L' auditorio di Görlitz 9788855292658, 9788855292665

La poesia non avrà la forza di impedire gli eventi, ma ha la possibilità di divenirne racconto. Non modifica fatti, o al

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L' auditorio di Görlitz
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Nota della traduttrice
Un testo frammentario

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Xavier Farré

L’auditorio di Görlitz

Margini

Collana diretta da Filippo La Porta

Margini | 10

Xavier Farré

L’auditorio di Görlitz (Visioni poetiche) Traduzione italiana di Emanuela Forgetta

La traduzione della presente opera è stata realizzata con il contributo dell’Institut Ramon Llull.

Titolo originale L’auditori de Görlitz (visions de la poesia) © 2019, AdiA Edicions/Cafè Central, Barcelona.

© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Margini ISSN: 2612-7229 n. 10 – agosto 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-265-8 ISBN – Ebook: 978-88-5529-266-5 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Beautiful open old book on a red wooden table. Green wall background. © Oleksandr – stock.adobe.com

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Nota della traduttrice

Nel tradurre questo libro, mi sono resa conto di quanto poco si conoscano tutte quelle tradizioni poetiche che si allontanano dalla nostra e alle quali soltanto si giunge per necessità o, delle volte, per caso. Quei versi sconosciuti, tenuti insieme da lettere così poco familiari, disvelano nuove vie interpretative e la possibilità di guardare un fatto a noi noto da un’altra angolatura. Mentre lavoravo al testo, avvertivo ad ogni istante l’urgenza narrativa. Essa si imponeva su tutto, anche sul rigore filologico. Per questo, pur non traducendo direttamente dallo sloveno, dal russo e dalle altre lingue in questione, ho personalmente reso in italiano tutti i versi e i frammenti citati. La difficoltà, in alcuni casi, di reperire i testi già tradotti nella nostra lingua e il desiderio di rendere la narrazione quanto mai fluida, evitando i continui rimandi di nota, mi hanno convinta ad adottare questa soluzione. Confido nella comprensione dell’esperto, confido nella missione di queste visioni poetiche: far tremare il lettore, ma anche consolarlo, con l’arte, la forza proiettiva del linguaggio, il ripristino, sebbene in extremis, dell’armonia. La stessa che dovette guidare Messiaen quando, nel campo di Görlitz, incontrò i musicisti e per essi compose il suo Quatuor pour la fin du Temps. Emanuela Forgetta

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Un testo frammentario

Se dovessi definire questo libro, mi troverei in difficoltà. Potrei dire che si avvicina al saggio pur rifuggendo dal linguaggio ingessato, e che non si tratta di un testo accademico, né di riflessioni che si protraggono a dismisura. Elementi comunque non del tutto estranei al testo, così come i ricordi che, a quei tempi, di continuo mi assalivano. Forse il lettore non vi troverà un filo conduttore o, al contrario, riuscirà a scorgervi una linea guida, un’idea unitaria di fondo che si protrae lungo tutte le pagine. Nel voler spiegare agli altri e a me quale fosse la mia idea di poesia, mi rendevo conto dell’impossibilità di costruire un testo saldo, una sorta di trattato che persegue un obiettivo, che vuole dimostrare una presa di posizione ed è tutto teso a riuscirvi. Non potevo farci nulla, la frammentarietà si imponeva. E io, intanto, desistevo; ho indugiato tanto che sono arrivato a pensare che alla fine, da tutto questo, non ne avrei cavato niente. Soltanto quando ho accettato la frammentarietà, il testo ha iniziato a prendere forma; diciamo che essa s’è in qualche modo imposta. Ci tengo a precisare che la parte iniziale del testo appartiene a una presentazione che feci a Maiorca sulla funzione del poeta nel mondo contemporaneo. È forse la parte più accademica del testo, poi sono iniziati a

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venir fuori i lembi, i brandelli di pensiero, di idee, le associazioni, che hanno imposto la loro presenza, senza tuttavia alterare il mio proposito. Chi mi conosce come traduttore e sa quanto ci tenga a diffondere la poesia polacca, soprattutto, poi quella slovena e tutte le altre tradizioni poetiche di questa parte d’Europa – che, nonostante sia molto più europea di quanto si creda (è stato sempre così, è stata sempre la prospettiva del Sud a non percepirla in questo modo), è sempre stata poco nota – si sorprenderà dell’esigua presenza di poeti polacchi, rispetto a quella di poeti in altre lingue, a cominciare dai poeti in lingua inglese. Nell’allestire questo testo, l’intenzione non era quella di partire da una precisa tradizione letteraria, piuttosto era quella di tracciare l’esistenza di alcune linee guida in poesia che andavano oltre i confini geografici. Mi affido a esperienze personali più che a vere e proprie tradizioni, anche se, ovviamente, queste ultime sono comunque presenti. Ero affascinato da quest’idea, oltre a sentire una grande affinità con i poeti citati. Avrei di certo potuto includere altre tradizioni ma, come avviene per qualunque tipo di selezione, la scelta non si può protrarre all’infinito, altrimenti non esisterebbe il testo. Non lo scriveremmo mai e non riusciremmo a destreggiarci in così tanto materiale, non troveremmo mai il filo del discorso. Il lettore sarà di certo sorpreso nel trovare in questo libro così pochi poeti catalani. E non perché non mi interessi la produzione scritta nella mia lingua, sarebbe assurdo; gli esperti vi potranno dire cose più interessanti. Nel momento in cui ho ricercato in altri luoghi la fonte della mia poesia, ho assunto una posizione precisa. M’interessa ciò che nella mia lingua non trovo e perciò traduco certi autori, perché apportino elementi nuovi. M’interessa la fusione tra poesia e pensiero, come pure la riflessione, e il modo in cui si esprime la perdita, di qualunque tipo essa sia; ma, per la poesia del XX secolo, considero necessaria la dimensione storica. Considero questo testo una

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sorta di poetica, in un’epoca in cui, forse, le poetiche non hanno più molto senso e, ancora meno, ripercussione. Xavier Farré

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L’auditorio di Görlitz (Visioni poetiche)

Mio padre morì quando avevo ventun anni. Nonostante siano trascorsi degli anni ormai, continuo ad avere impresse nella mente le immagini dei suoi ultimi istanti di vita, di quel giorno e mezzo che trascorse all’ospedale, e noi certi che la fine sarebbe arrivata da un momento all’altro. Se valuto in base al tempo trascorso e agli sprazzi di memoria, mi viene da pensare che allora non fossi pronto, ma non è così. Il colpo, per quanto tu l’attenda, non diventa meno forte. Per quanto ci si voglia preparare, non si è mai pronti. Il giorno prima, l’avevano portato all’ospedale in ambulanza. Mi ostinai a voler raggiungere gli altri con la macchina di mio padre. Da L’Espluga de Francolí fino a Reus era un tragitto breve. L’asfalto era bagnato e continuava a piovere. Era una di quelle strade regionali tutta curve che ora non esiste più. Avevo fatto quel tragitto molte volte e l’avrei rifatto ancora. Quel giorno, in una curva presa a tutta velocità, i freni non risposero, o forse sì che lo fecero, bloccandosi, ma poiché il manto era bagnato, la macchina non si fermò. Ebbi uno scontro frontale con un’altra auto che veniva in direzione opposta. Entrambe le macchine furono completamente distrutte, ma né io, né l’altro conducente ci facemmo nulla, neanche un graffio.

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La persona contro la quale urtai stava andando a un matrimonio. Prima di quell’incidente, prima della morte di mio padre, facevo un sogno ricorrente: una macchina che precipitava in un burrone. Dopo l’incidente, il sogno svanì. Non riesco a capire se tutto questo appartenga al mio subconscio, alla realtà o all’immaginazione. Per tutto il periodo della chemioterapia di mio padre, andavamo a Reus e a Barcellona, guidavo io, poi me ne andavo in sala d’attesa a leggere. Tra i libri letti durante quelle attese: Jo he servit el rei d’Anglaterra, di Bohumil Hrabal, tradotto da Monika Zgustová. L’ironia come antidoto contro la sordidezza, le pareti bianche dell’ospedale (ora, iniziano a tingerle di altri colori) e quel protagonista del libro, assolutamente fuori contesto, un arrivista senza scrupoli, né morale, che cambiava come il vento in relazione ai mutamenti storici, prima durante l’occupazione della Boemia da parte del Terzo Reich, poi durante il periodo comunista; quello che leggevo mi appariva molto più reale di quanto non fosse la situazione che mi trovavo a vivere, come se quest’ultima, la situazione reale, storica, appartenesse a uno stato di assopimento. Come se la finzione sapesse rendere meglio la natura umana, che continuavo a non capire nonostante al mio cospetto ne avessi una prova tangibile. I primi mesi dopo la sua morte, continuai a leggere senza sosta, soprattutto poesia. Era forse l’unica attività a cui dedicassi tutto il mio tempo. Le mie giornate si dividevano tra l’andare di tanto in tanto all’università e il rimanere a casa a leggere, soprattutto d’inverno, quando alle cinque il paese desolato veniva inghiottito dal buio, e lì rimaneva a languire per un tempo che pareva interminabile. Le ore procedevano a rilento e le letture potevano durare di più. Domini màgic di Joan Vinyoli e tutto il ciclo della morte di Salvador Espriu, uno dei più grandi monumenti letterari dedicati alla morte scritti nel XX secolo; erano questi i libri sui quali tornavo più e più vol-

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te. La poesia non mi dava sollievo perché mi faceva riflettere, m’induceva a pensare, e l’unica cosa che mi procurava conforto, anche se per un istante, era l’incontro col linguaggio. Avrei potuto leggere filosofia, cosa che feci, ma, dopo vari tentativi, trovavo senso solo nei presocratici. Con Platone, la fusione tra poesia e filosofia, o se vogliamo la ricerca mediante il linguaggio, si sfalda e si viene proiettati verso una nuova concezione della poesia, la sorella espulsa oggi ancor più svalutata della filosofia. Ciononostante, esistono oggigiorno poeti-filosofi, i quali… assumono una voce quasi sacerdotale che li riconduce ai primordi del linguaggio, come nel caso del poeta argentino Hugo Mujica. Volevo esprimere il silenzio, il vuoto, attraverso il linguaggio, così come accadeva durante le sedute in quell’asettica sala d’ospedale, quando cioè il linguaggio riusciva a cambiare colore alle pareti e a tutto il resto. Può la finzione dire più della realtà? Fino a dove può spingersi il linguaggio? Può la letteratura fungere da guida per la sofferenza umana, da guida morale? Il concetto di morale, in caso di conflitto interiore, può condurre al rifiuto della letteratura e di altre forme d’arte. Nel leggere le poesie attraverso le quali cercavo di dare un senso al vuoto che s’era prodotto e che mi aveva lasciato come amputato, rimanevo ammirato dinanzi alle sorprendenti trovate del linguaggio, era una sorta di illuminazione che non aveva niente a che vedere con quella perdita. Se questa è la prospettiva assunta da un qualunque lettore, in cui non sono esclusi addirittura i rimorsi, immaginiamo fin dove si possa spingere quella adottata da chi crea, data la difficoltà di stabilire i limiti della sofferenza umana e gli effetti che può arrivare ad avere. Quando si parla di letteratura, di poesia prodotta in situazioni estreme, e di certo la più estrema è rappresentata dalla poesia concentrazionaria, l’eventuale lettore non sa che approccio adoperare. Qualità letteraria e qualità morale non vanno sempre di pari passo. Il linguaggio e gli strumenti poetici si

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rivelano nulli nell’approssimarsi a simili questioni. Non c’è lingua che sia minimamente in grado di esprimere la Shoah e i continui stermini di intere popolazioni avvenuti nel corso del XX secolo, in cui la ferocia umana raggiunge vertici inimmaginabili fino a quel momento. Dinanzi a tali orrori, la lingua viene messa in un angolo come il peggiore degli studenti, e lì rimane, colma di vergogna, sotto lo sguardo degli altri. In pochi anni la lingua è divenuta una remora, un reperto non voluto, e lo stesso è accaduto alla creazione che da esso deriva, la letteratura. Si sono dileguati d’un tratto i romanticismi, i simbolismi, le avanguardie e la frattura tra la filosofia e la società è divenuta più che mai palese. Di fatto, sono stati i movimenti letterari a noi anteriori, a partire dal romanticismo, a inasprire di più la distanza col lettore. Non si legge più poesia, eccetto coloro che si dedicano alla letteratura, e neanche tutti, così il divario aumenta, e quella che era solo una crepa s’allarga a dismisura rischiando, dopo i tanti scossoni, di cedere definitivamente, provocando un grande boato che del resto nessuno udirà. Ulteriore contraddizione è quella secondo cui il poeta, soprattutto nel XX secolo, ha voluto assumere una posizione dinanzi alla diffidenza verso se stesso a cui l’obbligava la storia. Ha voluto mantenere ancora un certo valore sacerdotale e parlare alla tribù, pur sapendo che non è più in grado di farlo, che il suo è un grido nel deserto. Non a caso, abbandona le grandi narrazioni, le grandi gesta, i sostantivi magniloquenti e quelli generici per concentrarsi sull’individualità, sulla storia personale, sul microcosmo del medesimo. Sono due rette parallele, due storie non interconnesse che finiscono però con l’incontrarsi in un preciso istante, in una stessa persona; generando così la non riconciliabilità della contraddizione interna che spacca in due il poeta.

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*** Qualcuno udirà il rumore dell’acqua nel momento in cui Icaro, caduto dalle alture, vi affonda? Una delle più note poesie di W. H. Auden, la sua elegia a W. B. Yeats (In Memory of W. B. Yeats), contiene un verso che difficilmente poteva essere stato scritto in epoche precedenti, «perché la poesia fa che nulla accada». La consapevolezza che l’arte abbia creato un proprio mondo di regole, una propria realtà, diviene possibilità di confronto col quotidiano, o ciò che ne rappresenta l’alterazione, sia essa la guerra o un’altra forma di distruzione della società. In quella stessa poesia, giusto all’inizio, il poeta angloamericano rende un’immagine che si rifà a un altro suo noto componimento, Musée des Beaux-Arts: «Lontano dalla sua malattia / i lupi correvano per i boschi sempreverdi, / i moli alla moda non tentavano le campestri acque del fiume». Ci si avvicina molto all’idea del dolore e della sofferenza altrui quando, nell’ecfrasi del quadro di Bruegel descritto da Auden, Icaro sprofonda in acqua nella più totale indifferenza. Per qualche istante, forse, possiamo arrivare a pensare che la funzione della poesia sia proprio quella di non far accadere nulla (il rimando alla poesia di Yeats è in virtù della sua attività politica in favore dell’indipendenza dell’Irlanda) e che dovremmo rimanere ad ammirare la bellezza, rispettare una contemplazione disinteressata, un piacere disinteressato. Rientra in un altro ordine di idee il fatto che la poesia non possa “agire”, che non riesce ad avere incidenza sulla realtà, sebbene la rifletta. Entrambe le poesie di Auden appaiono nel 1939. Il poeta polacco Czesław Miłosz, nel 1945, pubblica Salvezza, uno dei primi libri di poesia stampati in Polonia dopo la Seconda guerra mondiale. In questa opera, l’autore – già rinomato poeta, la sua estetica oscillante tra l’avanguardismo e un acceso simbolismo segnato dall’espressionismo, un miscuglio a cui in Polonia fu dato il nome di catastrofismo – si libera

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degli orpelli retorici per scrivere un libro lirico che avrebbe cambiato la traiettoria della poesia redatta nella sua lingua. Nonostante le tracce di simbolismo ancora evidenti, il linguaggio diviene più diretto. Alza un lamento dinanzi agli orrori a cui ha assistito durante gli anni di occupazione. Scrive nella poesia Prefazione: La poesia cos’è, se non salva Le persone e i Paesi? La partecipazione a menzogne ufficiali, Il canto di un ubriaco prima d’essere sgozzato, La lettura solitaria d’una donzella.

E in un’altra poesia, A Varsavia, versi simili acquistano una certa forza: Sento voci, vedo sorrisi. Non riesco A scrivere, perché cinque mani Mi prendono la penna Obbligandomi a scrivere la loro storia, Le loro storie di vita e morte. È per questo che sono stato creato, Per convertirmi in lagnona? Io voglio celebrare i festini, Gli allegri boschetti in cui Shakespeare mi conduceva. Riconoscete Ai poeti un momento di gioia O perirà il vostro mondo.

Sono le poesie che aprono e chiudono il libro. Entrambe si rifanno a un’altra poesia raccolta nel volume, Campo dei Fiori; uno spiraglio di speranza o, malgrado tutto, di ferma fiducia nella voce del poeta: E a chi da solo muore, Dimenticato ormai dal mondo, La propria lingua appare strana come proveniente da un antico pianeta.

21 Fino a che tutto sarà leggenda e dopo molti anni allora su di un altro Campo dei Fiori sollevi la rivolta la parola del poeta.

La poesia descrive l’indifferenza della gente quando Giordano Bruno viene arso sul rogo; episodio che gli serve per dire dell’indifferenza degli abitanti di Varsavia durante la distruzione del Ghetto. Dopo secoli, tutti, romani o varsaviani che siano, si comportano allo stesso modo, e la voce del poeta è impotente dinanzi a fatti del genere. La poesia ricorda molto Musée des Beaux-Arts di Auden. E qui si chiude il cerchio. 1939-1945. Il poeta è alla ricerca di un linguaggio che possa descrivere l’orrore della realtà che contempla, ma ciò che trova è l’espressione dell’apatia. È l’impotenza del linguaggio stesso. La poesia Campo dei Fiori ha suscitato diatribe e accese discussioni che, di tanto in tanto, ancora divampano in Polonia, a seconda degli orientamenti politici dominanti. Non a caso, la poesia, che si ricollega a un altro componimento di Czesław Miłosz appartenente alla stessa raccolta, Un povero cristiano guarda il ghetto, viene citata dal critico Jan Błoński in un suo articolo, divenuto uno dei testi fondamentali sulla complessa storia delle relazioni ebraico-polacche. D’altra parte, è lo stesso poeta a rappresentare l’oggetto principale di tali discussioni. Miłosz ha sempre rivendicato la sua lituanità, ma l’essere nato in una zona non più appartenente allo stato polacco causa un certo disagio a molti cittadini. Miłosz continua a difendere le sue origini, e molti lo considerano come un attacco ai fondamenti stessi della Polonia. Questa la prima critica che subisce l’autore. La seconda riguarda la sua posizione nei confronti del Trattato di Varsavia, uno dei miti intoccabili della nazione. Miłosz è alquanto critico, considera il Trattato un’autentica disfatta, una sconfitta annunciata prima ancora di cominciare, ma la mistificazione e il messianesimo polacchi (il messianesimo costituisce l’asse ver-

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tebrale nei poeti del romanticismo polacco) sono incontenibili. Potremmo sempre aggrapparci alla speranza: quanti Davide hanno vinto i Golia? Per pochi che siano, bastano a giustificare qualsiasi azione di rivolta. E la terza critica parte proprio da questa poesia. L’immagine che fa da filo conduttore e poi rende possibile il parallelismo con il rogo di Giordano Bruno. Verrà poi la famosa frase di Adorno, che s’andrà trasformando fino a divenire un topico nella letteratura della seconda metà del XX secolo, producendo un infinito numero di pubblicazioni che cercano di smentirla. E verrà l’opera di Paul Celan, la prova più evidente che sì, dopo Auschwitz, era ancora possibile scrivere. Non solo possibile, ma assolutamente necessario. Le parole dovevano trovare il modo per far fronte al silenzio dell’orrore. Il silenzio avrebbe rappresentato un’ulteriore disfatta, forse quella definitiva, della civilizzazione nota fino a quel momento, del valore morale, dell’intera umanità. Per questo motivo, la poesia diveniva formula necessaria a scongiurare quanto detto da Adorno. Era una poesia sorta dalle rovine, per diverse ragioni. Tutti i cambiamenti avvenuti durante la Seconda guerra mondiale e il nuovo assetto politico europeo non potevano passare inosservati alla poesia; che non può cambiare il mondo, non può far accadere nulla, è impotente dinanzi agli orrori subiti dagli uomini in un dato momento, ma può informare su una determinata situazione; la poesia non innesca cambiamenti sociali, ma, nella sua dimensione artistica, ne diviene racconto e possibilità di presa di coscienza. La poesia di Paul Celan stabilisce una rottura rispetto alle poetiche anteriori, come anche quella dei poeti soprammenzionati, seppur in misura minore, o se vogliamo, in modo diverso. Si potrebbe far riferimento alla grande poesia polacca del XX secolo e alla svolta radicale esercitata, attraverso una voce nuova, da Tadeusz Różewicz. Spostandoci su altre latitudini, potremmo includere altri poeti, come il serbo Vasko

