Jean-Jacques Rousseau. Opere

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LTS PSON0IIE COTTA

OPERE PAOLO

SANSONI

ROSSI

EDITORE

JEAN-JACQUES ROUSSEAU

OPERE a cura di

PAOLO

SANSONI

ROSSI

EDITORE

COPYRIGHT



1972

BY G. C. SANSONI

S.P.A. - FIRENZE

INDICE

Introduzione di Paolo Rossi

VII

Nota sui testi e sulla biografia

XLIII

Discorso sulle scienze e sulle arti (trad. R. Mondolfo) Prefazione,

3 - Prima

parte, 4 - Seconda

parte, 9

Prefazione al Narciso (trad. E. Renzi)

19

Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza (r24. R. Mondolfo)

31

Alla repubblica di Ginevra, 33 - Prefazione, 38 - Avvertenza sulle note, 42 - Que-

stione, proposta Note, 7

dall'Accademia

di Digione,

42

- Prima

parte,

43

- Seconda

parte,

Discorso sull'economia politica (trad. B. Gentile)

97

Lettera di J.-J. Rousseau a Voltaire (18 Agosto 1756) (trad. E. Renzi) Frammento,

123

134

Scritti sull'Abbé de Saint-Pierre (rad. L. Luporini)

137

Estratto dal progetto di pace perpetua dell'Abbé de Saint-Pierre, 139 - [Frammento], 154 - Giudizio sul progetto di pace perpetua, 154 - Lo stato di guerra nasce dallo stato sociale, 160 - [Frammenti sulla guerra], 167 - Polisinodia dell'Abbé de Saint-Pierre, 168 - Giudizio sulla polisinodia, 178 - [Frammenti sulla polisinodia], 183 - [Frammenti diversi], 187 - [Progetto di introduzione a un’opera sull’Abbé de Saint-Pierre], 188 - [Frammenti e note sull’Abbé de Saint-Pierre], 189

Lettera a d’Alembert sugli spettacoli (trad. G. Scuto) Prefazione,

201

- J.-J.

Rousseau

cittadino

di

Ginevra

199 al

signor

d’Alembert,

204

Del contratto sociale (#44. R. Mondolfo)

277

Avvertenza, 279 - Libro primo, 279 - Libro secondo, 289 - Libro terzo, 304 - Libro quarto, 326

Emilio (trad. L. De Anna)

347

Prefazione, 349 . Libro primo, 350- Libro secondo, quarto, 492- Libro quinto, 611

382- Libro

Progetto di costituzione per la Corsica (trad. B. Gentile) Prefazione,

715

- [Progetto],

715

- Frammenti

sparsi, 738

terzo, 195 -

Libro

713

VI

INDICE

Le confessioni di J.-J. Rousseau - Prima parte (trad. V. Sottile Scaduto) Libro Libro

primo, 747 - Libro secondo, 769 quinto, 844- Libro sesto, 872

- Libro

terzo,

794- Libro

quarto,

819

745 -

Le confessioni di J.-J. Rousseau - Seconda parte (trad. V. Sottile Scaduto) Libro settimo, 903 - Libro ottavo, 945 - Libro nono, - Libro undicesimo, 1057 - Libro dodicesimo, 1082

975

- Libro

decimo,

901

1025

Rousseau giudice di Jean-Jacques. Dialoghi (trad. E. Melon Cantoni)

1123

Dell’argomento e della forma di questo scritto, 1125- Primo dialogo, 1128- Secondo dialogo, 1189- Terzo dialogo, 1273 - Storia dello scritto precedente, 1308 - Copia della circolare di cui si è parlato nello scritto precedente, 1316

Le passeggiate solitarie (#rad. B. Dal Fabbro)

1319

Prima passeggiata, 1321 - Seconda passeggiata, 1325 - Terza passeggiata, 1330 Quarta passeggiata, 1337 - Quinta passeggiata, 1346 - Sesta passeggiata, 1351 - Settima passeggiata, 1357 - Ottava passeggiata, 1364 - Nona passeggiata, 1370 - Decima passeggiata, 1377

Note

1379

INTRODUZIONE di Paolo

Rossi

ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI USATE NELLA INTRODUZIONE E NELLE NOTE “ Ove non siano presenti altre indicazioni, i numeri romani da I a IV, immediatamente seguiti dal numero della pagina, rinviano ai quattro volumi delle Qeuvres complètes de Jean-Jacques Rousseau, édition publiée sous la direction de Bernard Gagnebin et Marcel Raymond, « Bibliothèque de

la Pléiade », Paris, Gallimard,

1959-1969

I termini o le iniziali impiegati nelle abbreviazioni qui di seguito elencate sono anch'essi mediatamente seguiti dal numero del volume (in cifra romana) e della pagina (in cifra araba). Tutti i rinvii ai testi compresi nella presente raccolta sono effettuati cazione p. oppure pp. seguita dalla cifra della pagina corrispondente, Annales

« Annales

de la société Jean-Jacques

mediante

Rousseau », Genève,

la semplice

Jullien,

Correspondance

complète,

éd. R.A, Leigh,

Genève, Droz,

1965 segg.

CG.

Correspondance 1934, 20 voll

générale,

éd.

et P.P.

Paris,

Cassirer Etudes

Dufour

E. Cassirer, Il problema Gian 1 Giacomo renze, La Nuova Italia,1

Rousseau,

Plan,

trad. di M.

Colin,

Fi-

Etudes sur le «Contrat social» de Jean-Jacques Rousseau, Actes des journées d'étude tenues a Dijon les 3, 4, 5 et 6 mai 1962, Paris, Les Belles Lettres, 1964. J-J. Rousseau, Scritti politici, a cura di Maria Garin. nio Garin, Bari, Laterza, 1971, 3 voll.

Gerratana °

J-J. Rousseau, Discorso sull'origine e i fondamenti dell’ineguaglianza somini, a cura di Valentino Gerratana, Roma, Editori Riuniti, 1968.

Hendel

Cw. Hendel, 1962?.

Starobinski

1924

Albanese,

Garin

Scritti politici

indi-

1905 segg.

CC.

Th.

im-

Jean-Jacques

Rousseau:

moralist,

Introduzione

Néw

York,

di Eugetra gli

Bobbs-Merrill,

Scritti politici di Jean-Jacques Rousseau, a cura di Paolo Alatri, Torino, Utet, 1970. Jean Starobinski, Jean Jacques

Gallimard,1

Rousseau:

la transparence

et l'obstacle,

ed, by Th. Bestermann,

Paris,

Studies

Studies on Voltaire and the eighteenth century, nève, Institut et Musée Voltaire, 1955 segg.

Ge-

Vaughan

C.E. Vaughan, The politica! writings of Jean-Jacques Rousseau, Cambridge, Cambridge University Press, 1915, 2 voll. (rist. Oxford, Blackwell, 1962).

La situazione degli studi roussoiani in Italia — fatta eccezione per due eccellenti opere a carattere erudito sulla fortuna di Rousseau e per alcune buone edizioni scolastiche — era, fino a non molti anni fa, abbastanza deprimente. Come ha notato Umberto Cerroni nella sua prefazione alla voce Economia politica (Bari, 1968), fra gli scritti di Mondolfo, che si occupò di Rousseau fra il 1907 e il 1912, e l’opera di Galvano della Volpe, che è del 1957, esiste nella produzione italiana un vuoto sostanziale che i rapidi giudizi liquidatori di Croce e di De Ruggiero non valgono certo a colmare. In questi ultimi anni la situazione appare notevolmente mutata: si è verificata una ripresa di interessi, di edizioni e di studi che ha introdotto la conoscenza di nuovi testi, ha stimolato nuove ricerche, ha tiannodato il dialogo con il molto lavoro che si era andato svolgendo in Francia, in Inghilterra, in Germania,

negli Stati Uniti, ha soprattutto riaperto con vivacità la

discussione — che ha rilevante importanza per il pensiero contemporaneo — sui rapporti fra Rousseau e il marxismo. Da questo risveglio di interesse e di studi c'è da augurarsi che emerga quel libro su Rousseau del quale la cultura italiana si è mostrata fino a oggi incapace. Ma mentre vanno fortemente sottolineati gli aspetti positivi di questi contributi, è anche da dire che è difficile sottrarsi all’impressione che questa « rinascita » toussoiana rechi dentro di sé — per il modo in cui si è generata e si è svolta e per l'andamento che la discussione è andata assumendo — anche taluni pericoli che vale la pena di sottolineare. Rousseau sembra soprattutto utilizzato come termine di confronto in un discorso del marxismo e sul marxismo. Gli attuali dibattiti su Rousseau, i rilievi sulla rinnovata attualità e sulla non spenta vitalità del suo pensiero fanno certo parte della lunga e complicata storia della fortuna di Rousseau, ma non sembra possano giungere a soddisfacenti risultati sulla base di una eliminazione e semplificazione dei problemi, di un metodo, tutto scolastico, di raffronti tra alcune affermazioni di Marx e passi roussoiani isolati dal loro contesto,

di una

riduzione

di complessi

nodi

storici e teorici

sul piano

dei

puri concetti. Il rischio fondamentale dell’attuale discussione dei marxisti italiani è, in particolare, quello di un forzato inserimento di Rousseau in una problematica che gli è fondamentalmente estranea e di una progressiva attenuazione di tutti i temi che lo legano saldamente alla cultura e alla società del suo tempo.

x

INTRODUZIONE

Rousseau diviene l’autore del Discorso sulla disuguaglianza, anzi di quei passi del Discorso e del Contratto sociale la cui lettura vale a mostrare « l’in‘consapevole debito » di Marx verso Rousseau. Ma il processo riduttivo non si ferma a questo punto. « Tutto l’essenziale della critica di Rousseau alla società borghese moderna » viene indicato presente in un passo della Prefazione al Narciso; gli elementi fondamentali del Discorso sulla disuguaglianza, della voce Economia politica, del Contratto sociale sono « già tutti presenti » in una celebre affermazione del primo Discorso ove si parla delle « ghirlande di fiori » che le scienze e le arti stendono sulle « catene di ferro » della società (Scritti politici, 26). Si tratta senza dubbio di richiami sug-

gestivi. Ma dopo la moda del « primo Hegel » e del « giovane Marx », non si vorrebbe dovesse troppo prosperare in Italia anche la moda del primo Rousseau. La fondamentale distinzione fra il « vero » Rousseau e la lunga vicenda della sua fortuna — che è fatta di fraintendimenti oltre che di dibattiti teorici e sulla quale ha richiamato molto opportunamente l’attenzione Paolo Casini — costituisce il risultato maggiore di tutto il paziente e imponente lavoro che si è svolto fuori d’Italia in questi ultimi decenni (Rousseau,

Milano,

1966,

17).

L’annullamento

di tale distinzione

non

sem-

bra davvero per la cultura italiana un’acquisizione positiva. Di fronte a un autore fra i più complessi e ricchi di difficoltà, gli studi italiani sembrano

aver scelto la strada,

questo

costituiscono

fre molte

essi

vie

non

d'uscita,

rappresentata

forse più

dalla

eccitante,

« ricerca

un'eccezione

perché,

della

come

ma

che non

paternità ».

notava

of-

In

l'autore

della splendida edizione della Correspondance complète, per la grande maggioranza dei suoi critici Rousseau è stato prima di tutto un padre: il padre

della Rivoluzione francese, del romanticismo, dell'anarchismo, del primitivismo, del socialismo, della democrazia, della mistica totalitaria, dell’esistenzialismo e via di seguito (CC. I, xr). Più che le affermazioni sulla « sostan-

ziale concordanza » della metodologia di Rousseau e di quella di Marx, anche la attuale rinascita degli studi roussoiani in Italia potrà trarre qualche giovamento dalla decisa rinuncia all'immagine tradizionale di un Rousseau « idolo o capro espiatorio », dall'approfondimento delle interne vicende e delle radici storiche del pensiero roussoiano. Anche per le ragioni ora esposte, una raccolta delle Opere che afftanchi agli scritti più noti testi finora non tradotti o a torto considerati minori, che soprattutto presenti irsiezze il Rousseau dei Discorsi, dell’Emzilio e del Contratto e quello delle Confessioni, delle Passeggiate solitarie e dei Dialoghi,

sembra

in questo

momento

Le pagine che seguono

« nuova » di Rousseau,



impresa

quanto

non intendono tantomeno

mai

opportuna.

certo fornire una interpretazione

passare

in rassegna

la sterminata

bi-

bliografia. La prefazione è, nella sostanza, un tentativo di discutere alcune recenti interpretazioni, tentativo che ha condotto all'esame analitico di alcuni temi e di alcuni testi. La lunga Nota sui testi e sulla biografia ha invece intenti prevalentemente informativi ed è stata concepita come uno strumento di lavoro e una iniziale guida per chi si avvicina per la prima volta alla lettura di un autore del quale è difficile liberarsi, anche facendo ricorso a formule di comodo. A questo fine si sono effettuati numerosi rinvii ai testi qui tradotti, si è dato largo spazio a citazioni tratte da opere non comprese nella

INTRODUZIONE

xI

presente raccolta e dalla corrispondenza, si è fatto continuo riferimento alla biografia, si sono di volta in volta indicati gli studi più utili per un ulteriore approfondimento. 1. Siè scritto di recente che in un passo della Prefazione al Narciso sono presenti: 1) tutto l'essenziale della critica di Rousseau alla società civile moderna; 2) una replica, formulata con un anticipo di oltre trent'anni, alle tesi quarta e quinta dell’Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico di Emanuele Kant; 3) una critica che viene « inconsapevolmente » ripresa da Marx nel manoscritto del 1844 su Bisogno, produzione e divisione

del

lavoro

(« De

Homine »,

1968,

141-42).

Questi

suggestivi

acco-

stamenti sono stati ottenuti isolando dal contesto della Prefazione le venti righe nelle quali Rousseau insiste sui legami di « reciproca dipendenza » e sui « reciproci bisogni » che stringono fra gli uomini, mediante l’interesse

personale,

«i

nodi

della

società » e sulla conseguente

impossibilità,

in cui

ora essi si trovano, di vivere assieme senza « ingannarsi, tradirsi e distruggersi

reciprocamente ».

Intorno a queste affermazioni si muove in realtà un testo fra i più ambigui e difficili di Rousseau, fra i più carichi di odio teologico e calvinistico contro la scienza e la filosofia, fra i più ricchi di pathos moralistico, antiscettico e antimaterialistico. È in questo contesto che quella sua affermazione, così significativa e importante, va compresa e valutata. Nella Prefazione al Narciso l’invettiva contro la « vana pompa scientifica » del secolo non appare attenuata ma rafforzata rispetto al primo Discorso. Non ho mai affermato — protesta Rousseau — che la scienza sia la sola e unica fonte di corruzione, ma solo che essa è «la più rapida e abbondante ». Il « disordine » provocato dalla distruzione dell'Impero ‘romano e dalle invasioni barbariche è stato mantenuto e rafforzato dalle crociate, dal commercio, dalla scoperta dell'America, dalle navigazioni, dai viaggi transoceanici. Scopo del Discorso sulle scienze e le arti era mostrare il legame necessario fra la degenerazione dei costumi e l’estendersi del gusto per le lettere: Se non si poteva negare che queste cose avessero proceduto insieme, era però possibile negare che l’una avesse influito sull’altra. Mi sforzai dunque di dimostrare la necessità di questa connessione. Feci vedere che l'origine dei nostri errori su questo punto

deriva dalla confusione che noi facciamo tra le nostre vane e ingannevoli conoscenze e la sovrana intelligenza che immediatamente (d'un

coup

d'oeil)

vede

tutte

le cose.

La

scienza,

concepita

astrattamente, è degna di tutta la nostra ammirazione. La folle scienza degli uomini non è degna se non di derisione e di disprezzo (pp. 24-25; II, 965). Là dove i cittadini si dedicano all'adempimento dei loro doveri, non v'è posto per le « frivole speculazioni ». Gli « assurdi sistemi » di Leucippo, Diogene, Pirrone, Protagora, Lucrezio, Hobbes, Mandeville sono nati dal desiderio di distinguersi e di aprire vie opposte a quelle praticate dai primi filosofi che insegnarono agli uomini la pratica dei loro doveri e i principi

XII

INTRODUZIONE

della virtù. Il disprezzo pet i doveri dell'uomo e del cittadino che caratterizza il secolo XVIII è, per Rousseau, frutto di quelle « pericolose dottrine ». Da esse è derivato quel gusto per la filosofia che « allenta tutti i legami di stima e di benevolenza che collegano gli uomini alla società » (p. 26; II, 967). Anche contro una conoscenza lucida e spregiudicata di ciò che gli uomini effettivamente sono Rousseau avanza forti riserve: « A forza di riflettere sull’umanità, a forza di osservare gli uomini, il filosofo impara a stimarli secondo il loro valore, ed è difficile provare affetto per ciò che si disprezza » (p. 26;

II, 967).

28;

970).

L'uomo

è nato « per agire e pensare, e non

per riflettere.

La riflessione setve solo a renderlo infelice, senza renderlo migliore né più saggio » (p. 28; II, 970). Ciò non esclude — e qui Rousseau torna su una tesi che gli è cara — che alcuni « geni sublimi » e alcune « anime privilegiate », capaci di resistere alla vanità, alla bassa gelosia e alle passioni generate dal gusto per le lettere, non riescano a penetrare attraverso i veli entro i quali è ravvolta la verità: «il piccolo numero di coloro che hanno la ventura di riunire queste qualità costituisce la luce e l’onore del genere umano; a essi soli spetta, per il bene di tutti, esercitarsi nello studio » (p. II,

Solo

osservando

me

stesso,

concluderà

Rousseau

al termine

della sua prefazione, potrò stabilire se devo annoverarmi in quel piccolo numero «e se il mio animo è nello stato di sostenere il peso delle esercitazioni letterarie » (p. 29;

II, 973).

L’analisi roussoiana della società, la critica alla divisione e contrapposizione degli interessi privati, alla concorrenza nella quale il successo dell’uno è la rovina dell’altro, il rifiuto dell'inganno generale che presiede a questi rapporti, non possono essere letti al di fuori di questo contesto. Nel quale, come avviene anche nel primo Discorso, una violenta polemica antimaterialistica, gli anatemi contro la vana filosofia e l’inutile scienza degli uomini, le ripetute affermazioni sugli spiriti eletti cui è consentito riflettere senza subire la corruzione che alla riflessione è connessa, l’esaltazione delle qualità morali e delle virtù guerriere ed eroiche si saldano, in una mescolanza unica e singolare, con la critica « politica » di derivazione libertina e illuministica diretta contro i « nemici della virtà e del senso comune », contro la corruzione e l’ingiustizia della società. La rottura di Rousseau con i philosophes, maturata nel dicembre del 1757, dipende

effettivamente

(come

ha

mostrato

anche

Paolo

Casini) da « un

re-

cupero dell’esperienza religiosa come fatto culturale della vita interiore », recupero che viene maturando negli anni stessi in cui Rousseau avanza le sue tesi politiche più radicali e scrive i due Discorsi (cfr. « Riv, critica di storia della filos. », 1964, 255-57). Per questo è difficile esser d'accordo con

Valentino Gerratana (51-53) quando egli afferma che « il sodalizio di Rousseau con gli ‘ increduli *, fino alla primavera del 1756, non è privo di saldi presupposti teorici ». Per documentare la saldezza di quei presupposti Gerratana fa leva su una nota della Lettera a d’Alembert nella quale Rousseau afferma di aver avuto per molto tempo « l’etrata convinzione » che si possa « essere virtuosi

senza essere religiosi » (p. 253). È un po’ poco per parlare

di sostituzione di presupposti teorici nel passaggio dalla prima alla seconda fase del pensiero roussoiano.

