dalla c.d. presupposizione (v. p. 164) potrebbero darsi soluzioni che, in luogo di pervenire allo scioglimento del contratto, aprano strade diverse dirette alla conservazione del vincolo. Al riguardo non si è mancato di segnalare la questione cruciale con la quale l’obbligo generale di rinegoziare dovrebbe confrontarsi, che si pone nell’ipotesi in cui la rinegoziazione non dovesse sfociare, come ben può essere prevedibile, in un nuovo accordo. Il disegno di legge al riguardo prospetta un generale intervento del giudice in funzione di rideterminazione del contenuto contrattuale, il che però non può che sollevare più di un dubbio, perché la determinazione del contenuto contrattuale resta riservata alla sfera decisionale dei contraenti. Forse sarebbe imbarazzante ed inammissibile, per un giudice, assolvere l’ufficio di individuare la giusta misura di un accordo contrattuale; e – potrebbe aggiungersi – sconveniente, da un punto di vista di politica di amministrazione della giustizia, dal momento che sarebbero verosimilmente molti, troppi, i casi che verrebbero portati all’esame delle Corti, alcuni dei quali potrebbero ricevere soluzione contraria a quella corrispondente alla intenzione del legislatore, e sfociare perciò nello scioglimento del contratto, e dunque nella perdita di un valore. Né sembra che una soluzione, in caso di controversia sul contenuto rinegoziabile del contratto, possa rinvenirsi nel richiamo a Commissioni tecniche di arbitratori; infatti, ove il ricorso a queste modalità alternative di risoluzione delle controversie fosse “imposto” dalla legge, e ove neanche in quella sede fosse poi raggiunto un accordo, si riproporrebbe il conflitto fra autonomia delle parti e potere regolamentare dell’arbitratore. Se dunque può apparire inopportuna la previsione di una generale eteroriallocazione giudiziale (o arbitrale) del rischio contrattuale, più appropriate potrebbero invece rilevarsi soluzioni di riallocazione legislativa di tale rischio dirette a favorire una rideterminazione del contenuto ed un ripristino dell’equilibrio convenzionale, attraverso provvedimenti di soccorso alla parte che subisce le conseguenze della sopravvenienza, mediante, ad esempio, misure incentivanti di alleggerimento fiscale o di concessione di benefici patrimoniali.

12. L’autonomia delle parti ed i contratti atipici. Il controllo degli interessi meritevoli e la disciplina del contratto L’altra direttiva dell’autonomia contrattuale contenuta nel secondo comma dell’art. 1322 concerne la facoltà delle parti di porre in essere contratti di-

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versi da quelli previsti e disciplinati dalla legge (contratti atipici). Si tratta – come accennato – di contratti nati per lo più dalla prassi o accreditati nella giurisprudenza, che non corrispondono pertanto ai tipi disciplinati nel titolo III né a quelli disciplinati da leggi speciali (es. contratto di subfornitura). I problemi che al riguardo si pongono sono di due ordini: il primo riguarda le condizioni di ammissibilità di tali contratti e quindi si traduce in una verifica dello spazio e dei limiti del potere privato in questo settore; il secondo riguarda il profilo della disciplina applicabile. I contratti nuovi, infatti, non godono di quella presunzione di legittimità di cui può giovarsi il contratto tipico in virtù del fatto che, essendo stato previsto e disciplinato dal legislatore, il suo contenuto è in linea di massima rispondente ai principi dell’ordinamento (si tratta peraltro solo di una presunzione, come vedremo allorché ci occuperemo della causa del contratto). La condizione posta dalla norma alla ammissibilità di contratti nuovi consiste nella loro idoneità a realizzare interessi meritevoli di tutela. La formula è suscettibile sostanzialmente di due interpretazioni. Generalmente si ritiene che il requisito della meritevolezza ricorra tutte le volte che il contratto atipico presenti una causa lecita (cioè, come vedremo, conforme alle norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume). Tale requisito «negativo» (l’essere cioè l’interesse perseguito dalle parti col contratto atipico non contrario alle suddette norme e clausole generali) sarebbe sufficiente per la valutazione di ammissibilità del nuovo contratto. Secondo un’altra interpretazione invece il giudizio di meritevolezza si estenderebbe oltre il controllo di liceità della causa e richiederebbe la verifica della conformità degli interessi regolati nel nuovo contratto ai principi generali, anche costituzionali, che il nostro ordinamento giuridico nel suo complesso esprime. Probabilmente le medesime ragioni che, ai fini della verifica della esistenza e della liceità della causa nel contratto tipico, impongono di non ritenere sufficiente la rispondenza del negozio ad un tipo legale e spingono a ricercare una risposta nella causa concreta del contratto, giustificano una relativa autonomia del giudizio di meritevolezza degli interessi nel contratto atipico rispetto a quello che involge la causa. La legge 23 febbraio 2006, n. 51 di conversione del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273, modificata dalla legge 22 giugno 2016, n. 112, ha introdotto nel codice civile l’art. 2645 ter con il quale è stata prevista la trascrizione degli atti di destinazione patrimoniale di beni immobili e mobili registrati destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’art. 1322 c.c.

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La norma codifica un nuovo tipo di negozio, c.d. di destinazione patrimoniale, che generalizza una pratica volta ad identificare patrimoni separati, già attuata dal legislatore con la disciplina del fondo patrimoniale (artt. 167 ss. c.c.), delle associazioni non riconosciute e delle fondazioni (artt. 14 ss. c.c.), delle fondazioni bancarie (D.M. 18 maggio 2004, n. 150), dei patrimoni costituiti da società per azioni destinati in via esclusiva ad uno specifico affare (art. 2447 bis c.c.), dei fondi costituiti dall’imprenditore per la previdenza e l’assistenza di prestatori di lavoro (art. 2117 c.c.), e dello stesso trust la cui caratteristica risiede – come vedremo – nell’autonomia di un complesso di beni rispetto al patrimonio dei soggetti protagonisti delle vicende inerenti alla sua gestione (v. p. 184). Nella stessa prospettiva dell’art. 2645 ter muove ora anche l’art. 2645 quater (introdotto dal comma 5 quaterdecies dell’art. 6, d.l. 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44), secondo il quale possono trascriversi, se hanno per oggetto beni immobili, gli atti di diritto privato, i contratti e gli altri atti di diritto privato, anche unilaterali, nonché le convenzioni e i contratti con i quali vengono costituiti a favore dello Stato, della Regione, degli altri Enti pubblici territoriali ovvero di enti svolgenti un servizio di interesse pubblico, vincoli di uso pubblico o comunque ogni altro vincolo a qualsiasi fine richiesto dalle normative statali e regionali, dagli strumenti urbanistici comunali nonché dai conseguenti strumenti di pianificazione territoriale e dalle convenzioni urbanistiche a essi relative. La trascrizione ha l’effetto di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione. La norma, inoltre, prevedendo che l’atto di destinazione debba indicare lo scopo e che questo debba essere meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico, ha animato la discussione in ordine alla incerta interpretazione del requisito della meritevolezza di cui all’art. 1322 c.c. Non crediamo peraltro che la deroga che la norma reca al principio della responsabilità patrimoniale fissato nell’art. 2740 c.c. e alla par condicio fra i creditori comporti la necessità di ricercare, quale condizione di meritevolezza dello scopo perseguito e quindi di ammissibilità dell’atto di destinazione, «giustificazioni ulteriori» rispetto a quelle che già il negozio di destinazione, in relazione alla liceità dell’operazione posta in essere, è di per sé in grado di rivelare. Va segnalato che se ai creditori del disponente viene sottratta la garanzia dei beni oggetto dell’atto di destinazione, tali beni possono peraltro costituire oggetto di esecuzione per i debiti contratti al fine di realizzare lo scopo di destinazione. La versatilità dell’atto di destinazione patrimoniale non ha tardato a manifestarsi. Con una sentenza, proprio di questi giorni, un giudice di merito non ha esitato a ricondurre all’art. 2645 ter c.c. l’accordo formalizzato in se-

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de di separazione consensuale in base al quale si stabiliva che uno dei coniugi avrebbe provveduto al mantenimento dei figli trasferendo all’altro la proprietà di un immobile con vincolo di destinazione. Il Tribunale, premessa la liceità dell’operazione in quanto riferibile alla causa tipica dei negozi traslativi di diritti con i quali i coniugi regolano la crisi matrimoniale, osserva che l’art. 2645 ter c.c., nel prevedere l’opponibilità ai terzi del vincolo di inalienabilità, scardina il disposto dell’art. 1379 c.c. (v. p. 139) che – come già osservato – afferma la regola per cui il divieto di alienazione stabilito per contratto ha effetto solo tra le parti. In conclusione, una concezione che intenda coniugare la matrice liberale del contratto con la funzione di solidarietà sociale indicata dalla norma, deve indagare se il contratto atipico (come quello nominato) oltre a presentare una causa lecita, sia compatibile con il sistema di valori di utilità e di solidarietà sociali espressi dalla Costituzione (art. 41, e artt. 2 e 3 relativi al riconoscimento dei diritti della persona e al principio di uguaglianza). È prudente però che tale valutazione di conformità degli interessi espressi nel contratto a quelli propri dell’ordinamento, sia pur sempre il risultato di un giudizio in negativo, volto cioè, non tanto ad individuare in positivo il grado di funzionalità di tali interessi alla realizzazione dei fini indicati dall’ordinamento, quanto ad indagare sulla mancanza di contrasto del programma negoziale con i precetti della utilità e della solidarietà sociali. Esistono contratti nati sul terreno della prassi o sfuggiti per lungo tempo alla regolamentazione legislativa (come il contratto di viaggio – contemplato dal d.lgs. 17 marzo 1995, n. 111 e oggi dal Codice del consumo – volto a disciplinare la vendita di pacchetti turistici aventi ad oggetto i viaggi, le vacanze e i circuiti «tutto compreso») che, in virtù dell’intervento legislativo hanno perduto il loro carattere innominato e hanno ricevuto il crisma dell’ufficiale riconoscimento da parte della legge: rispetto a tali contratti il problema dell’accertamento della meritevolezza degli interessi può porsi nei limiti in cui si pone in generale rispetto ai contratti tipici. Così per quanto riguarda le c.d. vendite in multiproprietà, decollate sul mercato sin dagli anni ’70 e solo di recente regolate dal d.lgs. 9 novembre 1998, n. 427 e oggi dal Codice del consumo; o il contratto di factoring, mutuato dalla prassi commerciale internazionale e oggi disciplinato dalla legge 21 febbraio 1991, n. 52. Esemplare, nel testimoniare il passaggio da una condizione di mera tipicità sociale all’altra di tipicità legale, è la vicenda del leasing che non solo guadagna una sua tipicità ma si scompone in una serie di sottotipi legali, tutti riconoscibili attraverso una comune funzione generale di finanziamento, ma diversi quanto all’oggetto del contratto e alla relativa disciplina. Del leasing si rinvengono inizialmente tracce nel T.U. delle leggi in mate-

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ria bancaria e creditizia, d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, che include fra le attività esercitate dalle banche italiane ed ammesse al mutuo riconoscimento in uno Stato comunitario, quelle aventi ad oggetto il leasing finanziario (art. 1, n. 2, lett. f ), n. 3 e art. 16). La legge 28 dicembre 2015, all’art. 1, comma 76, configura un contratto nominato, il leasing immobiliare abitativo con l’obiettivo di agevolare il ricorso al credito finalizzato all’acquisto dell’abitazione (v. p. 300). Finalmente con l’art. 1, commi 136-140 della legge n. 124 del 4 agosto 2017 il legislatore regolamenta la figura generale del leasing finanziario, stipulato dal cliente con banche o intermediari finanziari e ne precisa i caratteri, prima di allora rimessi all’autonomia privata dei contraenti, ora elementi essenziali di un contratto tipico. L’art. 1, comma 136 definisce infatti la locazione finanziaria il contratto con il quale la banca o l’intermediario si obbligano ad acquistare o a far costruire un bene su scelta e secondo le indicazioni dell’utilizzatore, mettendolo a disposizione di quest’ultimo per un dato tempo verso un determinato corrispettivo determinato in relazione al prezzo di acquisto o di costruzione e alla durata del contratto. Alla scadenza del contratto l’utilizzatore ha diritto di acquistare la proprietà del bene ad un prezzo prestabilito, ma ove non eserciti il diritto ha l’obbligo di restituirlo. In caso di risoluzione del contratto per l’inadempimento dell’utilizzatore il concedente ha diritto alla restituzione del bene ed è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene, effettuata ai valori di mercato, detratto l’ammontare dei canoni scaduti e non pagati fino alla data della risoluzione, dei canoni fino alla scadenza del contratto, e del prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione finale di acquisto; salvo il residuo diritto di credito del concedente ove il valore di realizzo del bene sia inferiore alle somme dovute dall’utilizzatore (art. 1, comma 138). Un contratto socialmente tipico tende facilmente a trasformarsi in contratto legalmente tipico. È quanto è avvenuto a proposito del c.d. franchising al quale venivano ricondotti schemi contrattuali largamente accreditati nella prassi commerciale: ora la legge 6 maggio 2004, n. 129 ha disciplinato l’affiliazione commerciale (franchising) definendola all’art. 1 come il contratto fra due soggetti, economicamente e giuridicamente indipendenti, con la quale una parte concede all’altra la disponibilità, dietro corrispettivo, di un insieme di diritti di proprietà industriale o intellettuale (relativi, ad es., a marchi, diritti d’autore, know how, brevetti). Quanto al profilo relativo alla disciplina dei contratti atipici soccorre l’art. 1323 che estende anche a tali contratti le norme generali contenute nel titolo II. Ciò vuol dire, ad es., che il profilo della responsabilità del debitore nel

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contratto ad es. di franchising, sarà governato dal criterio generale espresso nell’art. 1218. Il contratto atipico poi, presenta spesso elementi di affinità con modelli legali cosicché è possibile estendere la disciplina del contratto tipico al negozio innominato, applicando a quest’ultimo in via analogica le disposizioni che regolano il contratto simile (art. 12 disp. prel. c.c.). Quando ricorrano elementi di affinità con più tipi legali sarà applicabile alternativamente la disciplina del tipo prevalente ovvero, in difetto di tale elemento, una disciplina combinata di regole dell’uno o dell’altro tipo a seconda della ratio delle singole clausole. L’individuazione della disciplina applicabile può spesso dar luogo a contrasti. Con riferimento ad es. al leasing la facoltà per il concedente di trattenere i canoni percetti in caso di risoluzione del contratto, discende dalla riconduzione del leasing allo schema della locazione e dalla conseguente applicazione dell’art. 1458, primo comma, cui è soggetta infatti anche la locazione come contratto di durata; in base a tale norma l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite con la conseguenza che il concedente ha diritto di ritenere i canoni riscossi. Ma se si ritiene che il leasing presenti aspetti comuni alla vendita con riserva di proprietà (e ciò in ragione della facoltà, comune al compratore e all’utilizzatore, di acquistare la proprietà del bene con il pagamento dell’ultima rata del prezzo o con il versamento dell’ultimo canone) dovrebbe ritenersi applicabile l’art. 1526 che prevede l’obbligo di restituzione da parte del venditore (e quindi del concedente) delle rate (o dei canoni) riscossi e il diritto ad un equo compenso per l’uso della cosa ovvero, qualora le parti abbiano convenuto che le somme pagate restino acquisite al venditore a titolo di indennità, la possibilità che questa venga giudizialmente ridotta. La disciplina del contratto di leasing finanziario è oggi fortemente condizionata dal regolamento del contratto tipico introdotto dalla legge n. 124 del 2017, che risulta applicabile in via diretta ove le parti abbiano fatto ricorso allo schema predisposto dal legislatore, ed in via analogica ove abbiano invece apportato qualche variante allo schema legale, per effetto della relazione di similitudine che in ogni caso corre fra i due negozi. D’altro canto vi sono norme che, sebbene contenute nel titolo III in cui trovano disciplina i contratti tipici, esprimono regole che hanno un’estensione che va oltre il singolo contratto e si candidano a norme di applicazione generalizzata: così l’art. 1668 detta un principio cui si risconosce un campo di applicazione anche al di fuori del contratto di appalto, e che consente al creditore di chiedere la riparazione o la sostituzione della cosa difettosa (si vedano le considerazioni in precedenza fatte, in ordine alla esistenza di un più ampio diritto del creditore alla regolarizzazione della prestazione).

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È importante osservare che le norme generali trovano applicazione in quanto, in sede di disciplina del contratto tipico, non ricorrano i presupposti per l’applicazione di una norma speciale. Così – come vedremo – la risoluzione del contratto può essere chiesta in presenza del requisito della gravità dell’inadempimento (art. 1455); in tema di appalto si applica però l’art. 1668 che esige una gravità maggiore, tale cioè da rendere la cosa difforme o viziata, del tutto inadatta alla sua destinazione. Tale norma speciale, proprio in quanto non porta eccezione alla regola generale, ma si affianca a quest’ultima, è suscettibile di essere applicata in via analogica per disciplinare anche contratti atipici (art. 14 disp. prel. c.c.).

SEZIONE II: IL PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE 13. La struttura del contratto e i suoi elementi costitutivi. Le trattative e l’obbligo di comportarsi secondo buona fede Nel corso dei paragrafi che seguono esamineremo gli elementi essenziali del contratto e cioè i requisiti fondamentali che ne delineano la struttura e che sono elencati nell’art. 1325. È però necessario soffermarci preliminarmente sulla fase preparatoria dell’accordo contrattuale. La conclusione del contratto è infatti normalmente preceduta da una fase di trattative durante la quale le parti si incontrano e discutono le condizioni dell’affare in vista del raggiungimento dell’accordo. Tale fase è governata dall’obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede, cioè di uniformare la loro condotta ai canoni della lealtà e della correttezza (art. 1337). La violazione di tale obbligo può compiersi attraverso i comportamenti più vari: in sede di disciplina delle trattative la legge ne indica uno, emblematico ed assai importante, perché coglie un aspetto fondamentale della condotta leale del contraente e cioè l’obbligo di informazione delle condizioni contrattuali, funzionale alla realizzazione del principio di trasparenza dell’operazione contrattuale. Invero l’art. 1338 impone alla parte che, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte, l’obbligo di risarcire il danno per avere confidato senza colpa nella validità del contratto. Ulteriore ipotesi che dà luogo alla responsabilità in esame è quella del recesso ingiustificato dalle trattative e cioè del comportamento di colui che, avendo suscitato il legittimo affidamento altrui sulla conclusione dell’affare, abbandona le trattative senza alcun giustificato motivo.

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Al contrario di quanto accade in caso di violazione di un contratto già concluso, che produce la lesione dell’interesse positivo del contraente all’esatto adempimento, in caso di violazione degli obblighi che assistono la gestione delle trattative il danno risarcibile è commisurato al c.d. interesse negativo e cioè all’interesse che aveva il soggetto a non avviare una trattativa rivelatasi inutile e fonte di dispersione di tempo e di danaro. Anche nel caso in esame, peraltro, sarà risarcibile sia il danno emergente (cioè le spese sostenute) che il lucro cessante, cioè il mancato guadagno, rapportato però quest’ultimo non al vantaggio che si sarebbe conseguito negoziando il bene (ad es. rivendendolo a terzi), ma a quello che presumibilmente sarebbe derivato coltivando affari alternativi a quello non andato in porto. La natura della responsabilità precontrattuale è discussa: accanto a chi la fa rientrare nella responsabilità per atto illecito, v’è chi, con maggiore persuasività, la ritiene un aspetto della responsabilità contrattuale considerando che l’interesse del contraente viene leso in occasione del contatto sociale realizzatosi in funzione della conclusione di un contratto.

14. Condizioni generali di contratto. Moduli e formulari La fase delle trattative è pressoché inesistente o fortemente ridimensionata con riguardo ai contratti conclusi mediante l’adesione del singolo contraente a condizioni generali predisposte dall’impresa e valide per tutti i contratti stipulati dall’impresa stessa con i singoli aderenti. Si tratta di una prassi consolidata per quanto riguarda la collocazione sul mercato di beni o servizi di largo consumo (si pensi ai contratti di utenza telefonica o a quelli assicurativi). Alla mancanza di trattativa, e quindi alla impossibilità di attivare le sanzioni che attraverso i precetti di lealtà e correttezza presidiano la fase propedeutica alla conclusione del contratto, la legge rimedia intensificando la tutela dell’aderente nel momento della formazione del contratto. In tal modo l’efficacia del contratto, normalmente conseguenza immediata dell’accordo validamente concluso, è condizionata all’accertamento positivo che l’aderente, al momento della conclusione, conoscesse o avrebbe dovuto conoscere con l’uso dell’ordinaria diligenza, le predette condizioni generali (art 1341, primo comma). Inoltre l’efficacia di alcune clausole, dette vessatorie, non si produce in favore dell’impresa che le abbia predisposte se non sono specificamente approvate per iscritto da parte dell’aderente (art. 1341, secondo comma). Quest’ultima norma trova applicazione anche nel caso di contratto concluso tra privati mediante moduli o formulari prestampati, che possono ridurre l’attenzione delle parti sul carattere vessatorio di talune clausole; la legge sta-

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bilisce inoltre che eventuali clausole aggiunte prevalgono su quelle stampate (art. 1342).

15. Conclusione del contratto e nuove tecniche di controllo del consenso nella moderna legislazione sul contratto. La trasparenza nei rapporti contrattuali Le moderne tecniche di distribuzione della ricchezza da parte dei produttori, l’offerta di beni e servizi, soprattutto ma non necessariamente di largo consumo, hanno sempre più divaricato la forbice ed aumentato la distanza fra venditore o produttore da un lato e consumatore dall’altro, riducendo o eliminando del tutto la fase delle trattative e trasferendo la tutela del contraente debole dalla informazione del consenso al c.d. consenso informato, e dunque più propriamente sul piano della formazione e del contenuto del regolamento contrattuale. Questa «deriva» è così determinante che ha dato luogo – come più volte accennato – ad una figura generale di contratto che, originata dalla tutela del consumatore e cioè del soggetto che acquista beni o servizi per scopi estranei ad ogni attività professionale, aspira a diventare una categoria di applicazione generalizzata e più ampia, volta a disciplinare i contratti con asimmetria di potere contrattuale (sul tema si rinvia, in questa collana, a E. MINERVINI, Dei contratti del consumatore in generale, Cap. I; S. MONTICELLI-G. PORCELLI, I contratti dell’impresa). È significativo che la disciplina che regola i contratti dei consumatori (artt. 33 ss. Codice del consumo) dopo aver escluso il carattere vessatorio delle clausole che abbiano formato oggetto di trattativa individuale (art. 34, quarto comma), aggiunge che se il contratto è stato concluso mediante moduli predisposti spetta al professionista l’onere di vincere la presunzione di vessatorietà e di provare che la clausola sia stata oggetto di trattativa con il consumatore (34, quinto comma); ed è ancor più significativo che tra le clausole che conservano il carattere vessatorio, ancorché abbiano formato oggetto di trattativa, l’art. 36 includa quelle che abbiano per oggetto o per effetto di «prevedere l’adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto». Altre disposizioni, sparse in alcune leggi di tutela del consumatore, sviluppano e portano a compimento quelle istanze di corretta e leale informazione che in linea generale caratterizzano la condotta di buona fede delle parti durante le trattative, e che in questo contesto ricevono una consapevole e dettagliata sistemazione nell’ambito del contenuto del contratto o come presupposti per la formazione di un consenso valido ed efficace.

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Ad es. gli artt. 6, 7 e 9 del Codice del consumo prescrivono che i prodotti o le confezioni destinati al consumatore e commercializzati in Italia devono riportare in lingua italiana chiaramente visibili e leggibili le indicazioni prescritte, pena la incommerciabilità del prodotto stesso (art. 11). L’art. 47 del Codice del consumo stabilisce che per le proposte avanzate o i contratti conclusi dall’operatore commerciale fuori dei locali dell’azienda, quest’ultimo deve informare per iscritto il consumatore del diritto di recesso allo stesso spettante ai sensi degli articoli da 64 a 67 del medesimo Codice. Gli artt. 20 e ss. del Codice di consumo in materia di pratiche commerciali, pubblicità e altre comunicazioni commerciali perseguono lo scopo di tutelare non soltanto i consumatori e gli interessi del pubblico ma l’imprenditore stesso dagli effetti perversi conseguenti a pratiche commerciali scorrette. Premesso che per pratica commerciale deve intendersi qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori (art. 18 lett. d), la legge definisce scorrette quelle pratiche che siano contrarie alla diligenza professionale, false o idonee a falsare in modo apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio (art. 20, pratiche commerciali scorrette); le pratiche scorrette sono ingannevoli ove contengano informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corrette, in qualsiasi modo, anche nella loro presentazione complessiva, inducono o sono idonee ad indurre in errore il consumatore medio riguardo agli elementi indicati dalla norma (tra i quali le caratteristiche principali del prodotto, il prezzo, gli obblighi del professionista e i diritti del consumatore) determinandolo o potendo determinarlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso (art. 21, pratiche commerciali ingannevoli); la scorrettezza di talune pratiche si declina in aggressività quando esse, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limitano o sono idonee a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto inducendolo o potendo indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso (art. 24, pratiche commerciali aggressive). Le pratiche commerciali scorrette sono vietate e l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, su istanza dei soggetti interessati e anche d’ufficio, ne inibisce la diffusione o la continuazione, disponendo inoltre a carico del professionista l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria (art. 27); ove sia stato adottato un Codice di condotta in relazione alle prati-

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che commerciali del settore, le parti, prima di ricorrere all’Autorità, possono adire in autodisciplina il soggetto responsabile o l’Organismo incaricato del controllo del codice di condotta, per la risoluzione concordata della controversia (art. 27 ter). L’art. 2 del Codice del consumo, annovera tra i diritti fondamentali riconosciuti ai consumatori quello ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità nonché quello alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi (art. 1, n. 2, lett. c) ed e)). L’art. 52, relativo alla protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza, prescrive che il fornitore, prima della conclusione di qualsiasi contratto a distanza, debba inviare al consumatore tutte le informazioni previste dalla stessa norma e dare quindi conferma scritta o su altro supporto duraturo di tali informazioni. Ai sensi dell’art. 70 il venditore di un immobile in multiproprietà è tenuto a consegnare all’acquirente un documento informativo contenente con precisione tutti i numerosi elementi indicati nella norma. Anche il contratto relativo alla vendita di un pacchetto turistico deve essere redatto in forma scritta ed in termini chiari e precisi (art. 85). Infine, il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, attuativo della direttiva n. 2000/31/CE relativa al commercio elettronico, stabilisce che le comunicazioni commerciali che costituiscono un servizio della società dell’informazione devono contenere, in aggiunta agli obblighi informativi previsti per i singoli beni e servizi, una specifica informativa diretta ad evidenziare le particolari circostanze indicate nell’art. 8.

16. La formazione dell’accordo L’art. 1325 detta i requisiti essenziali del contratto, la mancanza di uno solo dei quali impedisce che il contratto venga ad esistenza: accordo, causa, oggetto e forma qualora prescritta dalla legge sotto pena di nullità. Il contratto è anzitutto scambio di consensi, incontro di volontà ed occorre stabilire in quale preciso momento le volontà delle parti si incontrano e, fondendosi, danno vita ad una nuova realtà che modifica quella precedente facendo sorgere il vincolo contrattuale. Le manifestazioni di volontà preordinate alla conclusione del contratto assumono il nome di proposta e accettazione, a seconda dei ruoli che le parti assumono in ordine all’affare: ruoli che non sono determinati, perché ad es. può essere il venditore a proporre di vendere o il compratore a proporre di acquistare. Ciò che conta è che l’oblato, colui cioè al quale la proposta è diretta, manifesti una accettazione esattamente conforme a quella proposta; se l’accettazione non è conforme dà luogo ad una nuova proposta diretta all’origi-

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nario proponente che di fronte ad essa assumerà la veste di oblato (art. 1326, quinto comma). Soltanto con l’accettazione conforme alla proposta vi sarà un incontro speculare delle volontà delle parti. Ma la partita sarà definitivamente chiusa quando il proponente abbia avuto conoscenza dell’avvenuta accettazione: in questo momento il contratto si conclude, nasce il vincolo e le parti non possono più modificare il contenuto della loro manifestazione di volontà (art. 1326, primo comma). Prima di tale momento, pertanto, proposta ed accettazione, che si configurano come atti unilaterali recettizi, destinati cioè a produrre effetti allorché giungono a conoscenza del destinatario, sono atti revocabili e cioè ciascuna delle parti può ritirarli (art. 1328, primo comma). Anche la revoca dell’accettazione ha natura recettizia; essa è infatti efficace se giunge a conoscenza del proponente prima dell’accettazione (art. 1328, ultimo comma). È invece discussa la natura recettizia della revoca della proposta. Se si ritiene che questa non abbia carattere recettizio, per impedire la conclusione del contratto è sufficiente che il proponente spedisca la revoca della sua proposta prima di venire a conoscenza dell’accettazione, indipendentemente dalla circostanza che tale revoca giunga a conoscenza dell’oblato. Se invece si riconosce il carattere recettizio di tale atto, perché la revoca sia efficace occorre che essa pervenga all’oblato prima che l’accettazione giunga al proponente. L’art. 1335 stabilisce una regola circa la conoscenza della proposta, dell’accettazione, della loro revoca o modifica, da parte dei soggetti ai quali tali atti sono rispettivamente destinati, presumendo che le relative dichiarazioni si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario a meno che questi non provi di non averne potuto avere notizia senza sua colpa. Eccezionalmente il contratto può concludersi in difetto di accettazione. Ciò accade quando, su richiesta del proponente o per la natura dell’affare o secondo gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta: in tal caso il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione, ma l’accettante deve comunque prontamente avvisare il proponente, essendo in mancanza tenuto al risarcimento dei danni (art. 1327). Un’applicazione di questo principio si rinviene nell’art. 2 della citata legge 18 giugno 1998, n. 192, in base al quale il contratto di subfornitura si conclude anche in difetto di accettazione scritta da parte del subfornitore che, senza richiedere alcuna modificazione degli elementi del contratto, inizi le lavorazioni e le forniture. Non costituisce una modalità di conclusione del contratto l’esecuzione che l’accettante intraprenda in buona fede del contratto stesso prima che abbia notizia della revoca della proposta. In tal caso nessun contratto viene ad

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esistenza ed il proponente è tenuto ad indennizzare l’accettante delle spese e delle perdite subite per avere iniziato l’esecuzione del contratto (art. 1328, primo comma). In alcuni casi è la legge stessa a consentire che il contratto si concluda senza accettazione: così la donazione che sia fatta in riguardo di un determinato futuro matrimonio si perfeziona senza bisogno che sia accettata, ma produce effetti soltanto se il matrimonio abbia luogo (art. 785). Il proponente può obbligarsi a mantenere ferma la proposta, purché sia previsto un termine (proposta irrevocabile): in questo caso la proposta è insuscettibile di revoca (art. 1329, primo comma) e conserva efficacia anche dopo la morte o la sopravvenuta incapacità del proponente, salvo che tale efficacia debba essere esclusa in base alla natura dell’affare o ad altre circostanze (art. 1329, secondo comma). L’irrevocabilità può anche discendere da un accordo contrattuale e in questo caso ricorre la figura dell’opzione di cui ci siamo già occupati. Una particolare tecnica di formazione del contratto è quella disegnata dall’art. 1333, che disciplina l’ipotesi in cui da un contratto derivino obbligazioni per il solo proponente (c.d. contratto unilaterale), mentre il destinatario ne riceve soltanto un vantaggio (ad es. il contratto di fideiussione dal quale sorge un obbligo per il fideiussore e un mero beneficio per il creditore). Tale norma stabilisce che la proposta è irrevocabile appena giunge a conoscenza del destinatario e che il contratto si conclude con il mancato rifiuto da parte dell’oblato nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi. Il legislatore ritiene superflua l’accettazione, perché presume che il destinatario intenda usufruire del vantaggio offerto e tuttavia, non essendo possibile – come si è già osservato – incidere nella sfera giuridica altrui con manifestazioni unilaterali di volontà, ancorché comportanti un beneficio, attribuisce al destinatario la facoltà di rifiutare. Da quanto esposto emerge che per la conclusione del contratto è necessario ma anche sufficiente il consenso realizzato secondo i modi di cui agli artt. 1326 ss. Con riguardo invece ai contratti c.d. reali (es. mutuo) per la perfezione del contratto occorre un ulteriore elemento consistente nella consegna materiale della cosa oggetto del contratto (v. p. 192); e nei contratti c.d. formali è necessario che il consenso sia manifestato nelle forme prescritte dalla legge (v. p. 167).

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17. La conclusione del contratto fra nuove forme di manifestazione del consenso e nuove tipologie di documenti (rinvio) Il meccanismo di formazione del contratto, fondato come si è visto sull’incontro fra proposta e accettazione e in particolare sulla conoscenza effettiva o presunta di quest’ultima da parte del proponente, può mantenersi fermo anche se negli ultimi decenni si sono profondamente arricchite le tecniche di conclusione del contratto. I nuovi strumenti di comunicazione hanno infatti inciso sulle modalità di formazione dell’accordo oltre che sull’altro versante, di cui ci occuperemo, di formazione dei documenti. Poiché tuttavia il problema della forma appare prevalente è opportuno rinviarne l’esame a quando ci occuperemo di tale requisito del contratto.

SEZIONE III: IL CONTENUTO 18. L’oggetto del contratto L’art. 1325, indicando l’oggetto tra i requisiti del contratto si riferisce al suo contenuto sostanziale, cioè a quanto le parti hanno dichiarato, o meglio al complesso degli elementi che compongono il regolamento negoziale che – come si è visto – è di massima riservato alle parti, ma alla cui determinazione concorrono fonti integrative eteronome (legge, usi, equità). In questa accezione contenuto e oggetto del contratto esprimono concetti equivalenti; in senso ristretto invece l’oggetto può essere riferito alla prestazione, cioè al bene o all’utilità che le parti si propongono di attribuire o di conseguire attraverso il contratto. L’oggetto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile (art. 1346). L’oggetto è possibile se la prestazione è relativa ad un bene che è configurabile da un punto di vista naturalistico, e che possa formare oggetto di diritti (non è tale, ad es. e rispettivamente, la vendita di una lente che faccia leggere nel futuro, ovvero la vendita di Piazza San Marco a Venezia). Non è peraltro necessario che la cosa esista giacché il requisito della possibilità è soddisfatto anche con riguardo alle cose future (art. 1348); è infatti possibile vendere una cosa futura (per es. un appartamento ancora da costruire) ma l’acquisto della proprietà si verifica quando la cosa viene ad esistenza (art. 1472). L’oggetto è lecito quando non è contrario alle norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume (ad es. il commercio di organi umani); su tali nozioni occorre rinviare al concetto di causa.

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L’oggetto deve essere infine determinato, cioè individuato o quanto meno determinabile nel senso che debbono essere presenti, al momento della conclusione del contratto, gli elementi in base ai quali sarà possibile successivamente procedere alla sua individuazione. È consentito alle parti rimettere a un terzo (arbitratore) la determinazione dell’oggetto del contratto (arbitraggio), ed in questo caso egli deve determinare la prestazione con equo apprezzamento a meno che le parti non lo abbiano affrancato da qualsiasi regola, affidandosi al suo mero arbitrio (art. 1349).

19. La causa del contratto: lo scopo dei contraenti e la valutazione dell’ordinamento Elemento fondamentale del contratto è la causa. Se ne è già parlato a proposito delle attribuzioni patrimoniali (cioè dello spostamento di beni da un soggetto ad un altro) alle quali l’ordinamento riconosce tutela soltanto qualora siano giustificate da un punto di vista causale essendo in difetto soggette, come si ricorderà, ad azione di ripetizione dell’indebito. La giustificazione causale di tali attribuzioni patrimoniali dal punto di vista del sistema giuridico è valutata in relazione alla esistenza di un titolo idoneo a sorreggere i relativi spostamenti di ricchezza. Tale titolo consiste, generalmente, in un contratto: invero la causa, pur avendo origini complesse, è un requisito del contratto, come tale è disciplinato dal codice civile, ed in linea generale consente di ritenere giustificato l’affare secondo i principi dell’ordinamento giuridico. La causa esprime in particolare la funzione economica del contratto, lo scopo oggettivo che il regolamento contrattuale persegue, costituendo ad un tempo la ragione pratica del contratto e il fondamento della sua rilevanza giuridica. Si intende che nei contratti tipici, cioè quelli disciplinati dal legislatore codicistico e non, la causa esiste sempre, è cioè sempre riscontrabile – in astratto – un assetto di interessi, un programma negoziale al quale l’ordinamento assegna una funzione economico sociale ritenuta meritevole. Il tipo legislativo gode cioè di una presunzione di esistenza della causa, la quale però andrà sempre valutata anche con riferimento alle specifiche finalità perseguite dalle parti al fine di controllare se queste abbiano utilizzato il contratto in modo conforme allo scopo, cioè alla causa astratta che lo caratterizza (se ad es. hanno posto in essere una vendita allo scopo di realizzare lo scambio di una cosa contro il corrispettivo di un prezzo). Può essere infatti che le parti ricorrano a un contratto per realizzare i fini di un contratto diverso (negozio indiretto). Ora, se il negozio posto in essere è l’unico ed è

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realmente voluto dalle parti per raggiungere indirettamente una finalità estranea alla sua causa, la giustificazione causale del contratto andrà valutata alla luce della causa concreta che vale ad identificare la ragione pratica dell’operazione e la reale sostanza dell’affare (ad es. le parti ricorrono a un comodato, e stabiliscono che colui che ha ricevuto la cosa in godimento non debba restituirla, effettuando così una donazione; ovvero ad un mandato irrevocabile a vendere senza obbligo di rendiconto, ponendo in essere un contratto traslativo della proprietà). L’indagine sulla causa concreta può anche condurre a rilevare l’esistenza di una causa illecita: così nell’esempio appena fatto di un mandato irrevocabile a vendere senza obbligo di rendiconto, se il mandante fosse debitore e il mandatario dovesse dare esecuzione al mandato in occasione dell’inadempimento del mandante, acquistando la proprietà del bene o incassandone il relativo prezzo, si avrebbe che le parti hanno posto in essere un negozio di garanzia atipica ricadente sotto il divieto del patto commissorio. Nei contratti tipici o nominati è dunque sempre necessario il riscontro di una causa concreta che consenta di verificare la giustificazione del programma negoziale al di là della sua necessaria rispondenza al modello astratto del tipo legale. Il negozio indiretto offre una conferma della impossibilità di identificare le nozioni di causa e di tipo. Come si è visto, infatti, l’impiego di un determinato tipo negoziale non preclude la qualificazione del negozio in base ad una causa estranea e diversa da quella propria del tipo utilizzato, che può condurre all’inquadramento del contratto sotto un diverso modello legale. D’altro canto tipi negoziali diversi possono mantenere la loro «identità» ed assolvere alla medesima funzione: si pensi al mutuo e al factoring che possono essere accomunati dalla stessa causa di finanziamento. Nei contratti atipici, soggetti ad un controllo di meritevolezza degli interessi non coincidente ma per alcuni versi analogo a quello causale, l’indagine sulla ricorrenza della causa si presenta con connotati di maggiore latitudine. Il contratto atipico non può contare su un modello legale e dunque non gode di alcuna presunzione circa l’esistenza della causa; la verifica di tale requisito consisterà in un accertamento unitario (che risolve ad un tempo il profilo della esistenza e della liceità della causa e quello della meritevolezza degli interessi), diretto ad una valutazione complessiva e globale, dal punto di vista sia astratto che concreto degli interessi divisati dalle parti nel contratto. Deve peraltro osservarsi che la necessità di ricercare l’esistenza di una causa concreta nei contratti tipici, finisce per assoggettare anche tali contratti ad una valutazione assai analoga al giudizio di meritevolezza che costituisce il parametro di ammissibilità dei contratti atipici: tali valutazioni sono infatti

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entrambe dirette ad accertare, alla luce di valori che non possono non essere gli stessi, i reali interessi posti dalle parti a fondamento del contratto. La causa è un concetto tecnico che si riferisce al contratto e tuttavia esprime una giustificazione non meramente formale ma sostanziale dell’operazione economica. Ciò spiega perché a volte tale requisito possa essere ricercato in qualche modo fuori dal negozio: così, qualora due o più contratti siano posti in essere per una finalità ulteriore rispetto a ciascuna di quelle proprie di tali contratti e unitaria (collegamento negoziale), la funzione del negozio va commisurata a questo più ampio programma. Tale fenomeno ha importanti conseguenze pratiche sotto il profilo della disciplina, poiché le vicende (ad es. nullità) che colpiscono un negozio si ritengono estensibili all’altro. Non basta che la causa esista, che cioè il programma voluto dalle parti appaia giustificato alla luce dei principi espressi dall’ordinamento nel suo complesso. Occorre invero, con riferimento a tutti i contratti, sia tipici che atipici, che tale causa sia lecita non sia cioè contraria alle norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume (art. 1343); e si intende che la valutazione di meritevolezza degli interessi nei contratti atipici vale ad orientare ma non a risolvere il giudizio positivo circa la liceità della causa. Abbiamo già spiegato cosa sono le norme imperative (v. p. 141). Ordine pubblico e buon costume costituiscono clausole generali, un insieme cioè di regole e principi fondamentali che definiscono i valori fondanti della società civile in un ordinamento giuridico storicamente determinato. Mentre l’ordine pubblico si riferisce sia ai principi desumibili dalle norme, anche della Costituzione, sia ai principi non scritti ma che si ricavano da una interpretazione sistematica dei precetti legislativi (la libertà di contrarre matrimonio o la libertà contrattuale o, nell’ambito del processo, la regola del contraddittorio che garantisce la parità processuale delle parti), il buon costume riguarda i principi condivisi dalla collettività e desunti dalla morale comunemente accettata (viola ad es. il buon costume il contratto relativo alla prostituzione, o quello diretto alla commercializzazione del voto politico, o quello avente ad oggetto l’obbligo di tenere una determinata condotta processuale a fronte di un corrispettivo). Causa, liceità e meritevolezza degli interessi esprimono e definiscono il punto di incontro fra scopo perseguito dalle parti contraenti e valutazione dell’ordinamento: una confluenza segnata da confini mobili e mutevoli i quali – come abbiamo visto studiando il profilo della autonomia contrattuale – sotto molti aspetti denunciano l’evoluzione di un processo che, senza svilire l’autonomia e la libertà delle parti né il valore del contratto come episodio fondamentale di libertà e fatto di volontà, opera sul contratto stesso controlli ed interventi sempre più vigili e penetranti.

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20. I motivi: i casi in cui rilevano. La presupposizione tra condizione inespressa e contenuto del contratto Tradizionalmente per spiegare il concetto di causa si fa ricorso a quello di motivo e si definisce la prima in contrapposizione al secondo. La relazione differenziale tra causa e motivo tende a porre in evidenza il carattere oggettivo della causa e la sua totale indipendenza dalle ragioni individuali e personali che muovono le parti alla conclusione di un contratto (motivi). Così colui che acquista un appartamento in multiproprietà può a ciò determinarsi per le più svariate ragioni individuali: perché ad es. desidera trascorrere le vacanze estive in un determinato luogo ed avere la certezza di poter disporre in futuro dello stesso immobile sia pure limitatamente ad un periodo determinato dell’anno; oppure perché vuole porsi al riparo dalla svalutazione e ritiene che tale scopo possa essere raggiunto immobilizzando in questa forma di investimento la sua liquidità; oppure perché intende effettuare una liberalità in favore del figlio prossimo alle nozze. Ebbene tali ragioni, appartenendo alla sfera psichica individuale del soggetto, non essendo quindi note alla controparte e non attenendo allo scopo immanente nel contratto ed espresso, come si è visto, nel concetto di causa, sono irrilevanti. Ciò vuol dire che la loro esistenza o la loro mancanza, l’errore cui, riguardo ad esse, sia incorsa una delle parti, non spiegano alcuna influenza sulla disciplina del contratto che resta dunque del tutto insensibile ai motivi. Il codice tuttavia contiene una serie di eccezioni a questa regola, pur fondamentale. Deve innanzitutto considerarsi che un modo di assegnare rilevanza ai motivi è quello di formalizzarli in uno degli elementi accidentali (condizione, termine e modo), che – come vedremo (v. p. 196 ss.) – incidono sull’efficacia; in tal caso peraltro i motivi cessano di essere tali per divenire volontà espressa delle parti e fare ingresso nel contenuto del contratto. Inoltre, come fra poco diremo, il riferimento alla causa concreta consente di ascrivere al contenuto del contratto e di sottrarre all’area della irrilevanza delle motivazioni individuali, una serie di interessi che pur non essendo espressi non possono tuttavia essere considerati estranei né alla volontà delle parti né alla funzione pratica del contratto. Tali considerazioni impongono un ridimensionamento della tradizionale affermazione relativa alla generale ed assoluta irrilevanza dei motivi. In alcuni casi è la legge stessa ad assegnare rilevanza ai motivi: ciò accade quando il motivo è illecito ovvero quando la parte è incorsa in errore sul motivo. Il contratto è infatti illecito quando le parti si sono determinate a concluderlo per un motivo illecito che sia ad esse comune e che sia inoltre la ragione

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esclusiva della contrattazione (art. 1345). Il motivo è rilevante anche in un particolare contratto, la donazione, ed è soggetto ad una disciplina particolare analoga a quella dettata in materia di rilevanza del motivo nel testamento. Invero la donazione, realizzando un vantaggio patrimoniale senza un corrispondente sacrificio del beneficiario, presenta aspetti comuni con un altro modo di operare delle attribuzioni patrimoniali a titolo gratuito, quello relativo alla successione mortis causa: è questa la ragione che ha indotto il legislatore a collocare la disciplina del contratto di donazione nel titolo V del libro II intitolato alle successioni. Il motivo illecito rende nulla la donazione quando risulta dall’atto e, inoltre, quando è il solo che abbia determinato il donante alla liberalità (art. 788); analoga disposizione è stabilita per il testamento (art. 626), che è affetto da nullità qualora il motivo illecito risulti dal testo del negozio e qualora abbia costituito la ragione esclusiva della disposizione testamentaria. Vedremo successivamente, studiando le forme di invalidità del contratto, che una importante anomalia che può colpire la manifestazione di volontà e determinare la caducazione degli effetti del contratto, è costituita dall’errore cioè dalla non corretta rappresentazione che una delle parti si sia fatta della realtà regolata attraverso il contratto. Ebbene in questo caso esistono norme specifiche con riguardo al contratto di donazione (art. 787, secondo il quale la donazione può essere impugnata per errore quando il motivo risulti dall’atto e sia stato il solo a determinare il donante a compiere la liberalità); e al testamento, a proposito del quale l’art. 624, secondo comma detta – per le ragioni indicate – una regola identica. Nulla invece stabilisce la legge con riguardo all’errore sul motivo nei contratti, regolato in via generale dall’illustrato dogma della irrilevanza dei motivi. Peraltro, l’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale è da tempo pervenuta ad assegnare rilevanza a quelle ragioni, che soltanto surrettiziamente possono identificarsi con i motivi, le quali pur non essendo espresse nel contratto e pur rimanendo pertanto circostanze non dichiarate dalle parti, siano però condivise da entrambe, costituiscano cioè un presupposto implicito del contratto sul quale le parti hanno fondato il programma negoziale. Si ritiene pertanto che l’inesistenza o il venir meno di tali circostanze (presupposizione), che può assumere il significato di un erroneo convincimento che queste esistevano al momento del contratto o che non sarebbero venute meno successivamente, possano determinare la nullità o lo scioglimento del contratto ovvero giustificare il recesso della parte nei confronti della quale il vincolo è divenuto intollerabile o inutile. Si pensi, per ora e per esemplificazione, al caso in cui si lochi un appartamento per un certo giorno allo scopo implicito e non dichiarato di assistere

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ad una manifestazione sportiva, per es. ad una partita di calcio; se l’incontro viene sospeso a causa di una intensa nevicata, il conduttore ha diritto di far dichiarare lo scioglimento del contratto. In realtà la presupposizione – come si è accennato – solo in via surrettizia vale a colmare la lacuna della irrilevanza dell’errore comune sul motivo nei contratti. La rilevanza della presupposizione va colta invero al di là degli stessi motivi, intesi questi come meri interessi individuali estranei al contratto; ed al di là altresì di quelle circostanze che, sebbene non espresse, appartengono al contenuto causale del negozio (in questa ottica nell’esempio fatto la finalità della locazione fa parte della causa concreta), ovvero costituiscono comportamenti dovuti e dunque fanno parte del contenuto delle prestazioni. La presupposizione consiste propriamente in quelle circostanze esterne al contratto, comuni alle parti e indipendenti dalla loro volontà (e diverse però – come si è detto – da quelle attinenti alla causa del contratto o alle obbligazioni delle parti) che hanno valore determinante per la conservazione del vincolo, la rilevanza delle quali deve essere accertata sul piano della interpretazione, alla luce del canone della buona fede. Sulla base di questa definizione si è ad es. affermata l’esistenza della presupposizione in un caso in cui era stato stipulato un contratto di rifornimento di carburante ad una stazione di servizio ancora da costruire secondo un progetto allegato al contratto stesso. Si è ritenuto che la realizzazione della stazione di servizio in conformità di tale progetto, costituisse presupposto dell’accordo e che l’impossibilità di dare esecuzione a quel progetto, per la sopravvenuta normativa regionale, comportasse la risoluzione del contratto.

SEZIONE IV: LA FORMA 21. La forma del contratto. Forma ad substantiam. Forma e trascrizione. La forma convenzionale La forma in via di principio non è un requisito essenziale del negozio: si ricorderà infatti che una delle manifestazioni dell’autonomia privata è proprio la libertà di scegliere la forma del contratto. Forma, con riferimento al contratto, è il modo attraverso il quale si manifesta la volontà e dunque il consenso. La volontà invero è un fatto psichico, destinato a rimanere ignoto se non portato all’esterno attraverso strumenti conoscibili. Il veicolo che ha la funzione di condurre all’esterno la volontà del

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soggetto nella direzione di coloro che sono destinati a riceverla, è la dichiarazione e gli strumenti attraverso i quali la dichiarazione prende forma sono principalmente due: la parola e lo scritto, ai quali se ne aggiunge un altro, il documento informatico e la comunicazione telematica. Ove la legge non preveda alcun obbligo le parti, in virtù del principio di libertà delle forme, possono scegliere la forma che ritengono più opportuna per il compimento del negozio. Spesso le parti ricorrono ad una forma particolare (quella scritta) anche se la legge non prescrive alcun onere formale, cosicché il negozio potrebbe essere compiuto anche in forma orale. In tal caso esse conseguiranno il vantaggio di agevolare la prova del contratto attraverso la formazione del documento, cioè di un supporto rappresentativo del rapporto (artt. 2699 ss.); ma se non ritenessero di adottare una forma particolare, il contratto – come precisato – sarebbe egualmente valido in qualunque forma stipulato. Vedremo più avanti come è invece disciplinata la forma convenzionale del contratto, quali siano cioè gli effetti del c.d. patto sulla forma. In alcuni casi la legge richiede l’impiego di una determinata forma per specifiche finalità, senza ricollegare alla inosservanza di tale prescrizione la conseguenza della nullità del contratto. In questi casi l’inosservanza della forma prescritta comporta l’impossibilità di avvalersi della prova testimoniale per dimostrare l’esistenza del contratto (forma ad probationem). Stabilisce invero l’art. 2725 che quando un contratto deve essere provato per iscritto, non è ammessa la prova per testimoni a meno che il contraente non dimostri di aver perduto senza colpa il documento contrattuale (ad es. in base all’art. 1888 il contratto di assicurazione deve essere provato per iscritto). In altri casi, che costituiscono una eccezione, ma corrispondono ad una previsione estesa del codice ed in via di ulteriore espansione – per le ragioni che fra poco esamineremo – il legislatore ha previsto l’adozione della forma scritta ricollegando alla sua mancanza la conseguenza della nullità del negozio. Sono questi i casi in cui la forma costituisce un requisito essenziale del contratto (forma ad substantiam). La forma scritta ai fini della validità del negozio è richiesta in via generale per il compimento di una serie di atti individuati in relazione all’oggetto, i quali devono essere fatti per scrittura privata (un qualsiasi documento sottoscritto dalle parti senza l’osservanza di alcuna formalità) o per atto pubblico (documento redatto con l’osservanza delle formalità richieste dalla legge da un notaio o da altro pubblico ufficiale). Tali atti sono elencati nell’art. 1350 e corrispondono essenzialmente ai contratti che hanno ad oggetto la costituzione o il trasferimento di diritti reali immobiliari (ad es. una vendita immobiliare, o un contratto costitutivo del diritto di usufrutto su un bene immobile).

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La prescrizione di forma è posta, oltre che per l’opportunità di rendere solenne il trasferimento della ricchezza immobiliare che rappresenta un importante valore economico, anche per il necessario coordinamento con il sistema della pubblicità immobiliare. Esiste infatti una speculare coincidenza fra gli atti soggetti a forma scritta ex art. 1350 e quelli soggetti a trascrizione ex art. 2643. Ed è evidente che la formalità della trascrizione, che consiste nella annotazione in appositi pubblici registri immobiliari delle indicazioni concernenti i soggetti e l’oggetto del contratto, con materiale consegna del titolo o di copia di esso al conservatore, accompagnato dalla c.d. nota di trascrizione in doppio originale (artt. 2658, 2659), non potrebbe aver luogo se il contratto non rivestisse forma scritta. Anzi, per poter eseguire la trascrizione di un atto occorre un titolo particolarmente qualificato (art. 2657), non basta cioè la semplice scrittura privata ma occorre l’atto pubblico o una sentenza, ovvero una scrittura privata le cui firme siano però autenticate, rechino cioè l’attestazione da parte del pubblico ufficiale che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza (art. 2703), o siano accertate in un giudizio. Il quadro descritto non sarebbe completo se non accennassimo ad un’altra norma che si ricollega alla previsione di forma e a quella pubblicitaria. La legge, come avremo modo di accennare, sottopone all’onere della trascrizione non solo gli atti indicati nell’art. 2643 (sostanzialmente coincidenti con quelli elencati nell’art. 1350) ma anche le domande giudiziali relative all’accertamento dei diritti regolati da quei contratti (artt. 2652, 2653). La trascrizione della domanda giudiziale svolge una funzione diversa da quella propria della trascrizione degli atti. Mentre quest’ultima ha lo scopo di risolvere il conflitto fra più acquirenti dello stesso diritto da un medesimo autore, sulla base della anteriorità della trascrizione, la trascrizione della domanda serve a tutelare colui che agisce in giudizio dal rischio che, nel tempo occorrente per accertare il suo diritto, l’altra parte venda il bene a terzi: in questa ipotesi la trascrizione consegue l’effetto di rendere opponibile la sentenza che accolga la domanda ai terzi che abbiano acquistato il diritto controverso durante il processo in base a un atto trascritto successivamente alla trascrizione della domanda stessa. Si pensi al caso in cui un soggetto rivendichi la proprietà di un immobile illegittimamente posseduto da un terzo, che se ne affermi il legittimo titolare e si rifiuti di restituirlo. L’attore proporrà una domanda giudiziale e se provvederà a trascriverla si porrà al riparo dagli effetti pregiudizievoli che potrebbero derivargli a causa di eventuali trasferimenti del bene attuati dal possessore senza titolo nelle more del giudizio: cosicché la sentenza che accolga tale domanda ha effetto non solo verso il detentore illegittimo del bene convenuto in giudizio, ma anche contro coloro che abbiano acquistato da costui

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in base ad un atto trascritto successivamente alla trascrizione della domanda stessa. La forma vincolata è inoltre prevista dal legislatore con riguardo a particolari negozi: il testamento è ad es. un atto solenne; e la donazione, in ragione della gratuità dell’atto, che comporta per il disponente un impoverimento senza un corrispondente beneficio, deve essere fatta nella forma dell’atto pubblico (art. 782). Il contratto relativo all’acquisto del diritto di godimento a tempo parziale di un bene immobile (multiproprietà) deve essere redatto per iscritto a pena di nullità; il contratto di subfornitura deve essere stipulato in forma scritta (art. 2, legge 18 giugno 1998, n. 192, n. 1) anche se l’esecuzione del contratto da parte del destinatario che abbia ricevuto la proposta scritta o in forma equivalente, surroga il requisito formale (art. 2 cit., n. 2). La prescrizione sulla forma del contratto può avere fonte – come si è sopra accennato – anche nella volontà delle parti (forme convenzionali). Il patto sulla forma deve essere fatto per iscritto e se le parti hanno deciso di adottare una determinata forma per la conclusione di un futuro contratto, si presume che la forma sia stata voluta per la validità (art. 1352), a meno che dalla interpretazione del patto non risulti una diversa volontà delle parti. L’invalidità contemplata da tale norma non può avere peraltro la rigida configurazione della nullità disciplinata nell’art. 1418, per la decisiva considerazione che la nullità in esame può essere fatta valere solo dalla parte interessata.

22. Nuove funzioni assolte dal requisito di forma Abbiamo osservato che il principio di libertà delle forme è sovente «consumato» dalle parti attraverso il ricorso che queste frequentemente fanno allo scritto per procurarsi un documento in grado di fornire facilmente la prova del contratto e del suo contenuto. Inoltre la forma assolve ad una ulteriore ed importante funzione che consiste nel conferire certezza ai diritti delle parti offrendo in particolare una più adeguata tutela al contraente debole che in tal modo può meglio controllare l’osservanza degli obblighi posti a carico dell’altra parte (ad es. il diniego del locatore di rinnovare il contratto di locazione degli immobili commerciali deve avvenire a mezzo di dichiarazione di voler conseguire alla scadenza l’immobile locato, nella forma scritta della lettera raccomandata). Recentemente la forma è investita di una funzione per così dire impropria, almeno rispetto alla tradizione, o più semplicemente nuova, e comunque non meno importante. La normativa sulla tutela del consumatore, ad esempio, in

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più luoghi ricorre alla prescrizione della forma in quanto funzionale alla osservanza e alla realizzazione dei valori normativi della trasparenza e della chiarezza del contenuto contrattuale, e del diritto di informazione del consumatore; invero il Codice del consumo riconosce come diritti fondamentali dei consumatori e degli utenti il diritto ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità, nonché il diritto alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi. Inoltre, numerose formalità previste in materia di vendita di beni di consumo contribuiscono alla definizione dell’oggetto del contratto e costituiscono un parametro di valutazione della conformità della prestazione e, di rimbalzo, della esattezza dell’adempimento.

23. I documenti informatici e telematici. La forma per relationem Quanto ai moderni surrogati della forma scritta e cioè la comunicazione informatica e telematica, si è già accennato illustrando le tecniche di formazione dell’accordo, ove abbiamo formulato la riserva che ora dobbiamo sciogliere. Una prima, ormai risalente, deroga al modello codicistico di conclusione dell’accordo, si ha nel caso di distributori automatici di beni (tra i quali più recentemente può annoverarsi la distribuzione automatica di carta moneta attraverso il c.d. bancomat). Proposta e accettazione non trovano manifestazione attraverso il linguaggio, orale o scritto, ma attraverso comportamenti concludenti idonei ad esprimere una determinata equivalente forma di comunicazione. Nel distributore automatico può vedersi una sorta di offerta al pubblico (art. 1336) che l’oblato accetta introducendo ad es. la moneta che gli consentirà di ritirare il pacchetto di sigarette. Il fax costituisce strumento idoneo a trasmettere la manifestazione di volontà cosicché la conclusione del contratto può avvenire anche a mezzo di tale strumento. La titolarità della postazione e la intestazione del mezzo elettronico non identificano però necessariamente l’autore della proposta. Infatti la postazione può essere utilizzata anche da chi non è titolare dello strumento e tuttavia si assuma la paternità della proposta attraverso la sottoscrizione dell’atto. Il telefax non è pertanto in grado di offrire garanzie assolute in ordine alla riferibilità dell’atto al soggetto che risulta esserne l’autore, né in ordine alla autenticità della relativa sottoscrizione. Si afferma che la trasmissione di un atto a mezzo fax rientra fra le riproduzioni meccaniche alle quali l’art. 2712 riconosce la stessa efficacia della scrittura privata quanto alla prova dei fatti e delle cose rappresentate se non disconosciute. La dichiarazione trasmessa a mez-

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zo fax, stante le caratteristiche indicate è stata ritenuta una copia che, ai sensi dell’art. 2719, ha la stessa efficacia degli originali se ne è attestata la conformità da parte di un pubblico ufficiale ovvero se tale conformità non è espressamente disconosciuta. In alcuni casi è intervenuto il legislatore per stabilire la conformità all’originale dell’atto trasmesso a mezzo fax: così la legge 7 giugno 1993, n. 183 ha stabilito i requisiti di tale conformità riguardo alla comunicazione a mezzo fax di atti relativi a procedimenti giudiziari, prescrivendo tra l’altro che l’atto trasmesso rechi la indicazione e la sottoscrizione leggibile dell’avvocato che provvede alla trasmissione (art. 1, lett. b). Con le precisazioni sopra fatte, occorre peraltro riconoscere che il telefax è in grado sicuramente di individuare, se non la paternità, almeno la provenienza del messaggio; ed è altresì idoneo a riprodurre fedelmente il testo della comunicazione e la consistenza grafica della firma; cosicché, come sopra osservato, è certo che se la firma è riconosciuta e se la conformità all’originale non è disconosciuta, il fax ha il valore probatorio della scrittura privata. Ora, poiché la scrittura privata non si identifica in relazione a requisiti strutturali, che il legislatore invero non indica, bensì funzionali (di modo che appartengono a questa categoria tutti i documenti che hanno la stessa efficacia probatoria), occorre riconoscere la equiparazione anche sostanziale fra il telefax e la scrittura privata. Deve pertanto ritenersi che la dichiarazione a mezzo fax, nella ricorrenza delle condizioni indicate, può soddisfare il requisito della forma scritta anche quando questa sia richiesta ad substantiam. Invero costituisce un aspetto della libertà in tema di forma del negozio anche la compatibilità della forma scritta con la molteplicità dei documenti (atto pubblico, scrittura privata, fax, documento elettronico e telematico). In alcuni casi il legislatore ha espressamente riconosciuto che la forma ad substantiam possa essere assolta col mezzo del telefax: così l’art. 2, legge 18 giugno 1998, n. 192 stabilisce che il contratto di subfornitura deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità e che «costituiscono forma scritta la comunicazione degli atti di consenso alla conclusione o alla modificazione dei contratti effettuata per telefax o altra via telematica». Sulla materia della utilizzazione degli strumenti elettronici e telematici per la trasmissione delle informazioni e dunque anche degli atti formativi del consenso, il legislatore è recentemente intervenuto con alcune significative disposizioni. La trasmissione delle informazioni a mezzo di computer o di elaboratore elettronico ha avuto negli ultimi anni uno sviluppo imponente. Una vera e propria rivoluzione, non solo nel campo della prova dei documenti informatici ma anche in quello della loro validità sostanziale, è av-

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venuta con alcune recenti leggi ora raccolte nel T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa (d.p.r. 28 dicembre 2000, n. 445). L’art. 1 definisce documento informatico la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti; l’art. 8 sancisce che il documento informatico, da chiunque formato, la registrazione su supporto informatico e la trasmissione con strumenti telematici, sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge; l’art. 1, lett. n) e l’art. 22, indicano nella firma digitale l’elemento che consente di rendere manifesta e di verificare la provenienza e la paternità del documento informatico attraverso la c.d. procedura di validazione. Tale procedura è basata su un sistema di chiavi simmetriche a coppia; una privata che identifica il sottoscrittore e l’altra pubblica che consente al destinatario di apprendere il contenuto del documento e di identificarne la provenienza. Lo stesso procedimento può essere attivato dal destinatario e se lo scambio dei documenti avviene secondo le modalità indicate, ed è relativo ad una proposta e ad una accettazione contrattuale, il consenso si forma mediante l’accordo c.d. telematico. Tali norme attribuiscono al documento informatico, attraverso la procedura di validazione della firma digitale, una efficacia sostanziale e probatoria analoga a quella della scrittura privata, nonostante la mancanza di una firma autografa. L’art. 10 del predetto T.U. stabilisce infatti che il documento informatico non solo ha l’efficacia probatoria attribuita dall’art. 2712 alle riproduzioni meccaniche (n. 1) ma che lo stesso, se sottoscritto con firma elettronica, soddisfa il requisito legale della forma scritta (n. 2). L’art. 11 precisa inoltre che i contratti stipulati con strumenti informatici o per via telematica mediante l’uso della firma digitale sono validi e rilevanti a tutti gli effetti di legge (n. 1), e dichiara applicabili a tali contratti le norme in materia di contratti negoziati fuori dei locali commerciali (n. 2) e in materia di contratti a distanza. L’art. 12 disciplina il pagamento attraverso il trasferimento elettronico di fondi, che deve essere effettuato secondo regole tecniche prestabilite; spesso il pagamento elettronico costituisce esecuzione della proposta mediante un atto di adempimento e dunque di esecuzione del contratto. L’art. 14 detta infine una norma analoga a quella dell’art. 1335 in tema di presunzione di conoscenza della proposta e dell’accettazione contrattuali stabilendo che il documento informatico trasmesso per via telematica si intende inviato e pervenuto al destinatario se trasmesso all’indirizzo elettronico da questi dichiarato. In analogia a quanto previsto dall’art. 2703 in tema di scrittura privata, l’art. 24 ha previsto anche la possibilità che la firma digitale sia autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale, con i medesimi effetti.

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Disposizioni dirette a garantire la sicurezza della firma digitale nel quadro comunitario e a consentire da parte dei soggetti accreditati attività di certificazione delle firme, sono state dettate dal d.lgs. 23 febbraio 2002, n. 10. Il legislatore ha inoltre provveduto con il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70 a dare attuazione alla direttiva europea n. 2000/31/CE relativa al commercio elettronico e cioè alla disciplina dei servizi offerti dalla società dell’informazione attraverso attività economiche svolte on line. L’operatore deve rendere facilmente accessibile al destinatario una nutrita serie di informazioni, sia di carattere generale (art. 7), sia relative alla comunicazione commerciale (art. 8) ancorché non sollecitata (art. 9), sia specificamente dirette alla conclusione del contratto (art. 12), tra cui quelle relative alle varie fasi tecniche da seguire per la conclusione del contratto ed ai mezzi utilizzabili per la individuazione e la correzione degli errori. Comprensibili e condivisibili ragioni di cautela hanno indotto il legislatore ad escludere l’applicazione di tale normativa ad alcuni contratti, tra i quali sono ricompresi i contratti che istituiscono o costituiscono diritti relativi a beni immobili, diversi da quelli in materia di locazioni (art. 11, lett. a). Da ultimo va segnalato che alcuni negozi non hanno una forma propria ma debbono rivestire quella stabilita per altri negozi con i quali sono collegati: in questo caso si parla di forma per relationem per indicare la circostanza che la forma di un negozio si comunica all’altro. La procura, l’opzione, il contratto preliminare dovranno avere la forma scritta ad substantiam qualora abbiano riferimento, ad es., ad una compravendita immobiliare (nell’ordine artt. 1392, 1331, 1351).

Capitolo Secondo

L’EFFICACIA SEZIONE I: L’AMBITO SOGGETTIVO DEGLI EFFETTI 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Le parti e la «forza di legge» del contratto Gli effetti del contratto nei confronti dei terzi. Il contratto a favore del terzo La sostituzione nell’attività giuridica. Il contratto concluso dal rappresentante. La procura e il mandato Il contratto fiduciario. La disciplina del trust Abuso, difetto ed eccesso del potere rappresentativo: il conflitto di interessi e la rappresentanza senza potere Il contratto per persona da nominare La cessione del contratto. Il subcontratto

SEZIONE II: L’AMBITO OGGETTIVO DEGLI EFFETTI 8. L’efficacia traslativa del consenso. I contratti ad effetti reali e ad effetti obbligatori 9. I contratti reali 10. Il conflitto fra più acquirenti di un medesimo diritto. La doppia vendita immobiliare. La trascrizione del contratto preliminare 11. Il governo convenzionale degli effetti del contratto. La condizione 12. Il termine di efficacia e il contratto modale

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SEZIONE I: L’AMBITO SOGGETTIVO DEGLI EFFETTI 1. Le parti e la «forza di legge» del contratto Gli effetti del contratto possono essere riguardati sotto due diversi profili. Secondo una prima prospettiva si tratta di individuare la sfera dei soggetti nei confronti dei quali detti effetti si verificano; sotto un diverso aspetto è questione di descrivere il contenuto di detti effetti e dunque di illustrare il loro diverso modo di incidere nella realtà giuridica. Il contratto muove dalle parti che se ne servono per regolare i loro interessi. È dunque naturale che esso sia destinato a produrre effetti tra le parti. Che invece dal contratto non possano nascere altri effetti nei confronti di soggetti esterni al contratto stesso (che, per contrapposizione alle parti contraenti si definiscono terzi) si ricava da un’altra regola cui abbiamo già accennato e che presiede alla intangibilità della sfera giuridica dei soggetti privati: i terzi non possono essere né avvantaggiati né pregiudicati da un contratto stipulato da altri, che è per loro un fatto del tutto estraneo. Questi concetti sono espressi nell’art. 1372 che al primo comma stabilisce la regola positiva che il contratto produce effetti tra le parti e, per indicare il vincolo obbligatorio che da esso sorge, attribuisce in senso improprio, ma con indubbia incisività, al contratto la stessa forza, rispetto ai contraenti, che ha la legge nei confronti di coloro che vi sono sottoposti. Il secondo comma della norma contiene la regola negativa cui si è accennato e stabilisce che il contratto non produce effetti nei confronti dei terzi (c.d. relatività degli effetti del contratto). Il principio riceve conferma in numerose norme. L’art. 1381, contenuto nella stessa sezione dedicata dal codice alle disposizioni generali sugli effetti del contratto, conferisce valore giuridico all’obbligazione con la quale un soggetto promette che un altro assumerà un’obbligazione o stipulerà un contratto (promessa dell’obbligazione o del fatto del terzo). Ma tale promessa non produce alcun effetto nei confronti del terzo, che rimane libero di assumere il vincolo o di stipulare il contratto, mentre il promittente è soltanto tenuto ad indennizzare la parte cui la promessa è stata rivolta se il terzo rifiuta di obbligarsi o non compie il fatto promesso.

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Si è inoltre già detto che il divieto di alienazione stabilito per contratto ha soltanto effetti obbligatori, cosicché l’acquisto del bene da parte del terzo acquirente cui la parte l’abbia alienato in violazione del divieto, non è affatto condizionato da quel contratto e dal divieto di alienare in esso contenuto. La vendita di cosa altrui produce effetti soltanto tra le parti contraenti (e – come vedremo – necessariamente obbligatori) e non spiega alcun effetto nei confronti del terzo proprietario del bene. Dunque il contratto, nato per volontà delle parti, può essere sciolto solo attraverso il mutuo consenso e cioè un accordo con il quale le stesse parti decidono di porre nel nulla il vincolo contrattuale. Eccezionalmente la legge o le parti possono attribuire ad una di esse il diritto di recedere unilateralmente dal contratto, ma tale facoltà può essere esercitata soltanto se il contratto non abbia avuto un principio di esecuzione (art. 1373, primo comma). Mentre nei contratti a esecuzione continuata o periodica (c.d. contratti di durata: ad es. i contratti di utenza telefonica, di somministrazione di energia elettrica) la facoltà di recesso unilaterale può essere esercitata anche successivamente, ma il recesso non ha effetto per le prestazioni già eseguite. Ci soffermeremo ancora sul recesso quando illustreremo la categoria dei contratti con asimmetria di potere contrattuale, in cui la relativa disciplina muta profondamente trasformando questa facoltà da misura eccezionale e residuale in rimedio generale e centrale della nuova categoria. Quanto illustrato non significa che il contratto posto in essere dalle parti sia per i terzi del tutto irrilevante. Generalmente il contratto riveste interesse per i terzi quando vi è una qualche connessione fra la situazione giuridica di cui questi sono titolari e quella sulla quale il contratto direttamente opera. Così il locatore che venda l’abitazione a un terzo provoca un mutamento della situazione giuridica del conduttore: dopo la vendita quest’ultimo sarà infatti tenuto a corrispondere il canone al nuovo proprietario. Ma tale rilevanza, con un significato certo più sfumato, può sussistere anche quando la indicata connessione non ricorra: così se ho iniziato delle trattative per conseguire un certo bene e questo viene venduto ad altri che abbia offerto un prezzo maggiore, soffro una delusione delle mie aspettative ed il contratto avrà avuto per me un effetto negativo. In ogni caso si tratta di effetti solo riflessi ed indiretti, diversi cioè da quelli propri del contratto, conformi cioè alla sua causa e destinati, questi, a rimanere rigorosamente circoscritti alle parti contraenti. In un altro senso si parla di efficacia riflessa del contratto individuando alcuni aspetti che appartengono alla sfera della tutela del contratto. Così il contratto ha efficacia erga omnes nel senso che tutti i consociati sono tenuti a rispettare i diritti contrattuali (rilevanza esterna); ed è opponibile in una mol-

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teplicità di casi in cui il titolo contrattuale prevale sugli acquisti vantati da terzi (v. p. 193).

2. Gli effetti del contratto nei confronti dei terzi. Il contratto a favore del terzo Il contratto può eccezionalmente produrre effetti diretti nei confronti dei terzi. Tale evenienza è ammessa dallo stesso art. 1372, secondo comma che, nel formulare la regola che il contratto non produce effetti rispetto ai terzi, fa salva la previsione di legge. Invero una breccia al principio di relatività del contratto è aperta dalla norma già ricordata di cui all’art. 1333 che prevede una peculiare modalità di formazione del c.d. contratto unilaterale, dal quale derivano obbligazioni per il solo proponente e che – come si ricorderà – si perfeziona con il mancato rifiuto del destinatario. Sulla base di questa norma si tende a riconoscere un principio generale per cui il contratto è produttivo di effetti nei confronti dei terzi senza che questi vi partecipino, soltanto quando attribuisce loro effetti favorevoli; anche in questo caso, peraltro, in ragione del principio della intangibilità della sfera patrimoniale altrui, è fatto salvo il potere del terzo di rifiutare l’effetto favorevole. La legge inoltre disciplina espressamente il contratto destinato a produrre effetti nei confronti dei terzi (art. 1411). Si tratta di una previsione normativa a carattere generale idonea a far conseguire al terzo ogni sorta di effetto contrattuale e, secondo una opinione largamente accreditata, anche effetti reali. Tali considerazioni rafforzano l’idea, sopra accennata e del resto ormai diffusa, che il principio di relatività del contratto non costituisca un limite rigido e insuperabile ma che, al contrario, lasci spazio all’affermazione di una tendenza parallela, espressione anch’essa di un principio di carattere generale in base al quale deve ormai riconoscersi che il contratto possa produrre effetti nei confronti dei terzi, meramente favorevoli e non accompagnati dall’insorgenza di alcun onere od obbligo per il terzo e salva la rilevata facoltà di questi di rifiutare l’effetto. Con il contratto a favore di terzi il promittente e lo stipulante stabiliscono che l’effetto favorevole che deriva dal contratto si diriga a beneficio di un soggetto diverso dalle parti. Condizione perché il contratto sia valido è che lo stipulante vi abbia interesse. La norma citata (art. 1411, secondo comma) stabilisce che il terzo acquista il diritto per effetto della stipulazione e quindi al momento della conclusione dell’accordo fra promittente e stipulante. Il ter-

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zo – conformemente a quanto si è prima chiarito – può peraltro rifiutare il beneficio ed in questo caso (come nell’altro in cui lo stipulante revochi la stipulazione) la prestazione rimane di regola a beneficio dello stipulante (art. 1411, terzo comma). La norma prevede inoltre che il terzo manifesti la volontà di voler profittare della stipulazione in suo favore (dichiarazione che non ha valore di accettazione perché il terzo non è parte del contratto). Tale dichiarazione di adesione del beneficiario, alla quale non può essere ricollegato un effetto acquisitivo del diritto poiché egli lo ha già acquistato – come sopra osservato – per effetto della stipulazione, consegue il risultato di precludere allo stipulante il potere di revocare la stipulazione rendendo in tal modo definitivo l’acquisto del terzo (art. 1411, secondo comma). Un esempio del contratto in esame si ha nell’accollo, in cui il creditore riveste il ruolo di terzo beneficiario dell’accordo con il quale l’accollante assume su di sé il debito; ed invero l’art. 1273 prevede che il creditore possa aderire alla convenzione rendendo irrevocabile la stipulazione in suo favore. Figura ricorrente di contratto a favore di terzo è l’assicurazione sulla vita (art. 1920). Lo stipulante conclude una polizza c.d. vita con una compagnia di assicurazione prevedendo che, a fronte del pagamento di un premio periodico, in caso di morte dello stipulante stesso sarà corrisposto un capitale variabile al beneficiario indicato in polizza. In questo caso lo stipulante, a meno che non abbia rinunciato per iscritto al relativo potere, può revocare la stipulazione anche con un testamento ed ancorché il beneficiario abbia dichiarato di volerne profittare (art. 1412, primo comma).