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Popa, iniziatore di una nuova linea poetica. O potremmo anche menzionare la poesia di Salvatore Quasimodo del dopoguerra, nonostante la sua Auschwitz cada nell’errore del pianto e della generalizzazione, allontanando, invece di avvicinarla, la poesia dal lettore. Sono tutti autori nati in un preciso momento storico, testimoni di uno degli orrori più grandi che ha dovuto subire l’umanità. Proprio per questo, hanno generato un cambiamento e rappresentano un seme per le poetiche posteriori. Anche se le vie scelte possono essere completamente diverse, si cerca di trovare una risposta, forse intrinseca alla domanda posta da Adorno, dipende dalla fonte consultata, o alla domanda incipitaria della poesia, ovvero quale posto spetta all’uomo in tutto questo cumulo di fatti, circostanze, orrori, ma anche di bellezza, come può approcciarsi a tutto questo e come può superare i limiti per poterlo esprimere. Consapevolezza e canto quando convergono, quasi sempre, determinano la portata della letteratura. La frattura verificatasi dopo la Seconda guerra mondiale, ovviamente, non è l’unica che la poesia subisce. Già nel XIX secolo essa si trova a fare i conti con un grande cambiamento che comporta, tra le altre cose, l’allontanamento del poeta dal lettore. Facendo prevalere l’idea del poeta inteso come essere superiore, una sorta di medium, il romanticismo produce una rottura evidente, che può essere colmata soltanto nelle tradizioni in cui tale visione assurge a voce del popolo. È quanto accade nella poesia polacca, in cui romanticismo e messianesimo si fondono fino all’estremo. Tocca al poeta instillare nel popolo il desiderio di libertà e la consapevolezza d’essere eletti. Tutto ciò, in modo paradossale, avvicina il poeta al popolo, al lettore, ma rafforza ancora di più la sua funzione di medium. Successivamente, soprattutto in relazione al simbolismo e alle sue varianti, l’allontanamento del poeta diviene sempre più palese. Col simbolismo si raggiunge l’estremo secondo cui la poesia è un’entità autonoma, del tutto indipendente, che non

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dà conto della realtà, ma è essa stessa realtà. La poesia si asserraglia in sé. Essa diviene una costruzione criptica che solo gli iniziati possono arrivare a comprendere. E tutto ciò non fa che acuire l’allontanamento del poeta dal pubblico. Il desiderio – come avviene anche per altre forme d’arte, ad esempio la pittura e la musica – è quello di rompere il sistema dei valori estetici e morali borghesi, incagliati in un classicismo di matrice preromantica, facendo sì che l’idea della poesia, sottoposta a norme ben precise, e portavoce dei valori della società, venga completamente abolita. Tutto ciò, senza tener conto delle affermazioni relative all’impersonalità della poesia di influenti autori quali, ad esempio, T. S. Eliot; il poeta svanisce nella sua “teoria dell’impersonalità” e la fusione con la tradizione diviene impossibile. Le avanguardie forzano ulteriormente il varco e lo rendono insondabile, ammesso che prima non lo fosse. Sia a seguito del simbolismo che delle avanguardie, si generano tutta una serie di elementi ravvisabili nella poesia del secondo dopoguerra: l’impossibilità del linguaggio, o la sua arbitrarietà, il potere dell’immaginazione che interviene sulla realtà, la speranza di poterla rifuggire per poi, alla fine, avvicinarcisi ancora di più. La prima grande guerra, le sommosse nei territori coloniali, la consapevolezza degli orrori perpetuati in questi luoghi, le illusioni degli anni Venti e il crollo del ’29, l’obnubilazione delle ideologie totalitarie, la mala riuscita dei trattati del primo dopoguerra, l’inflazione galoppante in Germania, lo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’ulteriore perpetrazione degli orrori, tutto questo provoca un viraggio nella poesia, nelle sue manifestazioni, nella sua incidenza sul lettore, ammesso che questa si compia. Viene meno qualsiasi tipo di speranza, si vive in una realtà insondabile, fugace e mortificante, e la mancanza di nesso tra il poeta e il lettore, visibile già prima che tutto ciò accadesse, è ancora più evidente. La cosa che più sorprende non è tanto se sia o meno possibile la poesia, quanto che essa

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effettivamente esista. È proprio la mancanza di nesso che consente al poeta di cercare vie alternative d’espressione, di esplorare il linguaggio e di arrivare al limite della comprensione, come fa Paul Celan. Talvolta, in simili occasioni, l’incidenza della poesia si compie in relazione all’ampliamento della nostra percezione della realtà, giacché rende molto più flessibili le frontiere del linguaggio. L’unica poesia che a quei tempi poteva avere una ripercussione sociale era quella presente nei paesi a regime sovietico, volendo attenerci alla tradizione occidentale. In quei posti, per citare Osip Mandel’štam, la poesia era talmente pericolosa che a causa sua avrebbero potuto ucciderti. Lo sperimentò a proprie spese dopo aver scritto i versi considerati un insulto a Stalin – quelli della satira Epigramma a Stalin –, circolati dapprima in ambiti ristrettissimi per finire poi alle orecchie del dittatore (si veniva sempre scoperti, s’era di continuo sottoposti a controlli, c’era sempre la denuncia di qualcuno, in quel sistema di terrore basato sulla diffidenza, sul timore della maschera, perché, in fin dei conti, nessuno poteva essere chi diceva di essere). Prima di intraprendere qualsiasi azione, il dittatore chiede a un altro poeta, Boris Pasternak, di fornirgli il suo giudizio su Mandel’štam. Impensabile, se consideriamo l’epoca e le circostanze in cui sono resi noti i versi. Stalin avrebbe potuto ucciderlo in modo immediato e fulmineo, invece esita e chiede il parere a un altro poeta. L’incidenza della poesia, in questo caso, potremmo dire che ricada su quell’esitazione. Pasternak, poeta impegnato durante tutto il corso della sua carriera artistica, prova a salvare Mandel’štam, ma invano. Potrà fare ben poco. La conseguenza di tutto questo, per il poeta russo, non sarà una pallottola letale, ma l’esilio, il vagabondare da un campo all’altro, il vivere di stenti e la degradazione individuale fino a che, a Voronež, se ne perdono le tracce. Non si sa con esattezza quando morì, ma che fu il sistema ad annichilirlo, sì. Come causa della morte fu dichiarato che si trattò di un

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attacco di cuore. I versi scritti da Mandel’štam, durante l’esilio da un campo all’altro, giungono a noi grazie alla memoria della moglie, Nadežda Mandel’štam, che li tenne a lungo con sé, nella sua mente, per poi pubblicarli all’estero. Quei versi ebbero una grande eco e Mandel’štam divenne il poeta che avversa il potere e la cui poesia riesce a sopravvivere nonostante tutto. In Unione Sovietica le poesie circolarono attraverso i cosiddetti samizdat, copie clandestine che venivano passate di mano in mano. Di fatto, lo stesso Mandel’štam era cosciente del pericolo a cui si esponeva. Non troviamo nella sua poetica le conseguenze di una visione romantica. In lui, come scrive Helena Vidal nel prologo che accompagna la pubblicazione dei suoi versi, la poesia investe il poeta di grande responsabilità. Egli sente, al pari d’un profeta, di rappresentare un legame tra la verità suprema e la realtà umana pur essendo al tempo stesso un peccatore qualunque; egli non è un ospite d’onore a cui è concessa ogni cosa ma un peccatore come tanti. […] Non è più l’epoca dei profeti o dei messia, o almeno, non in poesia. In un momento in cui le conseguenze di certi versi potevano equivalere alla prigione o alla morte, il concetto stesso di poesia si ripercuote su di essi, facendo sì che la voce di Mandel’štam, giunta a noi, susciti un silenzio reverenziale e gran senso di felicità.

Anche il Requiem (1935-1940) di Anna Achmatova, sul terrore stalinista, è un esempio di persistenza e potere della poesia. La poetessa fu ridotta al silenzio, le fu proibito pubblicare per ben due volte, subì l’allontanamento e le fu vietato accostarsi a Mosca e alle altre grandi città. Completamente esiliata, continuò a scrivere poesia, che alla fine ebbe la meglio. Entrambi gli autori citati si posizionano come enti autonomi rispetto alla poesia, il cui asse vertebrale non è semplicemente una sorta di modernismo o simbolismo; se così fosse, non avrebbe trapassato le frontiere. Attraverso le loro creazioni, i due poeti esprimevano il ritorno alla grande cultura occidentale,

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unico elemento in grado di riscattarli dalla realtà che era loro toccato vivere. In casi simili, è giusto parlare di incidenza della poesia? Sì e no. L’influenza che può arrivare ad avere si verifica a posteriori, quando cioè quei versi arrivano ad altre lingue assieme ai principi morali e alle tragedie personali dei loro autori. Forse, nel caso della Achmatova, del suo Requiem, è la poesia in sé, in quanto componimento artistico, che può arrivare a incidere, ma non possiamo dire lo stesso nel caso di Mandel’štam. Una specie di vittoria si verifica quando, attraverso la traduzione, si è capaci di arrivare ad altri, riuscendo addirittura a modificare la visione poetica di un’intera comunità. È quanto accade a questi e ad altri autori costretti a scrivere sotto il giogo d’un regime totalitario, e che riescono poi a trovare la propria voce in un’altra tradizione letteraria. Negli anni ’60, superato il modernismo, la poesia britannica si trovava in un vicolo cieco. In quegli anni, domina un nuovo tipo di poetica, The Movement, che rompe definitivamente col modernismo e con qualsiasi altro tipo d’avanguardia. È una poetica del disincanto, della perdita di riferimento che impedisce di tornare all’elemento britannico. Il massimo esponente del movimento è sempre stato considerato il poeta Philip Larkin. Nello stesso gruppo, anche se appartenente a una seconda generazione, troviamo il poeta Ted Hughes che, assieme a Daniel Weissbort, fonda nel 1965 la rivista «Modern Poetry in Translation». Il loro obiettivo era quello di affiancare alla tradizione poetica britannica altre tradizioni poetiche, soprattutto quella prodotta al di là della Cortina di ferro. È in questo contesto che iniziano a divenire noti, e anche a esercitare una certa influenza, autori come il ceco Miroslav Holub, l’ungherese János Pilinszky, il serbo Vasko Popa o il polacco Zbigniew Herbert. La poesia intesa come resistenza, che cerca di far fronte non solo ai problemi e ai dubbi generati dalla disfatta dell’Europa ma anche a quelli, decisamente più incalzanti, prodotti dal regi-

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me totalitario, s’infiltra nella tradizione poetica che domina la scena internazionale (quello della letteratura angloamericana). Contemporaneamente, dall’altra parte dell’Atlantico, il poeta polacco Czesław Miłosz pubblica la sua influente antologia Postwar Polish Poetry, fatto determinante, poiché consentirà alla tradizione letteraria polacca di erigersi al di sopra di tutte le altre che venivano pubblicate in «Modern Poetry in Translation». Eventi, questi, decisivi per il successivo sviluppo della poesia. Volendo tornare alla questione dell’incidenza, ne troveremmo qui uno spunto interessantissimo: una tradizione poetica che si innesta su un’altra fino a modificarne il punto di vista, lo sguardo sulla realtà, e che è in grado di condurre a nuove realtà. Non sarebbe azzardato affermare che proprio quest’apertura verso le poetiche dell’Est incide sull’idea di nazione e sulla possibilità di far fronte al momento geopolitico e sociale; e, al contempo, rappresenta la possibilità di trovare nuove vie d’espressione, come nel caso di Seamus Heaney. Nella produzione del poeta irlandese Seamus Heaney, nato nella Contea di Londonderry, o semplicemente Derry, una delle sei dell’Irlanda del Nord, la preoccupazione per la situazione politica che investe la sua terra natia, i sanguinosi conflitti che mietono numerose vittime, la situazione di costante terrore che vi si vive, occupa un ruolo fondamentale. Tali riflessioni le ritroviamo in opere come Wintering Out (1972), in North (1975), soprattutto, e anche nel volume The Haw Lantern del 1987. Nel 1988 il poeta irlandese pubblica il libro di saggi, scritti tra il 1978 e il 1975, Government of the Tongue, in cui la dimensione politica nella poesia appare come uno degli elementi principali, filtrata da autori quali Mandel’štam, Zbigniew Herbert o Miroslav Holub. Nel saggio The Impact of Translation, Heaney mette a confronto l’approccio dei poeti costretti a subire la pressione di un regime con quello di quei poeti che sono liberi da questo tipo di condizionamento e che, dunque, possono scrivere in totale libertà:

29 in un ambito letterario professionalizzato qual è quello d’Occidente, il poeta è suscettibile all’auto-disprezzo e allo scetticismo. Negli Stati Uniti, ad esempio, il poeta sa che il sistema che crea reputazioni e sforna libri, sia che lo osanni, sia che lo ignori, è del tutto indifferente alla forza morale ed etica della poesia che viene distribuita. Il pluralismo finanziato di mode e di scuole, l’effluvio continuo di lodi che divengono linguaggio di promozione e marketing, l’unica cosa che possono produrre è una moltitudine di ironisti, dandy e talenti meditativi, giusto per elencare i più dotati. A dire il vero, producono anche la consapevolezza subliminale di possibilità alternative e uno sguardo angosciato in direzione di queste.

I poeti occidentali, tuttavia, non giudicano i loro colleghi; non presuppongono che una situazione tirannica dev’essere mitigata solo perché produce artisti eroici e un’arte disperata; in alcun modo invidiano il loro duro destino d’artista, piuttosto ammirano la loro fede professata nell’arte, visibile soprattutto nelle condizioni più estreme. Rimangono intimiditi dalla vita che giunge al culmine, nella totalità estetica che Yeats, in Lapislazzuli, aveva così immaginato: «Buio! Il cielo gli avvampa nella testa: / la tragedia è giunta al culmine». Ciò che più sorprende è la sacralità dell’arte in quanto elemento costitutivo della società. Cosa che nei paesi più liberi (sebbene sappiamo quanto il concetto possa essere relativo) non si verifica. Nella società occidentale democratica, l’arte, la poesia non hanno più alcun potere sulla società e vanno alla ricerca di altre strade per permettere al ricettore, al lettore, alla società stessa di riconsiderare la condizione umana. E non vale soltanto per questa generazione di poeti. Ogni volta che se ne crea una nuova, questa deve confrontarsi non solo col linguaggio dei poeti che l’hanno preceduta, ma anche con quello della società; confronto ancor più necessario in presenza di un regime di sottomissione. I poeti del ’68 in Polonia, ad esempio, rimettono in atto il tentativo di ridefinire la “verità”;

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cosa comprensibilissima visto che non hanno vissuto in prima persona la guerra, come invece era accaduto ai poeti vissuti durante la Seconda guerra mondiale. La distanza temporale rispetto ad alcuni accadimenti impone un esercizio di immaginazione e tende a generare oblio. In Polonia, i poeti che appartengono a questa generazione oppongono il linguaggio usato dal governo, definito “neolingua”, al linguaggio reale. La “menzogna” viene contrapposta alla “verità”, la fede di cui parlava Seamus Heaney è forse ancora più manifesta. Ma la credenza in determinati valori morali e nell’effettivo potere del linguaggio è frutto della poesia o ha a che fare con la manipolazione di chi comanda? La funzione della poesia nel mondo attuale è la stessa o il discorso vale solo in presenza di un determinato regime? E se fosse la stessa, non verrebbe limitata la propria incidenza, sempre ammesso che sia in grado di esercitarla? Sta di fatto che, alcuni anni dopo, la generazione dei poeti appartenenti alla Nowa Fala (“Nuova Ondata”) abbandonò i propositi iniziali; ogni poeta andò per la propria strada, scegliendo una direzione molto più intimista e personale, facendo perdere le tracce di quella sorta di megafono sociale in cui stavano per convertirsi. La possibile ripercussione della poesia sulla società si pone in aperto conflitto con la volontà e il valore artistico? *** Ero in una libreria di Reus, o almeno è così che la mia memoria ha voluto registrare quel momento. Sono lì che rovisto sullo scaffale dedicato alla poesia e, mentre cerco, un libro cattura la mia attenzione. Non ne conosco ancora il motivo. È uno di quei libri di Tusquets, marroni, con soltanto un’immagine in bella vista sulla copertina. Il titolo era di una semplicità estrema, Poemas, e il nome di quell’autore mi risultava pres-

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soché ignoto. Ovviamente, non sapevo neanche pronunciare il suo nome, Czesław Miłosz. Già dalle prime righe – iniziai a leggere il libro in quello stesso momento – capii che quella poesia mi avrebbe cambiato, il suo tono era così diverso dalle cose lette fino a quel momento: la portata storica che ancora non riuscivo a decifrare, il modo di porre la questione della sopravvivenza umana dinanzi alle ostilità, quel tono così arido, asciutto, ma d’un gran magnetismo, tutta la speranza riposta nella poesia, nonostante ricolma d’amarezza. Successivamente, cercai altre opere, e arrivai alla poesia completa (beh, quasi completa), edita dalla Penguin, di quell’autore vincitore del premio Nobel per la letteratura. In copertina, una natura morta di Chardin, un dipinto che mi ha fatto sempre pensare molto all’autore polacco. Ancora dopo, o forse già da quel momento, non ricordo esattamente quando ebbe inizio, arrivò la smania, il bisogno di trovare tutte le opere dell’autore, il desiderio di potermi immergere nella sua lingua, sebbene fosse un’illusoria impresa. La letteratura di Miłosz, la sua lingua sono così elaborate che una buona conoscenza del polacco non basta, ci vogliono anni prima che si inizi a cogliere le sfumature, e non ci si perda, giusto per fare un esempio, nella sintassi dei suoi primi scritti. Iniziai a imparare il polacco per poter leggere la sua opera e il resto della magnifica tradizione polacca. Scuola in cui la storia, l’ironia, il confronto con la realtà, ma anche la parabola e la creazione del mito divengono elementi verso i quali il linguaggio converge facendola divenire uno degli esempi più rappresentativi della letteratura del XX secolo. Già al primo incontro, capisci che non puoi più fare a meno di questa lingua, dei suoi autori, di quell’universo che non conoscevi ma che era sempre stato lì, anche prima del tuo arrivo.

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*** La rivoluzione linguistica e culturale messa in atto da Tadeusz Różewicz va oltre la visione idealizzata della poesia dell’Europa dell’Est. Di fatto, la poetica di Różewicz è quella che meno trascende le frontiere. Non gode dello stesso apprezzamento e della stessa diffusione di cui godono autori della stessa generazione (come nel caso di Herbert o, successivamente, di Wislawa Szymborska) poiché non attua un discorso gentile col lettore, né rientra tra i suoi obiettivi il rafforzamento di elementi culturali che sono alla base della cultura europea o occidentale. A differenza di Celan, le cui concettualizzazioni e il cui linguaggio presuppongono una profonda conoscenza della cultura ebraica, oltre a esigere un approccio esegetico in grado di decifrare l’ermeneutica della poesia, il poeta polacco mette in atto un’operazione quasi inversa. I riferimenti culturali vengono costantemente attaccati, decostruiti, come a voler dire che dopo la barbarie neanche questi possono più fungere da supporto. Un cambio di visione rispetto a Mandel’štam e Akhmatova è evidente. L’unica cosa afferrabile nella sua poesia è il silenzio, il vuoto da esso prodotto, null’altro; anche se è paradossale, visto che il rumoroso silenzio deve essere espresso mediante il linguaggio. Różewicz, accusato di essere un nichilista, non parte dalla negazione assoluta, la sua poesia rappresenta soltanto un’ulteriore possibilità di opporsi all’orrore. Egli cerca un altro modo per rinominare la realtà, ma non attraverso la cultura ereditata, visto che si è rivelata inefficace nella lotta dell’uomo contro l’uomo. Prima di tutto, il silenzio, poi pare ci inviti a pensare, si può tornare a costruire. Giusto il contrario di ciò che l’Occidente amava nei poeti al di là della Cortina di ferro; quindi non più la credenza in determinati valori, ma la sfiducia dinanzi ad essi. Il valore performante di questo tipo di poesia corre il rischio di esaurire la propria carica in una prima elaborazione e di non riuscire poi a ripetersi.