Gerratana

toglie ogni valore alla testimonianza

INTRODUZIONE

XII

della Terza Passeggiata (pp. 1332-33; I, 1016: «avevano scosso tutte le certezze che credevo di avere... ma non ho adottato mai le loro desolate dottrine...

perché

proprio

i loro

troppo

argomenti

mi

avevano

scosso

senza

tarda e pervasa dello « stato d'animo

dell’ultimo

Rousseau » (Gerratana,

avermi

51). Ma

mai

convinto »)

di esaltazione

andrebbe

tenuto

mistica conto

del fatto che nelle pagine dell’Ewzilio, che non risalgono al 1777, ma agli anni compresi fra il 1758 stanzialmente diversa:

e il 1761,

la testimonianza

di Rousseau

non

è so-

Consultai i filosofi, sfogliai i loro libti, esaminai le loro diverse opinioni; li trovai tutti superbi, affermativi, dogmatici, anche nel loro preteso scetticismo, non ignorando niente, non provando niente, burlandosi gli uni degli altri... Se pesate le ragioni, non ne hanno che per distruggere; se contate i loro pareri, ciascuno è ridotto al suo; non si accordano che per disputare: ascoltarli non era il mezzo per uscire dalla mia incertezza... Lungi dal liberarmi dai miei dubbi inutili, i filosofi non avrebbero fatto che moltiplicare quelli che mi tormentavano senza risolverne alcuno. Presi dunque un’altra guida e dissi fra me: consultiamo il lume interiore;

esso mi svierà meno

di quello che essi non mi sviino,

o, almeno, il mio errore sarà il mio, ed io mi depraverò meno seguendo le mie illusioni che affidandomi alle loro menzogne (pp. 539-40;

IV,

568-69).

2. Il modo migliore per documentare le difficoltà alle quali va incontro la tesi di un Rousseau saldamente legato, all’inizio della sua carriera, con il partito degli increduli, consiste nel prendere in considerazione con maggiore attenzione una serie di testi che risalgono agli anni immediatamente precedenti e a quelli immediatamente successivi all'incontro e all’amicizia con Diderot e con il gruppo dei philosophes. Nei versi, composti con ogni probabilità fra il 1736 e il 1740, A /a Jouange des religieux de la Grande Chartreuse, Rousseau aveva contrapposto la felicità, la pura gioia, la tranquillità, i casti piaceri di quei religiosi ai rimorsi della sua « anima lacerata », alla sua incertezza di fronte al mondo, alla sua incapacità di difendersi da esso: Vous fuyés le grand monde, et lui-méme vous fuit; Mais plus je m'en eloigne, et plus il me poutsuit. L’ot, l'honneur, le plaisir, tout tend è me

surprendre,

Je ne sgais, je ne veux, ni ne peux m’en défendre. J'aime ce qui me nuit, je hais ce qui m'est bon,

Sans cesse je combat la grace et la raison (II, 1121).

Pochi anni più tardi, nella Épitre a M. Bordes del 1741 (II, 1130-33), mentre si professava «un fiero repubblicano ferito dall’arroganza, che disdegna l'appoggio del ricco insolente se bisogna mendicarlo strisciandogli davanti », Rousseau vedeva come illusoria e come una « vana chimera » la ricerca di un mondo

popolato da uomini

nati nel seno di un umile oscurità,

XIV

INTRODUZIONE

capaci di nutrire la virtù con la povertà, di avvertire solo i bisogni dettati dalla natura, di aver desideri limitati a una « saggia indigenza », di disprezzare senza orgoglio ogni vana abbondanza. Non v'è in realtà saggezza ove regna la miseria e sotto il peso della fame, la virtù si spegne nei cuori: Tant de pompeux discours M'ont bien l’air d’èétre nés Philosophe commode, on a De précher les vertus dont

sut l’hereuse indigence au sein de l’abondance: toujouts grand soin non n’a pas besoin.

La « conversione » di Rousseau al mondo assume in questo testo toni esasperati e crudeli: De la pitié qu'il fait, souvent le pauvre abuse, Et décorant du nom de sainte charité Les dons dont on nourrit sa vile oisiveté,

Sous l’aspect des vertus que l’infortune opprime Cache l'amour du vice et le penchant du crime. Poiché è impossibile e chimerico cantare quelle innocenti e sublimi virtù, è meglio allora celebrare « l'innocente industria che sa moltiplicare i piaceri della vita » e appagare i bisogni per mezzo del lusso, inneggiare al commercio che nella Francia felice è uno dei « forti legami della società », esaltare Lione « ornamento della Francia, tesoro dell'universo, fonte di abbondanza », ricettacolo tranquillo di tutte le arti, soggiorno incantevole dei « figli di Plutone ». Questo elogio del mondo e delle sue attività nasce sul piano di una contrapposizione, deriva dalla constatata impossibilità di esaltare un mondo diverso, popolato da uomini fteri, semplici e virtuosi. Delle incertezze, dei dubbi, delle Iaceranti contraddizioni di cui è pieno l'animo di Rousseau nel decennio 1740-1750 è testimonianza impressionante

l’Épitre a Monsieur Parisot, composta alle Charmettes e a Lione fra il 1741 e il luglio del 1742. Rousseau ha formato il suo carattere nell’umile oscurità e nella

debole

Ginevra,

una

città che

è forte

a causa

della

sua

debo-

lezza, che non conosce titoli fastosi e ingiusti poteri, nella quale l’unica politica è la giustizia e tutti gli ordini — diversi senza ineguaglianza — esercitano la loro funzione, una città infine dove i magistrati sono onorati per la loro virtù. La vita in questa città, la lezione appresa durante la prima giovinezza, vietano a Rousseau di strisciare davanti ai potenti, gli hanno appreso a rispettare i magistrati, gli hanno dato la consapevolezza di essere un cittadino libero e membro di un corpo sovrano, gli hanno appreso che l'apparente splendore delle grandi nazioni non è che « un frivole éclat qui leur cache leur fers » e che quei conquistatori sono in realtà degli schiavi perché il loro potere, artificialmente costruito, si trova ben presto distrutto dal lusso. Il disprezzo per il lusso, per lo stolto orgoglio dei grandi che attira gli sguardi del « popolo imbecille », gli ha reso difficile l'esilio e gli ha reso doloroso far ricorso a « ces mémes grandeurs ». Ma i discorsi, le credenze di un tempo, i risultati di quelle prime riflessioni appaiono ora insensati di fronte alle più sagge lezioni che ha appreso da Madame de Warens:

xv

INTRODUZIONE

Ces discours insensés troubloient ainsi mon ame, Je les tenois alors, aujourdui je les blame: De plus sages lesons ont formé mon esprit (II, 1139). Quelle « massime feroci » che nutrono la fierezza dei cuori repubblicani, quella « durezza selvaggia » appaiono abiurate per sempre. Rousseau ha dovuto apprendere a rispettare una illustre nobiltà che sa aggiungere il lustro alla virtù, si è reso conto della positività della ineguaglianza, ha rinunciato a fare il Don Chisciotte: Il ne seroit pas bon dans la societé Qu’il fit entre les rangs moins d’inégalité. Trais-je faire ici dans ma vain marotte Le grand déclamateur, le nouveau Don Quichotte, Le destin sur la terre a réglé les états Et pour moi surement ne les changera pas (II, 1140). Epitteto e Zenone sembrano ora lontani. Così come è lontana la « brillante chimera » che fa consistere la felicità nell'esercizio della virtù. Nulla, neppure la virtù, dev'essere spinto all’eccesso. Amici cortesi gli hanno insegnato l’uso dei piaceri innocenti, dei bons #0fs, dei versi eleganti, delle conversa-

zioni vivaci:

Tous les plaisirs du goùt, le charme des beaux arts,

À mes yeux enchantés brilloient des toutes parts (II, 1141).

E tuttavia il successo tanto sperato non è giunto. Per brillare nel mondo si chiedono altre qualità umane: la timidezza non consente a Rousseau quell’audacia, quell'aria contenta di sé, quel tono fiero che ne costituiscono l’indispensabile presupposto. Come si può scegliere tra il rifiuto del proprio carattere e il vergognoso tradimento delle bontà e degli insegnamenti di una madre? tra una felicità ottenuta a un prezzo indegno e l’ingratitudine verso i benefici ricevuti? Il testo non esprime soltanto, come vorrebbe Charly Guyot (II, xcIv), una nostalgica rievocazione di un passato perduto per sempre. Si chiude in realtà con questi interrogativi. Ha il tono di un appello rivolto a Parisot perché lo aiuti in una scelta: Pèse

mes

sentimens,

mes

raisons, mon

choix

Et décide mon sott pour la dernière fois... Telle est des mes malheurs la peintute naive Juge de l’avenir sur cette perspective, Vois si je dois encor par des soins impuissans Offrir à la fortune un inutile encens (II, 1137, 1143). La scelta, nel fondo, è già fatta. Rousseau è ben consapevole che il suo inserimento nel mondo dei philosophes, la sua adesione alla raffinata civiltà di Lione e di Parigi, lo hanno posto su una via assurda e difficile, che lo

pone

in contraddizione

sbocchi reali.

con

il suo

spirito

« nato

sincero », che

è priva

di

XVI

INTRODUZIONE In quello stesso anno, il 17 gennaio del

1742, Rousseau

aveva indirizzato

a Frangois-Joseph de Conzié, conte di Charmette, una lettera che è stata per la prima volta pubblicata solo nel 1962. In essa, fra l’altro, egli affrontava alcuni temi che diventeranno centrali negli anni successivi: il sistema di Pope, la nozione di catena dell'essere, il problema dei mondi possibili. Affermate,

come

fa Henry

Gouhier

(IV,

1774), l'esistenza di un radicale con-

trasto fra il giudizio sul sistema di Pope formulato da Rousseau nel 1742 e gli entusiastici giudizi presenti nella lettera a Voltaire del 18 agosto 1756, non ha alcun senso preciso. Proprio in quest’ultima lettera Rousseau rivolgerà un elogio al suo grande avversario per aver scritto il verso 75 (« Dieu tient en main la chaîne et n’est point enchaîné ») del Poèrze sur le désastre de Lisbonne: Molto giustamente avete corretto il sistema di Pope, osservando che tra le creature e il Creatore non esiste alcuna gradazione proporzionale, e che, se la catena degli esseri creati mette capo a Dio, è perché egli la regge, e non perché ne costituisce il termine (p. 130;

IV,

1067).

Proprio su questo tema, fondamentale da un punto di vista religioso, e centrale per il mantenimento del concetto di trascendenza, Rousseau aveva insistito nella lettera del 1742: dire che la catena degli esseri mette direttamente capo a Dio, vuol dire sostenere un'idea « condannata dalla religione come empia, e che è assurda per la ragione ». La catena degli esseri, concludeva: non mette capo a Dio, almeno per una gradazione proporzionale; la ragione non troverà mai rapporti fra Dio e un qualche altro essere qualunque, fra il Creatore e l’opera, fra il tempo e l’eternità, in una parola fra il finito e l'infinito (CC. I, 136). La preoccupazione di Rousseau, anche nel 1742, è dunque quella di evitate una « risoluzione » di Dio entro la grande catena dell'essere. La sua adesione alla dottrina di Pope nasce su un terreno ben diverso: dal ricono-

scimento

della

vicinanza

seau, che

la felicità non

tra la morale

di Pope,

ingiustamente

accusato

di

epicureismo, e la morale del Vangelo. Pope ci ha insegnato, afferma Rousconsiste nei beni

esteriori

e che non

può

esistere

senza la virtù. La felicità degli uomini richiede due cose: la salute del corpo e ciò che è necessario per vivere (la santé et le nécessaire):

Felici i cuori abbastanza moderati per accontentarsene! È un triste spettacolo vedere gli uomini sulla terra darsi da fare per gli

onori

e per

dei

beni

chimerici,

allontanandosi,

con

ciò

stesso,

dalle vere sorgenti della felicità verso le quali Pope cerca di ricondurli (CC.

I, 138).

, La scelta di Rousseau tra una « felicità ottenuta a un prezzo indegno » e l'adesione a un mondo di valori che è estraneo al suo animo verrà ancora differita, ma Rousseau è ben consapevole, nel 1742, che i « beni chimerici » della civiltà allontanano gli uomini dalla felicità e che quest’ultima è

xVII

INTRODUZIONE

saldamente legata alla virtù. Nel 1747, ne L’allée de Silvie invocherà che fuggano dal suo animo i « vani e tumultuosi progetti » perseguiti in vista di una

saggezza

e di una

felicità

non

conseguite

(II,

1146);

nel

'49 nel.

l'Épitre a M.de l'Étang si scaglierà contro Parigi, città ove regnano i mag-

giori furfanti di Francia, dove i virtuosi poveri sono sbeffeggiati, dove ces sots qu'on nomme beaux esprits imperversano e vendono fumo adulando coloro

che li ingrassano

(II,

1150-51).

Proprio il richiamo agli ideali mai spenti della giovinezza, alle « massime feroci », alla « durezza selvaggia », all’ideale di una povertà nutrita di virtù e fatta di volontaria autolimitazione ai bisogni dettati dalla natura condurrà Rousseau alla grande crisi dell'ottobre del 1749. Quella crisi, che Rousseau

presentò

come

un

episodio

violentemente

traumatico,

come

un

istante

de-

cisivo e fatale, come una rivelazione improvvisa, si era a lungo nutrita di dubbi e di incertezze, aveva origini lontane, nasceva sul terreno di una estraneità profonda agli ideali e al mondo dei suoi occasionali compagni di strada. Da questo punto di vista, proprio la tarda testimonianza dei Digloghi appare illuminante perché — a differenza di quanto avviene nelle Cowfessioni e nella lettera a Malesherbes del 12 gennaio 1762 — la crisi del ’49 viene qui presentata come il risultato di un processo, come la chiarificazione di dubbi preesistenti, come il passaggio da nozioni confuse a una improvvisa chiarezza: Intravvedeva un'opposizione segreta fra la costituzione dell’uomo e quella delle nostre società; ma si trattava piuttosto di un sentimento oscuro, d'una nozione confusa, che non di un giudizio chiaro e ben sviluppato. L'opinione pubblica aveva troppo asservito anche lui perché egli osasse reclamare contro decisioni così unanimi. Un'’infelice questione dell'Accademia, che egli lesse in un numero del « Mercure », venne a un tratto ad aprirgli gli occhi, a sbrogliare il caos che ‘aveva nella mente, a mostrargli un altro universo, un’autentica età dell’oto, società di uomini

semplici, savi, felici, e a realizzare in speranza tutte quelle sue visioni, per mezzo della distruzione dei pregiudizi che avevano soggiogato lui stesso, e dai quali egli credé in quel momento di veder sgorgare i vizi e le miserie del genere umano (p. 1222; II, 828-29).

3. La diffidenza per la philosophie e per i sistemi, il rifiuto della empia pretesa di conoscere la realtà naturale saranno espressi con grande vigore, com'è noto, nella Professione di fede del 1761: Non abbiamo la misura di questa macchina immensa, non ne possiamo calcolare i rapporti, non ne conosciamo le prime leggi né la causa finale... misteri impenetrabili ci circondano da tutte le parti... crediamo di avere dell'intelligenza e non abbiamo che dell’immaginazione (p. 539; IV, 568). In quelle celebri pagine — stese contemporaneamente a quelle del Contratto sociale — verranno alla luce non pochi temi già presenti nella Prefa-

XVIII

INTRODUZIONE

zione al Narciso e negli altri scritti del decennio 1745-1755: il rifiuto della philosophie come spirito di distruzione, vano disputare, manifestazione di orgoglio, costruzione di « idee generali e astratte » che sono la fonte degli errori più gravi del genere umano; la decisa polemica antimaterialistica. Le differenze fra le pagine del '61 e quelle dei due Discorsi sono certo molte ed essenziali e si avrebbe torto nel trascurarle. È certo intervenuta una nuova crisi, ma, su alcuni temi di fondo, la posizione di Rousseau rimane ferma e coerente. l La maggior parte delle leggi di natura — aveva scritto nelle Institutions chimiques (composte intorno al 1745) — « non sono che parole vuote di senso » e i fisici « non si attaccano che alle parole ». Bisogna, prima di tutto, « congedare i filosofi con le loro belle ipotesi... perché le speculazioni più sublimi e le scoperte più meravigliose non arriveranno mai a conoscere con

evidenza la teoria vera della natura » (Annales, XII, 27; XIII, 45). La scien-

za, paragonata a quei fuochi fatui « che sembrano illuminare il cammino ai viandanti

solo per condurli

verso

i precipizi » (CG.

II, 57)

era stata rifiu-

tata come tale — indipendentemente dalla opposizione dei cartesiani ai newtoniani — nella Mémoire è Mr de Mably sur l’éducation de son fils (1740):

Non ho mai potuto concepire come un filosofo potesse seriamente immaginare un sistema di fisica. I cartesiani mi sembrano ridicoli perché vogliono rendere ragione di tutti gli effetti naturali mediante le loro supposizioni e i newtoniani ancora più ridicoli perché offrono le loro supposizioni come fatti. Contentiamoci di sapere ciò che è, senza voler ricercare come le cose sono, perché una tale conoscenza non è alla nostra portata (IV,

30).

Nel primo Discorso, e soprattutto nelle Réponses, questi temi, che hanno lontane radici, emergono con chiarezza. L'invettiva del primo Discorso contro i « filosofi illustri » (p. 10; III, 18) fa riferimento a Leibniz e a Malebranche,

a Fontenelle, a Newton

e a Réamur

e non è certo controbilanciata

dall’elogio di maniera che segue poche pagine più avanti e che è rivolto Bacone, Descartes e Newton « precettori del genere umano ». Il motivo fondo della polemica di Rousseau è in realtà agli antipodi delle speranze delle aspirazioni dei philosophes, nasce su un ben diverso terreno: « tutte

a di e le

scienze e la morale stessa sono nate dall’orgoglio umano » (p. 10: III, 18); studi, conoscenze, sapere, filosofa — ribadirà nella Réponse del 1752 — « non sono che vani simulacri innalzati dall’orgoglio umano » (III, 73); la

filosofia « sfiderà sempre la ragione, la verità e essa ha la sua sorgente nell'orgoglio umano che cose » (III, 46). La condanna non riecheggiava teristica dei pastori calvinisti di Ginevra, ma Charron

(cfr.

III,

1278).

Non

si limitava

il tempo medesimo perché è più forte di tutte queste soltanto la tematica caratattingeva a Montaigne e a

alla philosophie,

ma

finiva

per

investire tutto il mondo moderno: dall’arte della stampa che « eterna le stravaganze dello spirito umano » e fa sì che restino per sempre le « pericolose fantasticherie » di Hobbes e di Spinoza, fino allo scandalo per il fatto che i nuovi filosofi, a differenza degli antichi, non parlano di costumi e di virtù, ma di commercio e di denaro (pp. 11, 15; III, 19, 27-28).

INTRODUZIONE

xIX

È veramente difficile vedere in queste affermazioni — come propone di fare Getratana — « spunti e idee di cui lo sviluppo ulteriore del pensiero

roussoiano

chiarirà

la natura

di ‘scarti’ » (Gerratana,

31).