3. La sostituzione nell’attività giuridica. Il contratto concluso dal rappresentante. La procura e il mandato Normalmente il soggetto che emette la dichiarazione di volontà è lo stesso nella cui sfera giuridica ricadono gli effetti del contratto. Colui dunque che è parte dell’atto è generalmente parte anche del rapporto che dall’atto deriva; vi è cioè perfetta coincidenza fra parte formale e parte sostanziale del contratto, cosicché la legittimazione al compimento di un negozio può dirsi che spetta in generale a colui che è destinato a ricevere gli effetti del negozio posto in essere. Può peraltro avvenire che tale coincidenza venga meno e che ricorra un fenomeno di sostituzione, per cui il soggetto che compie attività giuridica (parte formale) e che è legittimato a porre in essere i relativi negozi non sia il destinatario, o lo sia solo provvisoriamente, degli effetti del contratto, che sono invece destinati a prodursi nella sfera giuridica di un altro soggetto (parte sostanziale).

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Il fenomeno della sostituzione giuridica si realizza attraverso l’istituto della rappresentanza che in alcuni casi soddisfa esigenze di solidarietà sociale, in altri viene incontro a necessità fortemente avvertite nel mondo degli affari. Tale istituto consente infatti di ovviare alla impossibilità dei soggetti incapaci di esplicare attività di diritto privato, nonché di rimuovere quegli ostacoli che inevitabilmente conseguirebbero alla speditezza delle relazioni commerciali se l’attività giuridica dovesse essere necessariamente espletata dal diretto interessato. Invero la legge, allo scopo di rimediare al difetto di capacità di agire delle persone fisiche, conferisce ad un altro soggetto (ad es. ai genitori nei confronti del minore di età o al tutore nei confronti dell’interdetto), il potere di compiere negozi nell’interesse dell’incapace: in questo caso la rappresentanza ha fonte legale (art. 1387). Va segnalato che con la recente legge che ha istituito nuove misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia, 9 gennaio 2004, n. 6, il legislatore ha previsto una ulteriore figura di rappresentante legale, l’amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare con finalità di assistenza delle persone che «per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trovino nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi» (art. 404). Tale legge stabilisce che il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza necessaria dell’amministratore di sostegno e può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana (art. 409); inoltre l’art. 412 assoggetta ad azione di annullamento sia gli atti compiuti dal beneficiario in violazione delle disposizioni di legge o di quelle contenute nel decreto istitutivo dell’amministrazione di sostegno, sia quelli posti in essere dall’amministratore in violazione di norme di legge ovvero eccedenti l’oggetto dell’incarico o i poteri conferiti dal giudice. Qui dobbiamo occuparci dell’altra forma di rappresentanza, che ha fonte nella volontà dell’interessato (v. anche, nella 1a serie di questa collana, M. NUZZO, Introduzione alle scienze giuridiche, Cap. Quarto, Sez. IV, p. 235). L’atto con il quale un soggetto (rappresentato) conferisce ad un altro (rappresentante) il potere rappresentativo si chiama procura. Essa viene solitamente qualificata come negozio giuridico unilaterale recettizio, anche se parte della dottrina ne afferma, al contrario, il carattere non recettizio, sostenendo che la procura sia perfetta ed efficace non appena formata, indipendentemente dal fatto che sia stata comunicata al rappresentante. La procura inoltre deve rivestire la stessa forma prescritta per il contratto che quest’ultimo è autorizzato a concludere (art. 1392).

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Rappresentanza volontaria in senso proprio si ha solo nel caso in cui il contratto concluso dal rappresentante produca immediatamente effetti nella sfera giuridica del rappresentato (rappresentanza diretta). Poiché ciò avvenga è necessario che il soggetto munito di procura agisca nell’interesse del rappresentato e ne spenda il nome, dichiari cioè l’identità del soggetto nei cui confronti si produrranno gli effetti del contratto. Si verifica in tal modo una immediata imputazione al rappresentato degli effetti del negozio posto in essere dal rappresentante. Il negozio di procura è un negozio che, di per sé, non esprime la ragione del conferimento dei poteri rappresentativi e non dà alcuna indicazione circa la causa concreta del negozio, circa cioè le motivazioni oggettive che giustificano l’attività del rappresentante e dunque lo spostamento di beni da un soggetto ad un altro. Eppure la causa, come abbiamo osservato, è un requisito essenziale del negozio, abbia o meno natura contrattuale, che non può mai mancare. Invero la procura (così come altri negozi, ad es. il contratto a favore di terzo, o la remissione del debito) denuncia soltanto l’esistenza e la meritevolezza dello schema astratto della causa, destinato a ricevere contenuti, in termini di giustificazione concreta dell’affare, da altri rapporti correnti fra le parti; e coglie soltanto il c.d. lato esterno del rapporto fra rappresentante e rappresentato (rapporto di valuta), che ha lo scopo di porre in grado i terzi di verificare l’esistenza del potere di rappresentanza. Infatti, il terzo che contratta con il rappresentante può esigere che questi gli fornisca la giustificazione dei suoi poteri, e può pretendere una copia della procura se fatta per iscritto (art. 1393). Pertanto la causa concreta della procura è destinata a prendere «colore» e a ricevere indicazioni dal rapporto interno fra rappresentante e rappresentato, che può avere i contenuti più vari. Il conferimento del potere di rappresentanza può cioè giustificarsi nell’ambito di un rapporto di lavoro, o di agenzia, o di società, o di mandato (rapporto di gestione) cosicché il procuratore sarà un dipendente o un agente o un socio o un mandatario. Anche quando la procura sembra presentarsi «isolata», e sembra trovare in se stessa la ragione sufficiente a giustificarla, in realtà si accompagnerà sempre ad un rapporto di mandato o ad altro rapporto gestorio normalmente collegato alla posizione rivestita da un soggetto nell’ambito di un ente o di una impresa. Un’ipotesi di rappresentanza diretta si ha infatti nel mandato con rappresentanza (art. 1704) che è il contratto con il quale una parte (mandatario) si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto dell’altra (mandante) (art. 1703). Il mandato (o il rapporto gestorio) indicano così la ragione del conferimento del potere e danno alla procura, apparentemente «isolata», i contenuti idonei ad identificare l’esistenza di una causa concreta.

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Si ha invece rappresentanza indiretta allorché il soggetto compie atti nell’interesse altrui ma in nome proprio, dunque senza spendere il nome dell’interessato. In questo caso gli effetti del negozio si verificano nella sfera del rappresentante ed occorrerà un nuovo negozio perché tali effetti possano essere trasferiti al destinatario finale. Si tratta di una forma di cooperazione nell’attività giuridica che non dà luogo ad un vero e proprio fenomeno rappresentativo ed è significativo che al riguardo il legislatore, nell’art. 1705, primo comma, definisca mandato senza rappresentanza l’ipotesi in cui il mandatario, pur avendo assunto l’obbligo nei confronti del mandante, agisca in nome proprio. In tal caso, infatti, il mandatario che agisce in nome proprio acquista i diritti e assume gli obblighi derivanti dagli atti compiuti con i terzi. Con riguardo a tale figura, peraltro, la regola della estraneità alla sfera dell’interessato degli effetti del contratto concluso dal rappresentante che agisca in nome proprio, subisce un temperamento. Infatti il mandante, pur non essendo sorto alcun rapporto fra costui e i terzi, può esercitare i diritti di credito derivanti dalla esecuzione del mandato, a meno che ciò non rechi pregiudizio ai diritti attribuiti al mandatario (art. 1705, secondo comma); e può altresì rivendicare le cose mobili acquistate per suo conto dal mandatario, salvi i diritti acquistati dai terzi per effetto del possesso di buona fede (art. 1706, primo comma). Tale norma mostra come, anche nel caso di rappresentanza indiretta, alcuni effetti dell’atto posto in essere dal mandatario si verificano direttamente nella sfera del mandante: infatti, il riconoscimento dell’azione di revindica presuppone la titolarità del bene da parte del mandante. Il rappresentante che agisce in nome proprio è peraltro tenuto a trasferire al rappresentato i diritti acquistati nell’interesse di quest’ultimo. Questa regola è espressa chiaramente con riguardo agli acquisiti immobiliari compiuti dal mandatario in nome proprio (art. 1706, secondo comma): in questo caso il mandatario è obbligato a ritrasferirli al mandante e, in caso di inadempimento, il suo obbligo è oggetto della tutela prevista dalla legge per la esecuzione specifica degli obblighi di contrarre (art. 2932).

4. Il contratto fiduciario. La disciplina del trust Ad un fenomeno, in senso lato, di sostituzione nell’attività giuridica possono riportarsi gli istituti del contratto fiduciario e del trust. Con il contratto fiduciario, che non è espressamente previsto dalla legge ma che – nei limiti in cui non persegua finalità indirettamente illecite – deve ritenersi perfettamente ammissibile, un soggetto (fiduciante) trasferisce ad un

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altro (fiduciario) la titolarità di un bene, con l’intesa che lo amministri nel suo interesse e quindi lo ritrasferisca al fiduciante stesso o ad un terzo. Il contratto fiduciario produce dunque un effetto reale (il trasferimento della proprietà del bene) cui si accompagna un effetto obbligatorio (l’impegno del fiduciario, al termine del contratto, di ritrasferirlo al fiduciante). Il fiduciario amministra il bene, di cui ha la proprietà c.d. fiduciaria, in nome proprio, ma è vincolato da un patto (fiducia) il quale denuncia l’esistenza di un interesse gestorio che fa capo a persona diversa da colui che agisce, e cioè al fiduciante. A questa figura può ricondursi l’istituto del trust disciplinato dalla legge 16 ottobre 1989, n. 364 che ha ratificato la Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985 sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento. Caratteristica del trust è l’autonomia di un complesso di beni rispetto al patrimonio dei soggetti interessati alla sua gestione. Lo scopo perseguito dai contraenti (cioè la funzione del contratto) può essere diverso e costituisce l’elemento in base al quale valutare la meritevolezza degli interessi e la liceità della causa del negozio dal punto di vista dell’ordinamento interno. Con il trust un soggetto (costituente) pone alcuni beni sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario. I beni del trust non fanno parte del patrimonio del trustee ma sono intestati al trustee o ad altra persona da questo indicata; il trustee è investito del potere ed onerato dell’obbligo di amministrare, gestire e disporre dei beni del trust nell’interesse del beneficiario, secondo le condizioni previste nel contratto (art. 2). Ha luogo nel trust una scissione fra potere e interesse, simile a quella che si riscontra nel negozio rappresentativo. Il trustee è un fiduciario, ed infatti il potere di compiere attività giuridica in ordine ai beni costituiti nel trust gli è conferito dal costituente, nell’interesse però di un altro soggetto, il beneficiario. Sono evidenti le analogie che l’istituto presenta con la rappresentanza indiretta in cui, come si è visto, il rappresentante agisce in nome proprio ma nell’interesse di un altro soggetto; ma sono anche evidenti la specificità del trust e la sua peculiare disciplina, che non ne consentono una assimilazione all’istituto della rappresentanza. L’introduzione nel nostro ordinamento del negozio di destinazione patrimoniale di cui all’art. 2645 ter (v. p. 147) ha indotto qualche autore a ritenere che il nostro legislatore abbia finalmente disciplinato la figura del trust. In realtà prevale l’opinione, per noi del tutto condivisibile, che per la ricorrenza del trust non è sufficiente la previsione di un patrimonio separato ma è invece determinante la previsione di un apparato di regole (che in questo caso manca), volto a disciplinare il rapporto fiduciario sotto il profilo della amministrazione dei patrimoni separati e dei rimedi a disposizione delle parti nel caso in cui lo scopo non venga realizzato.

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5. Abuso, difetto ed eccesso del potere rappresentativo: il conflitto di interessi e la rappresentanza senza potere La scissione che si realizza nel negozio rappresentativo fra parte formale e parte sostanziale del rapporto conferisce aspetti peculiari al problema del rilievo di eventuali vizi della volontà e all’altro circa la cura da parte di un soggetto degli interessi dell’altro. Sotto il primo profilo, infatti, occorre domandarsi a quale volontà debba farsi riferimento per stabilire la validità del negozio posto in essere dal rappresentante; sotto il secondo viene in considerazione l’ipotesi in cui il rappresentante non persegua gli interessi del rappresentato e dunque abusi del potere conferitogli. È opportuno che il primo di tali profili sia trattato nel capitolo dedicato alla patologia del contratto. Con riguardo alla seconda delle ipotesi considerate, va osservato che l’abuso ricorre ogni qual volta il rappresentante si trovi oggettivamente in una posizione di conflitto di interessi (per avere ad es. venduto il bene oggetto dell’incarico ad una società di cui egli è socio), anche se non ne abbia conseguito vantaggi: per ciò stesso il contratto è affetto da un grave vizio che consente al rappresentato, il cui interesse non è stato fedelmente coltivato dal rappresentante, di promuovere l’annullamento del contratto purché il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo (art. 1394). Ricorre un’ipotesi di conflitto di interessi anche se il rappresentante conclude con se stesso (contratto con se stesso) e si rende, ad es., acquirente del bene che il rappresentato gli aveva incaricato di vendere. In questo caso il contratto è parimenti annullabile, a meno che il rappresentato non lo abbia espressamente autorizzato ovvero il contenuto del contratto sia tale da escludere il conflitto (se l’incarico ad es. contempla la vendita di una vettura usata al prezzo massimo pubblicato sulla rivista quattroruote del mese di giugno 2004) (art. 1395). Qualora un soggetto agisca in nome e per conto altrui senza che gli sia stato conferito alcun potere (difetto di potere) ovvero superando i limiti delle facoltà che gli sono state conferite (eccesso di potere), è tenuto a risarcire il danno che il terzo abbia sofferto per avere senza colpa confidato nella validità del contratto (art. 1398). Il contratto fra falsus procurator e terzo, di per sé formalmente valido, è infatti assolutamente inefficace: sia nei confronti dell’interessato, estraneo ad esso, sia nei confronti delle parti formali (falso rappresentante e terzo), che non lo vogliono in quanto tale. Ciò sebbene il legislatore abbia impropriamente attribuito alle parti di tale negozio, anteriormente ad un atto di adesione da parte dell’interessato, un potere di scioglimento del contratto (art. 1399, terzo comma), che sembrerebbe presupporne l’immediata efficacia. Si tratta infatti di un potere che non postula affatto tale efficacia, e si

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giustifica invece come potere diretto ad impedire che il contratto possa conseguire effetti mediante la ratifica da parte dell’interessato. La regola di responsabilità dettata dall’art. 1398, sembra invero sufficiente a regolare in modo equo gli interessi dei soggetti coinvolti nella vicenda; ed a tale regola è complementare l’altra, espressa nell’art. 1399, quarto comma, che conferisce al terzo la possibilità di risolvere l’incertezza assegnando all’interessato un termine per poter manifestare la sua eventuale adesione all’affare, scaduto il quale, nel silenzio, la ratifica si intende negata. Invero l’interessato ha facoltà di ratificare il contratto e quindi di farne propri gli effetti (art. 1399, primo comma); in questo caso il contratto si considera efficace per il rappresentato dal momento della sua stipulazione ma tale ratifica non può pregiudicare i diritti che, nel tempo intercorrente fra la stipulazione del negozio e la sua approvazione da parte dell’interessato, i terzi abbiano acquistato dal soggetto falsamente rappresentato (art. 1399, secondo comma). Normalmente il rischio della falsa rappresentanza ricade sul terzo che – in mancanza della ratifica – non può far conto sulla validità del contratto ed è tutelato soltanto con l’attribuzione di un’azione di risarcimento. Se tuttavia il rappresentato ha dato luogo ad una situazione di fatto o di diritto che ha suscitato nel terzo diligente il ragionevole affidamento sull’esistenza dei poteri rappresentativi (rappresentanza apparente), il contratto si ritiene efficace nei confronti del rappresentato (ad es. se il rappresentato, conoscendo l’ingerenza del falsus procurator, la tollera e si astiene dal proibirla).

6. Il contratto per persona da nominare Una forma particolare di rappresentanza si ha nel contratto per persona da nominare che ricorre quando, nel momento della conclusione del contratto, una parte si riserva la facoltà di nominare successivamente la persona che acquisterà i diritti e assumerà gli obblighi, e di indicare quindi la parte sostanziale del contratto stesso (art. 1401). Lo schema consente di evitare un doppio trasferimento e le conseguenti imposizioni fiscali che conseguirebbero all’acquisto e alla successiva rivendita del bene. Il contraente agisce in nome e per conto altrui, ma tale rappresentanza è particolare. Essa è infatti meramente eventuale perché, se non viene sciolta la riserva di nomina, il contratto produce effetti tra le parti contraenti (art. 1405); inoltre la spendita del nome è generica, perché pur dichiarando il contraente di agire nell’interesse di altri e in nome di altri, non rivela l’identità dell’interessato. La dichiarazione di nomina deve essere tempestivamente comunicata all’altro contraente e, qualora non esista una procura rilasciata anteriormente al contratto, occorre l’accettazione del nominato

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(art. 1402). La dichiarazione di nomina è sufficiente a far acquistare alla persona nominata i diritti e gli obblighi nascenti dal contratto ed ha effetto retroattivo, cosicché il nominato acquista la posizione di parte sostanziale dal momento della stipula del contratto (art. 1404).

7. La cessione del contratto. Il subcontratto La cessione del contratto, pur non costituendo un’ipotesi di cooperazione nell’attività giuridica, realizza la sostituzione di una posizione contrattuale. La disciplina legislativa ricalca quella della cessione del credito con alcune differenze legate alla circostanza che mentre in quest’ultimo caso si verifica la modificazione di un lato (quello attivo) del rapporto obbligatorio, nell’ipotesi di cessione contrattuale ha luogo il trasferimento dell’intera posizione contrattuale che si ricollega ad una delle parti. La cessione del contratto è un negozio trilatere col quale la parte di un contratto a prestazioni corrispettive non ancora eseguite, con il consenso dell’altra, sostituisce a sé un terzo (art. 1406). La cessione acquista efficacia con l’accettazione della parte; tuttavia se questa ha espresso il suo consenso in via preventiva è sufficiente che la cessione stessa le venga notificata (art. 1407). La legge provvede a disciplinare i rapporti fra il cedente (che cede la sua posizione contrattuale), il ceduto (il contraente che rimane vincolato) e il cessionario (il terzo al quale è trasferito il rapporto contrattuale). Quanto ai rapporti fra cedente e cessionario l’art. 1410 stabilisce che il cedente è tenuto a garantire solo la validità del contratto, ma può assumere anche la garanzia dell’adempimento ed in questo caso egli risponde come un fideiussore per le obbligazioni del contraente ceduto. Nei rapporti fra ceduto e cedente la regola è che per effetto della cessione il cedente è liberato dalle sue obbligazioni a meno che il contraente ceduto dichiari di non voler liberare il cedente; in questo caso, qualora il cessionario non adempia, egli conserva le azioni nei confronti del predetto cedente (art. 1408). Quanto ai rapporti fra ceduto e cessionario la legge stabilisce che il contraente ceduto può opporre al cessionario tutte le eccezioni derivanti dal contratto ma non quelle relative ai suoi rapporti personali col cedente (art. 1409), salvo che ne abbia fatto riserva al momento in cui ha consentito alla sostituzione. A volte la cessione del contratto è una conseguenza prevista dalla legge: così la vendita del bene locato comporta il trasferimento all’acquirente della posizione di locatore (art. 1599); la cessione dell’azienda comporta il subentro dell’acquirente nei contratti stipulati per l’esercizio dell’impresa che non abbiano carattere personale (art. 2558).

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Diversa dalla cessione del contratto è la figura del subcontratto nella quale non si realizza la sostituzione di un soggetto ad un altro nel rapporto contrattuale, ma viene stipulato un nuovo contratto che deriva da quello originario, nel senso che uno dei contraenti utilizza la posizione contrattuale che riveste nel contratto originario per dar vita ad un nuovo contratto: ad es., il conduttore (sub)loca la cosa ad un terzo assumendo la posizione di sublocatore nei confronti del nuovo subconduttore (art. 1594). La facoltà di porre in essere il subcontratto è subordinata all’espresso consenso della controparte (subappalto: art. 1656), ovvero alla mancanza di un patto contrario (sublocazione: art. 1594). La subfornitura non può essere ricondotta alla figura del subcontratto perché non presuppone necessariamente un contratto base dal quale deriva, e può esaurirsi nel rapporto con il committente.

SEZIONE II: L’AMBITO OGGETTIVO DEGLI EFFETTI 8. L’efficacia traslativa del consenso. I contratti ad effetti reali e ad effetti obbligatori Da un punto di vista oggettivo il profilo degli effetti del contratto investe – come si accennava – la differente modalità dei contratti di innovare la realtà giuridica. Sotto questo aspetto gli effetti del contratto si distinguono in effetti reali ed in effetti obbligatori. Gli effetti obbligatori discendono ordinariamente ed immancabilmente da qualsiasi contratto: questo infatti è fonte di obbligazione e ciò dimostra che il contratto in quanto tale produce effetti obbligatori. Alcuni contratti producono effetti ulteriori che si dicono reali. L’effetto reale riguarda i contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale, ovvero il trasferimento di un diritto di credito, e consiste nel fatto per cui la proprietà o il diritto si trasmettono o si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato (art. 1376). La norma enuncia il c.d. principio consensualistico in base al quale il consenso delle parti, idoneo in generale a realizzare il perfezionamento dell’accordo contrattuale, è in tali contratti sufficiente perché si realizzi l’effetto traslativo del diritto. L’importanza e l’impatto decisivo di tale disposizione, sulla conformazione delle regole che governano la trasmissione della ricchezza e dunque su

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uno degli aspetti primari idonei ad identificare un sistema giuridico, si coglie a pieno, anche nella sua dimensione storica, se si tiene presente che non sempre in passato tale principio ha governato la circolazione dei diritti e tuttora esso non trova riconoscimento in taluni ordinamenti moderni, anche all’interno della Unione europea. Nel diritto romano vigeva il principio della investitura formale del diritto, che si era tradotto nella necessità della consegna della cosa ai fini della trasmissione del diritto di proprietà; dopo la elaborazione e la parziale erosione da parte del diritto intermedio di questo sistema, il codice napoleonico del 1804 ne ha segnato il formale superamento. Ad esso si è adeguato il nostro codice del 1865 e quello attuale, ma non anche ad es. quello tedesco, che ha accolto un modello di contratto di trasferimento della proprietà di natura obbligatoria dal quale sorge un’obbligazione di dare e cioè di porre in essere un successivo e distinto negozio traslativo di esecuzione. Il modello francese e italiano è indubbiamente funzionale ad una più spedita circolazione della ricchezza, che si realizza attraverso una tutela più agile della posizione del proprietario. Tale sistema comporta peraltro un abbassamento del livello di «sicurezza» delle negoziazioni e del traffico giuridico che risulterebbe senz’altro più elevato, grazie al pronto accertamento della titolarità formale, se l’effetto reale fosse collegato ad una posizione esterna percepibile dai terzi (possesso materiale del bene da parte dell’acquirente), ovvero al carattere costitutivo della formalità pubblicitaria. Nell’ordinamento tedesco, infatti, ma anche nelle nostre regioni del Trentino Alto Adige e del Friuli Venezia Giulia, l’effetto traslativo dei diritti immobiliari si compie con la c.d. intavolazione e cioè con l’iscrizione del diritto nei libri fondiari. Pertanto nel nostro ordinamento la vendita di cosa determinata, esistente e di proprietà del venditore produce il trasferimento della proprietà del diritto per effetto del semplice consenso: tale consenso deve essere manifestato nelle forme di legge cosicché se è necessaria la forma scritta occorre che sia contenuto in una scrittura. Certamente nell’esempio fatto la cosa oggetto del trasferimento dovrà essere consegnata al compratore che, fin quando non l’avrà conseguita, non potrà di regola trarne le utilità sue proprie. Ma tale consegna non segna il momento del trasferimento del diritto, già avvenuto per effetto del consenso, ma semplicemente l’atto materiale della trasmissione della res cioè la prestazione di dare che costituisce oggetto di un’obbligazione, anzi della principale obbligazione che grava sul venditore (art. 1476, n. 1). Ciò posto è però evidente il diverso significato che assumono gli effetti obbligatori nei contratti destinati a produrre solo tali effetti e negli altri in cui oltre all’effetto obbligatorio si verifica anche un effetto reale.

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I primi infatti esauriscono la loro portata effettuale nella produzione di un rapporto obbligatorio: si pensi al contratto preliminare o al comodato, i cui effetti si compiono con la esecuzione delle corrispondenti obbligazioni (prestare il consenso per la stipula del definitivo, consegnare la cosa da parte del comodante, restituirla alla scadenza da parte del comodatario). Nei contratti in cui invece si verifica l’effetto reale, l’attuazione del rapporto obbligatorio è del tutto insufficiente a realizzare l’interesse delle parti e lo scopo del contratto: il sorgere dell’obbligazione è in questo ambito funzionale al dispiegarsi dell’effetto reale. E può avvenire che l’obbligazione attui sul piano esecutivo i contenuti dell’effetto reale (è il caso della consegna della cosa al compratore che può essere contemporanea o successiva al trasferimento della proprietà), ovvero che la nascita del rapporto obbligatorio prepari il verificarsi dell’effetto reale. È ciò che accade con riguardo al trasferimento di cose generiche (art. 1378) in cui l’atto di individuazione della prestazione rimuove l’ostacolo al dispiegarsi dell’effetto traslativo del contratto. Ed è anche ciò che si verifica nella vendita di cosa altrui dalla quale sorge per l’alienante non titolare del diritto l’obbligo di acquistare la proprietà del bene: l’adempimento di tale obbligo, rimuovendo l’ostacolo all’effetto traslativo inibito dalla altruità della cosa, farà acquistare il diritto al compratore nel momento in cui il venditore avrà acquistato la cosa dal proprietario (art. 1478). Può dirsi in ogni caso che nei contratti a effetti reali l’effetto obbligatorio non è mai idoneo a realizzare l’interesse dedotto nel contratto, come invece avviene nei contratti meramente obbligatori, ma è preordinato alla realizzazione dell’effetto reale. Occorre peraltro sottolineare che – in ogni contratto – gli effetti obbligatori appaiono sempre strumentali alla realizzazione del programma negoziale, che spesso richiede il compimento di una serie ulteriore di atti materiali e giuridici.

9. I contratti reali La categoria dei contratti ad efficacia reale non va in alcun modo confusa con quella dei contratti reali alla quale abbiamo in precedenza accennato. Tale categoria si contrappone infatti a quella dei contratti consensuali, che costituiscono l’assoluta maggioranza in quanto sono espressione del principio generale per cui il consenso è sufficiente affinché il contratto venga ad esistenza (arg. ex art. 1325), si producano poi soli effetti obbligatori o anche effetti reali; inoltre la natura «reale» del contratto non riguarda il momento effettuale ma investe il profilo della perfezione del contratto. Per la conclusione dei contratti reali è infatti richiesta la consegna della co-

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sa, che dunque non segna soltanto il contenuto di una obbligazione (come nei contratti a effetti reali) ma un elemento della fattispecie e rappresenta il requisito in cui si esprime la definitività del consenso. Ciò è chiaramente indicato anche nel linguaggio legislativo: il mutuo è il contratto con il quale una parte consegna all’altra una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili (art. 1813); il comodato è il contratto col quale una parte consegna all’altra una cosa mobile o immobile (art. 1803); il deposito è il contratto con il quale una parte riceve dall’altra una cosa mobile (art. 1766). Può peraltro accadere che un soggetto si limiti a promettere di dare, ad es., una somma a mutuo, ed accade sovente che le parti assumano vincoli obbligatori con riguardo alle prestazioni oggetto di un contratto reale, e cioè utilizzino lo schema del contratto consensuale per tipiche operazioni contemplate da contratti reali. Tale evenienza è del tutto ammissibile ma occorre avvertire che gli effetti tipici del contratto reale si verificheranno solo con la consegna, mentre il contratto consensuale di mutuo o di deposito, andrà qualificato come contratto atipico a effetti obbligatori. Talvolta le parti potrebbero aver inserito la promessa nell’ambito di un contratto nel quale si obbligano a stipulare, ad es., un mutuo. Il preliminare di mutuo avrà – naturalmente – effetti obbligatori e darà luogo ad un contratto (atipico) al quale, una volta concluso il mutuo, si applicheranno le norme del corrispondente contratto reale. Accanto ai contratti con effetti reali e con effetti obbligatori, si pongono anche i contratti con effetti accertativi. Si tratta di una categoria non prevista dalla legge, ma universalmente riconosciuta: con il contratto di accertamento le parti riconoscono l’esistenza e il contenuto di un rapporto giuridico, i reciproci diritti ed obblighi, e costituiscono una presunzione di corrispondenza alla realtà dei fatti accertati, cosicché la parte interessata a provare il contrario deve fornire la specifica prova.

10. Il conflitto fra più acquirenti di un medesimo diritto. La doppia vendita immobiliare. La trascrizione del contratto preliminare Appartiene al tema degli effetti negoziali, la soluzione del conflitto fra colui che acquista il diritto per effetto del contratto ed alcune categorie di terzi che vantano diritti incompatibili con l’acquisto contrattuale. Può trattarsi di terzi danti causa dell’alienante che ha trasferito il diritto (il cui titolo ad es. viene dichiaro invalido o risolto); ovvero di terzi creditori nei confronti di una delle parti; ovvero di terzi aventi causa dal medesimo titolare.

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Tale conflitto viene regolato in base alla eventuale opponibilità del contratto (che costituisce, come peraltro accennato prima, un modo della sua efficacia riflessa), cioè alla prevalenza del titolo contrattuale di acquisto sul diritto del terzo. La soluzione non è univoca ma dipende dal tipo di conflitto e dalla natura del diritto; vedremo nel corso della esposizione come vengono regolate alcune fattispecie di conflitto. Intanto è opportuna qualche considerazione di ordine generale circa la soluzione del conflitto tra più acquirenti di uno stesso diritto, che qui interessa in modo particolare. Può avvenire infatti che il titolare del diritto, ponendo in essere un comportamento certo non commendevole, lo alieni a più soggetti. Tale eventualità è in qualche modo favorita dal principio dell’effetto traslativo del consenso che, permettendo al proprietario che si è spogliato del diritto, di trattenere la cosa, agevola il compimento da parte di quest’ultimo di una pluralità di atti di disposizione del bene. Essendo naturalmente impossibile che l’acquisto dello stesso diritto si verifichi contemporaneamente nei confronti di più soggetti, sorge il problema di individuare colui nei confronti del quale tale acquisto ha luogo, con prevalenza rispetto agli altri soggetti. Va osservato che, in linea di principio, tale conflitto dovrebbe essere risolto in favore del primo acquirente: infatti l’alienante che si è spogliato del diritto sul bene non può certo disporne una seconda volta, per il semplice motivo che lo ha dismesso e non ne è più il titolare. Tale principio soffre però numerose eccezioni, tutte giustificate dalla esigenza di assicurare alla circolazione giuridica quella relativa certezza «infranta» – come si è visto – dalla efficacia traslativa del consenso. Come avremo occasione di constatare, alla formazione della regola di risoluzione del conflitto concorrono vari fattori: la consegna per la circolazione dei diritti mobiliari, la notificazione per i diritti di credito, la trascrizione per il trasferimento dei diritti immobiliari, nonché il titolo oneroso o gratuito dell’acquisto e lo stato di buona fede dell’acquirente. Il criterio della buona fede è in stretta correlazione con l’esigenza di assicurare la funzionalità del traffico giuridico e costituisce un principio largamente accolto nel nostro sistema giuridico; in quest’ambito esso è accreditato con il nome di principio dell’affidamento ed è fondato sulla ragionevole ed incolpevole fiducia che l’acquirente di un diritto abbia riposto negli elementi di fatto e di diritto costitutivi della fattispecie dalla quale egli deriva il suo acquisto. La circolazione della proprietà dei beni mobili o degli altri diritti reali mobiliari (usufrutto, uso, pegno) è governata dalla regola nota come possesso va-

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le titolo, contenuta nell’art. 1153. La norma disciplina un’ipotesi di c.d. acquisto a non domino cioè di acquisto dal non proprietario. Per effetto di tale regola, colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non è proprietario, ne acquista tuttavia la proprietà qualora ne consegua il possesso attraverso un titolo idoneo al trasferimento del diritto di proprietà (ad es. un contratto di vendita) e qualora sia in buona fede, ignori cioè che l’alienante non è il vero titolare del bene (art. 1153, primo comma). Nello stesso modo si acquistano i diritti di usufrutto, di uso e di pegno (art. 1153, terzo comma). Il principio trova puntuale applicazione anche all’ipotesi di conflitto che si realizza quando taluno aliena con successivi contratti a più persone un bene mobile; tra queste prevale il soggetto che abbia in buona fede conseguito, prima nel tempo, il possesso del bene anche se il suo titolo è di data posteriore (art. 1155). Costui compie infatti un acquisto a non domino, poiché il suo titolo è stato confezionato in data posteriore alla precedente alienazione, quando il titolare si era già spogliato del bene, cosicché il suo acquisto avviene in base alla regola possesso vale titolo. Se il contratto ha ad oggetto diritti personali di godimento, e cioè diritti di credito la cui natura è però peculiare ed assai simile ai diritti reali, in ragione della inerenza del diritto alla cosa e del modo immediato e diretto con il quale il titolare del diritto esercita il suo potere su di essa, il conflitto è risolto in modo analogo e cioè in favore di chi ha conseguito per primo il godimento anche se il suo titolo è di data posteriore (art. 1380, primo comma); mentre se nessuno dei contraenti abbia conseguito il godimento riprende vigore la regola generale in base alla quale prevale chi vanti un titolo di data anteriore (art. 1380, secondo comma). Anche la cessione dei crediti è un contratto a effetti reali; ma il credito non è suscettibile di apprensione e di possesso cosicché nel caso di una pluralità di cessioni prevale – come peraltro abbiamo avuto già occasione di segnalare – la cessione notificata per prima al debitore o da questi per prima accettata (art. 1265). Qualora l’acquisto riguardi diritti su beni immobili o mobili registrati il conflitto è risolto in favore di colui che abbia per primo reso pubblico mediante trascrizione nei pubblici registri immobiliari il suo titolo di acquisto, anche se di data posteriore. Tale regola si esprime attraverso la inopponibilità a colui che abbia trascritto per primo il suo titolo, del contratto con il quale sia stato acquistato dall’alienante il medesimo diritto quantunque detto acquisto risalga a data anteriore. Il conflitto è risolto in favore di chi, pur avendo acquistato dopo, trascriva per primo indipendentemente dalla conoscenza che egli abbia dell’esistenza di atti di data anteriore. Tuttavia la legge non può premiare la malafe-

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de del secondo acquirente che trascriva conoscendo che l’alienante si era già spogliato del diritto; perciò il secondo acquirente sarà tenuto a risarcire il danno sofferto dal primo acquirente per effetto del meccanismo della trascrizione (art. 2043), mentre quest’ultimo potrà far conto anche sulla responsabilità del venditore che, alienando una seconda volta il diritto, ha violato il contratto con lui stipulato (art. 1218). Fino a qualche anno fa, poiché il contratto preliminare, in quanto contratto ad effetti obbligatori e non traslativi del diritto, non era trascrivibile (cfr. art. 2643), il promissario acquirente di diritti immobiliari si trovava esposto al rischio del fallimento del promittente o di spregiudicate vendite a terzi nel tempo intercorrente fra il preliminare e il termine fissato per la stipula del definitivo. Per evitare questo rischio il promissario acquirente aveva l’onere di promuovere un giudizio diretto ad ottenere l’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre (art. 2932) e quindi di trascrivere la relativa domanda giudiziale (art. 2652, n. 2): la sua posizione avrebbe ricevuto tutela nei limiti in cui il terzo acquirente non avesse trascritto il suo atto di acquisto prima della trascrizione della predetta domanda. La recente legge 28 febbraio 1997, n. 30, allo scopo di rafforzare la tutela del promissario acquirente di un immobile, ha introdotto l’art. 2645 bis sancendo la trascrivibilità dei contratti preliminari aventi ad oggetto diritti reali immobiliari e stabilendo che la trascrizione del contratto definitivo ovvero della sentenza che accoglie la domanda diretta ad ottenere la esecuzione in forma specifica dei suddetti preliminari, prevale sugli atti trascritti contro il promittente dopo la trascrizione del contratto preliminare.

11. Il governo convenzionale degli effetti del contratto. La condizione Mentre dagli elementi essenziali dipende la validità stessa del contratto, gli elementi accidentali ne condizionano soltanto l’efficacia differendo nel tempo una vicenda capace di incidere sulla produzione degli effetti del contratto ovvero sul loro venir meno. La condizione sospensiva e il termine iniziale rimandano la produzione dell’effetto; la condizione risolutiva ed il termine finale lo risolvono, così come l’inadempimento del modus può condurre alla risoluzione del contratto e dunque alla cessazione della sua efficacia (anche su questo tema si rinvia a M. NUZZO, Introduzione alle scienze giuridiche, Cap. Quarto, Sez. II, p. 193 ss., 1a serie). La condizione rende incerta l’efficacia del rapporto in relazione ad un avvenimento futuro ed eventuale. Tale condizionamento degli effetti del contratto può avvenire in due modi: impedendo che gli effetti del contratto si

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realizzino fino a che non si verifichi l’evento (condizione sospensiva), ovvero facendo cessare gli effetti del contratto nel momento dell’avveramento dell’evento (condizione risolutiva). Nel primo caso gli effetti del contratto restano sospesi, e dunque si realizzano soltanto se e quando si verificherà l’evento; nel secondo caso tali effetti hanno luogo sin dal momento della conclusione dell’accordo, ma sono instabili in quanto destinati a permanere se la condizione non si verificherà ovvero a venir meno comportando la risoluzione del contratto qualora la condizione abbia a verificarsi. La condizione sospensiva sospende dunque l’attribuzione patrimoniale (ti dono una determinata vettura a condizione che tu consegua la laurea entro il prossimo anno accademico); mentre da quella risolutiva dipende l’eventuale venir meno degli effetti prodotti (ti dono questa vettura ma il contratto si risolverà e dovrai restituirmela se non conseguirai la laurea entro il termine indicato). Il verificarsi dell’evento dedotto nella condizione può dipendere da un accadimento del tutto estraneo alla volontà delle parti (condizione casuale) ovvero dalla loro volontà (condizione volontaria) o dalla combinazione di tali fattori (condizione mista). Mentre la condizione volontaria consiste in un fatto che non è indifferente per la parte compiere, che importa per la stessa qualche sacrificio e corrisponde a qualche suo apprezzabile interesse (ad es. se riuscirò a vendere il mio appartamento entro l’estate ti offrirò una crociera), la condizione meramente potestativa dipende dal mero arbitrio dell’interessato. Essa è valida se riguarda l’acquisto del diritto o del credito; se invece è l’alienazione del diritto o l’assunzione di un obbligo a dipendere dalla mera volontà, rispettivamente, dell’alienante o del debitore, tale condizione rende nullo il contratto cui è apposta perché in questo caso il vincolo verrebbe a dipendere dalla mera volontà del debitore o del titolare del diritto, dunque dal suo capriccio e non può pertanto essere giuridicamente apprezzabile (art. 1355). Durante la pendenza della condizione, prima cioè che l’evento si sia verificato ovvero che si abbia certezza che non si potrà più verificare (spesso la condizione è collegata a un termine), la parte che non ha ancora acquistato il pieno diritto, perché sottoposto a condizione sospensiva, ovvero l’altra che lo ha trasmesso sotto condizione risolutiva e dunque non lo ha definitivamente perduto, hanno una serie di poteri (necessariamente più contenuti rispetto a quelli che conseguirebbero ad una posizione piena di diritto soggettivo sul bene), preordinati e funzionali alla conservazione della situazione giuridica che non è certo in capo a chi si consoliderà (aspettativa). Perciò l’acquirente di un diritto sotto condizione sospensiva può compiere atti conservativi (art. 1356) diretti a preservare la possibilità di acquistare il diritto nel caso la condizione si verifichi; e l’acquirente di un diritto sotto condizione risolutiva può

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esercitarlo durante la pendenza, ma la controparte, per assicurare le sue ragioni qualora si verifichi l’evento dedotto nella condizione risolutiva e venga così risolto l’acquisto, può parimenti compiere atti conservativi sul bene. La tutela di tale aspettativa è rafforzata dall’obbligo imposto all’alienante del diritto sotto condizione sospensiva o all’acquirente del diritto sotto condizione risolutiva, cioè ai soggetti sui quali grava il «governo» provvisorio della situazione giuridica condizionata, di comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte (art. 1358); nonché dall’obbligo posto a carico del soggetto controinteressato di non impedire il verificarsi della condizione, chiaramente desumibile dall’art. 1359 secondo il quale la condizione si considera avverata quando diventa impossibile per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario al suo avveramento. Quando la condizione si avvera il contratto si considera efficace o inefficace (a seconda del tipo di condizione se sospensiva ovvero risolutiva) sin dal momento della sua conclusione. Tale efficacia retroattiva ha natura reale è cioè opponibile ai terzi, come risulta dal disposto dell’art. 1357 in base al quale la condizione, sia sospensiva che risolutiva, non preclude atti di disposizione da parte del titolare del diritto condizionato, ma gli effetti di tali atti restano subordinati alla stessa condizione. Inoltre tale retroattività non può mai pregiudicare gli atti di amministrazione compiuti dal titolare del diritto condizionato (art. 1361). Mentre la condizione illecita, cioè contraria a norme imperative, ordine pubblico e buon costume rende nullo il contratto sia che abbia natura sospensiva che risolutiva, la condizione impossibile determina la inefficacia del negozio soltanto se sospensiva. Invero non v’è ragione di mantenere in vita un contratto i cui effetti sono condizionati ad un evento che non si potrà mai verificare; mentre la condizione risolutiva impossibile si ha per non apposta, non essendo questa idonea a rimuovere l’efficacia del contratto (art. 1354).

12. Il termine di efficacia e il contratto modale Diverso dal termine entro cui deve essere eseguita l’obbligazione (termine di adempimento) di cui ci siamo in precedenza occupati, è il termine di efficacia che indica infatti da quando (termine iniziale) o fino a quando (termine finale) il contratto è destinato a produrre i suoi effetti (es. contratto di lavoro a tempo determinato). Come la condizione il termine è un elemento futuro ma a differenza di questa non è eventuale e comporta pertanto la certezza dell’avvenimento consistente nella scadenza. Ciò che può essere indeterminato è soltanto il preciso momento temporale di tale scadenza, ma è co-

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munque certo che questa si verificherà: ad es. l’usufrutto costituito per tutta la vita dell’usufruttuario ha come termine di efficacia la morte del titolare, avvenimento certo nel se ed incerto nel quando (art. 979, primo comma). Il modo costituisce una limitazione apposta ad una attribuzione patrimoniale gratuita. I negozi cui accede sono il testamento e la donazione (ma anche il comodato) ed ha l’effetto di ridurre la liberalità conseguente alla istituzione di erede, al legato o all’atto di donazione. Con riferimento al contratto il modus configura una vera e propria obbligazione (ti dono una preziosa collezione di quadri facendoti carico di allestire periodicamente una mostra), che tuttavia non costituisce una controprestazione, non altera la gratuità dell’atto, ed è destinata ad essere adempiuta come tutte le obbligazioni. Cosicché il modus non incide direttamente sull’efficacia del negozio, ma l’inadempimento dell’obbligazione modale può determinare la risoluzione del contratto. Con riferimento al contratto di donazione l’art. 793 prevede espressamente la figura della donazione modale stabilendo alcune regole. Ad es. il donatario è tenuto all’adempimento dell’onere nei limiti del valore della cosa donata; il donante può chiedere la risoluzione per inadempimento dell’onere soltanto se tale facoltà viene contemplata nell’atto di donazione; l’onere illecito o impossibile è soggetto alla stessa disciplina del motivo illecito, cosicché rende nulla la donazione qualora sia stato la ragione esclusiva e determinante della liberalità.

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Capitolo Terzo

L’INTERPRETAZIONE 1. 2. 3.

Le regole soggettive ed oggettive di interpretazione del contratto La interpretazione secondo buona fede. La buona fede in senso soggettivo ed in senso oggettivo. L’esecuzione del contratto Buona fede e integrazione del contratto

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1. Le regole soggettive ed oggettive di interpretazione del contratto La individuazione della disciplina applicabile al contratto presuppone – come si è accennato illustrando l’autonomia dei privati – un’opera di qualificazione del negozio ed un’attività interpretativa dello stesso condotta secondo regole specifiche. Il contratto ha un’identità, rivelata dal suo contenuto, momento di incontro – variamente configurato – fra volontà delle parti e precetti legislativi, fra regole nuove e regimi legali dei tipi contrattuali. Interpretare il contratto significa accertarne in primo luogo il contenuto e il suo significato giuridicamente rilevante. Nonostante l’indicata progressiva erosione dell’area dell’autonomia a causa del crescente spazio occupato dalla disciplina legale, il contratto è sostanzialmente un atto di volontà cosicché è sovente la volontà medesima a consentire la individuazione delle soluzioni concrete e ad indirizzare i criteri in virtù dei quali si esplica la funzione interpretativa del contratto e in qualche caso la stessa funzione integrativa in base a fonti eteronome. L’indagine sulla volontà resta quindi il primo gradino della conoscenza del contratto e costituisce il punto di partenza per l’individuazione della disciplina applicabile nonché un valore tendenziale al quale devono rapportarsi le regole interpretative ed ispirarsi – come appena osservato – le stesse tecniche di integrazione. Il codice dedica numerose norme alla interpretazione del contratto volte ad accertare il suo contenuto giuridico e siccome il contratto – come sappiamo – è un atto di autonomia, ciò che le parti con esso hanno disposto. Lo scopo e il risultato di questa operazione sono unitari e non mutano a seconda che l’interpretazione del contratto si svolga secondo regole di interpretazione soggettiva, dirette cioè a palesare il significato della volontà delle parti, ovvero secondo regole di interpretazione oggettiva e cioè attraverso tecniche di intervento sulla definizione dei contenuti contrattuali ispirate a soluzioni esegetiche comunque coerenti con l’ambito delle volontà. Anche le regole di interpretazione oggettiva, infatti, concorrono ad accertare il contenuto del contratto e consentono di assegnare all’accordo delle volontà il significato espresso sulla base di valutazioni normative. Costituiscono regole di interpretazione soggettiva quelle descritte negli artt. da 1362 a 1365, mentre alla interpretazione oggettiva sono dedicate le norme degli artt. da 1367 a 1371.

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Norma primaria in tema di interpretazione è quella che impone una indagine sulla comune intenzione delle parti, e ammonisce di non limitarsi al senso letterale delle parole (art. 1362, primo comma). La reale volontà delle parti emerge dunque in primo luogo da una interpretazione formale e cioè dal linguaggio e dai termini impiegati i quali, pur non impegnando in modo irreversibile i risultati della indagine, costituiscono l’avvio del procedimento interpretativo e non possono pertanto essere immotivatamente trascurati; in secondo luogo da una interpretazione sostanziale, attenta ad evidenziare che cosa le parti abbiano realmente voluto e quale interesse abbiano realmente coltivato. Sebbene il contratto sia un atto, quindi una manifestazione di volontà, distinto dai fatti e quindi anche dai comportamenti, la legge non trascura di indicare, come elemento di valutazione della comune intenzione, anche il comportamento complessivo delle parti, non solo anteriore ma anche posteriore alla conclusione del contratto (art. 1362, secondo comma). Tale comportamento può consistere non solo in atti materiali ma anche giuridici; la condotta delle parti durante le trattative ed eventuali iniziative dirette alla esecuzione del contratto, possono fornire utili indicazioni circa la individuazione della volontà dei contraenti. Se le parti hanno usato espressioni generali a queste non può essere assegnato un contenuto eccedente l’oggetto del contratto (art. 1364); e qualora si profili qualche dubbio nella spiegazione di singole clausole, queste devono essere interpretate le une per mezzo delle altre attribuendo a ciascuna di esse il senso che risulta dal complesso del contratto, secondo un percorso che valuti le singole proposizioni nell’ambito di un sistema logico unitario e non contraddittorio (art. 1363). Sempre a canoni logici e sistematici si ispira la regola dettata dall’art. 1365 per la quale le indicazioni esemplificative non escludono la possibilità di estendere il contratto a casi diversi, purché sorretti dalla medesima ragione di quelli espressamente considerati. Appartiene invece alla interpretazione oggettiva la c.d. regola di conservazione del contratto in base alla quale se l’esegesi del contratto o di singole clausole dà luogo a due possibili versioni, una delle quali conduce a non attribuire effetti al contratto o alla singola clausola, occorre interpretare il contratto secondo l’altra che consente la produzione di effetti (art. 1367). La norma esprime un principio di portata assai estesa del quale il legislatore codicistico ha fatto più volte applicazione: così in materia di conversione del contratto nullo (v. p. 216) ovvero in materia di validità del negozio dissimulato (v. p. 217). Gli artt. 1368 e 1369 dettano rispettivamente criteri interpretativi per le clausole generali e per le espressioni polisenso. Quanto alle prime, occorre fare riferimento alla pratica in uso nel luogo in cui si è formato il contratto che – se una delle parti è un imprenditore – è il luogo ove ha sede l’impresa; quanto

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alle seconde, occorre accreditare fra i vari significati possibili quello più coerente con la natura e l’oggetto del contratto. Se il dubbio concerne una clausola inserita nelle condizioni generali di contratto o in un formulario o modulo predisposto da uno dei contraenti, questa si interpreta in favore dell’altro (art. 1370); la regola è stata riprodotta in materia di interpretazione dei contratti del consumatore (art. 35, comma secondo, Codice del consumo). Infine l’art. 1371 detta una regola residuale ispirata al principio dell’equità. È previsto cioè che, se il contratto rimane oscuro, nonostante l’applicazione delle regole sopra dette (tra le quali rientra anche l’interpretazione di buona fede di cui ora diremo) esso deve essere inteso nel senso meno gravoso per l’obbligato se è a titolo gratuito, e nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti se è a titolo oneroso.

2. La interpretazione secondo buona fede. La buona fede in senso soggettivo ed in senso oggettivo. L’esecuzione del contratto L’art. 1366 stabilisce che il contratto deve essere interpretato secondo buona fede. La norma costituisce il punto di sutura tra l’interpretazione soggettiva e quella oggettiva del contratto, nel quale vengono a sintetizzarsi i due modi di rilevanza della buona fede quale canone oggettivo, che ha il significato di correttezza e di lealtà e corrisponde ad una regola di condotta, e quale ragionevole affidamento che le parti hanno riposto o potevano riporre su quanto hanno lasciato intendere attraverso le loro dichiarazioni o i loro comportamenti valutati alla stregua della ordinaria diligenza. La buona fede non ha un contenuto predeterminato ma costituisce una clausola generale destinata ad essere di volta in volta riferita a stati soggettivi e a comportamenti diversi adeguati alle peculiarità delle singole vicende giuridiche. Nella materia contrattuale il richiamo alla buona fede è frequente: abbiamo visto che le parti hanno l’obbligo di comportarsi secondo buona fede nel corso delle trattative (art. 1337); che debitore e creditore si devono comportare secondo le regole della correttezza (art. 1175); che le parti durante la pendenza della condizione debbono comportarsi secondo buona fede; inoltre – come ora osservato – il contratto deve essere interpretato secondo buona fede. A ciò deve aggiungersi un’altra previsione normativa, contenuta nell’art. 1375, secondo la quale il contratto deve essere eseguito secondo buona fede. L’esecuzione del contratto consiste nella realizzazione dei suoi effetti, cioè

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nell’adempimento delle obbligazioni che dallo stesso nascono. I criteri che devono ispirare le parti nella esecuzione del contratto si ricollegano all’obbligo di diligenza che impone ad una parte di impiegare lo sforzo adeguato per realizzare gli interessi dell’altra; e all’obbligo di buona fede che è espressione di solidarietà contrattuale ed impone ad una parte di rispettare anche i vantaggi e le utilità dell’altra nei limiti in cui ciò non importi per se stessa un apprezzabile sacrificio. Rileva, ai fini della esecuzione, la categoria dei c.d. contratti di durata. In tali contratti gli effetti sono destinati a durare nel tempo e non si esauriscono al momento della conclusione. Invero mentre alcuni contratti si eseguono istantaneamente (vendita) in altri l’esecuzione è differita nel tempo (appalto), e può consistere in prestazioni periodiche (locazione) o continuate (somministrazione). Tali contratti sono oggetto per alcuni aspetti di una normativa particolare: si è già detto, ad es., che in deroga al principio per cui il contratto può essere sciolto solo per mutuo consenso (o per le altre cause previste dalla legge), nei contratti ad esecuzione continuata o periodica è ammesso il recesso unilaterale (art. 1373, secondo comma); inoltre il rimedio della eccessiva onerosità, come vedremo, è consentito rispetto ai soli contratti a esecuzione continuata, periodica o differita (art. 1467). La disciplina di taluni contratti tipici contiene invero norme speciali che costituiscono attuazione delle su indicate regole stabilite in via generale per la categoria e che si giustificano proprio in ragione del protrarsi nel tempo degli effetti del contratto: se ad es. la durata della somministrazione non è stabilita, ciascuna delle parti può recedere dal contratto dando congruo preavviso (art. 1569); inoltre l’appaltatore e il committente possono chiedere una revisione del prezzo qualora per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti o diminuzioni nel costo dei materiali o della mano d’opera superiori a un determinato indice fissato nella norma (art. 1664).

3. Buona fede e integrazione del contratto La buona fede in senso oggettivo, sebbene richiamata, in particolare, nell’art. 1375 in tema di esecuzione, svolge un ruolo fondamentale anche sul piano della integrazione del contratto: essa costituisce anzi una delle fonti più importanti, alternative alla volontà delle parti, attraverso le quali si realizza la funzione integrativa del contenuto contrattuale diretta a colmare le lacune del regolamento. Di questo aspetto ci siamo occupati, e non poteva essere diversamente, spiegando l’autonomia contrattuale, i suoi limiti ed i rapporti fra potere dei

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privati e norme legislative, fra autoregolamentazione e controllo autoritativo degli interessi amministrati nel contratto. Deve essere ora precisato che il momento centrale e più significativo del fenomeno della integrazione si ha allorché questa si esplica non in funzione suppletiva della volontà, consentendo di ovviare alla mancata previsione di una regola contrattuale ad opera delle parti (così il debitore che ha più debiti omogenei verso la stessa persona può indicare quando paga quale debito intende soddisfare; in difetto di tale indicazione la legge detta una serie di criteri legali di imputazione del pagamento: art. 1193), bensì in funzione sostitutiva della volontà delle parti. In quest’ultimo caso l’intervento della legge può essere di duplice natura. In primo luogo la norma, anziché rifiutare il regolamento ad essa contrario sanzionando con l’irrilevanza giuridica il contratto, può lasciarlo in vita, depurandolo della parte viziata ovvero sanandolo con l’introduzione di regole codificate. In altri casi, nei quali il processo di integrazione registra la deriva più accentuata e il maggior grado di invasività rispetto all’atto di autonomia, la legge, attraverso la mediazione del giudice, ricompone il regolamento contrattuale ricorrendo a soluzioni che, quantunque costruite sulla trama volontaria espressa nel contratto, amministrano gli interessi contrattuali in base a criteri correttivi delle prestazioni delle parti. Nella prima direzione possono indicarsi i casi di nullità parziale, o di inserzione automatica di clausole; nella seconda le norme che richiamano la buona fede e l’equità (sulle quali ci siamo in precedenza soffermati): al riguardo abbiamo già ricordato il fondamento normativo generale della integrazione del contratto contenuto nell’art. 1374, in base al quale il contratto obbliga le parti non solo a quanto nel medesimo espresso, ma anche a tutte le ulteriori conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità. Vedremo a suo tempo come alcune direttive del procedimento di interpretazione e di integrazione (il principio di conservazione, la buona fede, l’equità) siano state nella più recente normativa sui contratti coltivate e valorizzate, così da contribuire alla individuazione di un nuovo paradigma di contratto.

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Capitolo Quarto

LA PATOLOGIA SEZIONE I: LA NULLITÀ 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Considerazioni generali. La tutela dell’affidamento La nullità. La nullità parziale Conversione del negozio nullo. Il negozio in frode alla legge La simulazione. Gli effetti tra le parti del contratto simulato e del contratto dissimulato Gli effetti della simulazione nei confronti dei terzi Annullabilità: generalità

SEZIONE II: L’ANNULLABILITÀ 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13.

L’incapacità delle parti L’errore Il dolo La violenza Altri casi di annullabilità del contratto L’azione di annullamento. Gli effetti dell’annullamento nei confronti dei terzi La sanatoria del negozio annullabile. La convalida

SEZIONE III: L’INEFFICACIA 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25.

L’inefficacia assoluta e relativa L’azione di rescissione: generalità Il contratto concluso in stato di pericolo Il contratto concluso in stato di bisogno. Norme comuni di disciplina Stato di bisogno e usura Forme (ulteriori) di controllo dell’equilibrio economico del contratto La risoluzione del contratto: generalità I rimedi alternativi alla risoluzione per inadempimento: in particolare la clausola penale e la caparra confirmatoria. La caparra penitenziale. La manutenzione del contratto La risoluzione per inadempimento. La risoluzione giudiziale La risoluzione di diritto: la diffida ad adempiere, la clausola risolutiva espressa e il termine essenziale Risoluzione per impossibilità sopravvenuta Risoluzione per eccessiva onerosità

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SEZIONE I: LA NULLITÀ 1. Considerazioni generali. La tutela dell’affidamento Il contratto nasce per essere eseguito; produce obbligazioni che debbono essere adempiute. L’inesecuzione di un contratto è dunque una forma di patologia, ma non è l’unica. Molteplici sono le forme che possono compromettere l’esito fisiologico del contratto, la realizzabilità dello scopo del regolamento e la soddisfazione degli interessi dei contraenti. Tali forme vengono qui esaminate, in un contesto unitario nonostante le profonde diversità concettuali e di disciplina, perché tutte hanno un unico comune denominatore: esse infatti incidono sulla stabilità del contratto e ne determinano o ne possono determinare, con termine generico, la caducazione (sull’argomento si rinvia anche, in questa collana, a M. NUZZO, Introduzione alle scienze giuridiche, Cap. Quarto, Sez. Terza, p. 219 ss., 1a serie). La patologia del contratto può esprimersi nelle forme della nullità, della annullabilità, della rescindibilità, della risolubilità, della inefficacia e dà luogo ad una serie di corrispondenti rimedi (azioni) di nullità, di annullamento, di rescissione, di risoluzione, di inefficacia. È inoltre consentito il ricorso a rimedi aggiuntivi ed ulteriori, quali il risarcimento del danno e l’azione inibitoria, nonché ad alcune tecniche correttive della prestazione e conservative del contratto dirette ad eliminare il vizio, della natura più varia, da cui il contratto stesso è affetto. L’accertamento di una causa di caducazione del contratto investe la posizione dei contraenti con diverse modalità e differenti effetti; ma può investire anche la posizione di terzi che siano venuti in contatto con il contratto caducato, che abbiano cioè acquistato diritti da una delle parti. L’illustrazione delle regole dettate dal legislatore per la tutela degli interessi, spesso confliggenti, fra i soggetti del negozio esposto a caducazione e i terzi aventi causa da una delle parti, richiede di soffermarci sul principio dell’affidamento che costituisce il criterio in base al quale in generale il legislatore si è ispirato nel disciplinare il predetto conflitto. Tale principio comporta la tutela del soggetto che abbia confidato senza colpa sulla efficacia del titolo dell’acquisto, o sulla legittimazione dell’alienan-

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te: si tratta – come in precedenza osservato – di un’applicazione del principio della buona fede in senso soggettivo, relativa cioè alla ignoranza incolpevole da parte del soggetto, del vizio che inficia il contratto dal quale gli derivano diritti. Il criterio dell’affidamento serve anche a dirimere il conflitto fra le parti stesse del contratto allorché il soggetto dichiari cosa diversa da quella voluta (es. errore sulla dichiarazione) o compia una dichiarazione esprimendo una volontà alterata (es. errore vizio). Anche in questi casi vi sono interessi in conflitto, poiché l’autore della dichiarazione erronea è interessato a far dichiarare la invalidità del negozio, non volendo certo rimanere impegnato in base ad una manifestazione che non corrisponde alla sua volontà; mentre il destinatario di essa può avere un interesse contrario, può cioè essere interessato a sostenere la validità del negozio avendo fatto affidamento su quella dichiarazione. La soluzione individuata dal codice non è radicale, non privilegia in modo assoluto alcuna delle descritte posizioni, e dunque non accorda prevalenza né alla volontà né alla dichiarazione, bensì modula la tutela preferenziale degli interessi in base al canone della buona fede in senso soggettivo, quale ignoranza di ledere il diritto altrui, dunque come affidamento che il soggetto abbia fatto, senza colpa, nel ritenere una situazione come conforme al diritto ed ignorando il vizio da cui invece era affetta.

2. La nullità. La nullità parziale Nullità e annullabilità si riconducono alla comune categoria della invalidità. La nozione di validità richiama il concetto di conformità alle regole giuridiche: il contratto invalido è dunque il contratto non conforme alle regole che stabiliscono i requisiti per la sua esistenza, ovvero assicurano la corretta formazione del consenso, la violazione delle quali determina la inefficacia del contratto stesso, cioè la improduttività dei suoi effetti giuridici. L’invalidità rappresenta dunque la reazione dell’ordinamento al negozio non conforme e costituisce perciò una sanzione che l’ordinamento appresta per caducare o consentire la caducazione, a seconda di casi, dell’atto invalido. Vedremo in seguito che per alcuni contratti (contratti dei consumatori) la nullità viene disciplinata non tanto come reazione dell’ordinamento all’atto contrario alle sue prescrizioni, quanto come rimedio funzionale alla protezione della parte meritevole di tutela. Le cause di nullità del contratto sono tassativamente indicate nell’art. 1418. Il contratto è nullo (secondo comma) quando manchi uno dei requisiti essen-

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ziali (accordo, causa, oggetto e forma quando è richiesta a pena di nullità) (art. 1325), quando la causa è illecita (art. 1343) o quando è illecito il motivo comune e determinante (art. 1345) o quando l’oggetto manchi di uno dei requisiti indicati nell’art. 1346. Il contratto è altresì nullo in tutti gli altri casi in cui risulti contrario a norme imperative, a meno che la legge non disponga diversamente (primo comma): così le norme fiscali sono sicuramente imperative ma la loro violazione non importa la nullità civilistica del contratto. Infine il contratto è nullo negli altri casi stabiliti dalla legge (terzo comma). Non è peraltro necessario che la sanzione della nullità sia espressamente prevista (es. nullità del patto commissorio: art. 2744, o del patto successorio: art. 458) (nullità testuale), essendo sufficiente che questa si ricolleghi alla violazione di una norma imperativa (c.d. nullità virtuale). La qualifica di nullità presuppone un contratto che, sebbene improduttivo di effetti si lasci apprezzare come esistente; occorre cioè che il contratto abbia i requisiti minimi per la sua identificazione, si presenti cioè come operazione socialmente qualificabile come tale. Se infatti alla proposta di vendere un appartamento in multiproprietà al prezzo di 30.000,00 euro, segue l’accettazione di locarlo al canone settimanale di 500,00 euro non vi è neanche un simulacro di accordo ed il contratto si dice inesistente: la distinzione può avere rilievo, ad es., a proposito della conversione che non è applicabile al negozio inesistente. Può avvenire che la nullità concerna solo una parte del contratto o singole clausole. Ferma restando la nullità della parte viziata o della singola clausola, per il resto il contratto è valido se risulta che i contraenti lo avrebbero concluso egualmente anche in difetto della parte o della clausola colpita da nullità (nullità parziale); se invece l’indagine sulla volontà conduce a ritenere che senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità le parti non avrebbero contrattato, la nullità si estende all’intero contratto, che risulta pertanto integralmente nullo (art. 1419, primo comma). La nullità di singole clausole non importa la nullità dell’intero contratto quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative (art. 1419, secondo comma): così nei casi già ricordati di inserzione automatica di clausole (art. 1339), o in tema di mutuo allorché siano previsti interessi usurari (art. 1815, secondo comma, che – come già osservato – contempla la nullità della clausola e stabilisce che non sono affatto dovuti interessi). Tali regole costituiscono un’applicazione del principio di conservazione del contratto. La disciplina della nullità si giustifica in relazione alla natura degli interessi tutelati che sono generali e non disponibili dalle parti: cosicché la nullità, che costituisce la sanzione più grave che può colpire il contratto, comporta la radicale e assoluta improduttività degli effetti del negozio. L’azione diretta

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ad accertare la nullità può essere fatta valere da qualsiasi interessato e può essere rilevata d’ufficio (art. 1421); è imprescrittibile e può dunque essere proposta in ogni tempo (art. 1422); non è soggetta a sanatoria (art. 1423); e la pronuncia che la dichiari ha efficacia retroattiva, accerta cioè che nessun effetto si è prodotto sin dal momento della conclusione del contratto. L’art. 38 del Codice del consumo, nel quale è confluito il vecchio testo dell’art. 1469 quinquies c.c., contiene una importante novità che non è soltanto terminologica ma riveste un indubbio rilievo sistematico. Infatti, la sanzione di inefficacia che colpiva le clausole vessatorie dei contratti tra professionista e consumatore è ora indicata con il termine di nullità: nullità parziale, che lascia «per il resto» in vita il contratto, e nullità relativa che può essere fatta valere solo dal consumatore. Si viene così a riconoscere, sul piano del diritto positivo, la categoria della nullità di protezione, categoria già emersa nella elaborazione dottrinale, che si caratterizza per una disciplina speciale sottratta al regime di cui all’art. 1418 c.c. ed in grado di adeguare la sanzione tecnica della nullità alla protezione degli interessi di volta in volta considerati dalla norma. Il contratto, ancorché nullo, può in taluni casi costituire un regolamento efficiente. Ciò può avvenire allorché il contratto nullo o determinate sue clausole affette da nullità non siano impugnati dalle parti. Così un contratto di locazione concluso in violazione della durata legale può di fatto continuare a disciplinare il rapporto al quale le parti diano concorde volontaria esecuzione assoggettandolo alla durata illegale; esse infatti potrebbero ignorare la causa di nullità ovvero volersi adeguare alla clausola nulla. È ad es. frequente l’ipotesi in cui le parti pongono in essere un contratto successorio, come tale nullo (art. 458), al quale l’erede dia esecuzione dopo la morte del soggetto che aveva in vita disposto della propria successione. Ciò non è di trascurabile importanza perché descrive una parte della realtà che può essere in fatto regolata da rapporti nulli, anche se si tratta di una realtà precaria, perché destinata ad essere rimossa in caso di accoglimento dell’azione e di accertamento della invalidità. È opportuno segnalare, a proposito della invalidità conseguente al divieto dei patti successori di cui al citato art. 458, che la legge 14 febbraio 2006, n. 55 ha introdotto in tale norma una espressa riserva (“fatto salvo quanto stabilito dagli artt. 768 bis e seguenti”) con l’effetto di sottrarre alla sanzione della nullità il patto di famiglia disciplinato negli artt. da 768 bis a 768 octies. Nell’art. 768 bis il legislatore ha invero disciplinato il contratto con cui l’imprenditore trasferisce l’azienda o le quote sociali di cui sia titolare ad uno o più discendenti.

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Sebbene prevalga l’opinione che assegna a tale negozio natura inter vivos, considerando che il trasferimento dell’azienda è immediato e l’imprenditore non dispone, come nel patto successorio istitutivo, per il periodo successivo alla sua morte, la suddetta riserva toglie comunque ogni residuo dubbio sulla validità formale del patto di famiglia. L’esigenza invece di conferire al patto un carattere di stabilità, ponendolo al riparo dai rischi dell’esperimento dell’azione di riduzione da parte dei legittimari, e dalla assoggettibilità a collazione qualora il trasferimento sia avvenuto a titolo gratuito, è soddisfatta dalla regola riequilibratrice contenuta negli artt. 768 quater e 768 sexies che statuisce l’obbligo, a carico degli assegnatari dell’azienda, di soddisfare «il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore» (abbiano o meno, tali soggetti, preso parte al contratto), con il pagamento di una somma di danaro corrispondente al valore delle quote che sarebbero state loro riservate ai sensi degli artt. 536 ss. c.c.

3. Conversione del negozio nullo. Il negozio in frode alla legge In via eccezionale il contratto nullo può produrre gli effetti di un contratto diverso del quale contenga i requisiti di sostanza e di forma. Anche qui, come in tema di nullità parziale, la regola è nel senso che la conversione del contratto nullo si verifica soltanto se, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, si deve ritenere che queste lo avrebbero egualmente voluto anche se avessero conosciuto la nullità. Così un contratto di deposito (art. 1766) immobiliare potrà valere come contratto atipico con il quale un soggetto affida ad un altro la temporanea custodia di un immobile. La conversione viene operata non solo in base alla corrispondenza dei requisiti di sostanza e di forma, ma anche in base alla congruità dello scopo voluto dalle parti in relazione al negozio valido. Da questo tipo di conversione che si dice sostanziale, si distingue l’altra, di tipo formale, che prescinde da qualsiasi indagine sulla volontà delle parti e si traduce in una trasformazione automatica del negozio nullo (l’atto pubblico formato senza i requisiti prescritti dalla legge può convertirsi in scrittura privata, qualora sottoscritta dalle parti) (art. 2701). Non dà luogo ad un caso di conversione la conferma o la esecuzione volontaria del contratto di donazione nullo. L’art. 799 stabilisce che la nullità del contratto di donazione non può essere fatta valere dagli eredi o aventi causa dal donante che, conoscendo la causa della nullità, abbiano dopo la sua morte confermato la donazione o vi abbiano dato volontaria esecuzione. La dona-

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zione infatti non si converte in un altro negozio; piuttosto determinati soggetti, in virtù del loro comportamento o delle loro dichiarazioni, si precludono l’esercizio dell’azione di nullità. Un particolare caso di nullità del contratto è costituito dal contratto in frode alla legge al quale l’art. 1344 estende la qualificazione di illiceità della causa. In questo caso infatti le parti impiegano un negozio di per sé lecito per eludere l’applicazione di una norma imperativa ed aggirare il divieto. Si è visto così che se la legge vieta il patto commissorio (art. 2744), le parti potrebbero utilizzare il contratto di vendita con patto di riscatto per realizzare esattamente le stesse finalità che la norma sul patto commissorio intende vietare: l’ipotesi, che è giustamente sanzionata sotto il profilo della illiceità della causa, in considerazione del contrasto fra il programma negoziale e la norma imperativa, realizza un abuso contrattuale.

4. La simulazione. Gli effetti tra le parti del contratto simulato e del contratto dissimulato La sanzione della nullità regola anche l’ipotesi della simulazione. Simulare significa fingere ed il contratto simulato è un contratto fittizio che le parti non vogliono. Esse quindi manifestano una volontà diretta a concludere un contratto che, in quanto carente del requisito essenziale della volontà, è nullo e destinato a non produrre alcun effetto (art. 1414, primo comma). Le parti ricorrono alla simulazione allorché hanno interesse a creare una realtà apparente, mentre non vogliono affatto che i loro rapporti siano regolati dal contratto posto in essere. Così, se voglio convincere una persona a concedermi un mutuo, ho interesse a simulare l’acquisto di un immobile di consistente valore, creando così l’illusione di una efficiente garanzia patrimoniale per il mutuante creditore al quale dovrò restituire la somma ricevuta: ma in realtà chi vende rimane proprietario dell’immobile. La nullità, fra le parti, del negozio simulato significa che queste non possono invocarne la validità e l’efficacia per ottenerne l’esecuzione: così il compratore non potrà pretendere di conseguire la disponibilità dell’immobile, né il venditore avrà diritto al corrispettivo. Nel fenomeno della simulazione ricorre sempre una dichiarazione diretta a porre in essere il negozio simulato cui si accompagna una controdichiarazione, che le parti si scambiano, e con la quale assegnano valore fittizio alla dichiarazione privandola degli effetti suoi propri. La controdichiarazione è importante perché consente alla parte interessata di provare l’esistenza della simulazione.

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L’ipotesi descritta va sotto il nome di simulazione assoluta perché le parti pongono in essere un negozio simulato senza volere alcuna modificazione della realtà giuridica. Può avvenire peraltro che le parti non si limitino a togliere effetti al negozio simulato, ma che attraverso la suddetta controdichiarazione esprimano una volontà ulteriore diretta alla realizzazione di un negozio diverso che è realmente voluto (simulazione relativa): tale negozio, vero e reale, altro da quello apparente, si definisce – in contrapposizione a quello simulato – negozio dissimulato (art. 1414, secondo comma). Il contratto dissimulato, in quanto realmente voluto dalle parti, può avere tra di esse gli effetti suoi propri: peraltro la norma richiede che sussistano nel negozio apparente i requisiti di forma e di sostanza propri del negozio dissimulato. Se per es. simulo una vendita, questa, se si accerta l’esistenza di una controdichiarazione diretta a togliere effetti al negozio apparente e a porre in essere una liberalità, può avere il valore di una donazione ma è necessario che ricorrano i requisiti propri di questo contratto, e cioè la forma pubblica (art. 782) e l’intenzione di voler arrecare all’altra parte un beneficio patrimoniale senza ricevere in cambio alcun corrispettivo (art. 769). Ricorre qui un fenomeno analogo alla conversione sostanziale del negozio nullo. La simulazione si fonda su un accordo delle parti che ha i contenuti indicati, c.d. accordo simulatorio, ma il fenomeno è ammissibile anche nei negozi unilaterali che abbiano carattere recettizio, rispetto ai quali è possibile configurare un accordo fra il dichiarante e il destinatario: così l’autore del riconoscimento di debito può simulare con il finto creditore l’esistenza del credito per sottrarre risorse ai reali creditori ovvero, ricorrendone i presupposti, per diminuire la loro garanzia patrimoniale.