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È una situazione simile a quella in cui si trovarono i poeti della generazione della Nuova Ondata; dimostrata la propria verità e smascherata la menzogna, non si può più procedere oltre, il cammino dell’arte termina dinanzi alla denuncia diretta. I vari cambiamenti della società nei paesi europei che hanno sperimentato un regime totalitario dimostrano che, una volta messi in atto e una volta instaurato un sistema di tipo capitalistico, il valore dell’arte – riproducibile, come la letteratura – crolla, non rappresenta più un’arma, perché si muove all’interno di parametri completamente diversi e qualsiasi manifestazione artistica abbandona il carattere di denuncia, cosa che però non deve necessariamente condurre al solipsismo. Ciononostante, a seguito della propria evoluzione e del tipo di relazione che stabilisce col lettore, la poesia rimane al margine delle manifestazioni artistiche. La stessa sorte tocca al romanzo e al teatro (giusto per volerci attenere a manifestazioni a carattere temporale e di tipo linguistico, ovvero quelle che non sfruttano la simultaneità, come la pittura e la scultura, ma che necessitano di una certa continuità prima di poter giungere al fruitore, differenziandosi così dalle altre arti e dalla musica) che, nel corso della loro evoluzione, hanno messo in atto rotture e si sono deliberatamente allontanati dal pubblico; nonostante riescano poi a stabilire un patto tra il ricettore e l’opera. I secoli XX e XXI hanno assistito al fenomeno dell’emigrazione. Fatto non riconducibile a una mera sfera individuale, visto che l’instabilità delle frontiere, dopo la Prima guerra mondiale, interessa intere nazioni. L’Europa delineata a partire dalla seconda metà del XX secolo ha poco a che vedere con il continente che, tempo prima, portava lo stesso nome; ma questo, forse, appartiene al suo destino. Quanto alla poesia, possiamo dire che il suo potere sia quello di informare circa la realtà. La sua funzione non è quella di far accadere le cose, di provocare cambiamenti, ma di far sì che il lettore, o il ricettore, prenda coscienza della realtà che gli è toccato vivere, sia quotidiana

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che metafisica. La denuncia esplicita e la morale, se manifeste, finiscono col pregiudicare i versi; possono essere introdotte occasionalmente, tenendo conto che l’intenzionalità perisce nello stesso istante in cui si attua. La poesia deve conservare la propria unicità e la capacità di costituire una risposta a un preciso momento. La sua voce è prima di tutto individuale, poi può divenire collettiva; non è come i mutevoli confini di frontiera che gravano su tutti, indistintamente. Tutti i poeti fin qui nominati, testimoni o vittime della storia più recente, non hanno ricercato una voce di aperta denuncia, ma quella della propria individualità, ampliando così il linguaggio e raggiungendo ampiezza espressiva. E i modi in cui ci riescono sono diversi tra loro, da Celan a Różewicz; poetiche quasi contrapposte, da Mandel’štam a Heaney. Se ne potrebbero citare altri, l’argentino Juan Gelman, ad esempio, che con il suo linguaggio poetico mette in crisi quello convenzionale per poter dare sfogo al dolore. Ancora una volta, l’individualità riesce a penetrare nella coscienza collettiva. Talvolta è proprio questo il motivo per cui si ricorre a riferimenti poetici noti per poter affrontare l’orrore, anche se i riflettori puntati su di esso di continuo si spostano. È quanto accade nell’ex Iugoslavia. Ogni tipo di conflitto, soprattutto in Europa, genera in quella zona una serie di interessi, sia in relazione al conflitto stesso, perché non cessi, sia in relazione alla produzione artistica o letteraria delle persone implicate. Interesse amplificato nel caso in cui gli autori sono costretti all’esilio. Nonostante l’incontrovertibile incertezza incontrata nei paesi che li ospitano, i poeti iniziano involontariamente a elevarsi a portavoce di una comunità, sebbene siano di fatto solo i rappresentanti di una coscienza individuale. Visto che le etichette sono gli altri ad attribuirle, si vedono inevitabilmente coinvolti nella tessitura di questa trama senza potersene sottrarre. E lo spazio da occupare è alquanto esiguo prima che alcuni di essi, convertitisi automaticamente in

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poeta “di qualcosa” (città, nazione, paese, etnia, comunità), vengano tradotti o esportati. In Bosnia, ad esempio, il poeta Mile Stojić, diviene la voce della nazione nelle zone di lingua tedesca, in particolare in Austria. Lo stesso autore, nel suo libro Via Vienna, spiega l’interesse per la letteratura bosniaca in questo paese. Negli altri paesi, il poeta divenuto cantore di Sarajevo è Izet Sarajlić. Leggendo la sua poesia ci chiediamo se questa possa davvero ottenere risultati migliori rispetto alla diretta sensibilizzazione per via morale. Il dilemma ci pervade; essa, la poesia, vuole che il lettore si senta parte della trama tessuta dai sentimenti. Non è una poesia che sprona ad agire o emozionarsi dinanzi alla disgrazia, ricerca l’empatia del lettore. Il piano della poesia è soprattutto individuale, anche se può sconfinare e abbracciare altre territorialità. A volte, però, esso è quasi asfittico, come nel libro Sarajevo, dove viene fatta una scarna cronaca dell’assedio della città, della morte dei cari del poeta (le sue due sorelle, sua moglie), della situazione in cui è costretta a vivere la popolazione. Sullo sfondo di questo crudo racconto, troviamo degli elementi che quasi fanno sentire in colpa il lettore nel caso in cui non se ne sentisse colpito. L’immediatezza della realtà e della politica appaiono con troppa frequenza, e tale concrezione, più che favorire la poesia, agisce in direzione opposta, gli fa da zavorra. Alvin H. Rosenfeld, in The End of the Holocaust, cita il libro di Christopher Lasch, The Minimal Self. Psychic Survival in Troubled Times, per avversare l’idea di una società che tende alla vittimizzazione, facendo in essa spegnere il suo stesso senso; la cosiddetta retorica della vittimizzazione. Di certo, la poesia di Sarajlić e quella di altri autori che hanno sofferto in prima persona la ferocia della storia non rientra in questa classificazione, anche se, nella loro letteratura, a volte, essi hanno fatto ricorso a questo tipo di strategia; cosa curiosa, visto che vittime lo sono davvero. È come se la vittimizzazione si fosse radicata come un discorso a parte, indipendente dai fatti, e

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dunque essi, semplicemente, vi si rifanno. L’obiettivo non è quello di convertire la società in un insieme di vittime, ma far sì che la poesia agisca in senso contrario, che la parola poetica ci renda consci delle distruzioni, delle annichilazioni di interi popoli, di razze, che portano all’annullamento di identità, all’annientamento dei confini, delle tribù e delle lingue; in sostanza, alla distruzione dell’altro, a cui ogni forma di potere aspira. Per questo, scopo della poesia non è quello di cedere alla vittimizzazione ma di impedire al discorso di cadervi. Oggigiorno, non dobbiamo dimenticare le circostanze che hanno plasmato la poesia, né la varietà di voci sorte nel corso del XX secolo. Il poeta sente una certa inadeguatezza rispetto alla propria terra, alla propria identità, alla propria lingua ed è consapevole, o almeno dovrebbe esserlo, che la distanza rispetto ai lettori non potrà più essere colmata. I fruitori della poesia appartengono a una ristrettissima cerchia ed essa, la poesia, non raggiungerà mai una portata tale da investire grandi settori della popolazione; non genera avvenimenti, ma deve poterli mettere in discussione, deve poterli mettere in evidenza. E permeare il linguaggio, per ampliarne le possibilità. Proprio come dice il poeta russo Iosif Brodskij nella parte finale del suo discorso d’accettazione del premio Nobel per la letteratura: Come ben sappiamo, esistono tre modi di conoscenza: il modo analitico, il modo dei profeti biblici, la rivelazione. Ciò che distingue la poesia dal resto dei generi letterari è il fatto di usare al contempo tutti e tre i modi (anche se principalmente il secondo e il terzo). I tre modi, in effetti, hanno luogo nella lingua; in alcuni casi, anche attraverso l’uso di una sola parola, di una sola rima, colui che scrive poesia viene condotto, giungendo più lontano di quanto avrebbe desiderato, in un luogo in cui nessuno era stato prima di lui. Chi scrive poesia lo fa soprattutto perché sa che scrivere versi è uno straordinario

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acceleratore della coscienza, del pensiero, della comprensione dell’universo. Il poeta si vota alla sua lingua, unica sua terra di appartenenza, perché in tutti gli altri ambiti si sente inadeguato, e non certo perché non comprende la realtà che gli è toccato vivere, al contrario, è in grado di analizzarla lucidamente. Ma è attraverso il linguaggio e non attraverso la morale che trova la voce mediante la quale trasmette l’esperienza. Solo affidandosi al linguaggio, la poesia può destare nella coscienza del lettore una riflessione o una rivelazione. Solo così la poesia potrà raggiungere l’incidenza desiderata. *** E il rumore dell’acqua? Lo sentiamo, anni dopo, in una poesia di William Carlos Williams, contenuta nel suo libro Pictures from Brueghel and Other Poems; l’ultimo, prima che il poeta, mesi dopo, morisse. In questa poesia, Paesaggio con caduta di Icaro, viene introdotto il rumore percepibile dallo spettatore o lettore. Ecfrasi e interpretazione si fondono nella parte finale: insignificante lontano dalla costa si produceva un ploff impercettibile era Icaro che annegava.

Icaro affonda e basta, il rumore è fioco, molto affievolito, e il cambio del tempo verbale costituisce la chiave dei versi, è successo e basta. Notiamo una certa differenza se confrontiamo i versi con la poesia di Auden. Bruegel rientra nel lascito culturale, rappresenta un modello che apporta un insegna-

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mento relativo alla società, funge da elemento di supporto. In William Carlos Williams ogni cosa scompare e rimane soltanto il rumore dell’acqua, ci dice che è stato Icaro a cadere, ad affondare, ma al racconto non aggiunge alcun insegnamento, vi è la sola presentazione del fatto, e di un personaggio che può essere conosciuto o meno. L’indifferenza è molto più marcata perché taciuta. A differenza della poesia di Auden, non è sottesa da morale. In quest’ottica, possiamo accostare la poetica di Williams a quella di Tadeusz Różewicz, dal momento in cui in quest’ultima viene messo in evidenza a quanto ben poco serva la cultura; leggiamo, ascoltiamo musica, frequentiamo i musei, ci rimpinziamo a dismisura per ottenere un cumulo di conoscenze statiche, prive di evoluzione o conseguenze che a un certo punto crolla come una debole impalcatura. Ciononostante, nella poesia che Różewicz dedica a Icaro, la visione non è del tutto negativa; essa non giunge alla distruzione, all’annichilamento totale, alla negazione di un prodotto passato attraverso il filtro della cultura, della cultura alta. Leggiamo in Diritti e doveri: Un tempo non so quando una volta pensavo di avere il diritto e il dovere di gridare al contadino guarda guarda ma ascolta cade Icaro affoga Icaro figlio del sogno abbandona l’aratro abbandona la terra apri gli occhi lì Icaro affoga o quel pastore che dà le spalle al dramma d’ali di sole di volo alla caduta

39 ho detto cieco Ma ora quando ora non so so che il contadino deve lavorare la terra che il pastore deve custodire il gregge che ciò che è accaduto a Icaro non è accaduto a loro e deve finire così E in tutto questo non c’è nulla di sconvolgente che quel bel vascello mantenga la propria rotta.

*** Voglio essere Icaro, voglio essere l’acqua, voglio esser chi loda, e anche il pastore, soltanto così potrò raggiungere, anche se in grado minimo, l’indifferenza dinanzi alla trascendentalità, sarò la poesia in tutte le sue possibili voci. *** Quando appare il primo verso, o meglio il verso portante della poesia? Come si articola la poesia attorno a quel verso? Molte volte, a me è accaduto che una poesia, o un intero ciclo di poesie, mi apparisse per caso, mentre magari ero intento a fare altro. Spesso accadeva durante i viaggi. Ricordo come il ciclo delle Elegies centroeuropees? apparve durante un viaggio in treno, da Zagabria a Lubiana; tornavo nella mia casa di allora, leggevo a tratti, poi mettevo giù il libro e guardavo dal finestrino, fu in uno di quegli istanti che apparve quella prima poesia. Ma cosa vuol dire che una poesia appare? In ogni autore troviamo una definizione differente, una diversa spiegazione del processo creativo e di scrittura. Così come in ogni poesia troviamo sia una parte tecnica, delle regole da se-

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guire, che una parte irrazionale. Un aspetto di cui non si suole tener conto quando si parla dei poeti riguarda le multiple letture che si celano dietro la loro scrittura. Nel formulare la tipica domanda sull’ispirazione non si pensa che essa possa far riferimento alle migliaia di poesie lette, assimilate o no, che probabilmente sedimentano in qualche angolo buio dell’inconscio e che ci appaiono poi come rivelazione, anche se altro non sono che il frutto delle diverse letture. Nonostante siano state dedicate pagine e pagine all’ispirazione del poeta, essa in realtà non differisce dall’ispirazione degli altri artisti o scrittori di altri generi. L’ispirazione può stare in un verso come in una frase, in una parola, in un suono, in un quadro, in un’immagine; nella direzione imposta a un’opera, a un romanzo. Come i narratori scrivono per capire di cosa vorrebbero scrivere, lo stesso accade ai poeti. La cosa sorprendente è che, con l’avvento di epoche tese a privilegiare la ragione (a partire dall’Illuminismo, o addirittura dal Rinascimento), la scienza e la tecnologia, le arti si sono andate allontanando senza rimedio sfociando in una visione idealista, evidente anche in poesia. Sono molti gli elementi che vi hanno contribuito, fino a giungere alla piena scissione tra scienza e arte già nel XIX secolo, quando la crepa s’allarga e la spaccatura diviene inevitabile, nonostante i vari tentativi di riconciliare le due discipline, come avviene nel libro Gli elisir della scienza del poeta tedesco Hans Magnus Enzensberger o nella poesia del britannico Michael Symmons Roberts. Le differenti considerazioni rispetto alla mimesi nell’arte, cambiando, fanno sì che la poesia acquisti una certa autonomia; cosa che avrebbe dovuto conferirle una certa libertà, ma che invece la inchioda a un mondo referenziale esterno, essendo essa un’arte temporale soggetta al linguaggio. A differenza di quanto avviene nella pittura o nella musica, che potrebbero mantenere invece una certa autonomia.

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Ordita in tal modo, la poesia fa sì che il poeta non riesca a liberarsi della visione platonica, ovvero dell’ispirazione, trasformandosi così, in molti casi, in una sorta di veggente della società, anche se poi altri non è che un Tiresia disorientato, smarrito nel mondo che lo circonda. Ma non è sempre così. Grandi poeti contemporanei come Derek Walcott, Seamus Heaney, Les Murray, Iosif Brodskij o Czesław Miłosz ci rimandano un’analisi più o meno completa del tempo presente. Cito questi autori perché ciò che mi interessa è il cambiamento che si produce nella seconda metà del XX secolo, e anche se il discorso del modernismo non è ancora del tutto esaurito, le sue strategie letterarie e biografiche risultano sempre più lontane da noi. L’immagine che può venir proiettata da T. S. Eliot o da Rainer Maria Rilke è diametralmente opposta. Il primo esercita un’influenza decisamente maggiore rispetto al secondo, ma con quest’ultimo si mantiene il concetto del verso ispirato, in esso troviamo tutti i resti dei movimenti anteriori (rappresentati dalla sublime decadenza delle loro strutture) che come braci tornano ad ardere anche se con una intensità diversa. Soprattutto, in relazione all’ispirazione. C’è uno iato, tra tutti questi autori, una contraddizione non sempre colmata. È un’epoca in cui i poeti difendono l’esistenza d’un daimon, d’un elemento esterno, d’un soffio, di una forza magica o misteriosa che spinge il linguaggio a intraprendere una via poetica, e al tempo stesso difendono il loro sforzo titanico, il loro costante lavoro, la loro capacità di giungere a soluzioni poetiche. In un’intervista, Czesław Miłosz afferma: «per me il daimon è ciò che tradizionalmente viene definito come un piccolo demone che ci detta le parole. Credo nell’ispirazione. Nell’essere passivi, facciamo di noi stessi uno strumento. Sono sempre stato sensibile alla questione. Nella mia vita sono accadute cose realmente incredibili e non sempre sono in grado di spiegare come nascono le mie poesie. Devo attribuirle all’influenza del mio demone personale». Anche se

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poi, in altre occasioni, difende la sua inesauribile capacità di lavoro, cosa confermata dalla famosa frase in cui affermò che poteva scrivere anche appeso a un lampadario. In un’altra intervista, in questo caso a Derek Walcott, il poeta ci spiega il suo modo di lavorare: poiché scrivo opere di teatro, poesie, e ultimamente sto anche lavorando a un libro di prosa, al mattino ho sempre da fare, magari riscrivo la scena di una opera di teatro o faccio altro, non mi sveglio al mattino dicendo: ecco, ora scriverò una poesia. Il mio rituale è sempre lo stesso, anche quando sono in un paese dal clima mite, e cioè mi alzo ben presto al mattino, bevo una tazza di caffè, vedo sorgere il sole, fumo come una ciminiera e bevo ancora caffè. Se la notte prima ho dormito bene, la mia giornata lavorativa inizia alle sei. Verso le dieci e mezza-undici, sono stanco di lavorare…

Un altro poeta che non gode di particolare notorietà nella lirica inglese, l’australiano Les Murray, fa iniziare tutti i suoi libri di poesia con la dedica Alla gloria di Dio. In uno dei suoi scritti dichiara che le poesie e le religioni hanno un elemento in comune, il mistero che va oltre il linguaggio: Poesia e religione Le religioni sono poemi. Dirigono la nostra mente diurna e sognante, le nostre emozioni, l’istinto, il respiro e il gesto nativo nell’unica totalità di pensiero: la poesia. Nulla è detto finché non esiste in parole e niente è vero se esiste soltanto in parole.