La

protesta

di

Rousseau contro il suo secolo sa anche assumere toni decisamente antiilluministici quando si rivolge, non per caso, contro l’opera di coloro che « hanno rimosso dal tempio delle Muse le difficoltà che ne vietavano l’accesso... che hanno indiscretamente infranto le porte delle scienze e introdotto nel loro santuario una plebaglia indegna d'accostarvisi » (p. 16; III, 29). L'affermazione, che si è già vista presente nella Prefazione al Narciso, sulle « anime privilegiate» che possono dedicarsi allo studio senza subirne la corruzione, era già stata affacciata nel primo Discorso e viene ripresa, in tono ancora più deciso, nelle Observazions e nella cosiddetta Dernière réponse (p. 16; III, 29; III, 39, 41, 72). Né andrà dimenticato il significativo attacco alle varie sètte dei filosofi, dove Rousseau rivendica la simi-

larità delle sue posizioni con quelle di Tertulliano e di Giustino Martire ed elenca brevemente «le massime pericolose e i dogmi empi » di Stoici, Epicurei, Accademici,

Cirenaici (III, 46).

Ma il terreno sul quale può effettivamente misurarsi la distanza reale fra Rousseau e i philosophes è — ancora una volta — quello relativo alla religione. Non si tratta solo della asserita vicinanza alle posizioni dei primi Padri, della difesa della loro opera, resa purtroppo ben presto vana, che tendeva a bandire tutta la scienza mondana

(III, 47-48). Il testo della risposta al re

di Polonia è, su questo punto, inequivocabile:

Come è stato possibile accusarmi di biasimare lo studio della religione? accusare me, che biasimo soprattutto lo studio delle nostre vane scienze perché ci distoglie da quello dei nostri doveri? e che cos'è lo studio dei doveri del cristiano se non quello della stessa religione? ... Le scienze sono oggi fiorenti, brillano le arti e la letteratura. Che vantaggio ne ha tratto la religione? Domandiamolo a quella moltitudine di filosofi che si fanno un vanto di non averne affatto. Le nostre biblioteche rigurgitano di libri di teologia, i casisti formicolano tra noi. Un tempo avevamo dei santi, non dei casisti. La scienza si estende e la fede svanisce. Tutti vogliono insegnarci ad agire bene e nessuno lo vuole imparare. Siamo diventati tutti dottori e abbiamo cessato di essere cristiani (III, 48).

Si può davvero accettare la tesi che il sentimento religioso abbia « una incidenza assai poco rilevante » nella prima fase della ricerca teorica di Rousseau?

(Gerratana,

54).

4. Dopo un periodo di laceranti incertezze, Ja posizione di Rousseau, nel 1752-1753, è ben lontana da quella dei philosophes ed è anche in contraddizione con le convinzioni e con la politica culturale degli autori dell’Encyclopédie. Nella parte finale del primo Discorso Rousseau aveva fatto alcune importanti concessioni a quella politica: aveva auspicato una armoniosa collaborazione, in vista della felicità del genere umano, fra la virtù, la scienza e l’autorità; aveva invitato i sovrani a offrire mezzi e asilo ai pochi sa-

xx

INTRODUZIONE

pienti cui spetta di innalzare monumenti alla gloria dello spirito umano, in modo che la potenza non fosse solo da una parte e la dottrina solo dall’altra

(p.

17;

III,

30).

Come

avrei potuto

affermare



scriveva

nella

ri-

sposta a Stanislao — che « la scienza e la virtù sono incompatibili nell'uomo singolo? ». Proprio io che ho esortato i principi a chiamare alle loro corti i veri sapienti « affinché si veda finalmente che cosa possano la scienza e la virtù riunite per la felicità del genere umano? » (III, 39).

Ma si trattava davvero di « concessioni ». Alle convinzioni e alla politica culturale dei philosopbes Rousseau aveva in realtà contrapposto una radicale confutazione del nascente mondo moderno. Essa recava mescolati dentro di sé, paradossalmente, elementi attinti alla tradizione calvinista, alle analisi di Pascal, alla idealizzazione delle virtù eroiche degli antichi e dei ginevrini e motivi di critica e di rifiuto che conducevano Rousseau su posizioni politiche molto più radicali di quelle di Voltaire e di Diderot. - AI mondo

la menzogna,

corrotto della società moderna,

dal desiderio

di sopraffazione,

tenuto insieme dalla vanità, dal-

Rousseau

aveva

contrapposto

« la guida interiore, ben più infallibile di tutti i libri, che non ci abbandona

mai nel bisogno » (III, 42). Al sapere corrotto, espressione di una società malata, aveva posto come alternativa una « dolce e preziosa ignoranza, tesoro di un'anima pura e contenta di sé », un'anima « che pone tutta la sua felicità nel ripiegarsi su se stessa, nel rendersi testimone della propria innocenza, senza bisogno di cercare una falsa e vana felicità nell’opinione degli altri » (III, 54). Questo rifiuto della corruzione del mondo e questo appello ai valori dell’interiorità non suonavano affatto « paradossali », così come non appariva necessariamente paradossale la risposta negativa data da Rousseau alla domanda che sta alla base del primo Discorso. « Ovunque il gusto di una certa austerità si alleava a una certa cultura biblica — ha scritto R. A. Leigh — si era pronti ad ascoltarlo. Per alcuni fra i suoi lettori... Rousseau non aveva fatto che riproporre la celebre questione evangelica: a che serve guadagnare l’universo e perdere la propria anima? » (CC. II, xxx). Ma Rousseau non si era limitato a contrapporre l'innocenza dell’anima alla corruzione del mondo. Era giunto ad affermazioni di un radicalismo politico che non poteva

ed

amici:

non

apparire

sconvolgente

ai suoi avversari

Mentre il governo e le leggi provvedono alla sicurezza e al be-

nessere degli uomini consociati, le scienze, le lettere e le arti, me-

no dispotiche e forse più potenti, stendono ghirlande di fiori sulle catene di ferro ond’essi sono carichi, soffocano in loro il sentimento di quella libertà originaria per la quale sembravano nati, fan loro amare la loro schiavitù e ne fotmano i cosiddetti « popoli civili ». Il bisogno inalzò i troni: le scienze e le arti li hanno rafforzati... regna nei nostri costumi una vile e ingannevole uniformità e tutti gli spiriti sembrano ‘èssere stati fusi in uno stesso stampo... Non si osa più apparire ciò che si è; e, in questa costrizione continua, gli uomini, che formano quel gregge che si chiama società, posti nelle stesse circostanze, faranno tutti le stesse cose (pp. 4, 5; III, 6-7, 8).

INTRODUZIONE

XXI

La condanna del sapere prometeico e intellettualistico, i discorsi sulle ricchezze che generano nuove ricchezze e sull’impossibilità, per chi non pos: siede nulla, di uscire dalla propria miseria, la protesta contro un mondo nel quale i furfanti sono onorati: tutto ciò appartiene al tradizionale repertorio dei moralisti di ogni tempo. Rousseau ne è ben consapevole e lo afferma esplicitamente nella Prefazione al Narciso: « je sais que les déclamateurs ont dit cent fois tout cela ». La differenza è che essi si limitavano a declamare e Rousseau ritiene di aver individuato delle raisons: loro hanno visto il male, e io ne scopro le cause; e soprattutto faccio vedere una cosa molto consolante e molto utile mostran-

do che tutti questi vizi appartengono non tanto all’uomo, quanto all'uomo

È

questo,

com'è

mal governato (p. 27;

noto,

un

punto

II, 969).

essenziale.

Come

ha

chiarito

Cassirer,

nel momento stesso in cui Rousseau riconosce il ferorzeno dal quale Pascal eta partito, si rifiuta di accettare il criterio di spiegazione adottato dalla mistica e dalla metafisica religiosa di Pascal, L'uomo è buono per natura e non c'è né dentro di lui, né alle sue spalle un peccato originale che spieghi il suo pervertimento e la sua attuale corruzione. La colpa non è originaria, appartiene al mondo dell’al di qua e il problema del male si sposta dal campo della teodicea a quello della politica. Rousseau « ha creato un nuovo soggetto della responsabilità e dell’imputabilità e questo soggetto non è l’uomo singolo, ma la società umana » (Cassirer, 58). Nelle pagine della risposta a re Stanislao (III, 49-50) si è cercata la documentazione del « passaggio » dal primo al secondo Discorso. Il testo al quale si sono riferiti a questo proposito Alatri e Gerratana («la prima fonte del male è l’ineguaglianza; dall’ineguaglianza sono venute le ricchezze... », Scritti politici, 28; Gerratana,

33), inserito nel contesto della lettera,

perde in realtà molta della sua forza. Rousseau intende rispondere a Stanislao che gli obietta che lusso e mollezza sono nati, in ogni tempo, non

dalle scienze, ma dal seno della ricchezza. Non ho mai affermato, chiarisce Rousseau, che il lusso sia nato dalle scienze, ma che essi sono nati insie-

me e che l’uno non sta senza le altre. Si tratta di costruire una « genealogia »: l’ineguaglianza ha prodotto le ricchezze, queste ultime hanno generato

il lusso e l'ozio;

dal lusso

sono

derivate

le arti e dall'ozio

le scienze.

Proprio il fatto che le ricchezze non siano mai state appannaggio dei dotti costituisce il male più grande perché i ricchi e i dotti non servono che a corrompersi reciprocamente: « se i ricchi fossero più dotti o i dotti più ricchi, gli uni sarebbero adulatori meno servili, gli altri amerebbero di meno la bassa adulazione... corne si può constatare nel piccolo numero di coloro che hanno la fortuna di essere insieme ricchi e dotti » (III, 50).

Per documentare il passaggio di Rousseau ai grandi temi del Discorso sulla disuguaglianza, converrà volgersi invece alle pagine della Derniòre réponse dell’aprile 1752 che si richiamano a un tema centrale e che hanno un tono assai meno ambiguo: Si sostiene che i primi uomini furono malvagi, donde segue che l’uomo è malvagio per natura, ... ma prima che fossero state in-

XXI

INTRODUZIONE ventate queste orribili parole tuo e 7750, prima che esistesse que-

sta specie d'uomini crudeli e brutali che vengono chiamati padroni e quest'altra specie di uomini furfanti e mentitori che vengono detti schiavi, prima che ci fossero uomini così abominevoli da osare di avere il superfluo mentre altri uomini muoiono di fame, prima che una reciproca dipendenza li avesse tutti costretti a diventare furbi, invidiosi e traditori, vorrei che mi venisse

spiegato

in che cosa

potevano

consistere

quei

delitti che vengono loro rimproverati con tanta enfasi.

vizi e quei

Anche la considerazione finale, quasi mai ricordata nelle citazioni, è molto significativa e importante: Mi assicurano che da molto tempo non ci si fanno più illusioni intorno alla chimera dell'Età dell'Oro. Perché non aggiungere anche che da molto tempo non ci si fanno più illusioni intorno alla chimera della virtà? (III, 80). suo

Con eccezionale lucidità, Rousseau riassumeva il senso dello sviluppo del pensiero

nella Lettre

è Christophe

de

Beaumont

(1762):

Appena fui in grado di osservare gli uomini, li guardai agire e li

ascoltai parlare; poi, vedendo che le loro azioni non assomigliavano in nulla ai loro discorsi, cercai la ragione di questa dissomiglianza e mi resi conto che essere e parere essendo per essi cose tanto differenti quanto agire e parlare, questa seconda differenza era la causa dell'altra e aveva essa medesima una causa che mi restava

da cercare.

La

trovai

nel

nostro

ordine

sociale

il quale,

del tutto contrario alla natura che niente può distruggere, la tiranneggia senza posa e le fa senza posa rivendicare i suoi diritti. Seguii questa contraddizione nelle sue conseguenze e vidi che essa spiegava da sola tutti i vizi degli uomini e tutti i mali della società. Donde conclusi che non era necessario supporre l’uomo per sua natura malvagio, dato che era possibile determinare l’origine e il progresso della sua malvagità (IV, 966-67). Quando rievocherà, nell'ottavo libro delle Confessioni, la crisi del 1749 e la nascita del primo Discorso, Rousseau parlerà di « entusiasmo per la verità, la libertà,

la virtù » di una

« effervescenza » che

si mantenne

nel

suo

cuore « per quattro o cinque anni, a un livello così alto, come non era mai

accaduto nel cuore di un altro uomo » (p. 946; I, 351). Nel secondo Dialogo tornerà a parlare di una effervescence da cui sortirono quelle « scintille di genio che si sono viste brillare nei suoi scritti durante dieci anni di de-

lirio e di febbre »: v Cullato dalla ridicola speranza di far finalmente trionfare la ragione e la verità sui pregiudizi e sulla menzogna, e di rendere gli uomini saggi additando il loro vero interesse, il suo cuore — infiammato dall’idea della felicità futura del genere umano e dall'onore di contribuirvi — gli dettava un linguaggio degno di sì grande impresa (p. 1222; I, 829).

INTRODUZIONE

XXIII

Che rapporto c'è fra quell’entusiaszo e quella ridicola speranza? Si tratta solo di un giudizio negativo maturato negli anni della vecchiaia e determinato dalla solitudine e da un senso di tragica impotenza di fronte al mondo? Chi ama contrapporre in modo netto il primo Rousseau illuminista storicista e dialettico

al tardo

Rousseau

deluso,

intimista

e nevrotico,

ha

ovvia-

mente una risposta pronta a questo tipo di domande. E tuttavia ritornando ai testi è facile rendersi conto che già negli anni in cui venivano composti i due Discorsi, quell’entusiasmo era senza illusioni e che dietro il senso di una grande impresa e la forza di quel linguaggio non poche speranze erano già qualificate vane. L’ineguaglianza, la scissione fra essere e parere, la vile uniformità degli spiriti, la menzogna, la sopraffazione e la corruzione, l'abbandono delle grandi

virtù guerriere ed eroiche e della primitiva semplicità, gli errori e le miserie del genere umano non appartengono alla nafura dell’uomo. Sono stati provocati dall'uomo, dalla « politica », dal « governo » che egli si è dato. E tuttavia quelle degenerazioni della sua originaria natura buona sono così radicate, hanno così profondamente inciso nel destino dei singoli e in quello dei popoli da apparire a Rousseau irrimediabilmente connesse a tale destino e senza possibile rimedio. Nei testi scritti in difesa del primo Discorso questa tesi ritorna con insistenza ed è più volte ribadita: non si è mai dato che un popolo, una volta corrotto, ritorni alla virtù, ed è vana impresa cercare di distruggere le cause del male, di eliminare gli incentivi della vanità, dell’ozio, del vizio, tentare di ricondurre gli uomini alla « primitiva uguaglianza custode dell'innocenza e fonte di ogni virtù ». Una volta guastati, i cuori degli uomini « lo saranno per sempre » (III, 56). Il « chimerico piacere » di sperare la riforma degli uomini (III,

104),

il

« chimerico progetto » di farne delle persone oneste (III, 95): su questo Rousseau dichiara di non essersi mai fatto illusioni. Non è possibile ricondurre gli uomini a contentarsi del semplice necessario (III, 95), né gli uomini saranno meno avidi di gloria e di denaro una volta convinti che essi « sono malvagi

a causa dell’una e corrotti a causa dell’altro »; si limiteranno

a considerare stravagante il disdegno per questi oggetti della loro ammirazione e delle loro fatiche (III,

105). Ai « popoli malati » non

resta che ap-

plicare quel tipo di cura che il medico applica ai malati incurabili: somministrazione di palliativi e rimedi più proporzionati al temperamento del malato che alla malattia (III, 56). Chi si è rovinato la salute con accorto dei farmaci, è costretto a ricorrere alle cure dei medici:

l’uso poco allo stesso

modo « le stesse cose che hanno corrotto i popoli servono talota a prevenire una corruzione ancora più grande » (II, 972). Per questo Rousseau ritiene inutile e dannoso bandire e distruggere accademie, collegi, biblioteche, spettacoli, sconvolgere

la società attuale e bandire

le scienze e le arti (III, 95;

II, 972): queste istituzioni servono ad addolcire quella ferocia degli uomini che esse stesse hanno cotrotto; costituiscono un diversivo a più vio-

lente passioni

dire che ai veleni cupare il malvagio

e alla malvagità

umana

(III,

56;

II, 972);

servono

a impe-

i vizi diventino delitti e a ricoprirli di una vernice che impedisce di esalare liberamente; distolgono gli uomini dalla tentazione di ocloro tempo in attività più pericolose (II, 972). Poiché «i lumi del » sono da temere meno della sua brutale stupidità e rendono gli

XXIV

INTRODUZIONE

uomini cauti nel fare il male dando loro la consapevolezza del male che potrebbero riceverne in cambio, poiché « è meglio vivere in mezzo a bticconi che in mezzo a briganti », è necessario « offrire qualche alimento a queste tigri affinché esse non divorino i nostri figli » (III, 56;

uomini sono corrotti — scriverà a M. de Scheyb meglio che siano sapienti che ignoranti; quando che la scienza li cotrompa » (CC. IV, 27). Una rotto — e la corruzione è senza rimedio — non le scienze « per renderlo migliore o impedirgli di

II, 973). Quando

gli

il 15 luglio del '56 — «è sono buoni c'è da temere volta che un popolo è corha senso bandire le arti e peggiorare » (II, 971):

Non si è mai visto un popolo, una volta corrotto, ritornare alla virtù; invano cerchereste di distruggere le cause del male... invano vi sforzereste perfino di ricondurre gli uomini alla primitiva uguaglianza... i loro cuori, una volta guastati, lo saranno per sempre (III, 56).

Un popolo vizioso non ritorna mai alla virtù. Non si tratta di rendere buoni coloro che non lo sono più, ma di conservare tali coloro che hanno la fortuna di esserlo (II, 972).

È difficile, di fronte a questi testi composti fra il 1750 e il 1755, togliere valore — interpretandola come manifestazione di senile misticismo — alla tarda testimonianza del terzo Dialogo: La natura umana non regredisce, e mai più si risale verso i tempi

dell’innocenza e dell’eguaglianza una volta che ci si sia allontanati da esse: ecco ancora uno dei principi sui quali egli ha più insistito. Il suo scopo non poteva essere quindi quello di ricondurre i popoli numerosi o i grandi Stati alla loro primitiva semplicità, ma

soltanto di fermare,

se fosse possibile, il progres-

so di quelli la cui piccolezza o le cui particolari situazioni hanno preservato da un cammino così rapido verso la perfezione della società e verso il deterioramento della specie. Queste distinzioni meritavano d’essere fatte, ma non sono state fatte. Ci si è ostinati

ad accusarlo di voler distruggere le scienze, le arti, i teatri, le accademie, di voler far ripiombare l'universo nella primitiva barbarie, mentre

egli ha

sempre

insistito, al contrario,

sulla neces-

sità di conservare le istituzioni esistenti, sostenendo che la loro distruzione non farebbe che eliminare dei palliativi, lasciando intatti i vizi, e sostituendo il brigantaggio alla corruzione. Aveva lavorato per la sua patria e per i piccoli Stati costituiti come essa (p. 1284;

I, 935).