5. Gli effetti della simulazione nei confronti dei terzi Più complesso è il quadro degli effetti della simulazione nei confronti dei terzi. La direttiva generale accolta nel codice è nel senso della prevalenza della realtà sull’apparenza. Occorre però tenere presente che non ogni categoria di terzi è interessata ad opporre la simulazione, facendo prevalere la realtà sull’apparenza; in alcune ipotesi i terzi non sono affatto interessati a far dichiarare la simulazione, proprio perché da questa e dalla situazione apparente essi traggono un beneficio. La regola generale è che i terzi possono opporre alle parti la simulazione quando essa pregiudica i loro diritti. Gli aventi causa o i creditori del simulato alienante sono, ad es., terzi pregiudicati dalla simulazione perché il loro diritto può risultare escluso, inopponibile o ridotto per effetto dell’atto di

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alienazione che ha fittiziamente privato l’alienante del bene; per es. l’avente diritto alla prelazione è pregiudicato dal contratto con cui le parti abbiano simulato un prezzo maggiore di quello offerto dal prelazionario stesso. Ma i terzi – come si è accennato – possono avere un interesse opposto. Così i creditori o gli aventi causa dal simulato acquirente non sono affatto interessati a far valere la simulazione perché essi traggono vantaggio dall’apparenza: il negozio simulato ha infatti incrementato il patrimonio del simulato acquirente, sul quale i creditori e gli aventi causa potranno più agevolmente soddisfare i loro crediti o conseguire diritti. I terzi aventi causa dal simulato acquirente (subacquirenti) hanno dunque interesse a far valere la situazione apparente, sulla quale hanno fondato il loro acquisto; la loro posizione è considerata nell’art. 1415 ed è protetta nei limiti del loro affidamento incolpevole. La regola infatti è nel senso che ad essi non può essere opposta la simulazione qualora abbiano acquistato dal titolare apparente, in buona fede ignorando cioè che il loro dante causa non era l’effettivo titolare del diritto in quanto acquirente simulato. Tale regola deve essere corretta se il contratto è relativo a beni immobili: in questo caso il conflitto fra le parti, i creditori e gli aventi causa del simulato alienante da un lato e i subacquirenti dal titolare apparente dall’altro, è risolto in base ai principi della trascrizione e in particolare in base alla priorità temporale della trascrizione della domanda giudiziale di simulazione o della trascrizione dell’acquisto del terzo subacquirente. La regola infatti è nel senso che la sentenza che accoglie tale domanda non pregiudica i diritti acquistati dai terzi di buona fede il cui titolo di acquisito sia stato trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda (art. 1415, secondo comma; art. 2652, n. 4). Il conflitto fra i creditori delle parti del negozio simulato, portatori – come si è visto – di interessi contrapposti, è disciplinato nell’art. 1416, secondo comma, il quale assegna la preferenza ai creditori del simulato alienante rispetto ai creditori del simulato acquirente, soltanto se il loro credito è anteriore all’atto simulato: essi infatti quando concessero il credito fecero affidamento sul patrimonio del simulato alienante comprensivo del bene fittiziamente uscito dal suo patrimonio. Si è detto della importanza della controdichiarazione ai fini della prova della simulazione. Sebbene le prove civili trovino organica previsione e disciplina nel libro VI del codice, il legislatore ha dettato al riguardo una norma specifica nel capo dedicato alla simulazione. Invero, il tema della prova della simulazione è centrale e determinante proprio in ragione della polivalenza del regolamento negoziale e della opportunità di favorire l’emersione della realtà. Ciò spiega perché i terzi, estranei al contratto simulato, possono provare la simulazione senza i limiti fissati dalla norma generale dell’art. 2721; men-

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tre le parti, pur essendo soggette ai predetti limiti, ne sono invece assolte quando la prova sia diretta a far valere la illiceità del contratto dissimulato (art. 1417). Recentemente le Sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione, dirimendo un contrasto insorto da tempo tra le singole Sezioni, hanno escluso che la simulazione del prezzo in una vendita sottoposta a forma scritta ad substantiam possa essere provato con il ricorso alla prova testimoniale. La Corte ha in particolare osservato che la prova per testimoni del prezzo dissimulato di una vendita immobiliare non riguarda un elemento accessorio del contratto, in relazione al quale non opera il divieto di cui all’art. 2722 c.c., ma un elemento essenziale con conseguente applicabilità delle limitazioni in tema di prova previste da tale norma.

6. Annullabilità: generalità L’annullabilità costituisce una sanzione meno grave della nullità e deve essere espressamente prevista dalla legge. Essa è stabilita a tutela di interessi individuali, cosicché non può essere rilevata d’ufficio dal giudice ma può essere fatta valere solo dalla parte interessata, a protezione della quale è posta, e che ha pertanto facoltà di attivare o meno il rimedio. Questa disciplina comporta necessariamente che il negozio annullabile è immediatamente produttivo di effetti e che tale efficacia viene meno solo a seguito della proposizione dell’azione di annullamento ed in conseguenza del suo accoglimento (efficacia provvisoria del negozio annullabile). L’azione è anche prescrittibile proprio perché legata ad un interesse disponibile della parte, che perde il diritto di impugnare il contratto in conseguenza del mancato esercizio dell’azione protratto per il tempo previsto dalla legge (in genere, cinque anni: art. 1442, primo comma); e, per le medesime ragioni, il vizio può essere sanato dalla parte interessata a farlo valere, la quale in tal modo si preclude definitivamente la possibilità di esperire la relativa azione. Si tratta dunque di una disciplina sotto ogni profilo radicalmente opposta a quella della nullità e che rappresenta per il contraente una protezione sicuramente meno intensa, soprattutto perché – come osservato – l’esperimento dell’azione di annullamento è rimesso alla iniziativa della parte lesa che, per svariate ragioni, potrebbe non proporla perdendo così definitivamente la facoltà di esercitarla. La tutela offerta dalla sanzione della nullità è invece senz’altro più intensa, ma in certi casi può non essere cionondimeno la più adeguata, in considerazione della circostanza che essa, ponendo nel nulla il vincolo contrattua-

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le, travolge altresì le aspettative della parte tutelata che aveva fatto affidamento sulla validità del contratto, e può giovare alla stessa parte che ha dato causa alla nullità. È questa la ragione per la quale recenti interventi legislativi in materia di tutela dei consumatori hanno in parte modificato la relativa disciplina; ed è questa anche la ragione per la quale è parso opportuno che la cura di determinati interessi sia regolata da rimedi più elastici, come la stessa azione di annullamento, che lascino ampi margini alla valutazione dell’interessato in ordine al se, ai tempi e ai modi della tutela. Sono cause di annullamento del contratto l’incapacità del contraente, i vizi della volontà ed altre ipotesi disciplinate specificamente da alcune norme. In linea generale l’annullabilità si ricollega alla tutela della volontà offrendo un rimedio in tutte le ipotesi in cui la libertà della manifestazione risulti condizionata. Ciò si riscontra in particolare con riferimento alla incapacità e ai vizi della volontà, ma la tutela della volontà è anche alla base della sanzione che colpisce i contratti di straordinaria amministrazione relativi a beni immobili posti in essere da un coniuge in regime di comunione legale, senza il consenso dell’altro (art. 184); o dell’annullamento del contratto di assicurazione in ragione delle consapevoli e determinanti reticenze dell’assicurato nei confronti dell’assicuratore (art. 1892). Diverso appare il fondamento della sanzione in altre ipotesi in cui pure la legge riconosce l’annullabilità del contratto: così per alcuni divieti di comprare stabiliti a carico degli amministratori legali di beni altrui, rispetto ai beni medesimi, o dei mandatari rispetto ai beni che sono stati incaricati di vendere (art. 1471, nn. 3, 4); ovvero per il contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi (art. 1394) o con se stesso (art. 1395), ipotesi nelle quali la ratio va piuttosto individuata nella tutela degli interessi di determinati soggetti pregiudicati dal compimento dell’atto viziato. L’incidenza peraltro della incapacità e dei c.d. vizi della volontà (errore, dolo e violenza) sulla volontà contrattuale, non è ontologicamente diversa da quella che conduce alla nullità del negozio per mancanza di volontà (art. 1325). Le due sanzioni, nullità e annullabilità, non sono in relazione alla graduazione dell’anomalia della volontà, che può consistere tanto nella mancanza assoluta di tale requisito quanto in una maggiore o minore presenza di esso. La sanzione della nullità è da porre in relazione – come prima accennato – a previsioni inderogabili dell’ordinamento o alla violazione di principi fondamentali, mentre l’annullamento per deficienza della volontà è stabilito in funzione dell’interesse del soggetto, la cui volontà potrebbe anche mancare del tutto e che cionondimeno potrebbe avere interesse alla conservazione dell’atto.

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Fatte queste premesse passiamo ad esaminare le singole ipotesi di annullamento del contratto.

SEZIONE II: L’ANNULLABILITÀ 7. L’incapacità delle parti È annullabile il contratto concluso dall’incapace legale (art. 1425, primo comma) e, in particolare, dal minore di età e dall’interdetto. Quanto al minore emancipato e all’inabilitato, potendo questi compiere da soli gli atti di ordinaria amministrazione, l’annullamento concerne solo gli atti di straordinaria amministrazione per i quali tali soggetti necessitano della assistenza del curatore. È annullabile anche il contratto concluso dall’incapace naturale (art. 1425, secondo comma) cioè da persona che, quantunque legalmente capace, sia stato incapace di intendere e di volere al momento dell’atto (art. 428). Mentre l’atto unilaterale posto in essere dall’incapace naturale può essere annullato sulla base del grave pregiudizio che l’incapace stesso abbia risentito, per l’annullamento dei contratti è necessario altresì che il terzo sia in mala fede, ovverosia fosse in grado di avvedersi, in base a tutti gli elementi risultanti dal contratto ovvero in ragione del pregiudizio derivato all’incapace, dello stato di incapacità. Abbiamo già ricordato (v. p. 181) che sono annullabili gli atti compiuti dal beneficiario o dall’amministratore di sostegno in violazione di norme di legge o delle disposizioni del giudice (art. 412 come novellato dall’art. 3, legge 9 gennaio 2004, n. 6).

8. L’errore L’errore consiste in una falsa rappresentazione della realtà in base alla quale un soggetto si determina alla conclusione di un contratto che altrimenti non avrebbe concluso (ad es. acquisto un mobile di antiquariato ritenendo che sia autentico, mentre si tratta di una riproduzione). Il soggetto che è incorso in errore ha interesse ad annullare il contratto: perché questo risultato possa essere raggiunto, perché cioè l’errore possa essere rilevante al fine di poter ottenere l’annullamento, è necessario che esso sia essenziale e riconoscibile (art. 1428).

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L’errore è essenziale (art. 1429) quando cade sulla natura o sull’oggetto del contratto (compro un bene che invece voglio solo in comodato); ovvero sulla identità dell’oggetto della prestazione o su alcune qualità che siano determinanti del consenso (acquisto un personal computer ritenendo che abbia caratteristiche di memoria e di elaborazione superiori a quelle effettive); ovvero sulla identità o sulle qualità della persona che siano state determinanti del consenso (conferisco mandato ad un professionista ritenendo erroneamente che possa difendermi davanti al Tribunale ecclesiastico o agli organi di giustizia comunitaria); ovvero ancora sulla esistenza o sul contenuto di una norma giuridica (errore di diritto) purché sia stata la ragione unica o principale del contratto (ad es. loco un appartamento per esercitarvi un’attività professionale ed ignoro che l’immobile ha destinazione urbanistica ad uso abitativo e che inoltre il regolamento di condominio contiene un espresso divieto di adibire l’immobile all’uso convenuto). È evidente che l’errore di diritto non riguarda e non può riguardare l’ignoranza di una norma, che non può certo essere addotta come pretesto per sottrarsi alla sua osservanza, ma concerne l’erronea valutazione di una situazione giuridica che, se fosse stata nota, avrebbe dissuaso la parte dal concludere il contratto. L’errore sul prezzo della prestazione o sul valore non costituisce errore essenziale a meno che non si traduca in un errore sulla qualità essenziale della cosa; altrimenti, come vedremo, può dar luogo ricorrendone i presupposti all’azione di rescissione per lesione. L’errore sui motivi è certamente un errore non essenziale al quale – come abbiamo già detto – in alcuni casi la legge riconosce rilevanza (v. p. 164). L’errore deve essere inoltre riconoscibile: tale requisito costituisce una innovazione del codice civile vigente ed accresce la tutela dell’affidamento che l’altro contraente abbia riposto sulla validità del contratto. L’errore è riconoscibile quando l’altra parte avrebbe potuto rilevarlo con l’impiego della normale diligenza (art. 1431). Non importa dunque che il soggetto l’abbia in concreto riconosciuto; ma se è stato rilevato giustifica comunque l’annullamento del contratto e non ha rilievo la circostanza che il riconoscimento sia dovuto ad una eccezionale capacità percettiva della parte. L’impugnazione del contratto è preclusa al contraente che sia incorso in errore e che non abbia ancora risentito alcun pregiudizio, se l’altra parte offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalità del contratto che la parte pregiudicata dall’errore intendeva concludere: l’ipotesi, disciplinata dall’art. 1432 (mantenimento del contratto rettificato), costituisce una ulteriore applicazione del principio di conservazione del contratto.

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9. Il dolo Il dolo consiste in un inganno, cioè in un artifizio o raggiro posto in essere da una parte per indurre l’altra a concludere il contratto. Perché possa essere invocato ai fini dell’annullamento dal soggetto che è stato vittima dell’azione dolosa, occorre che i raggiri siano stati tali che, senza di essi, la parte non avrebbe contrattato. Occorre cioè che un soggetto abbia maliziosamente e capziosamente carpito il consenso e che tale inganno sia stato determinante della volontà (art. 1439, primo comma). Esula dall’ambito di applicazione della norma il c.d. dolus bonus e cioè la pratica diffusa nel commercio di enfatizzare i propri prodotti. Deve essere però osservato che la rilevanza del dolus bonus, frutto di una società forse permissiva o eccessivamente liberale, può considerarsi oggi assai ridotta per effetto di una tendenza normativa diretta a promuovere il massimo grado di trasparenza nelle contrattazioni e la lealtà del messaggio pubblicitario, attivando meccanismi sempre più rigorosi di controllo della conformità dei beni consegnati rispetto a quelli offerti (ad es. art. 130 del Codice del consumo in materia di vendita di beni di consumo; art. 22 del Codice del consumo in materia di pubblicità ingannevole e comparativa). Qualora i raggiri non siano stati tali da determinare il consenso, cosicché il contraente ingannato avrebbe egualmente concluso il contratto seppure a condizioni diverse, il contratto è valido ma il contraente in mala fede (e cioè l’autore del dolo) risponde dei danni sofferti dall’altro contraente (dolo incidente) (art. 1440). Il dolo è causa di annullamento anche quando i raggiri sono stati usati da un terzo purché questi erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio (art. 1439, secondo comma). Per l’annullamento è dunque necessaria la duplice condizione della conoscenza dell’azione dolosa e del conseguimento di un vantaggio da parte del contraente, anche se non occorre la complicità con l’autore del dolo al quale, per effetto della conclusione del contratto, derivano comunque effetti giuridici favorevoli.

10. La violenza Il contratto è altresì annullabile allorché la volontà del contraente sia viziata da violenza. La violenza consiste nella minaccia di un male ingiusto e notevole, che una parte esercita sull’altro contraente, ponendolo nell’alternativa di resistere alla pressione psicologica o di cedervi e stipulare il contratto, cosicché la sua volontà ne risulta chiaramente alterata.

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Tale violenza si dice morale o psichica per distinguerla da quella fisica che, costringendo materialmente il soggetto al compimento dell’atto, esprime un grado di antigiuridicità più elevato e determina la nullità del contratto. La violenza deve presentare alcuni requisiti. Deve innanzitutto consistere in una minaccia seria, idonea a condizionare il comportamento e la determinazione di una persona dotata di senno e ragione; il male minacciato deve riguardare la sua persona o i suoi beni e – come accennato – deve essere ingiusto e di notevole gravità. Per valutare l’idoneità condizionante del male rappresentato e il requisito dell’ingiustizia, la norma impone di fare riferimento all’età, al sesso e alla condizione delle persone, essendo evidente che la medesima minaccia può avere impatto diverso a seconda delle indicate caratteristiche personali (art. 1435). La violenza è rilevante anche se esercitata da un terzo ma in questo caso – a differenza di quanto è stabilito con riguardo al dolo – è sempre causa di annullamento del contratto, in considerazione del maggiore grado di antigiuridicità che questa esprime rispetto agli altri vizi della volontà (art. 1434). Inoltre la violenza è causa di annullamento del contratto anche quando il male minacciato riguarda la persona del coniuge, del discendente o dell’ascendente del contraente o i loro beni (art. 1436, primo comma). Se però il male minacciato investe altre persone non può escludersi l’efficienza della minaccia. Se infatti il male prospettato riguarda la persona del convivente o persona amica del minacciato, l’annullamento del contratto è rimesso alla prudente valutazione da parte del giudice di tutte le circostanze del caso (art. 1436, secondo comma). Anche la minaccia di far valere un diritto è causa di annullamento, allorché sia diretta a conseguire vantaggi ingiusti (art. 1438). La minaccia di realizzare un proprio diritto è infatti, di per sé, giustificata: così non è certamente ingiusta la minaccia diretta ad ottenere la conclusione di un contratto attinente alla soddisfazione del diritto (per es. minacciare il fallimento per ottenere una transazione di parziale pagamento del credito). Il vantaggio è invece ingiusto quando, attraverso il contratto, il contraente mira ad ottenere vantaggi iniqui e sproporzionati rispetto al diritto: è ad esempio annullabile il contratto di donazione fra coniugi stipulato dietro minaccia di chiedere la separazione con addebito. Il timore riverenziale non è causa di annullamento del contratto (art. 1437); si tratta infatti di uno stato di soggezione psicologica che induce a concludere un contratto, che da un lato preesiste al negozio e dall’altro costituisce un processo psichico interno al soggetto.

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11. Altri casi di annullabilità del contratto Abbiamo già accennato all’annullamento del contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi col rappresentato (v. p. 186). Dobbiamo ora sciogliere la riserva formulata quando abbiamo illustrato l’istituto della rappresentanza, in ordine alla rilevanza della capacità, dei vizi della volontà e degli stati soggettivi delle parti nel negozio rappresentativo (v. anche sul tema, in questa collana, M. NUZZO, Introduzione alle scienze giuridiche, Cap. Quarto, Sez. Quarta, p. 235 ss., 1a serie). Poiché gli effetti giuridici dell’atto nella rappresentanza diretta si verificano in capo al rappresentato, costui deve avere la capacità di porre in essere il contratto, cioè la capacità di agire; mentre il rappresentante che manifesta una volontà propria, ma destinata a produrre effetti nell’altrui sfera, è sufficiente che sia in possesso della capacità naturale (art. 1389). Quanto alla rilevanza dei vizi della volontà occorre fare riferimento non alla imputazione degli effetti prodotti dal negozio, ma alla circostanza che il rappresentante, come osservato, esprime una volontà propria che costituisce un requisito essenziale del contratto dallo stesso posto in essere; cosicché il vizio della volontà, in quanto determina una anomalia nel procedimento di formazione del convincimento, non può che riferirsi al rappresentante (art. 1390). Per la stessa ragione, in relazione agli stati soggettivi di buona fede e di mala fede, e alle condizioni di conoscenza o di ignoranza di altre circostanze rilevanti, si ha riguardo alla persona del rappresentante, salvo che si tratti di elementi predeterminati dal rappresentato (art. 1391, primo comma). In ogni caso il rappresentato che sia in mala fede non può mai giovarsi dello stato di ignoranza o di buona fede del rappresentante (art. 1391, secondo comma).

12. L’azione di annullamento. Gli effetti dell’annullamento nei confronti dei terzi Quanto alle caratteristiche dell’azione di annullamento si è in parte già detto. Dobbiamo ora aggiungere qualche considerazione: poiché infatti il negozio annullabile è immediatamente anche se provvisoriamente efficace, l’azione e la relativa sentenza hanno carattere costitutivo, modificano cioè la realtà privando il contratto della sua originaria efficacia. La pronuncia di annullamento, al pari della dichiarazione di nullità, ha effetti retroattivi. Il termine quinquennale di prescrizione decorre dalla conclusione del contratto; ma se l’annullabilità dipende da vizio del consenso o da incapacità legale, il termine decorre – rispettivamente – dal giorno in cui è cessata la violenza o è stato scoperto

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l’errore o il dolo, o è cessato lo stato di interdizione o di inabilitazione, ovvero il minore ha raggiunto la maggiore età (art. 1442, secondo comma); ovvero dal momento in cui è cessato lo stato di sottoposizione all’amministrazione di sostegno (art. 412, terzo comma, come riformulato dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6). Anche se è prescritta l’azione per far valere l’annullamento, la parte convenuta per l’esecuzione del contratto può sempre opporre l’annullabilità in via di eccezione (art. 1442, terzo comma). La pronuncia di annullamento ha, con riguardo alle prestazioni contrattuali, le stesse conseguenze proprie della pronuncia di nullità. Essa infatti importa l’obbligo di restituire le prestazioni già eseguite. Tale conseguenza è estesa anche alla risoluzione, ed è in genere comune a tutte le ipotesi di caducazione contrattuale, regolate in via di principio dalle norme sulla ripetizione dell’indebito. Peraltro se il contratto è annullato per incapacità di uno dei contraenti questi è tenuto alla restituzione della prestazione ricevuta soltanto nei limiti in cui l’abbia in concreto conseguita e si sia pertanto risolta a suo vantaggio (art. 1443): la norma costituisce una ulteriore applicazione del favor per l’incapace, di cui si è già detto a proposito del pagamento fatto al creditore incapace (art. 1190). La rilevata efficacia retroattiva della pronuncia di annullamento può pregiudicare i diritti che i terzi abbiano acquistato dal contraente il cui titolo di acquisto è stato annullato. L’art. 1445 fa salvi i diritti di tali terzi (subacquirenti) a condizione che questi abbiano acquistato a titolo oneroso e siano in buona fede, ignorino cioè il vizio che inficiava il contratto del loro dante causa, e sancisce l’inopponibilità a tali terzi della pronuncia di annullamento. La norma, salvaguardando i terzi subacquirenti che abbiano acquistato in buona fede e a titolo oneroso, si pone in una situazione intermedia fra quelle regole che risolvono analogo conflitto rispetto ad altre pronunce caducatorie e che importano, a volte il sacrificio di tutti i terzi (nullità), altre, in linea di massima, la loro incondizionata salvezza (risoluzione: art. 1458). L’esigenza di tutela dell’incapace ha indotto peraltro il legislatore a consentire l’opponibilità dell’annullamento per incapacità legale a tutti i terzi indiscriminatamente. Se il contratto annullato riguarda beni immobili, il conflitto fra le parti del negozio annullato e il terzo subacquirente è regolato dai principi della trascrizione (art. 2652, n. 6). Occorre premettere che i terzi non possono opporre il loro acquisto se il contratto è stato trascritto successivamente alla trascrizione della domanda. Se la trascrizione del loro acquisto è anteriore alla trascrizione della domanda sono tutelati se in buona fede e se hanno acquistato a titolo oneroso. La norma, in particolare, detta una regola (estesa anche alle pronunce dirette a far valere la nullità) diretta a tutelate gli acquisti dei terzi

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in buona fede nel caso in cui la domanda giudiziale di annullamento sia stata tardivamente trascritta. Pertanto se tale domanda è trascritta dopo cinque anni dalla data di trascrizione del contratto annullabile, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo (anche gratuito) dai terzi di buona fede in base ad un atto trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda. Tale regola di protezione dei terzi non trova però applicazione se l’annullamento dipende da incapacità legale, prevalendo in questo caso le ragioni di tutela dell’incapace.

13. La sanatoria del negozio annullabile. La convalida Al contrario del contratto nullo il cui vizio non è sanabile, il contratto annullabile può essere sanato attraverso la convalida. La convalida espressa consiste in una dichiarazione negoziale scritta, di natura non recettizia, con la quale il contraente che è legittimato a chiedere l’annullamento, dopo aver fatto menzione del contratto e del motivo di annullamento, dichiara di volerlo convalidare (art. 1444, primo comma). La convalida richiede che colui che la esegue sia in condizioni di concludere validamente il contratto (e dunque siano cessate o scoperte le cause che avevano viziato la volontà: art. 1444, terzo comma) ed ha valore confermativo del contratto e conseguentemente preclusivo dell’esperimento dell’azione di annullamento. La convalida può essere manifestata anche tacitamente, se il contraente cui spetta l’azione abbia dato volontaria esecuzione al contratto conoscendo il motivo di annullabilità (art. 1444, secondo comma): se, per es., accetto egualmente la prestazione sebbene abbia scoperto l’errore in cui sono incorso. Il comportamento del soggetto ha in questo caso un significato c.d. concludente, incompatibile con la volontà di impugnare l’atto, dal quale si ricava l’intento di convalidare, valutato in base al suo significato socialmente apprezzabile.

SEZIONE III: L’INEFFICACIA 14. L’inefficacia assoluta e relativa Spesso nel linguaggio degli autori e talora anche in quello legislativo, oltre che nel lessico corrente della giurisprudenza, si impiega il termine inefficacia

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per indicare la mancanza o il venir meno degli effetti del negozio. Il concetto è assai vasto e designa una serie articolata di situazioni che non consentono una precisa configurazione di principio. La nullità indica una inefficacia assoluta e coeva al sorgere del contratto, mentre l’annullabilità si riferisce ad una inefficacia eventuale e successiva all’esperimento dell’azione di annullamento. Un contratto ancorché valido può essere inefficace se è ad esso apposta una condizione sospensiva o un termine. A volte la inefficacia esprime una condizione non riconducibile ad altre patologie contrattuali: l’acquisto a non domino non è né nullo né annullabile ma inefficace e nella ricorrenza dei presupposti esaminati può avere esito in un valido acquisto del diritto; il contratto concluso dal falsus procurator è, con tutta probabilità, inefficace. A volte la inefficacia è sinonimo di nullità: così quando l’art. 1414 stabilisce che il contratto simulato non produce effetti tra le parti. Il contratto stipulato dal debitore in frode al creditore è valido ma inefficace nei confronti del solo creditore (art. 2902). Le clausole vessatorie inserite in condizioni generali di contratto sono inefficaci se non approvate con le prescritte formalità (art. 1341) ma si tratta di una inefficacia che ha il significato di nullità. E gli esempi potrebbero continuare e mostrerebbero una notevole poliedricità di situazioni il cui comune denominatore può essere indicato nella improduttività di effetti, spesso senza che la norma indichi la fonte di tale inefficacia. Il termine inefficacia consente indubbiamente una «amministrazione» elastica della sanzione, non necessariamente discendente dalla contrarietà del contratto alle prescrizioni legali (invalidità), bensì collegata spesso ad esigenze differenziate, talora connesse alla tutela della parte protetta dalla suddetta sanzione. Dunque, per la concreta qualificazione della inefficacia occorre guardare agli interessi oggetto della tutela.

15. L’azione di rescissione: generalità A fondamento delle due forme di rescissione del contratto, poste a tutela dell’abusivo sfruttamento da parte di uno dei contraenti dello stato di pericolo o dello stato di bisogno in cui l’altro si trova, vi sono due corrispondenti ed analoghe cause: l’iniquità delle condizioni contrattuali e la sproporzione delle prestazioni. Entrambe queste vicende sono prese in considerazione nel momento della conclusione del contratto. Entrambe denunciano l’esistenza, coeva al sorgere del vincolo contrattuale, di uno squilibrio economico originario tra le prestazioni. Ora, in linea generale, tale squilibrio non ha alcuna

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rilevanza per l’ordinamento che si accontenta che il contratto sia espressione di un consenso valido e che il corrispettivo sia il risultato di un giudizio di convenienza sull’operazione economica riservato alle parti. L’intervento del legislatore diretto alla correzione di tale squilibrio si giustifica invece allorché questo sia il risultato di una alterazione del processo di formazione della volontà dei contraenti, turbato dalla ricorrenza di fatti obiettivi (lo stato di pericolo e lo stato di bisogno). Cosicché la rescissione del contratto viene considerata una forma particolare di invalidità contrattuale a tutela della integrità del consenso. La disciplina normativa si articola in due ipotesi: la rescissione del contratto concluso in stato di pericolo e la rescissione del contratto concluso in stato di bisogno.

16. Il contratto concluso in stato di pericolo Lo stato di pericolo ricorre quando una parte abbia assunto un’obbligazione per la necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un grave danno alla persona. Il requisito della attualità ricorre anche se il pericolo sia futuro o solo temuto, purché sia immanente, ed il danno alla persona concerne non solo l’integrità fisica ma anche i diritti personali, come la reputazione. Se lo stato di pericolo era noto alla controparte e il contratto è stato concluso a condizioni inique, cosicché le prestazioni risultino sproporzionate, la parte che ha assunto l’obbligazione può chiedere la rescissione del contratto (art. 1447, primo comma). Ad es., in seguito ad un incidente stradale l’amico trasportato subisce un grave danno alla salute ed io accetto la proposta di un avventore che si offre di condurlo al più vicino ospedale ad un costo esorbitante. Se la parte nei confronti della quale può essere domandata la rescissione ha tuttavia effettuato la prestazione il giudice può assegnare un equo compenso per l’opera da questi prestata (art. 1447, secondo comma).

17. Il contratto concluso in stato di bisogno. Norme comuni di disciplina Si ha lo stato di bisogno quando la parte che assume l’obbligazione si trova in una seria difficoltà economica o finanziaria e l’altro contraente, consapevole di tale difficoltà, ne approfitti per trarne un vantaggio. In questo

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caso se vi è una sproporzione delle prestazioni che sia conseguenza del predetto stato di bisogno e se si tratta di una sproporzione qualificata, il contraente danneggiato può domandare la rescissione del contratto (art. 1448, primo comma). Ad es. l’imprenditore commerciale che sia sull’orlo del fallimento, pressato dai creditori, si risolve a vendere un immobile a prezzo irrisorio pur di conseguire liquidità. La lesione deve essere particolarmente elevata. Si richiede cioè che il valore della prestazione offerta dalla parte danneggiata sia superiore al doppio del valore della controprestazione (art. 1448, secondo comma). Nell’esempio fatto l’imprenditore aliena l’immobile a 40.000 euro mentre il suo valore è superiore a 100.000 euro. L’approfittamento dello stato di bisogno non richiede né la volontà di arrecare danno né l’impiego di raggiri, essendo sufficiente la circostanza oggettiva che la parte abbia tratto vantaggio dallo stato di bisogno che ha dato luogo alla sproporzione delle prestazioni. La rescissione per lesione è esclusa rispetto ai contratti aleatori (art. 1448, quarto comma): la norma si spiega considerando che anche la indicata sproporzione rientra nell’alea di tali contratti, caratterizzati da una assoluta incertezza del valore delle relative prestazioni. Va da sé che se la sproporzione esiste già al momento della conclusione del contratto e non è quindi da porre in relazione con l’alea, anche tali contratti restano soggetti all’azione di rescissione. Gli artt. da 1449 a 1452 si applicano ad entrambe le azioni. La rescissione si fonda su una iniquità contrattuale, sia pure dipesa da un grave vizio della volontà determinato dallo stato di pericolo o da quello di bisogno; pertanto il contraente contro il quale è domandata la rescissione può evitarla offrendo una modificazione del contratto idonea a ricondurlo ad equità (art. 1450). Si tratta di un potere di rettifica, analogo a quello previsto in tema di contratto annullabile, che può essere esercitato anche al di fuori di un processo e che tende a raggiungere una proporzione delle prestazioni, senza doverle rendere necessariamente equivalenti ma conformandole ad un valore equo di scambio, coerente con tutte le altre specifiche condizioni contrattuali. Il contratto rescindibile non può essere convalidato (art. 1451): la disposizione risponde ad esigenze di tutela della parte danneggiata e tende ad impedire che la stessa, quantunque cessate le condizioni che hanno dato luogo alla rescindibilità del contratto, possa determinarsi sotto l’influenza di possibili abusi. Al contrario della pronuncia di annullamento quella di rescissione non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, indipendentemente dal titolo del loro acquisito ed anche se l’acquirente era a conoscenza che il contratto era stato

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concluso in stato di pericolo o di bisogno (art. 1452); in tal caso la parte danneggiata potrà fare ricorso all’azione di arricchimento. Se si tratta di beni immobili l’acquisto del terzo da uno dei contraenti del contratto rescisso è fatto salvo a condizione che sia stato trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda di rescissione (art. 2652, n. 1). L’azione si prescrive in un anno dalla conclusione del contratto e, a differenza di quanto è disposto con riguardo all’azione di annullamento, la rescindibilità non può essere fatta valere in via di eccezione dalla parte convenuta, quando la relativa azione sia prescritta (art. 1449).

18. Stato di bisogno e usura L’approfittamento dello stato di bisogno può consistere anche in un finanziamento concesso a tassi di interesse usurari. Se il contratto rescindibile appartiene al tipo del mutuo la disciplina della rescissione interferisce con la normativa che regola gli interessi usurari in questo tipo di contratto (art. 1815, secondo comma) che – come si è già osservato – commina la nullità della clausola che preveda interessi usurari e stabilisce che in tal caso gli interessi non sono affatto dovuti, cosicché quelli eventualmente corrisposti devono essere restituiti al mutuatario. La legge che ha novellato l’art. 1815 (legge 7 marzo 1996, n. 108) ha anche modificato la disciplina penale dell’usura, la cui fattispecie risulta più ampia di quella consistente nella lesione. Il reato di usura ricorre infatti quando un soggetto, approfittando dello stato di bisogno dell’altro, si fa dare o promettere per sé o per altri, interessi o vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di danaro o di altra utilità; la norma specifica inoltre che sono usurari anche quegli interessi che, sebbene inferiori rispetto al limite stabilito nella legge stessa (v. p. 21) «risultino comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di danaro o di altra utilità, ovvero all’opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trovi in condizioni di difficoltà economica o finanziaria». È necessario quindi un coordinamento fra il contratto rescindibile in ragione del carattere usurario di una delle prestazioni, il mutuo usurario, e la fattispecie penale dell’usura come risulta dalla attuale formulazione dell’art. 644 c.p. In linea generale può osservarsi che la configurazione come reato della fattispecie non ne muta la disciplina privatistica; e che sul piano civilistico la disciplina della rescissione non solo convive con quella relativa ai mutui usurari, ma sopravvive alla disciplina penale. Sarà certo più radicale la soluzione offerta dall’art. 1815 che prevede la nullità della clausola e l’azzeramento degli interessi, piuttosto che la rescissione e le connesse possibilità di riequili-

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brare il contratto; e se la fattispecie può essere ricondotta al mutuo, sarà destinata a prevalere la disciplina della nullità che è applicabile d’ufficio dal giudice. Piuttosto, vista la indicata latitudine della fattispecie penalistica, ci si domanda quale sia la disciplina dei contratti, diversi dal mutuo, che integrano gli estremi del reato di usura. È dubbio se il contratto debba ritenersi nullo per contrarietà a norme imperative, e sia quindi sottratto alla disciplina civilistica dell’usura; ovvero se sia soggetto alla stessa disciplina di cui all’art. 1815, secondo comma, applicabile in via di analogia. La rescissione dovrebbe comunque continuare ad applicarsi, anche se la fattispecie abbia rilevanza penale ed in questo caso all’azione di rescissione si applicherebbe il termine di prescrizione previsto per il reato (art. 1449, primo comma). Occorre anche considerare che la stessa disciplina del mutuo usurario e la drastica conseguenza dell’azzeramento degli interessi deve essere applicata secondo buona fede: non può infatti escludersi che l’azione sia proposta dallo stesso soggetto tutelato dalla norma il quale abbia scientemente accettato interessi illegali per poter godere dei vantaggi derivanti dalla dichiarazione di nullità. In questo caso saremmo in presenza di un abuso contrattuale che certamente non potrebbe ricevere tutela da parte dell’ordinamento e si aprirebbe uno spazio applicativo per l’azione di rescissione. L’esperibilità del rimedio rescissorio ed il conseguente esercizio del potere di rettifica potrebbero presentare il vantaggio di eliminare l’abuso, non solo consentendo la conservazione del contratto ma «restaurando» una proporzione delle prestazioni che la norma sul mutuo usurario, azzerando gli interessi, non consente.

19. Forme (ulteriori) di controllo dell’equilibrio economico del contratto Si è detto in precedenza che lo squilibrio economico originario del contratto acquista rilievo solo nella ricorrenza delle condizioni che legittimano l’azione di rescissione; le parti sono infatti libere di concludere il contratto a condizioni anche estremamente svantaggiose per una di esse trattandosi di materia rimessa all’autonomia privata. Occorre però dare atto di una tendenza volta a promuovere il controllo del c.d. equilibrio economico del contratto, adottando soluzioni normative che eliminano detto squilibrio o prevedendo poteri di intervento giudiziale volti a ricondurre ad equità le condizioni economiche dell’affare regolato nel contratto stesso.

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Un primo argomento può trarsi proprio dalla fattispecie del reato di usura di cui all’art. 644 c.p. nel testo novellato dall’art. 1, legge 7 marzo 1996, n. 108, che – come si è poco fa accennato – ha accolto una nozione di interessi usurari assai ampia. Si tratta all’evidenza di un criterio così esteso e variabile da consentire un vero e proprio controllo sulla «giustizia» delle prestazioni, sia pure attraverso la nullità della clausola e l’azzeramento degli interessi (art. 1815, secondo comma), ovvero attraverso la sanzione di nullità dell’intero contratto. Inoltre – come vedremo – non è affatto scontato che l’accertamento della vessatorietà della clausola inserita nel contratto dei consumatori sia del tutto indipendente dall’adeguatezza del corrispettivo, e sia quindi estraneo al profilo del controllo dell’equilibrio economico del contratto. Ed invero non solo anche lo squilibrio normativo, posto a fondamento del giudizio di vessatorietà (art. 33 del Codice del consumo), può essere «apprezzato» da un punto di vista economico, ma la stessa nozione di adeguatezza del corrispettivo cessa di essere impermeabile alla valutazione di vessatorietà quando il corrispettivo stesso non sia individuato in modo chiaro e comprensibile (art. 34, secondo comma). Mentre costituisce opinione largamente condivisa che la recente legge sulla subfornitura prevede vere e proprie forme di controllo della giustizia delle prestazioni e dello scambio. L’abuso di dipendenza economica di un’impresa da parte dell’altra, vietato dall’art. 9, n. 1, legge 18 giugno 1998, n. 192, si realizza attraverso un contratto caratterizzato da un «eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi» che è sanzionato con la nullità (art. 9, n. 3, legge citata); inoltre l’art. 6, n. 3 della stessa legge commina la nullità del patto con il quale il subfornitore disponga dei diritti di privativa industriale o intellettuale a favore del committente senza congruo corrispettivo. Va inoltre tenuto presente che l’area di rilevanza della c.d. presupposizione (v. p. 164) non riguarda soltanto la c.d. sopravvenienza e cioè il mutamento delle circostanze inespresse ma condivise al momento della conclusione del contratto, ma anche le circostanze presenti o già definite in tale momento il mancato realizzarsi delle quali può frustrare le aspettative dei contraenti; e che secondo una opinione largamente diffusa anche la presupposizione rappresenta uno strumento di controllo dell’equilibrio economico delle prestazioni contrattuali. Abbiamo inoltre già ricordato i criteri che secondo il legislatore indicano l’iniquità dell’accordo sul pagamento nelle transazioni commerciali regolate dal d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, tra i quali è fortemente significativo quello che consiste nel procurare al debitore liquidità aggiuntiva a spese del creditore.

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Da ultimo, l’art. 4:109 dei Principi di diritto europeo dei contratti (Principles of European Contract Law-PECL) elaborati dalla Commissione per il diritto europeo dei contratti, che non costituiscono un testo normativo ma sono applicabili soltanto in quanto richiamati dalle parti nelle loro convenzioni, stabilisce l’annullabilità del contratto se una parte, approfittando dello stato di dipendenza economica o di bisogno dell’altra, o abusando della sua fiducia, o della sua sprovvedutezza, tragga dal contratto un vantaggio iniquo o un ingiusto profitto. La norma riconosce al giudice un potere di modificare il contratto in modo conforme a quanto avrebbe potuto essere convenuto se fossero state rispettate la buona fede e la correttezza; e tale potere il giudice può esercitare sia ad istanza della parte legittimata all’annullamento che dietro richiesta di quella cui sia stata inviata la comunicazione di annullamento.

20. La risoluzione del contratto: generalità Le cause di caducazione finora esaminate sono coeve alla nascita del contratto, riguardano il profilo strutturale e dunque possono essere collocate nella fase genetica del vincolo contrattuale. La risoluzione è invece un rimedio ad alcune patologie di contratti che si manifestano successivamente alla conclusione ed investono, compromettendola, la funzionalità del contratto stesso. L’azione di risoluzione concerne, al pari della rescissione, i c.d. contratti a prestazioni corrispettive in cui le prestazioni delle parti sono fra loro collegate da un nesso di reciprocità (sinallagma) e trovano giustificazione l’una in funzione dell’altra. Ora, prima che il contratto sia eseguito, e dunque durante la vita del contratto stesso, si possono verificare alcune vicende che alterano il predetto sinallagma. Si dice che la risoluzione si ricollega ad una disfunzione della causa, che verrebbe meno nel corso del rapporto, ma in realtà questo elemento si lascia apprezzare, sul piano patologico, in termini di inesistenza o di illiceità; piuttosto, in tutte le vicende che danno luogo a risoluzione vi è semplicemente un problema che involge la prestazione di una delle parti, che di volta in volta resta inadempiuta, o diventa impossibile o eccessivamente onerosa.

21. I rimedi alternativi alla risoluzione per inadempimento: in particolare la clausola penale e la caparra confirmatoria. La caparra penitenziale. La manutenzione del contratto Una causa perturbatrice del sinallagma è l’inadempimento.

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Qualora una parte sia inadempiente, l’altra ha una serie di opzioni. Può ad es. rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione se l’altra non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria (a meno che l’inerzia della parte non ancora adempiente si possa giustificare in relazione alla volontà delle parti o alla natura del contratto) (eccezione di inadempimento: art. 1460). In tal modo il contraente, opponendo il suo legittimo rifiuto di adempiere esercita una pressione sulla controparte stimolandola ad adempiere, e tende a recuperare la funzionalità del contratto. Abbiamo già ricordato, illustrando la tutela anticipata del credito, la facoltà riconosciuta ad uno dei contraenti di sospendere la esecuzione della prestazione dovuta se, rispetto al tempo in cui è sorta l’obbligazione, si sono verificati mutamenti tali nelle condizioni patrimoniali della controparte da porre in evidente pericolo il conseguimento della controprestazione (art. 1461). Tanto l’eccezione di inadempimento quanto la sospensione della esecuzione della prestazione, costituiscono casi eccezionali di autotutela privata perché legittimano comportamenti che altrimenti costituirebbero essi stessi inadempimento. Le parti possono anche limitare con apposita pattuizione la possibilità di opporre eccezioni al fine di evitare o ritardare la prestazione dovuta: ma si tratta di clausola (solve et repete: art. 1462) guardata con molto sospetto e sfavore da parte del legislatore. Infatti tale clausola non ha effetto per le eccezioni di nullità, annullabilità e rescissione, ed anche quando sia efficace il giudice può sospendere la condanna per gravi motivi. Essa ha natura vessatoria ed è soggetta al regime previsto dall’art. 1341 se inserita in condizioni generali di contratto; inoltre costituisce clausola esposta al giudizio di vessatorietà ai sensi dell’art. 33, lett. t) del Codice del consumo quella che abbia ad oggetto o per effetto di limitare la facoltà del consumatore di opporre eccezioni. Costituiscono in qualche modo strumenti alternativi alla risoluzione per inadempimento, anche alcuni rimedi previsti nel capo dedicato agli effetti del contratto. Le parti possono invero inserire nel contratto una clausola penale (art. 1382, primo comma) (v. anche p. 65), con la quale si conviene che, in caso di inadempimento o di ritardo, uno dei contraenti è tenuto a una determinata prestazione: in questo caso il risarcimento dovuto dalla parte inadempiente è limitato alla prestazione promessa a meno che le parti non abbiano convenuto la risarcibilità del danno ulteriore. La penale è dovuta indipendentemente dalla prova del danno (art. 1382, secondo comma) ed assolve alla duplice alternativa funzione di esercitare sulla controparte una pressione per indurla ad adempiere, ovvero di offrire alla parte adempiente una tutela dei propri diritti che in taluni casi può rendere superfluo il ricorso al meccanismo risolutivo.

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Sotto questi aspetti la caparra confirmatoria svolge una funzione ancora più incisiva, dal momento che le prestazioni con funzioni di deterrenza contro l’inadempimento sono già eseguite e vengono definitivamente imputate in conseguenza dell’inadempimento stesso. La caparra confirmatoria consiste in una somma di danaro o di altra cosa fungibile che una parte dà all’altra al momento della conclusione del contratto ed è così disciplinata: in caso di adempimento la caparra deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta (così ad es. andrà detratta dal prezzo) (art. 1385, primo comma); in caso di inadempimento, se inadempiente è la parte che ha dato la caparra l’altra può recedere dal contratto e trattenerla; se invece inadempiente è la parte che l’ha ricevuta l’altra può recedere ed esigere il doppio della caparra (art. 1385, secondo comma). La funzione di tutela alternativa svolta dall’istituto in esame rispetto alla risoluzione per inadempimento, è scandita dal terzo comma dello stesso art. 1385 il quale conferma che la parte adempiente è libera, se preferisce, di domandare l’esecuzione o la risoluzione, ma in questo caso il risarcimento del danno è regolato dalle norme generali. La caparra può essere convenuta dai contraenti con la diversa funzione di corrispettivo del diritto di recesso riconosciuto ad una o ad entrambe le parti (caparra penitenziale: art. 1386). Se il contraente che recede è colui che ha dato la caparra, la perde; se a recedere è colui che l’ha ricevuta, deve restituire il doppio della caparra. Tale recesso, che se non fosse disposto nel contratto sarebbe sicuramente inefficace, e certamente darebbe luogo ad una condotta inadempiente, diviene legittimo nell’ambito della norma in esame e costituisce un diritto per il contraente recedente. Mentre la tutela della parte che subisce il recesso viene ridotta alla pretesa a conseguire il corrispettivo convenuto. L’istituto svolge così una funzione sicuramente preventiva amministrando, sul piano della previsione contrattuale, conseguenze che altrimenti troverebbero soluzione sul piano patologico e nel quadro del rimedio risolutorio. Infine, in presenza della inadempienza di una parte, l’esecuzione del contratto può trovare una via di realizzazione nella manutenzione del contratto cioè nella richiesta giudiziale dell’adempimento da parte dell’altra. Così se l’inadempimento concerne l’obbligo di consegnare una cosa determinata, la parte adempiente può chiedere la consegna o il rilascio (art. 2930); se non è adempiuto un obbligo di fare o se è stato violato un obbligo di non fare l’avente diritto può chiedere, nell’ordine, l’esecuzione o la distruzione a spese dell’obbligato (artt. 2931, 2933); si è già detto che l’inadempimento del contratto preliminare consente alla parte adempiente di ottenere una sentenza produttiva degli effetti del contratto non concluso (art. 2932).

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22. La risoluzione per inadempimento. La risoluzione giudiziale Se la parte adempiente intende sciogliere il vincolo contrattuale in conseguenza dell’inadempimento dell’altra, può chiedere la risoluzione del contratto, cioè la sua eliminazione, attraverso un’azione giudiziaria diretta ad ottenere una sentenza che ha natura costitutiva, perché lo scioglimento del rapporto si verifica al momento della pronuncia del giudice e come suo specifico effetto (risoluzione giudiziale) (art. 1453). La risoluzione, costituendo una risposta definitiva ed irreversibile all’inadempimento, non può essere pronunciata sulla base di un qualsiasi inadempimento meramente inesatto, come quello che può giustificare l’azione di manutenzione, ma occorre che tale inadempimento sia grave, non abbia cioè scarsa importanza avuto riguardo all’interesse dell’altra (art. 1455): è necessario cioè valutare, alla luce di una interpretazione di buona fede in senso oggettivo, se l’inadempimento era obiettivamente tale da pregiudicare e frustrare l’interesse del creditore alla realizzazione della funzione del contratto. Quale che sia la scelta del contraente, se la manutenzione o la risoluzione del contratto, questi ha sempre diritto al risarcimento del danno derivante dal ritardo o dall’inadempimento. Il rapporto fra queste due azioni è regolato nell’art. 1453, secondo comma. Se è stato chiesto l’adempimento il soggetto può sempre chiedere la risoluzione; ma qualora abbia optato per la risoluzione egli non può più chiedere l’adempimento. Inoltre, una volta promossa la risoluzione, dalla data della domanda l’inadempiente perde la facoltà di adempiere tardivamente (art. 1453, terzo comma), cosicché la parte che ha promosso l’azione può legittimamente rifiutare l’adempimento, ritenersi sciolta dal vincolo e procurarsi altrove la prestazione promessa e rimasta inadempiuta.

23. La risoluzione di diritto: la diffida ad adempiere, la clausola risolutiva espressa e il termine essenziale La risoluzione giudiziale non costituisce l’unico modo di ottenere lo scioglimento del contratto a causa dell’inadempimento. La legge prevede tre ipotesi in cui la risoluzione opera in via stragiudiziale indipendentemente da una pronuncia del giudice (risoluzione di diritto). Ciò avviene in caso di diffida ad adempiere, di clausola risolutiva espressa e di termine essenziale. La diffida consiste in una intimazione in forma scritta alla parte inadempiente di adempiere in un congruo termine (in genere non inferiore a quindici giorni) contenente la espressa dichiarazione che, decorso inutilmente det-

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to termine, il contratto si intenderà risolto (art. 1454, primo comma). La risoluzione si verifica con la decorrenza del termine senza che il contratto sia adempiuto (art. 1454, terzo comma). Con la clausola risolutiva espressa i contraenti convengono che il contratto si risolva qualora non sia adempiuta, secondo le modalità stabilite nel contratto, una determinata obbligazione (art. 1456, primo comma). La risoluzione si ha quando, verificatosi l’inadempimento, la parte interessata dichiari all’altra di volersi avvalere della clausola (art. 1456, secondo comma), manifestando una volontà che costituisce l’esercizio di un diritto potestativo, e cioè di un diritto relativo destinato a produrre una modificazione nella sfera giuridica del destinatario, rispetto alla quale quest’ultimo si trova in una situazione di mera soggezione (v. vol. 1, 1a serie). Il termine è essenziale e la sua scadenza produce la risoluzione automatica del contratto quando la prestazione tardiva non ha più alcun interesse per il contraente (se ad es. devo essere trasportato al porto entro le ore 17 di un certo giorno per imbarcarmi su una nave, un ritardo, anche lieve, potrebbe rendere inutile la prestazione del vettore). La parte adempiente può tuttavia chiedere l’adempimento entro tre giorni dalla scadenza del termine (art. 1457, primo comma); se la parte non esercita tale facoltà l’inadempiente non può validamente adempiere, ma la risoluzione ha comunque luogo con lo spirare del terzo giorno successivo alla scadenza del termine essenziale. La valutazione della gravità dell’inadempimento condiziona la risoluzione a mezzo diffida, che certamente non può costituire per la parte adempiente uno strumento con il quale ottenere con troppa disinvoltura lo scioglimento del vincolo; mentre deve essere esclusa con riguardo alla clausola risolutiva espressa in ragione della sua natura convenzionale. Invero le parti, concordando di ricollegare all’inadempimento di una determinata obbligazione l’effetto risolutivo, hanno manifestato di considerare grave tale inadempimento: ogni eventuale abuso troverebbe adeguata risposta in una interpretazione secondo buona fede del contratto. È appena il caso di osservare che il giudizio sulla essenzialità del termine tiene in qualche modo luogo della valutazione della gravità dell’inadempimento: invero, la necessità di riferire la essenzialità del termine alla natura della prestazione e all’interesse del creditore, comporta che la mancata esecuzione della prestazione entro il termine essenziale configura un inadempimento grave. È discusso se il carattere essenziale del termine possa essere ricavato esclusivamente dalla qualificazione che ne abbiano dato le parti e quindi dalla loro mera volontà. Al riguardo non è certo sufficiente che le parti abbiano inteso ricollegare alla infruttuosa scadenza del termine le conseguenze che la legge riconnette al termine essenziale, né che abbiano proclamato nel contratto

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l’importanza del termine stesso: l’essenzialità, anche quando è stabilita dalle parti, non può che essere il risultato di un giudizio diretto a verificare la «resistenza» dell’interesse alla prestazione, oltre la scadenza del termine. La natura stragiudiziale di tali tecniche di risoluzione del contratto non esclude che, a causa della contestazione o della opposizione del contraente inadempiente, l’altra abbia interesse a ricorrere al giudice perché sia accertato l’inadempimento e i presupposti di operatività dei singoli modi di risoluzione di diritto. In questo caso la sentenza non «costituirebbe» l’effetto risolutivo ma si limiterebbe ad accertare la risoluzione già avvenuta, cosicché la pronuncia del giudice non avrebbe natura costitutiva ma di mero accertamento. Anche la risoluzione, come la rescissione, ha effetto retroattivo tra le parti, ed importa quindi l’obbligo delle restituzioni: se però – come sappiamo – si tratta di contratti ad esecuzione continuata o periodica, rimangono ferme le prestazioni già eseguite (art. 1458, primo comma). I terzi che abbiano acquistato diritti da una delle parti del contratto risolto, per lo più dall’inadempiente, non sono pregiudicati dalla risoluzione. Come in caso di rescissione, se il contratto è relativo a beni immobili, i diritti dei terzi sono fatti salvi se il loro atto di acquisto risulta trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda giudiziale di risoluzione (art. 1458, secondo comma; art. 2652, n. 1).

24. Risoluzione per impossibilità sopravvenuta L’impossibilità sopravvenuta della prestazione dà luogo alla estinzione dell’obbligazione; se tale impossibilità si verifica nell’ambito di un contratto a prestazioni corrispettive costituisce una causa di risoluzione del contratto. Occorre precisare che l’impossibilità che qui viene in considerazione deriva certamente da una causa non imputabile al contraente: se infatti la prestazione divenisse impossibile per colpa del debitore si avrebbe inadempimento e l’altra parte potrebbe chiedere la risoluzione per inadempimento oltre al risarcimento del danno. In caso di impossibilità totale, la parte liberata dall’obbligo della prestazione divenuta impossibile non può chiedere la controprestazione ed è tenuta a restituire quella che abbia ricevuto (art. 1463). Poiché a seguito della impossibilità viene frustrata la ragione economica stessa del contratto e la funzione della corrispettività delle prestazioni, il contratto si risolve in modo automatico e la sentenza del giudice ha natura dichiarativa e dunque funzione di mero accertamento. Trova spiegazione nella logica della corrispettività delle prestazioni e del-

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la funzionalità del sinallagma contrattuale, il diverso trattamento della impossibilità parziale. Se infatti la prestazione diviene solo parzialmente impossibile, l’altra parte potrebbe conservare interesse all’esecuzione del contratto e all’adempimento della prestazione per la parte rimasta possibile (se ad es. durante il trasporto marittimo a causa di un improvviso e violento maremoto vanno dispersi alcuni dipinti d’autore destinati ad un mostra, il creditore che ha già approntato e organizzato i locali e i servizi relativi, può conservare interesse a che la mostra abbia egualmente luogo con i dipinti rimasti disponibili). Per questo la norma stabilisce che il contraente, se ha interesse a ricevere la prestazione, sia pure parziale, può chiedere una corrispondente riduzione della prestazione dovuta; qualora invece non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale può recedere dal contratto (art. 1464). Quando l’impossibilità si verifica con riguardo ai contratti ad effetti reali, le regole esposte debbono essere coordinate con il principio della efficacia traslativa del consenso. Sappiamo infatti che nei contratti a effetti reali la proprietà o il diritto si trasferiscono o costituiscono per effetto del consenso anche se il bene non viene consegnato. Ciò comporta che il rischio del perimento fortuito dell’oggetto grava sul proprietario anche se il bene è rimasto nella disponibilità dell’alienante, e spiega pertanto la regola per cui se la cosa perisce per una causa non imputabile all’alienante, l’acquirente non è liberato dall’obbligo di eseguire la controprestazione ancorché la cosa non gli sia stata consegnata (art. 1465, primo comma); la stessa disposizione si applica nel caso in cui l’effetto traslativo o costitutivo sia semplicemente differito nel tempo (art. 1465, secondo comma). Se invece il trasferimento è sottoposto ad una condizione sospensiva e l’impossibilità sopravviene prima che si verifichi la condizione, l’acquirente è liberato dall’obbligazione: ed invero, poiché la condizione sospende l’efficacia del contratto, il rischio del perimento della cosa grava su chi è rimasto titolare del diritto (art. 1465, quarto comma).

25. Risoluzione per eccessiva onerosità La terza ed ultima causa di risoluzione si ha quando nei contratti a esecuzione continuata o periodica, ovvero a esecuzione differita (c.d. contratti di durata) la prestazione di una delle parti diviene eccessivamente onerosa rispetto alla controprestazione. L’eccessiva onerosità rileva solo nei contratti in cui vi è un lasso di tempo fra la conclusione e l’esecuzione; se il contratto fosse infatti ad esecuzione istantanea ogni turbamento successivo del sinallagma resterebbe assorbito dalla valutazione di convenienza dell’affare effettuata al

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momento della conclusione e dalla conseguente assunzione del rischio economico connesso alla valutazione del mercato (ma, al riguardo, v. quanto osservato in questo Capitolo, par. 19). La rilevante (eccessiva) sproporzione che abbia luogo durante l’esecuzione rimane come tale nell’area del rischio ordinario dei contraenti; soltanto se tale sproporzione si verifica in conseguenza di avvenimenti straordinari e imprevedibili il rischio di mercato viene traslato sulla controparte, e si concede alla parte che subisce l’eccessiva onerosità di chiedere la risoluzione del contratto (art. 1467, primo comma). Per es. l’improvvisa e imprevedibile chiusura del traforo del Monte Bianco può rendere l’obbligazione di trasporto delle merci estremamente più gravosa in relazione ai costi e ai tempi del viaggio, legittimando il vettore a proporre domanda di risoluzione per eccessiva onerosità. Anche in questo caso la risoluzione ha effetto retroattivo, ma restano ferme le prestazioni già eseguite, e la relativa pronuncia ha effetto costitutivo. La risoluzione non può essere chiesta se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale del contratto (art. 1467, secondo comma). Al pari di quanto stabilito con riferimento all’azione di rescissione, la parte contro la quale la risoluzione è domandata può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto (art. 1467, terzo comma); e analoga facoltà è riconosciuta alla parte obbligata nei contratti cui derivano obbligazioni per una sola parte (art. 1468). Si è già detto (v. p. 146) del recente progetto di legge di revisione del codice civile il quale, nei contratti di durata divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili, prevede un generale diritto delle parti di pretendere la loro rinegoziazione e, in caso di mancato accordo, di affidare alla determinazione giudiziale l’adeguamento delle condizioni contrattuali, in modo da ripristinare la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta. E si è anche sottolineata l’attualità di una tale previsione alla luce della emergenza sanitaria in corso la quale, come è noto, ha determinato uno sconvolgimento delle circostanze esistenti al momento della conclusione del contatto.

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Capitolo Quinto

I CONTRATTI DEI CONSUMATORI 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

La legislazione a tutela del consumatore I contratti dei consumatori nella disciplina del codice civile La disciplina dei contratti dei consumatori in talune leggi speciali Regole e tendenze della recente legislazione sui nuovi contratti Ancora sul controllo dell’equilibrio economico del contratto La logica del profitto e l’etica contrattuale. Il consumatore soggetto economico e persona Contratti dei consumatori e contratti di impresa. Il nuovo paradigma generale del contratto

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1. La legislazione a tutela del consumatore È venuto il momento di sciogliere le riserve più volte formulate in ordine alla categoria dei contratti dei consumatori e all’impatto che questa ha avuto sulla disciplina generale del contratto. Il titolo II che disciplina il contratto in generale si era dapprima arricchito, per effetto della legge 6 febbraio 1996, n. 52 (art. 25) emanata in attuazione della direttiva comunitaria 5 aprile 1993, n. 13, di un ulteriore capo (XIV bis) ove trovavano disciplina i contratti del consumatore negli artt. da 1469 bis a 1469 sexies. Questa disciplina è oggi confluita nel Codice del consumo, approvato con il d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206. L’adozione di un Codice del consumo segna invero un primo momento conclusivo di un processo iniziato negli anni Sessanta e che ha visto svilupparsi nei Paesi dell’Unione europea una crescente cultura di attenzione alla posizione del consumatore. Il Codice del consumo riorganizza e coordina in modo sistematico le varie leggi intervenute nel tempo a tutela dei consumatori. Si pensi alla vendita di beni di consumo, ai provvedimenti legislativi in tema di credito al consumo, viaggi e vacanze e circuiti tutto compreso, vendite in multiproprietà, contratti a distanza, contratti negoziati fuori dai locali commerciali e così via. Non è questa la sede per illustrare la disciplina analitica di tali importanti innovazioni normative e dobbiamo pertanto al riguardo rinviare al volume di questa collana (E. MINERVINI, Dei contratti del consumatore in generale, Cap. I) che si occupa della materia. Non possiamo pertanto dedicare a questa categoria lo spazio che pure certo meriterebbe nell’ambito di un trattazione sul contratto in generale, essendo necessario un esame oltremodo approfondito sia della disciplina codicistica sia della legislazione speciale in materia di consumatore, che va oltre i confini posti dal carattere generale di queste lezioni.

2. I contratti dei consumatori nella disciplina del codice civile Ci limitiamo pertanto a fare qualche considerazione di carattere generale sulla disciplina dei contratti del consumatore di cui agli artt. 33 ss. del Codice del consumo e a segnalare ulteriori disposizioni normative idonee a co-

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gliere il quadro d’insieme, ad individuare cioè i contorni qualificanti dei nuovi contratti e a verificarne – come si diceva – la capacità innovativa del sistema e la intrinseca forza espansiva. Tale categoria mostra un limite (più apparente che reale) sul piano oggettivo: essa cioè si applica ai contratti fra un professionista e un consumatore. Professionista è la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale; consumatore è la persona fisica che si rende acquirente di beni o utente di servizi al di fuori della sua attività professionale ed alla quale sono dirette comunicazioni commerciali. Nonostante questo riferimento soggettivo allo status di consumatore, che come vedremo offre potenzialità applicative maggiori di quelle identificate sulla base della particolare condizione socio-economica delle parti, la categoria si presenta come categoria aperta ed in qualche modo trasversale. Essa infatti prescinde dalla adozione di un determinato tipo contrattuale e trova applicazione a tutti i contratti che contengono clausole vessatorie e cioè tutte quelle clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. È opinione comune che nonostante l’infelice formulazione normativa, che sembra fare riferimento alla buona fede soggettiva, intesa come ignoranza della lesione di un diritto altrui, venga qui in considerazione la buona fede oggettiva e cioè la regola di condotta posta al professionista di non abusare della sua condizione di maggiore potere contrattuale. Mentre è pacifico che il carattere vessatorio della clausola e cioè il significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi, non può essere accertato in base all’oggetto del contratto o alla adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché individuati in modo chiaro e comprensibile. Si ritiene pertanto – almeno in questi limiti – che il legislatore abbia escluso un potere di controllo della equivalenza oggettiva delle prestazioni, preferendo lasciare al mercato e alla concorrenza la relativa determinazione delle parti. La ratio della norma, volta a sanzionare l’abuso della posizione contrattuale da parte del professionista, spiega perché il carattere vessatorio della clausola sia escluso se questa ha formato oggetto di trattativa individuale (art. 34, quarto comma), se cioè ha costituito materia di una sostanziale negoziazione fra le parti; e spiega anche perché determinate clausole siano considerate vessatorie quantunque siano state oggetto di trattativa. Invero, rispetto alle clausole previste dall’art. 36, ritenute dal legislatore particolarmente «sospette», la trattativa non è idonea ad escludere la vessatorietà, e tale carattere deve essere sempre accertato in concreto. La sanzione conseguente all’accertamento del carattere vessatorio della clau-

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sola consiste nella nullità della clausola stessa «mentre il contratto rimane valido per il resto» (art. 36, primo comma). Si tratta, in ogni caso, di una nullità limitata alla singola clausola; inoltre tale nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 36, terzo comma). Tale disciplina consente di registrare due importanti deviazioni dalla normativa generale sul contratto. Infatti la nullità della singola clausola è affermata indipendentemente dall’accertamento delle condizioni della nullità parziale (art. 1419, primo comma) da cui altrimenti sarebbe disciplinata, e che possono condurre anche alla estensione della nullità della singola clausola all’intero contratto; mentre questo non accade, di regola, nei contratti in esame. Inoltre, in deroga al principio della rilevabilità assoluta della nullità, l’inefficacia del contratto essendo in funzione della tutela di una parte (il consumatore) può essere attivata soltanto da costui o dal giudice, e non anche dal professionista. L’art. 35 prescrive che le clausole contrattuali devono essere redatte in modo chiaro e comprensibile e nel dubbio interpretate in favore del consumatore. È importante osservare che – come prima accennato – l’art. 34, secondo comma, estende la valutazione di vessatorietà della clausola anche all’oggetto del contratto e alla adeguatezza del corrispettivo in caso di difetto di trasparenza, allorché cioè tali elementi non siano individuati in modo chiaro e comprensibile. La norma apre una nuova prospettiva nella direzione del controllo economico del contratto perché l’accertamento della vessatorietà sulla base del difetto di trasparenza può condurre alla dichiarazione della inefficacia della clausola che abbia introdotto una sperequazione delle prestazioni, legittimando un intervento equitativo sul contratto diretto, ad es., a sostituire ad un prezzo non facilmente determinabile (e cioè formulato in modo non chiaro né comprensibile) un prezzo equo. Infine l’art. 37 introduce un importante strumento di tutela, già conosciuto ed applicato per la protezione di altri diritti, meno diffuso nella materia contrattuale: l’azione inibitoria, diretta ad interdire l’uso delle clausole abusive e dunque ad espungerle dalle condizioni generali dei contratti proposti dal professionista. L’azione però non può essere intentata dal singolo consumatore ma soltanto dalle associazioni rappresentative dei consumatori e dei professionisti nonché dalle camere di commercio, ed è quindi posta a tutela non del singolo utente ma della generalità dei consumatori destinatari delle condizioni generali di contratto. Come già segnalato, carattere inibitorio ha anche il provvedimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato che vieta la diffusione o la continuazione delle pratiche commerciale scorrette (art. 27) (v. supra, p. 156);

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e certamente funzionale a questo genere di tutela è anche il potere riconosciuto all’Autorità garante della concorrenza e del mercato dall’art. 5 del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, c.d. decreto sulle liberalizzazioni (codificato nell’art. 37 bis del C.d.c.), di accertare, d’ufficio o su denuncia dei consumatori interessati e sentite le associazioni di categoria, il carattere vessatorio delle clausole inserite nei contratti tra professionisti e consumatori che si concludono mediante adesione a condizioni generali di contratto o con la sottoscrizione di moduli, modelli o formulari. All’autorità sono affidati poteri soprattutto istruttori, e sulla validità delle clausole di cui sia stata accertata la vessatorietà è fatta salva la giurisdizione del giudice ordinario. La legge n. 31 del 2019 e la successiva legge n. 8 del 2020 hanno introdotto nel codice di procedura civile il titolo VIII bis (artt. 840 bis-840 sexsiesdecies) intitolato ai procedimenti collettivi, già disciplinati nel Codice di consumo agli artt. 140 bis ss., ora abrogati. In presenza di diritti individuali omogenei, ciascun componente della classe può agire individualmente o mediante determinate organizzazioni o associazioni per la tutela dei suoi diritti. La sentenza che accoglie l’azione di classe è sentenza “aperta” all’adesione da parte dei soggetti portatori di analoghi diritti individuali omogenei. L’azione di classe è diretta a realizzare una tutela restitutoria e risarcitoria alternativa a quella realizzabile attraverso un’azione individuale separatamente esperibile; e la dimensione di classe si estende sia alla esecuzione forzata collettiva promossa dal rappresentante comune degli aderenti, sia alla azione inibitoria collettiva diretta ad interdire gli atti e i comportamenti posti in essere da imprese pubbliche o private in pregiudizio di una pluralità di individui o di enti titolari di situazioni giuridiche omogenee.

3. La disciplina dei contratti dei consumatori in talune leggi speciali Una specifica disciplina è inoltre contenuta nelle norme relative alla vendita dei beni di consumo, inserite nel Codice del consumo agli articoli 128 ss. (sul tema v. in questa collana, S. MONTICELLI-G. PORCELLI, I contratti dell’impresa, Cap. I). In base all’art. 134, primo comma, i patti anteriori alla comunicazione al venditore del difetto di conformità, volti ad escludere o a limitare, anche indirettamente, i diritti inderogabili riconosciuti dalle norme in tema di vendita di beni di consumo al compratore, sono nulli per effetto del carattere imperativo di tali disposizioni ma tale nullità può essere fatta valere solo dal consumatore o rilevata dal giudice. L’art. 130 sancisce la responsabilità del venditore per qualsiasi difetto di

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conformità del bene, ed il diritto del consumatore al ripristino della conformità mediante riparazione o sostituzione, o ad una adeguata riduzione del prezzo; e l’art. 129 elabora una nozione di conformità ricostruita sulla base del contenuto complessivo del contratto comprensivo delle informazioni, della descrizione e della presentazione che il venditore abbia fatto del bene. Ulteriori regole di tutela del consumatore particolarmente interessanti sono contemplate dal Codice del consumo. Ci si limita in questa sede a richiamare: l’articolo 64 del Codice del consumo che prevede per i contratti negoziati fuori dei locali commerciali una ulteriore causa di scioglimento del contratto, il recesso unilaterale del consumatore, ben oltre i limiti in cui lo scioglimento unilaterale del contratto è ammesso dal codice civile: c.d. recesso di pentimento che offre una tutela del rischio derivante dal c.d. effetto sorpresa. In materia di contratti a distanza, l’art. 52 specifica le informazioni che il venditore deve fornire al consumatore prima della conclusione del contratto e attribuisce a quest’ultimo un potere di recesso ad nutum da esercitarsi nei termini e nei modi stabiliti dall’art. 64. La facoltà di recesso è prevista anche dall’art. 73 in favore dell’acquirente di diritti in multiproprietà. Obblighi diretti ad assicurare il principio di trasparenza sono dettati anche in materia di pubblicità (art. 19) al fine di tutelare dalla pubblicità ingannevole non solo le imprese ma anche il consumatore. Condizioni che legittimano il recesso e rimedi conservativi della prestazione (diritto ad usufruire di un altro pacchetto turistico equivalente) sono previsti a proposito della vendita di viaggi, vacanze e circuiti tutto compreso, dall’art. 92. Il d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70 disciplina in modo assai articolato le informazioni a carico della società dell’informazione: informazioni generali obbligatorie (art. 7), obblighi di informazione commerciale (art. 8), informazioni dirette alla conclusione del contratto (art. 12). La nullità dei contratti relativi alle prestazioni dei servizi di investimento può essere fatta valere solo dal cliente (art. 23, n. 3, T.U. delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria: d.lgs. 24 febbraio 1998, n. 58). Dal quadro normativo esposto possono trarsi alcune regole di disciplina che si annunciano trasversali alle singole materie trattate ed assai rilevanti, anche solo da un punto di vista quantitativo, poiché interessano una vastissima categoria di contratti attraverso i quali la massa degli utenti si approvvigiona di beni e servizi.

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4. Regole e tendenze della recente legislazione sui nuovi contratti Tali regole possono riassumersi, secondo quanto si è osservato, nelle seguenti: 1. Tendenza a stabilire obblighi di forma scritta per soddisfare esigenze di certezza del rapporto e di tutela del consumatore; la forma è anche strumento che favorisce la trasmissione delle informazioni al consumatore e la realizzazione del diritto di quest’ultimo ad essere informato. 2. Previsione del recesso unilaterale come strumento di scioglimento del vincolo contrattuale, totalmente affrancato da qualsiasi presupposto di giustificazione. 3. Previsione di obblighi di trasparenza e chiarezza nella formazione del contratto funzionali alla realizzazione di un consenso informato; la forma del contratto svolge un ruolo ausiliario per la realizzazione di tali finalità. 4. Larga partecipazione della legge alla formazione del contenuto del contratto e corrispondente restrizione dell’area dell’autonomia delle parti. 5. Previsione di sanzioni dirette a colpire singole clausole contrattuali al di fuori delle regole che governano la nullità parziale, rimuovendole dal contratto. Preclusione della legittimazione del professionista a far valere tale nullità, riservata al consumatore in funzione della specifica tutela dei suoi interessi. 6. Attribuzione al consumatore della facoltà di azionare rimedi diretti alla sostituzione o alla riparazione della prestazione non conforme al contratto. 7. Tendenza a controllare l’equilibrio del contratto, non solo normativo ma anche economico. 8. Infine, superamento della dimensione processuale individuale e sviluppo di quella collettiva con la previsione delle azioni di classe.

5. Ancora sul controllo dell’equilibrio economico del contratto A quest’ultimo riguardo vale la pena di fare qualche ulteriore considerazione. Invero, il confine fra squilibrio normativo e squilibrio economico è meno netto di quanto possa apparire, essendo evidente che il primo può avere risvolti anche di tipo economico. Abbiamo altresì ricordato il contenuto della norma dell’art. 34, secondo comma, del Codice del consumo secondo la quale, qualora il prezzo non sia indicato in modo chiaro e comprensibile, l’adeguatezza del corrispettivo diviene sindacabile ai fini della valutazione di vessatorietà ed è suscettibile di correzione diretta ad emendare il vizio e a riequilibrare il contratto. Inoltre, l’abuso di dipendenza economica previsto a proposito del con-

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tratto di subfornitura (art. 9, legge n. 192 del 1998 che definisce «dipendenza economica» la situazione in cui una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi), non è regolato in base a indicazioni normative analoghe a quelle contenute nell’art. 34 circa l’irrilevanza dell’adeguatezza del corrispettivo, autorizzando a ritenere che in quel contesto la formula dello squilibrio normativo possa riferirsi anche alla inadeguatezza dei prezzi. Ancora, l’art. 6, n. 3 della citata legge n. 192 del 1998 stabilisce la nullità del patto con il quale il subfornitore disponga a favore del committente, senza congruo corrispettivo, di diritti di privativa industriale o intellettuale. Infine non abbiamo trascurato di evidenziare che la nullità dei contratti relativi alle transazioni commerciali è sancita in base ad una nozione di iniquità espressamente agganciata ad un concetto economico, quale è quello della liquidità aggiuntiva (art. 7, d.lgs. n. 231 del 2002, e successive modificazioni, art. 24, legge n. 161 del 2014). Analoga logica ispira la disciplina del contratto di franchising di cui alla legge n. 129 del 2004. L’affiliato, parte “debole” del rapporto, può confidare sulla forma scritta del contratto a pena di nullità e su una durata della concessione non inferiore a tre anni, periodo di tempo ritenuto sufficiente per consentire all’affiliato di ammortizzare il suo investimento (art. 3, nn. 1 e 3). La posizione contrattuale dell’affiliato è inoltre presidiata da una stringente vigilanza normativa sul contenuto del contratto, il quale deve contenere una serie di informazioni necessarie all’affiliato per poter valutare a fondo la convenienza dell’operazione e l’affidabilità commerciale dell’altro contraente (art. 3, n. 4). L’art. 4 contempla lo specifico obbligo dell’affiliante di corredare il contratto di alcuni allegati, contenenti i principali dati dell’impresa concedente, la copia dei bilanci, una lista di eventuali altri affiliati, indicazioni sui marchi utilizzati e sui procedimenti giudiziari o arbitrali promossi nei suoi confronti.