Su un altro versante, Różewicz appare come l’autore che smon­ ta tutte le idee sul poeta e la poesia che si sono andate accumulando finora, arriva addirittura a postulare la totale eliminazione dell’autore, del poeta; è, forse, la sua, la posizione più radicale che sia mai stata presa dinanzi all’immaginario lirico:

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«la poesia vive e può vivere senza l’autore, non deve per forza circolare col suo autore di città in città, di paese in paese, con mire artistiche ed economiche… È ovvio, può accompagnare la sua opera, dimostrando così che dipende da essa… la poesia, in sostanza, non ha bisogno del suo creatore. L’autore può morire, può impazzire o si può convertire nel “preferito dal pubblico”… l’opera, una volta scritta, una volta pronta, vive la propria vita». Ma torniamo un attimo al confronto tra il poeta e la società in cui vive; non la società in generale, ma quel ristretto ambito a cui appartengono il resto dei poeti e degli scrittori. Ciò che Różewicz mette in evidenza è che non esiste una concezione univoca su come i poeti contemporanei considerino la propria attività. Nessun poeta, artista o scrittore si spinge oltre come lui, per paura di perdere quell’aura che lo contraddistingue e, soprattutto, quel ruolo di creatore, di intermediario tra mondi diversi, vedendosi così preclusa qualsiasi partecipazione al sacro. Neanche nel periodo delle avanguardie o delle opere collettive si arriva a questi estremi, visto che si riconosce un minimo intervento del caso. L’affermazione di Różewicz, però, se guardata da un’altra prospettiva, può rappresentare anche l’ispirazione assoluta, dal momento in cui incide sulla particolarità della poesia. Torniamo un attimo all’immagine dell’intermediario: l’opera, una volta scritta, non ha bisogno per funzionare del proprio autore perché nasce da una sorta di illuminazione. La poesia esisteva già, il poeta (l’autore) l’ha solo portata alla luce in una delle sue possibili forme. Questa posizione, a primo acchito rivoluzionaria, comporta un rischio: non essendoci creazione diretta non ce ne possiamo assumere la responsabilità, elemento che invece è fondamentale. Altrimenti, anche la più impegnata poesia contemporanea, priva di questa responsabilità, potrebbe divenire “chiacchiera” che non può essere interpellata. Affinché la poesia possa compiere la sua funzione deve riconoscere la presenza dell’autore dietro di sé. Ogni scelta estetica è anche etica. Non voglio relegare

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Różewicz in qualche categoria in cui non avrebbe amato stare, non è questa la mia intenzione, ma mettere in evidenza come anche il modo in cui viene considerato il materiale poetico, o l’eredità artistica, possa influire sulla ricezione. Nell’affermare che nella poesia contemporanea vi sia ispirazione, ammettiamo l’esistenza di elementi che sfuggono alla nostra ragione, magari nascosti in noi stessi, che possono manifestarsi da un momento all’altro, senza sapere perché il nostro pensiero o il nostro linguaggio ci abbia condotti fin lì. Questo può avvenire soltanto se si raggiunge uno stato di allerta. L’ispirazione, o la funzione del poeta, infatti, sta proprio nell’aguzzare i sensi fino a che lo stato d’allerta provoca l’apparizione di connessioni inesistenti fino a quel momento, partendo da immagini trasformate in parole o dalle stesse parole che implorano di apparire secondo un determinato ordine, poiché quello è l’ordine che s’attribuisce al mondo in quel preciso momento. Non esattamente ciò che Miłosz dice in quei versi precedentemente citati, nei quali avrebbe voluto celebrare i boschi di Shakespeare, ma non poteva farlo e non per una questione morale ma perché i morti, gli assenti, coloro a cui è stata tolta la parola lo vogliono rattenere a sé, perché scriva ciò che non è stato scritto, perché, in quanto testimone, scriva dell’assenza. In questo caso, la poesia nasce dalla necessità, dalla consapevolezza dinanzi all’ecatombe a cui il poeta ha assistito durante la guerra nella sua Varsavia. Sono i morti, le circostanze in cui s’è trovato il poeta a spingerlo verso questo tipo di poesia, è una scrittura disperata. È un grido disperato. È qui che va ricercato il punto di partenza di una poesia che riveste una funzione più accentuatamente sociale, una poesia che potremmo definire della comunità, anche se Miłosz non parla in nome suo ma dei suoi cari defunti; è solo una parte di essa, a cui s’appella il poeta per allestire il suo mondo, che genera in lui un cambiamento nell’atteggiamento. Chissà se anche tutto questo non rientrerebbe nella sfera dell’ispirazione.

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John Berger, nel suo bel saggio dedicato al Rinascimento, pubblicato in Selected Essays, inizia con una riflessione sulla figura dell’artista che possiamo applicare al mondo della poesia: è deprimente. È iniziato a piovere. C’è molta umidità, ma non possiamo lamentarci. È uggioso e cupo. Ognuno di questi commenti descrive lo stesso giorno da punti di vista diversi: quello soggettivo, quello pratico, quello morale e quello visivo. Tutti i veri pittori hanno una spiccata percezione visiva che dice più di qualsiasi descrizione. Pur vedendo, in sostanza, ciò che vedono gli altri. È una cosa scontata, lo so. Ma spesso lo dimentichiamo. Di fatto, è stato solo a partire dal XVI secolo che è stato preso in considerazione?

Se accettiamo il fatto che anche i poeti lavorano per immagini e non soltanto col linguaggio, converremo che tale affermazione possa essere mutuata. Lo stesso avviene se facciamo il contrario, cioè se sostituiamo le immagini al linguaggio. Se il poeta e il pittore hanno una visione potenziata rispetto alle altre persone è perché si trovano in uno stato di allerta. Di fatto, hanno allenato i loro sensi ad attivare questo stato di allerta e a provocare così l’apparizione di elementi che generano connessioni. Tali elementi sono di certo esterni al poeta, ma si verifica anche una sorta di sollecitazione interna affinché essi appaiano. L’ispirazione del poeta è una sorta di prova, non un atto meccanico. Un pianista può provare per ore ed eseguire alla perfezione un pezzo, ma l’esecuzione risulterà in qualche modo grigia, piatta (un pianista è un interprete, a meno che non sia al contempo interprete e compositore). L’attenzione non va al risultato finale ma alle prove, destinate ad avere un dominio assoluto sulle sequenze da rispettare durante l’esecuzione dell’opera, esse rappresentano una ripetizione, non un tentativo. Il discorso cambia se nell’esecuzione vengono introdotte delle variazioni. Si entra di fatto nel terreno della creazione, anche se non del tutto consapevole. L’ispirazione corrisponde al tentativo di ricercare la sorpresa, durante la

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quale il poeta si sorprenderà dinanzi all’inesauribile possibilità di leggere la realtà di cui è testimone. O anche, al lasciarsi condurre in terreni fino a quel momento inesplorati. Eppure, molte volte, sia i lettori che gli artisti si afferrano ancora al solito schema del poeta illuminato e visionario. Non facciamo che trascinarci appresso questa visione, affascinati dalle difficoltà in cui i poeti si trovano a vivere e dalle strategie usate per poterle superare, sia da un punto di vista morale che spirituale. Soprattutto quando le loro poesie sono colme di una simbologia a volte difficile da decifrare. Tra Osip Mandel’štam, Marina Cvetaeva e Boris Pasternak, il più osannato sarà sempre il primo, nonostante tutti e tre abbiano prodotto poesia eccellente, nonostante anche le loro vite siano state segnate dalla tragedia. Nella Cvetaeva, ad esempio, predomina più l’immagine della donna sfortunata in amore, mentre quasi mai si fa riferimento alla tragedia del figlio. Nonostante sia colma di furore poetico, però, la poesia della Cvetaeva non implica difficoltà interpretative, ci muoviamo agilmente tra quei versi cosparsi di sentimenti che raccontano di una malsana società patriarcale. Lo stesso accade per Mandel’štam, ciò che ricordiamo è che i suoi versi ci sono giunti grazie a Nadežda, che però, proprio come il poeta, subì in prima persona (sebbene non arrivò a essere del tutto annientata) tutta la ferocia del regime sovietico. Nonostante questo, si è propensi a considerarla come una Penelope del XX secolo, come la versione moderna di un personaggio che incarna l’estrema fedeltà al proprio uomo, pur di tenere vivo il suo ricordo. Tutto questo continua a esercitare un innegabile magnetismo, e non perché incarni dei valori socialmente riconosciuti, ma perché entrambi, sia Osip Mandel’štam, sia Nadežda Mandel’štam, sono la reincarnazione del mito letterario. Ella assume i tratti di Penelope e di Antigone; egli di Tiresia e di Orfeo (in relazione alla morte, non alla ricerca di Euridice). Come se volessimo farli divenire più letterari di quanto non siano già, cosa che

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corrisponderebbe a una totale sublimazione dell’ispirazione nell’era della tecnica. *** La poesia mi conduce in territori che mi duole esplorare. Esistono diversi tipi di poetica, quella che più mi attrae è quella che mi spinge a guardare verso la parte più insondabile di me stesso, o della persona in generale, ovvero, la parte che non riesco a comprendere. Non preconizzo una poesia del dolore, tutt’al più dell’assenza. La poesia è dall’assenza che nasce. Stare in posti diversi è come abitare la poesia, non riusciremo mai a liberarci del senso di stranezza che ci accompagnerà per sempre. La gioia del linguaggio, la scoperta che ci procura il linguaggio, intesa come sorpresa, convive con l’assenza, il vuoto, la perdita, il tentativo messo in atto dalla memoria nella poesia. È una contraddizione necessaria alla dinamica del verso. Bisognerebbe conciliare lirica e pensiero perché la lirica, senza di esso, può sì divenire un bel canto, addirittura perfetto, ma è noto, ogni perfezione conduce all’indolenza. *** Vivevo da alcuni anni in Polonia, ma la relazione che avevo col paese, la lingua e la cultura, risaliva già a qualche tempo prima.

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A parte i primi due anni, durante i quali vissi nella parte occidentale del paese, tutte le altre volte ho sempre vissuto nella parte orientale; poi, quando mi trasferii a Cracovia, nella parte sud. Fatta eccezione dei primi due anni, verso la fine degli anni ’90, ho sempre avuto Auschwitz molto vicina. Ma esitavo ad andarci. Avevo anche già tradotto Mélodies d’Auschwitz di Simon Laks. Simon (o Szymon) Laks divenne direttore d’orchestra ad Auschwitz, una delle più tragiche espressioni dei campi di concentramento, difficile da raccontare, soprattutto in relazione ai processi di sterminio. Come era possibile l’esistenza dell’arte, della musica, in quel campo? Traducendo quel libro, potevo fare come avevo sempre fatto: attraversare gli spazi dell’orrore grazie alle immagini. L’infinita riproduzione di immagini, se da una parte ha generato uno spazio mentale non del tutto aderente allo spazio fisico che, invece, scatena in chi vi si trova certe reazioni, dall’altra basta da sola a spiegare la storia e l’orrore, così come affermato da Didi-Huberman. Si possono ripercorrere quegli spazi attraverso il linguaggio, delle opere di Primo Levi, ad esempio, o di Imre Kertész. Si può non essere mai stati ad Auschwitz eppure poterne ricostruire tutto un itinerario mentale senza grande sforzo; l’unica difficoltà è quella di immaginarvi al loro interno i prigionieri. Se andiamo ad Auschwitz, riconosciamo subito la famosa entrata, ma l’identificazione finisce qui; varcato il cancello, nulla è ciò che sembra. O quasi nulla. Dopo la visita ad Auschwitz, ho tradotto altri libri di superstiti dell’Olocausto, non solo in riferimento a questo campo ma anche ad altri, ad alcuni ghetti e a prigioni riconducibili al Terzo Reich o al regime dell’Unione Sovietica. Così come ho tradotto testi di persone che non sopravvissero. Tra questi, gli appunti tratti dal Sonderkommando di Zalmen Gradowski, che prendono il titolo di Mi trovo nel cuore dell’inferno (alcuni studi raccomandano di non usare la parola inferno per definire Auschwitz o, in generale, per parlare delle esperienze vissute in un campo di

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concentramento, per le connotazioni culturali e religiose che la parola ha assunto, come a dire che neanche un paragone tanto estremo potrebbe servire per raccontare ciò che in quei campi avvenne). Scritti con evidenti richiami a una poesia di matrice romantica (in alcuni capitoli, l’autore si rivolge alla luna), che sono davvero di grande impatto se teniamo conto delle circostanze in cui furono composti. Ci sono poi le memorie di Helena Dunicz-Niwińska, che fece parte dell’orchestra femminile di Birkenau, nella quale conobbe Alma Rosé e suonò sotto la sua direzione. Per ben due volte, ho avuto a che fare con testi in cui i loro autori, sopravvissuti ai campi di concentramento, avevano trovato nell’arte sia una via di fuga che una fonte di tormento. È la contraddizione dell’estetica, della bellezza, che dà la possibilità all’essere, anche nelle situazioni più estreme, di ricorrere all’arte. Ripensando alla famosa frase di Adorno, forse più che tener conto dell’intenzione con cui egli la pronunciò (in relazione al momento storico e ai condizionamenti esterni), dovremmo tener conto dell’intenzione con cui noi la pronunciamo, consapevoli che l’estetica fosse già in qualche modo presente in quei campi, nelle sue diverse espressioni, non solo in quella musicale. È questo il senso che le attribuiamo, ovvero quello di provare a introdursi in un’alterità che non interdica un’esecuzione ma che sia invece in grado di accogliere la portata dell’attività artistica. Poi, vennero a trovarmi degli amici che espressero la volontà di andare ad Auschwitz, ed io pensai di seguirli, avevo già tradotto il libro di Simon Laks ed ero già entrato in stretto contatto con la sua voce, visto che la traduzione ti obbliga a mettere da parte la semplice lettura e a entrare nelle fenditure del testo, fino a che non lo fai tuo e non trovi, nella tua lingua, le parole per dar voce all’autore. Pensai che avrei potuto fare questa visita in loro compagnia e che non sarebbe stato necessario andarci da solo per affrontare la cosa in modo più

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diretto. Una delle cose che più temevo era il confronto con una realtà così sconosciuta. Salimmo in macchina di buon mattino e ci mettemmo in cammino per raggiungere una meta così poco allettante. Era un giorno di inizio autunno che, in Polonia, nella zona sud, può arrivare ad avere differenti sfumature. Quel giorno non assunse parvenze piacevoli, era uggioso, grigio, di un grigiore che in quel posto può durare anche settimane, e poi, per il periodo in cui eravamo, faceva già freddo. Ci trovavamo dinanzi a un grigiore costante. Qui, se Humboldt venisse col suo cianometro dovrebbe riporlo, indicherebbe sempre lo stesso punto, tutt’al più registrerebbe gradazioni di grigio e non di blu. O se si portasse qui l’istallazione dello sloveno Martin Bricelj Baraga, dedicata allo strumento, perderebbe di sicuro la sua funzione e il suo fascino. Anche durante gli autunni precedenti avevo notato il diffondersi della tristezza al calar del buio, che avveniva sempre prima man mano che ci allontanavamo dall’estate, la fine della quale potrei dire che avvenisse il 15 agosto. Il caso volle che giungessimo prima a Birkenau; non essendoci mai stato, non conoscevo la strada, e dunque non sapevo che saremmo arrivati prima lì. Decidemmo di rimanere, invertendo l’itinerario che sono soliti fare i turisti. Era ancora mattina, e nel campo c’erano soltanto due o tre persone. Durante le visite successive, non ho mai più sperimentato la sensazione provata in quel momento in cui avanzavamo, in silenzio, in quel freddo mattino, per quell’enorme superficie, vedendo apparire le baracche intatte. Quel silenzio, abitato ovunque, era talmente colmo che pareva sul punto di esplodere, dato l’enorme accumulo di tutte le parole che si erano andate succedendo in quel posto. Forse è la stessa sensazione che si ha nei campi di concentramento di cui sono rimasti solo i confini perimetrali, come Stutthof, per fare un esempio. Ad Auschwitz, tutto sembrava disposto per ricreare un effetto. Ricordo che mi disturbò moltissimo la presenza dei padiglioni “nazionali”, atti

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a sottolineare un’ideologia sovrapposta rispetto all’esperienza del campo. Tempo dopo, ho avuto modo di costatare che non sono stato l’unico ad avvertire fastidio e a sentire la necessità di criticare la cosa in modo aspro. Ne parla Didi-Huberman nel suo libro Écorces: la penosa sensazione di vedere le baracche del campo – dalla baracca 13 alla 21 – trasformate in padiglioni “nazionali”, come alla Biennale di Venezia che ha luogo in questo stesso istante in cui io attraverso questi luoghi. Qui, più che altrove, le mura mentono: una volta nelle baracche, non riesco neanche a vedere di cosa siano fatte, visto che si sono convertite in uno spazio espositivo. C’è il padiglione polacco, con i pannelli pedagogici e l’enfasi nazionale; il padiglione italiano con la sua cura architettonica, come se fosse necessaria la fantasia decorativa per trasmettere quel messaggio storico; il padiglione francese firmato Annette Wieviorka, con quella “scenografia” e quel “grafismo”, con quelle ombre disegnate sulla parete, ricorda un’opera di Christian Boltanski e la promozione che fa del film Shoah di Claude Lanzmann. Oggi più che mai, è necessaria la presenza dei libri di Annette Wieviorka nelle biblioteche, così come più necessaria che mai è la proiezione nelle sale cinematografiche del film di Claude Lanzmann. Ogni luogo di cultura – biblioteche, cinema, musei – può contribuire alla ricostruzione della memoria di Auschwitz, è ovvio. Ma cosa dovremmo dire quando Auschwitz viene dimenticata nel suo stesso luogo di appartenenza in favore di un luogo fittizio che ha la funzione di ricordare Auschwitz?

Ogni tipo di manifestazione culturale concorre a tenere viva l’esistenza di Auschwitz, non si può ricorrere esclusivamente all’efferatezza dei fatti; bisogna ricondurre lo sguardo ad essa più e più volte, da diverse prospettive, è necessario. E in grado di farlo sono le arti, la cultura, le istituzioni, ma non a costo di perdere quel luogo di tenebre così caro all’umanità, perché allora si rischierebbe la dissoluzione di Auschwitz in

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Auschwitz, o la distruzione di Auschwitz in Auschwitz. Se questo dovesse avvenire, nessuna creazione sarebbe più in grado di proteggere dall’oblio. La poesia spinge a cercare nella memoria e fa in modo che essa si desti, ci scuote attraverso le scoperte linguistiche, i sussulti del pensiero, le associazioni inattese o le immagini di cui non ci riusciamo a liberare; molte volte, ha il potere di fare tutto ciò, ma riesce a contrarrestare l’oblio? Sì, ma non dobbiamo guardare all’intera società, basterà una poesia, un lettore e la memoria riavvamperà, sarà salva, anche se rintanata in qualche angolo remoto; per fare un parallelismo con la lingua, quel lettore sarà come l’ultimo parlante d’una lingua in estinzione, per cui, se quella lingua la trasmette, essa sarà salva. Basta una sola poesia e la memoria continuerà a esistere, ad avere continuità. *** Il nome Debora Vogel forse non dice molto a un qualsiasi lettore. Il poeta polacco Tomasz Różycki le dedica una poesia che ha delle iniziali per titolo (A D. V.). Egli, nei suoi scritti, torna spesso alla terra dei suoi genitori, ovvero alla zona di Leopoli, per i polacchi Lwów. Attualmente, Leopoli è una città ucraina, ma nel periodo fra le due guerre appartenne alla Polonia, e durante l’epoca dell’Impero austro-ungarico divenne capitale del Regno di Galizia. Città che vanta la presenza di diverse figure internazionali, è divenuta un mito per i polacchi. Dopo la Seconda guerra mondiale, in virtù degli accordi di Yalta, passa a far parte della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina nell’Unione Sovietica e, dunque, a causa dei mutati confini di frontiera, gli abitanti polacchi che vivevano in quella zona sono costretti a trasferirsi nella zona della Slesia – attualmente territorio polacco, ma fino a quel momento, appartenuta alla Germania. Lo spostamento di una popolazione serve a colmare il vuoto prodotto da un altro spostamento. A un certo

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punto, quasi tutti vivevano in un posto in cui non erano nati, cosa che permise alle radici e all’identità di acquisire un valore differente. Różycki stabilisce uno dei suoi assi poetici a Leopoli, osservando delle coordinate temporali nient’affatto rigide, dal momento in cui è solito alterare la sequenza cronologica lineare e condurci in un tempo che, al contempo, racchiude presente e passato. Perché abbiamo fatto riferimento a Debora Vogel, a Leopoli e al fatto che i polacchi potrebbero capire al volo il riferimento di quelle iniziali? Debora Vogel nacque da una famiglia ebrea e, dopo aver trascorso il periodo della Prima guerra mondiale a Vienna, si trasferisce a Leopoli; successivamente, andò a studiare a Cracovia, poi tornò di nuovo a Leopoli, dove insegnerà letteratura polacca e letteratura ebraica (alcune divisioni non potranno mai essere recuperate). Scrisse narrativa e poesia in lingua yiddish, come ad esempio Acacie in fiore o Manichini. Debora Vogel conosceva l’autore Stanisław Ignacy Witkiewicz, e fu grazie a lui che entrò in contatto con lo scrittore Bruno Schulz, una delle più gloriose penne della letteratura polacca. La lingua da lui adoperata è ricchissima di sfumature, la sua sintassi riesce a essere contorta fino all’estremo, ma la squisitezza che riesce a raggiungere nella scrittura pochi altri l’hanno raggiunta. Debora Vogel divenne grande amica di Bruno Schulz, se ne conserva una ricca corrispondenza, nella quale troviamo un primo riferimento a Le botteghe color cannella, opera dell’autore di origine ebraica. Il 19 novembre 1942, ricordato come “giovedì nero”, a Bruno Schulz viene sparato un colpo da un ufficiale della Gestapo. L’omicida agì per vendetta: a quanto pare, il tedesco che deteneva il controllo di Schulz, dieci giorni prima, aveva ucciso “il suo ebreo”. Pare che l’indomani Bruno Schulz sarebbe dovuto fuggire dal ghetto per raggiungere Varsavia. Questo almeno è quanto dice una delle voci che ha contribuito ad alimentare la leggenda. Quanto a Debora, invece, sappiamo che nel 1942,

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durante un attacco agli ebrei del ghetto di Leopoli, muore assieme a sua madre, il marito e il figlio. Quando fioriscono le acacie? Per D. V. Chi sostiene questo mondo? Sarà una bella estate. Ci bagnammo nel fiume, lì dove finisce il bosco, la vita in un cestino con delle ciliegie gialle, molto succose. Non lo voglio dire, ma è accaduto. Il padre, la madre e il figlio, e attorno la vegetazione tutta: un’enorme superficie inutile, che assume una forma che non ci vuole. Racconto la storia di una nazione che sprofondò nella terra e fece crescere erba, grespini, cumino, e anche dell’alta camomilla, bella, dall’occhio rifulgente. Che poi divenne terra sulla quale crebbe erba, gladioli, cicorie, soprattutto cicorie. Come passa l’estate? C’è troppo spazio, sul prato, sulle ciminiere, sul negozio vuoto. Che venga qualcuno, un uomo o un animale, e inizi a soffiarci e ancora a soffiarci, e noi voleremo più in là.