Non a caso, all’epoca della polemica sull’introduzione degli spettacoli a Ginevra, d’Alembert gli aveva rimproverato proprio questa tesi: Gli spettacoli, secondo

voi, sono necessari per una città corrotta

come quella nella quale avete a lungo abitato e le vostre comme-

die sono state composte per i suoi abitanti perversi, non certo per la vostra patria. Vale a dire, signore, ci avete trattato come

vv

INTRODUZIONE

quegli animali morenti ai quali si dà il colpo di grazia nel timore di vederli soffrire più a lungo. Nella prefazione della seconda lettera a Bordes, Rousseau aveva presentato i risultati della sua meditazione come un triste et grand système, frutto di un sincero esame della natura dell’uomo, delle sue facoltà e del suo de-

stino. Il Discorso sulle scienze e le arti, chiariva, era in realtà solo un « co-

rollario » di quel système vrai mais affligeant che non era stato svolto in tutta la sua estensione fin dall'inizio e che tuttavia aveva già suscitato tante

mormorazioni

e provocato

umana

la

tanto scandalo (III,

105-6). Nella Lestre è Philo-

polis, scritta nel 1755, Rousseau si richiamava al Discorso sulla disuguaglianza e riprendeva la difesa del système: la società è naturale alla specie come

decrepitudine

ai popoli, così come

all’individuo;

arti,

leggi,

occorrono le stampelle ai vegliardi.

governi

occorrono

Non dimenticate, vi prego, che secondo me la società è naturale alla specie umana come la decrepitudine all’individuo, e che occorrono

arti,

leggi,

governi

ai popoli,

così

come

occorrono

le

stampelle ai vegliardi. Tutta la differenza è che lo stato di vec chiaia deriva dalla sola natura dell'uomo e che quello della so cietà deriva dalla natura del genere umano: non immediatamente,

come voi dite, ma solo con l'aiuto di talune circostanze esteriori che possono esserci o non esserci, o almeno arrivare più presto o

più tardi e di conseguenza accelerare o rallentare il progresso. Molte di queste stesse circostanze dipendono dalla volontà degli uomini e sono stato costretto, per stabilire una perfetta equiva. lenza, a supporre nell’individuo il potere di accelerare il suo invecchiamento, così come la specie ha il potere di ritardare il suo. Poiché lo stato di società ha dunque un termine estremo al quale gli uomini sono padroni di arrivare più presto o più tardi, non è inutile mostrar loro il pericolo di procedere così in fretta, e le miserie di una condizione che essi scambiano per la perfezione della specie (III, 232).

5.

Determinare l'origine e il progresso della « malvagità umana »; stabi.

lite la « contrarietà » dell'ordine

sociale

alla natura

(IV,

967);

mostrare

il

guasto irrimediabile che si è prodotto nell'uomo e le cause e le origini pro.

fonde della sua « malattia » (III, 56); cercare di rallentare, lì ove questo è possibile, il rapido cammino verso la corruzione e il decadimento (I, 935);

mostrare i pericoli connessi a un cammino così rapido; svelare nella disu guaglianza la causa profonda della radicale mistificazione dei rapporti e della totale falsificazione di sé che si verifica nella società contemporanea: questi intenti e questi motivi sono tutti presenti e fortemente operanti nel Discorso sulla disuguaglianza. Ma il tema centrale diventa ora quello della storia. L'indagine si sposta ai modi e alle cause del costituirsi della società, della lenta uscita del genere umano dallo stato di natura. Confluiscono nell'opera non solo le meditazioni su Grozio e su Pufendorf, ma le riflessioni su Locke e su Mandeville, su

XXVI

INTRODUZIONE

Machiavelli e su Montesquieu, la larga utilizzazione dei testi di Buffon, delle pagine di scienziati e di viaggiatori. Le fasi di questo processo e i ritmi se condo i quali esso si scandisce; il ricorso all'ipotesi di un'assenza di rapporti sociali affinché di questo stato di natura (« che non esiste più, che forse

non è mai esistito e probabilmente non esistetà mai ») ci si possa servire come di un termine di confronto per l’analisi della società civile; il ricorso a

cause di natura fisica e biologica; le analisi comparative fra il « buon selvag gio » e l’uomo civile; il rilievo del dinamismo dei rapporti sociali che, una volta instaurati, si distaccano dalle occasioni che li hanno generati e si muovono su un piano di « autonomia » rispetto alla natura; il rilievo del carattere conflittuale della società e del suo carattere non-naturale; il rilievo del carattere artificiale (di produzione umana) che è proprio della vita so ciale, del linguaggio, della morale, della ragione; l’assenza di dimensioni ra zionali e morali nel mondo dei primitivi ove il rapporto con la natura si configura come ricambio immediato; il ritratto dei primi uomini come « né buoni né cattivi », privi di relazioni, e quindi « persone » solo in potenza; la identificazione dello stato felice del genere umano con le forme di so: cietà patriarcale intermedie fra l'innocenza dei primi uomini e la corruzione della società moderna; la determinazione del peccato d’origine della società nell’istinto di cupidigia e di rapina dal quale nasce la proprietà privata; l’analisi della nascita della divisione del lavoro, dell'agricoltura e dell’industria che scindono

la società

in padroni

e schiavi:

questi,

che

sono

i temi

fon-

che Rousseau

muove

al giusnaturalismo,

damentali del secondo Discorso, sono stati più volte illustrati e minutamente analizzati. E i contributi migliori, e più aggiornati, hanno messo bene in luce il carattere

radicale

della critica

il

suo deciso rifiuto di accettare l'ipotesi del carattere « naturale » della società, la sua opera di demistificazione delle tesi giusnaturalistiche. Queste ultime « cominciano a ricercare le regole sulle quali, per l’utilità comune, sarebbe opportuno che gli uomini convenissero e poi danno il nome di legge naturale alla collezione

di tali regole » (p. 40;

III,

125).

I giusnaturalisti



come

si dirà poi nel Contratto sociale — stabiliscono dunque un diritto sul fatto, secondo un metodo oltremodo favorevole ai tiranni, e legalizzano l’inganno con cui gli sfruttatori hanno sottoposto alla loro volontà gli sfruttati (p. 280; III, 535). Da questi studi risulta anche quanto sia profonda la vicinanza di Rousseau con il « sofista » Hobbes: nel momento stesso in cui rifiuta l’ipotesi hobbesiana di una natura malvagia dell'uomo e la conseguente naturalità dei conflitti sociali, Rousseau è vicino a Hobbes nel rilievo del carattere « ar-

tificiale » della società e nella convinzione che è impossibile, per la ragione, mediare i conflitti derivanti dagli interessi e dalle passioni. Di fronte a questi terni e di fronte a questo testo è certo giusto insistere (come fa il Colletti) sulla contrapposizione con il giusnaturalismo e sulla differenza profonda che intercorre fra l’immagine giusnaturalistico-liberale della società come #ezzo che è in grado di consolidare, mediante un ordine formale esterno, le eterne prerogative dell'uomo naturale isolato e la società roussoiana intesa come fine, come

associazione reale, come

condizione

per il

realizzarsi dell'uomo e della persona, una società nella quale la libertà si realizza non escludendo gli altri, ma implicandoli positivamente. E tuttavia non è agevole accettare l’immagine che ci viene proposta da questo tipo di

INTRODUZIONE

XXVII

interpretazioni: quella tutta progressiva e positiva di un Rousseau « che cerca proprio nella storia una soluzione ai problemi dell'uomo » (« De Homine », 1968,

135).

Questa difficoltà deriva principalmente dal fatto che i temi relativi alla impossibilità di un ritorno alla virtù, alla « malattia » derivante dal costituirsi in società, al « guasto irrimediabile » che si è prodotto nell'uomo sono ben vivi e operanti non solo nei testi ai quali ci si è ampiamente richiamati nelle pagine precedenti, ma anche nel testo del secondo Discorso. Esso si chiude, è opportuno non dimenticarlo, con la delineazione di un feroce stato di natura, non più innocente, ma frutto di corruzione, con il quadro di una nuova barbarie nella quale « svaniscono di nuovo la nozione di bene e i principi della giustizia » (p. 75; III, 191) e che non offre indicazione alcuna alla possibilità di un riscatto dell’uomo nella storia. La società « civile » nella quale l’uomo vive fuori di sé, derivando dall’altrui giudizio il sentimento della propria esistenza, dove tutto si riduce all’apparenza e diviene simulato e fittizio, quella società nella quale non si osa mai interrogare se stessi e si fa ricorso agli altri per sapere chi siamo, non rispecchia l’essenza dell’uomo né coincide con la sua originaria natura. È frutto di un cambiamento profondo che ne ha investito le « inclinazioni naturali ». Fine specifico del Discorso sulla disuguaglianza è quello di mostrate per quali « vie dimenticate e perdute » una tale alterazione si sia prodotta nel genere umano. Disuguaglianza e « spirito della società » sono le cause di questa profonda e non più revocabile alterazione. E la disuguaglianza, prima di venire definitivamente codificata e diventare stabile e legittima mediante la introduzione della proprietà e delle leggi, « trae la sua forza e il suo accrescimento dallo sviluppo delle nostre facoltà e dai progressi dello spirito umano » (p. 76; III, 193). Se è vero che « non

senza fatica » l’uomo è riuscito a rendersi così infelice,

se è vero che egli « non ha altri mali se non quelli stessi che si è procurato », la sua illimitata perfettibilità -— che è ciò che lo distingue dagli animali e lo conduce a forza di tempo fuori dalla sua naturale innocenza — è

anche all’origine di tutte le sue sventure, fa sbocciare insieme i suoi vizi e le sue virtù, lo trasforma infine in un essere « tiranno di se stesso e della

natura », che tende «a distruggere tutto fino a diventare l’unico padrone dell'universo », in un essere «che ha aperto nuove strade al dolore e alla morte », E non per caso « la conoscenza della morte e dei suoi terrori » è uno dei primi acquisti dell’allontanamento dell’uomo dalla sua animalità. Il progresso,

l'accrescimento,

la perfettibilità,

la conoscenza,

la trasforma-

zione dell'animale e del primitivo « bestione » nell'uomo non sono la celebrazione della ragione, né si svolgono sotto il segno della positività: sono un inestricabile intreccio di positivo e di negativo, di verità e di errore, di virtà e di vizio. Ogni conquista si configura anche come una sconfitta e come un tradimento dell'essenza profonda e naturale dell'uomo. Per rendersi conto della posizione di Rousseau non importa citare ancora una volta il passo, tante volte ricordato, sullo « stato di riflessione » che è « contro natura » e sull'uomo che medita come « animale depravato ». Il passaggio dall'innocenza alla colpa, dalla tranquillità all’affanno insensato, dalla pace alla guerra, dalla bontà all’aggressività non coinvolge solo le strutture e l’organizzazione della società, ma l'intero processo della storia e del tempo, i modi e le guise

XXVIII

INTRODUZIONE

in cui si è iniziata ed è stata condotra avanti l'avventura della ché l’uomo è naturalmente buono e gli uomini sono malvagi, lo rato e trasformato per sempre «i cambiamenti avvenuti nella zione, i progressi che ha fatto, la conoscenza che ha acquistato » 48,

82,

46;

III, 202,

142,

203,

138).

Davvero



come

civiltà. Poihanno altesua costitu(cfr. pp. 81,

ha scritto Staro-

binski — la storia è per Rousseau essenzialmente degradazione e Rousseau è nella sua epoca «il testimone più importante della scoperta della storia e della temporalità non attraverso una teoria del progresso, ma attraverso la inorridita coscienza del pericolo e della simultanea fecondità dell’esistenza temporale » (III, Lxvii-Lx1x). In questo senso sembrano da accettare pienamente, anche se in un’accezione del tutto opposta a quella in cui sono state accettate da Colletti, le conclusioni (non divergenti da quelle di Starobinski) alle quali è ora pervenuto Lionel Gossmann: alienazione e disumanizzazione sono per Rousseau la inevitabile conseguenza di una « dialettica

storica »; solo nel mondo storico l’uomo può realizzare se stesso e farsi uomo e tuttavia quel mondo è anche distruttivo dei valori e della felicità, appare una realtà che non può essere accettata e che va rifiutata. Per questo non ha senso alcuno la volontà di un ritorno all’indietro nel tempo e per questo Rousseau non è un primitivista. Fuori della storia, non c'è umanità e non c'è salvezza e tuttavia, nella storia, né la salvezza né l’umanità possono essere trovate. Il tempo si configura come « l’assoluto nemico », rende impossibile che armonia e felicità vengano preservate (Studies, XXX, 312, 343-44).

Nel Discorso sulla disuguaglianza Rousseau aveva energicamente negato che si potesse parlare di « stato miserabile » in relazione all'uomo di natura (« vorrei che mi si spiegasse quale può essere il genere di miseria di un essere libero, che ha il cuore in pace e il corpo

sano... »). Nel Manoscritto

di

Ginevra parla invece esplicitamente di una « miseria permanente » dell’uo-

mo di natura, di una sua « felicità che consisteva nel non conoscere la sua miseria » (III, 282-83). Qui, come non mai, Rousseau è lontanissimo da

ogni idoleggiamento del primitivismo e insiste sull’impossibilità per l’uomo di natura

di fondare la sua identità personale,

sulla sua impossibilità di co-

municare con gli altri, sul suo isolamento, sulla inesistenza e della bontà del suo cuore e della moralità delle sue azioni (« vivremmo senza sentire nulla e moriremmo senza aver vissuto »): Così la dolce voce della natura non

è più per noi una guida in-

fallibile, né l'indipendenza che da essa abbiamo ricevuto uno stato desiderabile. Pace e innocenza ci sono sfuggite per sempre, prima che ne avessimo gustato le delizie. Non avvertita dagli stupidi uomini dei primi tempi, sfuggita agli uomini illuminati dei tempi posteriori, la felice vita dell'età dell'oro fu sempre una condizione straniera alla razza umana: o per averla essa misconosciuta quando poteva goderne, o per averla perduta quando avrebbe po tuto conoscerla (III, 283).

Il ritorno alla putezza, alla tranquillità, alla semplicità, all’innocenza, alla fruizione immediata della natura non è una meta che l’umanità possa in

INTRODUZIONE

XIX

qualche modo conseguire. I cambiamenti avvenuti nella costituzione dell’uomo, la cultura, la società, la perfettibilità, il progresso hanno provocato la degenerazione, hanno preso il posto di un « peccato originale » del quale non ha più senso parlare una volta che si sia riconosciuta l’essenza « buona » dell’uomo naturale. Il Contratto sociale e l'Emilio, composti negli stessi anni, nascono



come

un

progetto

unitario

e come

aspetti

saldamente

con-

giunti di un'unica impresa — dalla lucida consapevolezza di questa situazione. Il Contratto riguarda la formazione pubblica dell’uomo nello stato democratico, l’Erzilio il programma di una « educazione domestica » nelle monatchie. Nella generale sconfitta sembra possibile tentare di salvare il singolo individuo dalla corruzione della società, tentare di salvare la stessa società presso quei popoli « rustici » e quei piccoli stati nei quali il processo verso la perdizione non è troppo avanzato (B. de Jouvenel, Essai sur la politigque de R., Genève, 1947, 84).

Dall’« arte perfezionata » potrà allora nascere «la mali che l’arte iniziata ha provocato nella natura »:

riparazione

di quei

Nonostante che non vi sia alcuna società naturale e generale fra gli uomini, nonostante che essi divengano infelici e malvagi diventando esseri sociali, nonostante che le leggi della giustizia e dell'uguaglianza non siano nulla per coloro che vivono insieme nella libertà dello stato di natura e nella sottomissione ai bisogni dello stato sociale, lungi dal pensare che non esistano per noi, né felicità né virtù e che il cielo ci abbia abbandonato senza risorse alla depravazione della specie, sforziamoci di ricavare dal male medesimo il rimedio che deve guarirlo (III, 288). Le sione ranza librio

ben

pagine del Manoscritto di Ginevra, poi eliminate dalla del Contratto, danno espressione al momento più alto di Rousseau nella costruzione, tutta artificiale, di un che trasformi « il brigante feroce nel sostegno più saldo

ordinata » (III,

289).

Trarranno

vita,

da

questa

definitiva verdi questa spepossibile equidi una società

speranza,

alcuni

dei

grandi temi del Contratto e dell'Erzilio: la sovranità dello stato fondata sul consenso delle libere volontà, la eguaglianza fondata sulla alienazione alla comunità,

la fondazione dello stato come

corpo morale

collettivo, la volontà

generale come superamento degli interessi di parte e come emergente dalla

considerazione

razionale e imparziale del bene comune,

la libertà come

con-

sapevole accettazione della legge, la repubblica come unica forma legittima

di governo;

e, accanto,

la conquista

dell'autonomia

morale

e la liberazione

dagli idola della tradizione e della società, il progresso verso un rovesciamento del rapporto sensi-intelletto, la polemica contro gli schemi artificiali di formazione dell’uomo. Ma si avrebbe torto a insistere eccessivamente su certe affermazioni in vista di una rappresentazione della filosofia di Rousseau come « umanesimo ». Rousseau continuerà ad accentuare variamente i temi del moralismo più rigido, della comunione con la natura, del radicalismo politico, del pessimismo evoluzionistico. Appena cinque anni dopo la pubblicazione del Contratto, posto di fronte all'ottimismo dei fisiocratici, reagiva rifiutando ogni si-

XXX

INTRODUZIONE

stema che pretenda che la ragione umana vada sempre perfezionandosi, dato che ogni secolo aggiunge i suoi lumi a quelli dei secoli precedenti: Costui non vede che l’intelletto umano ha sempre una stessa misura e che essa è strettissima, che esso perde da un lato quanto guadagna

dall'altro... Questo,

fra le mie vecchie idee, è il grande

problema in politica, che io paragono a quello della quadratura del cerchio in geometria e delle longitudini in astronomia: trovare una forma di governo che ponga la legge al di sopra degli uomini. Se questa forma può essere trovata, cerchiamola e tentiamo di stabilirla... Se sventuratamente non può essere trovata — e confesso candidamente che credo che non lo possa — il mio parere è che bisogna passare all’altro estremo... e stabilire il dispotismo più arbitrario possibile: vorrei che il despota potesse essere Dio. In una parola, non vedo una via di mezzo sopportabile tra la più austera democrazia e l'hobbesismo più perfetto, perché il conflitto degli uomini e delle leggi, che dà luogo nello Stato a una continua guerra intestina, è il peggiore di tutti gli stati po-

litici. Ma i Caligola, i Nerone, i Tiberio... Mio Dio... per terra e gemo di essere uomo (CG. XVII, 157).

mi

rotolo

Queste amare parole sono del 1767, ma più di quindici anni prima, nel '51, Rousseau aveva preso posizione contro le speranze dei philosophes « che pretendono di insegnare agli uomini l’arte di essere felici », contro la loro illusione che la liberazione dell'uoma potesse trarre origine dal progresso continuo della conoscenza, dall’allargarsi del dominio della ragione: I filosofi... predicano ai popoli una felicità chimerica che essi stessi non possiedono e della quale i popoli non acquistano mai né l’idea né il gusto... Il filosofo può dare all'universo alcune salutari istruzioni, ma le sue lezioni non correggeranno mai né i grandi che le disprezzano, né il popolo che non le intende affatto. Gli uomini non si governano mediante vedute astratte. Non li si rende felici che costringendoli a esserlo (II, 1263).

Ciò che davvero

non è civile: tazione sibilità

separa Rousseau

dai suoi provvisori e amati-odiati amici,

soltanto una critica più aspra e radicale delle strutture della società è un differente concetto della storia e del tempo, una differente valudel posto -.che l’uomo occupa nella natura, dei compiti e delle posdella philosophie e della raison.

6. Già nel 1742, molti anni prima della grande crisi sulla via di Vincennes, Rousseau aveva contrapposto, agli entusiasmi di Voltaire e del secolo dei lumi per le conquiste della tecnica, il suo spregiudicato ritratto di una società fondata sulla falsità e la inautenticità: Ero qualche tempo fa — scrive al Conzié — in un gruppo nel quale si trovava anche il signor Vaucanson. Si parlò molto del suo flautista automatico, con elogi che avrebbero dovuto renderlo contento, ammesso che l'amor proprio possa esserlo. Potete im-

INTRODUZIONE

XXXI

maginare che i begli spiriti che si trovavano là non gli rispatmiarono quel paragone con Prometeo di cui Voltaire lo ha con tanta pompa insignito. Per quanto mi concerne — dissi allora — la mia ammirazione

dev'essere tanto meno

sospetta in quanto

sono

abituato a spettacoli che oso definire ancora più meravigliosi. Tutti mi guardarono stupefatti. Provengo — aggiunsi — da un paese pieno di macchine assai ben costruite che sanno giocare il quadrifoglio e il faraone, giurano, bevono champagne e passano la giornata a spacciare menzogne ad altre macchine molto graziose che li contraccambiano. Tutti risero. E vi avrebbe divertito il fatto che due o tre macchine, gli altri (CC. I, 137).

che erano là, risero più di tutti

Si tratta di poco più che di un motto di spirito. L’ironia nei confronti di Voltaire — al quale Rousseau si rivolgerà di lì a quattro anni con rispetto

e con

venerazione,

come

a un

maestro



è appena

accennata.