6. La logica del profitto e l’etica contrattuale. Il consumatore soggetto economico e persona Il corpo di regole enucleato, sicuramente innovativo rispetto alla disciplina del contratto in generale dettata dal titolo II del libro IV c.c., contribuisce a definire una categoria nuova di contratti caratterizzata da un alto grado di controllo sociale del rapporto che si manifesta attraverso le numerose e diverse tecniche evidenziate. Tale nuova categoria, che certamente è segnata da una continuità con il

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sistema generale, nel quale invero continua a trovare il suo riferimento, ma che per la peculiarità dei profili esaminati si contrappone al contratto di diritto comune, trae origine dal rapporto tra professionista e consumatore, che certamente indica la relazione socio-economica dominante nell’attuale sistema economico caratterizzato dalla distribuzione in serie da parte delle grandi imprese e dai consumi di massa di beni e servizi. La nuova disciplina investe, nelle diverse previsioni legislative generali o relative a singoli beni o servizi, il rapporto fra impresa e consumatore. Quest’ultimo assume, di volta in volta, le vesti di consumatore convenzionale, di viaggiatore, di acquirente di beni di consumo, o di diritti in multiproprietà, o di beni o servizi commercializzati fuori dei locali dell’azienda o a distanza, o tramite strumenti telematici e, ancora, del cliente e dell’investitore. Una nozione così estesa di consumatore chiama in causa l’elemento comune a tutte queste figure, che giustifica la creazione di una normativa per molti aspetti simile: tale elemento consiste nella debolezza economica del contraente che aspira a conseguire un bene o un servizio rispetto a chi, agendo sul mercato nella sua veste professionale di operatore economico, è in una situazione di forza e può facilmente imporre o dettare il regolamento giuridico ed economico del contratto. Ma proprio questa varietà di situazioni soggettive e questo elemento comune portano a ritenere non solo che la tutela del consumatore sia divenuta un principio generale, intorno al quale si è costruito un nuovo modo di «fare» il contratto, e di amministrare la tutela della parte debole (che ha peraltro richiesto – come si è visto – una considerevole compressione dell’area della autonomia contrattuale), ma che l’innovazione sia così radicale da mostrare una forza espansiva che va al di là dello stesso rapporto fra professionista e consumatore e si ricollega ad una conformazione astratta della relazione corrente fra soggetti che non hanno il medesimo potere contrattuale, e sono anzi titolari di poteri contrattuali fortemente squilibrati. In questo senso è indicativa la tutela offerta dalla legge n. 192 del 1998 alla posizione del subfornitore, parte debole nel rapporto con il committente, e dunque in relazione a contratti che sono caratterizzati non dalla presenza di un consumatore ma di due imprenditori. L’abuso del potere regolamentare del contratto nuoce al consumatore come all’imprenditore in situazione di debolezza, ed alla stessa razionalità del mercato che non si giova di comportamenti abusivi i quali, comportando una diminuzione dei costi, danneggiano gli imprenditori onesti. Ed è altresì assai significativo, su un piano più generale, che il Reg. CE n. 593 del 2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (“Roma I”) contempli una norma intitolata al contratto concluso dai consuma-

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tori (art. 6) stabilendo che la scelta ad opera delle parti della legge applicabile al contratto (in linea di principio libera: art. 3), non può avere per risultato di privare il consumatore della protezione garantitagli dalle disposizioni imperative della legge del Paese nel quale egli abitualmente risiede (n. 2, art. 6 cit.). È inoltre interessante segnalare, nella indicata prospettiva che intende rilevare la vis espansiva delle regole sorte nell’ambito del rapporto fra professionista e consumatore, l’impiego nel recente d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122 in tema di vendita di immobili da costruire, della categoria della nullità di protezione. L’art. 2 prevede infatti che all’atto della stipula del contratto il costruttore consegni all’acquirente una fideiussione pari all’importo delle somme riscosse e ancora da riscuotere, a garanzia della restituzione all’acquirente medesimo delle somme anticipate e degli interessi, nel caso il costruttore incorra in eventi di crisi dell’impresa che impediscano o ostacolino il trasferimento della proprietà. La garanzia fideiussoria è contemplata a pena di nullità e tale nullità può essere fatta valere unicamente dall’acquirente. La legislazione a tutela dei consumatori, e segnatamente la disciplina dei contratti in questo settore, offrono pertanto un terreno assai fertile per il riscontro di quella condivisa tendenza diretta a non «isolare» gli interessi economici rispetto alle istanze solidaristiche della moderna società dei consumi e della globalizzazione, piuttosto a rendere partecipi gli uni e le altre di un disegno complessivo e unitario che coniughi la logica del profitto con l’etica dei contraenti e con la responsabilità delle imprese. Infine, è appena il caso di osservare che il ruolo del contraente debole non è un ruolo fisso né può identificarsi con il debitore, secondo una tendenza sicuramente presente nella trama de codice civile costruita su una realtà socio economica semplificata rispetto a quella attuale: al riguardo è sufficiente segnalare la già ricordata disciplina del ritardo nei pagamenti nelle transazioni commerciali (d.lgs. 9 ottobre 2002, n. 231), costruita intorno alla tutela del creditore.

7. Contratti dei consumatori e contratti di impresa. Il nuovo paradigma generale del contratto Il nuovo paradigma contrattuale caratterizzato dalla asimmetria del potere contrattuale delle parti trova, proprio con riguardo alla figura emblematica del contraente debole e cioè del consumatore, un manifesto dei diritti che va oltre quelli economici e contrattuali e investe una tutela generale del consu-

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matore anche come persona: l’art. 2 del Codice del consumo riconosce e garantisce i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti e tra questi include la salute, la sicurezza, l’informazione, l’educazione al consumo, l’equità, la promozione e lo sviluppo dell’associazionismo. Negli ultimi decenni si va però accreditando anche l’idea di una costruzione unitaria dei contratti di impresa cioè di quelli generalmente correnti fra imprenditori: ne sono esempi il leasing, il factoring, il franchising, l’engeneering, il catering, ma anche la subfornitura, o i contratti unilaterali d’impresa, come quelli bancari o assicurativi o di intermediazione finanziaria. Tratti unificanti si coglierebbero sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo: per es. la presenza necessaria di un’impresa, ovvero l’insensibilità del contratto alle vicende personali dell’imprenditore e, ancora, l’automaticità del trasferimento del contratto stesso in caso di cessione dell’azienda (art. 2558). Ma quando si esaminano le peculiarità di tali rapporti si scorge che ricorrono singolari analogie fra questi contratti e i contratti dei consumatori. Dal punto di vista dei soggetti i contratti dell’impresa bancaria corrono fra banca e risparmiatore e pongono problemi di tutela del consumatore-risparmiatore; analoga considerazione vale per il rapporto fra impresa di assicurazione e assicurato, fra tour operator e viaggiatore. Con riguardo ai profili oggettivi di tali contratti, si incontrano regole comuni dirette a garantire trasparenza e informazione, e forme di tutela analoghe a quelle esaminate come il recesso ad nutum e l’inefficacia relativa. I contratti di impresa sembrano avere dunque una inevitabile «ricaduta» in quelli dei consumatori, che sovente sono la controparte necessaria dell’imprenditore e costituiscono un aspetto qualificante e un momento determinante della relazione giuridica. Si ritrovano pertanto nella disciplina dei rapporti di impresa, principi che si sono affermati sul piano della tutela dei consumatori. Così, l’asimmetria del potere contrattuale fra committente e subfornitore conforma il rapporto ed ispira la disciplina del contratto di subfornitura. Il divieto di abuso della dipendenza economica in cui si trova il subfornitore (art. 9 cit., legge n. 192 del 1998), che è abuso della posizione economica dominante in cui si trova il committente, e che si traduce nella nullità dei contratti attraverso i quali l’abuso si realizza, costituisce un aspetto della soluzione normativa ad un problema specifico (che attende ancora soluzione) e che riguarda la possibilità di estendere la sanzione della nullità prevista dalla c.d. legge antitrust (art. 33, legge 10 ottobre 1990, n. 287) per le intese tra imprese restrittive della libertà di concorrenza, ai contratti che, sulla base di tali intese, le imprese che ne sono parte abbiano concluso con i terzi. Tale norma segna anzi l’ingresso nella materia contrattuale di un principio nuovo che, introducendo la

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rilevanza del canone della buona fede nelle relazioni tra imprenditori, incide sulla stessa formazione dei contratti di impresa. Il che conferma che la disciplina dei contratti del consumatore e destinata ad indicare un modello più generale ed unitario di contratto, dotato di una forza espansiva propria, capace di proiettarsi nel futuro delle relazioni contrattuali.

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Capitolo Sesto

I SINGOLI CONTRATTI CON TEMI E CASI DI GIURISPRUDENZA

1.

Introduzione

SEZIONE I: IL CONTRATTO DI VENDITA 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. •

Cenni storici. La vendita e le vendite La compravendita in generale Vendita di cosa altrui Vendita di cosa futura Le obbligazioni nascenti dalla compravendita. Le obbligazioni del compratore Segue: le obbligazioni del venditore La garanzia per evizione La garanzia per i vizi Vendita con patto di riscatto Vendita con riserva di proprietà Vendita mobiliare Vendita immobiliare Alienazione dell’immobile oggetto di un preliminare a persona diversa dal promissario. La disciplina della doppia vendita immobiliare e la responsabilità del secondo acquirente primo trascrivente in mala fede (Cass. 7 ottobre 2016 n. 20251)

SEZIONE II: IL CONTRATTO ESTIMATORIO 14. Natura e disciplina • Elementi distintivi del contratto estimatorio (Cass. 21 dicembre 2015 n. 25606)

SEZIONE III: IL CONTRATTO DI SOMMINISTRAZIONE 15. Natura e disciplina • La qualificazione della somministrazione come contratto di scambio, di durata, ad esecuzione continuata (Cass. 11 luglio 2011 n. 15189)

SEZIONE IV: IL CONTRATTO DI LOCAZIONE 16. La natura del diritto del conduttore. La varietà dei tipi 17. Le obbligazioni del locatore e del conduttore 18. Sublocazione e cessione della locazione

256 19. 20. 21. 22. 23. •

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Le locazioni urbane Le locazioni abitative Le locazioni non abitative L’affitto di azienda e l’affitto di fondi rustici Rent to buy Inadempimento del locatore e sospensione della prestazione da parte del conduttore (Cass. 22 giugno 2020 n. 12103)

SEZIONE V: IL CONTRATTO DI APPALTO 24. L’appalto in generale 25. La disciplina del contratto • Vendita di cosa futura e appalto (Cass. 12 maggio 2008 n. 11656)

SEZIONE VI: IL CONTRATTO DI TRASPORTO 26. 27. 28. •

Il trasporto in generale Il trasporto di persone Il trasporto di cose La responsabilità del vettore nel trasporto di persone (Cass. 10 gennaio 2017 n. 249)

SEZIONE VII: IL CONTRATTO DI MANDATO 29. 30. 31. •

Il mandato in generale Le obbligazioni delle parti L’estinzione e la revoca del mandato Mandato senza rappresentanza. Considerazioni sulla forma (Cass. 2 settembre 2013 n. 20051)

SEZIONE VIII: IL CONTRATTO DI DEPOSITO 32. 33. 34. 35. •

Il deposito in generale Le obbligazioni delle parti Il deposito irregolare La responsabilità degli albergatori e dei magazzini generali La responsabilità del custode (Cass. 25 novembre 2013 n. 26353)

SEZIONE IX: IL CONTRATTO DI COMODATO 36. Il comodato in generale 37. La responsabilità del comodatario • Comodato di immobile destinato ad abitazione familiare (Cass. 29 settembre 2014 n. 20448)

SEZIONE X: IL CONTRATTO DI MUTUO 38. Il mutuo in generale 39. La promessa di mutuo • Il mutuo di scopo (Cass. Ordinanza 21 ottobre 2019 n. 26770)

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SEZIONE XI: IL CONTRATTO DI ASSICURAZIONE 40. 41. 42. 43. 44. •

La natura aleatoria del contratto La disciplina del rischio L’assicurazione contro i danni L’assicurazione della responsabilità civile L’assicurazione sulla vita Il principio di buona fede, l’obbligo di diligenza e la responsabilità dell’assicuratore (Cass. 24 aprile 2015 n. 8412)

SEZIONE XII: IL CONTRATTO DI TRANSAZIONE 45. 46. 47. •

La transazione in generale L’impugnazione della transazione Transazione novativa Transazione novativa (Cass. Ordinanza 9 dicembre 2019 n. 32109)

SEZIONE XIII: IL CONTRATTO DI DONAZIONE 48. 49. 50. 51. 52. 53. •

La donazione in generale Donazione e liberalità La donazione remuneratoria Liberalità non donative Liberalità e gratuità La disciplina della donazione Donazione indiretta e forma del negozio (Cass. 25 febbraio 2015 n. 3819)

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1. Introduzione Nel sistema del libro IV del codice civile al contratto – come abbiamo già avuto modo di osservare – sono dedicati due titoli: il titolo II disciplina la figura del contratto in generale dettando norme che trovano applicazione con riguardo a ciascun tipo di contratto (art. 1323). Il titolo III prevede e disciplina, dall’art. 1470 all’art. 1986, singoli contratti ciascuno dei quali ha un nome, una struttura e una funzione propri (il che non impedisce che alcuni contratti presentino caratteristiche strutturali comuni ovvero soddisfino le medesime esigenze funzionali). I contratti disciplinati nel titolo II sono i seguenti: vendita, riporto, permuta, contratto estimatorio, somministrazione, locazione e affitto, appalto, trasporto, mandato che può variare in commissione e spedizione, agenzia, mediazione, deposito, comodato, mutuo, conto corrente, contratti bancari, rendita perpetua e vitalizia, assicurazione, giuoco e scommessa, fideiussione, mandato di credito, anticresi, transazione, cessione dei beni ai creditori. Un insieme definito di figure contrattuali, che testimonia la volontà del legislatore diretta da un lato a confermare la disciplina, nella sede propria del codice civile, dei contratti consolidati nella antica tradizione civilistica risalente al diritto romano ed ereditata dalle codificazioni europee (come la vendita), dall’altro ad introdurre figure nuove di contratti (come l’appalto), collegate all’impresa, opportunità quest’ultima resa possibile dalla unificazione del codice del commercio del 1882 e del codice civile del 1865 sotto il nuovo ed unico codice civile del 1942, che aveva fatto confluire anche lo ius mercatorum, a pieno titolo, nel diritto civile. Ma il titolo III è un titolo che nasce incompleto e tale incompletezza si manifesta sotto quattro profili: a) alcuni contratti sono previsti fuori del titolo III, in altri titoli del libro IV o addirittura in altri libri del codice civile; b) alcuni contratti, contemplati nel titolo III, hanno formato oggetto di esplicita previsione e disciplina in leggi speciali successive alla emanazione del codice; c) il legislatore ha introdotto una serie di nuovi contratti non previsti dal codice civile; d) si sono affermati nella prassi mercantile e nella giurisprudenza nuove figure di contratti non riconducibili ad alcuno dei modelli legislativi (c.d. contratti atipici). Quanto al profilo sub a) è lo stesso legislatore codicistico a delocalizzare (rispetto alla sede propria del titolo III) la disciplina di alcuni singoli con-

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tratti, per corrispondere ad esigenze sistematiche: ad esempio, la donazione, a causa della natura gratuita dell’attribuzione patrimoniale comune al negozio testamentario, è regolata nel libro II che disciplina le successioni mortis causa; il contratto di lavoro e il contratto di società trovano posto nel libro V ove sono infatti disciplinati il lavoro nell’impresa e le società; gli accordi diretti a regolare i rapporti patrimoniali familiari sono collocati nel titolo I, dedicato alle persone e alla famiglia; alcune figure contrattuali (si pensi all’accollo, o alla cessione del credito) sono disciplinate nel titolo I del libro IV in virtù delle connessioni che esse presentano con le vicende dell’obbligazione. Sotto il profilo sub b) il legislatore è intervenuto su alcuni contratti contemplati nel titolo III emanando leggi speciali che hanno così profondamente inciso sulla disciplina codicistica che invano la regolamentazione di tali contratti potrebbe essere ricercata nel codice, le cui norme pertanto esprimono solo direttive generali destinate ad essere ampiamente modificate e significativamente integrate dalla nuova legge. Ciò può avvenire per varie ragioni: ad esempio, il rilievo sociale ed economico che assume l’immobile destinato ad abitazione o a sede della propria attività commerciale o professionale ha indotto il legislatore a dettare specifiche norme in tema di locazione; ancora, in considerazione dello status del contraente e in particolare della qualifica di professionista e di consumatore, il legislatore ha introdotto la specifica figura della vendita di beni di consumo disciplinata nel Codice di consumo. Quanto al profilo sub c) vengono in considerazione sia quei contratti che il legislatore ha ritenuto di prevedere al di fuori del codice nell’ambito di leggi di settore che disciplinano particolari materie: è il caso del contratto di edizione previsto e disciplinato nell’ambito della legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni, in materia di protezione del diritto di autore e di altri diritti connessi al suo esercizio, e dei contratti agrari disciplinati da alcune leggi speciali tra le quali la più importante è la legge 3 maggio 1982, n. 203 che trova soltanto una eco lontana nelle norme dedicate dal codice all’affitto a coltivatore diretto; sia quei contratti che, affermatisi in un primo tempo soltanto sul terreno della prassi giuridica hanno poi conseguito dignità legislativa: si tratta di quei contratti atipici che, guadagnata una tipicità sociale (come il leasing, o il factoring, o il franchising) hanno poi raggiunto, talora sotto la spinta di una direttiva comunitaria, una tipicità anche normativa. Quanto infine al profilo sub d) vengono in considerazione quei contratti che nascono sul terreno della prassi ed ai quali il legislatore non ha conferito il crisma della tipicità prevedendoli espressamente in una norma di legge. Si tratta, in quest’ultimo caso, di una incompletezza virtuale perché i contratti atipici, proprio in quanto tali, sono destinati a rimanere fuori dal titolo III

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del codice, così come da ogni testo normativo: possiamo al riguardo ricordare il contratto di catering, quello di sponsorizzazione, i contratti di ristorazione, di agriturismo, di posteggio, di campeggio, i contratti nel settore musicale o televisivo o della moda, ed ancora alcuni contratti finanziari aventi ad oggetto future, swap, option o crediti derivati. Non v’è dubbio che per certi versi questa enorme mole di materiale normativo e disciplinare sui singoli contratti, qualunque sia la sede in cui questi vengono previsti e regolati, e che finisce in taluni casi per sottrarre al codice la disciplina di contratti pur regolati nel suo seno (come la locazione) e in altri casi per inaugurare veri e propri nuovi sottosistemi contrattuali (come nel caso dei contratti agrari), viene ad alterare l’equilibrio “codicistico” fra parte generale e parte speciale dei contratti. La disciplina del contratto tende per alcuni versi a divenire sempre più disciplina dei contratti; la figura generale del contratto perde centralità, si affermano elementi differenziali che non consentono di considerare in modo omogeneo qualsiasi figura di contratto. Ad esempio norme di portata limitata, come quella sul recesso unilaterale, confinato nell’ambito dei rapporti di durata ed espressione di una prescrizione eccezionale rispetto alla regola generale, diventano direttive generali e caratterizzanti, sotto profili diversi, la materia della locazione e quella dei contratti di consumo. Il disequilibrio di cui si è fatto cenno si manifesta per altro verso con riferimento alle modalità con cui il contratto viene posto in essere, modalità che – lungi dall’incidere soltanto sotto il profilo formale e strutturale – determinano marcate differenze sotto il profilo della disciplina sostanziale: emerge così la figura del contratto del consumatore nel quale le parti sono il professionista, inteso come la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, e il consumatore; e del contratto di impresa in cui almeno una delle parti è imprenditore il che vale a conferire al contratto un particolare statuto disciplinare. In questo panorama così frastagliato ed articolato, il novero dei tipi contrattuali proposti non è casuale ma obbedisce ad un criterio. Abbiamo innanzitutto circoscritto l’area dei contratti tra i quali operare una scelta a quelli espressamente disciplinati dal codice, nella consapevolezza che alcuni contratti codicistici rappresentano, pur con le riserve che abbiamo sopra espresso, l’archetipo delle principali funzioni economiche che alimentano le relazioni fondamentali di mercato. Volutamente abbiamo pertanto omesso di estendere la trattazione ai contratti d’impresa, che trovano la loro disciplina al di fuori del codice civile, e che pur sono importanti per la funzione economica che esplicano (come per es. il leasing, o la subfornitura); e parimenti abbiamo scelto di non soffermarci su taluni profili di quei contratti che, pur non essendo neces-

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sariamente di impresa perché possono correre fra soggetti nessuno dei quali sia un imprenditore, obbediscono a regole differenziate allorché siano posti in essere da un imprenditore nell’esercizio della sua attività (come la vendita). Nel capitolo V abbiamo invece trattato separatamente il contratto di consumo che, secondo una corrente di pensiero, rappresenterebbe un paradigma contrattuale che si affiancherebbe a quello “ordinario” o “civile”, la cui disciplina si applica, al di là delle figure contrattuali espressamente considerate, in modo trasversale ad ogni contratto in cui siano parte un professionista ed un consumatore. Neppure abbiamo trascurato di considerare, nell’ambito della vendita, la particolare figura della vendita di beni di consumo in ragione della specificità della previsione normativa. La scelta, in questa sede, si è così ridotta ad alcune figure contrattuali fondanti le relazioni economiche fra privati, che affondano le loro radici nella più antica tradizione giuridica e si pongono, come osservato, come modello di riferimento per la disciplina di tutti quei contratti, tipici o atipici, d’impresa o del consumatore, che a quelle generali funzioni economiche possono ricondursi. Tali contratti sono, nell’ordine: vendita, contratto estimatorio, somministrazione, locazione, appalto, trasporto, mandato, deposito, comodato, mutuo, assicurazione, transazione, donazione. Per ciascuno di tali contratti è suggerita la lettura di una sentenza della Corte di Cassazione, preceduta da una breve introduzione sulla vicenda processuale e sui fatti di causa.

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SEZIONE I: IL CONTRATTO DI VENDITA 2. Cenni storici. La vendita e le vendite La primitiva modalità utilizzata dagli uomini per procurarsi i beni che loro necessitavano è stata il baratto cioè lo scambio di cosa contro cosa; i beni prodotti in eccesso venivano scambiati con quelli che altre comunità producevano in misura superiore ai loro bisogni cosicché ciascuno poteva assicurarsi la disponibilità dei beni necessari per vivere. Allorché fu inventato il danaro, capace di esprimere attraverso un parametro unitario e cioè il valore monetario, la misura di tutte le cose, fu definitivamente coniato un altro schema negoziale diretto alla acquisizione dei beni e cioè la vendita, che consentiva a chi si spogliava di un bene di conseguire una somma di danaro con la quale procurarsi un altro bene di cui aveva parimenti bisogno, e detenuto da altri disposto a scambiarlo, e così, attraverso la successiva trasmissione del danaro e l’acquisizione di un ulteriore bene, dare impulso alla circolazione della ricchezza. Si tratta di un negozio antichissimo che precede il diritto romano le cui origini possono farsi risalire al III secolo a.C. in seno alla civiltà assiro-babilonese, e più tardi a quella egizia e greca. Ancora oggi la vendita è il contratto al quale si fa più frequente ricorso per procurarsi un bene. Le grandi potenzialità espresse da questo contratto e la varietà dei suoi impieghi ne hanno favorito la frammentazione in una molteplicità di figure a seconda dei soggetti e dell’oggetto del contratto o della modalità di negoziazione. Ne deriva che le norme dettate dal codice civile ed in particolare quelle contenute nella sezione I del capo I del titolo III, dedicate alla disciplina generale della vendita, costituiscono un punto di riferimento importante ma certo non esaustivo. Per rendere l’idea di quanto ricco sia il panorama normativo della vendita è sufficiente ad esempio ricordare la disciplina della vendita di beni di consumo. Si tratta di norme originariamente inserite nel codice civile sub artt. da 1519 bis a 1510 novies e poi tradotte nel c.d. Codice del consumo agli artt. 128 ss. nei quali è disciplinata la vendita di cose mobili destinate al consumo, posta in essere tra un venditore che agisca nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale e un compratore persona fisica che agisca per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta; anzi la vis actractiva della figura è in questo caso così forte che

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la relativa disciplina – come osservato – trova applicazione trasversale ad altre figure diverse dalla vendita (come l’appalto, la somministrazione, la permuta) e a tutti gli altri contratti relativi alla fornitura di beni da fabbricare e produrre, destinati al consumo. Si pensi ancora alla vendita internazionale disciplinata dalla Convenzione di Vienna dell’11 aprile 1980 e ratificata con legge 11 dicembre 1985, n. 765, volta a disciplinare i contratti di vendita di beni mobili tra le parti le cui places of business si trovino in Stati differenti e che abbiano aderito alla Convenzione, alla quale si applicano norme particolari per quanto riguarda la formazione del contratto e i diritti e gli obblighi delle parti. Si pensi ancora al d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122 in tema di vendita di immobili da costruire diretto a rafforzare, in una fattispecie ricorrente nella economia degli affari, la tutela dell’acquirente alla acquisizione di un bene futuro e, in subordine, al recupero delle risorse impegnate nell’affare. E, per restare nell’ambito del codice civile, tutt’altro che insensibile a questa scomposizione della figura in una molteplicità di modelli, si pensi alle diverse tipologie di vendita previste nella Seconda sezione del citato capo I, ad esempio alla vendita con riserva di gradimento, a prova o a campione; alla vendita con riserva della proprietà o alla vendita di eredità. Non è certo possibile qui esaminare tutte le molteplici figure di vendita che la pratica degli affari propone e le singole leggi prevedono: avremo pertanto riguardo alla vendita prevista e disciplinata dal codice la quale, se pur occupa nella pratica un ambito residuale (poiché tende ad identificarsi con la vendita fra privati relativa nella maggior parte dei casi a cose usate), tuttavia conserva importanza fondamentale perché, assieme alle norme sulla disciplina generale del contratto, disegna il quadro normativo generale al quale ogni vendita speciale si rapporta e trova la sua regolamentazione di base; ciò non impedirà peraltro di fare opportuni riferimenti a singole figure, magari dedicando alle principali una maggiore attenzione.

3. La compravendita in generale Secondo la definizione che ne dà il codice la vendita è il contratto che ha per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa o il trasferimento di un altro diritto verso il corrispettivo di un prezzo. La conclusione del contratto non richiede forme particolari in conformità del principio generale della libertà delle forme negoziali. Tuttavia la vendita di beni immobili e la vendita di eredità richiedono la forma scritta; anche il contratto di subfornitura, disciplinato dalla legge 18 giugno 1998, n. 192 il quale, nella parte in cui prevede la fornitura al committente, a fronte del pa-

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gamento di un corrispettivo, di prodotti destinati ad essere utilizzati da quest’ultimo nell’ambito della sua attività economica o nella produzione di un bene complesso, realizza una finalità analoga alla vendita, deve essere stipulato in forma scritta a pena di nullità (art. 2). Le modalità di conclusione della vendita sono quelle generali previste dalla norma dell’art. 1326; ma il Codice del consumo agli artt. 45 ss. detta particolari modalità di conclusione per i contratti, soprattutto quelli di vendita, negoziati fuori dei locali commerciali (per es. durante la visita del professionista a domicilio, o durante una escursione organizzata, o per corrispondenza) o a distanza (ad es. vendite tramite mezzo televisivo o tramite computer) onerando il professionista di fornire al consumatore numerose informazioni, contemplando un diritto di recesso ad nutum di quest’ultimo e prevedendo specifiche sanzioni per il professionista che abbia contravvenuto alle suddette disposizioni. Per quanto riguarda la commercializzazione a distanza dei servizi finanziari l’art. 67 septies cod. cons. prevede la nullità del contratto nel caso in cui il fornitore ostacoli l’esercizio del diritto di recesso, non rimborsi le somme ovvero violi gli obblighi di informativa contrattuale così da alterare in modo significativo la rappresentazione da parte del consumatore delle caratteristiche del servizio finanziario fornito. La vendita, come qualsiasi altro contratto, ha forza di legge tra le parti: dunque nessuna di esse può sciogliersi dal vincolo con una manifestazione unilaterale di volontà. Tale regola subisce una considerevole mutilazione proprio nel settore dei contratti dei consumatori; ad esempio, come abbiamo appena visto, in tema di contratti stipulati fuori dei locali commerciali o a distanza o ancora in materia di contratti di multiproprietà, di vendita di prodotti per le vacanze a lungo termine, il consumatore può recedere dal contratto entro un breve termine (che a seconda dei casi va dai dieci ai quattordici giorni) senza sostenere spese e senza obbligo di alcuna motivazione (c.d. recesso ad nutum). Scopo della vendita è il trasferimento della proprietà di un bene; ma tale effetto non è monopolio della vendita. Altri negozi infatti (si pensi alla permuta, alla donazione) realizzano il medesimo effetto; peraltro schemi negoziali non preordinati al trasferimento della proprietà possono essere impiegati per realizzare lo stesso risultato (si pensi al mandato irrevocabile ad amministrare senza obbligo di rendiconto). Dunque la specificità della vendita, la sua peculiarità che ne fa un unicum, come qualsiasi contratto, va colta sul piano della causa: l’effetto del trasferimento di proprietà del bene è funzionalmente collegato al pagamento di un corrispettivo cosicché la vendita si identifica e si definisce solo attraverso lo schema del trasferimento della proprietà di un bene dietro versamento di un corrispettivo in danaro che si chiama prez-

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zo (art. 1470 c.c.). D’altro canto lo schema della vendita e l’effetto traslativo del diritto non sono necessariamente collegati alla natura reale del diritto trasferito (e tanto può argomentarsi dall’art. 1376 che descrive l’effetto reale anche in relazione a diritti diversi dalla proprietà); così è corretto parlare di vendita del diritto di usufrutto o di vendita di un credito (cessione del credito: artt. 1260 ss.); ed anche di vendita di multiproprietà con riferimento a quel contratto con il quale il consumatore acquista a titolo oneroso il diritto di godimento perpetuo su un alloggio per un periodo di tempo limitato nel corso dell’anno (artt. 69 ss. cod. cons.). La vendita è un contratto consensuale: si perfeziona cioè, come si ricorderà, per effetto del semplice consenso legittimamente manifestato senza che occorra la consegna della cosa. Ove abbia per oggetto una cosa esistente e determinata, mobile o immobile e di proprietà del venditore, la vendita ha effetti reali, produce cioè, in virtù di quel consenso, l’effetto del trasferimento della proprietà. Il bene dovrà certo essere consegnato al compratore ma la consegna, come sappiamo, è soltanto un atto esecutivo di un trasferimento già avvenuto, l’adempimento di un’obbligazione, la principale, che grava sul venditore. Non è superfluo richiamare l’attenzione sulla circostanza che l’effetto reale (in conformità di quanto dispone l’art. 1376 c.c.) è riferito al solo trasferimento della proprietà del bene: il trasferimento del prezzo rimane oggetto di un obbligazione, che grava sul compratore, al pari come si è visto della consegna. Se non ricorrono i requisiti sopra menzionati, che sono presupposto della efficacia reale del contratto, la vendita avrà effetti solo obbligatori. Così per la vendita di cose generiche: l’art. 1378 c.c. stabilisce la diversa regola per la quale se il contratto ha ad oggetto il trasferimento di cose determinate solo nel genere, la proprietà si trasmette con la individuazione cioè con la specificazione, la separazione dal genere della quantità che si intende trasferire. Nel capo I del titolo III dedicato alla vendita trovano posto due importanti figure di vendite obbligatorie: la vendita di cosa futura e la vendita di cosa altrui. Vedremo in seguito perché la prima trova collocazione sotto le disposizioni generali (sezione I) mentre la seconda è prevista nel successivo § 1 ove sono disciplinate le obbligazioni del venditore. Cominciamo dalla seconda.

4. Vendita di cosa altrui Stabilisce l’art. 1478 che se al momento del contratto la cosa venduta non è di proprietà del venditore questi è obbligato a procurarne l’acquisto al compratore. Invero, sull’esclusivo piano degli effetti contrattuali, l’altruità

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della cosa costituisce ostacolo insuperabile al dispiegarsi dell’effetto reale a ciò ostando il principio generale secondo il quale nessuno può trasferire un diritto di cui non è titolare (nemo plus iuris transferre potest quam ipse habet); perché un soggetto possa validamente trasferire un diritto è perciò necessario che ne sia titolare. Diversi dalla fattispecie in esame sono gli acquisti a non domino, situazioni in cui il legislatore conferisce rilievo alla ricorrenza di diversi elementi in concorso fra loro (come la buona fede, cioè l’ignoranza che l’alienante non è il titolare del diritto, il possesso del bene e l’idoneità del titolo al trasferimento), sanando il difetto di legittimazione attiva dell’alienante e consentendo al compratore di cosa altrui di acquisire la proprietà del diritto trasferito (art. 1153). Le due ipotesi (vendita di cosa altrui e acquisto dal non proprietario) non sono infatti del tutto sovrapponibili: negli acquisti a non domino il compratore ignora l’altruità della cosa; nella vendita di cosa altrui il compratore sa che il venditore non è proprietario del bene (e dunque non è configurabile lo stato di buona fede dell’acquirente che costituisce uno dei presupposti dell’acquisto a non domino). Ed invero il compratore che sia in buona fede ed ignori perciò l’altruità della cosa (e che non possa o non voglia fare ricorso alla regola possesso di buona fede vale titolo), può chiedere la risoluzione del contratto, oltre al risarcimento del danno, qualora il venditore non gli abbia fatto acquistare la proprietà (art. 1479). Gli effetti obbligatori, che dunque sortiscono dalla vendita di cosa altrui, appaiono funzionali all’intento pratico che con tale negozio le parti intendono perseguire e che si sostanzia nel trasferire la proprietà del bene altrui al compratore. Tale effetto si realizza attraverso la nascita di un obbligo specifico a carico del venditore che il legislatore descrive come “obbligo di procurare l’acquisto”. Certo, si tratta di un obbligo la cui esecuzione può non essere nella assoluta disponibilità del venditore-debitore perché il suo adempimento è talora complesso e può dipendere anche dalla volontà di un terzo e cioè dal titolare del diritto che deve acconsentire al trasferimento. In altri casi l’acquisto del diritto può invece dipendere soltanto dal venditore, come nel caso in cui un soggetto alieni un bene che ha solo compromesso con un contratto preliminare e del quale non è dunque ancora proprietario, ma che è in sua facoltà acquisire, in caso di inadempimento del suo dante causa, attraverso l’esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto. In ogni caso l’inadempimento del vincolo obbligatorio che grava sul venditore di un bene altrui produce tutte le conseguenze tipiche di un inadempimento: cosicché il compratore ha diritto ai rimedi previsti nell’art. 1479, secondo comma (il risarcimento del danno, la restituzione del prezzo pagato, il rimborso delle spese sostenute).

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L’adempimento dell’obbligo ha l’effetto di rimuovere l’ostacolo che si opponeva alla produzione dell’effetto reale; converte l’alienità della cosa in proprietà e sana il difetto di legittimazione del venditore “liberando” quell’effetto reale del trasferimento prima impedito dalla altruità del diritto. Il secondo comma dell’art. 1478 descrive l’effetto reale e lo colloca nel tempo: il compratore diventa proprietario del bene nel momento in cui il venditore ne acquista la proprietà dal titolare. Come osservato, l’acquisto della proprietà da parte del venditore rimuove l’ostacolo che si frapponeva al dispiegarsi dell’effetto reale (il difetto di titolarità del diritto) e rende possibile la produzione di quell’effetto. Non occorre dunque un nuovo negozio di trasferimento del bene ma il passaggio di proprietà avviene per effetto del contratto di vendita di cosa altrui, nel momento in cui il venditore, acquistandone la proprietà, adempie all’obbligo di procurarne l’acquisto al compratore. L’effetto reale può dirsi dunque un portato della vendita di cosa altrui: la vocazione traslativa della vendita di cosa altrui è così forte, secondo una corrente di pensiero, da indurre a configurare tale vendita un contratto a effetti reali differiti, nel quale la produzione dell’effetto reale è in nuce contenuto nella fattispecie. Ed invero (ed indipendentemente dalla circostanza che – come già osservato – non occorre un ulteriore negozio di trasferimento dal venditore al compratore) può apparire un artificio scomporre l’effetto reale in due distinti momenti, l’uno relativo all’acquisto del venditore dal terzo proprietario, e l’altro relativo all’acquisto del compratore; la contestualità logico-temporale dell’acquisto dell’acquirente e di quello del venditore di cosa altrui, depone per la unicità formale dell’effetto reale che si traduce nel simultaneo e sincronico trasferimento della proprietà del diritto dal terzo al compratore di cosa altrui in conseguenza della fattispecie negoziale e dell’adempimento dell’obbligo di procurare l’acquisto. Tali considerazioni rafforzano, a nostro avviso, la opinione che vede nella vendita di cosa altrui una figura sui generis di vendita ad effetti reali. Solo il manifesto collegamento del contratto e dell’effetto reale con l’obbligo gravante sul venditore di procurare l’acquisto della proprietà al venditore giustifica pertanto la collocazione della norma nel paragrafo dedicato alle obbligazioni gravanti sul venditore.

5. Vendita di cosa futura La vendita di cosa futura è invece collocata, come dicevamo, tra le disposizioni generali della vendita: qui il collegamento con l’obbligo gravante sul venditore è più sfumato, è eventuale e strumentale all’evento da cui dipende l’ef-

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ficacia del negozio, che consiste nella venuta ad esistenza del bene: infatti, al momento del contratto, la cosa ancora non esiste perché è appunto futura ed il suo realizzarsi può dipendere dall’attività dell’uomo ovvero prescinderne. L’effetto reale della vendita è in questo caso precluso dalla inesistenza del bene; la efficacia obbligatoria di tale vendita investe la circostanza che il venditore è tenuto ad osservare il comportamento necessario perché la cosa venga ad esistenza: ad esempio non ostacoli la nascita di cuccioli di cane, o irrighi il campo da cui deriverà il raccolto del grano o curi, direttamente o indirettamente, la costruzione della casa ancora da realizzare. Si noti che nella vendita di cosa futura se il venditore ha osservato il suo obbligo “di protezione”, ha cioè fatto tutto il possibile perché la cosa venisse ad esistenza e ciononostante la cosa sia mancata, la vendita è semplicemente nulla senza ulteriori conseguenze; al contrario, qualora il venditore di cosa altrui non riesca a procurare l’acquisto al compratore risponderà invece dei danni anche nel caso in cui il terzo si sia rifiutato legittimamente di trasferire il suo diritto: segnale evidente delle diverse conseguenze che discendono dalla mancata esecuzione dell’obbligo gravante sul venditore, nelle due predette figure. Così come l’acquisto della proprietà dal terzo nella vendita di cosa altrui, la venuta ad esistenza della cosa nella vendita di cosa futura rimuove l’ostacolo che prima si frapponeva al dispiegarsi dell’effetto reale. Il contratto è commutativo e dunque, se la cosa non viene ad esistenza (e salva la eventuale responsabilità per inadempimento del venditore) sarà nullo perché è venuto meno un elemento essenziale dello scambio. Può essere peraltro che le parti abbiano voluto porre in essere una vendita aleatoria, abbiano cioè convenuto che il compratore assuma il rischio della mancata venuta ad esistenza della cosa ed acquisti una mera chance, con la conseguenza che il prezzo corrisposto è in questo caso giustificato sebbene la cosa sia mancata. Ad una particolare fattispecie di vendita di cose future, quella degli immobili da costruire, il legislatore, su impulso della Unione europea, ha recentemente dedicato una apposita disciplina e ciò ha fatto in ragione della frequenza delle contrattazioni e della rilevanza sociale di tali negozi, con il proposito di rafforzare la tutela dell’acquirente. Il d.lgs. 20 giugno 2005, n. 122 stabilisce che il venditore-costruttore di un immobile da costruire ha l’obbligo di consegnare all’acquirente una fideiussione a garanzia della eventuale restituzione delle somme corrisposte o che il compratore corrisponderà al venditore prima del trasferimento della proprietà o di altro diritto reale di godimento; il mancato rilascio della polizza è sanzionato con la nullità del contratto, nullità che è relativa in quanto può essere fatta valere soltanto dall’acquirente.

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Il recente d.lgs. n. 14 del 2019 ha rafforzato la tutela dell’acquirente stabilendo l’obbligo di stipulare il contratto preliminare nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata. Il notaio, che non stipulerà l’atto in assenza della fideiussione, ha l’obbligo di verificare ed attestare la correttezza della fideiussione e la sua conformità ad un modello ministeriale, nonché di procedere alla relativa trascrizione dell’atto ai sensi dell’art. 2645 bis cod. civ.

6. Le obbligazioni nascenti dalla compravendita. Le obbligazioni del compratore La principale obbligazione del compratore è quella di pagare il prezzo della vendita (art. 1498) e, salva diversa pattuizione, le relative spese (art. 1475). Il prezzo deve essere pagato nel termine e nel luogo fissati nel contratto; in difetto di previsione il pagamento deve avvenire nel luogo e al tempo della consegna e, ove il prezzo non debba essere corrisposto contestualmente alla consegna, il pagamento – trattandosi di obbligazione pecuniaria – deve essere fatto nel domicilio del creditore (art. 1182). Il prezzo deve essere determinato o determinabile, in difetto il contratto è nullo (artt. 1346 e 1418). Generalmente sono le parti a determinare il prezzo ma possono anche affidarne la determinazione ad un terzo (art. 1473). Ove le parti non abbiano determinato il prezzo e non abbiano indicato i criteri per la sua determinazione, ovvero abbiano fatto riferimento al giusto prezzo, la legge prevede regole integrative (art. 1474): così, se il contratto ha ad oggetto cose che il venditore vende abitualmente si presume che il prezzo sia quello normalmente praticato dal venditore stesso; se si tratta di cose aventi un prezzo di borsa o di mercato il prezzo è quello dei relativi listini di riferimento; infine ove non siano applicabili tali regole e le parti non raggiungano un accordo, la determinazione del prezzo è affidata ad un terzo nominato dalle parti o, in caso di disaccordo, dal Presidente del Tribunale del luogo in cui è stato concluso il contratto. Ulteriore obbligo del compratore è quello di corrispondere gli interessi compensativi sul prezzo, anche se non ancora esigibile, purché la cosa già consegnatagli sia produttiva di frutti o altri proventi (art. 1499). Il prezzo è frutto della scelta delle parti in un libero mercato; può essere un prezzo equo, in linea con i parametri di mercato relativi a prestazioni di quel genere, come può rappresentare l’indice di un ottimo ovvero di un pessimo affare a seconda della parte che trae beneficio o nocumento dalla manifesta “distanza” del prezzo dal “giusto” valore di mercato. Esso peraltro, proprio in quanto espressione del valore delle cose e quale punto di incontro,

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sul mercato dei beni, dei contrapposti interessi delle parti, non sfugge ai controlli dell’ordinamento; abbiamo visto, ad esempio, che nei contratti a prestazioni corrispettive la sua manifesta sproporzione al momento della conclusione del contratto o durante la sua esecuzione può dar luogo, nella ricorrenza di tutti i presupposti di legge e nell’ordine, all’azione di rescissione per lesione o a quella di risoluzione per eccessiva onerosità. Indipendentemente da queste ipotesi il legislatore si mostra sempre più attento al controllo della c.d. giustizia contrattuale. Ad esempio l’art. 9 della legge 18 giugno 1998, n. 192 vieta l’abuso da parte di una impresa dello stato di dipendenza economica nel quale si trova nei suoi riguardi un’altra impresa; la norma espressamente considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi; inoltre, ed ancora più significativamente, l’art. 6, n. 3 della citata legge sanziona con la nullità il patto con il quale il subfornitore abbia disposto senza congruo corrispettivo dei diritti di privativa industriale o intellettuale in favore del committente (v. infra, p. 235 s.).

7. Segue: le obbligazioni del venditore A fronte di due sole norme contenute nel paragrafo dedicato alle obbligazioni del compratore, quello che ospita le obbligazioni del venditore è ben più ricco ed articolato. La vendita ha normalmente effetti reali; ma se l’acquisto non è effetto immediato del contratto nasce in capo al venditore l’obbligo di fargli acquistare la proprietà della cosa o il diritto (è quanto accade come abbiamo visto in relazione alle fattispecie della vendita di cosa altrui e di cosa futura o della vendita di cosa generica). Tale obbligo è primario ed è funzionale allo scopo della vendita che è quello di attuare il trasferimento del diritto dal venditore all’acquirente. L’acquirente peraltro non potrebbe soddisfare il suo interesse ed esercitare il suo potere sulla cosa, non potrebbe cioè materialmente godere del bene, se il venditore non gliene facesse conseguire la concreta disponibilità: l’atto (consegna) che consente al compratore di ricevere materialmente la cosa e di trarne utilità, costituisce adempimento dell’obbligo primario posto in capo al venditore di consegnare il bene oggetto della vendita all’acquirente. La cosa va consegnata provvista degli accessori, delle pertinenze e dei titoli relativi alla proprietà (art. 1477) nel luogo fissato nel contratto o, in difetto di previsione delle parti, nel luogo dove la cosa si trovava al momento della vendita, ove noto alle parti stesse, ovvero nel luogo dove il venditore

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aveva il suo domicilio o la sede dell’impresa; se invece la cosa deve essere trasportata, il venditore adempie il suo obbligo con la consegna al vettore (art. 1510). Qualora la consegna manchi il venditore è inadempiente ed il compratore può esperire i rimedi generali contro l’inadempimento può cioè agire per la manutenzione del contratto e richiedere l’adempimento ovvero agire per la risoluzione (art. 1453). Alla ipotesi della mancata consegna è equiparata l’altra in cui il venditore abbia consegnato una cosa totalmente difforme da quella promessa, economicamente diversa da quella dedotta ad oggetto del contratto (consegna di aliud pro alio, una cosa per un’altra); in questo caso il compratore può parimenti insistere per l’adempimento o richiedere la risoluzione. La giurisprudenza riconduce a questa figura l’ipotesi di vendita di un immobile privo dei requisiti necessari per il rilascio del certificato di abitabilità che costituisce requisito giuridico essenziale del bene compravenduto.

8. La garanzia per evizione Il venditore è altresì tenuto alla garanzia per evizione ove abbia consegnato la cosa al compratore senza fargliene acquistare la piena e libera proprietà; e alla garanzia per i vizi ove la cosa consegnata presenti difetti o manchi delle qualità promesse. L’evizione deriva, secondo la tradizione del diritto romano, dal termine evictus che indica la posizione dell’acquirente soccombente nel giudizio in cui il terzo abbia rivendicato con successo la proprietà della cosa venduta. Scopo della vendita è quello di far acquistare la proprietà al compratore e ben si comprende come il venditore sia tenuto a garantire questo risultato. La garanzia opera sia nel caso in cui il venditore non sia proprietario della cosa venduta sia nel caso in cui trasferisca un bene gravato da oneri, vincoli, diritti di godimento personali o reali di terzi, non dichiarati nel contratto (artt. 1482, 1489). In particolare, ove la cosa sia gravata da garanzie reali, pignoramento o sequestro non dichiarati dal venditore ed ignorati dal compratore, quest’ultimo può sospendere il pagamento del prezzo e se la cosa non è liberata può chiedere la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno (art. 1482); se invece la cosa è gravata da oneri o diritti di godimento, personali o reali, di terzi non dichiarati e non conosciuti dal compratore, quest’ultimo può domandare la risoluzione del contratto oppure una riduzione del prezzo (art. 1489). La garanzia per evizione comprende non solo l’ipotesi di alienazione della proprietà ma anche quella della cessione di un credito, essendo tenuto il ce-

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dente a titolo oneroso a garantire l’esistenza del credito al tempo della cessione (art. 1266). La garanzia per evizione costituisce un effetto naturale del contratto, non essendo necessario che essa sia espressamente prevista e pattuita. Le parti possono peraltro regolarne l’operatività: possono, ad esempio, aggravare o diminuire gli effetti della garanzia, così come possono anche escluderla (art. 1487, primo comma) e in questo caso, ove si verifichi l’evizione, il compratore ha diritto soltanto alla restituzione del prezzo e al rimborso delle spese (art. 1488, primo comma); se invece le parti hanno voluto concludere un contratto aleatorio ponendo il rischio dell’evizione a carico del compratore, il venditore è esente da ogni obbligo (art. 1488, secondo comma). L’esclusione della garanzia non è consentita e ogni patto contrario sarebbe nullo, ove l’evizione derivi da fatto proprio del venditore (art. 1487, secondo comma). I profili processuali della garanzia per evizione sono regolati nell’art. 1485 che fa obbligo al compratore convenuto in giudizio dal terzo che vanta diritti sulla cosa, di chiamare in causa il venditore per consentirgli di opporsi alla domanda e di confermare i suoi diritti sulla cosa; ove il compratore non ottemperi e sia condannato perde la garanzia se il venditore dimostra che – ove fosse stato chiamato in giudizio – avrebbe ottenuto il rigetto della domanda avanzata dal terzo (primo comma). Del pari il compratore perde la garanzia ove riconosca spontaneamente il diritto del terzo e non riesca a fornire la prova della inesistenza di sufficienti ragioni per farne respingere la domanda (secondo comma). Il compratore che al momento della vendita non sapeva di correre il rischio della evizione e che abbia poi ragione di temere che la cosa possa essere rivendicata da un terzo, può sospendere il pagamento del prezzo se il venditore non presta idonea e specifica garanzia (art. 1481). Abbiamo già ricordato che il compratore ignaro che la cosa non era di proprietà del venditore può chiedere la risoluzione del contratto se frattanto quest’ultimo non gliene ha fatto acquistare la proprietà (art 1479). Il compratore che subisca l’evizione totale della cosa può richiedere la restituzione del prezzo, il rimborso delle spese e il risarcimento del danno (art. 1483). Può avvenire che la cosa che il compratore riteneva di proprietà del venditore era solo in parte di proprietà altrui; in questo caso il compratore può chiedere la risoluzione del contratto se dimostra che non l’avrebbe concluso senza quella parte di cui non ha acquistato la proprietà, altrimenti può chiedere soltanto una proporzionale riduzione del prezzo (art. 1480); analoga disciplina si applica ove il compratore subisca l’evizione parziale della cosa (art. 1484). Il compratore in buona fede può inoltre chiedere – come accennato – la risoluzione del contratto ove la cosa sia gravata da garanzie reali o altri vincoli (art. 1482) o da oneri e diritti di godimento di terzi (art. 1489).

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Allorché il compratore non sia a conoscenza che la cosa non era di proprietà del venditore o questa sia gravata da garanzie reali, sequestri o pignoramenti e subisca l’evizione, e ove non abbia voluto stipulare un contratto aleatorio, può chiedere la risoluzione del contratto, o la riduzione del prezzo ed il risarcimento del danno. Se invece la cosa è gravata da diritti di terzi e ciononostante il compratore l’abbia acquistata egli non ha alcuna tutela (arg. ex art. 1489) dovendosi ritenere che abbia voluto l’acquisto della cosa nella condizione giuridica in cui si trovava.

9. La garanzia per i vizi Il venditore è inoltre tenuto a garantire il compratore che la cosa sia immune da quei vizi, ignorati al momento del contratto e non facilmente riconoscibili dal compratore medesimo, che rendano la cosa inidonea all’uso a cui è destinata ovvero ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore (artt. 1490, 1491); ed è altresì tenuto a garantire che la cosa presenti le qualità promesse o essenziali per il suo uso (art. 1497). In entrambe le ipotesi il compratore può domandare a sua scelta la risoluzione del contratto (azione redibitoria, cioè restitutoria) ovvero una riduzione del prezzo (azione aestimatoria o quanti minoris) (artt. 1492, 1497). In caso di risoluzione del contratto il venditore deve restituire il prezzo e il compratore la cosa ricevuta (art. 1493); in alternativa il compratore potrà richiedere una riduzione del prezzo proporzionale alla ridotta idoneità della cosa a soddisfare l’uso cui è destinata o al suo diminuito valore; in ogni caso il venditore dovrà risarcire il danno (se non riesce a provare di avere ignorato senza colpa i vizi della cosa) compreso quello che sia derivato al compratore dai predetti vizi (art. 1494). La disciplina dell’azione è improntata all’esigenza di far conseguire al rapporto una certa stabilità in un tempo ragionevole. Per questo il compratore ha l’onere di denunciare il vizio entro il termine di decadenza di otto giorni decorrenti dalla scoperta (che solo in caso di vizio apparente coincide con la consegna); e da questo onere è assolto ove il venditore abbia riconosciuto l’esistenza del vizio o l’abbia occultato (art. 1495, primo comma). L’azione è soggetta al breve termine di prescrizione di un anno dalla consegna; però, se la garanzia è fatta valere in via di eccezione dal compratore convenuto in giudizio dal venditore per l’esecuzione del contratto, il compratore può sempre invocarla, purché abbia denunciato il vizio entro gli otto giorni dalla scoperta prima del decorso dell’anno dalla consegna (art. 1495). La norma sulla garanzia per vizi ha carattere dispositivo, perciò le parti

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possono escluderla, aggravarla o limitarla, ma il relativo patto è invalido ove il venditore abbia taciuto in mala fede i vizi al compratore (art. 1490, secondo comma). Anche nella vendita di beni di consumo il venditore è tenuto a garantire il compratore che la cosa sia esente da vizi e presenti le qualità promesse: la garanzia assume qui il nome di conformità al contratto ed è un concetto più ampio di quello adottato dal codice civile. Il bene, per essere conforme al contratto, non solo deve essere idoneo all’uso e presentare le qualità e le prestazioni che abitualmente presentano i beni dello stesso tipo, ma deve anche trovare corrispondenza nella descrizione fattane dal venditore e nelle dichiarazioni pubbliche fornite dal produttore o dal rivenditore nella pubblicità e sulla etichetta (art. 129, n. 1, cod. cons.). Il difetto di conformità non può essere invocato dal consumatore che lo abbia conosciuto o avrebbe dovuto conoscerlo con l’ordinaria diligenza; ed il venditore non risponde del difetto di conformità ove lo stesso non fosse a conoscenza delle dichiarazioni pubbliche e nemmeno avrebbe potuto conoscerle con l’ordinaria diligenza, ovvero ancora se queste non abbiano comunque influenzato la decisione dell’acquisto (art. 129, nn. 3 e 4, cod. cons.). La tutela del consumatore, ove la cosa sia difforme da quella promessa, è più ricca e articolata di quella che spetta all’acquirente ai sensi delle norme del codice civile. Mentre infatti il compratore in base alle norme generali sulla vendita può soltanto chiedere la risoluzione del contratto o la riduzione del prezzo, il consumatore ha diritto in primo luogo al ripristino della conformità del bene e può chiedere la riparazione o la sostituzione del bene (art. 130, n. 3, cod. cons.); ma se il venditore non provvede, ovvero se la riparazione o la sostituzione sono impossibili o eccessivamente onerose o hanno arrecato notevoli inconvenienti al consumatore, quest’ultimo può chiedere a sua scelta una congrua riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto (art. 130, n. 7, cod. cons.). I termini dell’azione risultano ampliati rispetto alla disciplina del codice. Il venditore risponde del difetto di conformità se questo si manifesta entro due anni dalla consegna purché il compratore lo abbia denunciato, a pena di decadenza, entro due mesi dalla scoperta; ma la denuncia non è necessaria se il venditore ha riconosciuto l’esistenza del difetto o lo ha occultato. L’azione diretta a far valere i difetti di conformità non dolosamente occultati dal venditore si prescrive in ventisei mesi dalla consegna del bene, ma il compratore convenuto per l’esecuzione del contratto può sempre far valere i suoi diritti purché abbia denunciato il difetto di conformità entro i due mesi dalla scoperta e prima della scadenza del termine di ventisei mesi dalla consegna (art. 132, cod. cons.).

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10. Vendita con patto di riscatto Il venditore può avere interesse a riservarsi la possibilità di riacquistare il bene dal compratore. Tale interesse si realizza attraverso la previsione di un patto c.d. di riscatto che configura una condizione risolutiva potestativa: una condizione cioè che fa dipendere dalla volontà del titolare del diritto di riscatto la risoluzione degli effetti della vendita. Con tale patto il venditore si riserva il diritto di riavere la proprietà della cosa venduta restituendo il prezzo e corrispondendo i rimborsi stabiliti dalla legge (art. 1500 c.c.). La condizione determina un vincolo alla circolazione del bene imprimendogli una destinazione obbligata in favore del titolare del diritto: si capisce pertanto perché il legislatore, allo scopo di rimuovere l’intralcio al libero mercato, abbia stabilito un termine legale per l’esercizio del riscatto (due anni per la vendita di beni mobili, cinque per quella immobiliare) insuscettibile di essere prorogato (art. 1501); per la stessa ragione il venditore decade dal diritto se entro i suddetti termini non comunica al compratore la dichiarazione che intende riscattare il bene, che si configura come diritto potestativo, e non gli corrisponde il prezzo e le altre somme dovute, ovvero se non faccia offerta reale delle somme rifiutate dal compratore entro otto giorni dalla scadenza del termine (art. 1503). La figura della vendita con patto di riscatto si presta ad essere utilizzata per raggiungere finalità diverse da quelle sue proprie e in particolare finalità di finanziamento che la legge vieta sanzionando la nullità del patto o dell’intero contratto. Lo scopo di finanziamento è ben evidente nell’accordo che prevede la restituzione di un prezzo maggiore di quello ricevuto a fronte della vendita: il plusvalore verrebbe a costituire un interesse che è fuori del sinallagma contrattuale nel quale la disponibilità del danaro da parte del venditore trova una giustificazione causale nel godimento temporaneo del bene da parte del compratore: non vi è ragione tuttavia di sancire la nullità dell’intero contratto, ed invero l’art. 1500, secondo comma, stabilisce che tale patto è nullo per l’eccedenza. Ma il patto di riscatto nemmeno può servire per garantire finanziamenti aggirando il divieto del patto commissorio. Sappiamo che il patto con il quale si conviene che, in mancanza del pagamento nel termine fissato, la proprietà della cosa data in pegno o in ipoteca passi al creditore, è sanzionato con la nullità (art. 2744); e sappiamo che tale nullità si estende a quei negozi di per sé leciti ma che siano utilizzati per raggiungere il risultato vietato dalla legge (art. 1344). Sono numerose le sentenze che sanzionano la nullità di vendite con patto

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di riscatto che simulano vendite a scopo di garanzia, nelle quali il prezzo pagato costituisce il finanziamento erogato dal compratore-creditore al venditore-debitore e la cosa venduta l’oggetto di una garanzia reale in favore del finanziatore. Se alla scadenza il venditore non potrà esercitare il riscatto e restituire il finanziamento, il bene ceduto resterà definitivamente acquisito al patrimonio dell’acquirente; il venditore infatti, non disponendo della liquidità necessaria per l’esercizio del riscatto, non sarà in grado di restituire il finanziamento ricevuto e perderà definitivamente la proprietà della cosa alienata in garanzia del credito ottenuto e mascherato sotto forma di prezzo: è evidente che in questo caso l’acquisto della proprietà verrebbe a dipendere dall’inadempimento del finanziato tenuto alla restituzione, il che è proprio quanto la legge intende vietare. Con l’esercizio del diritto di riscatto il venditore ridiviene proprietario della cosa; non occorre un altro negozio come invece nel c.d. patto di retrovendita con il quale il compratore a mezzo di un contratto preliminare unilaterale si obbliga a rivendere la cosa al venditore a richiesta di quest’ultimo. L’esercizio del riscatto ha effetto reale e pertanto il venditore che l’abbia legittimamente esercitato nei confronti del compratore può ottenere la restituzione della cosa anche dai terzi acquirenti e questi potranno recuperare il prezzo pagato presso il compratore, loro dante causa; ma se il compratore ha notificato l’alienazione al venditore questi è tenuto ad esercitare il riscatto direttamente nei confronti del terzo acquirente (art. 1504). Se si tratta però di vendita immobiliare la domanda e la dichiarazione di riscatto debbono essere trascritte; la trascrizione di tali atti eseguita dopo sessanta giorni dalla scadenza del termine per l’esercizio del riscatto non pregiudica i diritti acquistati dai terzi dopo la scadenza del suddetto termine ove questi abbiano trascritto o iscritto il loro acquisto anteriormente alla trascrizione della domanda o della dichiarazione (art. 2653, n. 3, c.c.). L’efficacia reale non assiste invece il patto con il quale le parti, in luogo di riservare al venditore la facoltà di riscattare il bene, abbiano previsto in favore dello stesso un diritto di prelazione per l’ipotesi in cui il compratore intenda trasferire il bene comprato: in questa ipotesi il patto ha mera efficacia obbligatoria e la sua inosservanza da parte del compratore che alieni a un terzo in violazione del patto dà luogo ad una azione risarcitoria del venditore avente diritto alla prelazione il quale, pertanto, non potrà riscattare la cosa presso il terzo al quale sia stata venduta.

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11. Vendita con riserva di proprietà Può accadere e sovente accade che, da un lato, il compratore non disponga dell’intero prezzo, e abbia tuttavia l’esigenza di godere subito del bene; e che il venditore, dall’altro, abbia convenienza a disfarsi del bene assicurandosi la vendita: per soddisfare queste esigenze il codice prevede agli artt. 1523 ss. la vendita con riserva di proprietà. Si tratta della vendita c.d. a rate in cui il compratore consegue subito, al momento del contratto, il godimento del bene e si obbliga a corrispondere il prezzo in rate periodiche entro un certo termine. La utilità socio-economica di questo contratto è evidente: essa favorisce l’approvvigionamento di beni anche da parte dei ceti sociali che non dispongono di sufficiente liquidità ed agevola la collocazione dei beni sul mercato da parte dei produttori e dei rivenditori. Si tratta di uno schema contrattuale che ha largamente contribuito nel dopoguerra alla ripresa economica dei consumi e del quale ancora oggi si fa largamente impiego: la riserva della proprietà, come vedremo, garantisce il venditore nel caso il compratore non paghi l’intero prezzo e l’anticipato godimento finisce per assolvere ad una funzione di finanziamento del compratore che non possiede le risorse per pagare subito il prezzo della vendita. La vendita come sappiamo ha, in genere, effetti reali e non basta certo il mancato pagamento del prezzo per impedire l’effetto acquisitivo della proprietà; per raggiungere questo risultato era pertanto necessario che il legislatore prevedesse espressamente il differimento del passaggio della proprietà al pagamento dell’intero prezzo. Perciò nella vendita a rate tutti gli effetti propri della vendita si verificano al momento del contratto tranne quello reale, che è appunto differito nel tempo e sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento integrale del prezzo di vendita. Stabilisce infatti l’art. 1523 che il compratore acquista la proprietà della cosa con il pagamento dell’ultima rata del prezzo; ma poiché ne acquista subito il godimento egli risponderà del perimento della cosa assumendosi il rischio del fortuito dal momento della consegna, in deroga alla nota regola per cui res perit domino. La legge tutela il compratore inadempiente di fronte a possibili abusi. Il venditore non può infatti risolvere il contratto per il mancato adempimento di una sola rata che non superi l’ottava parte del prezzo ed il compratore conserva il beneficio del termine relativamente alle rate successive (art. 1525); se ha luogo la risoluzione per inadempimento, il venditore ha diritto ad un equo compenso per l’uso della cosa e al risarcimento del danno ma deve restituire le rate riscosse (1526). Il venditore, finché è proprietario della cosa per effetto della riserva, può opporsi a che i creditori dell’acquirente soddisfino le loro ragioni sul bene acquistato a rate; per l’opponibilità ai creditori del compratore è però neces-

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sario che la riserva risulti da atto scritto avente data certa anteriore al pignoramento (art. 1524, primo comma). Spesso il venditore, che può concludere contratti di credito con l’acquirente solo nella forma della dilazione del prezzo con esclusione del pagamento di interessi o altri oneri (art. 122, n. 5 del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385 e successive modificazioni), ricorre ad un “contratto di credito collegato” e cioè ad un contratto di credito finalizzato a finanziare la fornitura di un bene o la prestazione di un servizio (art. 121 TUB, cit., lett. d): in questo caso il finanziatore eroga al venditore il prezzo e l’acquirente consumatore finanziato si obbliga nei confronti del finanziatore a restituire quanto ricevuto, oltre agli interessi; ma l’acquirente, al contrario di quanto avviene nella vendita a rate, diviene subito proprietario del bene sul quale il finanziatore potrà soddisfarsi in caso di inadempimento del finanziato all’obbligo di restituzione delle somme ricevute.

12. Vendita mobiliare L’ordinamento ricollega alla natura mobiliare o immobiliare del diritto trasferito, sotto molteplici aspetti, una profonda diversità di regime che abbiamo potuto constatare in numerose ipotesi, tanto che al riguardo potrebbe ricostruirsi un vero e proprio differenziato statuto del regime dei beni mobili e di quello relativo alla circolazione dei diritti immobiliari. Una delle principali testimonianze di questo diverso insieme di regole si coglie naturalmente sul terreno disciplinare del contratto che per eccellenza è deputato alla circolazione dei beni nel nostro ordinamento. Alla vendita mobiliare il codice dedica l’intera Sezione seconda del Titolo sulla vendita. Tale è anche la vendita con riserva di proprietà ricompresa infatti nella predetta sezione, ma di questa abbiamo già detto prima ed in via autonoma, in ragione della particolare rilevanza e della larga diffusione di questo schema negoziale. Quanto al luogo della consegna la legge ne rimette alle parti l’indicazione; se questa manca, detta una regola suppletiva, già ricordata, secondo la quale la cosa deve essere consegnata nel luogo dove si trovava al tempo della vendita, se le parti ne erano a conoscenza, altrimenti nel luogo in cui il venditore ha il domicilio o la sede dell’impresa (art. 1510, primo comma). Spesso la cosa deve essere trasportata da un luogo ad un altro; e si è al riguardo già osservato che il venditore si libera dall’obbligo della consegna affidandola al vettore o allo spedizioniere, cosicché il rischio che la cosa perisca durante il trasporto viene a gravare sul compratore; ma le parti, a beneficio dell’acquirente, possono convenire di-

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versamente e prevedere che il venditore si liberi dall’obbligo di consegnare la cosa soltanto allorché questa giunga a destinazione (art. 1510, secondo comma). Anche alla vendita mobiliare sono naturalmente applicabili le garanzie legali e in particolare la garanzia per i vizi e per la mancanza di qualità; tuttavia l’art. 1512 prevede una garanzia convenzionale diretta ad assicurare al compratore il buon funzionamento della cosa. Stabilisce la norma che se il venditore ha garantito il buon funzionamento della cosa per un tempo determinato, il compratore deve denunciare il difetto di funzionamento a pena di decadenza entro il termine di trenta giorni ed esperire la relativa azione entro il termine di sei mesi, entrambi decorrenti dalla scoperta del difetto. Il compratore può richiedere al venditore la sostituzione della cosa o la sua riparazione così da assicurarne il buon funzionamento, oltre al risarcimento del danno (art. 1512). In caso di inadempimento la legge prevede specifici ed efficaci rimedi. La vendita si risolve automaticamente (di diritto, senza necessità di ricorrere al giudice) in favore del contraente che, prima della scadenza del termine, abbia offerto la consegna della cosa o il pagamento del prezzo, qualora l’altro non adempia la propria obbligazione (art. 1517). La legge prevede l’esecuzione coattiva per inadempimento del compratore e per inadempimento del venditore secondo le specifiche modalità indicate negli artt. 1515 e 1516: in linea generale, se il compratore non adempie l’obbligo di pagare il prezzo il venditore può far vendere la cosa a spese dell’acquirente e soddisfarsi sul ricavato; se inadempiente è il venditore che non consegna la cosa al compratore, e se la vendita ha ad oggetto un bene fungibile, il compratore può far acquistare le cose a spese del venditore. Il codice prevede e disciplina alcuni tipi particolari di vendite mobiliari. Nella vendita con riserva di gradimento il contratto si perfeziona nel momento in cui il compratore comunica al venditore il suo gradimento (art. 1520); si ritiene che tale figura sia riconducibile ad una opzione poiché il venditore è subito obbligato a vendere mentre per il compratore l’obbligo sorge quando egli comunicherà la sua accettazione attraverso il gradimento della cosa, che si manifesta con una espressa dichiarazione dell’acquirente ovvero con le particolari modalità indicate nella norma. La vendita a prova è una vendita sottoposta alla condizione sospensiva che la cosa abbia le qualità pattuite o sia idonea all’uso alla quale è destinata (art. 1521). Nella vendita su campione la conformità al campione costituisce esclusivo parametro per valutare la qualità della merce; con la conseguenza che qualsiasi difformità attribuisce al compratore il diritto alla risoluzione del contratto (1522, primo comma). Se invece il campione serve soltanto per indicare in modo approssimativo la qualità, il compratore può domandare la risoluzione soltanto in caso di notevole difformità dal campione medesimo (1522, secondo comma). Nella vendita su documenti il debitore si libera dall’obbligo di consegna

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rimettendo al compratore il titolo rappresentativo della merce (art. 1527) ed il compratore deve pagare il prezzo nel momento e nel luogo in cui avviene la consegna dei documenti (art. 1528). Regole particolari sono dettate per la vendita internazionale di beni mobili quando le parti contraenti hanno “sedi di affari” in Stati diversi (Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili dell’11 aprile 1980 entrata in vigore in Italia il 1° gennaio 1988).

13. Vendita immobiliare La vendita di immobili è soggetta all’obbligo della forma scritta ed all’onere della trascrizione. Essa può essere a misura quando il prezzo è determinato in ragione di un tanto per unità di misura. Può accadere che la misura effettiva dell’immobile sia inferiore o superiore a quella stabilita nel contratto: nel primo caso il compratore ha diritto ad una riduzione del prezzo, nel secondo deve corrispondere il supplemento e può recedere dal contratto solo ove l’eccedenza superi la ventesima parte della misura dichiarata nel contratto (art. 1537). Più frequentemente la vendita immobiliare avviene a corpo ed in questo caso il prezzo è stabilito forfettariamente. Ove le parti abbiano comunque indicato la misura del bene, la diminuzione o la maggiorazione del prezzo è possibile solo se la differenza fra la misura reale e quella indicata nel contratto è superiore a un ventesimo. Il compratore tenuto al supplemento può scegliere se recedere dal contratto o corrispondere il supplemento (art. 1538).

Il Tema Alienazione dell’immobile oggetto di un preliminare a persona diversa dal promissario. La disciplina della doppia vendita immobiliare e la responsabilità del secondo acquirente primo trascrivente in mala fede (Cass. 7 ottobre 2016 n. 20251)

Il Caso La sentenza proposta offre un ricco osservatorio: una promessa di vendita immobiliare esita in un inadempimento del venditore che vende il bene a persona

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diversa dal promissario acquirente. Gli effetti del contratto e la responsabilità per l’inadempimento sono disciplinati dai principi elaborati dalla giurisprudenza e dalla dottrina nell’ambito della c.d. doppia alienazione immobiliare. La sentenza si pronuncia anche sui presupposti necessari per l’esperimento dell’azione revocatoria intentata dal promissario acquirente nei confronti del terzo acquirente. Questi i fatti. Una Società di costruzioni stipula un preliminare con il quale si impegna a vendere un immobile al prezzo di 40 milioni di lire. Di fronte al rifiuto della Società promittente di sottoscrivere il contratto definitivo, il promissario chiede l’esecuzione specifica dell’obbligo a contrarre ex art. 2932 c.c. senza curare però la trascrizione della domanda giudiziale ai sensi dell’art. 2652 c.c. Nelle more del giudizio la Società di costruzioni trasferisce il medesimo appartamento ad un terzo curando la immediata trascrizione dell’atto pubblico di vendita. Sulla base di queste premesse il primo acquirente chiede che l’atto sia dichiarato nullo, o in subordine simulato; chiede inoltre il risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c. per il pregiudizio arrecatogli dalla società convenuta, ben consapevole dell’esistenza del preliminare, e chiede infine, in accoglimento dell’azione revocatoria, che la vendita, dolosamente preordinata a pregiudicarlo, sia dichiarata inefficace nei suoi confronti, considerato che la società costruttrice non aveva altri beni a garanzia dell’obbligazione risarcitoria. Il Tribunale di Teramo respinge la domanda dell’attore che, in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta dalla convenuta, lo condanna al rilascio dell’immobile, abusivamente occupato. La sentenza è impugnata dal soccombente davanti alla Corte d’Appello de L’Aquila che, in parziale accoglimento del gravame, condanna la società costruttrice al pagamento della somma di circa 93 mila euro e dichiara inefficace ai sensi dell’art. 2902 c.c. la vendita intercorsa fra il venditore e il secondo acquirente. La Corte del merito ha osservato, nell’ordine: a) che il secondo acquirente doveva ritenersi responsabile dei danni a titolo extracontrattuale per violazione del principio di buona fede, avendo acquistato l’immobile nella piena consapevolezza della esistenza di un precedente preliminare sottoscritto ed avendo ciononostante provveduto alla tempestiva trascrizione dell’atto, in tal modo approfittando della omessa trascrizione della domanda giudiziale ex art. 2932 c.c. da parte del promissario acquirente, e conseguendone un evidente ingiusto profitto in considerazione del prezzo ben lontano dal suo reale valore; b) che per la liquidazione del danno, in difetto di diverse prove, poteva farsi riferimento al prezzo indicato nel preliminare di vendita concluso tra l’acquirente del bene e il terzo, appena due settimane dopo l’acquisto dalla società costruttrice, prezzo che poteva ritenersi corrispondente al valore di mercato dell’appartamento al momento in cui si era verificato il danno (data della trascrizione nei registri immobiliari); c) che la fondatezza dell’azione revocatoria derivava sia dalla assenza di altri beni nel patrimonio della

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società costruttrice, sia dalla provata partecipazione dell’acquirente alla dolosa preordinazione dell’alienante ai danni del promissario acquirente. Avverso tale decisione la Società venditrice propone un ricorso per cassazione. La Corte così motiva la sua decisione.

Il Giudizio Con il secondo motivo il ricorrente rileva in particolare che – contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata – non vi è stata, da parte sua, nessuna violazione del principio di buona fede avendo egli agito con la massima trasparenza, come dimostrato dall’invito, rivolto al D’Ambrosio, con nota 23 giugno 1999, a rilasciare l’immobile con possibilità di prelevare le somme precedentemente versate alla Albani. Rileva di avere perfezionato un atto pubblico di compravendita provvedendo alla relativa trascrizione come era suo diritto. Ritiene fuori luogo il richiamo, fatto dalla Corte d’appello, ai principî in materia di doppia alienazione perché nel caso in esame tra la Albani e D’Ambrosio non vi era stato nessun trasferimento immobiliare, ma solo la stipula di un preliminare, con tipici effetti obbligatori. Osserva che il D’Ambrosio aveva l’onere di trascrivere la domanda ex art. 2932 c.c. dal quale invece si è invece ingiustificatamente discostato. Nega quindi l’esistenza di un fatto illecito, richiamando gli effetti dell’art. 2644 c.c. in tema di inopponibilità. Contesta che siano derivati danni al D’Ambrosio, il quale non solo si è visto mettere a disposizione la somma a suo tempo anticipata, ma ha continuato ad occupare l’immobile senza versare alcunché. Il motivo è infondato. Secondo un generale principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa corte – e che oggi va ribadito – la vendita a terzi con atto trascritto di un bene immobile che abbia già formato oggetto, da parte del venditore, di una precedente alienazione si risolve nella violazione di un obbligo contrattualmente assunto nei confronti del precedente acquirente, determinando la responsabilità contrattuale dell’alienante con connessa presunzione di colpa ex art. 1218 c.c.; per converso la responsabilità del successivo acquirente, rimasto estraneo al primo rapporto contrattuale, può configurarsi soltanto sul piano extracontrattuale ove trovi fondamento in una dolosa preordinazione volta a frodare il precedente acquirente o almeno nella consapevolezza dell’esistenza di una precedente vendita e nella previsione della sua mancata trascrizione e quindi nella compartecipazione all’inadempimento dell’alienante in virtù dell’apporto dato nel privare di effetti il primo acquisto, al cui titolare incombe di conseguenza la relativa prova a norma dell’art. 2697 c.c. Il principio, affermato in caso di doppia alienazione immobiliare, vale logicamente anche nel caso, come quello di specie, di preliminare di vendita a seguito del quale il promittente-venditore abbia alienato il bene oggetto del preliminare ad un diverso soggetto ed il promissario acquirente non abbia in precedenza trascritto la domanda di esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto.