Nell’ultima lettera che Debora Vogel scrive a Bruno Schulz, datata 9 gennaio 1939 – all’inizio di quello che sarebbe stato un anno funesto, che avrebbe cambiato le loro vite e quelle di milioni di persone di tutta Europa e degli altri continenti –, quando cioè ancora si scambiavano visite, si scrivevano lettere e mantenevano una relazione d’amicizia, amore, gelosia e possesso, le dice: dirai che è proprio questo, e cioè che voglio vivere in base “agli esempi” della vita, concrezioni banali che “ravviviamo come fuoco”; lo dici sempre tu. Non credo che gli altri si comportino diversamente, che si sottraggano all’unicità della vita, sperimentata in alcune esperienze, ovviamente, non

55 in tutte; perché come me, come noi, hanno alle loro spalle tutta una serie di “esperienze” (utilizzare la parola in questo contesto è una sorta di contradictio in addiecto), se vogliamo inutili, arricchite forse da qualche sfumatura, che diviene fondamentale, visto che poi ad essa esclusivamente s’afferrano. Anche noi facciamo lo stesso, anteponiamo alla nostra umanità, rappresentata da una vita grigia e eterna, una dose di romanticismo, d’avventura, di errori terribili e catastrofi; conserviamo una percentuale di esotismo che si manifesta sotto forma di viaggio, quando visitiamo città nuove e tutto ciò che le circonda, o lì facciamo delle scoperte. Rispetto al viaggio, non devono per forza passare sei mesi per poterne cogliere (in modo esemplare) l’essenza; essa comunque perdura in modo esemplare sebbene non siano stati portati a termine tutti i viaggi, e questo sarebbe l’unico argomento a sfavore della conoscenza “esemplare”, tale come la definisco. Non è la percentuale della vita a stabilire il valore che le attribuiamo; a deciderlo, è “l’esemplarità”.

La lettera s’interrompe qui, non ci sono altre parole. Di ogni cosa, rimane, alla fine, una percentuale, sempre scarsa, e tutti i viaggi che non arriveremo mai a fare. *** Si potrebbero fare dei parallelismi tra gli ultimi versi della poesia di Tomasz Różycki e Fuga di morte di Paul Celan, anche se l’argomento viene trattato in modo differente. In Różycki la distanza temporale rispetto agli eventi fa sì che il lirismo appaia molto più accentuato, cosa che in alcun momento avrebbe potuto permettersi Paul Celan, in quella sua poesia molto più diretta e cruda. Cedere alla bellezza estetica avrebbe suscitato, con molta probabilità, un dibattito ancora più acceso sulla letteratura, sulle sue vie d’espressione, e sull’orrore dei campi di concentramento. Il cambiamento provocato dalla Seconda guerra mondiale e dai campi di concentramento si manifesta

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in diversi modi, e più ci si allontana dai fatti, più ci si avvicina alla ricerca degli strumenti letterari e, soprattutto, alla poesia, senza mai dimenticare l’oblio. Nella poesia contemporanea, infatti, gli assi della memoria e della sofferenza sono fondamentali, come pure la coscienza individuale. L’intenzione è quella di abbandonare la zavorra delle idee romantiche che, di fatto, hanno influito sulla nostra sensibilità, sia in quanto lettori, sia in quanto autori. Si tratta di una costante contraddizione, altro asse fondamentale per capire talvolta la poesia contemporanea. Contraddizione interna ed esterna (l’immagine del poeta), dunque, quella presente in ogni asse a cui si è fatto riferimento. Quando parlo di sofferenza, non mi riferisco solo ai campi di concentramento, ma anche a tutti quei conflitti ai quali abbiamo dovuto assistere anche dopo la grande guerra. E le strategie letterarie per farvi fronte possono adottare forme differenti. Interessante dibattito è quello sviluppatosi in seno alla poesia irlandese, durante il conflitto in Irlanda del Nord, soprattutto in relazione ad autori quali Seamus Heaney, Derek Mahon o Michael Longley. Heaney, ad esempio, trova un’importante chiave di lettura circa la questione dell’ispirazione. Heaney legge la traduzione inglese del libro Il popolo della palude (The Bog People) dell’archeologo danese P. V. Glob (la traduzione appare nel 1969); ricerca dall’impostazione molto interessante. Al suo interno vengono presentati studi sull’uomo di Tollund (Tollund man) e sull’uomo di Grauballe (Grauballe man), scoperti negli anni ’50 in Danimarca, appartenenti all’Età del ferro e in buono stato di conservazione poiché protetti dalla torbiera in cui sono stati scoperti. Ne commenta la morte, i funerali e il fatto che, in alcuni casi, si trattava di decessi dovuti a riti o atti di violenza. Lo stesso anno in cui appare la traduzione inglese, Heaney pubblica Door into the Dark, in cui per la prima volta si rifà al simbolo degli uomini delle torbiere, “Bogland”. Elemento che poi protrarrà in altre

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sue opere, soprattutto in Wintering Out, del 1972, e in North, apparso nel 1975, in cui il simbolo funge da catalizzatore delle riflessioni circa le violenze in Irlanda del Nord. È il linguaggio della crudeltà che dà la possibilità a Heaney di avvicinare due epoche così lontane. La sua è una poesia lirica, asciutta e al contempo descrittiva; Seamus Heaney parla attraverso questi corpi mummificati, senza celarsi mai dietro una maschera, è come uno spettatore che assiste ai fatti e ricollega i due momenti. A differenza di gran parte della poesia del XX secolo, che trova rifugio nella maschera, facendo ad esempio parlare un personaggio storico dell’epoca fino ad apparire quasi trasfigurato, il poeta irlandese è un osservatore cosciente e tale osservazione costituisce la base della poesia. Michael Longley, nato nello stesso anno di Seamus Heaney, nel 1939, assume una posizione completamente diversa. Anche nella sua poesia la questione della violenza è centrale, ma viene affrontata in modo diretto. Anche l’ambientazione è diversa, con Longley ripercorriamo la Prima guerra mondiale, la Seconda guerra mondiale, l’esperienza dei campi di concentramento e il conflitto irlandese; la sua è un’ambientazione nel passato relativa alla memoria. Longley parla di un passato che è in qualche modo ancora attuale; quello a cui si riferisce è un passato remoto che ha un’ambientazione nel presente. In entrambi i casi, la memoria è fondamentale, i meccanismi che articolano le loro poesie sono, però, completamente diversi. Heaney ricorre al simbolo, Longley all’immagine, e questo accentua la differenza circa la loro produzione artistica. In Gorse Fires del 1991, Longley include una serie di poesie che potrebbero essere ricondotte alla questione dell’Olocausto. La poesia, estremamente breve, che dà inizio alla serie recita: Terezín Nessuna stanza mai è stata silenziosa come quella in cui centinaia di violini vengono appesi all’unisono.

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Il suo essere conciso culmina nel silenzio evocato dai suoi versi. Non è necessario sapere che la poesia fa riferimento a una precisa sala del campo di Terezín (o di Theresienstadt, attualmente nella Repubblica Ceca), nella quale venivano appesi i violini sequestrati agli ebrei, destinati ai familiari dei nazisti; quei versi, direttamente, ce la mostrano, rappresentano una sorta di fotografia di quella sala. La riflessione di Didi-­Huberman è controbilanciata da questa poesia di Longley. Senza l’esistenza della sala, così configurata per ricreare un effetto nel visitatore, sarebbe mai esistita la poesia? Forse non questa, ma di sicuro un’altra dello stesso genere, atta a esprimere esattamente la stessa cosa. In alcuni casi, la poesia esiste ancor prima del poeta, è già lì. Ciò di cui si ha bisogno è la capacità di osservazione del poeta perché il linguaggio prenda corpo e possa, in due versi, esprimere un abisso di desolazione. È forse questa un’altra delle contraddizioni della lirica moderna. *** Il silenzio proviene dal linguaggio? Appare dietro di esso? Il silenzio, inteso come incontro, è uno stato che la poesia sperimenta. Essa, la poesia, conferma la pienezza del silenzio. Entrai in una delle baracche, solo in quella, in realtà, in quel freddo mattino. La terra brinata, si sentiva lo scricchiolio dei passi, il gracchio delle cornacchie; dentro di me, l’assenza di rumore, ero incredulo, lo sono ancora. La baracca era vuota ma la vedevo piena, era un affastellarsi di immagini, accompagnato da un denso silenzio; la mia mente cercava fotografie note, che poi svanivano, quel vuoto e quel silenzio erano abitati da una puzza intensa. La strada era in salita, una pendenza non molto pronunciata ma che faceva rallentare il passo, in quella tua città, Drohobyč,

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rappresentativa di tutto un mondo immaginario. D’un tratto, la freddezza del metallo, la pallottola fulminea. Si allarga una pozza di sangue, ed è silenzio. Né Varsavia, né nulla più. Soltanto le parole, legate, una appresso all’altra, le sue, e quelle degli altri dedicate a lui. Le parole del silenzio nei versi. *** La memoria può essere l’equivalente dell’immaginazione, nel­ l’evocare non faremo altro che selezionare, ricordi personali o altrui, avvenimenti. A un certo punto, dimentichiamo l’esattezza dei fatti, visitiamo una città e, una volta via, cominciamo a dimenticarne le strade, a confondere i momenti? Quando siamo entrati in un negozio? In che zona, di preciso? Dovremmo ricercare senza sosta nuove mappe, reali e immaginarie, per poterci orientare nello spazio geografico e in quello della nostra memoria. Hobbes, nel Leviathan, finisce con l’affermare che l’immaginazione e la memoria sono la stessa cosa. L’affermazione a cui giunge Hobbes viene utilizzata come epigrafe nel ciclo di poesie A German Requiem. A Poem del poeta James Fenton. Nel componimento che apre la raccolta, egli fa ricorso a dei versi espressi in sticomitia, attraverso la quale unità metrica e unità sintattica coincidono. Si tratta di una serie di affermazioni pronunciate a seguito di una disgrazia che prende avvio nella parte finale del testo, in relazione a un personaggio centrale: Non è ciò che hanno costruito. È ciò che hanno distrutto. Non sono le case. È lo spazio tra di esse. Non sono le strade che esistono. Sono quelle che non esisto     no più. Non sono le tue memorie che ti perseguitano. Non è ciò che hai scritto. Ciò che hai dimenticato, ciò che devi dimenticare. Ciò che devi continuare a dimenticare per il resto della vita.

60 E con un po’ di fortuna l’oblio svela un rituale. Scoprirai di non essere solo in quest’impresa. Fino a ieri anche i mobili parevano rimproverarti. Oggi prendi posto sul Bus delle Vedove.

La poesia impersonale di James Fenton investe lo scritto su più livelli. Dissolvere l’io nel magma della storia è uno dei lasciti che avrebbe voluto farci il post-modernismo, rompendo con la visione romantica, ma allo stesso tempo rifacendovisi. La memoria funziona grazie all’immaginazione, non c’è una realtà tangibile. Nell’avvertire una perdita (rispetto a persone, luoghi, o anche alla storia) rafforziamo in qualche modo quell’io non del tutto scomparso, ammesso che avesse iniziato un processo di sparizione. Terminata la costruzione, le circostanze non possono essere smontate al pari di un’impalcatura, continuano a rimanere lì e la poesia ce lo ricorda. L’obiettivo è quello di riappropriasi dell’io, per andare oltre quell’immagine, via via più deformata, rimandataci dall’immaginazione e dalla memoria. La poesia è lì per compiere questa missione, garantire cioè che l’io continui a esserci nonostante tutte le assenze che saremo costretti a subire. E comprendere che è possibile scorgere quel rituale, che non si è soli in questa impresa e che proprio la consapevolezza della perdita consente di continuare a costruire. *** Nel ciclo di poesie di Michael Longley citato poc’anzi, a Terezín, come in una sorta di inversione temporale, segue la poe­ sia dal titolo Ghetto: Visto che presto soffrirai e morirai, le tue scelte non sono né giuste né sbagliate: un cucchiaio ti nutrirà, un asciugamano ti terrà pulito, uno spazzolino da denti ti ri porta

61 al tuo bagno vista ciminiere e giardini. Con così poco tempo per un inventario o partire stai facendo i bagagli per il resto della vita fotografie, medicine, un cambio, un libro, un candelabro, un tozzo di pane, sardine, ago e filo. Sono questi i tuoi beni, deperibili, terreni, reliquie. Quello che porti via e quello che lasci sono la stessa cosa, L’ultimo dei tuoi effetti l’elenco dei tuoi effetti.

È una sequenza di immagini, una dietro l’altra. La ricerca della metafora scompare e cede il posto alla scoperta del linguaggio, come avviene nell’ultimo verso; la cosa più importante, però, resta la trasmissione di quelle immagini. Sono come obiettivi puntati che fotografano con distacco, e la prospettiva è come se venisse aperta da un bisturi. Tutto ciò avviene sia nella poesia immediatamente comprensibile, quella che può arrivare a un accordo col lettore, sia nella poesia che si situa al limite della comprensione. Non si tratta di un tipo ben preciso di poesia, ma della coesistenza di punti di vista diversi. Le enumerazioni rappresentano l’antidoto contro la scomparsa. Nominare gli oggetti che ci hanno accompagnati per salvare i frammenti che pure sono parte del tutto. Ogni cosa sparirà, ma se resta una lista di oggetti, può essere recuperata una parte della memoria della persona a cui sono appartenuti, si può ricreare una storia. La cosa tangibile rappresenta il legame diretto con l’evocazione. Se non c’è più la casa, che ci siano almeno gli oggetti. Queste poesie di Michael Longley sono ispirate al libro Time to Speak, le memorie di Helen Lewis, amica di famiglia di Longley, nata a Trutnov in Boemia, coreografa e insegnante di danza contemporanea a Belfast, che era stata nei campi di concentramento di Terezín, di Auschwitz e di Stutthof e che sopravvisse alla marcia verso morte. La temporalità o, talvolta, la simultaneità che troviamo in Longley nel parlare dei conflitti, della Prima, della Seconda guerra mondiale e dei campi di

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concentramento, può essere ricondotta alla ricezione per posta delle diverse parti del libro di memorie, così come spiega l’autore nel prologo di Time to Speak. Le enumerazioni, che sono quasi una costante nell’opera del­ l’autore irlandese, rappresentano in questo caso un ripasso degli oggetti e delle azioni, connessi gli uni alle altre, perché è attraverso tali elementi che si definisce la relazione col mondo circostante. Lo straordinario può essere intriso di assoluta quotidianità, ci passa accanto senza che ce ne accorgiamo e affonda in mare come Icaro. Solo il linguaggio, le file di versi, disposte come solchi, possono renderlo visibile e unico anche davanti all’indifferenza. *** L’estraneità di me stesso mi assale spesso durante la giornata, a volte pare arretrare e penso che svanisca, ma non avviene, di nuovo si ripresenta. Non mi dà tregua, è come il ticchettio fastidioso di un orologio che per quanto tu voglia nascondere, troverà comunque il modo d’impossessarsi del tuo udito. È e non è al contempo. Inizio la giornata con una lingua che non è la mia, in un posto in cui non sono nato, ma in cui mi sono formato. I miei ricordi dimorano, intoccabili, in uno spazio che non sono solito visitare, trasferisco ogni cosa in un luogo in cui non ho radici. Quando parlo la loro lingua mi sento sdoppiato, non sono io a parlare, è come se lo facessi per bocca di un ventriloquo. È come se mi vedessi dal di fuori e, da una certa distanza, riuscissi ad analizzare le mie parole, per vedere se coincidono con altre, quelle mie, quelle della mia lingua, quelle che qui non dico ma che, impazienti, non vedono l’ora di uscire. Entro in un negozio, domando una cosa qualsiasi, e non bado al fatto che mi capiscano o meno. Non ci sono indugi nel parla-

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re la loro lingua, questo è quanto credo che pensino nell’ascoltarmi. Da dove viene? Perché ha questo accento particolare? Straniero e non al tempo stesso. Perché nel parlare la loro lingua ho perso quelle caratteristiche che mi avrebbero potuto smascherare, pur conservandone altre, ovviamente. Passano i giorni e io continuo a non sentirmi del posto, si può dire che esista un processo di naturalizzazione? Recita un verso del poeta lituano Tomas Venclova: «Il tuo accento / non disturba, ma non apre prospettive». Un verso che appartiene alla poesia L’emigrante. E a Venclova toccò esserlo, dovette lasciare il paese quando era ancora parte dell’Unione Sovietica – e pensare che suo padre era il poeta ufficiale della Lituania del tempo, e dunque affine al regime – e, al suo rientro in paese, a livello letterario, fu ostracizzato dagli altri scrittori. *** A volte, mi tornano in mente i versi della poesia Shibboleth di Michael Donaghy e penso che, in caso di conflitto, difficilmente potrei sottrarmi a una prova linguistica come quella che ascoltai a Poznań, durante la mia prima permanenza in Polonia. Shibboleth è una parola che segna una distinzione, un termine che dà la possibilità di contraddistinguere i membri appartenenti a un gruppo. Una cosa all’apparenza così insignificante, ma che arriverebbe a demolire una persona, un’identità, che è però valida in un altro contesto. Quando vivevo a Poznań, chi ancora lo ricordava, mi raccontò che, durante la Seconda guerra mondiale, in quella città i polacchi facevano pronunciare a tutti una frase per capire a quale comunità linguistica appartenessero, in sostanza per capire se appartenessero a “loro”. La distinzione tra “i loro” e i nemici doveva emergere chiara. E la cosa si andava ripetendo anche in altre località, e

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s’è andata ripetendo nel corso della storia. L’origine della parola Shibboleth è rivelata nel Libro dei Giudici (12,5-6): I Galaaditi occuparono i guadi del Giordano verso Efraim; e quando un Efraimita in fuga diceva: – Fatemi passare –, gli domandavano: – Sei di Efraim? –. Se rispondeva di no, i Galaaditi gli facevano dire “Scibbolet”, ma l’altro diceva “Sibbolet”, non sapendolo pronunciare correttamente. Allora lo prendevano e lo sgozzavano presso i guadi del Giordano. A quei tempi, morirono quarantaduemila Efraimiti. Shibboleth Uno non sapeva il nome della scimmia di Tarzan. L’altro non riusciva a togliere il cellofan Di un pacchetto di sigarette dei GI. Per delle piccolezze venivano scoperti gli infiltrati. La seconda settimana del conflitto Eravamo già ossessionati da quelle minuzie. Al turno di guardia, di notte, sotto la pioggia, Non conoscere il baseball poteva risultare fatale. Il mattino della prima nevicata, mi stavo radendo. Guardavo uno specchio appeso a un albero, E intonavo i nomi di battesimo delle Andrews Sisters. «Maxine, Laverne, Patty».