Dietro

l’ar-

guzia salottiera si nascondono tuttavia atteggiamenti destinati ad avere nell'animo e nel pensiero di Rousseau risonanze molto profonde. Negli ambienti che egli frequenta, con in fondo al cuore la nostalgia per le « massime feroci » della sua infanzia, gli uomini sono ridotti ad automi, appaiono esseri artificiali nei quali non è più riconoscibile l'essenza umana. Le hardi Vaucanson, rival de Promethée semblait de la nature imitant les ressorts prendre le feu du ciel pour animer les corps.

L'ironia su questi versi di Voltaire (Moland, IX, 420) diventerà più tardi

in Rousseau

anche deciso rifiuto dei progressi delle tecniche e delle scienze,

si trasformerà nella radicale condanna di quell’atteggiamento dell'uomo « che non vuole nulla come l’ha fatto la natura », che « sconvolge tutto, altera tutto, ama le deformità e i mostri », che « costringe un terreno a nutrire i prodotti di un altro, un albero a portare i frutti di un altro, che mescola e con-

fonde i climi, gli elementi, le stagioni » (pp. 350-51; IV, 245). « Tutto ciò che è al di là della necessità fisica è fonte di male » (III, 95):

da questo as-

sioma Rousseau fa discendere la sua valutazione negativa del lavoro e delle tecniche. Solo l’accecamento di un folle otgoglio e la vana ammirazione di sé — è detto nel secondo Discorso — hanno spinto gli uomini ad approfondire le scienze, all'invenzione di tante arti, a colmare abissi, radere al suolo montagne, rendere navigabili i fiumi, colmare il mare di navi e di marinai (p. 81; III, 202). Le arti liberali e meccaniche, accanto al commercio e alle lettere, sono « inutilità » che fanno fiorire l’industria e arricchiscono e conducono alla rovina gli Stati (p. 84; III, 206). La grandezza degli antichi e le loro virtù sono legate al disprezzo per il commercio che i Romani disdegnavano e i Greci lasciavano esercitare solo agli stranieri, e al disdegno per le arti meccaniche che erano esercitate esclusivamente dagli schiavi (III, 517). Il passaggio da un’economia di pura sussistenza a un’economia produttiva viene presentato, in quel testo fondamentale, come l'elemento radicalmente negativo della storia umana, che ha segnato irrimediabilmente la specie e

XXXII

INTRODUZIONE

che è all'origine della sua infelicità e delle sue sventure. Quando gli uomini cessano di vivere di caccia e di pesca e dei frutti di piante non coltivate, quando le vaste foreste si trasformano in ridenti campagne e divengono necessari il lavoro e il sudore degli uomini, quando nacquero agricoltura e metallurgia, si verificò la grande rivoluzione che « ha civilizzato gli uomini e perduto il genere umano » (p. 64; III, 171). Prima di quella rivoluzione l'umanità aveva faticosamente raggiunto uno stadio di sviluppo — ancor oggi presente nel mondo presso i popoli « selvaggi» — nel quale gli uomini, riuniti in famiglie e nazioni, vivevano in una società patriarcale dedicandosi « a lavori che possono essere fatti da una sola persona e ad arti che non hanno bisogno della collaborazione di parecchie mani ». Nonostante la severità delle punizioni e il terrore delle vendette che sostituivano allora il freno della legge, gli uomini vivevano allora « liberi, buoni, sani e felici » godendo tra loro la dolcezza di un « rapporto indipendente ». Fu « l'epoca più felice e più duratura della storia umana », la « migliore per l’uomo », la « vera giovinezza del mondo ». Lo sviluppo allora raggiunto dalle facoltà umane rappresentava « il giusto mezzo tra l’indolenza dello stato primitivo e la frenetica attività del nostro amor proprio ». Tutti i « progressi » che si sono in seguito verificati sono, rispetto a quell'età della storia, soltanto illusioni, passi compiuti verso la decrepitudine (pp. 63-64; III, 169-73). L'uomo dei primi tempi della storia umana è « autosufficiente e soggetto a poche

passioni », sano,

sviluppo

economico,

robusto,

privo di aggressività.

Ma

è un

essere

li-

mitato e stupido, asociale e privo di moralità (pp. 98, 287; III, 160, 292, 364). L'uomo civile è intelligente e moralmente responsabile, ma profondamente corrotto e infelice, malvagio, affannato dietro beni illusori, incapace di rapporti autentici con i suoi simili. Una difficile medietà fra questi due estremi egualmente indesiderabili costituisce per Rousseau il miglior stato possibile per l'uomo. Di fronte alla civiltà moderna, mentre rifiuta come fonte di male e come priva di senso e di direzione ogni forma di progresso e Rousseau

ripropone,

come

ideale di vita, una condizio-

ne il più possibile vicina alla « cultura » della felice età patriarcale: un modo di vita senza sprechi, senza consumi che vadano al di lì dello stretto necessario, ‘un'economia esclusivamente agricola che concepisce l’artigianato solo come un indispensabile sussidio all'agricoltura e rifiuta categoricamente l’industria. Su questo terreno nasce la idealizzazione dell’agricoltura come « la prima vocazione dell'uomo che richiama allo spirito un'idea piacevole e al cuore tutto il fascino

afferma lusso dà risposta serie né vole ha stri » e

dell’età dell’oro » (II, 603).

Se non

ci fosse il lusso

— si

nelle pagine della Dernière Réponse — non ci sarebbero poveri. Il occupazione a cittadini oziosi. E perché ci sono cittadini oziosi? La è facile: « quando l'agricoltura era in onore non esistevano‘ né miozio e vi erano molti meno vizi ». Là dove il gusto per le arti frifatto abbandonare quello per l'agricoltura «la terra nutre dei monon ha senso alcuno abbandonare le campagne per andare a frequen-

tare le scuole per il piacere dei professori (III, 79, 91, 64). L'attività prin-

cipale degli Svizzeri — scrive il 20 gennaio 1763 al Maresciallo di Lussemburgo — è la pastorizia ed è essa che « contiene e ritarda il progresso del lusso e dei cattivi costumi » (CG.

IX, 8). E ancora:

x

l’agricoltura è, per sua

INTRODUZIONE

XXXII

natura, la meno lucrosa di tutte le arti perché « essendo il suo prodotto d’uso indispensabile per tutti gli uomini, il prezzo deve essere proporzionato alla capacità d’acquisto dei più poveri». Da questo principio Rousseau fa discendere, nel secondo Discorso, la regola secondo la quale le arti « sono lucrose in ragione inversa della loro utilità e le più necessarie devono infine diventare le più trascurate ». In base a questa regola vanno giudicati gli illusori vantaggi e i falsi progressi apportati dall’industria e stabilita la ragione « molto semplice » della rovina degli Stati e la « causa tangibile » della loro attuale miseria (p. 84; III, 206). . Come avviene per l'educazione di Emilio, Rousseau tende a isolare, da un mondo irrimediabilmente corrotto e destinato a una tragica fine, i popoli e le nazioni dei quali considera le istituzioni politiche: i Vallesi nelle loro montagne, i Corsi nella loro isola, i Polacchi nella loro pianura (J. Fabre, in Awnales, XXXV,

213).

Il commercio



compreso

quello delle derrate

agricole

intermedio » (III,

921-22)

— gli appare « distruttivo per l'agricoltura ». Dev'essere comunque limitato agli scambi strettamente indispensabili, che si possono fare in natura « come baratto

di merci,

senza

nessun

valore monetario

e che si effettuano attraverso nuclei comunitari autarchici e volontariamente isolati dal resto del mondo.

È importante,

dice rivolgendosi

ai Polacchi,

ac-

crescere la produzione del suolo e il numero dei consumatori « occupandosi poco dell'estero e non dandosi troppo da fare nel commercio... Coltivate bene i vostri campi

senza curarvi del resto! » (III,

1005,

1009).

La tesi espressa

con tanto vigore nei Frammenti politici non è che il paradossale ma logico corollario di queste tesi roussoiane e delle affermazioni contenute nel secondo Discorso: In tutto ciò che dipende dall'attività umana, si deve proscrivere con cura ogni macchina e ogni invenzione che possa ridurre il lavoro, risparmiare la mano d'opera e produrre lo stesso effetto con minore fatica (III, 525).

Il carattere arretrato, arcaico e moralistico dell’atteggiamento assunto da Rousseau verso il progresso economico, la produzione della ricchezza e lo sviluppo capitalistico non è sfuggito a nessuno degli interpreti più attenti. Come ha sottolineato I. Fetscher (R.’s concept of freedom, New York, 1962, 40-41),

Rousseau

è del tutto estraneo

a ogni concezione

dinamica

dello svi-

luppo economico-sociale, non si tende mai conto del fatto che l’intrapresa capitalistica può produrre un arricchimento generale e far avanzare tutta la società. È convinto che l'arricchimento di un uomo nasca in ogni caso « direttamente » dall’impoverimento di un altro e che il singolo si arricchisca sempre e comunque soltanto a spese dei suoi simili. Le categorie di cui fa uso sono sempre ed esclusivamente — è questa la conclusione di Fetscher — categorie « morali ». In realtà — e forse di questo anche Fetscher non si è reso conto a sufficienza — il tipo di approccio ai problemi economici e le soluzioni indicate da Rousseau non erano che la ripresa di temi ampiamente diffusi entro una letteratura che Rousseau viene largamente utilizzando, anche se in una differente prospettiva e con intenti ben diversi:

XXXIV

INTRODUZIONE

Infelici quei popoli che hanno impiegato tanto lavoro e tanta fatica a cortrompersi! Il superfluo indebolisce, snerva, tormenta coloro che lo possiedono e tenta coloro che ne sono privi a impadronirsene mediante la violenza. Si può ricordare un bene superfluo che non serva a renderè gli uomini malvagi? Gli uomini che vivono nel lusso... sono gelosi l'uno dell'altro, sono rosi da una vile e nera invidia... incapaci di piaceri puri e semplici perché schiavi delle tante false necessità dalle quali fanno dipendere tutta la loro felicità... Si afferma che il lusso serve a dare nutrimento ai poveri a spese dei ricchi; come

se i poveri non potessero gua-

dagnarsi la vita più utilmente moltiplicando i frutti della terra... Tutta una nazione si abitua a considerare come necessarie alla vita le cose più superflue: nascono tutti i giorni nuove necessità inventate e non si possono più trascurare cose che trent'anni pri-

ma

non

si conoscevano

neppure.

Questo

lusso viene chiamato

buon gusto, perfezione delle arti, politesse della nazione. Questo vizio, che ne attira tanti altri e che è lodato come una virtù,

spande il suo contagio dal re fino all'ultima feccia del popolo.

Questi passi appartengono alle Aventures de Télémague di Frangois de Salignac, il « virtuoso Fénelon », un uomo per il quale Rousseau nutriva

tanta ammirazione da desiderare — se fosse stato ancora in vita — « di essere il suo lacché per meritare di diventare il suo cameriere » (I, 1346; III,

620; CG. XIX, 279). Nelle pagine di quel libro — familiare a Rousseau — si trovano, assieme congiunti, l’esaltazione dell’agricoltura che conduce all'aumento della popolazione e la condanna delle arti e delle industrie non strettamente indispensabili; il rifiuto del commercio e del lusso e l'elogio della vita semplice e frugale. Si trova la tesi che l’orrore del vizio e l’amore fraterno fra gli uomini esigono la condanna e il rifiuto della falsa politesse della società cosiddetta civile. Si trova l’affermazione che l'isolamento dei popoli — di fronte a un mondo cotrotto che ha il culto di ciò che è superfluo — è necessario alla loro virtù, è indispensabile per renderli capaci di accettare la morte piuttosto che subire la dominazione. In quel libro è presente la tesi che il denaro non solo provoca l’avarizia, il lusso e l'ambizione,

ma « genera un'infinità di arti pericolose che valgono solo a infiacchire e corrompere i costumi », allontanando gli uomini dalla « felice semplicità » e conducendoli a disprezzare l’agricoltura « fondamento della vita umana e

fonte

di tutti i veri beni ». È presente

infine la tesi, assai cara a Rousseau,

*a superficialità tanti scrittori hanno scambiato per furto l’astuzia richiesta ai bambini spartani per guadagnarsi il pasto frugale,

tutto

legge prescrive potesse non essere legittimo. Vedere alla voce DIRITTO l’origine di questo grande e illuminante principio di cui questa voce non è che uno sviluppo £. È importante sottolineare che questa regola di giustizia, sicura nei riguardi di tutti i cittadini, può invece essere fallace nei riguardi degli stranieri; e quanto a questo la. ragione è evidente: perché

la volontà

dello

Stato,

generale in rapporto ai suoi membri, non lo è più in rapporto agli altri Stati e ai loro membri e diventa quindi per essi una volontà particolare e in-

vivo, e simile a quel-

lo dell’uomo. Il potere sovrano rappresenta la testa; le leggi e i costumi sono il cervello, signore dei nervi e sede dell’intendimento, della volontà e dei sensi,

101

POLITICA

mente, e non deve seguire altra regola che non sia la ragione pubblica, che è la legge. Così la natura ha creato un gran numero di buoni padri di famiglia; ma, da che mondo è mondo, è quanto meno improbabile che la saggezza umana sia riuscita a produrre dieci uomini in grado di governare i propri simili. Da tutto questo che ho detto ne consegue che è a ragion veduta che si è giunti alla distinzione tra l'economia politica e quella privata e dal momento che lo Stato non ha nulla da spartire con la famiglia, a parte l’obbligo per i governanti di rendere feli-

i

dividuale, che trova la sua regola di giu-

stizia nella legge di natura, il che rien-

102

DISCORSO

tra ugualmente nel principio stabilito; in tal caso infatti la grande città del mondo diventa il corpo politico di cui la legge di natura rimane sempre la volontà generale e di cui gli Stati e i popoli vari non ne sono che i membri individuali. È da queste stesse distinzioni, applicate a ogni società politica e ai suoi membri, che provengono le regole più universali e più sicure su cui possa basarsi il giudizio sulla bontà o meno di un governo e, più in generale, sulla moralità di tutte le azioni umane. Ogni società politica è composta da altre società più piccole, di natura differente, di cui ciascuna teressi e le sue massime;

ha i suoi ma queste

inso-

cietà, che ognuno è in grado di riconoscere dal momento che hanno una forma esteriore e legale, non sono però in realtà le uniche a esistere in uno Stato; tutti quei privati che siano riuniti da un comune interesse ne formano altrettante, permanenti o passeggere

che

siano,

meno reale parente e i curatamente no la vera

la

cui

forza

però

non

è

per il fatto che è meno apcui diversi rapporti, se acpresi in esame, costituiscoconoscenza dei costumi. So-

no tutte queste associazioni, tacite o formali, che modificano così variatamente

le manifestazioni della volontà pubbli. ca mediante la loto influenza. La volontà di queste società private è sempre caratterizzata da un duplice rapporto: per i membri dell’associazione si tratta di una volontà generale; per la grande società si tratta di una volontà

particolare

che

molto

spesso,

se

a prima vista sembra retta, un giudizio più approfondito la rivela manchevole. Questo può essere il caso di un prete devoto o di un soldato coraggioso o di un praticante pieno di zelo che finiscono poi coll’essere dei cattivi cittadini, Una data deliberazione può risultare molto vantaggiosa per la picco» la

comunità,

ma

estremamente

nociva

per la grande. È anche vero che, essendo sempre le società private subordinate a quelle di cui fanno parte, si deve obbedire a queste piuttosto che

SULL'ECONOMIA

alle altre, che

i doveri

POLITICA

del cittadino

de-

vono precedere quelli del senatore, e quelli dell’uomo quelli del cittadino: ma purtroppo l’interesse personale si trova sempre in ragione inversa al dovere e aumenta a misura che l’associazione diventa più esclusiva e l’impegno meno sacro; prova irrefutabile che la volontà più generale è anche la più giusta e che in effetti la voce del popolo è la voce di Dio’. Non per questo bisogna dedurre che le deliberazioni pubbliche siano sempre eque; esse possono anche non esserlo se si tratta di rapporti coll’estero per le ragioni che ho già esposto. Cosicché può avvenire che una repubblica che goda di un buon governo si imbarchi in una guerra ingiusta. Né è impossibile che il consiglio di una democrazia vari decreti sbagliati e condanni degli innocenti: ma non succederà mai che un popolo venga sedotto da interessi privati, che il credito e la eloquenza di alcuni uomini di grande abilità sapranno sostituire ai loro. In questo caso una cosa sarà la deliberazione pubblica e un’altra la volontà generale. E non mi si replichi portando ad esempio la democrazia ateniese, poiché in realtà Atene non era affatto una democrazia ma una aristocrazia estremamente tirannica e in mano alla classe

colta

e agli

oratori.

Fate

un

esame

accurato di ciò che avviene in una qualsiasi deliberazione e vi renderete conto che la volontà generale tende sempre al bene comune; ma molto spesso subentra una scissione segreta, una tacita confederazione, che per mire individuali svia la disposizione naturale dell'assemblea. A questo punto il corpo sociale

si

scinde

realmente

in

altri,

i

cui membri assumono una volontà generale, buona e giusta nei riguardi di questi nuovi corpi, ingiusta e sbagliata nei riguardi di tutto ciò da cui ciascuno di loro si smembra. Si veda con quanta facilità alla luce di questi principi si spiegano le apparenti contraddizioni che si notano nel comportamento di tanti uomini pieni di scrupoli e di senso dell'onore sotto cer.