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Nel caso in esame, è assolutamente pacifico – oltre che documentato – che il Di Sante fosse ben consapevole dell’esistenza di un contratto preliminare di vendita concluso tra la società Albani e il D’Ambrosio. Può dunque dirsi fornita dal D’Ambrosio (ora dai suoi eredi) la prova della consapevolezza da parte del Di Sante dell’esistenza di un precedente preliminare, della conoscenza, da parte sua, della mancata trascrizione della domanda giudiziale da parte del D’Ambrosio e, in definitiva, la prova della compartecipazione del Di Sante all’inadempimento dell’alienante Albani in virtù dell’apporto dato nel privare di effetti la domanda ex art. 2932 c.c. proposta dal promissario acquirente. Con il terzo motivo il ricorrente deduce ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c. violazione degli art. 2901 c.c. e omessa, contraddittoria e comunque insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia, con particolare riferimento al consilium fraudis e al pregiudizio, nonché per violazione dei principî operanti in materia di onere della prova ex art. 2697 c.c. operanti in materia di azione revocatoria. Rimprovera alla corte d’appello di avere ritenuto sussistenti gli estremi dell’azione revocatoria, del tutto assenti nel caso di specie, mancando la doppia alienazione immobiliare, e la coscienza e volontà di ledere le ragioni del D’Ambrosio (come documentato dall’invito scritto a rilasciare l’immobile e ritirare le somme depositate presso il notaio). Osserva di essere intervenuto nella dinamica negoziale quando ormai il rapporto Di Sante-Albani era risolto; rileva la mancanza totale di motivazione sul consilium fraudis e sul danno ingiusto che avrebbe subìto il D’Ambrosio. Tale motivo, a differenza dei precedenti, è fondato. In tema di azione revocatoria, la consapevolezza dell’evento dannoso da parte del terzo contraente – prevista quale condizione dell’azione dall’art. 2901, 1° comma, n. 2, c.c. – consiste nella generica conoscenza del pregiudizio che l’atto posto in essere dal debitore può arrecare alle ragioni dei creditori, non essendo necessaria la collusione tra terzo e debitore. Tuttavia, nel caso di contratto preliminare di compravendita a seguito del quale il promittente-venditore abbia alienato il bene oggetto del preliminare ad un diverso soggetto, la prova che l’acquirente dell’immobile fosse a conoscenza del precedente contratto preliminare non è sufficiente, essendo necessaria la prova della sua partecipazione alla dolosa preordinazione dell’alienante, consistente nella specifica intenzione di pregiudicare la garanzia del futuro credito. Ai fini dell’accoglimento della domanda revocatoria è infatti necessario che sia il debitore che il terzo acquirente del bene abbiano la consapevolezza del pregiudizio recato al creditore dalla vendita del bene. La corte abruzzese si è discostata dai suddetti principî di diritto affermati dalla giurisprudenza di legittimità, avendo ravvisato – con riferimento alla posizione del Di Sante – il consilium fraudis unicamente nell’acquisto ad un prezzo «di assoluto favore proprio in considerazione dei diritti vantati e già malamente esercitati dal D’Ambrosio»: ma sull’elemento decisivo ai fini dell’accoglimento della domanda, cioè sulla conoscenza – da parte del Di Sante – dell’intenzione della Albani di pregiudicare la ga-

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ranzia del futuro credito, la sentenza è completamente silente e pertanto si rende necessaria la cassazione per nuovo esame della censura sulla scorta dei principî enunciati. Con il quarto ed ultimo motivo il ricorrente contesta il sistema di calcolo del danno, ancorato al prezzo dell’appartamento fissato nel successivo preliminare a sua volta concluso dal Di Sante con tale Monformoso. Richiama i principî che regolano il risarcimento del danno dovuto al promissario acquirente per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita, principî nel caso di specie violati dalla corte d’appello che invece ha individuato un valore di mercato e lo ha posto semplicemente a carico delle parti appellate senza considerare il vantaggio coevo alla mancata stipula del definitivo. Inoltre – osserva il ricorrente – la corte d’appello, violando il principio dell’onere della prova, ha utilizzato di ufficio dei parametri che la parte neppure aveva fornito; rileva infine che nel caso di specie non sussistevano neppure i presupposti per una valutazione equitativa del danno. Anche tale motivo è fondato. La giurisprudenza di questa corte ha più volte affermato che il risarcimento del danno, imputabile al promittente venditore per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita di un bene immobile, consiste nella differenza tra il valore commerciale del bene medesimo al momento in cui l’inadempimento è divenuto definitivo (che, in caso di vendita a terzi, coincide con la trascrizione dell’atto) ed il prezzo pattuito. La corte abruzzese si è palesemente discostata da tale insegnamento perché ha parametrato il risarcimento (precisamente il lucro cessante) al prezzo che Di Sante aveva pattuito per rivendere l’immobile ad un terzo (tale Monformoso), pari alla somma di lire 181.000.000 (euro 93.478,70), criterio non solo errato, ma addirittura avulso da una specifica richiesta di parte (la stessa sentenza infatti precisa di averlo utilizzato per sopperire alla mancanza di prove ulteriori, così mostrando di ignorare anche la regola dell’onere probatorio, valevole ovviamente non solo ai fini della prova dell’an ma anche del quantum del risarcimento). Anche sotto tale profilo la sentenza deve pertanto essere cassata con rinvio alla Corte d’appello de L’Aquila in diversa composizione, che, nel riesaminare la vicenda, si atterrà ai principî esposti.

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SEZIONE II: IL CONTRATTO ESTIMATORIO 14. Natura e disciplina Chi compra allo scopo di rivendere corre il rischio di non riuscire a collocare sul mercato tutta la merce acquistata e di dover pagare al venditore anche i beni che restano invenduti. Il rischio dell’invenduto grava infatti sull’acquirente, il quale potrebbe non coprire con i ricavi dei beni alienati gli esborsi sostenuti per acquisire la totalità della merce, incorrendo in gravi perdite. D’altro canto, perché l’acquirente possa acquisire il potere e la legittimazione a disporre del bene deve procurarsene la proprietà. Per consentire al rivenditore di disporre di grandi quantità di merce al fine di poterla più facilmente collocare sul mercato, senza esporlo all’incognita di gravi perdite, era necessario costruire uno schema negoziale che sottraesse al rivenditore stesso il rischio dell’invenduto e rendesse compatibili due situazioni giuridiche altrimenti inconciliabili: l’una diretta a riservare al fornitore la proprietà dei beni fin quando il rivenditore non ne avesse corrisposto il prezzo, l’altra volta a conferire al rivenditore stesso, che non avesse la proprietà del bene (per non averne ancora corrisposto il prezzo), la facoltà di disporne. A queste esigenze soddisfa proprio il contratto estimatorio che l’art. 1556 definisce come il contratto con cui una parte consegna una o più cose mobili all’altra e questa si obbliga a pagare il prezzo, salvo che restituisca le cose nel termine stabilito. Il ricorso a tale contratto è frequente per la vendita di cose in serie per le quali occorre un’offerta di un certo numero di esemplari: tipico esempio è la vendita di giornali quotidiani o riviste periodiche, ma anche di edizioni letterarie o musicali. Il contratto si perfeziona con la consegna, anticipata rispetto all’effetto traslativo del diritto, che avviene nel momento in cui il compratore paga il prezzo, e che può anche mancare ove il compratore preferisca restituire il bene. Il contratto estimatorio dunque non attribuisce la proprietà all’accipiens il quale consegue soltanto la detenzione del bene ed acquista il potere di disporne in virtù di una esplicita previsione normativa (l’art. 1558, primo comma) la quale espressamente conferisce validità agli atti di diposizione compiuti da chi ha ricevuto le cose; l’effetto traslativo si verifica al momento dell’adempimento

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dell’obbligo di pagare il prezzo che tuttavia – come osservato – è solo eventuale e può venir meno ove l’accipiens si avvalga della facoltà di restituire la cosa al tradens nel termine stabilito (o perché non ha venduto il bene ovvero perché preferisce trattenerlo ed assumersi il rischio di una vendita successiva nel tempo, se il bene però ha ancora un mercato e ciò non accade ad esempio per i quotidiani del giorno prima). Coerentemente il potere di disposizione del bene da parte del tradens non è definitivamente perduto e trasmesso per sempre all’accipiens, ma solo “sospeso” fino a quando non gli vengano restituite le cose (art. 1558, secondo comma), mentre viene definitivamente meno con l’adempimento dell’obbligo di pagare il corrispettivo. In deroga al principio res perit domino, l’accipiens non è liberato dall’obbligo di pagare il prezzo anche se la restituzione delle cose è divenuta impossibile per causa a lui non imputabile (art. 1557). La legge stabilisce infine che i creditori dell’accipiens non possono sottoporre a pignoramento o sequestro le cose da quest’ultimo ricevute finché non ne sia stato pagato il prezzo (art. 1558, primo comma); in tal modo il tradens, in caso di mancato pagamento (o di mancata restituzione del bene), non sarà costretto a coltivare la sua pretesa in concorso con i creditori dell’accipiens e potrà esperire l’azione di rivendicazione nei confronti di quest’ultimo.

Il Tema Elementi distintivi del contratto estimatorio (Cass. 21 dicembre 2015 n. 25606)

Il Caso Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione si pronuncia sulla qualificazione del contratto estimatorio. La Società per azioni Songa consegna al Sig. Costi n.q. di titolare della ditta Ital Craft alcuni articoli di oreficeria in esecuzione di un accordo che prevedeva il pagamento degli articoli venduti e la restituzione di quelli rimasti invenduti. La Società fornitrice richiede ed ottiene decreto ingiuntivo di pagamento a carico del Costi del prezzo degli articoli forniti pari a circa 142 mila euro, non essendo intervenuto al tempo della domanda né il pagamento del corrispettivo né la restituzione degli oggetti. Il Costi propone opposizione al predetto decreto ingiuntivo di pagamento da-

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vanti al Tribunale di Vigevano, contestando la natura del contratto intercorso fra le parti, negandone la qualifica di contratto estimatorio e deducendo che l’attività da lui svolta a favore della Songa S.p.a. si limitava alla ricerca di soggetti interessati ad intraprendere una partnership commerciale con la stessa resistente. Il Tribunale accoglie l’opposizione e revoca il decreto ingiuntivo, rigettando di conseguenza le domande proposte dalla Songa S.p.a. Il Tribunale argomenta la sua decisione considerando da un lato che le parti non avevano provato la preventiva e necessaria fissazione di un termine per la restituzione della merce, dall’altro ritenendo irrilevante – ai fini della qualificazione del rapporto posto in essere dalle parti – la dicitura espressa di contratto estimatorio apposta sui documenti di trasporto degli articoli. La Soc. Songa impugna la sentenza del Tribunale davanti alla Corte di Appello di Milano, lamentando che il Tribunale avesse negato la qualificazione di estimatorio al contratto intercorso fra le parti e chiede, in riforma della sentenza impugnata, la condanna del Costi al pagamento della minor somma di euro 98 mila circa, avendo nel frattempo quest’ultimo provveduto a restituire parte della merce. La Corte di Appello di Milano, in accoglimento dell’appello, condanna il Costi al pagamento della somma richiesta dall’appellante. La S.C. rigetta il ricorso proposto dal Costi così motivando la sua decisione.

Il Giudizio Con il secondo motivo il ricorrente lamenta che la corte d’appello non ha motivato circa il rigetto della sua ricostruzione della fattispecie contrattuale. Egli ritiene in particolare che la mancata pattuizione di elementi quali il prezzo e il termine sia la dimostrazione della volontà delle parti di concludere un contratto di intermediazione commerciale. In particolare, il ricorrente, premesso che nel contratto mancava la determinazione del prezzo e del termine – entrambi elementi essenziali del contratto estimatorio –, censura la sentenza per: a) l’assunta determinazione del prezzo unilateralmente da parte del tradens – venditore; b) l’erronea applicazione della norma del contratto estimatorio o, meglio, la non corretta applicazione in via analogica dell’art. 1474 c.c. con riferimento alla mancata previsione del prezzo nell’accordo intervenuto; c) l’essenzialità della previsione del termine nel contratto estimatorio e la insufficienza ed illogicità della motivazione di cui poi si censura la contraddittorietà nella parte in cui essa richiama, al fine di stabilire il termine, l’art. 1183, 1° comma, per poi, viceversa, prevedere che in mancanza di accordo il termine debba essere fissato dal giudice. Tutti i suddetti motivi sono infondati. La sentenza impugnata ha evidenziato che l’elemento essenziale e caratterizzante del contratto estimatorio è la facoltà del consegnatario di restituire la merce in alternativa all’obbligo di pagamento del prezzo, senza che a tale configurazione sia di ostaco-

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lo la mancata prefissione esplicita di un termine per l’esercizio dell’indicata facoltà di restituzione. La corte d’appello, dopo aver esaminato, con un accertamento in fatto, i documenti di trasporto recanti la scritta «contratto estimatorio», in cui si indicava chiaramente il criterio destinato alla determinazione del corrispettivo da pagarsi in caso di mancata restituzione degli oggetti consegnati e la raccomandata inviata dalla Songa Antonio alla ditta Italcraft di Elias Costi, avente ad oggetto «contratto estimatorio», nella quale si chiedeva il pagamento delle merci consegnate il 17 marzo precedente, se vendute, e la immediata restituzione di quanto invenduto, ha ritenuto che la volontà delle parti era quella di stipulare un contratto estimatorio. Tale assunto è corretto. Con il contratto estimatorio il proprietario (tradens) consegna una o più cose mobili determinate ad un soggetto (accipiens) che si obbliga, a pagare il prezzo, salvo restituire quanto ricevuto nel termine stabilito. L’accipiens non acquista la proprietà della res né assume l’obbligazione di venderla, ma è tenuto al pagamento del prezzo di stima, ove alieni, per proprio conto e nel proprio interesse, a terzi le cose consegnate, oppure non provveda, nel termine convenuto, alla restituzione. L’operazione economica trova giustificazione, da una parte, nell’interesse del proprietario di avvalersi dell’organizzazione di altri imprenditori per far conoscere i propri prodotti; dall’altra, nell’interesse dell’accipiens di avere a disposizione beni in vista della rivendita, con la sicurezza di poter restituire entro il termine stabilito l’invenduto, andando così esente dal pagamento del prezzo. Va precisato che il contratto estimatorio è un contratto reale: ciò significa che l’accordo delle parti non è ancora sufficiente per dirsi formato il vincolo negoziale che viene ad esistenza solo al momento della consegna delle cose dal tradens all’accipiens. L’art. 1556 c.c. prevede che oggetto del contratto siano beni mobili. Si è osservato che la struttura del rapporto, al fine di rendere effettiva la facoltà dell’accipiens di restituire in tutto o in parte le cose ricevute, impone che le parti individuino i beni in modo specifico, avvalendosi quantomeno di criteri di identificazione delle cose consegnate. Affinché il contratto sia qualificabile come estimatorio non è necessario che le parti abbiano provveduto ad identificare il termine di restituzione e neppure che i beni siano stati oggetto di stima. È invece essenziale che le parti si siano accordate sulla facoltà dell’accipiens di restituire la cosa anziché pagarne il prezzo. Posto che il contratto non richiede forma scritta, la giurisprudenza ha osservato che la clausola «al venduto» che compaia nell’ambito della corrispondenza che le parti si siano scambiate costituisce, ove non contraddetta da altri elementi di prova, fattore utile a qualificare il rapporto come contratto estimatorio. Secondo Cass. 4 gennaio 1974, n. 9, la precisazione del termine non è essenziale, ma lo stesso è ugualmente necessario per l’esecuzione del contratto. Nell’ipotesi che non sia stato individuato alcun termine, né questo sia stabilito dagli usi, la legge – che, in linea di massima, non richiede che il tempo dell’adempimento sia fissato nel contratto – prevede all’art. 1183 c.c. il modo di determinare il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita.

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Parimenti non essenziale risulta la circostanza che le parti abbiano provveduto alla stima dei beni, purché il prezzo sia determinabile o siano fissati dei prezzi minimi ai quali l’accipiens si debba attenere. La mancanza del termine e le modalità particolari di determinazione del prezzo non portano, pertanto, automaticamente ad escludere l’esistenza del contratto estimatorio, bensì impongono solo una maggiore attenzione nella valutazione di tutti gli elementi sintomatici che possano ricostruire l’originaria volontà delle parti, quali le qualità professionali delle parti e la natura dei beni. L’impugnata sentenza ha correttamente applicato i suddetti principî di diritto per inquadrare la fattispecie in esame come contratto estimatorio, ritenendo che i documenti di trasporto e le raccomandate inviate dalla Songa alla Italcraft di Elias Costi, indicavano una chiara volontà delle parti di porre in essere un tale contratto, non essendo necessaria né una espressa pattuizione del termine, né una espressa pattuizione del prezzo purché lo stesso sia determinabile. In tema di ermeneutica contrattuale l’accertamento della volontà delle parti, in relazione al contenuto del negozio, si traduce in un’indagine di fatto, affidata al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità. Il ricorrente, con i motivi di ricorso, critica la ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito, ma non offre elementi idonei a superare le argomentazioni della sentenza impugnata. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

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SEZIONE III: IL CONTRATTO DI SOMMINISTRAZIONE 15. Natura e disciplina La somministrazione è il contratto con il quale una parte si obbliga verso il corrispettivo di un prezzo a eseguire, in favore dell’altra, prestazioni periodiche o continuative di cose (art. 1559). Il contratto di somministrazione si riferisce sempre ad una prestazione di dare e si riconduce allo schema della vendita obbligatoria perché contempla l’obbligo per il somministrante di effettuare una pluralità di prestazioni traslative. Queste affermazioni trovano riscontro sia nell’art. 1570 il quale, stabilendo espressamente che alla somministrazione si applicano, in quanto compatibili, le regole che disciplinano il contratto che contempla le singole prestazioni, opera necessariamente una distinzione fra il contratto di somministrazione (riconducibile allo schema della vendita) e il diverso contratto al quale corrispondono le prestazioni dedotte nella somministrazione; sia nell’art. 1677 il quale prevede che quando l’appalto abbia ad oggetto prestazioni continuative o periodiche di servizi si applicano in quanto compatibili le norme relative al contratto di somministrazione. Il contratto di somministrazione appartiene alla categoria dei cc.dd. contratti di durata nei quali la esecuzione del contratto (differita, continuata o periodica) si dispiega nel tempo. L’elemento della pluralità delle prestazioni consente di tenere distinta dalla somministrazione la c.d. vendita a consegne ripartite in cui la prestazione è unica ma la esecuzione della consegna avviene in più momenti. La somministrazione è dunque destinata a soddisfare bisogni continuativi o periodici che si manifestano continuativamente (come la fornitura di energia elettrica) o periodicamente (come la fornitura di serie filateliche edite da un determinato Stato nel corso dell’anno). Il bisogno è anzi assunto a parametro di determinazione della entità della somministrazione nel caso in cui questa sia indeterminata (art. 1560); ed il pagamento del prezzo delle prestazioni segue la periodicità delle stesse ed è corrisposto all’atto delle singole prestazioni ed in proporzione a ciascuna di esse (art. 1561). La durata può essere segnata da un tempo determinato ovvero indeterminato; in quest’ultimo caso, in conformità della regola generale di cui all’art. 1373, ciascuna delle parti può recedere dal contratto (art. 1569). La durata

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nel tempo e la reiterazione dei reciproci adempimenti introduce nello schema del contratto un evidente elemento di affidabilità e fiducia nel partner contrattuale: la risoluzione del contratto è pertanto consentita soltanto nel caso in cui l’inadempimento abbia notevole importanza e qualora sia tale da menomare la fiducia nella esattezza dei successivi adempimenti (art. 1564); la risoluzione non ha però – come di regola avviene – efficacia retroattiva, ma opera ex nunc e non si estende pertanto alle prestazioni già eseguite (art. 1458, primo comma). In caso di inadempimento di lieve entità da parte dell’avente diritto alla somministrazione (il quale ad es. non paga una bolletta del gas) il somministrante può sospendere la prestazione (l’erogazione del vettore energetico) previo congruo preavviso (art. 1565). Il somministrante, in genere un’impresa, può avere interesse a confidare sulla rinnovazione del contratto alla scadenza; tale esigenza è soddisfatta dal patto di preferenza regolato dall’art. 1566, con il quale l’avente diritto alla somministrazione si obbliga a preferire il somministrante per la stipula di un successivo contratto avente lo stesso oggetto. Si tratta di un patto limitativo della concorrenza e dunque soggetto allo stesso termine legale massimo di cinque anni previsto in generale per gli accordi limitativi della concorrenza (art. 2596). Il patto di esclusiva disciplinato negli artt. 1567 e 1568 è invece diretto a disciplinare principalmente i rapporti fra imprenditori, produttore e rivenditore, in relazione alla collocazione di beni sul mercato (concessione di vendita). Il produttore può essere invero interessato ad assicurarsi che un certo rivenditore distribuisca soltanto i suoi prodotti: in questo caso la clausola di esclusiva opera in favore del produttore (somministrante) e l’altra parte, il distributore (avente diritto alla somministrazione) non può ricevere da terzi prodotti dello stesso genere né costruirne in proprio. Anche il rivenditore può essere interessato ad essere in una certa zona l’unico distributore dei prodotti forniti: in questo caso la clausola di esclusiva opera in favore del distributore avente diritto alla somministrazione ed il produttore somministrante non può compiere nella zona in cui l’esclusiva è concessa prestazioni della stessa natura, cioè non può per tutta la durata del contratto vendere o far vendere ad altre imprese gli stessi beni affidati al distributore che opera in esclusiva. Il contratto di somministrazione, come altri contratti, può esser concluso “a distanza”: quando a stipularlo sono un professionista ed un consumatore l’ipotesi ricade sotto l’art. 50 cod. cons.; viene qui in particolare considerazione una norma diretta a tutelare il consumatore nel caso di contratti che abbiano ad oggetto forniture non richieste. Si tratta di una prassi diffusa da tempo, che ha ricevuto grande impulso a seguito della liberalizzazione dei mercati: soprattutto di quelli dell’energia, del gas e della telefonia. Operatori

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commerciali senza scrupoli hanno utilizzato tecniche le più svariate per sottrarre clientela ad altri gestori e conquistarsi nuovi mercati favorendo la conclusione di contratti che il consumatore non ha cercato e sui quali il suo consenso non ci è stato o non si è correttamente formato. Delle cc.dd. forniture non richieste si occupa l’art. 57 cod. cons. il quale stabilisce che il consumatore non è tenuto ad alcun corrispettivo, esclude che la mancata risposta implichi il consenso e riconduce questa prassi negoziale ad una delle pratiche commerciali scorrette disciplinate negli artt. da 21 a 26 del medesimo cod. cons.

Il Tema La qualificazione della somministrazione come contratto di scambio, di durata, ad esecuzione continuata (Cass. 11 luglio 2011 n. 15189)

Il Caso Nella sentenza proposta la S.C. corregge la qualificazione del contratto effettuata dalla Corte di merito ed indica i requisiti necessari perché possa configurarsi un contratto di somministrazione. Nel caso di specie una fabbrica di mangimi per animali aveva effettuato in favore di un allevatore una serie indefinita di forniture svoltesi nell’arco di sei mesi. In difetto di pagamento il Mangimificio otteneva decreto ingiuntivo, che veniva opposto dall’allevatore. Il Tribunale di Campobasso accoglieva l’opposizione limitatamente ad una sola fornitura sottoposta a verifica della merce con analisi, e condannava l’opponente al pagamento del residuo debito. Su appello dell’allevatore la Corte di Campobasso dichiarava risolto il contratto che qualificava come somministrazione e dichiarava che nulla era dovuto in relazione a tutte le forniture effettuate. La Corte del merito ritenne di poter inferire dalla fornitura risultata avariata, in virtù di un ragionamento presuntivo, il deterioramento di tutte le partite. Conseguentemente, in applicazione dell’art. 1564 c.c., che consente di risolvere il contratto allorché l’inadempimento di una delle parti ha notevole importanza ed è tale da menomare la fiducia nella esattezza dei futuri adempimenti, pronunciava la risoluzione del contratto di somministrazione e, ritenuti i vizi di tutte le forniture effettuate, dichiarava che nulla era dovuto al somministrante. Diversamente, è utile osservarlo, essendo il contratto di somministrazione un contratto di durata, avrebbe trovato applicazione l’art. 1458 c.c. il quale, dopo aver

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affermato l’efficacia retroattiva del rimedio risolutorio, precisa che nei contratti a esecuzione continuata o periodica l’effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite. La S.C. accoglie il ricorso promosso dal Mangimificio e cassa la sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte di Appello di Napoli per un nuovo esame. La sentenza così argomenta:

Il Giudizio Con il primo motivo il Mangimificio lamenta violazione dell’art. 1559 c.c. e art. 115 c.p.c. Critica la sentenza impugnata per avere qualificato come somministrazione il contratto tra le parti, sebbene non fosse stato dedotto – né provato – un preventivo accordo di fornitura di un certo tipo di prodotti, per un dato periodo e per un prezzo predeterminato. La censura è fondata. La Corte territoriale, pur non ritenendolo determinante, ha stabilito chele forniture erano state effettuate in forza di contratto di somministrazione, come desunto “dall’unicità dell’obbligazione e della causa delle varie forniture”. Questa esile motivazione cela un errore di sussunzione (falsa applicazione di legge), perché viene qualificato come contratto di somministrazione un rapporto giuridico, senza che siano stati accertati i caratteri tipici del tipo contrattuale. Si legge in giurisprudenza che la somministrazione ha la sua essenza nella durata, poiché le singole forniture corrispondono ad un bisogno reiterato e durevole del somministrando, la quantità complessiva della prestazione non è determinabile a priori prima dell’inizio dell’esecuzione del contratto, ma diventa determinabile nel corso di detta esecuzione, in base alle finalità, previste in contratto, che le forniture debbono soddisfare, restando così individuata anche la durata del contratto, che avrà termine con l’esaurimento di tale finalità. Nelle affermazioni del giudice di merito non emerge che la periodicità o la continuità delle prestazioni si pongono come elementi essenziali del contratto stesso, in funzione di un fabbisogno del somministrato. È vero che nel tipo delineato dall’art. 1559 cod. civ., si individua un contratto di scambio, di durata, ad esecuzione continuata, che si caratterizza come negozio unitario pur nel ripetersi degli atti di esecuzione. Tuttavia la pluralità di prestazioni ad un cliente da parte di un fornitore non può essere condizione sufficiente per configurare il contratto de quo, ove non sia individuata la connessione tra le prestazioni stesse, ditalché la affermazione resa in sentenza resta una erronea e superflua presa di posizione. Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione di legge (art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c.) e vizi di motivazione in relazione alla mancata prova degli inconvenienti derivati alla mandria dai pretesi vizi del mangime venduto al G.. La censura è palesemente fondata. La sentenza, con motivazione asfittica al punto

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tale da risultare illogica, ha affermato che i vizi emersi in occasione della fornitura n. 4024 del 1998 dovevano essersi verificati anche in occasione di tutte le forniture anteriori. Ha affermato ciò sulla base dell’impurità di una iniziale fornitura di latte in polvere per vitelli e della circostanza induttiva che se i vizi non si fossero manifestati in precedenza, il G. non avrebbe chiesto la verifica in contraddittorio del mangime della partita 4204, effettuando i relativi prelievi. Parte ricorrente ha buon giuoco ad evidenziare la insufficienza logico-argomentativa di questa motivazione. In un insieme non precisato di numerose forniture svoltesi nell’arco di oltre sei mesi, risulta privo di aggancio ai criteri ordinari di causalità e della logica presuntiva pervenire alla conclusione che tutte le forniture fossero avariate, in presenza soltanto di prova di impurità di una (in novembre) e di accertamento di sostanze nocive in un’altra a fine aprile dell’anno successivo. Per dimostrare la persistente inadeguatezza di tutte le forniture sarebbe stato indispensabile allegare e dimostrare l’esistenza di effetti nocivi sul bestiame o di altri fattori rivelatori di adulterazione, accertati nel corso dei sei mesi e risultanti dai controlli verosimilmente predisposti dall’allevatore, il quale, se già la prima fornitura fosse stata significativamente viziata, avrebbe dovuto monitorare le successive, sì da essere in grado di documentare l’esito delle analisi. Il ricorso lamenta invece l’assoluta assenza di riscontri (esami autoptici o diagnostici sugli animali, etc.) in tal senso e il silenzio della sentenza in proposito, oltre alla base presuntiva, valgono a dar conto della precaria apoditticità sulla quale è fondata la tesi accolta dai giudici di Campobasso.

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SEZIONE IV: IL CONTRATTO DI LOCAZIONE 16. La natura del diritto del conduttore. La varietà dei tipi La locazione corrisponde ad uno schema collaudato e di antica tradizione a mezzo del quale il proprietario (ma anche il titolare di altri diritti reali) consente ad altri di godere della cosa, di cui conserva il potere di disposizione, per un tempo determinato, per un uso determinato e percependo a fronte di questa concessione un corrispettivo. La locazione infatti non può stipularsi per un tempo superiore ai trenta anni (art. 1573), ed ove le parti non abbiano fissato la durata, questa è stabilita in via presuntiva dalla legge (art. 1574). La facoltà di godimento, attribuita al locatario o conduttore a mezzo di un contratto consensuale ad effetti obbligatori, costituisce il contenuto di un diritto di credito e dunque di un diritto di natura personale; tuttavia il diritto del conduttore si distingue dagli altri diritti personali in quanto il titolare esercita il suo potere attraverso un rapporto diretto sulla cosa (analogo a quello del proprietario) e soddisfa il suo interesse senza la necessaria e continua cooperazione del locatore. Questa situazione di “confine” fra diritti reali e diritti di credito nell’ambito dei diritti patrimoniali, è stata segnalata in dottrina indicando la particolare inerenza alla cosa della situazione giuridica di cui è titolare il conduttore. L’inerenza si manifesta anche in occasione del trasferimento del bene oggetto del diritto del locatore, ipotesi nella quale si riscontra una tutela assoluta: se infatti la cosa locata viene alienata a un terzo questi, ove non sia stato diversamente convenuto (art. 1603), è tenuto a rispettare la locazione purché il contratto abbia data certa e sia anteriore alla alienazione (emptio non tollit locatum, cioè la vendita non travolge la locazione); perciò il terzo acquirente subentra nei diritti e negli obblighi scaturenti dal contratto di locazione (art. 1602). La diversa natura del bene concesso in godimento condiziona ed orienta la disciplina del rapporto che risulta assai differenziato; in particolare, la dimensione sociale del bene oggetto del contratto dà luogo a veri e propri sottotipi negoziali. Ad esempio, sulla natura produttiva del bene si fonda la distinzione fra la locazione e l’affitto disciplinato nella Sezione terza del capo VI e articolato nell’affitto in generale di cose produttive, tra cui l’azienda, nell’affitto di fondi rustici e a coltivatore diretto. Inoltre, in talune materie come la locazione di immobili urbani e quella di terreni agricoli, la legislazione spe-

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ciale ha sovrastato le scarne e inadeguate norme del codice civile creando dei veri e propri sottosistemi disciplinari. In questo contesto, pur conservando le norme del codice civile una sicura centralità come norme generali e di riferimento primario, non v’è dubbio che la concreta disciplina dei singoli rapporti locativi debba essere ricercata nella legislazione di settore. Lo schema della locazione mostra inoltre una notevole elasticità ed una considerevole capacità espansiva: se debbono considerarsi archiviate le figure della locatio operis e della locatio operarum del diritto romano, che estendevano lo schema della locazione fino a ricomprendere il contratto con cui una parte si obbliga a fornire un certo risultato ovvero a mettere a disposizione di altri le proprie energie lavorative (figure confluite oggi rispettivamente nell’appalto e nel contratto di lavoro), la locazione ha conosciuto nuove importanti applicazioni nel leasing e nel lease back e cioè in moderne forme contrattuali legate al finanziamento del credito, e di tale collegamento è traccia anche nella denominazione del tipo contrattuale (locazione finanziaria). Il contratto di locazione non richiede di regola una forma determinata; ma se ha ad oggetto un bene immobile e la durata è superiore a nove anni deve essere fatto per iscritto sotto pena di nullità (art. 1350, n. 8) ed è soggetto a trascrizione (art. 2643, n. 8).

17. Le obbligazioni del locatore e del conduttore Secondo una sistematica comune alla vendita, il codice descrive le obbligazioni che gravano sul locatore e quelle che fanno capo al conduttore. Il locatore deve consegnare la cosa al conduttore in buono stato di manutenzione, mantenerla in modo da conservarne l’uso convenuto, garantirne il pacifico godimento per tutta la durata del rapporto (art. 1575). Il conduttore deve prendere in consegna la cosa, servirsene per l’uso convenuto osservando la diligenza del buon padre di famiglia, pagare il corrispettivo e restituirla al termine del rapporto (artt. 1587, 1590). Il diritto del conduttore di godere pacificamente della cosa è tutelato sia nei confronti del locatore sia nei confronti dei terzi. Sotto il primo profilo, se la cosa locata presenta vizi al momento della consegna (o se questi sopravvengono in corso di rapporto: cfr. art. 1581), il conduttore può chiedere la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, a meno che non si tratti di vizi conosciuti o facilmente riconoscibili (art. 1578, primo comma); il conduttore può anche ottenere il risarcimento dei danni, a meno che il locatore non provi di avere ignorato detti vizi senza colpa (art. 1578, secondo comma). Parimenti, il patto con cui il locatore è esonerato

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dalla responsabilità per i vizi non ha effetto se costui li ha in mala fede taciuti al conduttore o se essi sono tali da pregiudicare il godimento della cosa (art. 1579). D’altro canto la conoscenza dei vizi da parte del conduttore non gli preclude di esperire l’azione di risoluzione ove tali vizi incidano sulla salute delle persone, nemmeno nel caso in cui il conduttore abbia preventivamente rinunciato a farli valere (art. 1580). Sotto il secondo profilo, il locatore deve garantire il conduttore dalle sole pretese petitorie di terzi che vantano diritti sulla cosa (artt. 1585, primo comma): il locatario deve avvisare il locatore il quale, ove i terzi agiscano in via giudiziale, può essere chiamato in giudizio ed è tenuto ad assumere la lite (art. 1586, primo comma). Se invece la molestia del terzo non sia in relazione alla affermazione da parte di questi di diritti sulla cosa, il conduttore può agire contro il terzo in nome proprio al fine di farla cessare (art. 1585, secondo comma) e, nel caso sia spogliato della disponibilità della cosa, può chiedere di essere reintegrato nel “possesso” (art. 1168, secondo comma). Il conduttore è responsabile della integrità della cosa durante la locazione; si tratta di una responsabilità improntata ad un regime severo e rigoroso che discende dalla norma generale che disciplina la responsabilità ex recepto per cui l’obbligazione di consegnare una cosa determinata include quella di custodirla fino alla consegna (art. 1177): così si spiega l’art. 1588 – che costituisce fedele applicazione del principio di responsabilità codificato nell’art. 1218 – a tenore del quale il conduttore risponde della perdita e del deterioramento della cosa, anche se derivanti da incendio, ove non provi che tali eventi siano dipesi da causa a lui non imputabile; ed anche l’art. 1590 il quale stabilisce che il conduttore deve restituire la cosa al locatore nel medesimo stato in cui l’ha ricevuta. La durata costituisce un profilo molto importante della locazione, disciplinato – in ragione della rilevanza sociale del bene oggetto del contratto – fuori dal codice civile, nella legislazione di settore, ed è in gran parte sottratto alla autonomia delle parti. Dobbiamo però conoscere anche le norme che al riguardo il codice civile detta. La legge considera e distingue la locazione a tempo determinato da quella a tempo indeterminato: la prima cessa automaticamente con lo spirare del termine convenuto (art. 1596, primo comma) ma se, scaduto detto termine, il conduttore rimane ed è lasciato nella detenzione della cosa, la locazione si ha per tacitamente rinnovata ed è regolata dalle stesse condizioni della precedente (art. 1597); la seconda invece cessa solo se il locatore, prima della scadenza dei termini fissati nell’art. 1574, comunichi disdetta al conduttore; in mancanza di tale disdetta il rapporto continua e del pari il contratto si intende tacitamente rinnovato (art. 1596).

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18. Sublocazione e cessione della locazione Il fenomeno del subcontratto ricorre, come si ricorderà, quando una delle parti di un contratto assume – in un diverso ed analogo rapporto contrattuale che dal principale deriva ed al quale è funzionalmente collegato – il medesimo ruolo che la sua controparte riveste nel contratto principale. Il subcontratto è vicenda generale che può sperimentarsi, dietro l’impulso dell’autonomia negoziale, con riferimento a svariati rapporti; né la sublocazione costituisce l’unica ipotesi normativa (si pensi al subaffitto, al subappalto, e più di recente alla subfornitura); tuttavia la sublocazione ha costituito il terreno privilegiato per lo studio di questa figura. Il codice detta al riguardo due norme: l’art. 1594 e l’art. 1595. La prima stabilisce che il conduttore, ove le parti non abbiano diversamente convenuto, ha facoltà di sublocare la cosa immobile anche senza il consenso del locatore (se si tratta di cosa mobile occorre invece l’autorizzazione del locatore). Tale consenso è peraltro sempre necessario ove il conduttore intenda cedere il contratto di locazione: la diversa disciplina si spiega considerando che mentre nella sublocazione il conduttore rimane parte del contratto principale, con la cessione questi trasferisce ad un terzo la sua posizione contrattuale e dunque sostituisce a sé un altro contraente; e si intende che tale mutamento della persona del conduttore, tenuto al pagamento del canone, non può essere indifferente per il locatore, del quale pertanto occorre raccogliere il consenso (art. 1406). In base all’art. 1595 il locatore ha azione diretta nei confronti del subconduttore e può soddisfare le sue ragioni sui canoni della sublocazione; inoltre, in considerazione del nesso funzionale esistente fra i due contratti, la norma stabilisce che la nullità o la risoluzione del contratto di locazione travolgono anche la sublocazione e la sentenza pronunciata tra locatore e conduttore estende i suoi effetti anche nei confronti del sub conduttore (terzo comma). Come già accennato, quando la locazione ha ad oggetto il godimento di una cosa produttiva, mobile o immobile, prende il nome di affitto e l’affittuario deve curarne la gestione nel rispetto della destinazione economica della cosa (art. 1615). Nella Sezione III il codice detta alcune disposizioni generali, disciplinando in modo specifico l’affitto di fondo rustico e l’affitto a coltivatore diretto: non ci occuperemo qui specificamente dell’affitto, trattandosi di un tipo contrattuale collegato all’istituto dell’impresa, commerciale od agricola. Ci limiteremo solo a qualche osservazione generale in tema di affitto di azienda e di affitto di fondi agricoli. Qualche osservazione dedicheremo pure alla locazione di immobili urbani, nella prospettiva – prima accennata – di dar conto di al-

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cune figure particolari di locazione e di affitto che, in ragione della rilevanza sociale del bene oggetto di godimento, hanno dato luogo a locazioni che potremmo definire “a statuto speciale”.

19. Le locazioni urbane Una specifica disciplina è invero prevista per le locazioni di immobili urbani, sia per quelli destinati a soddisfare la fondamentale esigenza abitativa dell’uomo sia per gli altri destinati a soddisfare esigenze diverse (ad es. commerciali, artigianali, professionali, turistiche, culturali, alberghiere, ecc.). In questo settore il legislatore è in passato intervenuto ripetutamente con singoli provvedimenti di proroga degli sfratti per finita locazione per “alleggerire” la tensione sociale insorta fra il proprietario che rivendicava il diritto di rientrare nel godimento del bene una volta cessata la locazione e l’interesse del conduttore a realizzare una riallocazione delle proprie esigenze abitative o di lavoro. Sul finire degli anni ’70 il legislatore ha esteso il suo intervento dalla fase successiva alla scadenza del rapporto a quella precedente, relativa alla conformazione del contenuto contrattuale, favorendo una regolamentazione del contratto improntata alla stabilità del rapporto e alla sostenibilità degli oneri locativi. In questo settore si è invero assistito ad una significativa “ingerenza” della regola normativa su quella consensuale: la disciplina di beni e di interessi che pertengono a vicende socialmente rilevanti ed attinenti alla personalità individuale, come quelle in esame, non poteva più essere interamente lasciata alla autonomia delle parti che dunque veniva, per legge, limitata, indirizzata e sanzionata. Intervenne in questo contesto culturale la legge 27 luglio 1978, n. 392, c.d. legge sull’equo canone (in alcune importanti parti ancora in vigore) che sottrasse alle parti la libertà di negoziare alcuni elementi fondamentali del contenuto negoziale rappresentativi dei rispettivi interessi in conflitto: in materia di locazioni non abitative il legislatore è intervenuto sulla durata; in materia di locazioni abitative sia sulla durata sia sulla misura del canone. Invero, il locatore ha interesse ad un termine finale breve, spirato il quale tornare nel godimento del bene e rinegoziare le condizioni del contratto, e ad un canone sostenuto per trarre dalla cosa il massimo profitto; il conduttore all’opposto ha interesse a fare affidamento su una durata ampia, che gli garantisca stabilità ed assicuri il soddisfacimento delle esigenze di lavoro o di abitazione che la locazione è destinata a realizzare, e ad un canone basso e sostenibile che gli consenta facilmente l’accesso al bene attraverso il quale realizzare le proprie esigenze di abitare una casa o di disporre di un luogo ove esercitare l’attività industriale, commerciale o professionale. Ed

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il mercato non appariva il luogo sufficiente per fornire alle parti uno strumento di equa composizione di tale conflitto di interessi.

20. Le locazioni abitative La legge n. 392 del 1978 quanto alle locazioni destinate ad abitazione stabilì pertanto una durata minima di quattro anni, tacitamente prorogata per un uguale periodo in caso di mancanza di disdetta da parte del proprietario; elaborò un sistema di calcolo del canone definito “equo” corrispondente ad una percentuale massima sul valore dell’immobile determinato in base alla applicazione di una serie di coefficienti; e sanzionò infine con la nullità i patti contrari alla determinazione legale della durata e del canone. La legge sull’equo canone mostrò però i suoi limiti ed il legislatore vi apportò un correttivo con la legge n. 359 del 1992 consentendo la stipula di patti in deroga alle norme di determinazione legale del canone a condizione che il locatore rinunciasse alla facoltà di disdetta alla prima scadenza. Si trattava di una legge che riguadagnava il terreno perduto sul fronte della autonomia privata in un contesto normativo che inaugurava una tendenza alla liberalizzazione dei mercati, processo che, in questi ultimi anni, può ritenersi in stato avanzato se non ormai compiuto. Tappa importante per il settore delle locazioni abitative di questo percorso verso la liberalizzazione del mercato è rappresentato dalla legge 9 dicembre 1998, n. 431 la quale, sia pure senza riconsegnare alle parti totale autonomia, ha tuttavia individuato e disciplinato due modelli contrattuali nei quali ha diversamente modulato e alternativamente distribuito il rapporto fra tasso di autonomia privata e prerogative della legge relativamente ai centrali elementi del corrispettivo e della durata. Nascono così i c.d. contratti a canone liberamente determinato dalle parti, nei quali però la durata del contratto è fissata in un periodo di quattro anni destinata a protrarsi per ulteriori quattro ove il locatore non invii una disdetta fondata su uno dei titoli tassativamente indicati dalla norma, non si trovi cioè in una delle condizioni soltanto ricorrendo le quali il locatore può sottrarsi al rinnovo del contratto (ad es. se ha bisogno di destinarlo a propria abitazione): nella pratica tali contratti vengono indicati anche come 4+4. E nascono altresì i contratti in cui il canone è determinato per relationem mediante l’adesione delle parti ad un contratto standard che viene fissato a seguito di accordi stipulati in sede locale fra le organizzazioni maggiormente rappresentative della proprietà edilizia e dei conduttori, sulla base di una Convenzione nazionale che detta, fra l’altro, i criteri per la quantificazione del canone; la durata è fissata in tre anni, rinnovabile per un ulteriore biennio in

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mancanza di disdetta titolata del locatore ed è previsto un diritto di prelazione del conduttore in caso di disdetta del locatore motivata dalla intenzione di vendere l’immobile: nella pratica tali contratti vengono indicati come 3+2. Entrambi tali contratti devono essere stipulati in forma scritta a pena di nullità (art. 1, n. 4, legge n. 431 del 1998). La garanzia della durata è in funzione della tutela del conduttore: ciò spiega la frequente previsione nei contratti di locazione abitativa di una clausola di recesso anticipato del conduttore da comunicarsi entro un congruo preavviso; lo stesso peraltro può sempre recedere dal contratto ove ricorrano gravi motivi, ad es. un trasferimento del conduttore in altra sede lavorativa (art. 3, n. 6, cit. legge n. 431 del 1998). Alla rilevanza del bene abitazione e alle correlate esigenze si ricollega la disposizione dell’art. 6 della legge n. 392 del 1978 tuttora in vigore per la quale in caso di morte del conduttore gli succedono nel contratto di locazione, il coniuge e gli eredi, i parenti ed affini conviventi, nonché – secondo una interpretazione estensiva della Corte costituzionale – anche il convivente more uxorio del conduttore medesimo. La legge 28 dicembre 2015, nel quadro delle misure di sostegno al mercato del credito e all’accesso alla abitazione, ha disciplinato il contratto di leasing immobiliare abitativo prevedendo incentivi fiscali sull’acquisto o sulla costruzione di immobili da adibire ad abitazione principale. L’obiettivo del legislatore è quello di agevolare (specie le giovani coppie) nell’acquisto dell’abitazione destinata a residenza individuando nella locazione finanziaria un strumento di finanziamento alternativo e innovativo rispetto al tradizionale mutuo ipotecario. Con il contratto di locazione finanziaria di immobile da destinare ad abitazione principale la banca o un intermediario finanziario si obbligano ad acquistare un immobile già presente sul mercato o ancora da costruire, sulla base della scelta e delle indicazioni fornite dall’utilizzatore, e a metterlo a disposizione di quest’ultimo per un certo periodo di tempo, ad un canone concordato, e determinato in relazione alla durata del contratto e al prezzo di acquisto o di costruzione dell’immobile, con diritto dell’utilizzatore alla scadenza del contratto di acquistare la proprietà dell’immobile corrispondendo il corrispettivo pattuito (art. 1, comma 76). Prima del c.d. riscatto, proprietario del bene è il concedente e tuttavia l’utilizzatore assume tutti i rischi, compreso il perimento fortuito del bene. L’utilizzatore può chiedere al concedente di sospendere il pagamento del corrispettivo periodico, per una sola volta e per un periodo massimo di dodici mesi, al verificarsi di determinati eventi (ad es. cessazione del rapporto di lavoro subordinato, per cause diverse dalle dimissioni, dal licenziamento giustificato o dal raggiungimento di limiti di età). In caso di risoluzione del contratto di locazione finanziaria per inadempi-

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mento dell’utilizzatore il concedente ha diritto alla restituzione del bene ma è tenuto a corrispondere all’utilizzatore quanto ricavato dalla vendita o da altra collocazione del bene ai valori di mercato, e può dedurre dal corrispettivo della vendita: a) l’importo dei canoni scaduti e non pagati fino alla data di risoluzione del contratto; b) l’importo dei canoni ancora da corrispondere fino alla scadenza del contratto; c) il prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione di acquisto. Ove il corrispettivo della vendita effettuata dal concedente sia inferiore all’importo complessivo delle suddette detrazioni, l’utilizzatore è tenuto e a corrispondere al concedente l’eventuale differenza negativa.

21. Le locazioni non abitative Le locazioni non abitative continuano invece ad essere interamente disciplinate dalla legge n. 392 del 1978. La durata non può essere inferiore a sei anni (nove se l’attività esercitata è di carattere alberghiero) (art. 27); il contratto alla scadenza si rinnova per un uguale periodo ove il locatore non comunichi il diniego di rinnovo del contratto mediante disdetta fondata su uno dei motivi tassativamente indicati nell’art. 29 (per es. adibire l’immobile ad abitazione propria o della famiglia, o all’esercizio di un’attività commerciale, ovvero procedere alla sua integrale ristrutturazione); anche il conduttore può recedere in ogni momento dal contratto previo preavviso ove ricorrano gravi motivi (art. 27). La determinazione del canone è rimessa alle parti le quali possono prevederne un adeguamento annuale con applicazione di una percentuale massima del 75% del coefficiente ISTAT (art. 32). Allo scopo di favorire l’esercizio e la continuità dell’attività di impresa è stabilito che il conduttore può sublocare l’immobile o cedere il contratto di locazione anche senza il consenso del locatore purché venga insieme ceduta o locata l’azienda; il locatore può opporsi solo per gravi motivi e, in caso di cessione, ove non abbia liberato il cedente, può agire per il pagamento dei canoni contro il medesimo, qualora il cessionario non adempia le obbligazioni assunte (art. 36). Parimenti, al fine di favorire la ricongiunzione fra lavoro e proprietà, fra attività lavorativa e beni strumentali, il conduttore ha diritto di prelazione ove il locatore intenda vendere l’immobile (art. 38); mentre in caso di cessazione del rapporto, che non sia dovuta a risoluzione per inadempimento, a disdetta o recesso del conduttore, a quest’ultimo spetta un’indennità di avviamento pari a 18 o 21 mensilità dell’ultimo canone corrisposto (34), purché nell’immobile non venissero esercitate alcune attività per le quali è escluso qualsiasi avviamento (per esempio, attività professionali) (art. 35).

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22. L’affitto di azienda e l’affitto di fondi rustici L’affitto d’azienda è espressamente previsto nell’art. 2562 che dichiara applicabili le disposizioni contenute nell’art. 2561 in tema di usufrutto di azienda. Così l’affittuario è tenuto ad esercitare l’azienda sotto la ditta che lo contraddistingue, a gestirla senza modificarne la destinazione e in modo da conservarne l’efficienza (cfr. anche art. 1615), e non può subaffittarla senza il consenso del locatore (art. 1624); quest’ultimo ha diritto di controllare l’osservanza degli obblighi da parte dell’affittuario (art. 1619) e in caso di inadempimento può chiedere la risoluzione del contratto (art. 1618). L’affitto di fondi rustici disciplinato negli artt. 1625 ss. c.c. è collocato all’interno dello schema generale dell’affitto di cosa produttiva e si riferisce all’ipotesi in cui un agricoltore non proprietario utilizza il fondo altrui, dietro corrispettivo, facendone propri i frutti. Un particolare tipo di contratto di affitto di fondo rustico è l’affitto a coltivatore diretto che ricorre quando l’affitto ha per oggetto un fondo che l’affittuario coltiva col lavoro prevalentemente proprio o di persone della propria famiglia ed assume quindi la veste di piccolo imprenditore agricolo. Le norme che al riguardo il codice dettava sono state travolte da una importante legge speciale, la legge 3 maggio 1982, n. 203. La nuova legge ha dettato regole per la determinazione dell’equo canone, ha fissato la durata minima del contratto di affitto in 15 anni e ha previsto un diritto di prelazione a favore dell’affittuario in caso di nuovo affitto alla scadenza del contratto. L’art. 8 della legge 26 maggio 1965, n. 590 già prevedeva, al fine di promuovere l’accesso alla proprietà della terra da parte di chi la lavora, un diritto di prelazione dell’affittuario in caso di trasferimento a titolo oneroso del fondo concesso in affitto; e l’art. 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817, allo scopo di favorire il consolidamento dell’impresa agraria, stabiliva un diritto di prelazione a favore del proprietario di fondo agricolo confinante con quello posto in vendita. I successivi d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228 e 29 marzo 2004, n. 99 hanno innovato, il primo (art. 7) prevedendo criteri di priorità in caso di pluralità di aventi diritto alla prelazione, il secondo (art. 2) estendendo il diritto alla società agricola di persone, in armonia con il diritto europeo, qualora la metà dei soci siano in possesso della qualifica di coltivatore diretto. La legge n. 203 del 1982 ha inoltre “ricondotto” ogni contratto che abbia ad oggetto la concessione di fondi rustici o tra le cui prestazioni vi sia il conferimento di fondi rustici, al tipo legale del contratto di affitto a coltivatore diretto dichiarando applicabili al rapporto le norme regolatrici dell’affitto di fondi rustici (art. 27). Sono vietati i contratti associativi (mezzadria, colonia parziaria e soccida) che per lunga tradizione avevano costituito le forme contrattuali diffuse ed utilizzate dai proprietari che conferivano il godimento

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della terra e dai coltivatori che la lavoravano o che vi allevavano il bestiame, per poi dividersi gli utili dell’impresa; tali contratti sono ritenuti incapaci di interpretare equi rapporti sociali in agricoltura e vengono radicalmente vietati e sanzionati con la nullità; quelli in corso sono invece convertiti in affitto a richiesta del concessionario ovvero del concedente, a meno che il coltivatore non preferisca farli risolvere (artt. 25 e 28).

23. Rent to buy L’art. 23 del d.l. n. 133 del 2014, convertito con modificazioni dalla legge 11 novembre 2014, n. 264, ha disciplinato un nuovo tipo di contratto allo scopo di soddisfare la duplice esigenza di favorire l’acquisto di una abitazione e ad un tempo di agevolarne la vendita da parte dei proprietari. Come indicato dalla rubrica della norma si tratta di un “contratto di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili” in cui vengono a fondersi gli schemi del contratto di locazione e del preliminare di vendita. La genericità dell’oggetto del contratto, che può consistere in qualsiasi bene immobile (appartamenti, uffici, box, cantine, stabilimenti industriali e anche immobili in costruzione) ne giustifica la trattazione dopo le locazioni urbane e l’affitto, di cui si è prima illustrata la differente disciplina proprio in ragione della specificità dell’oggetto. D’altro canto la funzione primaria e costante della locazione e quella secondaria e soltanto eventuale della vendita suggerisce la sistemazione della figura, definita nella prassi run to bay, nell’ambito della locazione e dunque dei contratti di godimento piuttosto che in quello della vendita e dunque dei contratti traslativi; invero l’effetto acquisitivo del diritto di proprietà del bene concesso in locazione, seppure presidiato – come vedremo – dalla possibilità di esperire l’azione di cui all’art. 2932 c.c., resta solo eventuale, essendo esso il risultato di una facoltà (diritto potestativo) del conduttore e non di un obbligo (sotto questo profilo la unilateralità del vincolo richiama lo schema del contratto preliminare unilaterale). Parimenti da escludersi è l’inserimento di tale contratto nello schema della locazione finanziaria, alla quale si è fatto prima cenno e con la quale il run to buy presenta qualche analogia, dal momento che la legge stessa, nel dettarne la definizione, specifica che deve trattarsi di “contratto diverso dalla locazione finanziaria”. Il contratto previsto dal citato art. 23 (comma 1), ha ad oggetto “l’immediata concessione del godimento di un immobile con diritto per il conduttore di acquistarlo entro un termine determinato, imputando al corrispettivo del trasferimento la parte di canone indicata nel contratto”. Il potenziale acquirente del bene ha dunque la possibilità di ottenerne subito il godimento rimandando l’eventuale acquisto della proprietà ad un tempo futuro; ove deci-

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derà di esercitare il suo diritto potestativo di acquisto, potrà detrarre dal corrispettivo della vendita, stabilito nel contratto, parte dei canoni corrisposti imputandoli a prezzo. In caso di risoluzione per inadempimento del concedente, quest’ultimo deve restituire la parte dei canoni imputata al corrispettivo della vendita, maggiorata degli interessi, e può trattenere la parte restante quale compenso del godimento del bene; in caso invece di risoluzione per inadempimento del conduttore il concedente ha diritto alla restituzione dell’immobile (che segue ad un’azione di rilascio del bene e non ad un’azione di sfratto), ed acquisisce interamente i canoni corrisposti a titolo di indennità, salvo diversa determinazione delle parti (comma 5). Ma la tutela più intensa investe la posizione del conduttore-acquirente ed è diretta a preservare la possibilità che egli acquisti la proprietà del bene. Il comma 3 prevede infatti che in caso di inadempimento all’obbligo di stipulare la vendita (obbligo configurabile, come si è detto, soltanto a carico del concedente) si applica l’art. 2932 c.c., con la conseguenza che il conduttore adempiente può agire per l’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre. Il contratto è inoltre trascrivibile ai sensi dell’art. 2645-bis c.c., che disciplina la trascrizione del contratto preliminare, e la trascrizione produce effetti, nel caso di durata ultranovennale del contratto, anche ai sensi dell’art. 2643, n. 8, c.c. La trascrizione ha un effetto “prenotativo” dell’acquisto dell’immobile: dalla data di essa sono inopponibili al conduttore vendite, iscrizioni ipotecarie, atti costitutivi di diritti reali, ed in genere tutti quegli atti pregiudizievoli di disposizione o di costituzione di diritti sul bene che vengano trascritti successivamente, cosicché dal momento della trascrizione del rent to buy, l’immobile può dirsi “riservato” al futuro acquirente.

Il Tema Inadempimento del locatore e sospensione della prestazione da parte del conduttore (Cass. 22 giugno 2020 n. 12103)

Il Caso Una Società concede in locazione un immobile ad uso non abitativo. In seguito a copiose infiltrazioni d’acqua verificatesi nell’immobile il locatore esegue lavori di manutenzione straordinaria diretti ad eliminare le cause di dette infiltrazioni.

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Il conduttore, lamentando che l’immobile, pur dopo l’esecuzione dei lavori, versava in stato di totale inagibilità, cosicché tale immobile non poteva essere goduto dal conduttore e da questi destinato all’uso contrattualmente convenuto, si astiene a far tempo dalla data di ultimazione dei lavori di manutenzione dal pagamento dei canoni. La Società proprietaria dell’immobile adisce il Tribunale che dichiara la risoluzione del contratto per inadempimento del conduttore. Il Tribunale aveva ritenuto che una volta operata la riparazione delle strutture ed escluso il protrarsi delle infiltrazioni dovesse essere considerata indebita la sospensione del pagamento dei canoni unilateralmente adottata dal conduttore. L’appellante, nell’impugnare la sentenza di primo grado sostiene invece che il Tribunale non aveva considerato le precarie condizioni del bene locato pur dopo la esecuzione delle opere di manutenzione straordinaria che non consentivano la prosecuzione dell’attività imprenditoriale svolta dal conduttore nell’immobile locato. La Corte di Appello di Catanzaro, in accoglimento dell’appello ed in riforma dell’impugnata sentenza rigetta la domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento proposta dal locatore. La Società proprietaria locatrice dell’immobile ricorre pertanto in cassazione per ottenere l’annullamento della sentenza della Corte di Catanzaro. Così la S.C. motiva la sua decisione.

Il Giudizio Con l’unico motivo del ricorso incidentale, rubricato «Violazione di legge art. 360 comma I n° 3 cpc – violazione dell’art. 1460 cc.», i ricorrenti incidentali lamentano che la Corte di merito abbia ritenuto che (…) S.r.I. avesse correttamente sospeso il pagamento dei canoni di locazione, tenendo conto della situazione fotografata dalla c.t.u. espletata. Sostengono i ricorrenti incidentali che tale statuizione lederebbe la disposizione di cui all’art. 1460 cod. civ. per come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, ad avviso dei predetti, il conduttore può legittimamente sospendere il pagamento dei canoni invocando la norma in parola solo quando sia venuta a mancare la prestazione della controparte, ed evidenziano che, nella specie, le infiltrazioni erano cessate dal 23 maggio 2014 e, quindi, da tale data la conduttrice avrebbe dovuto riprendere il pagamento dei canoni. Inoltre, assumono i controricorrenti che, sempre secondo la giurisprudenza di legittimità, la sospensione del pagamento del canone da parte del conduttore sarebbe legittima se conforme a lealtà e buona fede e che ciò dovrebbe escludersi ogni qualvolta il conduttore continui a detenere l’immobile e sottolineano che, nel caso all’esame, (…) S.r.l. non ha pagato i canoni di locazione dal giugno 2010 ma malgrado ciò ha detenuto l’immobile sino a giugno 2016, così dimostrando di avere interesse a mantenere la disponibilità dell’immobile, pur avendone dedotto la inutilizzabilità. Il motivo è infondato. Va anzitutto evidenziato che, sulla base delle risultanze della

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c.t.u. espletata (in motivazione della sentenza impugnata viene riportata in parte la relazione dell’ausiliare in cui, tra l’altro, si legge che «L’unità immobiliare di proprietà degli attori si presenta in uno stato di degrado ed abbandono causato dall’assenza di interventi manutentivi atti a ripristinare le normali condizioni d’uso compromesse da infiltrazioni d’acqua avvenute in passato») e delle foto allegate alla menzionata relazione, la Corte territoriale ha ritenuto sussistente una «condizione di assoluto degrado dell’immobile: muri palesemente scrostati, pavimenti deteriorati, soffitto fatiscente, tracce di lavori murari non coperte», condizione tale «da renderlo strutturalmente inidoneo a qualsivoglia attività senza alcun margine di dubbio», e ha reputato che «tanto determina, evidentemente, la violazione degli obblighi gravanti sulla parte attrice ai sensi degli articoli 1575 e 1576 c.c.» e «vale a determinare legittimamente la sospensione degli oneri relativi al pagamento dei canoni, versandosi in ipotesi nella quale l’operatività dell’art. 1460 cod. civ. è da ritenere ampiamente ricorrente». Osserva il Collegio che la decisione della Corte di merito, sia pure con motivazione sintetica e in parte implicita sul punto in questione, risulta in linea con i più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità, condivisi da questo Collegio, secondo i quali «l’art. 1460 cod. civ. prevede una forma di autotutela che attiene alla fase esecutiva e non genetica del rapporto e consente al conduttore, in presenza di un inadempimento del locatore, di sospendere liberamente la sua prestazione, nel rispetto del canone della buona fede oggettiva, senza la necessità di adire il giudice ai sensi dell’art. 1578 cod. civ.», con la precisazione che «in tema di locazione di immobili, il conduttore può sollevare l’eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c. non solo quando venga completamente a mancare la prestazione della controparte, ma anche nel caso in cui dall’inesatto adempimento del locatore derivi una riduzione del godimento del bene locato, purché la sospensione, totale o parziale, del pagamento del canone risulti giustificata dall’oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, riguardata con riferimento al complessivo equilibrio sinallagmatico del contratto e all’obbligo di comportarsi secondo buona fede». È stato pure da ultimo ribadito che «in tema di locazione di immobili, il conduttore può sollevare l’eccezione di inadempimento, ai sensi dell’art. 1460 c.c., non solo quando venga completamente a mancare la prestazione del locatore, ma anche nell’ipotesi di suo inesatto inadempimento, tale da non escludere ogni possibilità di godimento dell’immobile, purché la sospensione del pagamento del canone appaia giustificata, in ossequio all’obbligo di comportarsi secondo buona fede, dall’oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, avuto riguardo all’incidenza della condotta della parte inadempiente sull’equilibrio sinallagmatico del contratto, in rapporto all’interesse della controparte. Come precisato dalla sentenza di questa Corte n. 16918/2019, «L’importanza della prestazione, per così dire, permanente del locatore, ovvero la detenzione dell’immobile da parte del conduttore che è derivata dalla consegna, non è sufficiente … per compiere e cristallizzare la realizzazione esecutiva del sinallagma, ovvero per escludere definitivamente la sussistenza di buona fede oggettiva nella reazione sospensiva del conduttore alle inadempienze del locatore rispetto alle ulteriori sue obbligazioni. E sé, al-

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lora, la permanenza della detenzione della cosa locata è compatibile con la sospensione totale del canone nel caso in cui l’inutilizzabilità di detta detenzione renda totale anche l’inadempimento del locatore, qualora invece sussista ancora un grado di utilizzabilità dell’immobile locato, ovvero una “quota” di adempimento del locatore, il conduttore potrà sospendere in proporzione il versamento del canone, applicandosi quindi integralmente l’articolo 1460 e seguendo, per effettuarne nel concreto la corretta applicazione, il parametro posto nel secondo comma dell’articolo, ove lo si evince a contrario: se non corrisponde alla buona fede oggettiva sospendere l’adempimento nel caso in cui l’inadempimento o l’adempimento inesatto di controparte “avuto riguardo alle circostanze” non giustifichi la sospensione, viceversa la sospensione è corrispondente alla buona fede oggettiva quando “avuto riguardo alle circostanze” l’inadempimento o l’adempimento inesatto del locatore è tale da giustificare il rifiuto di adempimento del conduttore. E in questo raffronto sintonizzante non può non venire inclusa pure la sospensione parziale – quindi la determinazione proporzionale del quantum del canone sospeso –, proprio perché (cfr. articolo 1218 c.c.) si tratta di una reazione che deve essere il consequenziale riverbero non solo di un inadempimento, ma – come il più delle volte è configurabile nel contratto locatizio quando l’eccipiente è il conduttore che permanga nella detenzione dell’immobile – anche di un adempimento inesatto (exceptio non rite adimpleti contractus)». E nel caso di specie, come già sopra evidenziato, la Corte territoriale ha, in base ad un accertamento in fatto, non censurabile in questa sede, ritenuto che le condizioni di assoluto degrado dell’immobile erano tali da renderlo strutturalmente inidoneo a qualsivoglia attività, senza alcun margine di dubbio, con violazione degli obblighi posti a carico dei locatori ai sensi degli artt. 1575 e 1576 cod. civ., e da determinare legittimamente la sospensione degli oneri relativi al pagamento dei canoni, così implicitamente ritenendo sussistente la buona fede oggettiva nella reazione sospensiva del pagamento del canone della conduttrice alle rilevate inadempienze dei locatori e compatibile, con la sospensione totale del canone, la permanenza della conduttrice nella detenzione della cosa locata. Alla luce delle argomentazioni che precedono, va rigettato il ricorso incidentale.

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SEZIONE V: IL CONTRATTO DI APPALTO 24. L’appalto in generale Nell’attuale sistema economico l’appalto assolve un ruolo fondamentale al pari del contratto di vendita. Storicamente la collocazione dei beni sul mercato e la soddisfazione dei bisogni economici è avvenuta attraverso due schemi fondamentali: quello della vendita di beni già presenti e nella disponibilità del venditore, e quello della realizzazione con il proprio lavoro di un bene destinato ad altri che lo abbia ordinato. A questo secondo schema corrisponde il contratto d’opera disciplinato dall’art. 2222 c.c. Il prestatore d’opera è un lavoratore autonomo che con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione assume nei confronti del committente, verso un corrispettivo, l’obbligazione di compiere un’opera o un servizio: si pensi alla realizzazione di un armadio a muro da parte di un falegname, alla confezione di un abito da parte di un sarto, alla riparazione di una bicicletta, ed anche all’esecuzione di una prestazione professionale, per esempio da parte dell’avvocato, ancorché queste ultime siano fatte oggetto, in ragione della loro peculiare natura, di una particolare disciplina (artt. 2229 ss.). Si tratta dunque di figure professionali, artigiani o piccoli imprenditori. L’appalto invece, che pure si riferisce alla realizzazione di un’opera o di un servizio, presuppone la qualità di imprenditore dell’appaltatore: si comprende dunque la fortuna che tale figura contrattuale ha incontrato in quanto collegata al fenomeno dell’impresa (media e grande) e dunque al veicolo principale che conduce al mercato beni e servizi, al quale la “nuova” codificazione ha dato sicuro impulso. L’appalto rappresenta un contratto largamente impiegato non solo tra privati ma anche dalla pubblica amministrazione; a questo diverso ambito si collegano due figure, analoghe nella sostanza, ma soggette a disciplina assai diversa, l’appalto privato e l’appalto pubblico. Quest’ultimo viene definito dall’art. 3 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (c.d. codice dei contratti pubblici) come il contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto tra la pubblica amministrazione (o società di diritto privato a partecipazione pubblica o finanziate dallo Stato ovvero concessionarie di pubblici servizi), ed un operatore economico, avente per oggetto la esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti, la

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prestazione di servizi destinati a soddisfare interessi della collettività o della amministrazione, secondo le articolate e dettagliate indicazioni contenute nel predetto codice. La normativa in materia di appalti pubblici investe principalmente gli aspetti procedurali dell’affidamento dell’appalto, ed è diretta ad assicurare che la scelta del contraente venga effettuata senza condizionamenti di sorta e sulla base della migliore offerta: per questo è d’obbligo la redazione di un capitolato sulla base del quale le imprese concorrenti possano formulare le proprie offerte ed una pubblica gara che assicuri trasparenza nella scelta del contraente e nei costi dell’operazione. Nell’ultimo trentennio, dal 1982 al 2012, si sono succeduti numerosi provvedimenti (da ultimo il d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, modificato dal d.lgs. 15 novembre 2012, n. 218, e la legge 6 novembre 2012, n. 190 in materia di prevenzione e repressione della corruzione e della illegalità nella pubblica amministrazione), diretti a contrastare e prevenire il rischio di infiltrazioni mafiose negli appalti pubblici fino a condizionare la valida stipula del contratto alla certificazione antimafia rilasciata alla stazione appaltante dalla competente Prefettura. Esigenze di contenimento della spesa pubblica e di prevenzione degli abusi hanno indotto il legislatore a disciplinare con grande cautela e rigore l’istituto della revisione del prezzo dell’appalto pubblico largamente operante invece in quello privato.

25. La disciplina del contratto Dobbiamo qui occuparci dell’appalto privato che l’art. 1655 c.c. definisce come il contratto col quale una parte assume con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro. L’elemento del rischio caratterizza l’attività d’impresa (cosicché il deterioramento o il perimento della cosa non imputabile ad alcuna delle parti ricade prevalentemente sull’appaltatore: art. 1673 c.c.); ed anche l’appaltatore, in quanto imprenditore e come ogni imprenditore, non sa se il corrispettivo pattuito potrà coprire i costi e riservare un ricavo o se invece sarà insufficiente ad assicurare un guadagno, e nemmeno se dall’operazione risulterà una perdita e se questa sarà così determinante da esporlo al rischio del fallimento. Ciò potrà dipendere da ragioni oggettive, collegate al mercato e da ragioni soggettive dipendenti da previsioni errate dell’appaltatore o dalla sua scarsa capacità imprenditoriale. Queste ultime non possono che ricadere sull’imprenditore che dovrà im-

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putare l’insuccesso dell’appalto a sua personale incapacità di previsione e di programmazione o tutt’al più alla sorte. Le altre, le ragioni cioè collegate al mercato non sono sfuggite alla attenzione del legislatore che, tenendo presente che il contratto di appalto è contratto ad esecuzione differita nel tempo, ha dettato delle regole correttive dirette a temperare il rischio dell’imprenditore e ad amministrare le sopravvenienze nel corso del rapporto. Stabilisce infatti l’art. 1664 che se nel corso del rapporto per effetto di circostanze imprevedibili si siano verificati aumenti nel costo dei materiali o della mano d’opera tali da terminare una variazione percentuale superiore al decimo del corrispettivo convenuto, l’appaltatore può chiedere una revisione del prezzo per la differenza che eccede il decimo; ed analoga facoltà spetta al committente nell’ipotesi, certo meno frequente, in cui si sia verificata una analoga diminuzione dei suddetti costi (primo comma); inoltre, se nel corso dell’opera si manifestano difficoltà di esecuzione derivanti da cause geologiche, idriche e simili, non previste dalle parti, che rendano notevolmente più onerosa la prestazione dell’appaltatore, quest’ultimo ha diritto ad un equo compenso integrativo del corrispettivo pattuito. La norma, che viene incontro alle esigenze degli appaltatori piuttosto che dei committenti, e che certo offre il fianco a possibili abusi, è derogabile e sovente viene derogata attraverso apposite rinunce; ma sono frequenti anche clausole negoziali che rafforzano il diritto dell’appaltatore alla revisione del prezzo, attraverso previsioni più analitiche e misure percentuali predeterminate. La durata nel tempo dell’appalto spiega anche una serie di prerogative del committente. Quest’ultimo può ordinare modificazioni del progetto concordato (cc.dd. varianti) purché il loro ammontare non superi il sesto del corrispettivo pattuito ed in questo caso l’appaltatore ha diritto ad un compenso aggiuntivo (art. 1661, primo comma); se invece le variazioni necessarie per eseguire l’opera a regola d’arte sono di notevole entità, il committente può recedere dal contratto corrispondendo un equo indennizzo e lo stesso appaltatore, ove il loro importo superi il sesto del prezzo, può a sua volta recedere dal contratto (art. 1660). Il committente ha ovviamente diritto di controllare lo svolgimento dei lavori e di verificare lo stato del loro avanzamento, al quale spesso è collegata la corresponsione di quote del corrispettivo pattuito e, ove accerti che i lavori differiscono dal programma concordato ovvero non siano eseguiti a regola d’arte, può fissare un termine perché l’appaltatore si conformi, decorso inutilmente il quale il committente può ritenere risolto il contratto ed ottenere il risarcimento del danno (art. 1662). Terminata l’opera il committente, prima di ricevere la consegna, ha diritto di esaminarla al fine di verificarne la con-

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formità al progetto (collaudo). Al collaudo (o alla accettazione tacita dell’opera nel caso in cui il committente non proceda senza giustificato motivo alla verifica, ovvero ometta di comunicarne l’esito all’appaltatore) si collegano importanti conseguenze: il diritto dell’appaltatore al pagamento del corrispettivo (spesso al saldo del prezzo, parte del quale anticipato durante l’esecuzione dei lavori) (art. 1665); la preclusione in danno del committente a far valere la garanzia per quelle difformità e quei vizi conosciuti o riconoscibili dal committente stesso purché, in quest’ultimo caso, non siano stati in mala fede taciuti dall’appaltatore (art 1667, primo comma). La consegna dell’opera o l’esecuzione del servizio segnano l’adempimento del contratto e ciò conferma che l’obbligazione dell’appaltatore non è obbligazione di semplice mezzi (come quella ad esempio del professionista che è tenuto ad una prestazione di lavoro) ma di risultato in cui il debitore appaltatore deve procurare al creditore committente il conseguimento di uno specifico risultato. Nonostante il fondamentale ruolo svolto dalla consegna, l’appalto non è un contratto reale perché il contratto si perfeziona ed acquista efficacia ben prima della consegna; ma non è neanche un semplice contratto a effetti obbligatori perché esso produce non soltanto la nascita di obbligazioni a carico delle parti (pagamento del corrispettivo, realizzazione dell’opus) ma anche l’acquisto di un diritto reale a favore del committente che con l’accettazione dell’opera ne acquista la proprietà. È peraltro difficile ascrivere l’appalto alla categoria dei contratti a effetti reali giacché in questo caso l’effetto traslativo del diritto non è mera conseguenza del consenso delle parti espresso all’atto della conclusione del negozio ma l’esito di una fattispecie complessa in cui hanno rilievo, il consenso, la realizzazione dell’opera, la consegna e la sua accettazione. La vocazione “reale” dell’appalto spiega la disciplina dell’adempimento della prestazione dell’appaltatore ed il sistema delle garanzie, ispirati alla disciplina della vendita anche se, come vedremo, con significative differenze. La misura dell’adempimento dell’appaltatore è rappresentata dalla conformità dell’opera al progetto approvato, ed al quale le parti possono concordemente apportare variazioni in corso d’opera, variazioni che devono essere provate per iscritto (art. 1659). Tale conformità, indipendentemente da qualsiasi colpa dell’appaltatore, è oggetto anche di specifica garanzia: l’art. 1667 c.c. stabilisce che il committente deve denunziare all’appaltatore le difformità e i vizi entro sessanta giorni dalla scoperta (un anno se si tratta di immobili), ma la denuncia non è necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto la difformità o i vizi ovvero se li ha occultati; e l’azione si prescrive in due anni dalla consegna. Come abbiamo già osservato, il committente non può invocare la garanzia se ha

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accettato l’opera e la difformità e i vizi erano da lui conosciuti o riconoscibili purché in quest’ultimo caso non siano stati in mala fede taciuti dall’appaltatore. Il contenuto della garanzia è descritto nell’art. 1668 c.c., e si svolge in due direzioni. Il committente, ove le difformità o i vizi siano tali da rendere l’opera del tutto inadatta alla sua destinazione, può chiedere la risoluzione del contratto (secondo comma); altrimenti può chiedere la eliminazione dei difetti a spese dell’appaltatore ovvero una proporzionale riduzione del prezzo (primo comma). Si tratta di una norma di fondamentale importanza perché individua un meccanismo di tutela contrattuale diretto alla conservazione del contratto e alla realizzazione di un equilibrio delle prestazioni. Tale rimedio, previsto nel seno della disciplina di un singolo contratto (l’appalto), è stato opportunamente indicato dalla dottrina come avente valenza generale; si è così pervenuti alla individuazione di un onere del creditore di chiedere con priorità, rispetto a più radicali rimedi, l’eliminazione della inesattezza della prestazione, ove ciò possa naturalmente tutelare a pieno l’interesse del creditore, configurando in tal modo un rimedio applicabile in tutti i casi di prestazione difettosa, al di là della specifica sede di disciplina; ed il legislatore negli ultimi anni ha recepito tali istanze codificandole, ad esempio, nella vendita di beni di consumo. Come abbiamo osservato la garanzia è concessa anche quando la difformità o i vizi non dipendono da colpa dell’appaltatore; se questi invece è in colpa è tenuto anche al risarcimento del danno (art. 1668, primo comma). Una responsabilità aggiuntiva e speciale è prevista in favore del committente quando l’appalto ha ad oggetto edifici o altre cose immobili destinate a lunga durata, come uno stadio, una palestra, una discoteca. Se infatti nel corso dei dieci anni dall’ultimazione dell’opera questa, per vizio del suolo o per difetto di costruzione, rovini in tutto o in parte ovvero presenti evidente pericolo di rovina o gravi difetti, l’appaltatore è responsabile purché la denuncia venga fatta entro un anno dalla scoperta. Le ragioni della norma vanno individuate nella tutela di un interesse generale che va oltre il committente e si ricollega alla collettività che si trova nel tempo ad utilizzare il bene: ciò spiega perché l’art. 1669 estenda la legittimazione dell’azione agli aventi causa dal committente (per es. agli acquirenti delle singole unità immobiliari dal proprietario di un edificio) il quale, dopo la vendita, perde un interesse diretto ad esercitare l’azione; e spiega anche perché l’accettazione del committente non precluda l’esperimento dell’azione. La responsabilità è “speciale” perché, secondo una diffusa convinzione, ha natura extracontrattuale e dunque viene a cumularsi con quella ordinaria contrattuale prima esaminata. La indicata vocazione “reale” dell’appalto favorisce una prossimità dello

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schema contrattuale dell’appalto a quello della vendita (prototipo del contratto ad effetti reali), in particolare alla vendita di cosa futura, cosicché nella pratica spesso le due figure risultano simili ed occorre ricercarne gli elementi distintivi. Quando il contratto ha ad oggetto una cosa che deve fornire un’impresa e che ancora deve venire ad esistenza può nascere il dubbio se ricorra una vendita di cosa futura o invece un appalto: la differenza andrà ricercata nella volontà delle parti espressa nel contratto e nelle caratteristiche oggettive della operazione economica dedotta nel contratto stesso. In particolare dovrà indagarsi sulla prevalenza della prestazione di facere, che caratterizza l’appalto, o di quella di dare, tipica della vendita: così la fornitura di una vettura di serie sarà vendita, ma quella della stessa vettura sulla quale il committente abbia ordinato la installazione personalizzata di una serie di dispositivi per portatori di handicap sarà appalto; l’acquisizione di un appartamento realizzato dal costruttore nell’ambito di un più ampio progetto di costruzione di edifici di abitazione avverrà a mezzo di una vendita, ma la realizzazione di una villa al mare su un terreno acquistato dal committente sarà invece oggetto di un appalto. La qualificazione del contratto non è ovviamente indifferente: alla individuazione dell’uno o dell’altro tipo negoziale, come identificato all’esito del procedimento di interpretazione del contratto condotto alla stregua delle norme di cui agli artt. 1362 ss. c.c., fa seguito una regolamentazione diversa, che non è il caso qui di indicare, essendo sufficiente segnalare la diversità delle regole che disciplinano i due contratti e che abbiamo illustrato. La natura fiduciaria del rapporto spiega perché l’appaltatore possa concedere in subappalto l’esecuzione dell’opera (ipotesi frequente negli appalti di una certa consistenza) solo con il consenso del committente (art. 1656). Il subappaltatore peraltro, dando luogo il subappalto, come la sublocazione, ad un rapporto del tutto distinto dal contratto base, ancorché a questo collegato, non ha azione diretta nei confronti del committente; al contrario gli ausiliari dell’appaltatore hanno azione diretta contro il committente per conseguire quanto è loro dovuto fino a concorrenza del credito dell’appaltatore verso il committente (art. 1676). La natura fiduciaria dà altresì ragione della eccezionale facoltà del committente (che non trova infatti conforto nella regola generale dell’art. 1373 c.c., per la non configurabilità dell’appalto come contratto di durata ad esecuzione continuata in senso proprio) di recedere dal contratto anche dopo l’inizio della sua esecuzione, purché tenga indenne l’appaltatore delle spese sostenute, dei lavori eseguiti e del mancato guadagno (art. 1671). La natura fiduciaria del rapporto trova ulteriore conferma nell’art. 1674 c.c. il quale, dopo aver stabilito che il contratto non si scioglie per la morte dell’appaltatore (ma perché la scomparsa fisica dell’imprenditore non necessariamente comporta il venir meno dell’affidamento sull’im-

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presa), fa salva l’ipotesi in cui la persona sia stata motivo determinante del contratto; e precisa che il committente può sempre recedere dal contratto se gli eredi dell’appaltatore non danno affidamento per la buona esecuzione dell’opera o del servizio.