Nonostante tutto, credo di avere una grande fortuna. Adesso, sono qui in Polonia per mia volontà, nessuno mi ha obbligato a rimanere (anche se è solo momentaneo). Vivo un’estraneità costante in cui ho bisogno di sentirmi a mio agio; non sarà la sicurezza della lingua, o delle radici, a renderlo possibile, ma l’accettazione di quel senso di “provvisorietà”, se così la possiamo definire, che domina la sensazione “del non essere qui”. Nel corso della nostra vita, non facciamo che accumulare stranezze, una dopo l’altra, alle quali cerchiamo di trovare un senso, tentando così di normalizzarle, farle nostre, credendo

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così, in maniera del tutto illusoria, che non siano più strane. Ma basta scrostare leggermente la superficie e si è di nuovo nudi, vulnerabili, esposti alle intemperie. A volte, è come se tutta questa sensazione che mi avvolge mi facesse un po’ perdere l’equilibrio, come se il labirinto dell’orecchio venisse meno. Quale immagine più appropriata, quella del labirinto. Da quando ho saputo come si dice in polacco, ne sono rimasto affascinato. Si dice błędnik (pronunciata “buendnik”) che rimanda a un’altra parola, błąd (“buont”), che significa errore, come a dire è ciò che ti conduce all’errore. Ma trovarsi nell’errore rappresenta la normalità. Una curiosità, la parola polacca usata per dire labirinto, indica più che altro quello fatto di siepi. In ogni caso, entrambe le parole ci riconducono all’impossibilità di ritrovare se stessi, di poter definire i limiti e sapere così se siamo o meno parte di una comunità, pur condividendone i tratti. Anche se il trasferirsi in un altro paese implica tutto un processo di apprendimento – perché siamo come bambini quando proviamo a parlarne la lingua – che può risultare doloroso, per questioni metafisiche o d’animo, non potrà mai essere paragonato alla sofferenza delle tante persone che sono state costrette ad abbandonare il luogo in cui hanno vissuto, in cui si sono formate, in cui pensavano di rimanere perché era a quel posto che appartenevano, a quel paesaggio, ai suoni di quella lingua, agli odori, alle folate di vento, alla neve, al sole, alla terra. Per questo, parole come esilio, bombardamento, confino provocano in me molta angoscia. Anche un concetto come espatrio, che ha una connotazione più neutra, non arriva a convincermi. Non ho perso del tutto i contatti, come si potrebbe pensare. Se tornassi dovrei inevitabilmente risolvere questioni pratiche, tipo cercare lavoro, casa, ecc., ma non è questo che mi impedisce di tornare. Anche se tornassi, continuerei a sentirmi fuori luogo, potrei addirittura essere percepito come estraneo, magari sarei io stesso a pensarlo. Forse vedrei con maggiore

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chiarezza che tornare non è che un andare a tentoni, un perdere di vista i punti tracciati in precedenza. Nessuna parola potrebbe mai esprimere tale senso di estraneità, di essere e non essere al contempo, di scindere all’infinito i molteplici io in relazione alle lingue, ai paesaggi, alle città. Mi osservo mentre traccio le mappe mentali dei posti in cui ho vissuto, e sulle quali colloco un essere che si va muovendo, e risponde se interpellato, che addirittura prende iniziativa e chiede per primo, ma che continua a pensare cosa ci faccia lì, in quella città. E cerca perciò un’altra mappa. Czesław Miłosz è stato sempre il poeta dell’estraneità, forse per la storia della sua stessa estraneità. Nato in Lituania quando era parte dell’Impero russo, appartenente alla popolazione di lingua polacca, vivrà a Varsavia, Parigi, Washington, Parigi, California e Cracovia. Facendo lezione all’Università della California in un inglese dal forte accento slavo, parlando una variante della lingua polacca quasi completamente scomparsa, usando una lingua che gli era propria, ma che risultava ignota ai suoi parlanti. La sua poesia è una delle più rappresentative dell’esistenza e della non esistenza, del soggetto e dell’assenza di esso, della presenza e della non presenza. Verso la fine della sua produzione poetica, scrisse questi versi: Ovunque Ovunque sia, in qualsiasi posto della terra, nascondo alla gente la certezza di essere del posto. Come se fossi stato mandato a assorbire colori, sapori, suoni, odori, e tutto il resto, provare tutto ciò su cui l’uomo interviene, trasformare le cose esperite in un registro magico e ricondurlo lì al luogo da cui son venuto.

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*** La visione del poeta trova fondamento in personaggi annientati, distrutti, esiliati, persi in una realtà che non comprendono. Per certi aspetti, come Ovidio a Tomi, costretto a un esilio devastante, che implora clemenza. Quali altri versi avrebbe dovuto aggiungere a Tristia? Ogni cosa risulta vana, i poemi, le epistole, e continua il suo esilio, fino a che non muore, a Tomi. Fu seppellito fuori le mura. Ci è stato tramandato soprattutto grazie a Le metamorfosi, ma nel XX secolo si riscoprono le elegie dei Tristia, che rappresentano la consacrazione del poeta. L’Orfeo di Ovidio è dilaniato dalle Menadi o dalle donne tracie. Egli è stato all’inferno e ha visto ciò che è proibito ai mortali, giù negli inferi placa ogni cosa con la sua lira e ottiene di far tornare Euridice nel mondo dei vivi. Poi, per uno sguardo inopportuno, va tutto in frantumi. Smette d’essere poeta? O, piuttosto, si conferma tale nel momento in cui si gira a guardare Euridice? Per contemplare ciò che andrà perduto e mai più visto. Nulla può essere recuperato, né le persone, né le scene. Lo sguardo fa svaporare il sogno poiché l’evocazione avviene soltanto mediante la parola. Orfeo rappresenta un miraggio costante, di ciò che si è per sempre perduto e di ciò che non si potrà mai avere. Bizzarro punto di partenza per i poeti a venire. *** L’Ovidio degli Amores (III, XIV), afferma: «non peccat, quaecumque potest peccasse negare, solaque famosam culpa professa facit». Questi versi, in originale latino, introducono la poesia Ovidio al Terzo Reich; la sola lettura della citazione iniziale suscita un certo stupore, ci appare subito come una provocazione, come un affronto alla cultura stabilita. È forse

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una delle poesie più note di Geoffrey Hill, uno dei più grandi poeti in lingua inglese del XX secolo; la sua opera, ermetica e oscura, pare voglia sfidare il lettore. Le sue poesie si muovono su diversi piani al contempo, cosa che conferisce loro una certa oscurità; esse sono allusive e, con quelle frasi così asciutte, s’appellano direttamente al pensiero. A tratti, mi fanno pensare al poeta polacco C. K. Norwid, che rompe col romanticismo proprio quando il movimento conserva ancora le sue braci accese, e lo stravolge, ne modifica il linguaggio, lo ricrea mediante combinazioni lessicali che sorprendono, piene di una bellezza strana, riesce a far sì che la poesia quasi diventi pensiero puro. Altro elemento importante, la visione religiosa, come in Geoffrey Hill. Nei suoi versi si innestano riflessioni sulla credenza, sulla divinità, sul potere della fede. Anche in altre poesie, Hill torna sul tema dell’Olocausto, in questa, in particolare, vi riflette attraverso immagini prese in prestito dalla tradizione letteraria, e rese note solo in parte. Come nella poesia in cui Ovidio è e non è colui che parla. Sono stati identificati Eichmann, Hoess, appaiono anche dei riferimenti a Dante, ma nella poesia niente viene rivelato in modo chiaro. Per poter adempiere alla propria funzione, la poesia moderna deve ricorrere all’indefinito, perché l’evocazione possa talvolta funzionare. Non è questa l’unica via, ma è di sicuro una delle più efficaci che ha inoltre reso possibile l’apertura a nuove possibilità espressive. Ovidio al Terzo Reich Non peccat quaecumque potest peccasse negare, solaque famosam culpa professa facit. Amores, III, XIV

Amo il mio lavoro e i miei figli. Dio è lontano, inaccessibile. Le cose accadono. Troppo vicina alla cedevolezza del sangue l’innocenza non è un’arma terrena.

69 Una cosa l’ho appresa: non guardare in basso in direzione dei condannati. Nella loro sfera, essi armonizzano in modo insolito con l’amore divino. Io, nella mia, celebro l’amoroso coro.

Nel primo verso della seconda strofa, nell’originale, più che “disprezzare” sarebbe “guardare in basso” (anche se nella poesia troviamo entrambe le accezioni). Fondamentali sono i due versi della prima strofa nei quali viene detto che l’innocenza non è un’arma terrena, essa garantisce alla poesia d’essere letta mediante altre prospettive, quella dell’ironia, ad esempio, che stravolge ogni cosa. L’incantesimo che incombeva su Ovidio viene in qualche modo sciolto, e spingere il poeta in altri abissi, diviene l’antidoto contro l’atto fondazionale del poeta. L’Ovidio del XX secolo sprofonda nella crudeltà e riconosce il suo essere inerme. Non è completamente soggiogato dall’indifferenza, le cose non passano inosservate, egli le vede accadere, come dice Geoffrey Hill alla fine del secondo verso. Immerso in questa crudeltà, il poeta cerca almeno di arginarla. La poesia è lo sguardo, il fermo immagine, è la memoria che desta la coscienza. Qui dove mi trovo, è il Ponte. Il Ponte è l’esilio. L’esilio ricorda il paradiso, ma il paradiso non riesco a ricordarmelo, la forza nemica s’è spenta, non mi accalora più e non mi torna incontro. Vago per campi e montagne, sfoglio libri e osservo uccelli e cerco il mio contrario, lo grido e l’anelo, perché mi scuota con furia, l’esilio è però libertà senza provocazione e confronto.

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Edvard Kocbek, autore di questa poesia che, a primo acchito, sembra voler smontare alcuni topici, come nel punto in cui dice “l’esilio è libertà”, dovrà attendere ancora un anno dalla pubblicazione di questi versi prima di subire, per la seconda volta, lo sradicamento della propria identità, l’espulsione dal proprio paese, l’esilio interiore che conduce alla disfatta. Questi versi rappresentano un’intuizione, una premonizione, quasi, di ciò che sarebbe avvenuto: trovare il nemico tra le sue stesse fila. La poesia è del 1969, appartiene alla raccolta Notiziario, in cui apparirà anche un’altra poesia considerata ormai un classico della letteratura slovena, I lipizziani. In quegli anni era già stato estromesso dalla vita politica, e dagli incarichi svolti a partire dal secondo dopoguerra (durante la Seconda guerra mondiale, aveva combattuto nel movimento della resistenza). Quando, però, nel 1951, pubblica la raccolta Paura e coraggio, nella quale mette in dubbio alcune delle mosse effettuate dal movimento della resistenza, viene emarginato e costantemente sorvegliato. Kocbek cerca una conciliazione tra il cristianesimo e le idee rivoluzionarie, cosa che lo fa sentire ancor più emarginato. Nei diari che tenne per tutta la sua vita, dal 1932 al 1978, riflette sovente circa il dibattito interiore del poeta, che non ha mai fine. Accanto a questa riflessione, troviamo il quotidiano, le letture, i rimorsi, le perdite, in sostanza ciò che anima la poesia. Alcuni frammenti potrebbero essere considerati come la continuazione di alcune sue poesie, o al contrario. Fondamentali le annotazioni, parte integrante dell’opera, come per i grandi poeti del XX secolo. La peggiore delle condanne fu per Kocbek quella portata avanti per denigrarlo. Accadde nel 1975, in relazione a quello che sarebbe dovuto essere un omaggio in occasione del suo settantesimo compleanno. Lo scrittore sloveno di Trieste Boris Pahor e Alojz Rebula pubblicano il volume Edvard Kocbek. Testimone del nostro tempo, nel quale viene riattivata la polemica iniziata con Paura e coraggio.

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La seconda parte del libro contiene un’intervista di Pahor a Kocbek, in cui l’intervistatore riapre la ferita sui combattenti della Guardia Nazionale Slovena (organizzazione paramilitare sotto il comando nazista), restituiti dagli inglesi nel 1945 e successivamente annichiliti senza alcun processo. Pare che Kocbek riuscì a evitare la prigione grazie ad alcuni interventi internazionali, come quello dello scrittore tedesco Heinrich Böll. Kocbek tornava così a essere ripudiato, in un mondo o bianco o nero non c’era posto per le sfumature. L’esiliato si trova a stare tra due mondi pur non appartenendo né all’uno, né all’altro, rimanendo così in uno stato di indefinitezza. L’esilio è sia esterno che interno, come nel caso di Kocbek, forse per questo l’esilio arriva a essere «libertà / senza provocazione e confronto»; esso è l’assenza, è l’essere ignorato o disprezzato da quelli che invece sanno come appartenere al mondo. Dopo aver vissuto per anni a Lubiana, vi ritorno, e passeggio per il parco Tivoli. Il primo anno che ho vissuto lì, ho trascorso in quel parco tutta l’estate. Era l’unica zona in cui si poteva trovare un po’ di respiro, un po’ di tranquillità; il viale che prendevo per arrivarvi era giusto accanto alla strada principale. Entro nel parco. Nel 2004, in occasione del centenario della nascita del poeta, proprio qui in questo parco, fu inaugurata una statua a lui dedicata. Su una panchina, un Kocbek a grandezza naturale, seduto, guarda verso sinistra, in direzione di un secondo Kocbek piccolissimo, di 30 cm. Quest’ultimo ha la testa china, è come malinconico, assente. L’altro, il grande, dalla sua distanza, lo guarda. A mia volta, osservo entrambi e quell’immagine mi appare come la metafora stessa della creazione poetica, grazie alla quale ci si può proiettare all’esterno, rimpicciolire, costatare la perdita e osservare ogni cosa. Forse, rientra nel mio continuo affanno di vedere collegamenti ovunque, ma non riesco a smettere di pensare che dev’esserci un legame, talvolta impercettibile e profondo, che unisce alcu-

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ni poeti, alcuni esili esterni e interni. L’ultimo libro di Kocbek dal titolo Pietra roccia è come un viaggio nel tempo, se pur attraverso una geografia del tutto differente, per ritrovare il primo libro di Osip Mandel’štam, La pietra; ricco, quest’ultimo, di riferimenti e testimone di un modo nuovo di concepire la poesia rispetto a quella che era la tradizione. Il libro appare anni dopo la sua morte, nel 1991, e ha come sottotitolo Poesie del suo lascito. Forse la mia mente va oltre, ma leggendo la poesia che dà titolo al libro, soprattutto i versi finali, la relazione tra i due poeti diviene più manifesta: pietra fedele apriti adesso, pietra tombale, fenditi parete nord e lascia che attraversandoti passi dall’altra parte.

*** Mai come nel XX secolo si assiste a uno spostamento massivo delle popolazioni: spostamenti di frontiere, deportazioni, rifugiati, espulsi, e tutta quella gente che, pur rimanendo nel posto in cui vive, è costretta ad appartenere a diversi paesi; come racconta quell’aneddoto noto nella zona del centro Europa e che ho sentito raccontare in Ungheria, Croazia, Polonia. Alcuni enumerano tutti paesi in cui hanno vissuto, se poi si rivolge loro la domanda: “Ha viaggiato molto?”, rispondono: “No, affatto! Non mi sono mai mosso da qui”. Tutto ciò fa enormemente riflettere, non solo sugli innumerevoli cambiamenti avvenuti, ma soprattutto sul fatto che non esiste radicamento o, meglio, che può esserci solo in maniera superficiale, come avviene per la pietra che, se spostata, si porta addosso tutto il

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peso della propria storia. Siamo soggetti a una costante perdita, a una tristezza estrema, e alla necessità di tornarci a edificare in quanto individui, in quanto cittadini alle prese con situazioni per noi, fino a quel momento, ignote. *** Siamo soliti assistere alle partenze e ai rientri (l’uso di questi termini non è privo di allusioni) in occasione di ponti lunghi o vacanze. Nonostante anche in Polonia si assista a operazioni di questo tipo, nessuna di esse assume la portata dell’“operazione lumino” (Akcja znicz). La parola akcja viene resa come “operazione” in relazione al contesto in cui ci troviamo; essa, in realtà, rimanda anche alle “battute” dei nazisti condotte per catturare il maggior numero possibile di ebrei. Le trappole linguistiche sono ovunque, così come quelle macchie di cui si impregnano alcune parole, così difficili da rimuovere. La parola znicz indica il lume che si suole portare al cimitero il giorno di Ognissanti. “L’operazione lumino” rappresenta la partenza dei polacchi il giorno prima per poter arrivare in tempo al cimitero. Questo perché, in una visione estremizzata e aneddotica, nessun polacco vive nel posto in cui è nato. In un saggio dedicato a Sándor Márai, lo scrittore ungherese Imre Kertész inizia con questa dichiarazione: Le dittature del XX secolo hanno creato nuove forme di esistenza intellettuale. Lo scrittore che rifletteva sulle idee dell’epoca o le discuteva nei caffè, club e saloni letterari si destò di colpo e si rese conto che quelle idee avevano subito una corruzione ed erano divenute ideologia di Stato. Al posto dei loro interlocutori c’erano ora i membri della polizia dello Stato totalitario e non venivano più condotti dibattiti ma interrogatori. E in quelle piccole isole di libertà che andavano rapida-

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mente scomparendo, come le ultime chiazze di sole prima del gelo, apparvero gli scrittori esiliati. Nella nostra epoca, l’esilio è passato alla svelta dall’essere una mera questione di sopravvivenza a un problema intellettuale ed etico. Sono propri dello scrittore l’esilio, la perdita, l’oppressione; elementi che rimandano all’Ovidio esule dei Tristia. L’Ovidio moderno, però, è più affine a Geoffrey Hill; non si rivolge direttamente all’imperatore, tutt’al più gli risponde a distanza, con quelle sue parole che raggiungono la consistenza di un alito, ma fondamentali perché senza di esse sprofonderebbe nell’abisso. Il destino dei rifugiati, esiliati, confinati, può equivalere alla strofa finale della poesia di Adam Zagajewski dal titolo Rifugiati, nella quale un avverbio o un pronome vengono simbolicamente usati per rappresentare la perdita del volto, dell’identità, la trasformazione in qualcosa di inimmaginabile: Trascinando le gambe vanno a rilento, molto a rilento, verso il paese del Nonnulla, verso la città di Nessuno accanto al fiume Mai più.