DISCORSO

SULL'ECONOMIA

ti aspetti, e falsi e imbroglioni

tri, che calpestano i doveri più sacri e sono fedeli fino alla morte a impegni spesso illegittimi. È in questa maniera che gli uomini più corrotti rendono sempre in qualche modo omaggio alla fede

pubblica:

è così

(come

è sta-

to già segnalato alla voce DIRITTO) che gli stessi briganti, che sono, nella grande società,

i nemici

della virtù, ne ado-

rano il simulacro nelle loro caverne !°. Nel fare della volontà generale il primo principio dell'ecoromzia pubblica e regola fondamentale del governo, non ho creduto necessario prendere seriamente in esame se i magistrati appartengono al popolo o il popolo ai magistrati e se negli affari pubblici si deve consultare il bene dello Stato o il bene dei capi. È ormai da tempo che questo punto è stato chiarito da una parte dalla pratica dall’altra dalla ragione; e in generale sarebbe una follia sperare che coloro che in realtà sono i padroni preferiscono altri interessi ai propri. Sarebbe dunque opportuno un'ulteriore distinzione dell'economia pubblica in. popolare e tirannica. La prima è quella di ogni Stato dove regni un'unità d'interessi e di volontà tra il popolo e i governanti; l’altra esisterà necessariamente ovunque esista tra il governo e il popolo un divario di interessi e di conseguenza un'opposizione di volontà. Le massime di quest’ultima sono scritte via via negli archivi storici e nelle satire di Machiavelli. Le altre le si trovano soltanto negli scritti dei filosofi che hanno il coraggio di rivendicare i diritti dell'umanità. 1. La prima e più importante massima del governo legittimo o popolare, cioè quello che ha per obiettivo il bene del popolo, è dunque, come ho già detto, seguire in tutto la volontà generale; ma per poterla seguire bisogna conoscerla e soprattutto stabilire una netta distinzione dalla volontà privata cominciando

da

se

stessi;

distinzione

che risulta sempre difficile e che solo la più alta virtù riesce sufficientemente a chiarire. Siccome per fare un atto di volontà

bisogna

essere

liberi,

103

POLITICA sotto al-

ci trovia-

mo di fronte a un'altra difficoltà non certo minore, cioè riuscire a garantire al tempo stesso la libertà pubblica e l'autorità del governo. Se voi ricercate i motivi che hanno spinto nella grande società gli uomini legati dalle loro reciproche necessità a unirsi più strettamente

mediante

società

civili,

non

ne

troverete altri all’infuori di quello di assicurare i beni, la vita, la libertà di ogni membro tramite la protezione di tutti! ma come si fa a costringere gli uomini a difendere la libertà di uno di loro senza ledere quella degli altri? E come provvedere alle necessità pubbliche senza violare la proprietà privata di coloro che vengono costretti a contribuirvi? Qualunque siano i sofismi con cui si cerchi di colorire tutto questo,

non

vi è dubbio

che

se si vuo-

le costringere la mia volontà io non sono più libero, e non sono più padrone del mio bene se qualcun altro può attentarvi. Questa difficoltà in apparenza insormontabile è stata superata insieme alla prima per mezzo della più sublime delle istituzioni umane o piuttosto per mezzo di un'ispirazione celeste che ha insegnato all'uomo a imitare quaggiù i decreti immutabili delle divinità. Ma qual è quest'arte, che non è concepibile dalla mente umana, che ha indicato il modo di assoggettare gli uomini per renderli liberi? d’impiegare

al

servizio

dello

Stato

i

beni,

le

braccia e la vita stessa di tutti i suoi membri senza usare nessuna costrizione e senza consultarli? d’incatenare le loro volontà col loro consenso? di far valere il loro consenso contro il loro rifiuto e di costringerli ad autopunirsi quando le loro azioni sono contrarie alla loro volontà? Com'è che avviene che essi obbediscano senza che nessuno comandi, che servano pur non essendovi un padrone; e che in realtà, essendo più liberi che sotto una sudditanza evidente, nessuno viene privato della propria libertà se non in quanto può danneggiare quella altrui? Questi prodigi sono opera della legge. È a lei soltanto che gli uomini debbono la giustizia e la libertà. È quest’organo sa-

DISCORSO

104

lutare per la volontà di tutti che ristabilisce nel diritto l'eguaglianza naturale tra gli uomini. È questa la voce celeste che detta a ogni cittadino i precetti della ragione pubblica e gli insegna ad agire secondo le massime del suo giudizio e a non essere in contraddizione con esso. È sempre ancora al suo nome che devono ricorrere i governanti quando comandano; poiché nell'istante

stesso

in

cui

un

uomo,

svin-

colato dalle leggi, cerca di sottometterne un altro, esso esce dallo stato civile e si pone di fronte a lui in un puro stato di natura in cui l'obbedienza non è prescritta se non nel caso di pura necessità. L'interesse più urgente del capo, e al tempo stesso anche suo dovere più indispensabile, è dunque quello di vegliare affinché vengano osservate quelle leggi di cui egli è il ministro e sulle quali si basa ogni sua autorità. E se deve farle osservare agli altri, a maggiore ragione dovrà osservarle lui stesso che ne gode ogni beneficio. Ché il suo esempio è di una forza tale che, quand'anche il popolo gli concedesse di affrancarsi dal giogo, egli dovrebbe ben guardarsi dall’approfittare di una prerogativa così pericolosa, che ben presto altri a loro volta cercherebbero di usutpare, e spesso a suo danno. In fondo, dal momento che tutti gli impegni relativi alla società sono reciproci per la loro stessa natura, è impossibile innalzarsi al di sopra della legge senza dover rinunciare ai suoi vantaggi e nessuno deve niente a chiunque pretende di non dover nulla a nessuno. Per questa stessa ragione non si potrà mai accordare nessuna esenzione dalla legge in un governo ben amministrato, a qualsiasi titolo venga richiesta. Anche i cittadini che sono meritevoli nei confronti della patria devono essere ricompensati con onori, ma mai con privilegi: poiché la repubblica è alla vigilia stessa della sua rovina non appena vi è qualcuno che pensa sia una bella cosa il non obbedire alle leggi. Ma se mai la nobiltà o l’esercito o qualche altro ordine dello Stato adottasse

una

simile massima,

tut-

SULL'ECONOMIA

POLITICA

to sarebbe perduto senza possibilità di scampo. Il potere delle leggi discende ancora di più dalla loro intrinseca saggezza che dalla severità dei loro ministri e la volontà pubblica trae la maggior parte del suo peso dalla ragione che l’ha dettata: è questa la ragione per cui Platone considera come una precauzione molto importante far precedere ogni editto da un preambolo che ne mostri convenientemente la giustizia e l’utilità !?. In realtà la prima legge è quella di rispettare le leggi: il rigore delle punizioni non è che un'immane risorsa presa in considerazione da menti limitate per sostituire il terrore al rispetto che quest’ultime non sono capaci di ottenere. Si è sempre osservato che i paesi dove i supplizi sono i più terribili sono anche quelli in cui vi si ricorre più di frequente; in maniera tale che la crudeltà delle pene non fa che rimarcare il gran numero di coloro che infrangono la legge, e punendo ogni infrazione colla stessa severità si obbliga i colpevoli a commettere nuovi crimini per sfuggire alla punizione dei loro errori. Ma sebbene il governo non sia padrone della legge, è già molto che ne sia il garante e che abbia a sua disposizione mille modi per farla amare. L’arte del regnare non consiste che in questo.

Quando

si

ha

in

mano

la

forza,

non ci vuole alcun talento a far tremare

tutti, e non

ci vuole

molto

neanche

a conquistarsi i cuori; ma è ormai da tempo che l'esperienza ha insegnato al popolo a tenere in gran conto, per quel che riguarda i suoi capi, tutto il male che non gli arrecano e ad adorarli quando sente di non esserne odiato. Un imbecille che sia obbedito può punire come un altro i crimini commessi: ma un vero uomo di Stato sa prevenirli; è sulle volontà più che sulle azioni che estende il suo impero degno di rispetto. Se egli potesse ottenere che tutti si comportassero bene, il suo compito verrebbe a esaurirsi ed il capolavoro della sua opera sarebbe un meritato ozio. Non v'è dubbio, perlomeno, che il maggior talento dei governanti è quello di

DISCORSO SULL’ECONOMIA camuffare

il

loro

potere

pet

POLITICA render-

lo meno odioso e di amministrare lo Stato così tranquillamente da non aver

bisogno di guide. Ne traggo dunque la conclusione che, essendo il primo dovere del legislatore quello di conformare le leggi alla volontà generale, la prima regola dell’economia pubblica è che l’amministrazione sia conforme alle leggi. Sarà lo stesso sufficiente, perché lo Stato non sia mal governato, che il legislatore abbia provveduto, come era suo compito, a tutto ciò che il clima, il suolo, i costumi, i popoli vicini esigevano e a tutte quelle relazioni private del popolo a cui doveva dare un'istituzione, Non che poi non restino ancora un'infinità di dettagli di amministrazione e di ecomomzia, affidati alla saggezza del governo: ma vi sono sempre due regole infallibili perché ci si comporti bene in queste occasioni: l’una è lo spirito della legge che deve sopperire nelle decisioni dei casi che non ha saputo prevedere; l’altra è la volontà generale, fonte e supplemento di tutte le leggi e che, in loro assenza, deve sempre essere consultata.

Ma,

mi

si

dirà,

come

si fa

a

conoscere la volontà generale nei casi in cui non si è affatto manifestata chiaramente? Si dovrà riunire in assemblea la nazione a ogni avvenimento imprevisto? Tanto più si sarà sicuri che la sua decisione non è l’espressione della volontà generale, tanto meno si dovrà

ricorrere

alle

assemblee !;

infatti

questo mezzo non è realizzabile quando si tratta di un popolo numeroso e non è necessario se non di rado quando si ha a che fare con un governo animato da buoni propositi: giacché i governanti sono ben consapevoli del fatto che la volontà popolare propende sempre per la soluzione favorevole all’interesse pubblico, vale a dire a quello più giusto;

di modo

che

troppo

apertamente,

basta

essere

giusti

per essere più sicuri di seguire la volontà generale. Spesso, se la si urta essa

si

fa

sentire

malgrado il terribile freno dell’autorità pubblica. Sto cercando gli esempi più vicini possibile da seguire in questo ca-

105

so. In Cina, il principe si astiene costantemente al principio di dare sempre torto ai suoi ufficiali nelle contese sorte tra loro e il popolo. Se il pane è caro in una provincia, l’intendente finisce in prigione: se in un’altra avviene una sommossa, il governatore viene degradato e ogni mandarino risponde con la sua testa di tutti i guai che avvengono nel suo dipartimento. Non è che poi il caso venga esaminato in un regolare processo: ma una lunga esperienza fa sì che la sentenza sia sempre an-

ticipata. È raro che con questa prassi

vi siano ingiustizie da riparare; e l'imperatore, essendo persuaso che una scontentezza manifestata pubblicamente non sia mai senza motivo, discerne sempre, attraverso le grida sediziose che punisce, le giuste lagnanze a cui pone riparo. È già molto riuscire a far regnare l'ordine e la pace in tutte le parti della repubblica; è già molto che lo Stato sia calmo e che la legge sia rispettata; ma se non si fa niente di più, tutto ciò potrà essere addebitato più all'apparenza che alla realtà e il governo difficilmente riuscirà a farsi obbedire se si limita all'obbedienza. Se è una buona cosa sapere utilizzare gli uomini così come sono, è ancora meglio renderli quali necessita che siano; l'autorità più assoluta è quella che opera dall’interno dell'uomo e si esercita sulla sua volontà non meno che sulle sue azioni. È sicuro che a lungo andare i popoli diventano ciò che il governo li fa

diventare.

Guerrieri,

cittadini,

uo-

mini, quando lo vuole, plebe e canaglie quando lo desidera: e ogni princi. pe che nutra del disprezzo verso i suoi sudditi,

disonora

se

stesso

col

dimo-

strare che non è stato capace di valorizzarli. Plasmate dunque degli uomini se è a uomini che volete comandare: se voi desiderate che si obbedisca alle leggi fate che siano amate, e per fare ciò che si deve basta pensare che lo si deve fare. Era questa la grande abilità degli antichi governi, in quei tempi lontani in cui erano i filosofi a fornire ai popoli le leggi non facendo leva che sul-

DISCORSO

106

la loro autorità per renderli saggi e felici. È così che si sono avute tante leggi suntuarie, tante regole di costume, tante massime pubbliche, accettate o respinte con la massima ponderazione. I tiranni stessi non dimenticavano questa parte importante dell’amministrazione e li si poteva vedere nell’atto di corrompere i costumi dei loro schiavi con altrettanta cura di quella usata dai magistrati a correggere quelli dei loro concittadini. Ma i nostri governi moderni, che credono di aver esaurito il loro compito col fatto di aver tratto denaro, non s’immaginano nemmeno che sia necessario o possibile arrivare fino a questo punto. ir. Seconda regola essenziale dell’economia pubblica, non meno importante della prima. Volete che si segua la volontà generale? Fate in modo che ogni singola volontà vi si conformi; e poiché la virtù non consiste che in questo conformarsi della volontà particolare a quella generale, per dire in breve la stessa cosa, fate che regni la virtù. Se i politici fossero meno accecati dalla loro ambizione, si renderebbero conto in che misura è impossibile che un'istituzione, di qualsiasi tipo essa sia, possa andare avanti sulla linea che l'ha ispirata, se non è retta dalla legge del dovere;

avvertirebbero

il fatto

no i cuori dei cittadini la sorsa dell'autorità pubblica te può: sostituire le buone mantenimento del governo. mente le persone per bene le che

sanno

amministrare

sfidare

i rimorsi,

che

so-

maggiore rie che nienusanze nel Non solasono le so-

le leggi,

ma,

in fondo, le persone oneste sono le sole capaci di obbedire loro. Chi riesce a non

tarderà

molto

a

sfidare i supplizi; castigo meno rigoroso, meno continuo e a cui si può sempre sperare di sfuggire; e per quante precauzioni uno possa prendere, a coloro che non attendono che l'impunità per agire scorrettamente, non mancano certo Je maniere per eludere la legge o sfuggire alla pena. A questo punto, siccome tutti gli interessi particolari si uniscono contro l’interesse generale che

non

SULL’ECONOMIA

è più di nessuno,

POLITICA

i vizi pubblici

si

trovano in una posizione avvantaggiata nei riguardi delle leggi più di quanto lo siano le leggi per poter reprimere i ‘vizi; la corruzione del popolo e dei governanti si estende allora fino al governo, malgrado le persone di valore che vi possano essere: il peggiore di . tutti gli abusi è quello di obbedire alle leggi in apparenza per poterle in realtà poi infrangere con sicurezza. In poco tempo anche le leggi migliori diventano nocive: sarebbe di gran lunga preferibile che non

esistessero affatto;

sarebbe

sempre una risorsa a cui ricorrere quando non rimanesse nient'altro. In situazioni del genere è del tutto inutile che si aggiungano editti su editti, regolamenti su regolamenti. Tutto questo non serve che a introdurre altri abusi senza correggere gli altri. Più moltiplicate le leggi e più le rendete indegne di stima: e ogni sorvegliante da voi istituito non è che una nuova persona destinata a infrangere le leggi e a dividere con gli altri il saccheggio o a operare per conto proprio. Il prezzo della virtù diventa ben presto quello del brigantaggio: le persone più indegne diventano quelle con più credito; più salgo no in alto più sono spregevoli; la loro infamia risplende nelle loro dignità e sono i loro stessi onori a disonorarli. Se si procacciano i suffragi dei capi o la protezione delle donne, non è che per vendere a loro volta la giustizia, il dovere e lo Stato; e il popolo che

non si accorge che sono i suoi vizi la causa prima delle sue disgrazie, mormora e si lamenta gemendo: « Tutti i miei mali provengono proprio da coloro che io pago perché me ne garantiscano ». È a questo punto che alla voce del dovere, non più capace di parlare ai cuori, i governanti sono obbligati a sostituite le grida del terrore o l'inganno di un apparente interesse col quale sì prendono giuoco delle loro vittime. È a questo punto che bisogna ricorrere a tutte quelle piccole e spregevoli astuzie che essi chiamano massime di Stato o misteri di Gabinetto. Tutte le rima-

DISCORSO

SULL'ECONOMIA

107

POLITICA

nenti energie del governo vengono convogliate dai suoi membri verso la loro rovina e a soppiantarsi l'un l'altro, mentre ogni affare pubblico viene abbandonato o affrontato solo nella misura richiesta dall’interesse personale e sempre che sia lui a dirigerlo. Alla fine tutta l'abilità di questi grandi politici si riduce nell’affascinare talmente colo» ro di cui hanno bisogno che ognuno crede di lavorare per il proprio interesse mentre lavora per il /oro; dico il

essersi comportato con giustizia. Non per questo bisogna tuttavia confondere la negligenza con la moderazione, né la dolcezza con la debolezza. Per essere giusti bisogna essere severi: il tollerare le ingiustizie che uno ha il diritto e il dovere di reprimere, equivale a essere ingiusto. Non è sufficiente esortare i cittadini all'esercizio della bontà; bisogna anche insegnare loro a esercitarla; e lo stesso esempio, che in questo caso è la prima

capi sia quello di annientare i popoli per sottometterli e di rovinare i loro stessi beni per potersene assicurare il possesso. Ma quando tutti i cittadini amano il loro dovere e i depositari dell’autorità pubblica si applicano con sincerità ad alimentare questo amore col loro esem-

utilizzare:

loro,

ammesso

pio e con

che

il vero

le loro cure,

interesse

dei

tutte le difficol-

tà svaniscono e l’amministrazione assume una limpidezza che le permette di fare a meno di quelle arti tenebrose la cui nefandezza ne costituiva tutto il mistero. Questi grandi spiriti, così pericolosi e così ammirati, tutti quei grandi ministri la cui gloria si confonde colle disgrazie del popolo, non suscitano alcun rimpianto; i costumi pubblici suppliscono al genio dei capi; e più è la virtù a regnare e meno necessari sono i talenti. Anche la stessa ambizione gode di un miglior servizio da parte del dovere piuttosto che dell’usurpazione: il popolo, se convinto che i propri capi non opetano che per la loro felicità, li dispensano, per deferenza, dalla

fatica

di

affermare

il loro

po-

tere; e Ia storia ci fornisce mille esempi in cui l’autorità accordata dal popolo

a coloro

che

ama

e da cui

è ama-

to, è cento volte più assoluta di ogni tirannia ad opera di usurpatori. Questo non significa che il governo deve temete di usare il proprio potere, ma che questo non va usato che in maniera legittima. Si troveranno nella storia mille esempi di capi ambiziosi o pusillanimi,

perduti

a

causa

della

mollezza

o

dell'orgoglio; ma non se ne troverà uno che si sia trovato a mal partito per

lezione,

non

è certo

efficace;

poiché, come

l’unico

mezzo

da

l’amore della patria è il più ho già detto, ogni

uomo è virtuoso quando la sua volontà particolare si uniforma totalmente a quella generale e noi vogliamo volentieri ciò che desidera chi amiamo. Sembra che il sentimento dell’umanità si dissolva e si affievolisca man mano che si distribuisce su tutta la terra e che noi non possiamo sentirci toccati dalle calamità che hanno colpito i Tartari o il Giappone nella stessa misura in cui lo siamo se si tratta di un popolo europeo. In qualche maniera bisogna limitare e comprimere l'interesse e la commiserazione per poterli concentrare. Ora, dal momento che questa di. sposizione d’animo non può essere utile che a coloro con cui dobbiamo

vivere,

è un bene che l'umanità riunita in una

concittadinanza,

trovi in essa una nuova

forza mediante l’uso di vivere insieme e mediante l'interesse comune che la riunisce. Non v'è dubbio che i più grandi prodigi di virtù siano stati prodotti dall'amore per la patria: questo sentimento dolce e vivo che unisce alla forza dell’amor proprio tutta la bellezza della vittù, le infonde un vigore che senza sfigurarla ne fa la più eroica di tutte le passioni. È stato lui il motore di tante azioni immortali il cui splendore

acceca

i nostri

deboli

occhi,

e di

tanti grandi uomini le cui antiche virtù passano per delle favole da quando l'amor di patria è diventato oggetto di derisione, Noi non ce ne stupiamo; i trasporti delle anime delicate sembrano altrettante chimere a chiunque non li abbia mai provati; e allo stesso modo