Il Tema Vendita di cosa futura e appalto (Cass. 12 maggio 2008 n. 11656)

Il Caso Nel 2001 la Regione Calabria pubblicava un avviso al fine di esperire una ricerca di mercato finalizzata alla acquisizione in locazione con eventuale opzione di acquisto, ovvero alla compravendita, anche di cosa futura, ovvero mediante contratto di leasing, di un complesso immobiliare in Catanzaro da destinare ad uffici della Regione. Alla gara partecipava la Società Hermes a responsabilità limitata, proprietà di un terreno sul quale aveva diritto di costruire, in forza di una Convenzione con il Comune, un complesso edilizio composto da 418 alloggi. Una commissione regionale costituita allo scopo di selezionare le migliori offerte valutava quella presentata dalla Soc. Hermes come la più idonea, cosicché la Giunta regionale nel novembre 2002 approvava la stipula di un contratto di compravendita del solo complesso immobiliare da costruire, al quale la Soc. proprietaria del terreno aderiva. Un mese dopo, nel dicembre dello stesso anno, la Giunta revocava in autotutela la propria precedente deliberazione per vizi di legittimità, e manifestava la propria intenzione di procedere all’acquisto dell’area sulla quale avrebbe realizzato gli immobili da destinare a uffici regionali ricorrendo alla finanza di progetto. La Soc. Hermes procedeva comunque alla alienazione dell’area in vista della possibilità di esperire la procedura di finanza di progetto per la realizzazione del complesso immobiliare, riservandosi ogni azione per i danni subiti dalle determinazioni regionali. Scaduto inutilmente il termine e venuta meno ogni opportunità, la Società Hermes conveniva la Regione Calabria davanti al Tribunale di Catanzaro chiedendo il risarcimento del danno da responsabilità precontrattuale ex art. 1337 c.c. provocato dalla Regione, per avere quest’ultima ingiustificatamente rifiutato di stipulare il contratto di vendita di cosa futura pur avendo ingenerato in essa attrice un affidamento che l’aveva indotta a sostenere ingenti spese di progettazione costringendola a rinunziare alla realizzazione del complesso edilizio residenziale, danno che quantificava in euro 21 milioni; in

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subordine chiedeva che la Regione fosse condannata alla minor somma di circa 6 milioni di euro per il danno da indebito arricchimento conseguente alla acquisizione e all’utilizzo da parte dell’Ente territoriale degli elaborati progettuali. Il Tribunale di Catanzaro dichiarava il difetto di giurisdizione dell’Autorità giudiziaria ordinaria in favore del Giudice amministrativo. Su impugnazione della Soc. Hermes la Corte di Catanzaro rigettava l’appello e confermava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario. Riteneva la Corte di Catanzaro che nel caso di specie la Regione aveva dato corso da una “procedura di affidamento di lavori, servizi e forniture” e che pertanto risultava applicabile l’art. 6 della legge n. 205 del 2000 in base al quale “Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie relative a procedure di affidamento di lavori, servizi o forniture svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale”; e che nella fattispecie il contratto allegato alla delibera del 2002 aveva solo il nomen iuris di vendita di cosa futura trattandosi invece di appalto di opera pubblica. Avverso questa sentenza ha proposto un ricorso per cassazione la Società Hermes assumendo che la Regione aveva agito iure privatorum, che il contratto che aveva omesso di stipulare, violando gli obblighi di correttezza e buona fede, non era da qualificarsi appalto di lavori pubblici bensì compravendita di cosa futura, che la legge n. 205 del 2000 non trovava pertanto applicazione con la conseguente affermazione della giurisdizione del giudice ordinario. La S.C. accoglie il ricorso, afferma la giurisdizione del giudice ordinario e rinvia la causa al Tribunale di Catanzaro, in diversa composizione. Profilo decisivo della controversia che avrebbe consentito alla Suprema Corte di individuare il Giudice provvisto di giurisdizione, era quello afferente alla qualificazione del contratto intercorso fra P.A. e privato, giacché da questa qualificazione, se compravendita (di cosa futura) o appalto di lavori pubblici sarebbe dipesa la sussistenza, nella prima ipotesi, della giurisdizione del giudice ordinario, nella seconda ipotesi della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Questa la motivazione della decisione delle SS.UU.

Il Giudizio 7.3. Comunemente si sostiene che la vendita ha per oggetto un dare, mentre l’appalto ha per oggetto un facere. La prima è diretta ad un trasferimento, mentre il secondo è inteso in primis alla produzione di un opus, mediante un’attività elaboratrice. L’uno presuppone l’esistenza attuale della cosa; l’altro l’inesistenza ed è posto in essere per produrla.

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Il problema si complica allorché si tratta di vendita di cosa futura (art. 1472 c.c.) e cioè di bene non ancora esistente, segnatamente allorché si tratti un prodotto d’opera non ancora realizzato e per l’esistenza del quale occorre l’attività strumentale positiva dell’alienante. Anche in relazione a questo tipo di vendita si ritiene dalla dottrina maggioritaria e dalla giurisprudenza che si versi in ipotesi di contratto ab inizio perfetto, ricorrendo in esso tutti gli elementi essenziali del contratto, ma ad effetti obbligatori, poiché il momento traslativo sussisterà solo allorché la cosa sia venuta ad esistenza: l’esigenza di tutelare il compratore contro il rischio del perimento dell’opera che si trovi ancora nella sfera di controllo dell’alienante induce a ritenere che l’opera debba ritenersi esistente solo al momento del suo completamento. I criteri di distinzione proposti sono sostanzialmente due. Un primo criterio di distinzione, che può definirsi obbiettivo, propone di distinguere l’appalto dalla compravendita di cosa futura in base alla prevalenza quantitativa dell’elemento lavoro sull’elemento materia (il principio è applicato soprattutto in materia tributaria, essendo il criterio seguito dal d.p.r. n. 633/1972. Si è validamente obbiettato, allorché tale criterio è stato trasferito fuori dall’area tributaria, che non è la prevalenza quantitativa del lavoro sulla materia che ha valore decisivo, ma il modo come il lavoro è considerato dalle parti. Il secondo criterio di distinzione tra i due contratti è quello subiettivo, alla stregua del quale dovrà vedersi in che modo le parti hanno considerato l’opera, se cioè in sé stessa o in quanto prodotto necessario di un’attività e quindi se la volontà delle parti aveva ad oggetto un dare o un facere. Il criterio subiettivo è quello più seguito dalla giurisprudenza. Per volontà delle parti deve intendersi non l’intenzione soggettiva, cioè l’opinione che essere abbiano avuto della natura del rapporto, ma l’intento empirico tipico in cui si inquadra la volontà che le muove. È stato già rilevato che il privato non è padrone delle conseguenze giuridiche dei negozi che compie, le quali si producono vi legis e non vi voluntatis. La cosiddetta libertà contrattuale dei privati comincia e termina con la creazione dell’elemento di fatto del negozio e cioè con la manifestazione di un determinato intento empirico. L’effetto giuridico è indipendente dalla rappresentazione che se ne faccia l’agente, il quale nessuna diretta influenza potrà esercitare su di esso. Quando perciò si propone di far richiamo alla volontà delle parti per qualificare il negozio, per volontà delle parti si deve intendere il dato dell’intento empirico che le parti hanno dimostrato di voler conseguire: se tale intento empirico coincide con quello della vendita, nel senso che il conseguimento della cosa costituisce la vera ed unica finalità del negozio ed il lavoro sia solo il mezzo per produrla, si ha vendita di cosa futura; se coincide con quello proprio dell’appalto, nel senso che l’attività realizzatrice della cosa sia la vera finalità del negozio, si ha appalto. In giurisprudenza è stato più volte deciso che il contratto avente ad oggetto il trasferimento della proprietà di un’area edificabile in cambio di un fabbricato o di alcune sue parti da costruire sulla stessa, superficie a cura e con i mezzi del cessionario, può integrare sia un contratto di permuta di un bene esistente con un bene futuro, sia un contratto

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misto, costituito con gli elementi della vendita e dell’appalto. Si configura il primo contratto se il sinallagma negoziale sia consistito nel trasferimento reciproco della proprietà attuale con la cosa futura (ipotesi la quale si verifica anche se si sia previsto il pagamento di un conguaglio in denaro, non incidendo tale clausola sulla causa tipica del negozio di permuta) e l’obbligo di erigere l’edificio sia restato su un piano accessorio e strumentale, mentre si ravvisa l’altro contratto, qualora la costruzione del fabbricato sia stata al centro della volontà delle parti e l’alienazione dell’area abbia costituito soltanto il mezzo per conseguire l’obiettivo primario. Ritengono queste S.U. di dover aderire a tale orientamento consolidato, anche in tema di differenza tra vendita di cosa futura ed appalto. Pertanto il contratto avente ad oggetto la cessione di un fabbricato non ancora realizzato, con previsione dell’obbligo del cedente – che sia proprietario anche del terreno su cui l’erigendo fabbricato insisterà – di eseguire i lavori necessari al fine di completare il bene e di renderlo idoneo al godimento, può integrare alternativamente tanto gli estremi della vendita di una cosa futura (verificandosi allora l’effetto traslativo nel momento in cui il bene viene ad esistenza nella sua completezza), quanto quelli del negozio misto, caratterizzato da elementi propri della vendita di cosa presente (il suolo, con conseguente effetto traslativo immediato dello stesso) e dell’appalto: e ciò a seconda che nel sinallagma contrattuale, assuma un rilievo centrale il conseguimento della proprietà dell’immobile completato ovvero tale ruolo centrale sia costituito dal trasferimento della proprietà attuale (del suolo) e dall’attività realizzatrice dell’opera da parte del cedente. Si avrà quindi vendita di cosa futura quando l’intento delle parti abbia ad oggetto il trasferimento della cosa futura e consideri l’attività costruttiva nella mera funzione strumentale e per contro si avrà vendita con effetti reali del suolo ed appalto della costruzione, quando l’attività costruttiva, che il cedente assume a proprio rischio con la propria organizzazione, viene considerata come oggetto della prestazione di fare. In quest’ultima ipotesi si verserà in ipotesi di contratto misto (di vendita e di appalto), la cui disciplina giuridica va individuata, in base alla teoria dell’assorbimento, che privilegia la disciplina dell’elemento in concreto prevalente, in quella risultante dalle norme del contratto atipico nel cui schema sono riconducibili gli elementi prevalenti (cosiddetta teoria dell’assorbimento o della prevalenza), senza escludere ogni rilevanza giuridica degli altri elementi, che sono voluti dalle parti e concorrono a fissare il contenuto e l’ampiezza del vincolo contrattuale, elementi ai quali si applicano le norme proprie del contratto cui essi appartengono, in quanto compatibili con quelle del contratto prevalente. Nella fattispecie, come risulta sia dall’avviso di ricerca di mercato che dallo schema del contratto, l’interesse dell’amministrazione non era tanto quello di ottenere il suolo per una successiva trasformazione del medesimo, quanto l’acquisizione di un edificio già realizzato rispetto al quale sia l’acquisto del suolo che il lavoro del costruttore appaiono come elementi indispensabili, ma comunque accessori, rispetto all’oggetto effettivo del contratto. Peraltro, come si è visto, a fronte della ritenuta natura del contratto come compravendita di cosa futura, non avrebbe mai potuto sussistere solo un contratto di appalto, in quanto il terreno era della stessa Hermes (ipotetica appaltatrice)

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ed il contratto in questione sarebbe stato un contratto di appalto di opera pubblica su terreno di proprietà dello stesso appaltatore, ma un contratto misto di vendita con effetti reali di bene esistente (il terreno) e di contestuale appalto per la realizzazione dell’edificio. Sennonché, come detto, dall’art. 2 del contratto emerge che l’intento delle parti non era quello di trasferire la sola proprietà del terreno ma anche quella dell’intero complesso da realizzare e che lo stesso trasferimento della proprietà del terreno sarebbe avvenuto in una alla proprietà del complesso immobiliare, allorché esso sarebbe stato ultimato. In merito al passaggio di proprietà dell’opera nell’appalto di costruzione di immobili, la dottrina, che se ne è occupata, ritiene condivisibilmente che, se il suolo è di proprietà del committente, l’opera nasce di sua proprietà per accessione; se invece il terreno è dell’appaltatore (o perché già suo o perché l’abbia acquistato ai fini dell’esecuzione del contratto di appalto, rivestendo in questo acquisto la qualità di mandatario del soggetto committente l’appalto) e non sia stato trasferito al committente, l’appaltatore che ha fornito anche i materiali ed il lavoro, è acquirente originario della proprietà dell’opera, che passa nella proprietà del committente solo con l’accettazione dell’opera, che deve essere data per iscritto, trattandosi di immobili. Nella fattispecie – invece – il trasferimento della proprietà era previsto nel contratto per effetto della sola venuta ad esistenza ed ultimazione del complesso e non per effetto dell’accettazione, il che è conforme alla disciplina della vendita di cosa futura. Ne consegue che, non versandosi in ipotesi di procedura di affidamento di appalto di lavori, ma di trattative relative ad un contratto di compravendita di cosa futura, per la proposta azione di responsabilità precontrattuale nei confronti della regione convenuta, non sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (per le controversie relative alle procedure di affidamento di lavori da parte delle P.A., ai sensi dell’art. 6 l. 21.7.2000, n. 205), ma la giurisdizione del giudice ordinario. Infatti, esclusa l’applicabilità di tale ultima norma, la giurisdizione va affermata sulla base dei criteri di riparto ancorati alla distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, e perciò in funzione della natura giuridica delle situazioni soggettive dedotte in giudizio. Tale natura attiene ad una pretesa il cui soddisfacimento non postula la demolizione di alcun atto amministrativo, giacché allega un illecito extracontrattuale a carico della P.A. e non contesta la procedura relativa alla individuazione del contraente. Va pertanto accolto il ricorso, cassata l’impugnata sentenza con conseguente rinvio al Tribunale di Catanzaro.

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SEZIONE VI: IL CONTRATTO DI TRASPORTO 26. Il trasporto in generale Con il contratto di trasporto il vettore si obbliga verso corrispettivo a trasferire persone o cose da un luogo ad un altro (art 1678). Il codice disciplina in differenti sezioni il trasporto di persone ed il trasporto di cose ed è comprensibile che la profonda diversità dell’oggetto del contratto abbia indotto il legislatore a dettare norme molto diverse per regolare le due figure di trasporto. Giova subito avvertire che il contratto di trasporto non è solo e sempre affare privato, avendo infatti tale contratto una specifica vocazione a soddisfare esigenze collettive relative al trasporto delle persone e delle merci sul territorio: il contratto di trasporto è dunque strumento primario del quale operatori pubblici e privati si avvalgono per soddisfare le esigenze di mobilità della persona sul territorio globale e per assicurare la circolazione sui mercati mondiali delle merci prodotte, vendute e scambiate. Ciò spiega la previsione di cui agli artt. 1679 e 1680 contenuti nella Sezione I che detta le Disposizioni generali in materia di trasporto. In base all’art. 1679 le imprese che esercitano servizi di linea in regime di concessione amministrativa (si pensi al trasporto urbano o interregionale per le persone e all’autotrasporto su strada delle merci) hanno l’obbligo di contrattare e di applicare nei confronti di chiunque le condizioni stabilite nell’atto di concessione. Si tratta di una deroga evidente e rilevante al principio della autonomia contrattuale che investe la libertà negoziale in momenti primari e cioè nella libertà di scelta se concludere un negozio e nella libertà di poter scegliere il contraente. La disposizione rinviene un sicuro riferimento normativo nell’art. 2597 c.c. secondo il quale l’impresa che si trova in posizione di monopolio ha l’obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa e di osservare la parità di trattamento. Occorre peraltro tenere presente che la normativa europea (Trattato UE artt. 105, 106) favorisce la concorrenza e contrasta le posizioni monopolistiche che possano alterarla o falsarla (come gli accordi o le pratiche concordate che hanno per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare la concorrenza, ovvero come lo sfruttamento abusivo da parte di un’impresa di una posizione dominante sul mercato attraverso condotte anticoncorrenziali:

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artt. 101 e 102); e che la legge nazionale, 10 ottobre 1990, n. 287, nel testo aggiornato dal recente d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (convertito nella legge 24 marzo 2012, n. 27) ha vietato le intese restrittive della concorrenza, l’abuso di posizione dominante e le operazioni di concentrazione (titolo I). D’altro canto, sia il Trattato europeo sia la legge nazionale sottraggono in una certa misura le imprese che esercitano servizi pubblici al pieno regime della concorrenza legittimandone in qualche modo la posizione di esclusiva. Invero l’art. 106 Trattato UE al secondo comma stabilisce che le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle regole sulla concorrenza nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento in linea di diritto e di fatto dei compiti loro affidati (nel nostro caso all’espletamento del servizio di trasporto); e l’art. 8 della cit. legge n. 287 del 1990 sottrae alla disciplina antitrust le imprese che per disposizione di legge esercitano la gestione di servizi di interesse economico generale ovvero operano in regime di monopolio sul mercato per tutto quanto strettamente connesso all’adempimento degli specifici compiti loro affidati. Ora, l’obbligo di concludere contratti di trasporto e di osservare la parità di trattamento da parte di imprese concessionarie di pubblici servizi di linea non sembra trovare giustificazione nella posizione di monopolio di tali imprese: ed invero anche i concessionari agiscono in un mercato concorrenziale e subiscono la concorrenza di altri operatori, pubblici (taxi) e privati. La disposizione in esame viene dunque a trovare più convincente spiegazione nell’interesse generale alla fruizione dei servizi pubblici di linea. La verità è che, nella attuale era delle “liberalizzazioni”, il settore dei trasporti è un settore particolarmente resistente ad un processo di integrale liberalizzazione, e ciò in ragione del particolare collegamento della mobilità con il territorio e dunque con i beni demaniali, e della natura di servizio pubblico del trasporto, diretto a garantire, in quanto tale, servizi oltre la marginalità del profitto. Il che, ancora oggi, ha indotto il legislatore da un lato a liberalizzare i servizi mantenendo in mano pubblica la gestione delle infrastrutture, come accade per i trasporti su ferrovia; e dall’altro a prevedere l’obbligo di contratti per l’affidamento dei servizi nel settore del trasporto pubblico locale (pur beneficiario di rilevanti sussidi derivanti da risorse nazionali trasferite alle Regioni) attraverso il ricorso a gare pubbliche per l’assegnazione delle licenze. Se agli albori della Comunità europea la UE considerava il settore dei trasporti esclusivamente in funzione della costruzione di un mercato comune (v. Trattato CECA art. 70), oggi sembra evidente il collegamento fra settore dei trasporti e libertà fondamentali, fra consumatore-viaggiatore e cittadinopersona, incidendo l’efficienza dei trasporti sulla qualità di vita della persona.

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Ciò spiega la importanza centrale del trasporto di persone nella politica comunitaria e nazionale, sebbene il codice – nella sua logica prevalentemente patrimoniale – abbia dedicato due norme al trasporto di persone e ben venti a quello di cose. Invero la politica dei trasporti, che l’art. 90 del Trattato colloca nel quadro di una politica comune dell’Unione, trova le sue radici più intime nella comune cittadinanza europea, in quel diritto di circolare liberamente nel territorio degli Stati che è primario diritto di libertà e che trova posto fra i principi generali elencati nel Trattato stesso (artt. 23 e 24), e specifica disciplina nel titolo IV dedicato alla libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali. In questo contesto si spiega anche perché la disciplina del trasporto è in gran parte delocalizzata e ha la sua sede in un codice dedicato, il codice della navigazione, o in leggi speciali, ove sono contenute le regole del trasporto marittimo, di quello aereo e di quello ferroviario: è lo stesso art. 1680 a rinviare a queste fonti normative, specificando che anche in questi settori, peraltro, si applicano le norme del codice civile in quanto non derogate dalla legislazione speciale. In entrambi i tipi di trasporto l’obbligazione del vettore si configura come obbligazione di risultato: colui che assume l’obbligo di trasportare deve garantire di condurre incolume il viaggiatore a destinazione e deve assicurare che la cosa arrivi integra al destinatario. Diverso è peraltro il complesso di regole che disciplina gli obblighi delle parti e la responsabilità del vettore nei due casi.

27. Il trasporto di persone La responsabilità che fa carico al vettore nel trasporto di persone ha natura contrattuale ed investe i danni che colpiscono la persona del viaggiatore nonché la perdita o l’avaria delle cose che il viaggiatore reca con sé. La responsabilità è improntata a particolare rigore; il vettore infatti non si libera fornendo la prova che il sinistro è stato determinato da causa a lui non imputabile secondo il regime generale dell’art. 1218, ma deve fornire la prova positiva di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno (art. 1681, primo comma). Dunque se al viaggiatore è sufficiente provare l’esistenza del contratto di trasporto, il danno e il nesso causale, il vettore deve provare di avere adottato tutte le misure che avrebbero evitato il sinistro. Si tratta pertanto di una responsabilità aggravata che, pur non risolvendosi in responsabilità di tipo oggettivo, tuttavia innalza la soglia di responsabilità del vettore:

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questi è infatti tenuto ad impiegare tutti gli accorgimenti e ad assumere tutte le iniziative che nei singoli casi siano in grado di scongiurare il verificarsi del sinistro (ad es. se il vettore deve attraversare un valico di montagna deve munirsi delle catene ed assicurarsi che l’impianto di riscaldamento sia funzionante; deve conoscere che un certo tratto stradale è privo di punti di erogazione del carburante e provvedere in tempo al rifornimento). La responsabilità del vettore è rinforzata dalla previsione di nullità assoluta delle clausole che ne limitino la responsabilità per i sinistri che colpiscono il viaggiatore (art. 1681, secondo comma) in deroga alla disposizione dell’art. 1229 che invece le ammette per colpa lieve e per fatto degli ausiliari. Il vettore, indipendentemente dagli obblighi assunti con il contratto di trasporto, è responsabile del danno prodotto al viaggiatore e alla sue cose anche a titolo di responsabilità extracontrattuale in base all’art. 2043 c.c. Ove il trasporto sia avvenuto a mezzo di un veicolo senza guida di rotaie si applicherà l’art. 2054 cod. civ. ed il vettore potrà liberarsi fornendo una prova simile a quella prevista dall’art. 1681, provando cioè di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno (primo comma). Ove il termine di prescrizione annuale per l’azione di responsabilità contrattuale sia spirato (art. 2951) il danneggiato potrà esperire l’azione aquiliana entro il più ampio termine di due anni dal fatto illecito (art. 2647, secondo comma). È di un anno invece la prescrizione del diritto al risarcimento del danno alla persona in caso di inadempimento dei contratti del turismo organizzato (art. 44, d.lgs. 23 maggio 2011, n. 79 c.d. codice del turismo): la norma infatti stabilisce la prescrizione triennale, decorrente dalla data di rientro del turista nel luogo di partenza, per i soli danni conseguenti all’inadempimento delle prestazioni del tour operator che formano oggetto del pacchetto turistico, rinviando all’art. 2951 c.c. per quelle diverse relative alla prestazione di trasporto. Al trasporto gratuito si applicano le stesse regole esaminate per il trasporto oneroso (art. 1681, terzo comma), giacché l’assenza del corrispettivo non impedisce il sorgere di un vincolo giuridico determinato dalla presenza di un interesse del vettore ad eseguire la prestazione (si pensi al gestore di un albergo di montagna che predispone con un mezzo proprio il trasferimento degli sciatori dall’albergo alla base della seggiovia, servizio il cui costo potrebbe essere anche “nascosto” e che tuttavia si paga da sé per effetto della attrazione della complessiva offerta commerciale). Nel trasporto amichevole o a titolo di cortesia invece (terminate le lezioni all’Università invito un compagno di studi a salire sulla mia moto per condurlo a casa) non vi è nessun vincolo giuridico ed il vettore risponderà solo a titolo di responsabilità extracontrattuale.

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28. Il trasporto di cose Anche nel contratto di trasporto di cose la responsabilità del vettore è aggravata rispetto al principio generale codificato nell’art. 1218 c.c.: il vettore infatti si libera da responsabilità solo provando il caso fortuito (o altre circostanze estranee alla sua sfera di controllo, come il fatto del destinatario o il difetto dell’imballaggio), fornendo cioè la prova specifica e positiva di un evento non prevedibile e non altrimenti evitabile (art. 1693). Il modello di responsabilità voluto dalla norma è molto severo, si approssima – in virtù della difficoltà della prova liberatoria e della assoluta estraneità del suo oggetto alla condotta del vettore – ad un modello di responsabilità oggettiva in cui il vettore è chiamato a rispondere sulla base del mero nesso causale, e costituisce un’applicazione del rigore adottato dal nostro sistema giuridico nel valutare la responsabilità derivante dalla custodia della cosa (c.d. responsabilità ex recepto). Tale rigore è solo apparentemente attenuato dall’art. 1694 c.c. che sancisce la validità delle clausole che stabiliscono presunzioni di caso fortuito per eventi che normalmente, in relazione ai mezzi ed alle condizioni del trasporto, dipendono da caso fortuito; infatti da un lato tali presunzioni non sono assolute, cosicché il mittente può sempre dimostrare che nel caso concreto l’evento è stato determinato da colpa del vettore, ed in tal modo la clausola si limiterebbe a stabilire un’inversione dell’onere della prova; dall’altro tale clausola, ove fosse da qualificarsi come clausola diretta a escludere o limitare preventivamente la responsabilità del debitore, non avrebbe comunque effetto in caso di dolo o colpa grave del vettore (art. 1229 c.c.). La responsabilità del vettore si estende dal momento in cui egli riceve le cose dal mittente a quando le consegna al destinatario; lo stesso deve poi metterle a disposizione di quest’ultimo nel luogo concordato (art. 1687). Il destinatario acquista diritti nei confronti del vettore dal momento in cui ne richiede a quest’ultimo la consegna (art. 1689); ha diritto di fare accertare l’identità e lo stato delle cose trasportate (art. 1697); ma se accetta le cose e paga al vettore le spese del trasporto perde le azioni derivanti dal contratto nei suoi confronti, tranne il caso di dolo o colpa grave del vettore stesso (art. 1698); disposizioni queste che rafforzano la convinzione di chi ha visto nel contratto di trasporto, nel caso in cui il destinatario sia persona diversa dal mittente, un’applicazione dello schema generale del contratto a favore di terzo (art. 1411). A richiesta del vettore, il mittente deve rilasciare una lettera di vettura (art. 1684, primo comma); parimenti dietro richiesta del mittente il vettore è tenuto a rilasciare un duplicato della lettera di vettura oppure, ove questa manchi, una ricevuta di carico (art. 1684, secondo comma). Tali documenti rappresentano la merce oggetto del trasporto e consegnata al vettore, e se rilasciati con

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la clausola all’ordine, sono un vero e proprio titolo di credito che si trasferisce con una girata del mittente ad un terzo, il quale diviene titolare del diritto di esigere la consegna (art. 1691, primo comma); il possessore di tale titolo deve restituirlo al vettore all’atto della consegna delle cose trasportate (art. 1691, terzo comma).

Il Tema La responsabilità del vettore nel trasporto di persone (Cass. 10 gennaio 2017 n. 249)

Il Caso Sappiamo che nel contratto di trasporto la responsabilità del vettore è regolata con maggior rigore rispetto alla clausola generale prevista dall’art. 1218 c.c. In particolare nel trasporto di persone il vettore infatti non si libera fornendo la prova che il sinistro è stato determinato da causa a lui non imputabile, ma deve fornire la prova positiva di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Nel caso di specie la Signora Rossi convenne in giudizio la Soc. Trasporti metropolitani (i nomi sono entrambi di fantasia) chiedendo il risarcimento del danno subito a causa del malfunzionamento delle porte di un treno della metropolitana. Dedusse che al momento della discesa dal convoglio, era rimasta imprigionata tra i due battenti, che si erano chiusi automaticamente, e aveva riportato lesioni personali. Il Tribunale di Milano rigettò la domanda sul rilievo che la negligenza dimostrata dall’attrice nell’ignorare le segnalazioni acustiche e nel violare il divieto di interporre ostacoli alla chiusura delle porte aveva liberato la controparte dalla presunzione di colpevolezza da cui era gravata ex art. 1681 c.c. La Corte d’Appello di Milano confermò integralmente la sentenza di primo grado. La Signora Rossi propone un ricorso per Cassazione e la S.C. cassa con rinvio la sentenza della Corte del merito. Così motiva la sua decisione la Terza sezione della Corte di Cassazione.

Il Giudizio Col primo motivo (“violazione e/o falsa applicazione articolo 1681 c.c.”), la Rossi censura la Corte per avere ritenuto che la condotta colposa individuata a suo carico

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valesse ad esonerare la Soc. dall’onere di provare “di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno” e ciò in relazione sia alla presenza di dispositivi antischiacciamento (che consentono la riapertura automatica delle porte prima della ripartenza del treno in presenza di ostacoli che ne impediscano la completa chiusura e che erano evidentemente non presenti o malfunzionanti) sia all’obbligo del macchinista di verificare l’avvenuta chiusura di tutte le porte prima della ripartenza del convoglio (nel caso, la ricorrente, ha dedotto che il treno era ripartito ed aveva percorso un breve tragitto prima di fermarsi per consentirle di liberarsi dalla stretta delle portiere): assume, in altri termini, che l’eventuale concorso di colpa dell’infortunato non poteva valere ad escludere la responsabilità del vettore, in difetto della necessaria prova liberatoria. Tale motivo risulta fondato. La Corte ha considerato la negligenza della trasportata quale fattore idoneo a sollevare il vettore dall’onere di dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, onere finalizzato a superare la presunzione su di esso gravante ex articolo 1681 c.c.; in tal modo ha però confuso il piano del possibile concorso colposo della vittima con quello del superamento della presunzione, in una situazione in cui – per le modalità del fatto – la condotta della Rossi non appariva tale da terminare – ex se – il superamento della presunzione. Si vuol dire – in altri termini – che il fatto che la donna non si sia attenuta alle segnalazioni acustiche e al dovere di non interporre ostacoli alla chiusura nulla toglie al fatto che – in presenza di dispositivi antischiacciamento – le portiere non si sarebbero dovute chiudere e che il macchinista non avrebbe dovuto far ripartire il treno prima di avere verificato la completa chiusura delle porte di tutti i convogli e che, in relazione a questi due profili, la Corte non ha accertato che la Soc. avesse “adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”. Deve infatti ribadirsi che, nel contratto di trasporto di persone, il viaggiatore danneggiato ha l’onere di provare, oltre all’esistenza e all’entità del danno, il nesso esistente fra il trasporto e l’evento dannoso, mentre incombe al vettore, al fine di liberarsi della presunzione di responsabilità posta a suo carico dall’articolo 1681 c.c., comma 1, la prova che l’evento dannoso era imprevedibile e non evitabile usando l’ordinaria diligenza, ferma restando la possibilità che l’eventuale condotta colposa del danneggiato assuma rilievo ai sensi della previsione dell’articolo 1227 c.c.

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SEZIONE VII: IL CONTRATTO DI MANDATO 29. Il mandato in generale Abbiamo già detto della rappresentanza ed in quella sede abbiamo accennato al contratto di mandato: i due istituti non sono certo sovrapponibili ma possono presentare un collegamento tecnico specifico e, in ogni caso, appartengono ad una vicenda comune giacché entrambi assolvono alla importante funzione di consentire la sostituzione nell’attività giuridica e specificamente negoziale. Il mandato è infatti il contratto con il quale una parte, generalmente dietro corrispettivo (l’art. 1709 stabilisce al riguardo una presunzione di onerosità) si obbliga a compiere attività giuridica di carattere negoziale, come la conclusione di contratti, ma anche di diversa natura, come la riscossione di un credito o l’esecuzione di un pagamento, per conto di un altro soggetto cioè nell’interesse di quest’ultimo (art. 1703). È un contratto a forma libera, ma deve essere fatto per iscritto se è relativo alla conclusione di negozi per i quali sia richiesta la forma scritta ad substantiam. Fermo restando che il mandato comprende non solo gli atti per i quali è stato esplicitamente conferito ma anche quelli strumentali e funzionali al loro compimento (art. 1708, primo comma), esso può essere speciale se riguarda un singolo e determinato affare oppure generale ove si riferisca alla cura di tutti gli interessi del mandante, ma in questo caso comprende solo gli atti di ordinaria amministrazione (art. 1708, secondo comma). La legge distingue e disciplina il mandato con rappresentanza e il mandato senza rappresentanza. Nel mandato con rappresentanza al mandatario è conferito il potere di agire non solo nell’interesse ma anche nel nome altrui; e questo potere il più delle volte risulterà da una procura rilasciata al mandatario (per le differenze fra procura e mandato v. retro, p. 183 ss.). A tale tipo di mandato l’art. 1704 dichiara applicabili le norme sulla rappresentanza (1387 ss. c.c.). Nel mandato con rappresentanza gli effetti giuridici dell’atto posto in essere dal mandatario si verificano nella sfera giuridica del mandante, il quale direttamente acquista i diritti ed assume gli obblighi conseguenti alla attività posta in essere in suo nome e per suo conto. Nel mandato senza rappresentanza, che ricorrerà ad es. nel caso in cui il

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mandante non voglia apparire o qualora il terzo non voglia stipulare direttamente con l’interessato, gli effetti giuridici si verificano in capo al mandatario (ancorché il terzo abbia conoscenza del mandato) il quale acquista i diritti ed assume gli obblighi conseguenti agli atti compiuti (art. 1705, primo comma) e, in virtù della obbligazione assunta con il mandato, dovrà trasferire tali diritti al mandante nel cui interesse l’atto è stato posto in essere; naturalmente, poiché il mandatario ha assunto obbligazioni in proprio nei confronti del terzo, il mandante ha l’obbligo di somministrargli le risorse per far fronte alla esecuzione del mandato e per adempiere le obbligazioni sorte (art. 1719). Poiché nel mandato senza rappresentanza il mandatario è il solo centro di imputazione dell’attività giuridica posta in essere con i terzi, questi ultimi non dovrebbero avere alcun rapporto col mandante, il quale dovrebbe realizzare la soddisfazione degli interessi dedotti nel mandato esclusivamente attraverso l’adempimento dell’obbligo gravante sul mandatario. Ma il codice al riguardo prevede una disciplina che in parte si discosta dalla regola indicata, dettando norme articolate ed assai significative. Innanzitutto la rigida regola per cui i terzi non hanno alcun rapporto col mandante (art. 1705, secondo comma) ha come destinatario esclusivamente il terzo, il quale non può rivolgersi direttamente al mandante essendo tenuto a far valere i propri diritti (per es. incassare il prezzo) solo nei confronti del mandatario. Di contro il mandante può sostituirsi al mandatario nell’esercizio dei diritti che a questi spettano nei confronti del terzo: si tratta di un’azione surrogatoria impropria perché non occorre che il creditore trascuri di esercitare i suoi diritti (inerzia) come previsto invece dall’art. 2900 c.c. Se il mandato ha ad oggetto beni immobili o mobili registrati si applica la regola generale che esige il ritrasferimento dei diritti acquistati dal mandatario al mandante; in caso di inadempimento del mandatario, il mandante ha a disposizione lo stesso rimedio di cui gode la parte adempiente in un contratto preliminare (art. 2932 c.c.), può cioè ottenere l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo rimasto inadempiuto chiedendo al giudice di emettere una sentenza costitutiva che, supplendo al mancato consenso del mandatario, produca il trasferimento del diritto (art. 1706, secondo comma). Se invece il mandato ha ad oggetto cose mobili, il mandante può rivendicare direttamente nei confronti del terzo o del mandatario le cose acquistate per suo conto dal mandatario che ha agito in nome proprio. La norma introduce una evidente eccezione al sistema il quale attribuisce l’azione di rivendicazione, che è un’azione reale a carattere petitorio, al proprietario, mentre il mandante nel mandato senza rappresentanza è titolare di un semplice diritto di credito nei confronti del mandatario e non ha alcun rapporto col ter-

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zo (art. 1706, primo comma); tale eccezione si giustifica sia per la natura mobiliare del mandato sia per la funzione del negozio che è destinato a soddisfare interessi altrui e che, anche ove difetti una procura, è pur sempre volto a produrre effetti giuridici definitivi nella sfera giuridica del mandante. Secondo i principi generali tale azione, avendo carattere reale, può, essere esperita anche contro i terzi sub acquirenti dal terzo contraente, a meno che costoro non abbiano acquistato in buona fede il possesso della cosa alienata, così da poter invocare il principio del possesso vale titolo (art. 1706, primo comma); i terzi acquirenti dal mandatario, avendo invece acquistato a domino, sarebbero al riparo dall’azione petitoria concessa al mandante, anche se parte della dottrina nega che il generico riferimento del testo di legge ai terzi possa essere interpretato nel senso di escludere dall’ambito operativo della norma gli aventi causa dal mandatario. In attesa che il mandatario adempia l’obbligo di trasferimento ovvero che il mandante esperisca le azioni a sua disposizione, i beni acquistati dal mandatario sono entrati a far parte del suo patrimonio e, in vista dell’aspettativa del mandante di farli propri, il legislatore ha inteso proteggerli dalle pretese dei creditori del mandatario che abbiano iniziato atti esecutivi sui beni. L’art. 1707 c.c. distingue: se si tratta di beni mobili, i creditori non possono far valere le loro ragioni su tali beni purché il mandato sia anteriore al pignoramento e tale anteriorità risulti da una scrittura avente data certa; se si tratta di bene immobile, l’azione dei creditori è preclusa se la trascrizione dell’atto di trasferimento o della domanda giudiziale diretta a conseguirlo sia parimenti anteriore al pignoramento.

30. Le obbligazioni delle parti Tra le obbligazioni del mandatario vi è innanzitutto quella principale relativa alla esecuzione del mandato che deve essere adempiuto, dice l’art. 1710, con la diligenza del buon padre di famiglia, la stessa diligenza richiesta in via generale per l’adempimento delle obbligazioni dall’art. 1176, primo comma, c.c.; ma se il mandato è gratuito la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore. Il mandatario è poi tenuto a rendere il conto del suo operato, a meno che non sia da ciò dispensato, ed a rimettere al mandante quanto ricevuto a causa del mandato (art. 1713, primo comma); deve corrispondere gli interessi sulle somme riscosse per conto del mandante (art. 1714). Il mandatario inoltre, anche se agisce in nome proprio, non è responsabile delle obbligazioni assunte dai terzi nei confronti del mandante, a meno che quando ha contrattato gli fosse nota o dovesse essergli nota l’insolvenza del terzo (art. 1715). L’obbligazione principale del mandante è quella di pagare il compenso al

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mandatario, si intende quando il mandato sia oneroso, e di rimborsare le anticipazioni sostenute dal mandatario (art. 1720); come già detto il mandante è poi tenuto a somministrare al mandatario i mezzi necessari per l’esecuzione del mandato e per l’adempimento delle obbligazioni che il mandatario ha contratte in proprio nome (art 1719). Il mandatario ha anche priorità rispetto al mandante e ai suoi creditori nel soddisfarsi sui crediti pecuniari sorti dagli affari conclusi (art. 1721).

31. L’estinzione e la revoca del mandato Le vicende relative alla estinzione del mandato risentono della natura fiduciaria del negozio, cioè della fiducia riposta dal mandante nella persona del mandatario. Sono cause di estinzione: la scadenza del termine, il compimento dell’affare, la revoca (anche tacita, art. 1724) del mandante, la rinuncia del mandatario, la morte, la interdizione o la inabilitazione del mandante o del mandatario (art. 1722). Ricca è la disciplina della revoca del mandato. La revoca del mandato oneroso a tempo determinato o per un determinato affare obbliga il mandante a risarcire i danni, a meno che questi non provi la ricorrenza di una giusta causa (art. 1725, primo comma); se il mandato è a tempo indeterminato la revoca non dà luogo al risarcimento ove sussista una giusta causa ovvero il mandante abbia dato un congruo preavviso (art. 1725, secondo comma). Il mandante può revocare il mandato anche se le parti hanno pattuito la irrevocabilità, ma è tenuto a risarcire i danni a meno che non provi che la revoca sia sorretta da una giusta causa (art. 1723, primo comma). Se il mandante è invece conferito, oltre che nell’interesse del mandante, anche nell’interesse del mandatario (c.d. mandato in rem propriam) o di un terzo, la revoca è consentita solo per giusta causa e la morte o la sopravvenuta incapacità del mandante non estinguono il mandato (art. 1723, secondo comma). Se il mandato è conferito da più persone (mandato collettivo) la revoca è senza effetto se non è fatta da tutti i mandanti, a meno che non ricorra una giusta causa (art. 1726); di contro ove il mandato sia conferito a più persone (mandato congiuntivo) la causa di estinzione relativa ad uno solo dei mandatari estingue l’intero rapporto a meno che le parti non abbiano diversamente stabilito (art. 1730). Il mandato si estingue per rinuncia del mandatario che, se non ricorre una giusta causa, risponde dei danni; ma se il mandato è a tempo indeterminato il mandatario può comunque recedere dando un congruo preavviso (art. 1727).

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IL CONTRATTO

Il Tema Mandato senza rappresentanza. Considerazioni sulla forma (Cass. 2 settembre 2013 n. 20051)

Il Caso La sentenza proposta esamina l’istituto del mandato senza rappresentanza; nel caso di specie oggetto del mandato è l’acquisto di beni immobili e si discute se sia necessaria la forma scritta per la validità del contratto. Nell’aprile del 1991 il Cecca dichiara per iscritto di avere partecipato alla vendita all’incanto nell’interesse del Sig. Tacconi, di essere beneficiario del decreto di trasferimento emesso dal Tribunale di Roma e di impegnarsi a trasferire l’immobile all’interessato appena in possesso dei documenti necessari alla stipula dell’atto di compravendita. Il mandante Tacconi propone nei confronti del mandatario Cecca domanda ex art. 1706, secondo comma, c.c. (a tenore del quale “se le cose acquistate dal mandatario sono beni immobili … il mandatario è obbligato a ritrasferirle al mandante. In caso di inadempimento, si osservano le norme relative all’esecuzione dell’obbligo di contrarre”) chiedendo l’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c., dell’obbligo di ritrasferimento in favore di esso mandante, nell’interesse del quale la proprietà del bene immobile era stata acquistata dal Cecca, in nome proprio, nella veste di mandatario senza rappresentanza. L’adito Tribunale di Terni rigetta la domanda. La sentenza è impugnata davanti alla Corte di Appello di Perugia che respinge il gravame interposto dal soccombente confermando la sentenza del Tribunale. La Corte, premesso che la partecipazione del Cecca alla vendita all’incanto ha trovato titolo in un rapporto di mandato, argomenta il rigetto della domanda dalla mancanza fra le parti di un contratto di mandato in forma scritta avente per oggetto l’acquisto all’asta fallimentare dell’immobile di cui trattasi, non essendo sufficiente per il sorgere dell’obbligo di trasferimento la mera dichiarazione sopra riportata, mero atto di ricognizione o promessa unilaterale priva di causa. Il Tacconi ricorre per la cassazione della sentenza di secondo grado e lamenta che la Corte d’appello non abbia considerato che soltanto l’atto di acquisto dell’immobile da parte del mandatario e l’atto di ritrasferimento debbono stipularsi in forma scritta mentre la dichiarazione resa dal Cecca costituiva valido atto di riconoscimento dell’obbligo sul medesimo incombente di trasferire l’immobile all’interessato. Così la Corte di Cassazione accogliendo il ricorso motiva la sua decisione:

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Il Giudizio La questione portata all’attenzione di questa corte concerne dunque la sufficienza della dichiarazione in argomento, in difetto della forma scritta ad substantiam del mandato senza rappresentanza, a fondare la domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. dell’obbligo del Cecca di ritrasferimento in capo al Tacconi dell’immobile acquistato all’asta del suindicato fallimento. Nell’impugnata sentenza la corte di merito evoca, a sostegno dell’adottata decisione di rigetto della domanda, l’orientamento dominante secondo cui la mancanza della forma scritta ad substantiam rende nullo il mandato (anche) senza rappresentanza avente ad oggetto il trasferimento di beni immobili, impedendo che si costituisca un rapporto giuridico, e che conseguentemente sorgano legittimamente obbligazioni tra le parti. Al riguardo, si è in passato da questa corte sottolineato come la volontà che dà vita al mandato è la stessa che dà vita al negozio giuridico che per conto del mandante il mandatario è tenuto a compiere, sicché, se per quest’ultimo è necessaria la forma scritta, anche l’atto con il quale il mandante dichiara la sua volontà deve rivestire la medesima forma, trattandosi, in sostanza, dell’applicazione della regola della necessità dell’atto scritto per le convenzioni relative ad immobili che si trae da molteplici disposizioni. Il principio è stato elaborato sulla scorta della sostanziale equiparazione tra mandato e contratto preliminare, in ragione essenzialmente dell’applicabilità anche al primo del rimedio dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere un contratto ex art. 2932 c.c., stante il disposto di cui all’art. 1706, 2° comma, c.c. In ragione della ravvisata eadem ratio, si è ritenuto che il rigore della forma si imponga anche nella c.d. rappresentanza indiretta, pur in mancanza di norma espressa al riguardo, per tale via giungendosi alla conclusione che il mandato senza rappresentanza, sia ad acquistare che ad alienare beni immobili, deve rivestire la forma scritta. Più recentemente, peraltro, movendo dalla distinzione tra procura e mandato (la prima risolventesi nel conferimento ad un terzo del potere di compiere un atto giuridico in nome di un altro soggetto, e il secondo in un contratto in forza del quale una parte si obbliga a compiere uno o più atti giuridici nell’interesse di un’altra) si è escluso che il mandato con rappresentanza a vendere beni immobili sia soggetto all’onere della forma scritta ai sensi del combinato disposto di cui agli art. 1392 e 1350, 1° comma, n. 1, c.c., argomentandosi dal rilievo che gli effetti del contratto di compravendita si producono in capo al rappresentato in forza del solo rapporto di rappresentanza, e non già del mandato, il quale assume un rilievo meramente «interno», e non anche «esterno», spiegando i propri effetti solo tra rappresentato e rappresentante, e non pure nei confronti dei terzi. Si è sottolineato che la suddetta soluzione si spiega in ragione del necessario collegamento funzionale tra contratto base, sottoposto all’onere di forma, e atto di conferimento della procura, negandosi che possa in contrario valere il richiamo all’art. 1704 c.c., giacché nel prevedere che al mandato con rappresentanza si applicano «anche» le norme dettate per la procura, e non già queste ultime tout court, tale norma lascia impregiudicata la questione se per esso debba trovare applicazione il principio della libertà delle forme.

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Osservato che nella fattispecie in esame il mandato ha in realtà ad oggetto un’attività giuridica più articolata e complessa del mero acquisto della proprietà di un bene immobile da un terzo, da detto assunto appare invero necessario trarre ulteriori corollari. La necessità della forma scritta, che in deroga al principio di libertà delle forme ex art. 1325, 1° comma, n. 4, e 1350, 1° comma, n. 13, c.c. si impone per gli atti che costituiscono titolo per la realizzazione dell’effetto reale in capo alla parte del negozio, e pertanto per gli acquisti immobiliari, trova fondamento, come posto in rilievo anche in dottrina, nell’esigenza di responsabilizzazione del consenso e di certezza dell’atto, in funzione della sicurezza della circolazione dei diritti. A tale stregua, l’onere di forma non può allora ritenersi necessario per il mandato, che costituisce la fonte del rapporto «interno» di gestione, perché il mandatario possa validamente acquistare in nome proprio il diritto di proprietà su bene immobile (mandato senza rappresentanza), al fine cioè della realizzazione dell’effetto reale in capo al medesimo. Come questa corte ha già avuto modo di porre in rilievo, nel mandato senza rappresentanza non si costituisce infatti alcun rapporto tra mandante e terzo proprietario alienante, tutti gli effetti del contratto producendosi in capo al mandatario, ai sensi dell’art. 1705 c.c. non potendo riconoscersi invero rilievo nemmeno all’eventuale conoscenza che del mandato il detto terzo eventualmente abbia. A fortiori deve pertanto dirsi nell’ipotesi in cui come nella specie il mandatario venga officiato della partecipazione all’asta pubblica, la realizzazione dell’effetto reale in tale ipotesi costituendo mera eventualità. In tale ipotesi tra il mandante e il mandatario senza rappresentanza trova infatti applicazione il solo rapporto «interno», con esplicazione dei relativi meri effetti obbligatori tra le parti. Non anche il rapporto esterno, coinvolgente il terzo. Le esigenze di responsabilizzazione del consenso e di certezza dell’atto, sottese all’imposizione della forma scritta quale relativo requisito di validità del contratto traslativo del diritto reale sul bene immobile, non si pongono in realtà con riferimento al mandato ad acquistare senza rappresentanza, che non costituisce fonte di alcun atto di dismissione di un diritto di proprietà o altro diritto reale su bene immobile in capo al mandante ma determina l’insorgenza di un mero diritto del medesimo al compimento dell’attività gestoria da parte del mandatario. Tali esigenze si pongono invece in relazione all’atto di acquisto del diritto reale da parte del mandatario in nome proprio, e, successivamente, per l’atto di ritrasferimento che il mandatario è ex lege (art. 1706, 2° comma, c.c.) obbligato a porre in essere in esecuzione del rapporto di gestione al fine di realizzare l’effetto reale immobiliare in capo al mandante. A tale stregua, solo per tali atti la forma scritta deve ritenersi costituire requisito essenziale, a pena di nullità, in base alla regola generale ex art. 1350, 1° comma, n. 1, c.c. Non anche per il mandato. Analogamente a quanto da questa corte invero affermato in tema di mandato con rappresentanza, e come deve del pari ritenersi con riferimento ad ogni ipotesi in cui un rapporto meramente «interno» si distingua da quello «esterno» tra agente e terzo.

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La distinzione tra rapporto «interno» di gestione (tra mandante e mandatario) e rapporto «esterno» (tra mandatario e terzo) che del primo costituisce attuazione è stata del resto da tempo sottolineata nella giurisprudenza di legittimità, pervenendosi anche ad affermare che in caso d’inadempimento del rapporto gestorio il mandatario è tenuto al risarcimento del danno in favore del mandante pure se il contratto di mandato senza rappresentanza ad acquistare beni immobili sia privo di forma scritta. Né vale in contrario evocare l’art. 1351 c.c., dettato per il contratto preliminare. Trattasi infatti di ipotesi eccezionale, in deroga al principio generale di libertà delle forme, come tale ex art. 14 disp. prel. c.c. pertanto insuscettibile di applicazione analogica, ed altresì di applicazione estensiva, attesa l’autonomia e la netta distinzione sussistente tra mandato e contratto preliminare, nonché tra mandato con rappresentanza e mandato senza rappresentanza. Fattispecie la cui diversità di ratio emerge pienamente laddove si consideri che l’esigenza di responsabilizzazione del consenso sottesa alla regola di imposizione della forma scritta certamente non si coglie in capo al mandante in relazione all’attività gestoria del mandatario. L’onere della forma scritta ad substantiam si spiega invece, stante il disposto dell’art. 1350, 1° comma, n. 1, c.c., per gli atti del mandatario. Per l’acquisto che questi effettua dal terzo (rapporto esterno) e per quello di successivo trasferimento in capo al mandante del diritto reale sul bene immobile a tale stregua acquistato, al cui compimento (oltre che al rendiconto ex art. 1713 c.c.) il mandatario è obbligato ai sensi dell’art. 1706, 2° comma, c.c., essendo tenuto a costituire l’effetto reale in capo al mandante, la cui realizzazione può in caso di inadempimento del mandatario essere comunque determinata in via coattiva, ai sensi del combinato disposto di cui agli art. 1706, 2° comma, e 2932 c.c., mediante il rimedio dell’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. (che è d’altro canto di generale applicazione, esperibile cioè in relazione a qualsiasi fattispecie da cui insorga l’obbligazione di prestare il consenso per il trasferimento o la costituzione di un diritto, sia che si tratti di un atto o di un fatto dai quali detto obbligo possa sorgere ex lege). L’espressa previsione di tale rimedio in favore del mandante, cui sono di norma (salvo cioè il relativo esercizio in via surrogatoria) precluse le azioni a tutela del diritto sostanziale acquistato dal mandatario, diversamente da quanto affermato nell’impugnata sentenza e da questa corte invero generalmente ritenuto non giustifica tuttavia l’estensione al mandato senza rappresentanza della necessità della forma scritta ad substantiam. A fondare la domanda di applicazione del rimedio dell’esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c. ben può invero considerarsi idoneo e sufficiente anche un atto come nella specie complesso, ricognitivo e unilaterale d’impegno all’acquisto da parte del mandatario del diritto reale sul bene da ritrasferire al mandante. Nel caso in esame la dichiarazione de qua rivela infatti espressamente, come già più sopra osservato, sia la causa mandati dell’operazione negoziale posta nel caso in essere dalle parti sia l’«impegno a trasferire l’immobile di cui sopra non appena in possesso dei documenti necessari alla stipula dell’atto di compravendita», e consente, pur

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se per relationem mediante il riferimento «all’immobile di cui al decreto di trasferimento n. 26289 del Tribunale di Roma in data 13 febbraio 1990», di individuare sia il bene alienato che il prezzo all’uopo versato. Alla stregua di quanto sopra, escluso che possa affermarsi – come fa invece la corte di merito nell’impugnata sentenza – che la mancanza della forma scritta del mandato senza rappresentanza ad acquistare impedisce tout court la costituzione di un rapporto giuridico e conseguentemente l’insorgenza di diritti ed obbligazioni in capo alle relative parti, diversamente da quanto ravvisato nell’impugnata sentenza deve dunque conclusivamente affermarsi che la dichiarazione unilaterale de qua è senz’altro idonea e sufficiente a fondare di per sé l’acquisto immobiliare di cui trattasi, e a fortiori l’esperibilità del rimedio ex art. 2932 c.c., irrilevante essendo al riguardo, stante quanto più sopra osservato, la mancanza originaria della forma scritta del mandato senza rappresentanza. Dell’impugnata sentenza s’impone pertanto la cassazione, con rinvio alla Corte d’appello di Perugia che, in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo applicazione dei seguenti principî: «La forma scritta è richiesta a pena di nullità per gli atti relativi a diritti reali su beni immobili per esigenze di responsabilizzazione del consenso e di certezza dell’atto. In tema di mandato all’acquisto, tale forma è in base agli art. 1350, 1351, 1392 e 1706 c.c. richiesta per la procura conferita dal mandante al mandatario, per il contratto – preliminare o definitivo – concluso dal mandatario a nome del mandante o proprio, e, in questo secondo caso, per il conseguente atto volto a ritrasferire il bene al mandante, la mancanza del quale può essere supplita dall’esecuzione forzata in forma specifica. La forma scritta non può considerarsi invece prescritta anche per il contratto di mandato in sé, perché da questo deriva soltanto, tra mandante e mandatario, l’obbligazione di eseguire il mandato, la cui mancata conforme esecuzione lo espone unicamente a responsabilità per danni. Per converso, una volta che il mandatario abbia effettuato l’acquisto, l’esecuzione in forma specifica dell’obbligazione di ritrasferire il bene al mandante può trovare fondamento nell’atto unilaterale, redatto anche successivamente al detto acquisto, con cui il mandatario riconosca il suo obbligo di farlo, quante volte l’atto contenga l’indicazione del bene, del prezzo e della causa del contratto, o che gli stessi consenta di individuare anche per relationem».

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SEZIONE VIII: IL CONTRATTO DI DEPOSITO 32. Il deposito in generale Il deposito è il contratto con il quale una parte riceve dall’altra una cosa mobile con l’obbligo di custodirla e di restituirla in natura (art. 1766). Tra la obbligazione di “custodire” e quella di “restituire”, v’è quella di “conservare” che impone al depositario di adempiere esattamente la prestazione di restituzione attraverso la riconsegna al depositante della cosa nel medesimo stato in cui egli l’aveva ricevuta. La causa, la funzione concreta del contratto, consiste essenzialmente nella custodia della cosa da parte del depositario; il depositante, spogliatosi della detenzione della cosa consegnata al depositario, può fare affidamento sulla vigilanza esercitata da quest’ultimo e sulla restituzione della cosa stessa una volta venute meno le necessità del deposito. Emerge dalla definizione sopra riportata la natura di contratto reale del deposito: il contratto nasce e si perfeziona, oltre naturalmente a seguito della manifestazione di consenso non soggetta ad alcun obbligo di forma, con la consegna della cosa da parte del depositante e con la ricezione della stessa da parte del depositario; solo dopo che la cosa è passata nella sfera di controllo del depositario sorgono in capo a quest’ultimo le su indicate obbligazioni di custodire e di restituire la cosa. Dal deposito nascono poi altre obbligazioni accessorie a carico del depositario: l’obbligazione negativa di non servirsi della cosa in deposito e di non darla in subdeposito senza il consenso del depositante (art. 1770, primo comma); l’obbligo di corrispondere al depositante i frutti della cosa che abbia percepiti durante il deposito (art. 1775). Sovente la prestazione di deposito costituisce una prestazione accessoria ad un contratto principale, spesso un servizio che il professionista o l’imprenditore pongono a disposizione del consumatore o del cliente per rendere più attraente la loro offerta commerciale (molti centri commerciali e supermercati consentono la sosta delle autovetture dei clienti in spazi a loro disposizione; i circoli sportivi concedono ai soci armadietti nei locali spogliatoio per la custodia dei loro abiti; taluni rifugi di montagna allestiscono strutture per la custodia degli sci; alcuni stabilimenti balneari mettono a disposizione dei clienti strutture per il deposito di biciclette, e così via). Tutto ciò con la speranza che il consumatore cliente, incoraggiato dal servizio ausiliario, sia indotto a richiedere la prestazione principale.

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Questa è probabilmente la ragione per la quale se le parti non hanno convenuto un corrispettivo o se diversamente non debba argomentarsi dalla qualità professionale del depositante (si pensi al deposito bagagli in un aeroporto, al deposito di una pelliccia presso strutture organizzate), nel qual caso il deposito è oneroso, la legge ne presume la gratuità (art. 1767). In entrambi i casi il depositario deve usare la ordinaria diligenza, ma se il deposito è gratuito la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore (art. 1768). Ove il deposito sia accettato a titolo di cortesia il custode non può liberarsi della cosa e disinteressarsi della sua custodia, e risponde di eventuali danni ai sensi dell’art. 2043.

33. Le obbligazioni delle parti Le obbligazioni che gravano sul depositante consistono nel pagamento del corrispettivo, ove il deposito sia oneroso, ed in ogni caso nel rimborsare il depositario delle spese fatte per conservare la cosa e nell’indennizzarlo delle perdite eventualmente cagionate dal deposito (art. 1781). Il depositario deve restituire la cosa a semplice richiesta del depositante e può liberarsi quando crede del deposito chiedendo al depositante stesso di riprendersi la cosa, a meno che i contraenti non abbiano convenuto un termine nell’interesse di una delle parti (art. 1771). La restituzione della cosa depositata, su richiesta di una delle parti o una volta scaduto il termine, è così disciplinata. Colui che effettua il deposito potrebbe non essere il proprietario della cosa (loco una bicicletta e poi la deposito alla stazione); né il depositario quando prende in consegna la cosa è tenuto ad accertare che il depositante ne sia il proprietario. Perciò il depositario dovrà di regola restituire la cosa al depositante o alla persona che costui abbia indicata come legittimata a riceverla (cfr. art. 1188); non è tenuto né ha facoltà di restituirla al proprietario, e se è convenuto in giudizio da chi rivendica la proprietà della cosa, deve informare della lite il depositante e può liberarsi della cosa a mezzo di un deposito giudiziale (art. 1777). Generalmente il deposito è effettuato nell’interesse diretto del depositante; ma la cosa può essere anche depositata nell’interesse di persona diversa dal depositante secondo lo schema del contratto a favore di terzo; in questo caso, visto l’ulteriore interesse che fa capo al beneficiario della prestazione di deposito, il depositario può restituire la cosa al depositante solo se il terzo che abbia aderito alla stipulazione in suo favore acconsenta; in difetto di tale consenso, la consegna al depositante non lo libera dagli obblighi derivanti dal deposito (art. 1773).

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La responsabilità del depositario è, come quella del vettore, una responsabilità che trova fonte e disciplina nella responsabilità ex recepto ed è quindi disciplinata secondo criteri rigorosi; l’osservanza della ordinaria diligenza, che pure il custode deve riporre nella conservazione della cosa (artt. 1176, 1768), non vale perciò ad escludere la responsabilità del depositario nel caso di inadempimento della prestazione di restituzione. Il depositario può infatti liberarsi dall’obbligazione restitutoria solo provando un fatto specifico e positivo a lui non imputabile che gli abbia tolto la detenzione della cosa (artt. 1780, 1218).

34. Il deposito irregolare Si è visto come regola fondamentale del deposito sia l’assoluto divieto per il depositante di servirsi della cosa (art. 1770): egli non può perciò trarre dalla cosa ricevuta in deposito le utilità sue proprie (per es. non può fare una passeggiata con la bicicletta ricevuta in deposito) e tanto meno può costituire diritti di sorta su di essa in favore di terzi ed ancor meno alienarla (facoltà quest’ultima che presuppone la disponibilità della cosa che il depositario certamente non ha, perché il deposito non è un contratto ad effetti reali ma – come si è detto – un contratto ad effetti obbligatori di natura reale). È certo possibile che le parti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, prevedano un deposito con facoltà di utilizzo del bene; ma sarebbe un contratto misto al quale si applicherebbero, oltre alle norme del deposito, anche quelle che disciplinano – ad esempio – la locazione. Tuttavia la legge prevede un contratto, collocato all’interno della sezione dedicata al deposito in generale, che in realtà poco a che fare con il deposito e che pure intitola deposito irregolare. Secondo l’art. 1782 se il depositante conferisce la facoltà di servirsi della cosa fungibile o del danaro consegnato al depositario, quest’ultimo ne acquista la proprietà ed è tenuto a restituire la stessa quantità e qualità del genere di cose ricevute. L’elemento decisivo che caratterizza questo rapporto non è solo la natura fungibile dell’oggetto del deposito, bensì anche la facoltà di servirsene. Tale facoltà in relazione ai beni infungibili non è compatibile, come osservato, con lo schema del deposito regolare, che infatti la esclude. Peraltro anche il bene fungibile può essere oggetto di un deposito regolare nella ipotesi, pur prospettabile, in cui sia vietata al depositario la facoltà di servirsene, ne venga pattuita la restituzione nella sua identità originaria, insomma venga la prestazione trattata dalle parti come infungibile (deposito di merce finalizzata ad una esposizione e poi ritirata). Che il deposito irregolare sia figura profondamente diversa dal deposito

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regolare è cosa di cui il legislatore sembra avere piena contezza perché nel secondo comma dell’art. 1782 dichiara applicabili al rapporto, in quanto compatibili, le norme sul contratto di mutuo, confessando la principale funzione di credito cui in fondo assolve, al pari del mutuo, il deposito irregolare. Si tratta certo di una figura particolare e diversa dal contratto di deposito, che tuttavia il legislatore ha ugualmente ritenuto di trattare sotto la Sezione del deposito e di assegnargli il nome di deposito irregolare: la “irregolarità” (rectius la anomalia rispetto al negozio di deposito) sta qui, invero, nell’acquisto della proprietà della cosa e nella funzione creditizia del negozio. Un simile rapporto si realizza nei depositi bancari (art. 1834) eventualmente connessi ad operazioni in conto corrente (art. 1852): il cliente soddisfa una esigenza di custodia del danaro depositato ma anche di credito, e potrà chiedere in ogni momento la restituzione della somma depositata, sulla quale – al pari del mutuo – decorrono gli interessi; la banca acquista la proprietà del danaro e lo utilizza, ad esempio, per finalità di concessione di crediti, ne trae legittimamente le utilità sue proprie ed è tenuta alla restituzione del tantundem.

35. La responsabilità degli albergatori e dei magazzini generali Una responsabilità articolata e complessa investe gli albergatori ed i gestori di stabilimenti e locali assimilati, per le cose di cui tali soggetti abbiano la custodia: l’art. 1786 espressamente prevede le case di cura, gli stabilimenti di pubblici spettacoli (cinema, teatri, stadi), quelli balneari, pensioni, ristoranti, carrozze letto, banche, in genere imprese che svolgono servizi destinati ad una collettività di utenti. Si tratta di una responsabilità improntata a severo rigore, talora estesa a vicende che solo indirettamente si ricollegano al deposito e che investono piuttosto il contenuto di obbligazioni accessorie a quelle principali che caratterizzano l’attività del soggetto responsabile. Invero la legge distingue fra le cose formalmente affidate alla custodia dell’albergatore o da questi rifiutate quando aveva l’obbligo di accettarle (art. 1784); e le cose portate dal cliente in albergo, o delle quali l’albergatore ne assuma la custodia nel periodo precedente o successivo alla fruizione dell’alloggio da parte del cliente, anche al di fuori dell’albergo per la durata in cui il cliente dispone dell’alloggio (art. 1783, primo e secondo comma). Nel primo caso la responsabilità è oggettiva ed illimitata: l’albergatore risponde del deterioramento, della distruzione o della sottrazione della cosa salvo che ricorra la forza maggiore o la colpa del cliente (art. 1785 c.c.); nel secondo caso l’albergatore risponde del deterioramento, della distruzione o del-

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la sottrazione delle cose nei limiti di un importo massimo calcolato in base al valore della prestazione alberghiera o, nelle altre fattispecie, della prestazione principale (art. 1783, terzo comma), mentre è illimitatamente responsabile qualora sia in colpa (art. 1785 bis). La responsabilità dell’albergatore e simili per i danni che colpiscono le cose al seguito del cliente o di cui l’albergatore abbia la custodia esterna o temporanea, è una responsabilità che possiamo definire oggettiva e limitata, la quale investe una prestazione di custodia accessoria rispetto all’attività dell’impresa ed addossa all’imprenditore il rischio di eventi dannosi che rientrano nella sua organizzazione. Talora la responsabilità sussiste senza che sia agevole determinarne il limite secondo i parametri dettati dalla norma: come nel caso di un incendio in un centro commerciale, dell’arresto di un ascensore in un parcheggio di auto multipiano; altre volte tale limite non sussiste, come nel caso del servizio bancario di cassette di sicurezza in cui, in virtù di una specifica disposizione di legge, la banca risponde verso l’utente (ad. esempio in caso di furto) per l’idoneità e la custodia dei locali e per l’integrità della cassetta salvo il caso fortuito (art. 1839). Nella Sezione III del capo dedicato al deposito, il codice disciplina i magazzini generali: si tratta di imprese che esercitano professionalmente l’attività di custodia di merci di vario genere in appositi spazi, all’interno di grandi città o in prossimità di stazioni ferroviarie, di porti o aeroporti. Essi rispondono della custodia delle merci depositate a meno che non provino che la perdita o il deterioramento siano derivati da caso fortuito, ovvero dalla natura della merce (per esempio facilmente deperibile) ovvero da un vizio del prodotto o dal suo non corretto imballaggio (art. 1789). Il depositante, ad es. l’importatore o l’esportatore, o il commerciante in ambito nazionale o urbano, all’ingrosso o al dettaglio, possono richiedere ed ottenere dal magazzino depositario titoli rappresentativi delle merci depositate, che prendono il nome di fedi di deposito e note di pegno (artt. 1790 e 1791), i quali sono veri e propri titoli di credito che possono essere trasferiti a terzi mediante girata. Per avere diritto alla riconsegna delle merci depositate occorre il possesso sia della fede di deposito che della nota di pegno (art. 1793, primo comma); il possesso della sola nota di pegno conferisce soltanto un diritto di pegno sulla merce (art. 1793, secondo comma), mentre il possessore della sola fede di deposito può ritirare le merci, previo deposito presso i magazzini generali della somma dovuta alla scadenza al creditore pignoratizio (art. 1793, terzo comma, 1795).

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Il Tema La responsabilità del custode (Cass. 25 novembre 2013 n. 26353)

Il Caso Sappiamo che la prestazione di deposito, che fa sorgere l’obbligo di custodire, restituire e conservare la cosa consegnata, e che rappresenta l’oggetto specifico del contratto tipico di deposito disciplinato dall’art. 1766 c.c., spesso costituisce una prestazione accessoria ad un contratto principale diverso dal contratto di deposito. Ciò conferisce alla prestazione tipica di tale contratto una considerevole vis espansiva con la conseguente applicazione della disciplina del negozio tipico ad altre figure contrattuali, segnatamente in tema di responsabilità del custode: l’estensione è di così rilevante portata dall’avere consolidato nell’ordinamento giuridico la rappresentazione, che risale alle fonti del diritto romano, di una sorta di genus della responsabilità contrattuale, la responsabilità ex recepto. Tale responsabilità – sulla scorta del rilievo assegnato al raggiungimento del risultato nella struttura dell’obbligazione – consente di disegnare, nell’ambito dei precetti normativi contenuti nell’art. 1218 c.c., un modello di responsabilità particolarmente rigoroso, improntato a criteri assai elevati della misura dello sforzo richiesto al debitore nell’adempimento della obbligazione restitutoria, tendenzialmente oggettivi ed assoluti. Nel caso di specie il contratto principale è un contratto atipico con il quale alcune Società, la Mondial Milano e la Mondial Service, si erano obbligate nei confronti della Soc. Cooperativa Lombardia al servizio di prelievo e relativa custodia degli incassi giornalieri di alcuni supermercati di proprietà della suddetta Cooperativa, e al relativo trasporto presso un istituto bancario convenzionato. Durante la vigenza del contratto si erano verificati due furti presso il centro commerciale di Lodi mediante prelievo dalla cassaforte, di cui ciascun punto vendita era dotato, dell’incasso giornaliero. La Soc. Cooperativa Lombardia, premesso che soltanto la Mondialpol era in possesso delle chiavi e a conoscenza della combinazione di ciascun forziere, e che dopo il furto, le casseforti in oggetto non presentavano alcun segno di scasso o di effrazione, conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Milano le Società Mondialpol chiedendone la condanna al risarcimento dei danni. Il Tribunale, ritenuta la violazione dell’obbligo di custodia da parte delle convenute, le condannò al risarcimento del danno accogliendo nel contempo la domanda di manleva che le convenute stesse avevano svolto nei confronti della Fondiaria Compagnia di assicurazione.

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In accoglimento dell’appello proposto dalla Compagnia assicuratrice, la Corte milanese riformò la sentenza del Tribunale rigettando la domanda attrice. La Corte di Cassazione adita per l’annullamento di tale sentenza dalla Soc. Cooperativa così motiva la sua decisione.

Il Giudizio Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione del disposto dell’art. 1766 c.c. – errata esclusione del contratto atipico ‘di prelievo valori da casseforti, di scorta e trasporto valori’, dell’obbligo di custodia del contenuto delle casseforti sulle quali l’appaltatore abbia l’esclusivo potere di fatto, irrilevanza dell’accessorietà dell’obbligo di deposito ai fini dell’applicazione dell’art. 1766 e ss. c.c. – in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. Con il secondo motivo si denuncia contraddittoria motivazione della decisione in relazione all’art. 360, n. 5 c.p.c., affermazione dell’obbligo di custodia delle casseforti in capo a Mondialpol in contrasto con l’omessa inversione dell’onere della prova in punto modalità e motivi dell’apertura delle stesse. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del disposto dell’art. 1176 c.c. – mancato esame del comportamento del debitore in rapporto al generale onere di diligenza incombente sui contraenti nell’adempimento delle proprie obbligazioni diligenza da commisurare con riferimento specifico alla natura dell’attività contrattualmente pattuita – in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1780 e 2277 cod. civ. – mancata valutazione dell’onere di diligenza del contraente nella custodia delle chiavi e della combinazione delle casseforti – in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del disposto dell’art. 2729 c.c. – erronea presunzione dell’esistenza di modalità di apertura delle casseforti che non comportino l’utilizzo degli originali delle chiavi o delle combinazioni o di copie delle stesse ottenute mediante l’osservanza degli utenti – in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. Con il sesto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del disposto dell’art. 1218 c.c. – mancata inversione dell’onere della prova a carico del debitore che si assume inadempiente – in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. I motivi, che attengono, sotto diversi profili, al tema della responsabilità di Mondialpol Milano spa (ora Mondialpol Service spa) sono esaminati congiuntamente. Essi sono fondati per le ragioni e nei termini che seguono. La Corte di merito ha fondato la sua decisione sull’assunto che l’attuale Mondialpol Service non avesse assunto alcun obbligo di custodia del denaro contenuto nelle casseforti, prima del suo prelievo e che il solo fatto che Mondialpol possedesse, in via esclusiva, chiavi e combinazioni di apertura non fosse idoneo a far sorgere alcuna responsabilità a suo carico per l’apertura delle casseforti stessa da parte di terzi.