*** Lo stesso poeta polacco, Adam Zagajewski, in una delle sue più note poesie Andare a Leopoli, descrive in maniera metaforica l’impossibilità di far rivivere una città ormai perduta. Leopoli è la città in cui nacque, ma subito dopo la sua famiglia, come migliaia di altre famiglie, dovette trasferirsi, e si spostò perciò nella zona mineraria della Slesia. I trattati avevano fatto sì che la Germania perdesse Gliwice in favore della Polonia (come avvenne per Leopoli che restò alla Repubblica Ucrai-

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na nell’Unione Sovietica). A Zagajewski, Leopoli giunge attraverso il racconto, l’evocazione, la mitificazione, e in questa poesia, in cui arriva a dire che Leopoli è ovunque, in tutti noi (stabilendo così un dialogo molto interessante con La città di Kavafis), egli diviene portavoce della memoria altrui. Ancora una volta, il poeta diviene intermediario, senza alcun conferimento di aura, semplicemente intermediario della memoria. Mediante quei versi in cui metaforizza l’incapacità di far rivivere la città, intesa come rappresentativa di origini, fa sì che, paradossalmente, essa riviva. *** Si può ripercorrere una città di cui solo rimangono i resti? Non riesco a immaginare Varsavia prima della distruzione, è un immaginario che appartiene ad altri, per quanto lo si voglia ricostruire mediante foto. Andare per le strade e non riuscire a ritrovare quei luoghi un tempo tuoi. La distruzione ti impedisce di ritrovarti? La mia partenza dalla casa familiare, da L’Espluga de Francolí, fu definitiva quando mi trasferii a Lubiana, in Slovenia. Mia madre andò a vivere in un altro paese, El Vendrell. Soltanto una volta a Cracovia, riuscii a portare con me tutte le scatole di libri rimaste; a quel punto, sì che la potevo chiamare casa, avevo con me tutti i libri comprati fino ad allora e sui quali mi ero andato formando. Anch’essi si portano addosso una storia, almeno quanto me. Poi, per molti anni, non tornai più a L’Espluga. Le volte che tornavo, andavo a El Vendrell, posto in cui ero un perfetto sconosciuto, nulla mi legava ad esso. Quando, dopo anni, ritornai al mio paese, trascorsi un paio d’ore a passeggiare, ripercorrendo con l’immaginazione tutti gli spazi. Non ebbi la possibilità di visitare la casa in cui avevo vissuto perché era pericolante. Le perdite non sono compara-

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bili, possono assumere diverse sfumature in chi le sperimenta, ogni trasferimento può divenire definitivo. A Leopoli, i discendenti polacchi di alcune famiglie andavano nelle case in cui avevano vissuto i loro predecessori, ora non più abitate da familiari, e chiedevano di poter entrare. Pur non vivendo più lì, era un modo per mantenere vivo il racconto, la storia. Grazie al linguaggio, il luogo sarà salvo, la memoria sarà salva. Anche se venisse meno il luogo fisico, mediante il linguaggio riusciremmo a serbare la memoria; nello specifico, il linguaggio poetico. In alcune occasioni, ci torna in mente uno degli aforismi di Ellen Hinsey: «da qui, l’implicito ritorno alla metafora: riconciliare ciò che era andato in frantumi, ciò che rimaneva esiliato nella mente». Una sorta di metafora che, però, accade realmente. Uno dei poeti che più si è occupato della questione della perdita e del recupero è George Szirtes, poeta di lingua inglese nato a Budapest. In un articolo pubblicato sulla rivista «Habitus», fa riferimento alla Budapest ebraica e ricorda che la sua famiglia viveva non molto lontano dalla casa di Imre Kertész (dalla quale, quest’ultimo, fu espulso con un convoglio destinato ad Auschwitz). Szirtes nacque a Budapest nel 1948 e, assieme alla sua famiglia, si stabilì in Inghilterra quando aveva 8 anni. Attraversarono a piedi la frontiera austriaca, trascorsero dei giorni in un campo di rifugiati fino a che fu data loro la possibilità di raggiungere Londra. Tornò in Ungheria solo all’età di quarant’anni. Quel viaggio di ritorno risulta fondamentale per la sua poesia, rappresenta un cambiamento sostanziale; a partire da questo momento, il processo creativo è tutto incentrato sulla memoria. Nell’articolo, Szirtes racconta della visita a una città in parte scomparsa. I suoi non sono ricordi diretti, sono ricordi filtrati dalla memoria degli altri. L’attraversamento di quella città pare avvenire su di un plasti-

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co immaginario, consapevole di quanto sia difficile ricostruire una geografia personale: sono ebreo allo stesso modo in cui lo è stato mio padre, per caso. Sentendo così una maggiore (di fatto, mi conosco meglio) inclusione. Non posso tornare in quella casa ebraica in cui non ho vissuto, non posso bussare alla porta e dire: – Ehi, sono tornato –. La mia Budapest ebraica più che un’assenza totale è una cancellazione parziale. Come su un vecchio quaderno dimenticato. – Mio nonno? Suo padre? –. Una scrittura sbiadita, parzialmente cancellata, che appare qua e là. Vorrei poter vedere questa scrittura pur non essendo in grado di leggerla.

Ciò che resta del nostro passato, forse, sono dei quaderni mezzo sbiaditi che a stento riusciremo a decifrare. Il passato ci viene strappato. Potremmo tentare di ricostruirlo mediante i frammenti, le tracce, le lettere sbiadite, o semplicemente potremmo accettarlo nella sua evanescenza e nominarlo grazie a un altro linguaggio. Un linguaggio che ci aiuterà a colmare un vuoto, a ricostruire un mondo e ad accettare una perdita (che ci darà la forza di sopportare). È quanto fa la poesia contemporanea. *** Ritorno a Varsavia. Non riesco a immaginare come potesse essere prima della guerra. Il quartiere ebraico di Kazimierz a Cracovia è un esempio di non luogo. Per quanto siano autentici gli edifici, s’è costruito a suo ridosso tutto un altro mondo che gode di una mitizzazione forse innecessaria. Chi ha bisogno della mitizzazione, lo spazio o noi? Mitizziamo la storia, sentiamo nostalgia rispetto ad alcuni momenti, pur non sapendo come reagiremmo se davvero li rivivessimo. Il potere proiettivo della mente, che non si avvale della memoria,

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soggioga e affascina. Veniamo accecati dalla verosimiglianza. Se non si ricorre alla mitizzazione, si ricorre all’oblio, alla volontà di dimenticare, alla volontà di non sapere, di ignorare e basta. È il 1997 e sono a Varsavia per la prima volta. Scendo dal treno, esco dalla stazione, dopo essermi perso almeno tre volte in quel dedalo di uscite. Accade ogni volta. Al mio pessimo senso dell’orientamento si unisce un’immensa rotonda che conduce a più strade, marciapiedi, fermate di tram e d’autobus. Finalmente in superficie, dopo aver camminato per un po’, mi oriento, e mi rendo conto di non essere molto lontano da quello che, una volta, era stato il ghetto di Varsavia, è possibile che lo stia già attraversando, anche se mi aspetto di trovare almeno dei cartelli, nel 1946 so che era stato eretto un monumento agli eroi del ghetto che, per dimensioni, non passava certo inosservato. Nonostante la ricerca, non trovo nulla di ciò che avrei voluto vedere. Il mio polacco è incerto e, perciò, penso di chiedere informazioni prima in polacco, poi in inglese. Che si capisca almeno che faccio uno sforzo. Inizio a chiedere. Forse sono troppo diretto, nel domandare dov’è il ghetto di Varsavia. Forse non è il caso di esordire toccando ferite non ancora rimarginate. L’espulsione degli ebrei del 1968 è forse ancora troppo vicina. Inizio a percepire la diffidenza, addirittura il disprezzo, gli innumerevoli conflitti e contraddizioni che l’argomento solleva. Il rifiuto a rispondere è costante: “No, non so di cosa parla” (il desiderio di dimenticare può raggiungere tali estremi?), o ancora: “Non so dov’era”. Me ne andai da Varsavia senza vedere la zona che un tempo era stata il ghetto. Successivamente, l’avrei ripercorsa molte volte, fisicamente e mentalmente, mentre traducevo il libro di Halina Birenbaum (nata il 15 settembre 1929, attualmente residente in Israele), La speranza è l’ultima a morire, in cui la sopravvissuta, nella prima parte, racconta dei giorni trascorsi nel ghetto prima di essere deportata. Anni dopo, proprio in

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quella zona, fu eretto il POLIN, Museo della storia degli ebrei polacchi, giusto accanto al monumento prima citato. Si passa dalla perdita volontaria della memoria in quelle persone che non vogliono ricordare l’accaduto, alla ricostruzione di essa. O, almeno, al tentativo di renderle omaggio. L’immagine di quel passato scompare con gli edifici demoliti per costruire il ghetto; raso al suolo anche questo, ciò che resta sono delle semplici coordinate geografiche che provano a far riaffiorare l’oblio in superficie. Nel leggere libri dedicati al ghetto, sia vissuto in prima persona, come nel caso di Halina Birenbaum, sia ricostruito attraverso la storia, come in Stazione Muranów di Beata Chomątowska, del 2012, mi rendo conto che l’unica verità alberga nelle parole. Può quel che è stato distrutto divenire meno reale di un avvenimento frutto di finzione e dunque mai avvenuto? È grazie alla parola, ai libri e alle poesie che percepiamo i limiti. La poesia riesce a esprimere la perdita e la memoria, riesce a contenere ogni cosa nei suoi versi, come ben sapeva Jerzy Ficowski che, oltre alla propria poesia, riuscì a riscattare nomi e culture; Bruno Schulz, ad esempio, e Bronisława Wajs, nota come Papusza, la più importante poetessa di etnia rom. Anche Jerzy Ficowski torna a Muranów: Muranów s’eleva su strati di morte fondamenta appoggiate su un osso sotterranei scheggiati svuotati dalla critica Fu non fu è com’è V’è pace gemiti di quelli uccisi un fulgore nero di fuoco spento le fondamenta di Muranów sono la sepoltura della memoria arriva la maggior parte delle lettere Fu non fu è com’è

80 Ed io com’essa eretto sulla superficie delle ceneri sotto le stelle di un vetro rotto Fu non fu è com’è vorrei soltanto tacere ma se lo faccio mento vorrei soltanto camminare ma se lo faccio inciampo

*** Attraversare la memoria per riaffiorare in superficie, recuperare brandelli di essa per applicarli sulla ferita della perdita, in questo ci guida la poesia. Poter recuperare un intero mondo, come quando Norwind scrive la poesia a Chopin, lettera in realtà diretta alla comunità che ne condivide la storia e la lingua. E quel bendaggio che diviene? Parola, silenzio, limite della poesia? La parte grafica di quei versi, come tutto il resto, testimonia l’ordine stabilito. *** Quanti poeti sono stati costretti a lasciare il loro paese? Al tempo della guerra fredda, in Europa orientale, si verificava una costante fuga. Se ciò che avevano fatto fino a quel momento viene cancellato, ciò che faranno a partire da quel momento verrà ufficialmente cancellato. Perdendo il contatto con un pubblico che parla la sua stessa lingua, il creatore sperimenta una prima morte.

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I cambi linguistici degli scrittori possono dipendere da diversi fattori che non sempre vengono chiariti. La possibilità di avere una seconda esistenza, ad esempio, per non rimanere completamente isolato, visto che la prima è stata completamente cancellata. Il tradimento non avviene nei confronti della lingua, ma dell’indissolubile legame che unisce il poeta ad essa. L’esistenza è una costante perdita, e la storia non fa che ripetercelo. La poesia, invece, tenta di mitigare questa sensazione pur aiutandoci a tenerne conto; quando ci riesce, qualunque sia la perdita, essa diviene realtà alternativa in cui abitare. La poesia è una casa. Quando Szirtes e la sua famiglia arrivano a Londra, solo suo padre parla inglese, perciò, da quel momento, stabiliscono di parlare tra di loro sempre in quella lingua. Un cambiamento linguistico comporta inevitabilmente un cambiamento nelle relazioni, con le persone e con le cose, sebbene queste non ti rispondano, così come non lo facevano quando parlavi la tua lingua. Scrivere nella nuova lingua, in quella che si converte in lingua di tutti i giorni, equivale a fondersi con un altro io che spazza via le tracce del precedente; parte che poi sarà estremamente difficile recuperare. Una possibilità di farlo ce la offre la traduzione che, anche se in modo parziale, ci consente di recuperare l’altro io. Tradurre equivale a (ri)definirsi in un’altra identità. *** George Szirtes torna in Ungheria nel 1984, dopo aver pubblicato i suoi primi libri di poesia in inglese. Una volta lì, si accorge di quanto difficile fosse definirsi autore inglese, data l’esistenza di una diversa tradizione familiare e di una lingua

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che inevitabilmente si riattiva (diverrà, di fatto, stimato traduttore dall’ungherese). I tre libri pubblicati dopo questo viaggio rappresentano lo sforzo di trovare risposte sull’identità, di capire che tipo di relazione essa stabilisca con la lingua e con altri autori di quella tradizione letteraria. Sono libri di poesia ordinati in cicli, quasi dei caleidoscopi che, nel girare, mostrano le varie parti che compongono il tutto. Addirittura, rendono più nitide quelle parole che l’autore percepiva come mezzo sbiadite, mentre era sulle tracce della propria identità ebraica a Budapest. Fra i tre libri, grandissimo interesse desta Metro del 1988, in cui l’autore ricorre alla fotografia, come del resto aveva già fatto in The Photographer in Winter (Fotografo d’inverno), del 1986. Oltre al ciclo che dà titolo al volume, risulta degno di nota anche quello dal titolo Cartoline da Budapest in cui, nella poesia Il bambino che non sono stato, dice: «Il bambino che non sono stato scrive poesia / delle memorie del paesaggio incantato dal mare». Il poeta vive in costante contraddizione, come il resto degli uomini, d’altra parte, e ciò che cerca è la conciliazione tra le disparità interne, che cerca di portare a termine attraverso il linguaggio. Esso, sebbene violato, rappresenta uno strumento di conciliazione privilegiato, o comunque più abitabile per la mente del poeta (e dunque del lettore, se riesce a divenire condivisibile). Anche negli altri libri di Szirtes scritti successivamente, il tema centrale è sempre la fotografia. A partire da quel ritorno a Budapest, la scrittura diviene possibilità di scavare nel passato familiare e in quello “ungherese”; la poesia diviene strumento di ricerca, discussione sul passato e ricostruzione del sé dopo aver sperimentato la perdita. Anche se lo fa per riempire parzialmente un vuoto, Szirtes ricrea con le poesie ciò che non esiste più. Ciò che è rimasto fuori dai bordi, termine chiave, quest’ultimo, visto che lo stesso autore rivela la relazione intercorrente tra la sua poesia e la fotografia, una sorta d’ecfrasi necessaria

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per catturare il momento. Nel prologo ai suoi Collected Poems, egli evoca Roland Barthes e la sua teoria della fotografia, in particolare quella del “campo cieco”, ovvero quella parte dell’immagine che continua a esistere al di là dei bordi dell’inquadratura. Riferimento non applicabile esclusivamente alle poesie, diciamo così, “puramente storiche”, ma anche a quelle legate a una sfera più intima. Per usare le parole di Szirtes: anche questo incide sulle poesie di tipo personale spesso dedicate alla fragilità: poesie d’amore, quelle commemorative, quelle che spingono i versi a rasentare il limite, i delicati formalismi. La maggior parte dei poeti scrive versi di questo tipo perché capisce di abitare il campo cieco. Il campo cieco è il nostro regno. In tutte le migliori poesie il campo cieco spinge per emergere. Esso non è uno spazio privato, anche se io lo avverto come intimo. Le uniche moltitudini che lo popolano sono di fantasmi e di paure. Non è un’agorà. Non è uno slam poetico o un’esibizione di cabaret. Per quel tipo di esibizioni, infatti, sono necessarie le acrobazie, anche solo per restare in equilibrio. Ama la compagnia. Gode della presenza umana. Non potrebbe farne a meno, ed è costantemente in viaggio, alla ricerca della sua Itaca (e, in questo campo cieco, Itaca dov’è?). Fino a quando non l’avrà trovata, non potrà essere legalmente costituito.

La poesia si spinge oltre i suoi confini, è abitata anche da altri personaggi, altri stati d’animo e sensazioni. Questo non vuol dire che il linguaggio da solo non basti, ma che deve espandersi per arrivare alle parole taciute; da qui, l’importanza dei bordi, l’importanza del silenzio. “Campo cieco” diviene addirittura il titolo di uno dei libri di Szirtes, Blind Field, pubblicato nel 1944, all’interno del quale viene incluso un altro ciclo fotografico: Ad André Kertész, il gran fotografo d’origine ungherese, responsabile dell’evoluzione del montaggio, che diviene riferimento esplicito nella poesia di Szirtes.

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Le tecniche fotografiche, il campo cieco, la fotografia in generale rendono possibile la simultaneità dell’assenza e della presenza, del detto e del non detto, dell’immaginazione che trapela dalla fissità dell’immagine, del testo che evoca diverse realtà, quelle espresse e quelle non dette. Una serie di sequenze che guidano l’interpretazione. È lo spazio che sottende il verso. *** Tra i libri che ho tradotto, dedicati al concetrazionismo, ce n’è uno di un fotografo. Egli aveva lavorato su fotografie scattate dagli ufficiali delle SS nel campo di Auschwitz-Birkenau. Il suo progetto consisteva nel ripetere quelle stesse foto dalla stessa inquadratura, in modo che tra le vecchie e le nuove ci fosse un dialogo. Una a colori (solitamente scattata in primavera), l’altra in bianco e nero. In una i prigionieri, i treni; nell’altra neanche una persona, le vie deserte, coperte dall’erba. Le foto nel libro non venivano sovrapposte per evidenziare le differenze, ma affiancate; in modo che lo sguardo potesse cogliere entrambe. Ricorrere alla tecnica e dunque modificare le immagini, magari sovrapponendo alle vecchie elementi delle nuove, equivarrebbe a eliminare la funzione dell’arte, della poesia, ovvero evidenziare l’elemento nascosto, tornare al campo cieco. Nell’introduzione al suo libro, Piotr Sawicki afferma: facendo le fotografie ho dovuto guardare quei luoghi dalla prospettiva del criminale, dovevo ricreare il mondo visto dai loro occhi. Dovevo concentrarmi sui dettagli tecnici, sugli edifici, le rovine, i reticolati, le torrette di guardia. Era molto difficile e perciò smisi di pensare a ciò che veniva realmente mostrato nelle foto. Ad esempio, per poter ricreare l’inquadratura dei magazzini che contenevano gli effetti personali rubati agli ebrei deportati, mi misi a pensare a quale di quelle baracche (oggi

85 ne restano solo le fondamenta), da una precisa angolatura, coprisse le camere a gas e i crematori IV e V, visto che nella foto originale si intravedevano le ciminiere oltre il suo tetto. Vi riuscii… Ebbi un istante di felicità per essere riuscito a ricreare un’altra foto, a recuperare un luogo. Subito si impose una riflessione: dovevo essere contento pur sapendo a chi appartenessero quegli oggetti e cosa accadesse in quegli edifici dalle ciminiere di mattoni nascosti dalla baracca? Non era facile. Quel mondo in bianco e nero si imponeva di continuo.

*** Nei pressi dell’Ungheria troviamo il paese di Murska Sobota, nella parte più settentrionale dell’attuale Slovenia. Un paese che non conta più di 12.000 abitanti, e in cui la popolazione ebraica, prima della guerra mondiale, era considerevole. Il 26 aprile 1944 tutti gli ebrei dovettero presentarsi, con una sola valigia al seguito, nella sinagoga. Rimasero lì rinchiusi per tutta la notte e il giorno dopo furono deportati in un campo di concentramento nei pressi di Auschwitz. Tra i superstiti, il nonno dello scrittore Dušan Šarotar a cui è ispirato il romanzo Biliardo all’Hotel Dobray. Šarotar ha collaborato – assieme allo scrittore Feri Lainšček, anch’egli di Murska Sobota – a un progetto dedicato alla fotografia e alla poesia, in parte anche alla musica. Le fotografie del progetto sono di Jože Suhadolnik. Fotografie sobrie, in bianco e nero, che giocano con gli spazi attraverso una semplicità accentuata. Nel suo insieme, il progetto rappresenta l’assoluta ricerca del campo cieco. Ogni cosa viene ricostruita mediante i frammenti, i ritagli, gli unici che possono restituire il senso a un testo, alla storia, a una circostanza. Il discorso dell’opera nella sua interezza non è più valido, lo è soltanto il particolare, l’assenza delle parole altisonanti, dei magnifici concetti astratti, che consentono all’arte di puntare i riflettori sulle realtà individuali relegate in un angolo.