108

DISCORSO

l'amore per la patria, più vivo e mille volte più delizioso di quello per una amante, non può essere concepito se non provandolo: ma è facilmente individuabile in tutti i cuori che riscalda e in tutte le azioni che ispira quel bollente e sublime ardore di cui non brilla la più pura virtù se ne è separata. Osiamo opporre Socrate allo stesso Catone: l’uno era più filosofo, l’altro più cittadino. Atene era già perduta, e Socrate non aveva più patria se non il mondo intero: Catone portò sempre la sua

in

fondo

al cuore;

non

viveva

che

per lei e non poté sopravviverle. La virtù di Socrate è quella dell’uomo più saggio del mondo: ma tra Cesare e Pompeo, Catone ha l’aria di un dio tra i mortali. L’uno istruisce qualche individuo, combatte i sofisti e muore per la

verità:

l’altro

be

la

felicità,

difende

lo

Stato,

la

libertà, le leggi contro i conquistatori del mondo e abbandona la terra quando non intravede una patria da servire. Un degno discepolo di Socrate sarebbe il più virtuoso dei suoi contemporanei; un degno emulo di Catone il più grande. La virtù del primo farebsua

il secondo

ricerche-

rebbe la propria in quella di tutti. Noi saremmo istruiti dall'uno e guidati dal. l’altro; e soltanto questo potrebbe far decidere sulla preferenza: perché se non si è mai creato un popolo di saggi, non è impossibile dare la felicità a un popolo. Se vogliamo che i popoli siano virtuosi dobbiamo cominciare col far loro amare la patria: ma come potranno amarla se per loro non conta di più che per gli stranieri e se essa non accorda loro che ciò che non può rifiutare a nessuno? Sarebbe ancora peggio se non godessero nemmeno della sicurezza

civile

e che

i loro

beni,

la loro

vita o la loro libertà fossero lasciati alla discrezione di uomini potenti senza che per loro fosse possibile o permesso osare appellarsi alle leggi. Allora, sottomessi ai doveri dello stato civile senza nemmeno fruire dei diritti dello stato di natura e senza poter ricorrere alle loro forze per difendersi, si trove-

SULL'ECONOMIA

POLITICA

rebbero di conseguenza a essere nella peggiore delle condizioni in cui si possano trovare degli uomini liberi, e la parola patria non potrebbe assumere per loro che un significato odioso o ridicolo !*. Non si deve credere che si possa ferire o tagliare un braccio senza

che

il dolore

non

vada

alla testa,

né si

può pensare che la volontà generale permetta che uno qualunque dei membri dello Stato ferisca o ne distrugga un altro, più di quanto non si possa credere che un uomo, in pieno possesso della sua ragione, si accechi con le sue stesse mani. La sicurezza privata è talmente legata alla confederazione pubblica che senza il riguardo dovuto alla debolezza umana questa convenzione verrebbe

distrutta

dal

diritto,

se

in

uno

Stato venisse a morire un solo citta-' dino che si fosse potuto soccorrere, se ce ne fosse uno solo tenuto in prigione ingiustamente, se un solo processo fosse perso per manifesta ingiustizia; poiché, infrante le convenzioni fondamentali, non si sa bene quale diritto o quale interesse sia in grado di mantenere il popolo in un'unione sociale, a meno di mantenercelo con la sola forza che porta alla dissoluzione dello stato civile. Ma l’impegno dell'intero corpo della nazione non è forse quello di provvedere alla conservazione dell'ultimo dei suoi membri con altrettanta cura di tutti gli altri? E la salvezza del singolo cittadino è una causa comune meno valida di quella di tutto lo Stato? Non ci vengano a dire che è bello che uno solo perisca per tutti; posso ammirare questa frase soltanto se profferita da un patriota degno e virtuoso che si consacra,

di

sua

volontà

e per

dovere,

alla morte per la salvezza del suo paese: ma se si sente dire che al governo è permesso di sacrificare un innocente per la salvezza dei più il mio giudizio su questa massima è che essa sia quanto di più odioso abbia escogitato la tirannia, quanto di più falso abbia potuto proporre, quanto di più pericoloso si possa ammettere e quanto di più contrastante con le leggi fondamentali

DISCORSO

SULL'ECONOMIA

vite

nella difesa

di ciascuno

di essi, af-

finché venga protetta la debolezza dei singoli dalla forza pubblica e ogni membro da tutto lo Stato. Dopo aver soppresso, soltanto per ipotesi naturalmente, un individuo del popolo dopo l'al. tro, sollecitate i fautori di questa massima a spiegarsi meglio su cosa intendono per corpo dello Stato, e vedrete che alla fine lo ridurranno a un esiguo numero di uomini che non rappresentano affatto il popolo ma i funzionari del popolo e che, essendosi impegnati con un giuramento particolare a morire essi stessi per la sua salvezza, con questo pretesto pretendono che tocca al popolo perire per loro. Se si vogliono trovare esempi della protezione e del rispetto che lo Stato deve ai suoi membri, non bisogna cercarli che presso le nazioni più illustri e più coraggiose, e sono solo i popoli liberi a conoscere il valore di un uomo. È ben nota, a Sparta, la perplessità in cui si veniva a trovare la repubblica quando si trattava di punire un cittadino colpevole. In Macedonia, la vita di un uomo era un fatto così importante che in tutta la sua grandez-

za,

Alessandro,

potente

monarca,

non

avrebbe mai fatto morire a sangue freddo un criminale macedone, se non dopo che l’accusato, una volta comparso per difendersi davanti ai suoi concittadini, non fosse stato da questi condannato. Ma furono i Romani a distinguersi tra tutti i popoli per i riguardi usati dal governo verso i privati e per la cura meticolosa con cui rispettava i diritti inviolabili di tutti i membri dello Stato. Nulla era tanto sacro quanto la vita dei semplici cittadini; era necessaria almeno l'assemblea di tutti i cittadini per condannarne uno: neanche il senato, né i consoli, in tutta la loro

maestà,

ne

avevano

il

109

POLITICA

della società. Ben lungi dal fatto che uno solo debba perire per tutti, tutti hanno impegnato i loro beni e le loro

diritto,

e

presso il più potente popolo del mondo il crimine e la pena d'un cittadino erano una desolazione pubblica; e anco ra parve loro così duro il doverne ver-

sare il sangue per qualsiasi crimine potesse

essere

commesso,

dino

liberato

che

mediante

la

legge Porcia la pena di morte fu commutata in quella dell'esilio per tutti coloro che avessero voluto sopravvivere alla perdita di una così dolce patria. Dappertutto a Roma e nell'esercito si respirava quest’amore reciproco dei concittadini e questo rispetto per il nome romano che potenziava il coraggio e animava la virtù di chiunque avesse l’onore di portarlo. Il cappello di un cittadalla

schiavitù,

la

coro-

na civica di colui che aveva salvato la vita a un altro erano le cose maggiormente ammirate nella pompa dei trionfi; e va notato che di corone con cui in guerra si rendeva onore alle belle azioni vi era soltanto quella civica e quella dei

trionfatori,

che erano

fatte di er-

ba e di foglie, mentre tutte le altre erano in oro. È in questa maniera che Roma esplicava la sua virtù diventando così la padrona del mondo. Capi ambiziosi! Un pastore governa i suoi cani e i suoi greggi e non è che l’ultimo degli uomini. È bello comandare soltanto quando chi ci obbedisce può anche onorarci: rispettate dunque i vostri concittadini e vi renderete rispettabili; rispettate la libertà e la vostra potenza aumenterà di giorno in giorno: non oltrepassate mai i vostri diritti e ben presto questi diventeranno illimitati. La patria si dimostri dunque come la madre comune di tutti i cittadini, i vantaggi di cui godono in patria gliela rendano cara, il governo li lasci partecipare largamente all’amministrazione pubblica perché sentano di essere a casa

loro,

siano

e

le

leggi,

che la garanzia

ai

loro

occhi,

della comune

non

li-

bertà. Questi diritti, con la loro validità,

appartengono a tutti gli uomini; ma la cattiva volontà dei capi, pur senza aver l'atia di volerli attaccare direttamente, ne riduce a zero l’effetto. La legge di cui si abusa serve al potente sia come arma d'offesa sia come scudo contro il debole, e il pretesto del bene pubblico è sempre il più pericoloso flagello del popolo. Ciò che in un governo è più necessario e forse anche più difficile è

DISCORSO

110

quella ferma integrità che permette di render giustizia a tutti e soprattutto a proteggere il povero dalla tirannia del ricco !8. Il peggiore dei mali è già stato commesso se già ci sono dei poveri da difendere e dei ricchi da tenere a freno. È soltanto su una condizione media che si può esercitare completamente la forza delle leggi; esse sono egualmente impotenti sia contro i tesori del ricco che contro la miseria del povero; il primo le elude, il secondo le sfugge; l'uno rompe la tela, l’altro ci passa attraverso 1°. È dunque uno dei compiti più importanti del governo quello di preve. nire l'estrema disuguaglianza delle fortune, non portando via le ricchezze a chi le possiede, ma togliendo a tutti i mezzi per accumularne !”; non costruendo ospizi per i poveri, ma garantendo i cittadini dal divenire tali. Gli uomini inegualmente distribuiti sul territorio e ammucchiati in un luogo a scapito degli altri che si spopolano, le arti voluttuarie e di pura industria favorite a scapito dei mestieri utili e faticosi; l’agricoltura

sacrificata

al commercio;

il pub-

blicano reso indispensabile dalla cattiva amministrazione del denaro pubblico; e per finire la venalità spinta a un punto tale che la considerazione ha un valore in baiocchi e le stesse virtù vengon vendute a prezzo corrente: queste sono le conseguenze più vistose del» l'opulenza e della miseria, dell’interesse privato sostituito a quello pubblico, dell’odio reciproco dei cittadini, della loro indifferenza per la causa comune, della corruzione del popolo e dell’indebolimento di tutto il meccanismo statale. Tali sono i mali che ne conseguono e che difficilmente possono essere curati una volta che si sono fatti sen-

tire, ma che una saggia amministrazione deve prevenire per mantenere vivi, in-

sieme ai buoni costumi, il rispetto per le leggi, l’amore della patria e il vigore della volontà generale. Ma tutte queste precauzioni non saranno sufficienti, se non si opera ancora più alla radice. Termino questa parte dell’econormia politica laddove

SULL’ECONOMIA

POLITICA

avrei dovuto cominciarla. La patria non può sussistere senza la libertà, né la libertà senza la virtù, né la virtù senza i cittadini; voi otterrete tutto se avrete formato dei cittadini; altrimenti non avrete che dei cattivi schiavi, a co-

minciare dai capi di Stato. Ma formare dei cittadini non è certo questione di un giorno; e per averli uomini bisogna operare su di loro da bambini. Mi si potrà dire che chiunque debba governare degli uomini non deve cercare al di fuori della natura una perfezione di cui

non

sono

suscettibili;

che

non

de-

ve pretendere di distruggere in loro le passioni e che l'esecuzione di un progetto del genere non sarebbe certo più auspicabile di quanto non sia possibile. Posso essere d'accordo a questo proposito che un uomo privo di passioni sarebbe senz'altro un pessimo cittadino: ma bisogna anche convenire che se non sì può insegnare a un uomo a non amare nulla, non è impossibile dirigere il suo amore verso un oggetto invece

di

un

altro,

e cioè

verso

ciò

che

è

veramente bello piuttosto che verso ciò che è deforme. Se, per esempio, lo si esercita a tempo‘a considerare la propria individualità soltanto in relazione al corpo dello Stato e a concepire, per così dire, la propria esistenza soltanto come una parte della sua !8, potrà arrivare alla fine a identificarsi in qualche modo con questo tutto più grande e a sentirsi membro della patria, ad amarla di quel sentimento squisito che ogni uomo isolato non nutre che per se stesso, ad innalzare senza fine la sua anima verso questo grande oggetto e a trasformare in questo modo in una sublime virtù quella pericolosa disposizione da cui provengono tutti i nostri vizi. Non soltanto la filosofia ci dimostra la possibilità di queste nuove direzioni, ma anche la storia ci fornisce a questo proposito mille splendidi esempi: se presso di noi

sono

così

rari, è che

nessuno

si preoccupa che vi siano dei cittadini e ancor meno che si provveda in tempo a prendere misure atte a formarli. Non si è più in tempo a cambiare le nostre inclinazioni naturali quando queste han-

DISCORSO

SULL’ECONOMIA

POLITICA

no ormai preso il loro corso e quando ormai l'abitudine s'è unita all’amor proprio; non si fa più in tempo a tirarci fuori

da

noi

stessi,

una

volta

che

il

nostro 0 umano, concentrato nei nostri cuori, vi ha acquisito quella spregevole attività che assorbe ogni virtù e costituisce la vita delle anime meschine. In che modo potrebbe germogliare l’amore per la patria, in mezzo a tante passioni che lo soffocano? E cosa rimane ai concittadini di un cuore già diviso tra l’avarizia,

un'amante

e la vanità?

È sin dall'inizio della vita che bisogna imparare a meritarsi di vivere; e come nascendo si diventa partecipi dei diritti

dei

cittadini,

l’istante

stesso

del-

la nostra nascita deve segnare l’inizio dell'esercizio dei nostri doveri. Se vi sono leggi per l’età matura, ve ne devono essere anche per l'infanzia, le quali insegnino a obbedire agli altri; e siccome non si fa della ragione di ogni uomo

l'unica

padri;

ché,

tanto meno telligenza e cazione dei teressa allo

arbitra

dei

suoi

doveri,

si dovrà abbandonare all'inai pregiudizi dei padri l’edufigli, dal momento che inStato ancora di più che ai secondo

il corso

della

na-

tura, la morte del padre gli sottrae spesso gli ultimi frutti di questa educazio-

ne, ma la patria, prima o poi, ne avverte gli effetti; lo Stato rimane, e la fa-

miglia si dissolve. Infatti, se l'autorità pubblica, prendendo il posto dei padri e assumendosi quest'importante funzione, subentrerà nei loro diritti adempiendo i loro doveri, essi non avranno motivo di lamentarsene in quanto a questo proposito non fanno in realtà che cambiare di nome e avranno in comune,

col

nome

di cittadini,

la stessa

au-

torità sui loro figli di quella che eserciterebbero col nome di padri, e non sarebbero meno obbediti parlando in nome della legge che se parlassero in nome della natura. L'educazione pubblica con regole prescritte dal governo e sotto magistrati istituiti dal sovrano diventa dunque una delle massime fondamentali del governo popolare o legittimo. Se i figli vengono allevati in comune in’ seno all’eguaglianza, se ven-

111

gono imbevuti delle leggi dello Stato e delle massime

della volontà generale, se

vengono istruiti a rispettarle al di ‘sopra di ogni cosa, se vengono circondati da esempi e da oggetti che ricordano loro continuamente la loro tenera madre che

li nutre, il suo amore per loro, i beni ine-

stimabili che ricevono da lei e che essi le devono a loro volta, non abbiamo dubbi che in questa maniera essi impareranno ad amarsi reciprocamente come fratel-

li, a non voler mai altro da ciò che vuole la società, a sostituire con azioni virili e

da cittadini le sterili e vane ciance dei sofisti e a diventare un giorno i difensori e i padri della patria di cui saranno stati per tanto tempo i figli. Non parlerò affatto dei magistrati destinati alla sovraintendenza della loro

educazione,

anche

se

senza

dubbio

ciò

rappresenta il problema più importante dello Stato. Ci si rende conto che se simili pubbliche manifestazioni di fiducia venissero accordate con leggerezza, se quest'altissima funzione non fosse, per coloro che avessero espletato degnamente tutte le altre, il premio del loro

lavoro,

il decoroso

e dolce

riposo

della

loro vecchiaia e il massimo di tutti gli onori, tutta questa istituzione verrebbe a essere inutile e l’educazione senza successo; poiché ovunque la lezione non sia sostenuta dall'autorità e il precetto dall’esempio, l'istruzione rimane sterile e la virtù stessa perde ogni credito in bocca a chi non la pratica. Ma che siano guerrieri illustri, curvi sotto il peso dei loro allori a predicare il coraggio; che siano magistrati di provata integrità, incanutiti nella porpora e nei tribunali, a insegnare la giustizia; gli uni e gli altri si faranno così virtuosi successori e trasmetteranno via via alle generazioni successive l'esperienza e i talenti dei capi, il coraggio e la virtù dei cittadini e l'emulazione a tutti comune di vivere e morire per la patria. Che io sappia, non sono che tre i popoli dell'antichità che hanno praticato l'educazione pubblica; cioè i Cretesi, gli Spartani e gli antichi Persiani: presso tutti e tre ebbe un grandissimo successo e presso gli ultimi due compì

112 miracoli.

DISCORSO Quando

il

mondo

si

è

tro-

vato diviso in nazioni troppo estese per poter essere ben governato, non si è potuto più applicare questo metodo; e anche altre ragioni, che il lettore può facilmente dedurre, hanno vieppiù impedito che un popolo dell’età attuale vi si provasse. È veramente sorprendente che i Romani ne abbiano potuto fare a meno, ma Roma fu per cinquecento ‘anni un miracolo continuo che il mondo non ha alcuna speranza di veder ripetere. La virtù dei Romani, generata dall’orrore per la tirannia e per i crimini dei tiranni, e dall'amore innato per la patria, fece di ogni loro casa una scuola di civismo; e il potere illimitato dei padri sui loro figli infuse tanta severità nell'esercizio del controllo privato che il padre, più temuto dei magistrati, era, nel suo tribunale domestico, il censo-

re dei costumi e il vendicatore delle leggi. È in questo modo che un governo attento e benintenzionato, che vigila continuamente a mantenere o a ricordare nel popolo l'amore verso la patria e verso i retti costumi, è in grado di prevenire alla radice i mali che prima o poi derivano dall’indifferenza dei cittadini per la sorte della repubblica e mantiene nei giusti limiti quell'interesse personale che tanto isola i privati da indebolire lo Stato per la loro strapotenza così da perdere ogni speranza sulla loro buona volontà. Quando il popolo ama il suo paese, rispetta le leggi e vive semplicemente, non rimane molto da fare per renderlo felice; e nell'amministrazione pubblica, in cui la fortuna ha un ruolo meno preponderante che nella sorte dei privati, la saggezza si avvicina tanto alla felicità che questi due obiettivi si confondono. it. Ma non è ancora sufficiente avere dei cittadini e proteggerli; bisogna anche pensare alla loro sussistenza; e provvedere alle necessità pubbliche è un corollario evidente della volontà generale e il terzo dovere essenziale del governo. Questo dovere non consiste, a retto giudizio, nel riempire i granai dei privati dispensandoli dal lavorare, ma

SULL'ECONOMIA

POLITICA

nel mantenere l'abbondanza in tal misura alla loro portata, che per procacciarsela il lavoro sia sempre necessario e mai inutile. Esso si estende anche a tutte quelle operazioni che riguardano il mantenimento del fisco e la spese dell’amministrazione pubblica. Così, dopo aver parlato dell'economia generale in rapporto al governo delle persone, ci resta da prenderla in esame in rapporto all'amministrazione dei beni. Questa parte non presenta meno difficoltà

da

risolvere,



meno

contraddi-

zioni da superare della precedente. Non v'è dubbio che il diritto di proprietà è il più sacro di tutti i diritti dei cittadini, e sotto certi aspetti più importante della stessa libertà !; sia perché riguarda più da vicino la conservazione della

vita;

sia

perché,

dato

che

i beni

sono più facili da usurparsi e più faticosi da difendersi della persona stessa, bisogna nutrire un maggior rispetto verso ciò che si può portar via con più facilità; sia perché la proprietà è il vero fondamento della società civile e la vera garanzia dell'impegno dei cittadini: ché se i beni non costituissero una garanzia per le persone, non vi sarebbe niente di più facile che eludere i propri doveri e farsi giuoco delle leggi. D'altra parte, non vi sono meno dubbi sul fatto che il mantenimento dello Stato e del governo esige spese e dispendi, e poiché chiunque è d’accordo sul fine non può rifiutare i mezzi, ne consegue che i membri della società devono contribuire coi loro beni a tale mantenimento. Inoltre è difficile assicurare da una parte la proprietà privata senza attaccarla da un’altra ed è impossibile che tutti i regolamenti che riguardano l'ordine

di

successione,

i testamenti,

i

contratti non mettano a disagio i cittadini sotto certi aspetti in rapporto alla disposizione dei propri beni e di conseguenza al loro diritto di proprietà. Ma oltre a tutto quanto ho appena esposto circa l'accordo che regna tra l'autorità della legge e la libertà del cittadino a proposito della disposizione dei beni, c'è da fare un'osservazione importante, che solleva una quantità di