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In particolare, la Corte di merito ha esaminato il contenuto del contratto concluso fra le parti ritenendo che le obbligazioni gravanti su Mondialpol fossero limitate a: 1) dotazione del furgone blindato messo a disposizione della s.r.l. Mondialpol Transport con equipaggio di tre guardie giurate armate dipendenti della Mondialpol; 2) prelievo valori presso i punti di vendita della Coop Lombardia indicati nell’allegato A – con la specificazione che presso i punti provvisti di cassaforte di tipo antirapina, di marca LIPS VAGO di proprietà della Coop Lombardia e da questa assicurata l’operazione di ritiro dei valori consisterà nell’estrazione di un contenitore chiuso e sigillato e contestuale sostituzione con un contenitore vuoto; 3) versamento dei valori raccolti presso gli istituti di credito indicati nell’allegato A, col sistema mano a mano; per modo da circoscrivere chiaramente il connesso obbligo di custodia ad un momento successivo al prelievo’. Ed ha aggiunto: ‘E se pur vero che la dotazione in via esclusiva delle chiavi di apertura della cassaforte e la conoscenza, pure esclusiva, della combinazione di apertura, necessariamente implicava l’obbligo della relativa custodia, nondimeno è incontestabile che, trattandosi di un’obbligazione di carattere accessorio rispetto all’obbligazione dedotta in contratto, per il suo adempimento avrebbe dovuto aversi riguardo alle regole stabilite per l’adempimento delle obbligazioni in generale (art. 1177 c.c.) e non a quelle proprie del contratto di deposito, per ciò che in particolare concerne la ripartizione degli oneri probatori’. Ed, una volta esclusa l’applicabilità dell’art. 1780 c.c. – e, con essa, la presunzione di responsabilità a carico del depositario – per la natura ‘meramente accessoria’ dell’obbligo di custodia –, la Corte di merito ha affermato che fosse onere della danneggiata dimostrare che il furto si era reso possibile in conseguenza dello smarrimento e/o della duplicazione delle chiavi di apertura, di cui l’odierna appellante aveva il possesso esclusivo, conoscendo altresì, in via esclusiva, la combinazione, ma che ‘tale circostanza non appare idonea a sorreggere, con il rigore richiesto per la valida formazione della prova presuntiva, la conclusione trattane dal Tribunale, difettando del requisito dell’univocità, esclusa dal fatto stesso di essere l’apertura della cassaforte compatibile con altre ipotesi, quali quelle prospettate dagli appellanti con riferimento alle risultanze degli accertamenti compiuti dalle forze dell’ordine per episodi analoghi, nei termini riportati nelle prodotte notizie di stampa, oltre che sulla base delle plausibili considerazioni svolte nella relazione tecnica allegata’. Il percorso argomentativo adottato e le conclusioni raggiunte dalla Corte di merito non possono essere condivise. Principio dal quale conviene partire è quello per cui l’obbligazione di custodire non è esclusiva del deposito, ma può derivare anche da altre fonti contrattuali e non, e presentarsi come obbligo autonomo o in collegamento accessorio o strumentale ad altri obblighi. Ciò che caratterizza il deposito è che l’obbligazione di custodire si inserisce nella causa del contratto e ne costituisce l’unica prestazione qualificatrice. Il che vuol dire che nel deposito la custodia è essa stessa la prestazione principale, a differenza delle ipotesi, nelle quali accede necessariamente a tale prestazione. Si è peraltro affermato che, tanto nell’ipotesi in cui l’obbligo di custodia ha natura accessoria e strumentale rispetto all’esecuzione dell’obbligazione principale, quanto nel-

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l’ipotesi in cui è l’effetto tipico del contratto (art. 1766 c.c.) la diligenza da prestare è sempre quella del buon padre di famiglia. Il relativo modello non è fisso, ma variabile in rapporto alle concrete modalità di custodia riferite alla natura dell’attività esercitata dal custode, alla qualità della cosa ed alle specifiche circostanze. Ed è in questa ottica che va esaminata la fattispecie concreta oggetto del presente giudizio. Il contratto concluso fra le parti è un contratto di trasporto e custodia valori. Ma a questo contratto accede altra obbligazione – quella della custodia delle chiavi – che si fonda sulla causa del deposito e che, partecipando della natura reale del contratto di deposito, si perfeziona con la traditio appunto delle chiavi di apertura delle casseforti al depositario che le detiene – circostanza questa pacifica – in via esclusiva, unitamente ai codici di apertura delle casseforti. In questo senso è interessante ricordare che la giurisprudenza di legittimità si è già pronunciata in una fattispecie che presenta punti di contatto con la vicenda in oggetto affermando che, nell’ipotesi in cui un cliente consegni le chiavi di un autoveicolo al vetturiere dell’albergo dove alloggia, con tale atto, che integra l’affidamento del veicolo e non la presa in consegna delle chiavi e dell’autoveicolo a titolo di cortesia, si perfeziona un ordinario contratto di deposito, dal quale scaturiscono le relative obbligazioni a carico delle parti del rapporto. Le chiavi costituiscono, infatti, soltanto il mezzo attraverso il quale si è concretizzata la consegna dell’autovettura, e non l’oggetto principale del contratto di deposito. Ed è da tale consegna che è scaturito, appunto, l’obbligo di custodia del veicolo (e delle stesse chiavi). Nel caso in esame, da un lato, vi è l’obbligazione tipica di custodia dei valori da parte di Mondialpol dal momento di apertura delle casseforti e per tutta la durata del trasporto, ma dall’altro vi è un obbligo di custodia delle chiavi e delle combinazioni di apertura delle casseforti che nasce dal momento della consegna delle stesse a Mondialpol che le detiene in via esclusiva: obbligo, però, che si estende – proprio per le concrete modalità di custodia (con dotazione in via esclusiva delle chiavi di apertura delle casseforti, conoscenza anch’essa esclusiva delle combinazioni di apertura che potevano essere variate discrezionalmente da Mondialpol) – ai valori, una volta immessi nelle casseforti. Ed allora è evidente l’applicabilità dell’art. 1780 c.c. che, per il caso della sottrazione della cosa depositata, ripete la regola stabilita dall’art. 1218 c.c. Pe ottenere la liberazione il depositario è tenuto a fornire la prova che l’inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile. La prova liberatoria verte non tanto sulla diligenza quanto sul fatto che ha causato l’evento; la prova sulla diligenza può rilevare sotto il profilo dell’evitabilità del fatto mediante lo sforzo diligente esigibile secondo il modello del buon padre di famiglia. Pertanto, il depositario non si libera della responsabilità provando di avere usato nella custodia della cosa la diligenza del buon padre di famiglia, ma deve, a questo fine, provare che l’inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile.

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Le cause di non imputabilità vanno individuate in base alla valutazione della diligenza usata dal depositario nell’adempimento della prestazione di custodia. La giurisprudenza ha richiamato in proposito i concetti di inevitabilità ed adeguatezza, affermando la responsabilità quando il depositario non dimostri di avere adottato tutte le misure di protezione richieste dal caso. Tra i fatti non imputabili rientrano quelli che risultino evitabili solo con costi umani o economici talmente elevati da non potere essere richiesti ad un debitore che sia tenuto a comportarsi con la diligenza del buon padre di famiglia. È alla luce di questi principii e delle particolari circostanze caratterizzanti il caso concreto, che dovrà essere condotto il nuovo esame da parte del giudice del rinvio che dovrà tenere conto dei diversi e qualificati oneri probatori gravanti sulle parti contrattuali. La sentenza è cassata in relazione e la causa è rinviata alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.

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SEZIONE IX: IL CONTRATTO DI COMODATO 36. Il comodato in generale L’art. 803 definisce il comodato come il contratto con il quale una parte consegna all’altra una cosa mobile o immobile affinché se ne serva per un tempo e per un uso determinati con l’obbligo di restituire la cosa ricevuta. Se prendo in prestito un’auto per accompagnare una sposa in chiesa il giorno del suo matrimonio, non posso servirmene né per un periodo più lungo, né facendo un diverso impiego della vettura, per esempio per andare ad accompagnare un amico all’aeroporto. Il comodato è un contratto reale che re perficitur: la consegna in tali contratti, come in più occasioni rilevato, non costituisce una obbligazione del comodante ma un elemento necessario per la perfezione del contratto, che dunque si apprezza sul piano della formazione dell’accordo e non su quello della sua esecuzione. Anzi, come vedremo, il comodato è un contratto unilaterale dal quale sorgono obbligazioni a carico di una sola parte, il comodatario. La facoltà del comodatario di servirsi della cosa e l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta consentono di tracciare facilmente le differenze fra comodato, deposito e mutuo, contratti tutti di natura reale fondati sulla consegna di una res, necessaria, come si è detto, per la conclusione del contratto, e dai quale sorge per chi l’ha ricevuta un obbligo di restituzione. Invero la facoltà di servirsi della cosa consente di distinguere la figura del comodato da quella del deposito: il depositario ha infatti l’obbligo di custodire la cosa (art. 1766) e l’art. 1770, primo comma, nel definire le modalità di tale custodia, stabilisce che il depositario, senza il consenso del depositante, non può servirsi della cosa depositata. D’altro canto l’obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta ne consente la distinzione col mutuo in cui, come vedremo, il mutuatario acquista la proprietà del danaro o di altra cosa fungibile, ed è obbligato alla restituzione di altrettante cose della stessa specie e qualità (per questo si parla con riferimento al mutuo di prestito di consumo e con riferimento al comodato di prestito d’uso). Il comodato, che può riguardare tanto un bene mobile quanto un bene immobile, ha necessariamente ad oggetto un bene infungibile e, generalmente, inconsumabile; la infungibilità infatti presidia l’obbligazione del comodatario di restituire la stessa cosa ricevuta, la inconsumabilità assicura la com-

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patibilità fra la facoltà di utilizzare il bene e la sua restituzione. Può tuttavia essere dedotto come oggetto del contratto anche un bene consumabile purché il comodatario se ne serva senza consumarlo (comodato ostensivo, per es. il prestito di alcuni generi alimentari per esibirli su una scena teatrale). L’elemento della gratuità, che è essenziale al tipo di contratto in esame, vale a distinguere il comodato dalla locazione, la quale da un lato si perfeziona indipendentemente dalla consegna, dall’altro esige la presenza di un corrispettivo (art. 1571). Come vedremo la gratuità non è sempre liberalità: l’assenza di corrispettivo può essere la conseguenza di un atto di liberalità, così come può trovare giustificazione in un rapporto oneroso fra le parti (affido la mia auto al servizio assistenza della concessionaria e ricevo in comodato una vettura di cortesia per il tempo necessario alla esecuzione del tagliando). Il carattere gratuito o liberale dell’atto è incompatibile con la presenza di un corrispettivo, ma non con la apposizione di una clausola modale che, come sappiamo, non altera la gratuità del negozio, ma ha la funzione di limitare la liberalità (ad es. ti presto la mia villa al mare per trascorrere una vacanza con l’onere di sistemare il giardino e potare le piante). Come abbiamo osservato le obbligazioni che derivano dal contratto investono esclusivamente la posizione del comodatario. Egli è tenuto a custodire e a conservare la cosa con la dovuta diligenza; ad utilizzare la cosa in conformità dell’uso convenuto o alla sua natura; a non concedere la cosa in uso ad un terzo (subcomodato) senza il consenso del comodante (art. 1894, primo e secondo comma); infine a restituire la cosa alla scadenza convenuta (art. 1809, primo comma) e, ove non sia prevista una durata, al termine dell’uso o a semplice richiesta del comodante (art. 1810).

37. La responsabilità del comodatario La responsabilità del comodatario è regolata con particolare severità sia in ragione della gratuità del contratto sia in ragione dello standard rigoroso delle regole che disciplinano la c.d. responsabilità ex recepto. Per questo è stabilito che il comodatario è responsabile se la cosa, nel corso del contratto, perisce per un evento fortuito (estraneo dunque a qualsiasi difetto di diligenza del comodatario nel custodire il bene), che egli avrebbe tuttavia potuto evitare sostituendo la cosa ricevuta in comodato con la cosa propria o se, potendo salvare una delle due, ha preferito la propria (art. 1805, primo comma). Se il comodatario trattiene la cosa oltre il termine convenuto o se ne fa un uso diverso da quello consentito, è responsabile – in deroga all’art. 1218 – anche se la perdita del bene non è a lui imputabile, a meno che non riesca

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a dimostrare che la cosa sarebbe egualmente perita ove ne avesse fatto l’uso consentito o l’avesse restituita a tempo debito (art. 1805, secondo comma). Possono tuttavia nascere a carico del comodante alcune obbligazioni che sono accessorie ed eventuali: il comodante non è tenuto a rimborsare le spese che il comodatario ha sostenuto per servirsi della cosa (art. 1808, primo comma), ma deve invece rimborsare le spese straordinarie, purché necessarie ed urgenti, sostenute dal comodatario per la conservazione della cosa (art. 1808, secondo comma); il comodante è tenuto a risarcire il comodatario dei danni derivanti da vizi della cosa ove, pur conoscendoli, non li abbia dichiarati (art. 1812). In alcuni casi il comodante può chiedere la restituzione del bene anche prima che il contratto sia scaduto. Ciò può avvenire: a) se il comodatario non adempie agli obblighi primari contemplati nell’art. 1804, primo e secondo comma (art. 1804, terzo comma); b) se sopraggiunge un urgente e imprevisto bisogno del comodante (art. 1809, secondo comma); c) in caso di morte del comodatario. Come abbiamo già osservato, nel caso in cui non sia determinata la durata il comodatario è tenuto a restituire la cosa appena il comodante la richiede (art. 1810); ove le parti abbiano espressamente previsto la restituzione del bene a semplice richiesta del comodante ricorre la figura del c.d. precario.

Il Tema Comodato di immobile destinato ad abitazione familiare (Cass. 29 settembre 2014 n. 20448)

Il Caso Il padre, in occasione del matrimonio del figlio avvenuto nel 1992, gli concede in comodato un immobile di sua proprietà. Qualche anno dopo, nel 1999, i coniugi si separano ed il padre agisce nei confronti del figlio e della nuora per ottenere il rilascio dell’immobile. Si costituisce la sola nuora opponendo che in sede di separazione aveva ottenuto, nella qualità di affidataria del figlio nato nel 1995, l’assegnazione della casa familiare, e che pertanto aveva titolo al godimento dell’immobile. Il Tribunale di Nardò respinge la domanda e la Corte di appello di Bari rigetta il gravame. Nella sua decisione la Corte del merito si adegua espressamente ad una precedente decisione della Cassazione a Sezioni Unite. L’attore propone ri-

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corso in Cassazione. La terza Sezione della S.C., auspicando un ripensamento dell’orientamento giurisprudenziale, rimette con ordinanza gli atti al Primo Presidente per l’assegnazione della causa alle Sezioni Unite della Corte. Le Sezioni Unite confermano l’orientamento già espresso in precedenza e rigettano il ricorso. Questa la motivazione.

Il Giudizio Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1809, 1810 cod. civ., 155 c.c. e vizi di motivazione. In via principale invoca i principi desumibili da Cass. 3179/07 e afferma che il comodato di immobile destinato a casa familiare, ove pattuito senza determinazione di tempo, comporta l’obbligo del comodatario di restituire il bene non appena il comodante lo richieda. Deduce che nel caso regolato dalle Sezioni Unite del 2004 era configurabile un vincolo di destinazione dell’immobile alle esigenze abitative familiari, insussistente nel caso di specie, in cui le parti hanno convenuto la concessione in godimento dell’alloggio “quale sistemazione temporanea provvisoria e precaria per i giovani coniugi”. A tal fine rileva che trattasi di una villetta sita in zona di villeggiatura; che la convenuta era già a quel tempo comproprietaria di una residenza estiva della propria famiglia di origine posta nel medesimo comune, che attualmente la propria figlia, coniugata con tre bambini, risiede in altro alloggio concesso al ricorrente dallo Iacp, ente che avrebbe richiesto a qual titolo sussista tale occupazione da parte di famiglia non assegnataria. Lamenta che la Corte di appello non abbia valutato tali circostanze, pur rilevanti a suo avviso quale bisogno ex art. 1809 c.c., per ritenere sussistente un comodato precario. Con più “quesiti di diritto” formulati ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., chiede alla corte di stabilire che, in caso di comodato c.d. precario di abitazione destinata a casa familiare, il comodatario è tenuto al rilascio a semplice richiesta del comodante. In subordine, domanda alla Corte di Cassazione di ribadire che l’effettiva destinazione a casa familiare voluta dal comodante è desumibile solo da una specifica verifica in punto di fatto; che la verifica della comune intenzione delle parti sarebbe stata omessa; che nella specie il bene era stato concesso in godimento solo al fine di una temporanea sistemazione. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1803, 1809, 1810 cod. civ. con riferimento agli artt. 147 e 155 c.c. e 42 Cost. e vizi di motivazione. Parte ricorrente si duole che la sentenza impugnata abbia ravvisato un contratto con determinazione implicita del termine ex art. 1809 c.c., ancorando la scadenza al raggiungimento della indipendenza dei figli conviventi con l’assegnatario. Sostiene che, tutt’al più, nel caso di specie la volontà delle parti era di condizionare la concessione in comodato al raggiungimento della condizione di autosufficienza economica dei coniugi, condizione ormai raggiunta dalla convenuta, o alla sopravvenuta necessità per il comodante di rientrare in possesso dell’immobile.

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Far coincidere la scadenza del comodato con il raggiungimento della indipendenza dei figli del comodatario potrebbe comportare, secondo il ricorso, il rischio che la beneficiaria ostacoli le inclinazioni del figlio, per “conservare quanto è più possibile” la casa concessa in comodato. Con altri tre quesiti mira a far accertare quanto dedotto nei due sottoparagrafi precedenti e a far dichiarare che il comodato con scadenza coincidente con il raggiungimento della indipendenza economica dei figli conviventi con l’assegnatario viola il precetto costituzionale di “tutela della proprietà privata”. La Terza Sezione si fa interprete di alcune osservazioni e suggestioni critiche che in sede dottrinale sono state esposte all’indomani di Cass. SU 13603/04 e che contrastano i commenti favorevoli al provvedimento. Auspica la rimeditazione dell’orientamento adottato dalla Sezioni Unite nel 2004 e pone una serie di quesiti che trascendono la soluzione della vicenda processuale e mirano a una “sistemazione” dell’istituto. Alla sezione rimettente sembra opportuno che sia stabilito quando e come insorga il vincolo di destinazione a casa familiare; quale sia il momento di cessazione di esso; quale sia il regime di opponibilità e come sia connotata la posizione giuridica del coniuge e dei figli del comodato iniziale. In particolare l’ordinanza critica la sentenza 13603/04 per avere affermato che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare “attribuisce un diritto personale di godimento, variamente segnato da tratti di atipicità”: tale affermazione sarebbe incongrua qualora riferita a una posizione giuridica di natura reale, preesistente in capo ad uno o a entrambi i coniugi. Più pertinente è il rilievo secondo cui sarebbe stato stabilito che in caso di comodato pattuito a tempo indeterminato, il comodante sarebbe tenuto a consentire la continuazione del godimento fino al sopraggiungere di un bisogno ex art. 1809 c.c. Ciò appare incongruo ai giudici rimettenti qualora il comodato sia stato pattuito in attesa di altra soluzione abitativa, eventualmente già in corso di predisposizione. E incertezze vengono palesate con riguardo al comodato precario concesso al figlio che, unendosi in matrimonio, destini successivamente l’alloggio a residenza della neo costituita famiglia. Il cuore della critica risiede tuttavia nell’osservazione secondo la quale le Sezioni Unite del 2004 hanno determinato ciò che avevano detto di voler evitare, cioè una sostanziale espropriazione delle facoltà del comodante. Ciò deriverebbe dall’aver escluso la recedibilità ad nutum ex art. 1810 c.c., senza neppure distinguere a seconda che il proprietario sia genitore del beneficiario o un terzo estraneo. A differenza del coniuge proprietario, tenuto a rispettare la solidarietà post coniugale in ragione della tutela costituzionale dell’istituto familiare, i terzi non dovrebbero essere costretti a subire una situazione “destinata a durare indefinitivamente nel tempo”. Inoltre la soluzione prescelta giungerebbe a negare la configurabilità del precario di casa familiare, con l’effetto di “scoraggiare” il diffuso istituto del comodato quale soluzione ai problemi abitativi delle giovani coppie. E costituirebbe un modo per attribuire al coniuge assegnatario diritti poziori rispetto a quelli vantati dall’originario comodatario.

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Viene quindi sollecitato un diverso contemperamento tra le contrapposte esigenze del concedente e del comodatario assegnatario della casa coniugale. Nel precedente pronunciamento (Cass. civ., sez. un., 21-07-2004, n. 13603) è stato stabilito, come si legge nell’enunciazione finale del principio di diritto, che nell’ipotesi di concessione in comodato da parte di un terzo di un bene immobile di sua proprietà perché sia destinato a casa familiare, il successivo provvedimento di assegnazione in favore del coniuge affidatario di figli minorenni o convivente con figli maggiorenni non autosufficienti senza loro colpa, emesso nel giudizio di separazione o di divorzio, non modifica la natura ed il contenuto del titolo di godimento sull’immobile, ma determina una concentrazione, nella persona dell’assegnatario, di detto titolo di godimento, che resta regolato dalla disciplina del comodato, con la conseguenza che il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento per l’uso previsto nel contratto, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed impreveduto bisogno, ai sensi dell’art. 1809 c.c. A questo principio si è attenuta successivamente la giurisprudenza della Corte Suprema, la quale, muovendo dalle premesse fissate dalle Sezioni Unite, ha ribadito che la specificità della destinazione, impressa per effetto della concorde volontà delle parti, è incompatibile con un godimento contrassegnato dalla provvisorietà e dall’incertezza, che caratterizzano il comodato cosiddetto precario, e che legittimano la cessazione “ad nutum” del rapporto su iniziativa del comodante, con la conseguenza che questi, in caso di godimento concesso a tempo indeterminato, è tenuto a consentirne la continuazione anche oltre l’eventuale crisi coniugale, salva l’ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno. È stato altresì riaffermato che il vincolo di destinazione appare idoneo a conferire all’uso, cui la cosa deve essere destinata, il carattere di elemento idoneo ad individuare il termine implicito della durata del rapporto, rientrando tale ipotesi nella previsione dell’art. 1809, primo comma, cod. civ. Se ne è tratta la conseguenza che, una volta cessata la convivenza ed in mancanza di un provvedimento giudiziale di assegnazione del bene, questo deve essere restituito al comodante, essendo venuto meno lo scopo cui il contratto era finalizzato (Cass. 2103/12). In contrasto, a quanto sembra inconsapevole, con l’orientamento invalso dal 2004, si è posta una sola pronuncia recente, Cass. 15986/10, la quale, senza nulla aggiungere, si è esplicitamente rifatta a un precedente del 1997 per sancire la irrilevanza della destinazione a casa familiare di un immobile, con relativa configurabilità di un comodato precario, soggetto a recesso ad nutum. Non è invece in contrasto con l’orientamento delle Sezioni Unite Cass. 3179/07, invocata da parte del ricorrente, perché, pur prestandosi ad un’equivoca interpretazione a causa della sua stringata motivazione, ha in sostanza ribadito i principi esposti dalle Sezioni Unite. Nel caso del 2007, relativo ad immobile concesso in comodato da un’azienda al suo amministratore unico, il giudice di merito aveva ravvisato la stipulazione di un comodato precario. Aveva pertanto ordinato al comodatario il rilascio, appena richiesto dal comodante, senza tener conto “delle regole sull’assegnazione della casa coniugale a coniuge affidatario di figli minori”.

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La Corte di Cassazione, pur conscia che il cd precario non è in linea di principio compatibile con la destinazione a casa familiare, ha confermato questa decisione, che si differenzia dal caso regolato dalle Sezioni Unite, e da quello odierno, perché l’indagine di merito aveva configurato un contratto stipulato tra le parti come contratto di comodato immobiliare senza determinazione di durata ai sensi dell’art. 1810 c.c. e non come contratto soggetto alla disciplina dell’art. 1809 c.c. Ed infatti la sentenza del 2007 ha fatto espresso riferimento a SU 13603/04 e ha ripetuto che il provvedimento di assegnazione di un immobile destinato a casa familiare non modifica né la natura né il titolo di godimento dell’immobile. Perché l’assegnatario possa opporre al comodante, che chieda il rilascio dell’immobile, l’esistenza di un provvedimento di assegnazione della casa familiare, è necessario che tra le parti (cioè almeno con uno dei coniugi, salva la concentrazione del rapporto in capo all’assegnatario, ancorché diverso) sia stato in precedenza costituito un contratto di comodato che abbia contemplato la destinazione del bene quale casa familiare senza altri limiti o pattuizioni. In relazione a questa destinazione, se non sia stata fissata espressamente una data di scadenza, il termine è desumibile dall’uso per il quale la cosa è stata consegnata e quindi dalla destinazione a casa familiare, applicandosi in questo caso le regole che disciplinano questo istituto. Si giunge così al nucleo della questione posta, da dirimere confermando la soluzione adottata a suo tempo, con le precisazioni che seguiranno. Un’esigenza di puntualizzazione si pone in relazione alla individuazione del regime contrattuale. A questo proposito si impone un primo chiarimento. Tralasciando opinioni minoritarie, si può dire che il codice civile disciplina due “forme” del comodato, quello propriamente detto, regolato dagli artt. 1803 e 1809 ed il c.d. precario, al quale si riferisce l’art. 1810 c.c., sotto la rubrica “comodato senza determinazione di durata”. È solo nel caso di cui all’art. 1810 c.c., connotato dalla mancata pattuizione di un termine e dalla impossibilità di desumerlo dall’uso cui doveva essere destinata la cosa, che è consentito di richiedere ad nutum il rilascio al comodatario. L’art. 1809 c.c. concerne invece il comodato sorto con la consegna della cosa per un tempo determinato o per un uso che consente di stabilire la scadenza contrattuale. Esso è caratterizzato dalla facoltà del comodante di esigere la restituzione immediata solo in caso di sopravvenienza di un urgente e imprevisto bisogno (art. 1809 c. 2 c.c.). È a questo tipo contrattuale che va ricondotto il comodato di immobile che sia stato pattuito per la destinazione di esso a soddisfare le esigenze abitative della famiglia del comodatario, da intendersi in tal caso “anche nelle sue potenzialità di espansione”. Trattasi infatti di contratto sorto per uso determinato e dunque, come è stato osservato, per un tempo determinabile per relationem, che può essere cioè individuato in considerazione della destinazione a casa familiare contrattualmente prevista, indipendentemente dall’insorgere di una crisi coniugale. È grazie a questo inquadramento che risulta senza difficoltà applicabile il disposto

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dell’art. 1809 comma secondo, norma che riequilibra la posizione del comodante ed esclude distorsioni della disciplina negoziale. Si può osservare che nella sentenza 13603/04, l’ipotesi di comodato di casa familiare è stata inquadrata nello “schema del comodato a termine indeterminato”. Questa definizione non riconduce però il rapporto negoziale qui descritto al contratto senza determinazione di durata, cioè al precario cui all’art. 1810 c.c., avendo essa riguardo alla configurazione di un termine non prefissato, ma desumibile dall’uso convenuto; ipotesi ben distinta da quella in cui le parti abbiano stabilito un termine finale di godimento del bene, come può accadere sia quando venga fissata una data di scadenza, sia, si deve ora aggiungere esemplificativamente, qualora il comodante abbia ceduto l’alloggio ad un comodatario (p. es. un figlio) stabilendo che possa abitarvi fino al matrimonio di altro figlio/a, o fino alla conclusione dei lavori di costruzione e restauro di casa di proprietà, o fino all’acquisto di un immobile analogo. In ogni caso, si disse, in cui il contratto prevede espressamente ed univocamente un termine finale, si configura senz’altro un contratto a tempo determinato. È stata la dottrina, proprio in relazione al comodato di immobile ad uso abitativo, ad avvertire l’opportunità di descrivere un comodato “a tempo indeterminato”, ma lo ha subito riconosciuto concettualmente come diverso dal comodato senza determinazione di durata. Sebbene inizialmente sia stato proposto di desumere la disciplina applicabile da quella di cui all’art. 1810 c.c., l’evolversi degli studi ha fatto maggiormente riflettere sul “comodato di lunga durata”, caratterizzato da una scadenza non predeterminata e non di rado volta a superare la stessa vita del comodante, con il sopravvenire per via ereditaria del diritto di proprietà in capo al titolare del diritto di godimento attribuito gratuitamente al congiunto. A questo comodato, chiaramente connesso con le finalità solidaristiche che sono state tratteggiate dall’intervento del 2004 delle Sezioni Unite, mal si attaglia la natura instabile della situazione negoziale di cui all’art. 1810 c.c. Ed è invece implicita nella previsione di destinazione dell’immobile ad abitazione familiare la determinazione della durata della concessione, che va rapportata a tale uso, come colto da Cass. 2627/06, postasi lucidamente nella sequela di Cass. 13603/04. Dunque l’espressione contenuta nella sentenza del 2004, nata dall’obbiettiva difficoltà di descrivere un comodato a durata indefinita e comunque non determinata con scadenza fissa, ancorché determinabile per relationem, va intesa nel senso di ricondurre la fattispecie al contratto in cui il termine risulta dall’uso cui la cosa è stata destinata. Restano così non accoglibili i suggerimenti dottrinali, pur indiscutibilmente utili alla riflessione, volti a mitigare con l’utilizzo dell’art. 1183 c.c. comma secondo la eventuale applicabilità al comodato di lunga durata della disciplina del precario. Sono per opposto verso non condivisibili quelle voci che auspicano una ancora maggiore tutela dei soggetti deboli, attraverso la configurazione di un contratto atipico di scopo che imponga al comodante di rispettare la destinazione a casa familiare indipendentemente dalle circostanze sopravvenute. L’inquadramento qui precisato offre il destro per ribadire che le preoccupazioni del-

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l’ordinanza di rimessione possono essere superate con una attenta lettura e una prudente applicazione della sentenza del 2004. Quest’ultima, prevenendo le obiezioni, ha esplicitato che non intendeva affermare che, ogniqualvolta un immobile venga concesso in comodato con destinazione abitativa, si debba immancabilmente riconoscergli durata pari alle esigenze della famiglia del comodatario, ancorché disgregata. Ha infatti in primo luogo invitato i giudici di merito a valutare la sussistenza della pattuizione di un termine finale di godimento del bene, che potrebbe emergere dalle motivazioni espresse nel momento in cui è stato concesso il bene e che impedirebbe di protrarre oltre l’occupazione. In secondo luogo ha precisato che la concessione per destinazione a casa familiare implica una scrupolosa verifica della intenzione delle parti, che tenga conto delle loro condizioni personali e sociali, della natura dei loro rapporti, degli interessi perseguiti. Ciò significa che il comodatario, o il coniuge separato con cui sia convivente la prole minorenne o non autosufficiente, che opponga alla richiesta di rilascio la esistenza di un comodato di casa familiare con scadenza non prefissata, ha l’onere di provare, anche mediante le inferenze probatorie desumibili da ogni utile fatto secondario allegato e dimostrato, che tale era la pattuizione attributiva del diritto personale di godimento. La prova potrebbe risultare più difficile qualora la concessione sia avvenuta in favore di comodatario non coniugato né prossimo alle nozze, dovendosi in tal caso dimostrare che dopo l’insorgere della nuova situazione familiare il comodato sia stato confermato e mantenuto per soddisfare gli accresciuti bisogni connessi all’uso familiare e non solo personale. Trattasi sempre di un mero problema di prova, risolvibile grazie al prudente apprezzamento del giudice di merito in relazione agli elementi (epoca dell’insorgenza della nuova situazione, comportamenti e dichiarazioni delle parti, rapporti intrattenuti, tempo trascorso etc) che sono sottoponibili al suo giudizio. Spetta invece a chi invoca la cessazione del comodato per il raggiungimento del termine prefissato, dimostrare il relativo presupposto. Se così è, risulta vano prospettare l’iniquità di uno sviluppo contrattuale che è stato voluto dalle parti. Né si potrà dire, come sembra sotteso anche nel ricorso e nella memoria conclusiva, che il comodante intende sempre che la concessione in comodato è precaria e soggetta a risoluzione ad nutum. Si è visto prima che un comodato immobiliare precario o a termine più breve può, in relazione ai rapporti tra le parti e alle finalità (rapporti di lavoro, solidarietà emergenziale) essere configurabile. Non di questo si discute qui, ma della ipotesi in cui il comodante concede al figlio, o a persona che egli intende beneficiare, un’abitazione da destinare a casa familiare, senza porre in alcun modo limiti temporali. Ed in questi casi, al di là delle nozioni giuridiche possedute dal comodante, di cui tuttavia vanno indagate le intenzioni obbiettivamente risultanti, rilevano la innegabile stabilità della destinazione abitativa, la finalità solidaristica che fa venire in risalto i bisogni della prole del comodatario, in definitiva la stessa causa del negozio, che è quella di attribuire il godimento di un bene, cioè di realizzare l’interesse del comodatario.

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È stato scritto che questo interesse permea e orienta il rapporto contrattuale di comodato. Questa affermazione si concretizza nell’assecondare la attuazione dell’iniziale programma negoziale e non nell’interpretare l’istituto al fine di facilitare reazioni ritorsive alle vicende esistenziali del beneficiario. È comprensibile che la novità recata dalla parziale dissoluzione del nucleo familiare (che nella sua composizione residua continua ad occupare l’abitazione familiare, mantenendone la destinazione) porti ad interrogarsi sulla ragionevolezza del permanere della destinazione, nonostante l’intendimento sopravvenuto di ritrattare la concessione. La risposta, per tutte le ragioni manifestate qui e da SU 13603/04, non può che essere nel segno di rispettare il potere di disposizione del bene, quale esercitato al sorgere del contratto. Se il contratto ancorava la durata del comodato alla famiglia del comodatario, corrisponde a diritto che esso perduri fino al venir meno delle esigenze della famiglia. È negli articoli 337 bis e segg. del codice civile (dopo la modifica di D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154; già art. 155 e segg. c.c.) e nella giurisprudenza di legittimità che trova attuazione il disposto normativo circa la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari legittimanti l’assegnazione della casa familiare e quindi il perdurare della fattispecie contrattualmente disegnata. È appena il caso di rilevare che la questione relativa ai limiti di opponibilità del comodato al terzo acquirente, sulla quale l’ordinanza di rimessione sollecita un intervento delle Sezioni Unite, è del tutto estranea al tema del decidere. Giova a questo punto precisare che proprio la giurisprudenza conduce ad escludere, al contrario di quanto ventilato in ricorso, che trovino immeritata tutela i comportamenti ostruzionistici dei beneficiari dell’alloggio, finalizzati a protrarre indebitamente il godimento della casa familiare. Proprio recentissimamente la Prima Sezione della Corte ha avuto modo di riepilogare efficacemente (Cass. 18076/14) i principi che si sono andati affermando circa i limiti dell’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne. Questi, è stato osservato, in forza dei doveri di autoresponsabilità che su di lui incombono, non può pretendere la protrazione dell’obbligo oltre ragionevoli limiti di temo e di misura, perché “l’obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione”. Su altro versante la soluzione prescelta da Cass. 13603/04 è da confermare, richiamando all’attenzione la portata della facoltà di recedere ex art. 1809 capoverso c.c., forse sin qui non ben compresa. Si è detto che l’opportunità di cui al 1809 c.c. è stata evocata dalle Sezioni Unite per conseguire un compromesso tra opposte tesi, ma non è così. Si tratta invece di piana applicazione del tipo contrattuale al quale è stato ricondotto il comodato di casa familiare, riconosciuto estraneo al “precario” ex art. 1810 e invece disciplinato dall’art. 1809 cod. civ. Questa disposizione rivela che il comodato a tempo determinato, soprattutto se con le connotazioni della lunga durata di cui ci si è occupati supra, nasce nella convinzione della piena stabilità del rapporto, anche tenendo conto della possibilità di risolverlo motivatamente in caso di bisogno.

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Questa eventualità è una componente intrinseca del tipo contrattuale e costituisce insieme espressione di un potere e di un limite del comodante, da questi accettato nel momento in cui concede il bene per un uso potenzialmente di lunghissima durata e di fondamentale importanza per il beneficiario. Con l’implicazione che il comodante, contrariamente a quanto ipotizzato da una risalente dottrina, ritiene di poter rispettare il contratto per tutto il tempo di durata prevedibile. A fronte di questa scelta, che fa ritenere che il comodante non prevedesse di volere o dovere alienare il bene, non può trovare tutela la sua intenzione, verosimilmente ritorsiva, di rimuovere l’occupante rimastone beneficiario. Trova invece tutela il sopravvenire di un urgente e impreveduto bisogno. La giurisprudenza, significativamente, non ha dovuto occuparsi spesso di questa disposizione. Si conviene generalmente tuttavia, in dottrina e nei precedenti noti (Cass. 1132/87; 2502/63), che la portata di questo bisogno non deve essere grave, dovendo essere solo imprevisto, quindi sopravvenuto rispetto al momento della stipula, e urgente. L’urgenza è qui da intendersi come imminenza, restando quindi esclusa la rilevanza di un bisogno non attuale, non concreto, ma soltanto astrattamente ipotizzabile. Ovviamente il bisogno deve essere serio, non voluttuario, né capriccioso o artificiosamente indotto. Pertanto non solo la necessità di uso diretto, ma anche il sopravvenire imprevisto del deterioramento della condizione economica, che obbiettivamente giustifichi la restituzione del bene anche ai fini della vendita o di una redditizia locazione del bene immobile, consente di porre fine al comodato anche se la destinazione sia quella di casa familiare. È da notare soltanto che, essendo in gioco valori della persona, ed in particolare le esigenze di tutela della prole, questa destinazione, con più intensità di ogni altra, giustifica massima attenzione in quel controllo di proporzionalità e adeguatezza, sempre dovuto in materia contrattuale, che il giudice deve compiere quando valuta il bisogno fatto valere con la domanda di restituzione e lo compara al contrapposto interesse del comodatario. Alla luce dei principi che sono stati qui puntualizzati il ricorso non merita accoglimento. I quesiti e le censure motivazionali esposti con il primo motivo sono infatti resistiti dal coerente e logico accertamento reso dalla Corte di appello. Essa ha ravvisato la concessione del godimento del bene “nella specifica prospettiva della sua utilizzazione quale casa familiare”. Ha congruamente giustificato questa ricostruzione sulla base della stessa prospettazione contenuta in citazione, che ha riconnesso la concessione in comodato al matrimonio del figlio e dunque alle esigenze del nucleo familiare in formazione. Le deduzioni contrapposte in ricorso per tratteggiare una concessione temporanea e provvisoria sono rimaste mere contrapposizioni di una diversa lettura della vicenda negoziale, non essendo state indicate in ricorso risultanze trascurate o malvalutate dai giudici di merito che giustifichino la censura.

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È anzi da notare che in sentenza risulta la lunga durata del comodato già al momento della crisi coniugale, manifestatasi con ricorso di separazione del 1999, sette anni dopo la celebrazione del matrimonio (ottobre 1992). Altrettanto deve dirsi con riguardo al secondo profilo del secondo motivo di ricorso (sesto quesito) che postula, senza offrire elementi decisivi idonei a ribaltare la decisione di appello, che la scadenza del comodato di casa familiare sia stata fissata dalle parti al raggiungimento della indipendenza ed autonomia dei comodatari. Le argomentazioni esposte nella parte generale della motivazione valgono a smentire il secondo motivo nella parte in cui deduce che costituirebbe una espropriazione delle facoltà del proprietario far coincidere la fine del comodato di casa familiare con il termine implicito costituito dal raggiungimento dell’indipendenza economica dei figli del comodatario separato e con lui conviventi. E sono state già smentite anche le censure portate alla tesi sancita dalle Sezioni Unite prefigurando che possano essere per tal via favoriti comportamenti ostruzionistici, volti a impedire che il figlio della coppia si renda autonomo e autosufficiente. Il ricorso è rigettato.

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SEZIONE X: IL CONTRATTO DI MUTUO 38. Il mutuo in generale Con il contratto di mutuo una parte consegna all’altra una determinata quantità di danaro o di altre cose fungibili e questa si impegna a restituire altrettante cose della stessa specie e qualità (art. 1813). La natura fungibile del bene e lo scopo del contratto, che consentono al mutuatario di utilizzare il danaro o la cosa e dunque gliene attribuiscono la disponibilità, presuppongono e comportano ad un tempo l’effetto traslativo del negozio, cosicché le cose date a mutuo passano in proprietà del mutuatario (art. 1814). L’ipotesi di gran lunga più importante e più frequente nella pratica, è quella del mutuo di danaro, come è testimoniato tra l’altro dalla attenzione che il legislatore ha dedicato – come vedremo – ad un particolare tipo di mutuo, quello concesso dalle Banche, disciplinato nel Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, c.d. TUB. La causa del contratto consiste (almeno nell’ipotesi di mutuo in danaro) nel finanziamento del mutuatario, il quale può fare del danaro ricevuto l’uso che crede e poi restituirlo al mutuante. La causa di finanziamento consente anzi di marcare le differenze fra il mutuo di danaro e il deposito irregolare (art. 1782) che può avere per oggetto danaro e che ne procura la disponibilità al depositario tenuto alla restituzione del tantundem: nel caso del deposito infatti, sebbene la normativa applicabile sia la medesima, la funzione del negozio consiste – come sappiamo – primariamente nell’affidamento della custodia del danaro. Il contratto ha generalmente struttura onerosa a meno che le parti non abbiano diversamente convenuto (art. 1815, primo comma). Le norme contenute nel codice si riferiscono spesso all’ipotesi che il mutuo abbia ad oggetto una somma di danaro; in questo caso l’onerosità della prestazione del mutuatario si traduce nell’obbligo di corrispondere gli interessi (obbligazione accessoria ad una principale di natura anch’essa pecuniaria) che la legge indica, in mancanza di diversa determinazione, in quelli legali disciplinati dall’art. 1284 (art. 1815). Grava dunque sul mutuatario, accanto alla obbligazione restitutoria, l’ulteriore obbligazione di corrispondere gli interessi; si tratta di una obbligazione tutt’altro che secondaria che testimonia il carattere corrispettivo del contratto, l’inadempimento della quale consente al mutuante

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di chiedere la risoluzione del contratto e la immediata restituzione della somma data a mutuo (art. 1820); ma nell’interesse del mutuatario essa è assoggettata a particolare controllo e la previsione di interessi usurari (eccedenti cioè un parametro di equità, ora indicato dalla legge: v. retro, p. 19 ss.), determina la nullità della clausola ed il mutuatario non è tenuto a corrispondere alcun interesse (art. 1815, secondo comma). Nell’ipotesi di mutuo avente ad oggetto una cosa fungibile diversa dal danaro l’onerosità per il mutuatario potrà consistere nella previsione di una prestazione diversa dagli interessi ma parimenti ulteriore rispetto a quella restitutoria, che potrebbe ad es. consistere nella corresponsione di un compenso in danaro. La proprietà peraltro non si trasferisce con il semplice consenso e dunque il contratto di mutuo non è un contratto consensuale, ma è necessaria la consegna della cosa o della somma di danaro: solo in questo momento il contratto è perfetto e la proprietà si trasferisce dal mutuante al mutuatario. Si tratta dunque di un contratto reale, e tale natura è evidenziata anche dal termine impiegato dal legislatore nella descrizione della fattispecie contrattuale (“consegna”).

39. La promessa di mutuo La natura reale del contratto di mutuo non è smentita dalla norma dell’art. 1822 che ammette la promessa di mutuo: tale previsione infatti non dà luogo ad un tipo parallelo di mutuo consensuale destinato a perfezionarsi indipendentemente dalla consegna. La promessa di mutuo invero non può qualificarsi come contratto preliminare. Il meccanismo del contratto preliminare infatti non sembra in generale conciliabile con la struttura dei contratti reali che – come è noto – re perficitur: se infatti la promessa di mutuo producesse l’obbligo di stipulare il definitivo, dovrebbe ammettersi la esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto definitivo e cioè la possibilità di una sentenza costitutiva la quale però potrebbe tener luogo del mancato consenso ma non certo della consegna, che pertanto resterebbe al di fuori del contratto di mutuo di formazione giudiziale. La promessa di mutuo è quindi un contratto consensuale ad effetti obbligatori, diverso dal contratto reale di mutuo, dal quale scaturisce solo un obbligo per il mutuante il cui inadempimento è sanzionato con il risarcimento del danno. Di contro nel contratto di mutuo non è configurabile un vero e proprio inadempimento contrattuale del mutuante giacché l’unica prestazione suscettibile di esecuzione (e cioè la consegna della cosa) segna ad un tempo

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la perfezione e l’attuazione del contratto; la mancanza della prestazione può rilevare come violazione delle regole di condotta che presiedono allo svolgimento delle trattative ed essere pertanto fonte di responsabilità extracontrattuale. Le norme del codice sono in realtà tutte concentrate sugli obblighi del mutuatario (restituzione ed interessi) fatta eccezione per l’art. 1821, che prevede la responsabilità del mutuante per i danni cagionati al mutuatario conseguenti ai vizi delle cose mutuate. L’efficacia vincolante della promessa di mutuo trova un temperamento nel legittimo rifiuto del mutuante di adempiere ove, tra la promessa e il contratto di mutuo, le condizioni patrimoniali del mutuatario siano divenute tali da rendere notevolmente difficile la restituzione di quanto dovrebbe essergli corrisposto (art. 1822). Al di fuori di questa ipotesi il mutuante, come osservato, risponde dei danni che l’altra parte abbia subito per avere fatto affidamento su un prestito che è venuto a mancare. Soltanto nel mutuo gratuito il termine per la restituzione è stabilito a favore del mutuatario, in conformità della norma generale, cosicché egli non sarà tenuto ad adempiere prima della scadenza. Se il mutuo è invece oneroso il termine si presume stabilito a favore di entrambi; il mutuante infatti non ha interesse ad un adempimento anticipato che comporterebbe una rinuncia a parte degli interessi convenuti (art. 1816). È frequente che la somma mutuata venga restituita in rate periodiche con la previsione di interessi; per l’acquisto di una casa di abitazione, ad esempio, l’acquirente si rivolge ad una banca per ottenere a mutuo parte della somma necessaria all’acquisto e si obbliga a restituire capitale ed interessi corrispondendo n rate (mensili, trimestrali o semestrali) per n anni; maggiore è il tempo della restituzione maggiori saranno gli interessi. La banca in questi casi, per garantire l’adempimento della obbligazione restitutoria, iscrive ipoteca sul bene di cui ha finanziato l’acquisto cosicché in caso di inadempimento potrà compiere atti conservativi ed esecutivi sul bene e soddisfarsi sul ricavato della vendita. Il mutuatario decade però dal beneficio del termine ove non adempia l’obbligo di restituzione anche di una sola rata ed il mutuante può chiedere l’immediata restituzione dell’intera somma (art. 1819). Nel caso in cui il mutuo sia concesso da una Banca valgono alcune regole particolari contenute nel sopracitato TUB. In deroga alla disposizione per la quale il termine per la restituzione si presume a favore di entrambe le parti, il debitore ha facoltà di estinguere anticipatamente il proprio debito corrispondendo alla banca un compenso onnicomprensivo per l’estinzione contrattualmente stabilito (art. 40); ma se il mutuo è stato concesso a persone fisiche per l’acquisto o la ristrutturazione di unità immobiliari adi-

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bite ad abitazioni ovvero allo svolgimento della propria attività economica o professionale, il mutuatario può estinguere anticipatamente in tutto o in parte i mutui stipulati o accollati senza il pagamento di alcuna penale e la clausola anche posteriore al contratto che dovesse prevedere compensi è nulla senza che tale nullità coinvolga l’intero contratto (art. 120 ter). Inoltre il mutuatario può accedere alla c.d. portabilità del mutuo bancario che gli consente di trasferire il rapporto in capo ad un altro soggetto mutuante, con l’intento di ottenere migliori condizioni di finanziamento, secondo lo schema della surrogazione di cui all’art. 1202. Il mutuatario pertanto può surrogare il nuovo mutuante nei diritti del creditore anche senza il consenso di questi; la surrogazione importa il trasferimento del contratto ed il mutuante surrogato subentra nel rapporto originario. Al cliente non può essere imposto alcun onere per la concessione del nuovo finanziamento e la clausola che renda oneroso per il debitore l’esercizio della facoltà di surrogazione è colpita da nullità parziale, senza cioè che la sanzione importi la nullità anche dell’intero contratto (art. 120 quater).

Il Tema Il mutuo di scopo (Cass. Ordinanza 21 ottobre 2019 n. 26770)

Il Caso La pronuncia proposta riguarda un caso in cui il mutuatario si era impegnato non soltanto a restituire al mutuante la somma erogata a titolo di mutuo ma anche ad utilizzarla per il perseguimento di una determinata finalità. Al corrispondente negozio si dà il nome di mutuo di scopo per evidenziare la rilevanza che assume, con riferimento sia alla struttura sia alla funzione del contratto, la destinazione della somma ricevuta alla realizzazione di un determinato fine; tale rilievo conferisce al mutuo di scopo una sua tipicità rispetto al mutuo ordinario e giustifica una disciplina in parte differenziata. Invero e sotto il profilo strutturale, se il mutuo ordinario è un contratto reale che si perfeziona con la consegna della somma di danaro, il mutuo di scopo è invece un contratto consensuale che si perfeziona con la semplice manifestazione di consenso, cosicché la consegna della somma costituisce l’oggetto di una obbligazione del mutuante e non un elemento costitutivo del negozio. Sotto il profilo causale il mutuo di scopo, a differenza del mutuo ordinario, non esaurisce

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la sua funzione economico e sociale (nella dazione e) nella restituzione di una somma di danaro, generalmente con gli interessi, ma si estende e comprende il perseguimento di una determinata finalità dedotta nel contratto, la quale costituisce il contenuto della corrispondente specifica obbligazione di fare, gravante sul mutuatario. La finalità può essere stabilita dalla legge, come accade ad esempio per certi mutui agevolati nell’ambito di politiche di sostegno a determinate attività produttive o ad altre finalità sociali, ovvero stabilita dalle parti: nel primo caso si parla di mutuo di scopo legale nel secondo di mutuo di scopo convenzionale. Nel caso di specie una Società aveva chiesto ed ottenuto dal Mediocredito toscano (poi Monte dei Paschi di Siena) un mutuo immobiliare garantito da ipoteca. Successivamente alla erogazione del mutuo la società fallisce e la Banca mutuante propone istanza di ammissione del credito alla restituzione, in via privilegiata, al passivo fallimentare. Il GD respinge la domanda ritenendo la nullità del contratto di mutuo stipulato con la debitrice in quanto le somme erano state utilizzate non per l’acquisto dell’immobile finanziato ma per il ripianamento di pregresse esposizioni con il ceto bancario. Il Tribunale di Nola rigetta l’opposizione proposta dalla Banca avverso il suddetto decreto del GD e la Corte di Appello di Napoli, qualificato il contratto posto a fondamento del credito dell’Istituto “mutuo di scopo”, conferma la sentenza di primo grado e afferma la nullità del titolo azionato. MPS propone ricorso per la cassazione della sentenza emessa dalla Corte napoletana. La Suprema Corte così motiva la sua decisione.

Il Giudizio Avuto riguardo, in particolare, al secondo motivo di ricorso, la circostanza in esso allegata, vale a dire che nessun pagamento era stato effettuato in favore del Mediocredito Toscano, l’istituto che aveva erogato il mutuo, essa difetta di decisività. Posto che la ricorrente non ha contestato la qualificazione del mutuo per cui è causa come “mutuo di scopo”, ciò che rileva, sulla base della ratio della sentenza impugnata, è la deviazione dallo scopo cui l’attribuzione delle somme era stata preordinata (e che rientrava nella causa concreta del contratto). È al riguardo irrilevante il fatto che le somme non siano state destinate a ripianare l’esposizione debitoria della debitrice nei confronti della mutuante ma di altri istituti di credito, tra cui una banca facente parte del medesimo gruppo bancario: ciò che rileva è l’oggettiva deviazione dallo scopo. Del pari inammissibile, per difetto di decisività, la deduzione posta a fondamento del terzo motivo di ricorso in quanto non censura l’autonoma ratio decidendi, posta dalla Corte territoriale a fondamento dell’accertamento della deviazione del mutuo dal suo scopo, costituita dal fatto che dall’estratto conto e dai movimenti ivi riportati risultava che tutte le somme erogate da Mediocredito Toscano erano state destinate a ripianare l’esposizione della debitrice verso le banche.

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Inoltre a fronte della statuizione di entrambi i giudici di merito, secondo cui non risultava la prova dell’avvenuto pagamento dell’immobile, facente parte dell’attivo del fallimento (OMISSIS), da parte della Siprio, prova tra l’altro facilmente acquisibile dagli atti della procedura fallimentare, la ricorrente non ha allegato alcuno specifico fatto, avente carattere di decisività, ritualmente dedotto nel giudizio di merito ed oggetto di discussione tra le parti, il cui esame sarebbe stato omesso nella sentenza impugnata. Ciò posto, deve escludersi la nullità della sentenza per carenza assoluta di motivazione o motivazione apparente. La sentenza impugnata ha chiaramente espresso la ratio decidendi della situazione, vale a dire la deviazione della causa concreta del contratto da quella del mutuo di scopo, come dimostrato dal fatto che la mutuataria non aveva acquistato il cespite per cui era stato erogato il mutuo e che, come desumibile dall’estratto conto della debitrice, il relativo importo era stato concretamente utilizzato per estinguere pregresse esposizioni debitorie. Il ricorso va dunque respinto.

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SEZIONE XI: IL CONTRATTO DI ASSICURAZIONE 40. La natura aleatoria del contratto Il contratto di assicurazione è un contratto complesso sia nella struttura sia nelle diverse forme che esso può assumere. Il codice prevede alcune disposizioni generali e due sezioni dedicate l’una alla assicurazione contro i danni, l’altra alla assicurazione sulla vita. Dobbiamo partire dalla definizione generale che del contratto dà l’art. 1882 e che annuncia il diverso oggetto dell’assicurazione, a seconda che investa i danni a cose ovvero sia connesso alla vita di una persona fisica: con questo contratto infatti un soggetto, che assume il nome di assicuratore si obbliga, a fronte del pagamento di un corrispettivo che si chiama premio, a tenere indenne l’assicurato del danno che questi subisca a causa di un sinistro, entro determinati limiti previsti nel contratto, ovvero a pagare a favore suo o di un terzo una somma capitale una tantum o una prestazione periodica (rendita) al verificarsi di un evento attinente alla vita umana. L’elemento fondamentale e caratteristico del contratto è il rischio, elemento che ne connota la causa, individuata proprio nel trasferimento del rischio da un soggetto assicurato, nella cui sfera l’evento futuro si verifica, all’assicuratore e che ne configura la natura aleatoria. Pertanto la sua inesistenza al momento della conclusione del contratto è causa di nullità (art. 1895); e le vicende che, come subito vedremo, modificano il rischio determinandone la cessazione, la diminuzione o l’aggravamento, non possono non ripercuotersi sul contratto. Inoltre non sono compatibili con il rischio né i sinistri provocati dall’assicurato volontariamente (con dolo), né quelli dovuti a colpa grave dello stesso, a meno che le parti non abbiano espressamente previsto anche in questa ipotesi la responsabilità dell’assicuratore (art. 1900, primo comma). Le caratteristiche formali del contratto sono le seguenti. Il contratto di assicurazione è un contratto consensuale, destinato a produrre i suoi effetti nel tempo e dunque è un contratto di durata, soggetto a forma scritta ad probationem (art. 1888, primo comma); è a prestazioni corrispettive, perché il pagamento del premio trova un corrispettivo nell’assunzione immediata del rischio da parte dell’assicuratore che in caso di sinistro o di evento attinente alla vita umana, dovrà pagare un somma di danaro; ma non è un contratto commutativo in cui le parti conoscono al momento della conclusione del contratto l’entità dei sacrifici e dei vantaggi che rispettivamente assumono e con-

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seguono, bensì aleatorio proprio perché – come osservato – causa del contratto è il trasferimento di un’alea, cioè di un rischio economico. Peraltro l’assicurazione si distingue nettamente dalla scommessa, contratto aleatorio per eccellenza, perché solo la prima è un atto di previdenza per l’assicurato (che sostituisce l’onere certo e contenuto del pagamento dei premi con l’onere futuro e incerto ma di entità ben maggiore che verrebbe a determinarsi con la concretizzazione del rischio), mentre nella scommessa entrambe le parti perseguono uno scopo di lucro; ed invero nella scommessa il rischio è artificiale e voluto dalle parti, mentre nell’assicurazione il rischio è attuale e concreto ed investe la persona dell’assicurato. Il carattere aleatorio del contratto si palesa evidente se si considera che il rapporto fra entità dei premi corrisposti e valore della prestazione che l’assicuratore potrà essere eventualmente chiamato ad effettuare è incerto e dipenderà in sostanza da elementi come la durata dell’assicurazione, l’ammontare dei premi, il tempo del sinistro ed il numero dei sinistri. Se ad esempio assicuro un costoso dipinto d’autore contro il rischio del furto, può essere che per tutta la durata del contratto, supponiamo decennale, il quadro non venga rubato, cosicché l’assicuratore avrà incassato un gran numero di premi e non dovrà corrispondere alcuna indennità; può avvenire invece che soltanto dopo qualche mese la stipula del contratto il quadro venga rubato e che l’assicurato, pur avendo pagato soltanto qualche premio, si trovi ad essere risarcito di una ingente somma. Se l’assicurazione si rivelerà un “affare” per l’assicurato piuttosto che per l’assicuratore, potrà dirsi solo al termine del rapporto attraverso l’esame di tutti gli elementi sopra ricordati. Tuttavia il rischio in esame è per gli assicuratori un rischio amministrabile: l’assicuratore infatti, secondo calcoli statistici che tengono conto della legge della probabilità, riesce a stabilire il numero di sinistri che si verificherà e a ripartire il relativo onere sulla totalità dei premi che saranno pagati da tutti gli assicurati inserendo nel premio una quota di profitto per l’attività svolta. Ciò spiega non solo la ragione per cui l’assicuratore deve ben conoscere al momento della conclusione del contratto l’entità del rischio che assume, cosicché la sua errata rappresentazione è tutelata dalla legge nel modo che vedremo (art. 1892); ma anche, come abbiamo accennato, perché le modificazioni del rischio reagiscono sulla efficacia del contratto. Questa considerazione, pur rilevante e che certamente consente di assegnare una natura peculiare all’alea assunta dall’assicuratore, non vale a negare a nostro avviso la qualifica aleatoria del contratto. L’assicurazione interessa la generalità dei cittadini ed interpreta una serie assai vasta e potenzialmente illimitata di esigenze degli assicurati; la stessa amministrazione del rischio richiede il riferimento a grandi scale e quindi ad una moltitudine di contratti; si tratta di un contratto a forte vocazione socia-

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le, tanto che lo stesso codice civile all’art. 1886 rinvia alle leggi speciali la disciplina delle assicurazioni sociali (per es. contro gli infortuni e le malattie professionali). Si pensi, ad es., che lo strumento assicurativo della responsabilità civile costituisce una risposta alternativa a quella offerta dal sistema dell’illecito aquiliano per fronteggiare il rischio di danni nella società civile; tale rischio negli ultimi cinquant’anni è cresciuto in modo esponenziale parallelamente alla intensificazione delle attività industriali, alla grande distribuzione, alla globalizzazione dei prodotti e dei servizi, alle nuove tecniche di penetrazione dei mercati e di comunicazione. Ebbene, la incalzante esigenza di consentire alla vittima, sempre maggiormente esposta al rischio di danni, un risarcimento sicuro, realizzata anche attraverso il consolidarsi di tecniche di responsabilità oggettiva, trova con lo strumento della assicurazione un meccanismo fortemente garantista: il legislatore ha infatti adottato tale soluzione in settori nei quali era più diffusa ed avvertita la necessità di un intervento riparatorio del danno, imponendo al soggetto produttore del rischio l’onere di una assicurazione obbligatoria. Non sarebbe certo facile generalizzare questa pratica sia per le inevitabili ricadute sulla libertà di iniziativa economica sia per il rischio che i maggiori oneri dell’assicurazione vengano riversati sul cittadino o sul consumatore mediante un aumento del prezzo del prodotto o del servizio. Per queste ragioni il legislatore ha riservato l’esercizio dell’attività assicurativa a istituti di diritto pubblico (INAIL) ovvero a società per azioni (Compagnie di assicurazione) con l’osservanza delle norme stabilite da leggi speciali (art. 1883), o ad una mutua assicuratrice (art. 1884); e ha sanzionato con la nullità il contratto di assicurazione stipulato con un’impresa non autorizzata (art. 167, d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, c.d. Codice delle assicurazioni). Inoltre la raccolta di ingenti quantità di danaro attraverso la stipula di un ampissimo numero di contratti ha indotto nel tempo le Compagnie di assicurazione ad essere presenti nei più importanti settori del mercato immobiliare e di quello finanziario, esercitando funzioni che, in ordine alla raccolta di danaro pubblico e al loro reimpiego, evocano quelle svolte dalle banche. Perciò le imprese esercenti attività assicurativa sono soggette all’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese (art. 2195) al pari di quelle bancarie e al pari di queste sono soggette ad una Autorità pubblica di vigilanza e di controllo che, proprio di recente, dal 1° gennaio 2013, è stata riformata, l’IVASS che ha lo scopo di assicurare la piena integrazione dell’attività di vigilanza assicurativa intensificando i collegamenti con quella bancaria (non a caso l’IVASS è presieduta dal Direttore Generale della Banca d’Italia). Le considerazioni svolte spiegano anche le particolari modalità di formazione del contratto, che avviene generalmente a mezzo di condizioni generali

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proposte in testi contrattuali, moduli e formulari, con la conseguente applicazione degli artt. 1341 e 1342 e, per quanto riguarda le clausole vessatorie, degli artt. 33 e ss. del codice di consumo, ove – si intende – l’assicurato rivesta la qualità di consumatore. Il Codice delle assicurazioni, richiamate le norme del codice civile in quanto non derogate dalla legge speciale (art. 165), stabilisce particolari criteri di redazione prescrivendo che il contratto ed ogni altro documento consegnato dall’impresa al contraente devono essere redatti in modo chiaro ed esauriente (art. 166, primo comma); e che le clausole che prevedono decadenze, nullità o limitazioni delle garanzie ovvero oneri a carico del contraente o dell’assicurato devono essere riportate mediante caratteri di particolare evidenza (art. 166, secondo comma). Nella struttura del procedimento di formazione del contratto l’assicurato assume la veste di proponente la cui proposta è irrevocabile prima di un breve termine (art. 1887). L’assicuratore è obbligato a rilasciare al proponente un documento, la polizza di assicurazione (art. 1888, secondo comma), che può essere all’ordine o al portatore ed in questo caso il suo trasferimento importa il trasferimento del credito verso l’assicuratore (art. 1889). Generalmente è l’assicurato a stipulare nel suo interesse l’assicurazione. Il contraente può peraltro stipulare il contratto di assicurazione in nome di altri: se ha ricevuto regolare procura il contratto produrrà direttamente effetti nella sfera giuridica dell’assicurato secondo le norme sulla rappresentanza negoziale; se invece agisce senza potere l’interessato può ratificare il contratto anche dopo la scadenza o il verificarsi del sinistro (art. 1890, primo comma); mentre il contraente deve osservare gli obblighi derivanti dal contratto fin quando all’assicuratore non è stata comunicata la ratifica dell’interessato o il suo rifiuto (art. 1890, secondo comma). Il contraente può anche spendere il proprio nome ma contrarre nell’interesse altrui (il gestore di impianti di sci assicura l’acquirente dello skipass). Tale ipotesi è assimilata dal punto di vista disciplinare al caso in cui il contraente stipuli il contratto per conto di chi spetti, nell’interesse cioè del soggetto che si troverà esposto al rischio nel momento in cui si verificherà il sinistro: stabilisce l’art. 1891 che ove l’assicurazione sia stipulata per conto altrui o per conto di chi spetta il contraente è tenuto ad adempiere gli obblighi derivanti dal contratto ma non può esercitare i diritti contrattuali, che spettano all’assicurato, senza il consenso di questi. Il caso più rilevante e più frequente nella pratica in cui si verifica una separazione fra il soggetto che stipula l’assicurazione ed il soggetto nel cui interesse questa è stipulata, riguarda l’assicurazione sulla vita a favore di un terzo e ne parleremo più avanti quando tratteremo della assicurazione sulla vita (art. 1920).

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Si è detto che l’assicurazione è un contratto di durata. Norme specifiche disciplinano il termine iniziale, il termine finale e la sospensione dell’efficacia del contratto. Quanto alla decorrenza e alla sospensione dell’efficacia del contratto, la legge stabilisce che l’assicurazione ha effetto dalle ore ventiquattro del giorno della conclusione alla medesima ora dell’ultimo giorno della durata stabilita (art. 1899) ed a condizione che il premio sia pagato; ma se alle scadenze convenute il contraente non paga i premi successivi, l’assicurazione è sospesa ed il contraente ha quindici giorni per effettuare il pagamento (art. 1901). Quanto al tempo di durata del contratto, l’art. 1899 stabilisce che l’assicuratore, in alternativa ad una durata annuale, può proporre una durata poliennale a fronte di una riduzione del premio, e con facoltà dell’assicurato di recedere dopo un quinquennio.

41. La disciplina del rischio La disciplina del rischio, quale elemento indefettibile e caratterizzante il negozio in esame, presuppone che l’assicuratore ne conosca la consistenza per potersi determinare in ordine alla stipula del contratto; e tale conoscenza è rilevante sia nel momento della formazione del consenso sia durante la vita del contratto allorché una modificazione del rischio originario renda necessario verificare la corrispondenza delle mutate circostanze alla volontà e all’interesse dell’assicuratore. Sotto il primo profilo vengono in considerazione le dichiarazioni rese dall’assicurato al momento della conclusione del contratto e che incidono sulla rappresentazione del rischio da parte dell’assicuratore. Assumono così rilievo le dichiarazioni inesatte e le reticenze dell’assicurato che investano circostanze determinanti del consenso e pertanto tali che, se l’assicuratore le avesse conosciute, non avrebbe stipulato. È evidente che tali circostanze costitutive della volontà negoziale dell’assicuratore non possono che attenere alla valutazione della entità del rischio in rapporto alla determinazione del premio e alla stima di durata del contratto. La legge distingue. Se l’assicurato, nel rendere la dichiarazione inesatta o nel tacere circostanze rilevanti, ha agito con dolo o colpa grave, l’art. 1892 consente all’assicuratore di chiedere l’annullamento del contratto comunicando, a pena di decadenza, all’altro contraente la sua determinazione di voler impugnare il contratto entro il termine di tre mesi da quando ha avuto conoscenza della dichiarazione inesatta o della reticenza; e se il sinistro si verifica prima del decorso del termine trimestrale l’assicuratore è esonerato dall’obbligo di pagare il capitale assicurato.

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Se invece l’assicurato non è in dolo o colpa grave, ferma restando la necessità che la reticenza o la inesattezza della dichiarazione siano relative a circostanze idonee ad influire sul rischio, il contratto non è annullabile ma l’assicuratore può recedere comunicando la sua intenzione all’altro contraente nel termine di tre mesi dalla conoscenza del vizio. Il recesso, a differenza dell’annullamento, non ha effetto retroattivo cosicché, se il sinistro si verifica prima che sia decorso il suddetto termine o prima che l’assicuratore abbia conoscenza del vizio, quest’ultimo dovrà pagare ancorché la somma dovuta sia ridotta in proporzione della differenza tra il premio convenuto e quello che sarebbe stato applicato se egli avesse conosciuto il reale stato delle cose (art 1893). L’illustrata disciplina è diversa da quella prevista per l’errore e il dolo nella parte generale dei contratti sia quanto al fondamento normativo che va individuato nella violazione dell’obbligo precontrattuale gravante sull’assicurato di consentire una corretta descrizione dell’elemento essenziale del rischio, sia quanto alla regole specifiche che offrono al contraente vittima dell’azione dolosa o dell’errore una tutela più articolata e più ampia. Sotto il secondo profilo viene in considerazione l’esigenza di “stabilità” del rischio durante la vita del contratto. Il rischio è un elemento certo ed ineliminabile della causa del negozio (abbiamo visto che la sua inesistenza determina la nullità del contratto), ma è anche variabile e, nel corso della vita del contratto, può venir meno o modificarsi al variare degli elementi che lo rappresentano. Il suo venir meno, così come un suo aggravamento o una sua diminuzione determinano una correzione “commutativa” dell’alea del contratto consentendo ai contraenti, in particolare all’assicuratore, di ristabilire quell’equilibrio contrattuale che caratterizza anche quei contratti nei quali, come l’assicurazione, sia incerta l’entità dei vantaggi e dei sacrifici delle parti. Il contratto si scioglie se dopo la sua conclusione il rischio cessa di esistere (ad es. l’avvocato assicurato per i danni che potrebbe causare ai clienti nell’esercizio della sua attività, si cancella dall’albo e cessa l’attività professionale), ma l’assicuratore ha diritto alla riscossione dei premi finché non viene a conoscenza della causa che ha determinato il venir meno del rischio (art. 1896). Più complessa la disciplina della modifica del rischio in corso di contratto. La norma muove da un presupposto: una volta fissato il coefficiente di rischio al momento del contratto, una sua diminuzione nuoce al contraente che si trova a dover pagare un premio divenuto eccessivo perché non più adeguato al rischio ridotto; un aggravamento del rischio invece nuoce all’assicuratore, esposto al pagamento di una somma che non trova più adeguata giustificazione nell’entità dei premi divenuta insufficiente a sostenerlo. Se le parti non si accordano per apportare un adeguamento del premio al mutamento del rischio, la legge determina i diritti e gli obblighi delle parti,

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riconoscendo in ogni caso all’assicuratore la facoltà di sciogliersi dal vincolo contrattuale. L’interesse a comunicare la diminuzione del rischio fa capo ovviamente al contraente (per esempio una impresa di trasporti assicura contro l’incendio il trasporto di prodotti facilmente infiammabili come bombole di gas; poi converte la sua attività in trasporto di surgelati per alimenti); se l’assicurato comunica una variazione tale che, ove conosciuta, avrebbe portato alla stipulazione di un premio minore, l’assicuratore può esigere solo tale minor premio e in ogni caso ha facoltà di recedere dal contratto (art. 1897). L’interesse invece dell’assicuratore a conoscere i mutamenti che aggravano il rischio giustifica l’obbligo che l’art. 1898 pone a carico del contraente di comunicargli gli aggravamenti determinati da quelle circostanze che, ove esistenti e conosciute all’epoca della conclusione del contratto, avrebbero indotto l’assicuratore a non stipulare o ad esigere un premio maggiore (il contraente assicura la sua costosa auto di antiquariato contro il furto e contro atti vandalici, dichiarando di custodirla nell’unico box di cui dispone; a seguito di un procedimento di esecuzione il box viene venduto all’asta, l’assicurato ne perde la proprietà ed è costretto a posteggiare l’auto nella pubblica strada). In tal caso l’assicuratore non può esigere il premio più alto, ma ha facoltà di recedere dal contratto.

42. L’assicurazione contro i danni Come abbiamo osservato l’assicurazione si divide in due grandi settori, ciascuno dotato di un autonomo corpo normativo: l’assicurazione contro i danni, una particolare forma della quale è l’assicurazione della responsabilità civile dell’assicurato, e l’assicurazione sulla vita. L’assicurazione contro i danni costituisce un atto meramente previdenziale: l’assicurato cioè attraverso il contratto non si ripromette un lucro, non mira ad un arricchimento, semplicemente persegue lo scopo di proteggere i propri beni dal rischio di uno evento dannoso (quello di volta in volta dedotto nel contratto: il furto, un incendio, un allagamento) addossando all’assicuratore l’obbligo di tenerlo indenne della relativa perdita. È dunque un atto di cautela e di previdenza diretto a salvaguardare un valore ed il contratto non può costituire uno strumento per consentire alcun ulteriore vantaggio rispetto alla reintegrazione della perdita subita. Questa premessa spiega la soggezione della disciplina del contratto al c.d. principio indennitario secondo il quale l’indennizzo dovuto dall’assicuratore non può superare la misura del danno sofferto dall’assicurato.

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Tale principio trova ampio riconoscimento nella normativa del codice ed è stigmatizzato dalle norme che prevedono i limiti del risarcimento (art. 1905), l’interesse all’assicurazione (art. 1904) e il diritto di surrogazione dell’assicuratore (art. 1916). L’art. 1905, dopo aver stabilito che l’assicuratore è tenuto a risarcire il danno subito dall’assicurato in conseguenza del sinistro, dispone al secondo comma che l’assicuratore risponde del profitto sperato solo se a ciò si è espressamente obbligato. Questo limite posto alla obbligazione dell’assicuratore conferma la natura non risarcitoria della prestazione dell’assicuratore assolta dall’onere di realizzare quella integrale reintegrazione patrimoniale prevista dall’art. 1223, secondo il quale il risarcimento del danno deve comprendere sia la perdita subita come il mancato guadagno: se consideriamo – come probabilmente è – il profitto sperato di cui all’art. 1905 equivalente al mancato guadagno dell’art. 1223, dobbiamo necessariamente concludere che il danno patrimoniale che l’assicurato subisce in conseguenza del sinistro trova di regola un ristoro solo parziale, dal punto di vista risarcitorio, nella prestazione dell’assicuratore. Lo stesso principio non dovrebbe valere per l’assicurazione contro la responsabilità civile dell’assicurato. L’art. 1905 sembra infatti riferire il descritto limite indennitario al solo danno sofferto dall’assicurato (e non anche a quello risentito dal terzo danneggiato); inoltre l’art. 1917, come vedremo, stabilisce che l’assicuratore è obbligato a tenere indenne l’assicurato di quanto questi deve pagare al terzo in conseguenza del fatto generatore di responsabilità, ed è certo che l’assicurato-danneggiante è tenuto a risarcire al terzo tanto la perdita subita quanto il mancato guadagno; infine la ratio che sorregge la disposizione di cui all’art. 1905, ispirata dall’intento di impedire che il contratto di assicurazione possa costituire uno strumento speculativo in mano all’assicurato, viene meno o perde di peso nel caso in cui l’assicurato sia persona diversa dal beneficiario della prestazione risarcitoria. Al medesimo fine di impedire che il contratto di assicurazione si trasformi per l’assicurato in uno strumento per conseguire un vantaggio patrimoniale, si ispirano quelle norme dirette ad amministrare il rapporto fra valore della cosa assicurata e prestazione dell’assicuratore. Il valore della cosa assicurata (quello che le parti dichiarano all’atto del contratto e quello che viene accertato al momento del sinistro, valore che può non coincidere) determina sia l’entità del premio assicurativo sia la consistenza della prestazione indennitaria dell’assicuratore. L’assicuratore in caso di sinistro non sarà necessariamente tenuto a corri-

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spondere il valore della cosa dichiarato al momento del contratto (valore assicurato), ma il valore reale che le cose avevano al tempo del sinistro (che può rimanere inalterato, può diminuire ma può anche aumentare ed essere parimenti indennizzabile, si intende nei limiti del massimale assicurativo) (art. 1908, primo comma). Le parti possono peraltro stabilire il valore delle cose assicurate al momento della conclusione del contratto anche ai fini dell’accertamento del danno in caso di sinistro (polizza stimata): in questo caso l’assicuratore dovrà pagare il valore dichiarato (art. 1908, secondo comma). Ma se le parti hanno sovrastimato la cosa, e questa è stata perciò assicurata per una somma che eccede il valore reale accertato al momento del sinistro, l’assicuratore sarà tenuto alla prestazione corrispondente al valore reale della cosa e l’assicurato avrà diritto ad una riduzione del premio (art. 1909, primo comma); e se la sovrastima è dipesa da dolo dell’assicurato l’assicuratore potrà far annullare il contratto (art. 1909, secondo comma). Se invece le parti hanno sottostimato la cosa, e questa è stata perciò assicurata per una somma inferiore rispetto al valore accertato al momento del sinistro, cosicché l’assicurazione viene a coprire soltanto una parte di tale valore, l’assicuratore – salvo patto contrario – risponde dei danni in proporzione della parte suddetta e sarà tenuto a pagare il minor valore stimato della cosa; in tal modo egli, da un lato non è tenuto a risarcire i danni che eccedono il valore dichiarato, dall’altro, in caso di deterioramento o distruzione parziale della cosa, risponderà del danno in misura proporzionalmente ridotta (c.d. regola proporzionale) (art. 1907). Il principio indennitario e la funzione previdenziale del contratto trovano una conferma anche nell’art. 1904, il quale esige che l’assicurato abbia un interesse al risarcimento del danno. La norma intende evitare che l’assicurato, il cui patrimonio non sia esposto al rischio di alcun danno, possa trarre un vantaggio dal conseguimento di un indennizzo in difetto di qualsiasi pregiudizio: è il caso del proprietario che assicura un bene altrui (anche se non occorre essere proprietari del bene per avere interesse all’assicurazione, ma è sufficiente dover rispondere della cosa che, per esempio, si è ricevuta a titolo di comodato, o di deposito). Ove pertanto faccia difetto un interesse dell’assicurato “proprio e diretto” all’assicurazione, il contratto è nullo. Infine, se l’assicurato soddisfatto dall’assicuratore conservasse l’azione di danni nei confronti del terzo danneggiante e la esercitasse con successo si arricchirebbe perché conseguirebbe un duplice risarcimento: perciò l’art. 1916, primo comma stabilisce che l’assicuratore che abbia pagato l’indennità è, nei limiti di quanto ha pagato, surrogato nei diritti dell’assicurato verso i terzi responsabili.