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*** I frammenti della poesia possono arrivare ad avere una coerenza logica, figurativa, così come possono rimanere sconnessi l’uno dall’altro. La poesia non è come la pittura, la poesia è come la fotografia. Il cinema ha esercitato una grande influenza sulla poesia, ma non ha il magnetismo della fissità, la fotografia come la poesia, sì, esse fermano il tempo e lo fanno scorrere altrove. La realtà è più reale se immaginata, se resa in versi. E ogni tipo di poesia è finzione. *** Dušan Šarotar, in altri suoi libri, riesce a combinare fotografia e scrittura, sia nel saggio, sia nelle riflessioni e nel suo ultimo romanzo, Panorama. Una poetica che potremmo definire sebaldiana, in cui gli elementi, appena tratteggiati, vengono inghiottiti da un magma che destabilizza il pensiero. Nel caso di Šarotar è come se avvenisse una nuova resa del campo cieco, l’uso di un’altra tecnica che lascia le ombre esattamente nel punto in cui sono. Quelle ombre rappresentano le nostre perdite e ci accompagnano nel testo, rimanendo al di là dei bordi. Questo discorso viene corroborato anche nel libro Né mare né terra: la storia e la letteratura accendono il nostro paese interiore; l’arte scuote i nostri concetti, la pietra sulla quale si erge la nostra fragile casa trema. Ciò che scrivo non appartiene alle

87 discussioni familiari, così come l’Olocausto non rientrava nei discorsi di quella regione. Anche attraverso il silenzio può essere raccontato il destino di una comunità. Arrivando di paese in paese, le storie viaggiano come un fiume che s’infiltra. Ciò che non avremmo dovuto perdere lo ritroviamo d’un tratto da un’altra parte.

Qualsiasi sia il genere adoperato, in Dušan Šarotar l’argomento centrale è sempre il recupero del passato, quello relativo alla comparsa della cultura ebraica in quella parte d’Europa, e il ritorno a uno spazio deformato dal quale, però, sempre trapela quello originario. La poesia che apre il primo ciclo del libro Silenzio in pianura, è una sorta di fotografia: Paesaggio in bemolle I All’inizio è come nelle fotografie perdute nella sostanza, un giovane, ma nell’anima ancora un bambino, appoggia le mani sui tasti bianchi e neri, attende, guarda lo spartito chiuso della raccolta familiare, riposto con cura sul ripiano accanto alla finestra aperta, che dà al patio interno, attende come se cogliesse col pensiero i primi fiori di ciliegio che il vento trasporta in silenzio, attende ancora un po’, le dita già coprono i tasti, e capisce che oggi non suonerà, attende, di nuovo alza le dita fredde, non ancora felici, e come di consueto ruota la sedia tappezzata verso la finestra, è lontano, pensa, davanti a sé nel sole pomeridiano si muovono soltanto le tende, è lontano e capisce che è solo, presente per la prima volta, adesso, prima del concerto al centro della città, di sicuro ci sarà il pienone, gli hanno detto, anche se là fuori c’è la guerra, hanno anche stampato un cartello con la sua foto, proprio quella perduta durante il trasferimento, suo padre l’ha appesa giù all’entrata del negozio,

88 e ogni volta che suona il campanello della porta ricorda di dover servire il cliente, ché non bisogna distrarsi, ma sua moglie, che con fedeltà l’appoggia, dice che ancora è troppo presto, perché è soltanto un bambino e ha davanti a sé tutta la vita, e per un attimo si ferma anche lei come se guardasse l’albero da cui cadono i fiori, ella neanche vi aveva mai pensato ma presente che presto li potrà unire soltanto la musica non ancora scritta.

*** Alcune città sono appartenute a diversi paesi, hanno avuto diversi nomi, come Vilna, Wilno, Vilnius, a cui Czesław Miłosz dedicò un intero libro dal titolo alquanto significativo, Città senza nome; averne tanti è come non averne nessuno. Altre città hanno costruito miti sulla loro molteplicità culturale, linguistica o religiosa, come Trieste o Alessandria. Accade soprattutto alle città di frontiera, alcune toccano il mito, altre rimangono invischiate nella quotidianità e nei problemi tipici delle città di frontiera. E ci sono città che appartengono per una metà a un posto, per l’altra a un altro. Nel corso della storia sono state divise da un muro, magari a seguito di qualche trattato, come quello di Gorizia e Nova Gorica, tra l’Italia e la Slovenia. Forse, tra le frontiere della seconda metà XX secolo, quella meno rigida. Andare da una parte all’altra non significava soltanto spostarsi da un paese all’altro, ma anche transitare in mondi differenti. Un’altra di queste città è Zgorzelec, nella Bassa Slesia, in Polonia. Di fatto, Zgorzelec costituisce l’altra metà di Görlitz, città tedesca situata sulla riva orientale del fiume, Nysa Łużycka in polacco e Lausitzer Neiße in tedesco, che venne divisa in seguito agli accordi di Potsdam. Visto che i fatti narrati fanno riferimento a un periodo antecedente la divisione, ci riferiremo ad essa chiamandola Gör-

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litz. In questa città, tra il 1939 e il 1945, fu attivo un campo di concentramento per i prigionieri di guerra, lo Stalag VIII-A. In questo campo furono confinati soprattutto polacchi, almeno all’inizio, poi trasferiti nei campi più occidentali del Reich. Vi furono poi rinchiusi anche prigionieri belgi, francesi, iugoslavi, sovietici, e, dopo la caduta di Mussolini, anche italiani. In questo campo, è stata stimata la presenza di circa 100.000 prigionieri di guerra, anche se non si è mai riuscito a stabilire con certezza quante furono le vittime. Al termine della guerra e a seguito della divisione di Görlitz, le autorità polacche decisero di smantellare il campo, e il materiale delle baracche fu destinato alla ricostruzione di alcune città, come ad esempio Varsavia. Michael Symmons Roberts, poeta britannico nato nel 1963, ha dedicato varie opere, tra cui anche due scritte in collaborazione con il poeta Paul Farley, alle vite dei poeti, ai luoghi periferici, ai luoghi abbandonati, quelli che, in sostanza, non sono che un cumulo di rovine. Nella sua poesia, alquanto complessa, troviamo riferimenti alla religione e alla scienza. Torna a stabilire legami scissi in precedenza, nel XVIII secolo, in virtù di una spaccatura tra scienza e umanesimo e dell’allontanamento da qualsiasi credenza. La sua è una poesia davvero particolare che fa planare il dubbio su ogni verso. Olivier Messiaen è uno dei compositori più grandi del XX secolo, nacque in Francia. Estraneo a qualsiasi tendenza, intraprende il proprio cammino musicale. Egli era un ornitologo e fu capace di introdurre il canto degli uccelli nelle sue opere. Fu animato da una profonda fede cattolica che gli procurò diverse critiche, ma che probabilmente gli tornò utile per affrontare le prove della vita. Durante la Seconda guerra mondiale, fu arruolato nell’esercito francese. Più che come soldato, come ausiliare medico, anche perché aveva problemi di vista. Fu fatto prigioniero a Verdun e nel maggio del 1940 fu mandato al campo Stalag VIII-A di Görlitz.

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Nel 1944 Messiaen compone Vingt Regards sur l’Enfant Jésus e, un anno dopo, Michael Symmons Roberts scrive delle poesie che dialogano con questi pezzi. Perché, come lo stesso poeta sottolinea, non potevano essere semplici immagini tratte da quell’opera musicale, come una metà che permettesse all’originale di funzionare. Symmons Roberts descrive il processo creativo di quelle poesie e di come una visione cinematografica diede vita al tutto: Les enfants du paradís, di Marcel Carné. Prima ancora di arrivarvi, scrive questi versi dedicati al grande compositore francese e inclusi nel suo primo libro, Soft Keys: Messiaen a Görlitz 1940 Crebbe con una convinzione, la capacità di vedere i suoni come colori. Facoltà acuita in questo campo dalla denutrizione e perciò gli uccelli emettono aurore boreali e vegliano su nastri di grida. Nella miseria di questo amaro e cristallino dicembre slesiano trovo a mancare una fine dei tempi, una fine per il mistero di Dio, il passare da uno spesso granello della fede a un atto cieco. Un simpatico guardiano mi porta una matita e un manoscritto. Dobbiamo arrangiarci con quel che abbiamo; Dio mi basta, ma ho anche un violoncello con tre corde, un piano, un violino e un [clarinetto. Il debutto mondiale avrà luogo nei bagni dove so che l’uditorio di contadini francesi e polacchi, di medici e preti sarà il più attento che abbia mai visto. Abbiamo tutti noi avvertito le ultime forze vitali, durante la vita nel campo come l’acqua prima che le tubature si congelassero, la promessa di quello che ho atteso, che ho amato e amo ancora.

91 Anche se non c’è concesso sapere o indovinare, forse quando iniziamo a suonare l’ottavo e ultimo movimento – oltre il giorno di riposo dopo la creazione in una luce e pace incessanti – potrà giungere la fine, il settimo angelo coronato da un arcobaleno, un piede in fiamme nell’Oceano Pacifico, l’altro bruciando senza disfarsi, leggero come una foglia nella neve di Slesia.

Quando era nel campo dei prigionieri di Görlitz, Messiaen compose un pezzo dal titolo Quatuor pour la fin du Temps, che aveva preparato anche per altri tre musicisti conosciuti nel campo, un violinista, un violoncellista, e un clarinettista. L’opera è considerata tra le maggiori della musica contemporanea. Il debutto ci fu nel 1941, anche se la poesia lo colloca nel 1940. Messiaen suonò un pianoforte non proprio in ottime condizioni. Il pianoforte arrivò nel campo soltanto nell’autunno del 1940, cioè poco prima che fosse allestito il salone nella baracca 27. L’unico a disporre di uno strumento proprio, il clarinetto, era il musicista Henri Akoka. Secondo alcune voci, il violino era così mal messo che aveva solo tre corde. Voci poi smentite da testi dedicati all’argomento. Ciò che avvenne fu che il violinista, Étienne Pasquier, dovette andare con la scorta dal liutaio del paese per comprare il violino. L’altro violino, quello rotto, lo suonava Jean Le Boulaire. A far chiarezza sulla questione degli strumenti è Antoine Goléa che racconta quanto rivelatogli da Messiaen. E sebbene nella poesia di Symmons Roberts si faccia riferimento ai bagni (la fonte da cui trae ispirazione è proprio la conversazione tra Messiaen e Goléa), l’esibizione, in realtà, avvenne nel salone, che poteva contenere un numero elevato di spettatori, circa 200. Sempre tratta dai Rencontres di Goléa, la famosa frase di Messiaen: «non ero mai stato ascoltato con tanta attenzione e comprensione».

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Il suo uditorio furono i prigionieri e le guardie di quella prigione. Ignoro quali fossero i gusti di quell’uditorio, ma sono certo che la musica di Messiaen fu per loro un’esperienza unica. Symmons Roberts, avvalendosi della poetica della maschera, diffusa soprattutto nel XX secolo, fa parlare lo stesso compositore. In questo contesto, quello della verosimiglianza è un discorso accettabile, l’opera composta da Messiaen nasce in quel campo e ad esso sopravvive esercitando, attraverso la parola, una forza magnetica. Come nel caso delle altre poesie citate, si verifica una perdita, o meglio un vuoto, che la poesia è in grado di colmare. Non si tratta di ricostruire, ma di generare una realtà autonoma filtrata dall’immaginazione. Della poesia, ciò che importa è la destinazione finale. Quell’uditorio, in quel contesto, diviene l’unico possibile, ma se ci fosse stato anche un solo prigioniero ad ascoltare la musica, o soltanto gli interpreti, o Messiaen da solo, quell’opera sarebbe comunque nata, perché spinta dalla necessità di raccontare la perdita. Quartetto per la fine dei Tempi Il cielo cupo sulle strade della Bassa Slesia, quando Messiaen inclina il capo sui tasti e arriva l’Angelo ad annunciare il canto il cavallo bianco che incede stupisce la pioggia l’aurora che cerca a levante, il bielorusso tra i cammini. Sono uccelli riscattati al terzo movimento nel suo abisso invernale. Al gas, alla compagnia del freddo, le facce bianche, che prosperano nell’eterno pigiama, ancorati al vetro, guardano verso fuori, le betulle innevate, la moratoria della fame. Non c’è arcobaleno che gli faccia scordare la morte nella sua benevolenza,

93 le brevi ricompense del suono, gli scarlatti paesaggi dell’amore, la quotidiana malattia che è vivere e cantare nel tempo del giudizio l’immortalità del Signore.

Dalla prospettiva di Paulo Teixeira, poeta in portoghese del Mozambico, Messiaen, e non solo lui, con la sua opera rappresenta una rottura, un istante d’oblio, una sospensione dalla realtà, che però mai può far scordare l’imminenza della morte, che si respira a ogni soffio. Sui fogli dello spartito del Quartetto per la fine dei Tempi vi è annotato: «in onore dell’Angelo dell’Apocalisse che, dopo aver alzato la mano verso il cielo, dichiarò: non ci sarà più tempo». Quest’ultima è la “parola” usata da Messiaen e che ritroviamo poi nell’Apocalisse, nella traduzione polacca di Czesław Miłosz. Il poeta polacco Piotr Matywiecki dedica una lunga poesia a quest’opera di Messiaen, e anche un saggio. In questo saggio, Musica ed escatologia, nel far riferimento all’Apocalisse, cita anche la traduzione canonica polacca in cui la parola che appare è “ritardo”, e commenta: «l’Angelo annuncia che “non ci sarà più ritardo”, termina dunque, la speranza escatologica, non verranno aggiornate le questioni definitive […]. L’interpretazione della Bibbia del Millennio [nome attribuito a una delle versioni della Bibbia più note in Polonia, iniziata nell’abbazia benedettina di Tyniec, a Cracovia] suppone che il tempo normale, come dice il filosofo, “sia il luogo dell’aggiornamento”». Attraverso l’arte e la poesia, ciò che si tenta è ritrovare questo luogo, questo tempo, la coordinata assoluta. In un altro passaggio del suo saggio, appena dopo il riferimento all’Apocalisse, Matywiecki si chiede: «esiste l’ispirazione biblica musicale sperimentata dai compositori di musica sacra? A parte l’ispirazione della parola, la Bibbia conosce l’ispirazione dell’immagine (molti dei contenuti vengono espressi mediante immagini di paesaggi, in cui non si ode parola uma-

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na) […]. E la musica di Messiaen pare anticipare e seguire la parola, prima di essa (prima della creazione) e dopo di essa (dopo la fine del mondo), riuscendo a essere insieme escatologia e genesi». Ma tale visione religiosa, non è già stata mutuata dall’arte? Non è anche scopo della poesia quello di giungere alle questioni ultime e a quelle originarie? E ciò che dicevamo sulla perdita s’inserisce perfettamente in questo discorso. Nella sua poesia dedicata al compositore francese, Un mondo per Messiaen, Matywiecki si comporta in modo diverso rispetto ai due autori che l’hanno preceduto. È come se cercasse di seguire le diverse parti dello spartito, del componimento, come se assistessimo a un’altra interpretazione, però mediante la parola. Ricorrendo a ritmi differenti, riesce addirittura a ricreare la lentezza della terza parte, «l’Abisso degli uccelli». E non dimentica il discorso religioso che infatti aleggia costantemente sui versi. Appare il compositore che è colui che narra nella poesia, conferendo alla sua sinestesia un ruolo centrale (realmente presente nel compositore). Ci sono anche gli altri musicisti, dei quali, con i versi, riesce a ricreare il suono dei loro strumenti. Uno dei passaggi più intensi è quello in cui la creazione, l’arte, diviene il filo che tiene unita la nostra esperienza: Mattino e musica. Cose non create. L’aria e i polmoni si amano ma non c’è fiato. Volevo generare la parola ma ho balbettato una domanda: ceneri concentrate, pensate d’essere? La pietra e l’eco sono lì mute. Ceneri concentrate, ci siete? Da me e verso di me il cuore va e viene. Ceneri concentrate, avete tempo?

95 Una duna di sabbia mi è accanto e dorme. Ti piacciono le tue sembianze? Le gambe incedono. Ceneri concentrate, distingui te stesso nel cammino?

*** Nel libro Natura morta con briglie, Zbigniew Herbert include, in un paragrafo finale di apocrifi, una lettera (evidentemente falsa) che il pittore Jan Vermeer invia a Anton van Leeuwenhoek, un naturalista che aveva fatto perfezionare il microscopio. In un punto della lettera afferma: «se ho capito bene quale sia il mio compito, esso sta nel riuscire a riconciliare l’uomo con il mondo in cui vive, per questo io e i miei fratelli del gremio riproduciamo infinite volte il cielo e le nuvole, i ritratti delle persone, l’universo delle quattro stagioni; solo così ci sentiremo sicuri e felici». Ancora oggi non ci sottraiamo a questo compito e riproduciamo all’infinito il nostro mondo, reso autonomo dalla mimesi. Non sono però tanto sicuro che il compito della poesia sia quello di conciliare l’uomo con la realtà che lo circonda, piuttosto esso consiste nel dar conto delle contraddizioni di questa realtà, e delle perdite che hanno plasmato l’uomo nella realtà in cui vive. Cracovia-Ustroń, 2017-2018

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Opere citate dall’autore

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103

Indice

Nota della traduttrice

p. 9

Un testo frammentario

p. 11

L’auditorio di Görlitz (Visioni poetiche)

p. 15

Opere citate dall’autore

p. 97

Margini Collana di letterature e scritture non canoniche Diretta da

Filippo La Porta

1. Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento. 2. Aurora Bertrana, Paradisi oceanici. 3. Antonio Fiori, I Poeti del sogno. Piccola antologia. 4. Giovanni Catelli, Parigi, e un padre. 5. Lucilio Santoni, Legato con amore in un volume. Quasi un diario. 6. Luciano Curreri, Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine. Seguito dai Sei pensieri grati e gratis. 7. Francesco Borrasso, Restare vivo. 8. Domenico Calcaterra, L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia. 9. Natàlia Cerezo, Nelle città nascoste. 10. Xavier Farré, L’auditorio di Görlitz. (Visioni poetiche)

L’auditorio di Görlitz La poesia non avrà la forza di impedire gli eventi, ma ha la possibilità di divenirne racconto. Non modifica fatti, o almeno non direttamente, ma ne è presa di coscienza, espressione lucida e ferma. Accanto ad altri, questo è uno dei principi emersi dalle riflessioni di Farré, che passeggia instancabile per i luoghi sterminati della poesia. Ne frequenta i boschi, le città, i siti solitari e desolati – le soste ad Auschwitz e a Varsavia ne sono un esempio – stilando al suo ritorno dai viaggi una deliziosa e personale raccolta di riletture poetiche. Tali riflessioni non rimangono nello spazio dell’io ma vengono condivise con l’altro, il lettore; un lettore animato dallo stesso desiderio dell’autore: quello di avvicinarsi, quanto più possibile, all’essenza stessa della poesia. È, quello di Farré, un auditorio poetico-letterario, spaziale e esistenziale, in cui riecheggiano differenti sonorità: slovene, polacche, ceche, catalane e anglosassoni. Poeta e traduttore, Xavier Farré ha dato voce ai più importanti poeti polacchi e sloveni. Czesław Miłosz, Adam Zagajewski, Zbigniew Herbert, Aleš Debeljak, Tomaž Šalamun parlano spagnolo e catalano grazie a lui e riecheggiano, assieme ad altri grandi nomi della poesia universale, nei versi che egli stesso, in quanto poeta, scrive. Retorns de l’Est (Tria de poemes 1990-2001) (2005), Inventari de fronteres (2006) e L’auditori de Görlitz (2018) sono alcune delle sue opere che da Cracovia, città in cui vive e lavora – è docente presso la Uniwersytet Jagielloński –, fa arrivare ai suoi lettori catalani e non.

Margini | 10 € 6,00

Collana diretta da Filippo La Porta

ISBN ebook 9788855292665