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Nonostante il carattere fiduciario del contratto di assicurazione l’alienazione della cosa assicurata non importa automaticamente lo scioglimento del contratto (art. 1918, primo comma). La disciplina è tuttavia vantaggiosa per l’assicuratore: costui infatti, avuto notizia della avvenuta alienazione, può sempre recedere del contratto (art. 1918, quarto comma). Se l’acquirente, informato della esistenza del contratto, non dichiari all’assicuratore, a mezzo lettera raccomandata, entro il termine di dieci giorni dalla scadenza del primo premio successivo alla data di alienazione, di non voler subentrare nel contratto, il rapporto continua ed i diritti e gli obblighi dell’assicurato si trasferiscono all’acquirente (art. 1918, terzo comma); ove l’assicurato invece non comunichi né all’assicuratore l’avvenuta alienazione, né al terzo l’esistenza del contratto di assicurazione, rimane obbligato al pagamento dei premi successivi all’alienazione (art. 1918, secondo comma).

43. L’assicurazione della responsabilità civile L’assicurazione della responsabilità civile è un tipo particolare di assicurazione contro i danni: l’assicuratore si obbliga a tenere indenne l’assicurato di quanto questi, in considerazione del fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione, deve pagare a un terzo in dipendenza della responsabilità dedotta nel contratto; l’assicurazione non si estende ai fatti generatori di responsabilità che l’assicurato abbia posto in essere con dolo (art. 1917, primo comma). L’assicuratore può pagare direttamente al terzo ed ha l’obbligo di farlo se l’assicurato lo richiede; l’assicurato, convenuto in giudizio dal danneggiato, può chiamare in causa l’assicuratore per essere garantito (art. 1917, secondo comma). Abbiamo in precedenza osservato che l’assicurazione della responsabilità civile rappresenta non solo un atto di previdenza per il danneggiante ma anche un efficace strumento per rafforzare la tutela del terzo danneggiato il quale, piuttosto che fare incerto affidamento sul risarcimento del danneggiante che potrebbe non essere solvibile, può sicuramente conseguire il risarcimento dalla Compagnia di assicurazione. Per queste ragioni, in settori della società civile, del lavoro e dell’economia particolarmente esposti al rischio di danni, la legge impone a chi esercita tali attività l’obbligo di assicurarsi, introducendo pertanto forme di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile in grado di corrispondere in modo efficiente alla domanda di risarcimento delle vittime (si pensi al recente obbligo imposto agli avvocati di assicurarsi contro i danni prodotti ai clienti nell’esercizio della loro attività professionale; o a quello che grava sui gestori di impianti di risalita montani per i danni

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causati agli utenti dalle strutture o dalla inadeguata manutenzione degli impianti e delle piste). L’ipotesi di gran lunga più conosciuta, anche per le dimensioni del fenomeno, è costituita dalla responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti, la cui disciplina è oggi contenuta nel c.d. Codice delle assicurazioni private. Il terzo danneggiato ha azione diretta nei confronti dell’impresa assicuratrice (art. 144), il che rappresenta un’importante novità rispetto al meccanismo previsto e descritto nell’art. 1917; il danneggiato inoltre deve rivolgere la richiesta di risarcimento all’impresa di assicurazione che ha stipulato il contratto relativo al veicolo utilizzato, cioè alla propria assicurazione (art. 149, primo comma) la quale provvederà a formulare un’offerta di risarcimento ovvero a declinarla entro un breve termine (art. 148, n. 1); nel primo caso effettua la liquidazione dei danni per conto dell’impresa di assicurazione del veicolo responsabile, ferma la successiva regolazione dei rapporti fra le imprese (art. 149, n. 3). Il preminente interesse del danneggiato e la prioritaria esigenza di risarcimento delle vittime hanno indotto il legislatore a istituire un Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada (FGVS) gestito dalla CONSAP (art. 285); nel caso in cui, ad es., il danno sia stato prodotto da un veicolo non identificato o non coperto di assicurazione (art. 283), provvede alla liquidazione, con le risorse del Fondo, l’impresa assicurativa designata dall’IVASS (art. 286).

44. L’assicurazione sulla vita Nella assicurazione sulla vita l’assicuratore si obbliga, dietro corrispettivo di un premio, a corrispondere un capitale o una prestazione periodica avente ad oggetto una somma di danaro (rendita), al verificarsi di un evento attinente la vita umana. Si distingue tra assicurazione per il caso di vita e assicurazione per il caso di morte. Nella prima ipotesi l’assicuratore si obbliga al pagamento di un capitale ovvero di una rendita vitalizia a decorrere da un certo termine, per esempio dopo alcuni anni, al raggiungimento di una certa età (ma il pagamento della rendita potrebbe essere anche immediato e non differito nel tempo, ove il premio sia corrisposto in unica soluzione e le parti fissino la decorrenza della prestazione al momento della conclusione del contratto). Nella seconda ipotesi l’assicuratore si obbliga a pagare un capitale o una rendita alla morte dell’assicurato. Frequente è il caso di un’assicurazione mista (in cui l’assicuratore è obbligato alla prestazione assicurativa sia nel caso

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di vita sia in quello di morte dell’assicurato): alla scadenza della polizza il capitale o la rendita saranno attribuiti all’assicurato ove questi sia in vita; se invece l’assicurato sia morto prima della scadenza il capitale o la rendita saranno attribuiti alle persone preventivamente designate dall’assicurato medesimo. È evidente la natura previdenziale di questa forma di assicurazione sottratta al principio indennitario che domina invece l’assicurazione contro i danni. L’alea si coglie nella incertezza del tempo della morte, che rende invero indeterminato il rapporto fra l’ammontare dei premi pagati da un lato e l’ammontare del capitale o il numero delle rendite vitalizie corrisposte, dall’altro. Gli eventi che in questa forma di assicurazione possono aggravare o diminuire il rischio si riconducono alla maggiore o minore esposizione alla possibilità di morte dell’assicurato; per questo l’art. 1926 disciplina in dettaglio il cambiamento di professione dell’assicurato (per es. da impiegato comunale a guida soccorso alpino), e certamente anche le condizioni di salute possono rappresentare, a questo fine, eventi rilevanti ed incidenti sui richiamati profili “commutativi” del contratto in esame. È frequente nella pratica ed oggetto di specifica disciplina l’assicurazione sulla vita a favore di un terzo. L’assicuratore si obbliga a pagare, alla morte dell’assicurato, un capitale o una rendita a favore delle persone designate dall’assicurato medesimo nella polizza, o con successiva dichiarazione ovvero per testamento (art. 1920, primo e secondo comma). Il contratto ha la struttura di un vero e proprio contratto a favore di terzo (artt. 1411 ss.) ed invero per effetto della designazione il terzo acquista un diritto proprio ai vantaggi dell’assicurazione (art 1920, ultimo comma) e la designazione è irrevocabile allorché il beneficiario abbia dichiarato di voler profittare del beneficio (art. 1921, primo comma). Giova segnalare che il terzo beneficiario, al momento della morte dell’assicurato, acquista un diritto iure proprio e non iure successionis, che trova cioè fondamento non in una attribuzione mortis causa ma in un negozio inter vivos posto in essere dal contraente e dall’assicurato. La somma dovuta dall’assicuratore al beneficiario è dunque “resistente” sia alle azioni esecutive dei creditori dell’assicurato defunto (art. 1923, primo comma), sia alle istanze dei suoi eredi, anche legittimari, relative alla collazione, alla imputazione e alla riduzione delle donazioni. Gli uni e gli altri possono far valere le loro ragioni esclusivamente sui premi pagati (art. 1923, secondo comma). Fin qui della vita e della morte dell’assicurato. Ma ci si può assicurare anche sulla vita di un terzo: il secondo comma dell’art. 1919 stabilisce che perché l’assicurazione contratta per il caso di morte di un terzo sia valida occor-

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re che costui consenta alla conclusione del contratto; tale consenso infatti dovrebbe arginare e contenere il rischio che tale assicurazione possa costituire uno stimolo per l’assicurato all’omicidio del terzo al fine di incassare il capitale assicurato. Il mancato pagamento dei premi relativi al primo anno sospende l’assicurazione ed espone l’assicurato alla risoluzione del contratto; per gli anni successivi il potere dell’assicuratore di risolvere il contratto trova un limite nell’esercizio da parte dell’assicurato dei diritti di riscatto e di riduzione che le polizze debbono necessariamente regolare, affinché l’assicurato sia in grado in ogni momento di conoscere quale sarebbe il valore di riscatto o di riduzione dell’assicurazione (art. 1925). In caso di riscatto l’assicurato riceve una quota dei premi pagati ed il rapporto assicurativo termina; in caso di riduzione l’assicurato è esonerato dal versamento di premi ulteriori e la somma assicurata viene determinata in misura proporzionalmente ridotta.

Il Tema Il principio di buona fede, l’obbligo di diligenza e la responsabilità dell’assicuratore (Cass. 24 aprile 2015 n. 8412)

Il Caso Gli attori convennero davanti al Tribunale di Busto Arstizio una Compagnia di assicurazioni esponendo di avere stipulato due polizze di assicurazioni sulla vita a contenuto finanziario, ciascuna delle quali prevedeva versamenti semestrali per cinque anni e alla scadenza la rinnovazione del contratto o l’erogazione di una rendita al beneficiario. Deducevano quindi che, alla scadenza, richiesto il differimento del contratto, avevano appreso che il capitale ad essi spettante era inferiore ai premi versati e lamentavano che l’assicuratore, al momento della stipula, aveva tenuto una condotta scorretta, sottacendo agli assicurati sia l’esatto ammontare dei costi di gestione della polizza sia l’esistenza del rischio che il rendimento da essa garantito potesse essere inferiore al capitale versato dal contraente. Gli attori chiedevano pertanto la condanna della convenuta alla restituzione dell’eccedenza dei premi pagati rispetto al capitale maturato e al risarcimento del danno quantificato in misura corrispondente agli interessi legali sui premi versati. Il Tribunale di Busto Arstizio, in parziale accoglimento della domanda, con-

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dannò la Compagnia alla restituzione dei premi pagati dai contraenti in eccedenza rispetto al capitale maturato. Appellata la sentenza dalla Società soccombente, la Corte di Appello di Milano accoglieva il gravame e rigettava la domanda. La Corte del merito fondò la propria decisione sull’assunto che, all’epoca dei fatti, nessuna norma imponesse all’assicuratore di dichiarare all’assicurato i costi di gestione della polizza. La Corte di Cassazione ha annullato la sentenza della corte milanese e ha così motivato la sua decisione.

Il Giudizio Col primo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da una violazione di legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. Si assume violato l’art. 1337 c.c. Espongono, al riguardo, che la corte d’appello avrebbe errato nel ritenere che l’assicuratore non fosse obbligato dalla normativa di settore (individuata in una circolare dell’Isvap) ad una corretta ed esaustiva informazione nei confronti del contraente. Tale obbligo, per contro, esisteva ed era desumibile sia dalle norme generali sui contratti, sia dall’art. 1337 c.c. Il primo motivo di ricorso è fondato. La Corte d’appello di Milano ha affermato in iure che, nell’anno 2000, l’assicuratore non avesse alcun obbligo giuridico di informare il contraente dell’esistenza e dell’ammontare dei costi di gestione relativi ad una polizza sulla vita a contenuto finanziario. Ha soggiunto che la materia, a quell’epoca, era disciplinata dalla circolare Isvap 19 giugno 1995, n. 249, la quale non imponeva alcun obbligo in tal senso. Questa affermazione è erronea. All’epoca della stipula delle polizze oggetto del presente giudizio era in vigore, da cinquantotto anni, il codice civile. Il codice civile contiene gli art. 1175, 1176, 1337 e 1375 c.c. Queste norme, ovviamente già nel 2000, imponevano all’assicuratore prima della stipula del contratto: – di fornire informazioni esaustive; – di fornire informazioni utili; – di fornire informazioni chiare. L’art. 1175 c.c. impone al creditore ed al debitore di comportarsi con correttezza. Nella relazione ministeriale al codice civile si afferma che l’art. 1175 c.c. «richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore». Tale criterio di reciprocità, collocato nel quadro di valori introdotto dalla Carta costituzionale, deve essere inteso come una specificazione degli inderogabili doveri di solidarietà sociale imposti dall’art. 2 Cost.

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La sua rilevanza si esplica pertanto nell’imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, anche a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o legali. Il dovere di correttezza, in materia assicurativa, impone all’assicuratore ed ai suoi intermediari od incaricati due precisi obblighi: a) proporre ai contraenti non già contratti assicurativi purchessia, cioè genericamente ed astrattamente coerenti con la loro esigenza di previdenza o di risparmio, ma proporre prodotti assicurativi utili: cioè coerenti con il profilo di rischio (nell’assicurazione danni) o con gli intenti previdenziali (nell’assicurazione vita) del contraente; b) mettere il contraente in condizione di compiere una scelta consapevole, e dunque informarlo in modo esaustivo sulle caratteristiche del prodotto, nulla lasciando di occulto. Se, infatti, «correttezza» ex art. 1175 c.c. vuol dire adempiere la propria obbligazione avendo «il giusto riguardo all’interesse del creditore», quel dovere comporta che il debitore offra un servizio od un prodotto idoneo a soddisfare le esigenze del creditore. Ma un’assicurazione sulla vita a contenuto finanziario in tanto può soddisfare le esigenze del futuro creditore dell’indennizzo, in quanto questi sia stato messo a giorno di tutti gli elementi necessari a valutarne la convenienza. L’art. 1176 c.c. impone al debitore di adempiere la propria obbligazione con diligenza. La diligenza di cui all’art. 1176 c.c. è nozione che rappresenta l’inverso logico della nozione di colpa. Il debitore inadempiente non è infatti per ciò solo in colpa: quest’ultima sussisterà soltanto nel caso in cui il debitore non solo non abbia adempiuto la propria obbligazione, ma l’abbia fatto violando norme giuridiche o di comune prudenza. Le norme di comune prudenza cui è tenuto l’assicuratore, nell’adempimento delle proprie obbligazioni, sono quelle dell’homo eiusdem generis et condicionis (art. 1176, 2° comma, c.c.): vale a dire le regole che qualunque assicuratore saggio, prudente e zelante avrebbe osservato nelle medesime circostanze. L’assicuratore prudente e zelante, essendo per ciò solo rispettoso delle norme di legge, prima di proporre contratti assicurativi rispetta l’art. 1175 c.c.: e quindi, per quanto detto, offre contratti utili ed informa compiutamente il contraente sulle caratteristiche del contratto. Omettere queste informazioni, pertanto, costituisce una condotta «negligente» ai sensi dell’art. 1176, 2° comma, c.c. L’art. 1337 c.c. impone alle parti di comportarsi secondo buona fede non solo nello svolgimento delle trattative, ma anche «nella formazione del contratto». L’obbligo di buona fede durante le trattative può imporre, secondo le circostanze del caso, varie condotte, tra le quali: – informare la controparte su tutte le circostanze rilevanti relative all’affare; – usare espressioni chiare ed intelligibili; – non indurre la controparte a stipulare contratti inutili, invalidi, inefficaci o dannosi per la controparte.

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L’art. 1375 c.c., infine, impone ai contraenti di eseguire il contratto in buona fede. Tale obbligo, nei contratti di durata qual è l’assicurazione sulla vita, impone all’assicuratore il dovere di tenere informato il contraente sui costi che sta applicando per la riscossione dei premi e per la gestione della polizza, sino allo spirare del termine di efficacia di essa. I doveri di cui si è detto sin qui vanno adempiuti ovviamente in modo franco e senza sotterfugi. Ed è un sotterfugio pretendere di adempiere l’obbligo di informazione precontrattuale dichiarando alla controparte, come ha fatto l’assicuratore nel nostro caso, «io non ti do informazioni; però se vuoi puoi chiedermele». L’assicuratore infatti deve dare informazioni, non sollecitare domande: per la semplice ragione che colui il quale non possiede le necessarie nozioni per la valutazione d’un contratto assicurativo, ben difficilmente sarà in grado di ideare domande sensate e pertinenti rispetto ai propri interessi. Da quanto esposto consegue l’erroneità in iure dell’ulteriore argomento speso dalla corte d’appello, secondo cui il deficit di informazione in cui è incorsa la RB nei confronti dei ricorrenti sarebbe sanato dalla loro rinuncia ad avvalersi della facoltà di porre domande all’intermediario. Alla luce di quanto esposto deve dunque concludersi che il dovere di un’informazione esaustiva, chiara e completa, e quello di proporre al contraente polizze assicurative realmente utili per le esigenze dell’assicurato, sono doveri primari dell’assicuratore e dei suoi intermediari o promotori. Tali doveri scaturiscono dagli art. 1175, 1337 e 1375 c.c.; e la loro violazione costituisce una condotta negligente, ai sensi dell’art. 1176, 2° comma, c.c. I doveri di cui si è appena detto hanno portata generale, ed in quanto dettati da norme di legge, prevalgono sulle norme regolamentari, quali i regolamenti dell’autorità di vigilanza, ed a fortiori sulle indicazioni contenute in atti addirittura privi di potere normativo, quali le circolari dell’autorità amministrativa. La Corte d’appello di Milano ha violato questi principî, in due modi: – da un lato, trascurando di applicare le norme codicistiche sopra ricordate; – dall’altro, attribuendo ad una circolare dell’Isvap il ruolo di norma esaustiva della disciplina di settore, traendo così l’erronea conclusione che quel che non sia imposto dalla circolare, non sia per ciò solo necessario. La sentenza va dunque cassata con rinvio alla Corte d’appello di Milano, che nel riesaminare il caso si atterrà al principio di diritto su esposto.

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SEZIONE XII: IL CONTRATTO DI TRANSAZIONE 45. La transazione in generale La transazione è il contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già cominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro (art. 1965, primo comma). Presupposto del contratto è l’esistenza di una lite (cioè di una controversia giudiziaria), presente o futura, un conflitto di pretese relativo ad una questione controversa che si configura pertanto incerta avuto riguardo alla diversa valutazione delle parti. Elemento essenziale del contratto, la cui mancanza fa venir meno la causa, è l’esistenza delle reciproche concessioni: ciascuna parte cioè acconsente alla soddisfazione parziale delle pretese dell’altra e ritiene soddisfacente una realizzazione incompleta di quelle proprie. Ad esempio le parti controvertono circa la ricorrenza dei gravi motivi che legittimano il conduttore di un immobile adibito ad uso non abitativo a recedere anticipatamente dal contratto di locazione: il conduttore, invocando la ricorrenza dei gravi motivi, pretende di sciogliersi dal contratto dopo il primo anno di locazione al termine del preavviso semestrale; il locatore, negando che le ragioni addotte dal conduttore costituiscano gravi motivi che legittimano il recesso anticipato, pretende invece di essere tenuto indenne del costo della locazione fino alla scadenza contrattuale. Le parti transigono la controversia stabilendo, ad esempio, la risoluzione del contratto con obbligo del conduttore di corrispondere una somma di danaro inferiore all’ammontare totale dei canoni relativi alla intera residua durata del contratto. Possiamo dunque affermare che la transazione elimina, a mezzo delle reciproche concessioni che le parti vicendevolmente si fanno riguardo alle rispettive pretese, quella situazione di incertezza determinata dalla divergente valutazione di un rapporto giuridico comune, fonte della lite. Perciò, ove la concessione non sia reciproca ma solo unilaterale, non vi sarà transazione ma potrà esservi semplice rinuncia; ed ove manchi del tutto il requisito delle reciproche concessioni, sia o meno insorta una lite, parimenti non si avrà una transazione ma potrà configurarsi un contratto diverso, atipico, e consolidato nella tradizione giuridica, noto come negozio di accertamento attraverso il quale le parti eliminano l’incertezza ed accertano una determinata situazione giuridica (ad es. fissano in un nuovo negozio il significato incerto di una clausola contrattuale).

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La questione controversa, una volta transatta, non può più essere messa in discussione ed in linea di massima ne è precluso il riesame giudiziale.

46. L’impugnazione della transazione L’impugnazione per errore di fatto o di diritto è dunque prevista in casi determinati. Così la transazione può essere annullata se è stata fatta sulla base di documenti di cui successivamente sia stata riconosciuta la falsità (art. 1973) o di cui una parte ignorava l’esistenza quando l’altra parte li abbia occultati (art. 1975). La transazione può essere anche impugnata qualora abbia ad oggetto un contratto illecito e, quando sia relativa ad un titolo altrimenti nullo, ad istanza della parte che tale nullità ignorava (art. 1972); ovvero quando sulla lite oggetto della transazione si sia già pronunciato un giudice con sentenza passata in giudicato (art. 1974). La preclusione dell’impugnazione della transazione per errore di diritto relativo alle questioni che sono state oggetto di controversia tra le parti, è proclamata dall’art. 1969 ed è specificata nell’art. 1970, che la esclude nel caso di lesione ultra dimidium (la previsione esplicita si giustifica perché le reciproche concessioni possono legittimamente superare le proporzioni presidiate dalla norma sulla rescissione per lesione, né d’altro canto sarebbe possibile accertare la ricorrenza degli ulteriori presupposti dell’azione essendo la relativa indagine preclusa proprio dalla transazione); essa trova ulteriore conferma proprio nell’art. 1971 che consente alla parte di impugnare la transazione in caso di pretesa temeraria dell’altra solo quando questa sia consapevole di tale temerarietà (nel giudizio di impugnazione sarà pertanto necessario dimostrare sia il carattere temerario della tesi sostenuta dalla controparte, e cioè la assoluta infondatezza della pretesa giuridica in relazione alla situazione di fatto, sia la conoscenza che essa ne aveva al momento della transazione).

47. Transazione novativa La legge non trascura di disciplinare l’effetto che la transazione ha sul rapporto originario. Ove le parti non abbiano diversamente stabilito la transazione non ha effetto novativo non comporta cioè l’estinzione del precedente rapporto: con la conseguenza che, in caso di inadempimento, le parti possono chiedere la risoluzione della transazione (arg. ex art. 1976) e riattivare la lite originaria sulla vicenda che era stata oggetto della transazione. È la stessa legge a prevedere che le parti assegnino invece alla transazione efficacia no-

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vativa stabilendo espressamente che le reciproche concessioni siano dirette a creare, modificare o estinguere, oltre al rapporto originario, anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti (art. 1965, secondo comma). In questa ipotesi il raggio di azione della transazione è molto ampio ed ove le parti abbiano inteso estinguere il rapporto preesistente la risoluzione della transazione per inadempimento non può essere richiesta, a meno che le parti non abbiano espressamente previsto il diritto alla risoluzione (art. 1976). La capacità negoziale per stipulare la transazione è stabilita per relationem, con riferimento cioè alla capacità necessaria per l’esercizio dei diritti che formano oggetto della transazione (art. 1966, primo comma); inoltre i diritti regolati con la transazione non debbono appartenere alla categoria dei cc.dd. diritti indisponibili come lo sono molti di quelli inerenti ai rapporti familiari personali (riconoscimento di un figlio naturale) e patrimoniali (diritto agli alimenti), o come quelli spettanti al lavoratore in base a disposizioni inderogabili di legge o di contratto collettivo (art. 1966, secondo comma). La transazione è soggetta a forma scritta ad probationem (art. 1967); ma se la transazione ha ad oggetto controversie relative a diritti immobiliari è necessaria la forma scritta sotto pena di nullità (art. 1350 n. 12).

Il Tema Transazione novativa (Cass. Ordinanza 9 dicembre 2019 n. 32109)

Il Caso Il caso riguardava un contratto preliminare stipulato tra le parti nel dicembre 2001 avente oggetto un complesso immobiliare. In seguito all’insorgere di un contenzioso sul suo adempimento e sulla conseguente risoluzione intervenne, nel’ottobre del 2011, una transazione che prevedeva, in luogo del trasferimento della proprietà dell’immobile, la cessione delle quote della società promittente, con una sostituzione integrale del precedente rapporto. Le parti, inoltre, avevano espressamente convenuto il diritto di chiedere la risoluzione per inadempimento del contratto ai sensi dell’art. 1976 c.c. Il Tribunale di Velletri, accertato l’inadempimento del promissario acquirente, pronunciava la risoluzione del preliminare. La Corte di appello, ritenuto il carat-

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tere novativo della transazione, dichiarava cessata la materia del contendere e riformava la sentenza del Tribunale. Il promittente venditore ricorreva per cassazione sulla base di quattro motivi, ai quali l’acquirente resisteva mediante controricorso. La S.C. rimprovera alla Corte di merito, che pure aveva correttamente assegnato carattere novativo alla transazione, di non avere attribuito rilievo alla clausola che contemplava la possibilità di risolvere la transazione; in questo contesto la S.C. traccia e conferma le differenze fra transazione semplice e transazione novativa. Invero dal carattere novativo o meno della transazione intervenuta fra le parti dipende la vitalità o la irreversibile distruzione del rapporto preesistente. Si ricorderà che di regola la transazione non ha carattere novativo, cosicché in caso di inadempimento della prestazione prevista nella transazione, trova applicazione il rimedio della risoluzione. Se invece le parti hanno inteso assegnare alla transazione natura novativa l’impossibilità di far rivivere il vecchio rapporto determina la impossibilità di esperire il rimedio risolutorio, a meno che le parti non lo abbiano espressamente contemplato; con la conseguenza che la parte non inadempiente può richiedere soltanto l’esatto adempimento del nuovo accordo ed i danni conseguenti all’inadempimento (sempre che – come osservato – i contraenti non abbiano anche in questo caso espressamente previsto la risoluzione della transazione). Se le parti di un contratto di vendita convengono il prezzo di un bene in 1000 euro e, per effetto di alcuni vizi che la cosa presentava, nasce una controversa e si accordano su un prezzo minore di 800 euro, in caso poi di inadempimento, se la transazione è novativa, è possibile richiedere solo l’importo indicato in transazione (e non si ammette alcuna risoluzione che avrebbe l’effetto, cancellando la transazione, di far rivivere la situazione precedente); se, al contrario, la transazione non è novativa è dovuto l’intero importo indicato nel contratto precedente alla transazione (in conseguenza della risoluzione, che è ammessa e che determina la reviviscenza della originaria pretesa). Proposto ricorso per cassazione dalla Società venditrice, la S.C. così motiva la sua decisione:

Il Giudizio I quattro motivi devono essere scrutinati unitariamente, perché connessi nello stigmatizzare che il giudice d’appello abbia interpretato come novativa la transazione del 13 ottobre 2011 e ne abbia fatto derivare la cessazione della materia del contendere sul giudizio inerente il preliminare del 10 dicembre 2001. A norma dell’art. 1976 c.c., “la risoluzione della transazione per inadempimento non può essere richiesta se il rapporto preesistente è stato estinto per novazione, salvo che il diritto alla risoluzione sia stato espressamente stipulato”; invero, “se il rapporto

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preesistente è stato estinto per novazione”, la transazione è novativa, elide il rapporto originario e quindi “la risoluzione della transazione per inadempimento non può essere richiesta”. Con la clausola di chiusura “salvo che il diritto alla risoluzione sia stato espressamente stipulato”, il legislatore ha inteso tuttavia precisare che l’inadempimento della transazione novativa “non può far rivivere rapporti definitivamente estinti se non quando la volontà di entrambe le parti abbia subordinato all’effettivo adempimento l’estinzione medesima” (Relazione cod. civ., n. 773); in dottrina, il patto di risolubilità della transazione novativa è inteso come un accordo di “quiescenza”, diretto a tenere in sospeso il rapporto originario, sino all’effettivo adempimento della transazione novativa, quiescenza che si correla ad una condizione sospensiva, giacché il rapporto originario si estingue solo se, e quando, la transazione novativa è adempiuta. In linea generale, la transazione novativa, stipulata tra le parti in causa e avente ad oggetto il rapporto obbligatorio dedotto in giudizio, determina la cessazione della materia del contendere, appunto per l’effetto estintivo che essa ordinariamente dispiega sul rapporto originario. Quand’anche la transazione abbia carattere novativo, tuttavia, cioè quand’anche essa obiettivamente sostituisca al precedente un nuovo rapporto obbligatorio, non può il giudice far da essa discendere la declaratoria di cessazione della materia del contendere sul rapporto originario, ove le parti abbiano espressamente stipulato il diritto alla risoluzione, a norma dell’inciso finale dell’art. 1976 c.c. Occorre assicurare continuità al precedente di legittimità, pur non recente, secondo il quale, ove in una transazione avente carattere novativo sia pattuita la clausola risolutiva espressa per il caso di inadempimento, il verificarsi della condizione risolutiva determina la completa reviviscenza del rapporto originario antecedente alla risolta transazione. Nella specie, il giudice d’appello ha rimarcato la connotazione novativa della transazione del 13 ottobre 2011, desumendola dal mutamento oggettivo della prestazione traslativa rispetto al preliminare del 1° dicembre 2001, prestazione ormai relativa non più all’immobile, bensì alle quote della società proprietaria. Tuttavia, il giudice d’appello non ha dato il giusto valore interpretativo alla clausola della transazione medesima, secondo la quale “le parti espressamente convengono il diritto di ciascuna di esse di chiedere la risoluzione per inadempimento del presente contratto ai sensi dell’art. 1976 c.c.”: patto di risolubilità che, come sopra veduto, ha l’effetto di tenere quiescente il rapporto originario, impedendone l’estinzione immediata, ad onta del carattere novativo della transazione. Peraltro, la transazione del 13 ottobre 2011 ospita anche una clausola di salvezza dei giudizi in corso, dei quali si prevede l’abbandono solo ad effettivo adempimento dei nuovi obblighi. Riflettendo anch’essa la quiescenza del rapporto originario, questa clausola di salvezza deve essere messa a sistema col citato patto di risolubilità. Il giudice d’appello, invece, separando l’una clausola dall’altra, si è arrestato ad un’interpretazione “atomistica” del testo negoziale, violando il canone ermeneutico di cui all’art. 1363 c.c.

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Il ricorso va accolto e la sentenza cassata, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, che si uniformerà al seguente principio di diritto: “la transazione novativa stipulata tra le parti in causa e avente ad oggetto il rapporto obbligatorio dedotto in giudizio non determina la cessazione della materia del contendere qualora contenga l’espressa pattuizione del diritto delle parti alla risoluzione per inadempimento della transazione medesima, giacché questa pattuizione, secondo l’inciso finale dell’art. 1976 c.c., impedisce l’estinzione immediata del rapporto originario e lo tiene in stato di quiescenza sino all’effettivo adempimento della transazione novativa; solo l’adempimento della transazione determina l’effettiva estinzione del rapporto originario, mentre la risoluzione della stessa per inadempimento comporta la reviviscenza del medesimo rapporto”.

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SEZIONE XIII: IL CONTRATTO DI DONAZIONE 48. La donazione in generale La ragione per la quale il legislatore ha ritenuto di “delocalizzare” la sede disciplinare della donazione, collocandola anziché nel titolo III del libro IV dedicato ai singoli contratti, nel titolo V del libro II che tratta delle Successioni, sta nella disciplina spesso comune che il contratto di donazione presenta con il negozio testamentario e con il regime successorio in generale. Questa condivisione di regole si spiega perché l’attribuzione patrimoniale che trova titolo nella successione (ad es. nel testamento) è, al pari di quella che si fonda sulla donazione, un’attribuzione non solo a titolo gratuito, incompatibile con la presenza di un corrispettivo, ma anche liberale. Va precisato però che l’atto mortis causa non trova propriamente giustificazione in una liberalità: può accadere infatti che il valore del legato sia totalmente assorbito da un onere e che le passività ereditarie superino le attività. La definizione che ne dà l’art. 769 è la seguente: “La donazione è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione”. La donazione è dunque un contratto (salvo ipotesi particolari di cui poi diremo) per la perfezione del quale è sufficiente il consenso e che postula dunque l’accettazione del donatario. Ognuno ha infatti diritto di far proprie o di respingere anche le attribuzioni vantaggiose che incrementano il suo patrimonio senza alcun corrispettivo, accettando o meno l’attribuzione elargita a mezzo di un contratto (come nel caso della donazione o del comodato), ovvero rifiutando i benefici che gli derivano da un negozio unilaterale da altri posto in essere (contratti a favore di terzo, contratti con obbligazioni del solo proponente) e che, in caso di mancanza di rifiuto, restano acquisiti al patrimonio dell’oblato. Il contratto consensuale di donazione ha in genere effetti reali (donazione reale), produce cioè l’acquisto del diritto donato in capo al donatario (che può essere un diritto reale, trasferito o costituito ex novo, o un diritto di credito), ma può avere anche effetti obbligatori (donazione obbligatoria) ed in questo caso si perfeziona con la nascita di una obbligazione in capo al donante nei confronti del donatario. Ciò si deduce dalle modalità con le quali

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la norma descrive l’effetto contrattuale che consiste nell’arricchimento dell’altra parte: il donante dona disponendo di un suo diritto in favore del donatario ovvero assumendo un’obbligazione verso di lui. In entrambi i casi tanto la prestazione dispositiva quanto quella obbligatoria devono consistere in una prestazione di dare. Soltanto l’obbligazione di dare è in grado di assicurare la necessaria simmetria fra incremento del patrimonio del donatario (arricchimento) e depauperamento del patrimonio del donante, che descrive l’effetto donativo. Le prestazioni di fare non incidono, nel senso anzidetto, sul patrimonio del donante, non ne cagionano una diminuzione: tale non è lo svolgimento di un’attività lavorativa senza compenso, un mandato gratuito o un trasporto senza corrispettivo (non assumendo rilievo né la rinuncia al profitto dell’autore della prestazione né il risparmio di spesa del beneficiario). Non è donazione neanche l’adempimento del terzo, che certo soddisfa il creditore, ma estingue un debito che già esisteva nel patrimonio del debitore il quale pertanto rimane esposto all’azione di restituzione del terzo che abbia adempiuto (l’adempimento del terzo può peraltro integrare una liberalità ove il terzo non si surroghi nei diritti del creditore ovvero rinunci all’azione di restituzione). La gratuità della prestazione di dare non è peraltro sufficiente perché si abbia donazione: come vedremo molti sono i contratti a titolo gratuito che prevedono prestazioni di dare (comodato) diversi dal tipo donazione. Ulteriore elemento descrittivo della sostanza della fattispecie donativa (oltre a quelli finora esaminati, e cioè: natura contrattuale del negozio, elemento dell’arricchimento, titolo gratuito dell’attribuzione e assenza di corrispettivo, necessità che la prestazione sia relativa ad un dare, effetto dell’atto consistente nella disposizione di un diritto ovvero nell’assunzione di obbligazione) è rappresentato dalla natura liberale della attribuzione patrimoniale. La liberalità costituisce una nota caratteristica ed individualizzante la donazione, è l’anima stessa del contratto, la sua causa, anche se tale elemento può risultare insufficiente a qualificare il tipo donazione (liberalità non donative). Dobbiamo tuttavia muovere da questo importante ed imprescindibile requisito del contratto di donazione (lo spirito di liberalità, l’animus donandi) per tracciare le linee che consentiranno di tenere separata la donazione da altri negozi che con questo contratto condividono ora il carattere gratuito (negozi a titolo gratuito), ora quello liberale (liberalità non donative) e ora l’effetto proprio dell’arricchimento (donazioni indirette).

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49. Donazione e liberalità Il rapporto che corre fra atti di liberalità e donazione è un rapporto non di sovrapposizione assoluta ma di parziale corrispondenza: ogni donazione è un atto di liberalità, ma non ogni liberalità è donazione. Prima di indicare i criteri sui quali può fondarsi la distinzione fra donazione ed atti di liberalità, distinzione consacrata a livello normativo nell’art. 809, dobbiamo soffermarci sul carattere della liberalità. La liberalità innanzitutto, trattandosi di contratto, deve essere condivisa dalle parti: il donante effettua consapevolmente e spontaneamente un atto che impoverisce il proprio patrimonio e arricchisce quello del donatario; quest’ultimo condivide e partecipa alla attribuzione liberale attraverso la sua coerente accettazione (il donatario ad esempio non deve pensare che una certa somma costituisca la ricompensa per una mediazione immobiliare svolta in favore del donante). La liberalità, inerendo alla causa del contratto, è indipendente e compatibile con i mille motivi che possono spingere l’autore ad effettuarla e che possono essere informati a puro altruismo o a evidente convenienza: così la liberalità può essere sorretta da moventi di affetto, di amicizia, di carità, e ispirata a ragioni di solidarietà sociale, di gratitudine, di mecenatismo, ma anche di utilità, di tornaconti personali, di fiducia che l’atto posto in essere possa in futuro essere fonte di vantaggi patrimoniali rivenienti da terzi o dello stesso donatario. Il carattere spontaneo della liberalità investe non solo la esecuzione materiale della prestazione ma anche la ragione stessa che spinge l’autore a porla in essere e dunque esclude qualsiasi costrizione, tanto giuridica (che la risolverebbe nell’adempimento di una obbligazione) quanto solo morale (che la risolverebbe nell’adempimento di una obbligazione naturale). Pertanto la liberalità non può essere dedotta in un contratto preliminare, da cui nasce l’obbligo giuridico di contrattare, né può formare oggetto di una obbligazione naturale, che costituisce adempimento di un dovere morale o sociale. La liberalità impone cautele sia in ordine all’oggetto della donazione sia in ordine alla individuazione della persona del donatario: sotto il primo profilo la donazione può comprendere solo i beni presenti del donante ed è nulla la previsione che investa anche i beni futuri (art. 771) o che non siano di proprietà del donante (donazione di beni altrui); il donante può peraltro riservarsi la facoltà di disporre di taluni beni ricompresi nella donazione (art. 790). Sotto il secondo profilo la natura personale della donazione ha indotto il legislatore a sanzionare con la nullità il mandato con cui si attribuisce ad altri la facoltà di designare la persona del donatario o di determinare l’oggetto della donazione (art. 778, primo comma), mentre è possibile attribuire ad

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un terzo la facoltà di scegliere il donatario tra più persone designate dal donante o una cosa tra più cose indicate o entro i limiti di valore determinati dal donante stesso (art. 778, secondo e terzo comma).

50. La donazione remuneratoria Un particolare tipo di movente della liberalità, quello remunerativo, è stato espressamente considerato dal legislatore che, nell’art. 770, primo comma, qualifica non solo liberalità ma donazione l’attribuzione fatta per riconoscenza (perché, ad esempio, il donatario mi ha assistito nel decorso di una grave malattia) o in considerazione dei meriti del donatario (un volontario che si è generosamente speso nell’opera di soccorso dopo un terremoto) o per speciale remunerazione (di chi si è impegnato con successo nella difesa di un animale a rischio di estinzione). Qui la remunerazione cessa di essere un semplice movente dell’azione e penetra nella struttura causale dell’atto, al quale conferisce la duplice natura di munus e di donatum, e questa è la ragione per la quale – come vedremo – molte norme dettate per la donazione “pura” non si applicano a quella remuneratoria, soggetta a misure coerenti con la parziale dimensione “corrispettiva” del negozio, come quella – ad esempio – che ne stabilisce la irrevocabilità (art. 805).

51. Liberalità non donative Hanno natura liberale ma non donativa, e sono dunque sottratte all’applicazione della disciplina della donazione, le c.d. liberalità d’uso (art. 770, secondo comma; art. 809, secondo comma), quelle cioè che è costume fare in occasione di servizi resi (un compenso al facchino dell’albergo che ci porta i bagagli) o in conformità agli usi (un regalo in occasione del compleanno). Prive del carattere donativo sono anche molte altre figure negoziali che di fatto vengono impiegate dalle parti per realizzare una attribuzione patrimoniale liberale: si tratta delle liberalità non donative o liberalità atipiche, che si hanno ogni qualvolta si ricorre ad un negozio (ad es. riconoscimento di un debito, o rinuncia a un credito, pagamento di un debito altrui, finanziamento dell’acquisto di un immobile), per raggiungere un fine diverso rispetto a quello proprio del negozio prescelto, cosicché l’atto viene a conseguire indirettamente un effetto liberale (negozio indiretto); di qui il nome spesso utilizzato di donazioni indirette. La legge dà prevalenza al concreto fine realizzato piuttosto che allo schema formale utilizzato, e pertanto assoggetta le li-

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beralità atipiche o non donative a molte delle norme che regolano la donazione, come quelle in tema di revocazione per ingratitudine o sopravvenienza di figli, e di riduzione ove il loro valore ecceda la quota di cui il defunto poteva disporre (art. 809, secondo comma).

52. Liberalità e gratuità Su un altro versante occorre osservare che se la liberalità è sempre atto a titolo gratuito, e spesso – come si è visto – costituisce donazione, l’atto a titolo gratuito invece non è sempre liberalità né tanto meno donazione, pur essendo la donazione sempre un atto a titolo gratuito, anzi il più importante tra questi. L’elemento della gratuità si risolve nell’assenza di un corrispettivo ma non comporta necessariamente un arricchimento dell’altra parte; inoltre e soprattutto, a differenza dell’atto gratuito che è caratterizzato da un interesse patrimoniale del disponente, affinché un negozio possa qualificarsi liberale, è essenziale la natura non patrimoniale dell’interesse di chi lo pone in essere (così, per escludere il carattere liberale della remissione del debito del socio in favore della società, si è argomentato dalla natura patrimoniale dell’interesse del socio a ridurre i debiti della società cui partecipa). Sono atti a titolo gratuito, ma non costituiscono donazioni né necessariamente liberalità, tutti quei contratti tipici che sono essenzialmente gratuiti (come il comodato, che non tollera la presenza di un corrispettivo) o che possono essere gratuiti (come il deposito, il mutuo, il trasporto, il mandato); ovvero negozi atipici (come la distribuzione gratuita di prodotti di cosmetica, o quella di gadget in una rappresentazione artistica). Tali negozi, che non danno luogo alla figura della donazione tipica, per la quale occorrono i requisiti sostanziali sopra indicati, e quelli formali di cui subito diremo, potrebbero dar luogo a liberalità non donative ove naturalmente fosse riscontrabile lo spirito di liberalità. Il carattere della gratuità può coesistere con quello della onerosità in una struttura unitaria, il c.d. negozio mixtum cum donatione, allorché la vendita sia effettuata ad un prezzo decisamente al di sotto di quello di mercato ed il donante sia animato da spirito di liberalità; l’elemento che sembra dominante nella funzione di tale negozio, nonostante la innegabile presenza di un corrispettivo, sia pure tenue, è costituito dalla gratuità e dalla liberalità dell’atto, cosicché a nostro avviso il negozio in esame costituisce una liberalità atipica sottoposta alla relativa disciplina.

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53. La disciplina della donazione Delineati i parametri che consentono di individuare le affinità ma anche e soprattutto le diversità dei concetti di gratuità e di liberalità, e la collocazione in questo ambito della figura della donazione, dobbiamo ora illustrare la disciplina, assai articolata, della fattispecie contemplata nell’art. 769. La donazione è un atto solenne: non solo deve essere fatta per atto pubblico sotto pena di nullità ma, ove sia stipulata per atto di notaio, richiede l’assistenza di due testimoni, ai quali le parti non possono rinunciare. Questo rigore formale ha una funzione di tutela del donante: intende cioè richiamare la sua attenzione sulla gravità delle conseguenze che derivano da un atto irrimediabile ed inconsueto come lo spogliarsi senza corrispettivo alcuno di un proprio diritto patrimoniale. Se ha per oggetto cose mobili queste devono essere specificate e ne deve esser indicato il valore (art. 782). Il meccanismo di formazione della volontà contrattuale deroga al principio generale che governa la formazione del contratto nei contratti con obbligazioni a carico del solo proponente (c.d. contratti unilaterali): stabilisce infatti il secondo comma dell’art. 782 che se l’accettazione è fatta con atto pubblico posteriore alla proposta la donazione si perfeziona con la notifica dell’accettazione al donante; con la conseguenza che prima di tale momento sia il donante che il donatario possono revocare le loro dichiarazioni (art. 782, terzo comma). Al contrario, in base all’art. 1333, la proposta è irrevocabile appena giunge a conoscenza del destinatario mentre il contratto si perfeziona con il mancato rifiuto dell’oblato. Tanto la struttura bilaterale del contratto quanto la regola della forma ad substantiam subiscono un’importante deroga. Sotto il primo profilo la donazione in riguardo di un determinato futuro matrimonio (c.d. donazione obnuziale) fatta dagli sposi fra di loro o da un terzo in favore di uno o di entrambi gli sposi o dei loro figli nascituri, si perfeziona senza bisogno che sia accettata e dunque ha struttura di negozio unilaterale. Tale donazione, perfetta con la semplice dichiarazione di volontà del donante, produce i suoi effetti se e quando segua il matrimonio (fatta salva naturalmente la facoltà di rifiutare il beneficio, che riceve una disciplina articolata quando i donatari sono più d’uno ovvero quando è un figlio nascituro, e ciò in relazione alla pluralità dei beneficiari e alla tutela dei minori) (art. 785, primo comma). Si tratta dunque di una donazione sottoposta alla condizione sospensiva dell’avvenuto matrimonio; e la successiva dichiarazione di nullità del matrimonio determina una singolare ipotesi di inefficacia sopravvenuta della donazione obnuziale. Può essere che tra il giorno del matrimonio ed il passaggio in giudicato della sentenza che ne dichiari la nullità i

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beni donati siano stati trasferiti a terzi: l’azione di nullità non travolge i diritti che in questo arco di tempo i terzi abbiano acquistato in buona fede (art. 785, secondo comma). Sotto il secondo profilo l’art. 783, primo comma, stabilisce che la donazione di modico valore avente ad oggetto beni mobili è valida anche se manca l’atto pubblico, purché vi sia stata la tradizione. Tale donazione non richiede quindi alcun requisito di forma, ma postula l’avvenuta consegna (di qui anche il nome di donazione manuale) dalla quale dipende l’esistenza stessa del contratto: siamo dunque in presenza di un contratto reale che re perficitur. La modicità della donazione deve essere valutata anche in relazione alle condizioni economiche del donante (art. 783, secondo comma); si capisce quindi che con tale negozio possono essere trasferiti anche valori non indifferenti allorché il donante sia persona facoltosa (il proprietario di una ricca pinacoteca del barocco italiano, dona due celebri quadri d’autore). Per questa ragione la donazione di modico valore è soggetta a riduzione e a collazione; mentre solo quella fatta al coniuge è esclusa dalla collazione (art. 738). L’attribuzione patrimoniale compiuta in favore del donatario non ha la medesima stabilità che consegue alle attribuzioni patrimoniali corrispettive ed in numerose ipotesi l’intero valore della donazione può venir meno o essere esposto a misure di salvaguardia della posizione del donante. Vengono qui in considerazione la già ricordata riserva di disposizione con la quale il donante conserva la facoltà di disporre di taluno dei beni compresi nella donazione (art. 790) e la condizione di reversibilità in base alla quale i beni tornano in proprietà del donante qualora il donatario o i suoi discendenti muoiano prima del donante stesso (art. 791). Quest’ultima è in sostanza una condizione risolutiva per effetto della quale gli effetti del contratto si risolvono al verificarsi dell’evento previsto (premorienza del donatario): stabilisce infatti l’art. 792 che il patto di reversibilità produce l’effetto di risolvere tutte le alienazioni dei beni donati facendoli ritornare al donante. Oltre alla disposizione di taluno dei beni donati, oggetto di riserva, da parte del donante e alla premorienza del donatario o dei suoi discendenti, altri due fatti, sopravvenuti alla stipula del contratto, possono far venir meno l’efficacia dell’atto; la donazione infatti può essere revocata per ingratitudine o per sopravvenienza di figli (art. 800). L’ipotesi costituisce una eccezione al principio di vincolatività del contratto che, una volta posto in essere, può essere sciolto solo per volontà delle parti o per le cause ammesse dalla legge e non certo in virtù della manifestazione unilaterale di uno solo dei contraenti. L’eccezionale potere del donante di revocazione della donazione si fonda su una presunzione assoluta, nel senso che non ammette il donatario a provare il contrario: la legge presume cioè che il donante non avrebbe disposto in fa-

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vore del donatario se avesse previsto che quest’ultimo avrebbe commesso un grave torto nei suoi confronti, ponendo in essere una delle gravi condotte che danno luogo ad indegnità a succedere (es. omicidio o tentato omicidio ai danni del donante), ovvero rendendosi colpevole di una grave ingiuria e cioè di una rilevante offesa alla personalità del donante, ovvero rifiutando indebitamente di prestargli gli alimenti (art. 801). Parimenti la legge presume che il donante non avrebbe disposto a favore del donatario se avesse conosciuto l’esistenza di figli al momento della donazione o se avesse saputo che ne avrebbe avuti (art. 803). Tale presunzione, che lascia arbitro il donante di decidere se esercitare il suo diritto di revocazione, trova un ulteriore rafforzamento nella norma dell’art. 806, che dichiara nulla la rinuncia preventiva al potere di revoca. Le ragioni che giustificano peraltro tale presunzione vengono meno quando la donazione ha carattere remuneratorio o è stata fatta in vista di un futuro matrimonio (art. 805), cosicché in queste ipotesi la donazione è irrevocabile. Per effetto della revocazione il donatario deve restituire i beni ricevuti (art. 807, primo comma) e se li ha alienati deve restituirne il valore (art. 807, secondo comma). L’azione di revocazione non pregiudica i diritti che i terzi hanno acquistato in epoca anteriore alla proposizione della domanda; tuttavia se si tratta di beni immobili, essendo la domanda di revocazione delle donazioni immobiliari espressamente assoggettata all’onere della trascrizione (art. 2652, n. 1), l’acquisto del terzo è fatto salvo solo ove il suo titolo sia stato trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda di revocazione (art. 808). Ulteriori indici della instabilità della attribuzione patrimoniale realizzata con la donazione sono rappresentati da quelle norme che comportano per il donatario il rischio di perdere o di vedersi ridotto il valore della attribuzione ricevuta per effetto di obblighi specifici che possono insorgere a suo carico e che vengono a trovare giustificazione a causa di quella liberalità. Così il donatario è addirittura al primo posto, fra i soggetti che vi sono obbligati, a prestare gli alimenti al donante ove questo si trovi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento, salvo che nel caso di donazione obnuziale o remuneratoria (art. 437). Ancora, le donazioni, al pari delle disposizioni testamentarie, eccedenti la quota di cui il donante (o il defunto) potevano disporre, sono soggette a riduzione fino al valore di tale quota (art. 555). A questa azione sono anzi esposti anche gli aventi causa dal donatario: il conflitto fra l’erede legittimario che agisce in riduzione e il terzo che ha acquistato dal donatario, è risolto nel caso di beni mobili in base ai principi del possesso di buona fede e, in caso di trasfe-

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rimento immobiliare, in base ai principi sulla trascrizione (art. 563); in quest’ultimo caso se la trascrizione della domanda di riduzione è eseguita dopo dieci anni dalla apertura della successione, la sentenza che accoglie la domanda non pregiudica i terzi che hanno acquistato a titolo oneroso diritti in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda (art. 2652, n. 8). Infine i discendenti e il coniuge devono conferire tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto, quando era in vita, a titolo di donazione, diretta o indiretta, salvo che il defunto stesso non li abbia dispensati dalla collazione (art. 737 ss.). La natura liberale dell’attribuzione giustifica, come abbiamo osservato, la soggezione della donazione ad una disciplina spesso analoga a quella dettata dal legislatore per il testamento. In questo contesto, oltre alle norme da ultimo ricordate, dobbiamo segnalare quelle che seguono. Anche per la donazione la legge ha anticipato la capacità giuridica – ordinariamente collocata al momento della nascita – stabilendo che possono ricevere donazioni soggetti non ancora nati ma soltanto concepiti al tempo della donazione; ed addirittura soggetti nascituri che non siano stati ancora concepiti purché figli di una determinata persona vivente al tempo della donazione (art. 784, primo comma); si intende che l’efficacia della donazione è subordinata in questa ipotesi all’evento della nascita e, prima di questo momento, l’amministrazione dei beni spetta al donante mentre l’accettazione che ne facciano i soggetti che hanno la rappresentanza del nascituro (artt. 320 ss.) conferisce loro una aspettativa per la cui tutela il donante può essere chiamato a prestare idonea garanzia (art. 784, secondo e terzo comma). Il donante può trasferire la sola nuda proprietà riservando l’usufrutto a se stesso ovvero ad un’altra o più persone congiuntamente; ma al pari di quanto stabilito per il testamento (art. 698) non è valida la disposizione in ordine successivo, cosicché la donazione ha valore soltanto nei confronti del primo donatario (art. 796); allo stesso modo le sostituzioni nella donazione sono consentite nei casi e nei limiti stabiliti per gli atti di ultima volontà (art. 795). Abbiamo già illustrato, nell’ambito della invalidità negoziale, la disciplina del motivo e la eccezionale rilevanza che esso riveste nel testamento e nella donazione quando è illecito o quando induce in errore il disponente. È infatti annullabile la donazione quando l’errore sul motivo risulta dall’atto ed è il solo che abbia determinato il donante a disporre (art. 787); mentre l’illiceità del motivo rende nulla la donazione quando il motivo risulta dall’atto ed è il solo che ha determinato il donante alla liberalità (art. 788). In deroga al principio generale per cui la nullità non è sanabile, l’art. 799 stabilisce che la nullità della donazione non può essere fatta valere da coloro

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che, dopo la morte del donante, pur conoscendo la causa della nullità, abbiano confermato la donazione ovvero vi abbiano dato volontaria esecuzione (al pari di quanto stabilito dall’art. 590 per le disposizioni testamentarie nulle). Anche la donazione modale presenta forti analogie con la disciplina del modus testamentario. Tanto nel testamento (art. 647) quanto nella donazione (art. 793, primo comma) il testatore o il donante possono gravare l’istituzione di erede o il legato ovvero la donazione, di un onere; il modus non costituisce però un corrispettivo dell’attribuzione patrimoniale ma solo una limitazione del suo valore, un peso che viene imposto al donatario, il quale non fa venir meno la natura gratuita della disposizione. Beneficiario dell’onere può essere sia il donante che un terzo: per es. la donazione di una villa sul lago con l’obbligo imposto al donatario di consentire al donante di utilizzarla almeno una volta l’anno per finalità promozionali della propria attività di impresa; la donazione di una collezione privata di quadri famosi con l’onere di allestire periodicamente nel territorio del Comune di nascita del donante delle mostre alla cittadinanza. La gratuità dell’atto condiziona la disciplina dell’adempimento al quale il donatario è tenuto: se anche l’adempimento del modus richiedesse un impiego di risorse superiori all’attribuzione, il donatario è tenuto ad adempiere soltanto entro i limiti di valore di quanto abbia ricevuto (art. 793, secondo comma). Il carattere accessorio del modus spiega perché mentre ogni soggetto interessato, oltre al donante, può agire per l’adempimento, il donante o i suoi eredi possono chiedere la risoluzione della donazione soltanto se espressamente prevista nel contratto (art. 793, terzo comma). E spiega anche perché l’onere illecito o impossibile non rende nulla la donazione ma si considera soltanto non apposto (art. 794), mentre se ha costituito il motivo determinate dell’attribuzione rende nulla la donazione, al pari di quanto previsto per l’onere impossibile o illecito apposto ad un testamento (art. 647, terzo comma). Anche la responsabilità per l’inadempimento o il ritardo del donante nell’eseguire la donazione è valutata con minor rigore rispetto alla regola generale in tema di inadempimento dei contratti: il donante risponde infatti soltanto per dolo o per colpa grave (art. 789). D’altro canto il donante è tenuto alla garanzia per evizione soltanto se l’ha promessa al donatario ovvero se l’evizione dipende da dolo del donante stesso; anche quando l’evizione è dovuta per legge indipendentemente da ogni previsione (donazione remuneratoria e modale) il donante risponde fino alla concorrenza dell’ammontare degli oneri e delle prestazioni ricevute dal donatario (art. 797). Il donante infine risponde dei vizi della cosa donata solo in caso di dolo, ovvero se tale garanzia sia stata espressamente prevista nel contratto (art. 798).

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Il Tema Donazione indiretta e forma del negozio (Cass. 25 febbraio 2015 n. 3819)

Il Caso Con scrittura privata la Signora Annunziata, proprietaria per la metà di un fabbricato, rinuncia alla sua quota in favore dei suoi cinque figli. Con successiva scrittura quattro dei figli, rimasti unici comproprietari dell’immobile, procedono alla divisione della casa attribuendosene ciascuno una parte. Con successivo ricorso gli eredi di uno dei condividenti chiedono ed ottengono, ai sensi della legge n. 346 del 1976 che consente l’usucapione quindicennale dei fondi rustici con annessi fabbricati siti in comuni montani, il riconoscimento dell’avvenuto acquisto della proprietà del solo fabbricato qualificato come rurale. Gli altri condividenti convengono in giudizio i nipoti a favore dei quali era stato dichiarato l’avvenuto acquisto per usucapione, eccependo la inopponibilità nei loro confronti del suddetto decreto pretorile di accertamento, del quale erano venuti a conoscenza solo in seguito ad una visura catastale, e chiedono di essere dichiarati unici proprietari delle porzioni di fabbricato loro attribuite a mezzo dell’atto di divisione. I convenuti si costituiscono eccependo la nullità dell’atto di rinuncia della madre alla propria quota di comproprietà del fabbricato a favore dei suoi figli, trattandosi di donazione non effettuata con atto pubblico, nonché della rinuncia, effettuata nella medesima scrittura, con la quale uno dei figli aveva rinunciato alla quota di comproprietà nella consistenza derivante dalla rinuncia della madre, trattandosi di cessione della quota a lui pervenuta in donazione dalla madre e non ancora accettata. Il Tribunale di Rieti rigetta le eccezioni sollevate dai convenuti. A seguito di impugnazione dei soccombenti la Corte di Appello di Roma conferma la sentenza del Tribunale. La Corte del merito ha rilevato che la rinuncia di uno dei comproprietari effettuata a favore di tutti gli altri comproprietari non richiede l’atto pubblico trattandosi di donazione indiretta, ossia di liberalità realizzata ponendo in essere un negozio tipico diverso da quello previsto dall’art. 782 c.c., ma soltanto la forma scritta, venendo in considerazione la rinuncia alla quota di un bene immobile. La Corte di Cassazione, adita per l’annullamento della sentenza della Corte romana, conferma la sentenza impugnata e così motiva la sua decisione.

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Il Giudizio Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione degli art. 809, 1362, 1363 e 1367 c.c.) i ricorrenti deducono che la rinuncia operata da Annunziata Mancini nella scrittura privata del 4 agosto 1968 costituirebbe una donazione diretta di cui agli art. 782 ss. c.c. Essi chiedono conclusivamente che sia affermato il principio di diritto secondo cui «la rinuncia ad un diritto reale immobiliare in favore di soggetti nominativamente individuati, se effettuata a titolo di liberalità, ovvero senza corrispettivo e senza che essa concretizzi adempimento di una obbligazione, sia pure di natura morale, configura la fattispecie della donazione reale traslativa, in quanto la sua causa tipica è data dall’animus donandi e, in conseguenza, deve avere a pena di nullità la forma dell’atto pubblico. Per l’effetto, anche la rinuncia donationis causa al diritto di comproprietà su un bene immobile in favore degli altri comproprietari, a tal uopo specificamente designati, poiché persegue una funzione direttamente attributiva e non già meramente abdicativa del diritto reale, è soggetta alla disciplina della donazione diretta ex art. 769 c.c. e deve perciò risultare a pena di nullità da atto pubblico». La censura – scrutinabile nei limiti del quesito che la accompagna – è infondata. Costituisce donazione indiretta la rinunzia alla quota di comproprietà, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comproprietari. In tal caso si è infatti di fronte ad una rinunzia abdicativa alla quota di comproprietà, perché l’acquisto del vantaggio accrescitivo da parte degli altri comunisti si verifica solo in modo indiretto attraverso l’eliminazione dello stato di compressione in cui l’interesse degli altri contitolari si trovava a causa dell’appartenenza del diritto in comunione anche ad un altro soggetto; e poiché per la realizzazione del fine di liberalità viene utilizzato un negozio, la rinunzia alla quota da parte del comunista, diverso dal contratto di donazione, non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per quest’ultimo. Di tale principio ha fatto corretta applicazione la corte del merito, dopo aver sottolineato che la rinuncia alla quota di un mezzo sulla proprietà della casa è stata compiuta da Annunziata Mancini puramente e semplicemente in favore di tutti gli altri comproprietari, con un’estensione automatica in proporzione delle loro quote di comproprietà, mediante l’utilizzazione di un negozio tipico, appunto la rinunzia di uno dei comproprietari ai sensi dell’art. 1104 c.c.

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pag.

IL CORSO DI ISTITUZIONI DI DIRITTO PRIVATO di Mario Nuzzo PRESENTAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE PREFAZIONE ALLA QUARTA EDIZIONE

VII XI XV XXI XXVII

Parte Prima L’OBBLIGAZIONE Capitolo Primo IL RAPPORTO OBBLIGATORIO SEZIONE I: NOZIONI GENERALI 1. 2. 3. 4. 5.

L’obbligazione nell’ambito della categoria del dovere giuridico L’interesse del creditore Il credito come valore patrimoniale I caratteri della obbligazione. Il vincolo e la coercibilità L’obbligazione naturale

5 6 7 7 8

SEZIONE II: I SOGGETTI 6. I criteri di individuazione

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pag. 7. Le obbligazioni con pluralità di soggetti. Obbligazioni solidali e parziarie, divisibili e indivisibili 8. Le vicende modificative dei soggetti dell’obbligazione: generalità 9. Cessione del credito e factoring. Surrogazione 10. Delegazione di pagamento e delegazione di debito. Espromissione. Accollo

11 11 12 14

SEZIONE III: L’OGGETTO 11. Il carattere patrimoniale della prestazione e l’interesse del creditore 12. Obbligazioni di dare, di fare e di non fare. Obbligazioni di mezzi e di risultato 13. Le obbligazioni pecuniarie. Il principio nominalistico e l’introduzione dell’euro 14. La misura degli interessi e l’usura 15. La svalutazione monetaria. I danni nelle obbligazioni pecuniarie 16. Le obbligazioni alternative

16 16 17 20 22 23

SEZIONE IV: LE FONTI 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25.

La nozione Il contratto Il fatto illecito Le altre principali fonti delle obbligazioni. Promessa di pagamento e ricognizione di debito I titoli di credito. L’assegno e la cambiale La promessa al pubblico La gestione di affari altrui Il pagamento dell’indebito L’arricchimento senza causa

24 24 25 26 28 29 30 31 32

Capitolo Secondo LE VICENDE DELL’OBBLIGAZIONE SEZIONE I: L’ADEMPIMENTO 1. 2. 3. 4.

La nozione L’esatto adempimento e la prestazione sostitutiva Il luogo dell’adempimento. Le obbligazioni cc.dd. portables e quérables Il tempo dell’adempimento e il termine dell’obbligazione

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5. I soggetti dell’adempimento. Adempimento dell’incapace e adempimento del terzo 6. I destinatari dell’adempimento. Il pagamento a soggetti non legittimati e il principio dell’apparenza 7. L’attività diretta all’adempimento. Gli obblighi di diligenza e di buona fede

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SEZIONE II: LE ALTRE MODALITÀ DI ESTINZIONE DELL’OBBLIGAZIONE 8. 9. 10. 11.

La compensazione La confusione e remissione La novazione L’impossibilità sopravvenuta

43 44 45 46

SEZIONE III: TUTELA DEL CREDITO E RESPONSABILITÀ DEL DEBITORE 12. Tutela del credito anteriormente all’inadempimento 12.1. L’azione surrogatoria e l’azione revocatoria ordinaria 12.2. L’azione revocatoria sommaria o semplificata 12.3. Il sequestro conservativo 13. L’inadempimento. L’adempimento inesatto e il ritardo nell’adempimento 14. La responsabilità del debitore. La diligenza nell’adempimento e la impossibilità non imputabile della prestazione 15. La responsabilità del debitore nel tempo di pandemia 16. La mora del debitore e la mora del creditore 17 Il ritardo dei pagamenti nelle transazioni commerciali 18. La responsabilità del debitore e il risarcimento del danno. Responsabilità fondata sul contratto e responsabilità civile 19. Risarcimento del danno per equivalente e in forma specifica 20. Le esimenti legali diverse dalla impossibilità non imputabile e le esimenti convenzionali della responsabilità del debitore

47 49 51 53 53 54 57 59 61 62 66 68

SEZIONE IV: LE GARANZIE DEL CREDITO 21. La garanzia generica. Le garanzie reali 22. Le alienazioni in garanzia 23. Le alienazioni sospensivamente condizionate all’inadempimento del debitore nel quadro degli strumenti convenzionali di autotutela esecutiva del creditore: in particolare il patto c.d. marciano 24. Le garanzie personali. La fideiussione omnibus. Il contratto autonomo di garanzia

70 73

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Capitolo Terzo I FATTI ILLECITI SEZIONE I: LA NOZIONE 1. Le regole operative 2. Danni senza risarcimento e cause di giustificazione 3. Le evoluzioni attuali della responsabilità civile

83 85 87

SEZIONE II: LA STRUTTURA DELL’ILLECITO 4. Gli elementi costitutivi dell’illecito: il comportamento doloso o colposo del danneggiante 5. L’equiparazione fra dolo e colpa. Gli illeciti specificatamente puniti a titolo di dolo o di colpa grave. La colpa omissiva 6. La responsabilità oggettiva 7. Attività di impresa e tecniche di tutela: il problema della traslazione del rischio 8. Il danno ingiusto 9. Il nesso causale

89 91 92 93 94 98

SEZIONE III: LE RESPONSABILITÀ SPECIALI 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16.

Codice civile e legislazione speciale Segue: quelle previste dal codice civile Segue: quelle previste dalla legislazione speciale La responsabilità del produttore La responsabilità per danno all’ambiente La responsabilità del magistrato Danno e responsabilità

101 102 105 106 108 111 114

SEZIONE IV: LA TUTELA 17. La tutela: risarcimento del danno per equivalente e in forma specifica 18. L’azione inibitoria 19. Differenze fra i due regimi di responsabilità: rinvio e qualche ulteriore considerazione

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SEZIONE V: IL DANNO 20. Tipologie di danni: il danno alla persona 21. Danni patrimoniali e non patrimoniali

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22. Il danno biologico 23. Il danno esistenziale 24. Rilievi conclusivi

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Parte Seconda IL CONTRATTO Capitolo Primo IL CONTRATTO IN GENERALE SEZIONE I: L’AUTONOMIA PRIVATA 1. La categoria del contratto nell’ambito del fenomeno dell’accordo. Gli atti unilaterali 2. Brevi considerazioni sul negozio giuridico 3. La libertà contrattuale. I limiti alla libertà di contrarre: il contratto imposto 4. I limiti convenzionali. Il contratto preliminare 5. L’opzione 6. I divieti di alienazione 7. Prelazione legale e prelazione convenzionale 8. La libertà di forma del contratto 9. Autonomia contrattuale. La libertà di determinare il contenuto del contratto tipico: il limite delle norme imperative e i confini del tipo negoziale 10. L’intervento legale conformativo del contenuto. Legge, usi ed equità 11. Obbligo di rinegoziare 12. L’autonomia delle parti ed i contratti atipici. Il controllo degli interessi meritevoli e la disciplina del contratto

133 134 136 137 138 139 139 140 141 144 147 148

SEZIONE II: IL PROCEDIMENTO DI FORMAZIONE 13. La struttura del contratto e i suoi elementi costitutivi. Le trattative e l’obbligo di comportarsi secondo buona fede 14. Condizioni generali di contratto. Moduli e formulari 15. Conclusione del contratto e nuove tecniche di controllo del consenso nella moderna legislazione sul contratto. La trasparenza nei rapporti contrattuali

154 155

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pag. 16. La formazione dell’accordo 17. La conclusione del contratto fra nuove forme di manifestazione del consenso e nuove tipologie di documenti (rinvio)

158 161

SEZIONE III: IL CONTENUTO 18. L’oggetto del contratto 19. La causa del contratto: lo scopo dei contraenti e la valutazione dell’ordinamento 20. I motivi: i casi in cui rilevano. La presupposizione tra condizione inespressa e contenuto del contratto

161 162 165

SEZIONE IV: LA FORMA 21. La forma del contratto. Forma ad substantiam. Forma e trascrizione. La forma convenzionale 22. Nuove funzioni assolte dal requisito di forma 23. I documenti informatici e telematici. La forma per relationem

167 170 171

Capitolo Secondo L’EFFICACIA SEZIONE I: L’AMBITO SOGGETTIVO DEGLI EFFETTI 1. Le parti e la «forza di legge» del contratto 2. Gli effetti del contratto nei confronti dei terzi. Il contratto a favore del terzo 3. La sostituzione nell’attività giuridica. Il contratto concluso dal rappresentante. La procura e il mandato 4. Il contratto fiduciario. La disciplina del trust 5. Abuso, difetto ed eccesso del potere rappresentativo: il conflitto di interessi e la rappresentanza senza potere 6. Il contratto per persona da nominare 7. La cessione del contratto. Il subcontratto

177 179 180 183 185 186 187

SEZIONE II: L’AMBITO OGGETTIVO DEGLI EFFETTI 8. L’efficacia traslativa del consenso. I contratti ad effetti reali e ad effetti obbligatori 9. I contratti reali

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10. Il conflitto fra più acquirenti di un medesimo diritto. La doppia vendita immobiliare. La trascrizione del contratto preliminare 11. Il governo convenzionale degli effetti del contratto. La condizione 12. Il termine di efficacia e il contratto modale

191 194 196

Capitolo Terzo L’INTERPRETAZIONE 1. Le regole soggettive ed oggettive di interpretazione del contratto 2. La interpretazione secondo buona fede. La buona fede in senso soggettivo ed in senso oggettivo. L’esecuzione del contratto 3. Buona fede e integrazione del contratto

201 203 204

Capitolo Quarto LA PATOLOGIA SEZIONE I: LA NULLITÀ 1. 2. 3. 4.

Considerazioni generali. La tutela dell’affidamento La nullità. La nullità parziale Conversione del negozio nullo. Il negozio in frode alla legge La simulazione. Gli effetti tra le parti del contratto simulato e del contratto dissimulato 5. Gli effetti della simulazione nei confronti dei terzi 6. Annullabilità: generalità

209 210 213 214 215 217

SEZIONE II: L’ANNULLABILITÀ 7. 8. 9. 10. 11. 12.

L’incapacità delle parti L’errore Il dolo La violenza Altri casi di annullabilità del contratto L’azione di annullamento. Gli effetti dell’annullamento nei confronti dei terzi 13. La sanatoria del negozio annullabile. La convalida

219 219 221 221 223 223 225

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pag. SEZIONE III: L’INEFFICACIA 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21.

22. 23. 24. 25.

L’inefficacia assoluta e relativa L’azione di rescissione: generalità Il contratto concluso in stato di pericolo Il contratto concluso in stato di bisogno. Norme comuni di disciplina Stato di bisogno e usura Forme (ulteriori) di controllo dell’equilibrio economico del contratto La risoluzione del contratto: generalità I rimedi alternativi alla risoluzione per inadempimento: in particolare la clausola penale e la caparra confirmatoria. La caparra penitenziale. La manutenzione del contratto La risoluzione per inadempimento. La risoluzione giudiziale La risoluzione di diritto: la diffida ad adempiere, la clausola risolutiva espressa e il termine essenziale Risoluzione per impossibilità sopravvenuta Risoluzione per eccessiva onerosità

225 226 227 227 229 230 232

232 235 235 237 238

Capitolo Quinto I CONTRATTI DEI CONSUMATORI 1. 2. 3. 4. 5. 6.

La legislazione a tutela del consumatore I contratti dei consumatori nella disciplina del codice civile La disciplina dei contratti dei consumatori in talune leggi speciali Regole e tendenze della recente legislazione sui nuovi contratti Ancora sul controllo dell’equilibrio economico del contratto La logica del profitto e l’etica contrattuale. Il consumatore soggetto economico e persona 7. Contratti dei consumatori e contratti di impresa. Il nuovo paradigma generale del contratto

243 243 246 248 248 249 251

Capitolo Sesto I SINGOLI CONTRATTI CON TEMI E CASI DI GIURISPRUDENZA

1. Introduzione

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INDICE

407 pag.

SEZIONE I: IL CONTRATTO DI VENDITA 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13.



Cenni storici. La vendita e le vendite La compravendita in generale Vendita di cosa altrui Vendita di cosa futura Le obbligazioni nascenti dalla compravendita. Le obbligazioni del compratore Segue: le obbligazioni del venditore La garanzia per evizione La garanzia per i vizi Vendita con patto di riscatto Vendita con riserva di proprietà Vendita mobiliare Vendita immobiliare Alienazione dell’immobile oggetto di un preliminare a persona diversa dal promissario. La disciplina della doppia vendita immobiliare e la responsabilità del secondo acquirente primo trascrivente in mala fede (Cass. 7 ottobre 2016 n. 20251)

263 264 266 268 270 271 272 274 276 278 279 281

281

SEZIONE II: IL CONTRATTO ESTIMATORIO 14. Natura e disciplina • Elementi distintivi del contratto estimatorio (Cass. 21 dicembre 2015 n. 25606)

286 287

SEZIONE III: IL CONTRATTO DI SOMMINISTRAZIONE 15. Natura e disciplina

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• La qualificazione della somministrazione come contratto di scambio, di durata, ad esecuzione continuata (Cass. 11 luglio 2011 n. 15189)

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SEZIONE IV: IL CONTRATTO DI LOCAZIONE 16. 17. 18. 19. 20. 21.

La natura del diritto del conduttore. La varietà dei tipi Le obbligazioni del locatore e del conduttore Sublocazione e cessione della locazione Le locazioni urbane Le locazioni abitative Le locazioni non abitative

296 297 299 300 301 303

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pag. 22. L’affitto di azienda e l’affitto di fondi rustici 23. Rent to buy • Inadempimento del locatore e sospensione della prestazione da parte del conduttore (Cass. 22 giugno 2020 n. 12103)

304 305 306

SEZIONE V: IL CONTRATTO DI APPALTO 24. L’appalto in generale 25. La disciplina del contratto • Vendita di cosa futura e appalto (Cass. 12 maggio 2008 n. 11656)

310 311 316

SEZIONE VI: IL CONTRATTO DI TRASPORTO 26. Il trasporto in generale 27. Il trasporto di persone 28. Il trasporto di cose • La responsabilità del vettore nel trasporto di persone (Cass. 10 gennaio 2017 n. 249)

321 323 325 326

SEZIONE VII: IL CONTRATTO DI MANDATO 29. Il mandato in generale 30. Le obbligazioni delle parti 31. L’estinzione e la revoca del mandato • Mandato senza rappresentanza. Considerazioni sulla forma (Cass. 2 settembre 2013 n. 20051)

328 330 331 332

SEZIONE VIII: IL CONTRATTO DI DEPOSITO 32. 33. 34. 35.

Il deposito in generale Le obbligazioni delle parti Il deposito irregolare La responsabilità degli albergatori e dei magazzini generali • La responsabilità del custode (Cass. 25 novembre 2013 n. 26353)

337 338 339 340 342

SEZIONE IX: IL CONTRATTO DI COMODATO 36. Il comodato in generale 37. La responsabilità del comodatario • Comodato di immobile destinato ad abitazione familiare (Cass. 29 settembre 2014 n. 20448)

347 348 349

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409 pag.

SEZIONE X: IL CONTRATTO DI MUTUO 38. Il mutuo in generale 39. La promessa di mutuo • Il mutuo di scopo (Cass. Ordinanza 21 ottobre 2019 n. 26770)

359 360 362

SEZIONE XI: IL CONTRATTO DI ASSICURAZIONE 40. 41. 42. 43. 44.

La natura aleatoria del contratto La disciplina del rischio L’assicurazione contro i danni L’assicurazione della responsabilità civile L’assicurazione sulla vita • Il principio di buona fede, l’obbligo di diligenza e la responsabilità dell’assicuratore (Cass. 24 aprile 2015 n. 8412)

365 369 371 374 375 377

SEZIONE XII: IL CONTRATTO DI TRANSAZIONE 45. La transazione in generale 46. L’impugnazione della transazione 47. Transazione novativa • Transazione novativa (Cass. Ordinanza 9 dicembre 2019 n. 32109)

381 382 382 383

SEZIONE XIII: IL CONTRATTO DI DONAZIONE 48. 49. 50. 51. 52. 53.

La donazione in generale Donazione e liberalità La donazione remuneratoria Liberalità non donative Liberalità e gratuità La disciplina della donazione • Donazione indiretta e forma del negozio (Cass. 25 febbraio 2015 n. 3819)

387 389 390 390 391 392 397

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Finito di stampare nel mese di giugno 2021 nella Stampatre s.r.l. di Torino Via Bologna, 220

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Indice analitico

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