DISCORSO

SULL'ECONOMIA

Generalmente,

per

quanto

le

istitu-

zioni delle leggi che regolano il potere dei privati nella disposizione dei loro beni non appartengano che al corpo sovrano, lo spirito di queste leggi, che il governo deve seguire nella loro applicazione, è che di padre in figlio e di parente in parente i beni di famiglia ne escano e si disperdano il meno possibile. L’evidente ragione di questo consiste nel fatto di favorire i figli, per i quali il diritto di proprietà sarebbe del tutto inutile se il padre non lasciasse loro niente e che, avendo spesso per di più contribuito col loro lavoro al. l'acquisizione dei beni paterni, sono associati d'autorità al suo diritto, Ma vi è un’altra ragione che, se anche più remota,

non

è

meno

importante,

cioè

che niente è più dannoso ai costumi e alla repubblica dei continui cambiamenti di stato e di fortuna dei suoi cittadini; cambiamenti che sono la prova e la fonte di un'infinità di disordini che sconvolgono e confondono ogni cosa e mediante i quali coloro che sono stati educati per una cosa si trovano destinati a un’altra, e né quelli che salgono né quelli che scendono possono assumere le massime e le norme adatte alla loro nuova situazione e ancor’ meno assolvere i loro doveri. Passo ora alla questione delle finanze pubbliche. Se il popolo si governasse da solo e non vi fossero intermediari tra l'amministrazione

dello

Stato e i cittadini,

ba-

sterebbe che questi si tassassero di volta in volta, a seconda delle necessità pubbliche e delle possibilità individuali;

e dal

momento

che

nessuno

113

POLITICA

difficoltà. Come l’ha dimostrato Pufendorf 2, c'è il fatto che questo accordo, per la natura del diritto di proprietà, non si estende affatto al di là della vita del proprietario, e nel momento stesso in cui un uomo muore i suoi beni non gli appartengono più. Perciò il prescrivergli le condizioni con cui può di. sporne alla fin fine significa apparentemente limitare il suo diritto, ma in realtà estenderlo.

perde-

rebbe mai di vista la riscossione e l'impiego dei denari, né abusi né frode

avrebbero la possibilità d’insinuarsi nella loro amministrazione: lo Stato non verrebbe mai ad essere oberato di debiti, né il popolo gravato da tasse, 0, perlomeno, la sicurezza dell'impiego lo consolerebbe della durezza della tassa. Ma le cose non possono andare in questa maniera; e per quanto limitato possa essere uno Stato, la società civile vi è sempre troppo numerosa per poter essere governata da tutti i suoi membri 2! Bisogna necessariamente che i denari pubblici passino tra le mani dei capi i quali hanno, oltre agli interessi dello Stato, anche i loro privati, che non sono certo gli ultimi a essere ascoltati. Il popolo, da parte sua, maggiormente conscio dell'avidità dei governanti e delle loro folli spese piuttosto che dei bisogni pubblici, mormora nel vedersi spogliare del necessario per fornire ad altri il superfluo; e una volta inasprito da questi maneggi, arrivati a un dato limite non vi sarà amministrazione, per integra che sia, che possa ristabilire la fiducia. A questo punto, se i contributi sono volontari, non approdano

a nulla;

se sono

obbligatori,

sono

illegittimi; ed è proprio in questa crudele alternativa di lasciar morire lo Stato o inficiare il sacro diritto della proprietà, che ne è il sostegno, che consiste la difficoltà di un'economia saggia e giusta. La prima cosa da farsi, da parte di chi instaura una repubblica, subito dopo aver istituito le leggi, è di reperire fondi sufficienti per il mantenimento dei magistrati e degli altri ufficiali e per tutte le spese pubbliche. Questo fondo si chiama deratium o fisco se è in denaro; demanio pubblico, se è in terre,

e quest'ultimo è assai preferibile all’altro per ragioni facilmente intuibili. Chiunque si sarà soffermato abbastanza a lungo sulla questione, non potrà discordare su questo punto da Bodin, che considera il demanio pubblico come il mezzo più onesto e più sicuro per provvedere ai bisogni dello Stato 2; e va segnalato che Romolo, nella divisione delle terre, si preoccupò prima di tutto di destinarne un terzo a questo uso.

DISCORSO

114

Devo ammettere che può accadere che, se male amministrata, la produzione del demanio può anche essere nulla; ma non è nella natura del demanio l’essere male amministrato. Prima di venir impiegato, questo fondo deve essere assegnato o accettato dall’assemblea popolare o degli stati del paese, che deve in seguito stabilirne l'utilizzazione. Dopo questa cerimonia, che

rende

inalienabili

tali

fondi,

essi,

per così dire, cambiano natura, e i loro redditi diventano talmente sacri che lo stornarne anche una minima parte a scapito della loro destinazione diventa non soltanto il più infame dei furti, ma un crimine di lesa maestà. È un grande disonore per Roma che si sia ritenuto necessario segnalare l'integrità del questore Catone e che un imperatore, che aveva ricompensato con qualche scudo il talento di un cantante, avesse sentito il bisogno di precisare che quel denaro proveniva dai beni di famiglia e non da quelli dello Stato. Ma se pochi sono i Galba, dove si trovano i Catoni? E una volta che i vizi non costituiscono più un disonore, quali potranno essere i capi così scrupolosi da astenersi dall’intaccare le entrate pubbliche abbandonate alla loro discrezione e da non ingannare ben presto anche se stessi,

facendo

finta

di

confondere

le loro

vane e scandalose dissipazioni con la gloria dello Stato e i mezzi per estendere la propria autorità con quelli per aumentare la sua potenza? È soprattutto per quanto riguarda questa parte delicata dell’amministrazione che la virtù è il solo efficace strumento e che l'integrità del magistrato è il solo freno

in grado

di contenere

la sua

avidi-

tà. I libri e tutti i conti degli amministratori servono più a nascondere che a svelare i loro imbrogli; e la prudenza non è mai in grado di escogitare prontamente precauzioni che i mascalzoni non sappiano eludere. Lasciate dunque i registri e le carte, e rimettete le finanze

in mani

fedeli;

è il solo

mo-

do perché vengano amministrate onestamente. Una volta istituiti i fondi pubblici,

SULL'ECONOMIA

POLITICA

chi è a capo dello Stato ne è per diritto l'amministratore, perché questa amministrazione fa parte del governo, sempre essenziale, anche se non sempre in egual misura: la sua influen: za aumenta col diminuire di quella delle altre competenze; e si può dire che un governo ha toccato il fondo della corruzione, quando non ha altro nerbo che il denaro; ora, dal momento che ogni governo tende incessantemente a indebolirsi, basta questa sola ragione a dimostrare perché nessuno Stato può sopravvivere se le sue entrate non sono in continuo aumento. Al primo sentore della necessità di questo

aumento,

si

è

anche

al

primo

segno del disordine interno dello Stato: e il saggio amministratore, pur cercando di provvedere al bisogno presente,

non

trascura

di

ricercare

la cau-

sa prima di questo nuovo bisogno: così come fa un marinaio che, quando vede che l’acqua inonda la sua imbarcazione, mentre fa azionare le pompe non dimentica di cercare la falla e di tapparla. È da questa regola che discende la massima più importante dell'amministrazione delle finanze, che è quella di lavorare con molta più attenzione alla prevenzione dei bisogni piuttosto che all'aumento delle entrate; e per quanto ci si adoperi con diligente cura, il soccorso che segue al male, e che giunge sempre più lentamente

di esso, lascia sempre

lo

Stato in una condizione di disagio: mentre ci si dà da fare per porre rimedio a un inconveniente, già uno nuovo si fa sentire e gli stessi rimedi ne producono di nuovi; cosicché alla fine la nazione viene oberata, il popolo viene oppresso e il governo perde ogni vigore e fa ben poca cosa con molto denaro. Per me è da questa massima profondamente radicata che provenivano i prodigi dei governi degli antichi, che facevano di più con la loro parsimonia che i nostri con tutti i loro tesori; «ed è forse da questo che deriva l’accezione volgare della parola eco nomia, intesa più come saggia ammi nistrazione di ciò che uno possiede chè

DISCORSO

SULL'ECONOMIA

tori,

se

si

fosse

sufficientemente

a co-

noscenza di tutta la forza dell'amministrazione generale, soprattutto quando si limita ai mezzi legittimi, saremmo stupiti dalla quantità di risorse che hanno i capi per prevenire tutti i bisogni pubblici, senza intaccare i beni privati. Poiché sono i padroni di tutto il commercio nazionale, per loro niente è più facile di dirigerlo in maniera tale da provvedere a tutto, spesso senza avere l'aria di impicciarsene. La distribuzione

delle

derrate,

merci in giuste del tempo e del to delle finanze ricchezze, sempre ministrano siano miranti

da

del

denaro,

delle

proporzioni, a seconda luogo, è il vero segree la fonte delle loro che coloro che le amsufficientemente lungi-

incorrere,

all’occortenza,

in

una perdita apparente e immediata in vista di profitti immensi e reali in un futuro più remoto. Quando si vede un governo pagare dei dazi, invece di riceverne, per l'esportazione del grano nelle annate di abbondanza e per la sua importazione negli anni di carestia, bisogna proprio che questi fatti avvengano sotto i nostri occhi perché vi si possa credere, perché li classificheremmo come leggende, se fossero avvenuti in tempi antichi. Se, per ipotesi, si proponesse,

per prevenire

la carestia ne-

gli anni difficili, di istituire magazzini pubblici ?, in quanti paesi un’istituzione così utile non diventerebbe pretesto per nuove imposte? A Ginevra questi granai, istituiti e mantenuti da una saggia amministrazione, fungono da risorsa pubblica nelle annate cattive e da principale fonte di reddito per lo Stato in

tutti

i tempi;

Ali

et ditat,

115

POLITICA

come mezzo per procacciarsi ciò che non si ha. Indipendentemente dal demanio pubblico, che rende allo Stato in proporzione dell'onestà dei suoi amministra-

è la

bella e giusta iscrizione che si legge sulla facciata dell'edificio. Per spiegare in queste pagine il sistema economico di un buon governo, ho spesso rivolto lo sguardo verso il governo di questa repubblica: felice di trovare in questo modo, nella mia patria, l'esempio del.

la saggezza e della felicità che vorrei veder regnare in ogni paese. Se si prende in esame in che manieta

aumentino

i

bisogni

di

uno

Stato,

ci si renderà conto che spesso ciò avviene più o meno nella stessa maniera in cui avviene per i privati, più per un incremento di desideri inutili che per vera necessità e che spesso la spesa non viene aumentata che per avere un

pretesto

co,



per

aumentare

le

entrate;

cosicché lo Stato finirebbe talvolta col guadagnarci se rinunziasse all’esser ricquesta

apparente

ricchezza

gli

è

in fondo più onerosa di quanto non sarebbe la stessa povertà. È vero che si può sperare di tenere i popoli in uno stato di più stretta dipendenza, dandogli con una mano ciò che gli è stato preso con l’altra; e tale è stata la politica utilizzata da Giuseppe cogli Egiziani;

ma

questo

è

un

vano

sofisma,

tanto più dannoso per lo Stato in quanto il denaro non rientra più attraverso

le

stesse

mani

da

cui

è uscito,

e

movente

non

con

principi del genere non si fa che arricchire fannulloni a spese di uomini utili. Il piacere della conquista è una delle cause più evidenti e più pericolose di questo incremento. Questo piacere, spesso generato da un'ambizione di specie differente da quella che pare preannunciare, non è sempre ciò che sembraessere,

e

il

suo

vero

è

tanto il desiderio apparente di ingrandire la nazione quanto quello nascosto di aumentare all’interno il potere dei capi, coll'ausilio di truppe potenziate e approfittando del diversivo offerto dagli obiettivi guerreschi nelle menti dei cittadini. Se c'è un punto, almeno, su cui non vi sono dubbi, è che non c'è niente di

così miserabile e oppresso dei popoli conquistatori e che i loro successi non fanno che aumentare la loro miseria: quand’anche non ce l’insegnasse la storia, la ragione stessa sarebbe in grado di dimostrarci che più uno Stato è grande e più le spese diventano in proporzione forti e onerose; perché è necessario che tutte le province fornisca-

116

DISCORSO

no il loro contributo alle spese dell’amministrazione generale e che ognuna, oltre a questo, faccia per la propria una spesa pari a quella che dovrebbe sostenere se fosse indipendente. A ciò va aggiunto che tutte le fortune vengono acquisite in un luogo e consumate in un altro; e ciò rompe assai presto l’equilibrio tra prodotto e consumo e impoverisce molti paesi per arricchire una sola città. Altro motivo di aumento delle necessità pubbliche che è collegato al precedente: a un certo momento si può arrivare al punto in cui i cittadini, non sentendosi più interessati alla causa comune, porrebbero fine al loro ruolo di difensori della patria e in cui i magistrati preferirebbero comandare a mercenari piuttosto che a uomini liberi, non foss'altro che per utilizzare a tempo e luogo i primi per assoggettare meglio gli altri. Così fu lo Stato romano alla fine della repubblica e sotto l'impero;

ché tutte le vittorie dei primi

Ro-

mani, al pari di quelle di Alessandro, furono riportate da coraggiosi cittadini, che all'occorrenza sapevano spargere il loro sangue per la patria, ma che maî lo avrebbero venduto. Mario fu il primo che portò il disonore nelle legioni quando, nella guerra contro Giugurta, vi introdusse liberti, vagabondi e altri mercenari.

I

tiranni,

divenuti

i nemici

dei popoli, della cui felicità si erano assunti l'impegno, istituirono truppe regolari, in apparenza come freno ai popoli stranieri, ma in realtà come strumento di oppressione per i cittadini . Per formare queste truppe, si rese necessario sottrarre. braccia alla terra, col risultato di una diminuita qualità delle derrate e di un'introduzione di nuove tasse per il loro mantenimento col conseguente aumento di prezzi. Questo primo disordine provocò tra i popoli lo scontento: per reprimerlo fu necessario moltiplicare le truppe e di conseguenza Îa miseria crebbe; e più aumentava il malcontento e più si era costretti ad accrescerla per prevenirne gli effetti. D'altra parte questi mercenari, a cui si deve una stima propor-

SULL'ECONOMIA

POLITICA

zionale al prezzo con cui si vendevano, fieri del loro stato di degradazione, pieni di disprezzo verso quelle stesse leggi che li proteggevano e verso i loro confratelli del cui pane si nutrivano, si credettero più onorati col loro ruolo di satelliti di Cesare che con quello di difensori di Roma; e votati a una cieca obbedienza, tenevano permanentemente il pugnale sollevato sui loro concittadini, pronti a sgozzarli tutti al primo segnale. Non vi sarebbe al. cuna difficoltà a dimostrare che questa fu una delle cause principali della rovina dell’impero romano. L'invenzione dell’artiglieria e delle fortificazioni ha costretto, al giorno d'oggi, i sovrani europei a ristabilire l’uso delle truppe regolari per mantenere le proprie posizioni; ma per motivi più che legittimi si deve temere che l'effetto non sia ugualmente dannoso. Bisognerà ugualmente ricorrere allo spopolamento delle campagne per provvedere agli eserciti e alle guarnigioni; per mantenerle non sarà meno necessario gravare sui popoli; e queste pericolose istituzioni si moltiplicano, da un po’ di tempo, con una tale rapidità sotto ogni nostro clima da far prevedere un prossimo spopolamento dell'Europa, e prima o poi la rovina dei popoli che vi abitano. Comunque sia, ci si deve render conto che istituzioni del genere sconvolgono necessariamente il vero sistema economico,

che

trae

il

principale

reddito

dello Stato dal demanio pubblico, e che esse non lasciano che l’incresciosa risorsa dei sussidi e delle imposte, di cui mi rimane da parlare. Va qui ricordato che il fondamento del patto sociale è la proprietà e la sua condizione prima è che ognuno venga mantenuto nel pacifico godimento di ciò che gli appartiene 5. È pur vero che, sempre per lo stesso contratto, ognuno è obbligato, almeno tacitamente, a tassarsi in caso di bisogni pubblici; ma poiché quest'impegno non può nuocere alla legge fondamentale e poiché si suppone che l’evidenza della necessità venga riconosciuta dai contribuenti, è chiaro che questa tassazione, per essere le-

DISCORSO gittima,

SULL'ECONOMIA

deve

essere

volontaria,

non

di

una volontà particolare, come se fosse necessario il consenso di ogni cittadino, per cui questi non dovesse fornire che ciò che desidera,

tamente

derazione,

contro ma

il che

andrebbe

lo spirito

di una

della

volontà

diret-

confe-

generale,

con una pluralità di voti, e su una tariffa proporzionale che non lascia alcunché di arbitrario nell’imposizione %. Questa verità, che le imposte acquisiscono il carattere di legittimità soltanto mediante il consenso popolare o dei suoi rappresentanti, è stata universal mente riconosciuta da tutti i filosofi e giureconsulti che si sono fatti un certo nome nelle materie del diritto pubblico, compreso lo stesso Bodin?. Se alcuni di loro hanno elaborato massime apparentemente in contrasto, a parte che i motivi particolari che ve li hanno tante

strizioni, che

biano; il

di

infatti,

diritto,

è

quelle

in fondo

del

per

sono

di

due

tutto

possiede dieci

vol-

sa di chi ha del superfluo può coinvol-

quel

tutto

che

e recam-

riguarda

indifferente

che

tipi:

gli

uni,

reali,

il prodotto

di

una

tassa,

allora si chiama imposta. Nel libro Lo spirito delle leggi si legge che l’imposta individuale è più adatta alla schiavitù mentre la tassa reale si addice meglio alla libertà 28. Questo sarebbe inequivocabile se i contingenti da pagarsi singolarmente fossero eguali per tutti; ché non vi sarebbe nulla di più spropotzionato di una tassa del genere mentre è soprattutto nella precisa osservanza delle proporzioni che consiste lo spirito della libertà. Ma la tassa individuale è proporzionata

cui, a parità, chi

le cose non

che vengono percepiti sulle cose; gli altri, personali, che si pagano individual. mente. Sia agli uni che agli altri viene dato il nome di imposte o di sussidi: quando è il popolo a fissare la quota da accordare, si chiama sussidio; quando accorda

do

intuibili, vi pon-

condizioni

il popolo possa rifiutare o che il sovrano non debba esigere; e che se non si tratta che di forza, è perfettamente inutile prendere in esame ciò che è legittimo e ciò che non lo è. I contributi che si richiedono al popolo

dei singoli privati, come potrebbe essere in Francia quella che ha il nome di cupi tazione, e che in questa maniera è reale e insieme personale; è la più equa e di conseguenza quella che più si confà a uomini liberi. Dapprincipio sembra molto facile attenersi a queste proporzioni, perché essendo in rapporto alla condizione che ciascuno occupa nel mondo, le indicazioni sono sempre pubbliche; ma, a parte che l’avarizia, il credito e la frode riescono a eludere perfino l’evidenza, è raro che nei calcoli si tenga conto di tutti gli elementi che devono entrarvi. Prima di tutto bisogna considerare il rapporto delle quantità, seconte più di un altro deve anche pagare dieci volte tanto. In secondo luogo, il rapporto delle utilizzazioni, cioè la distinzione tra il necessario e il superfluo. Chi non ha che lo stretto neces-

portati sono facilmente

gono

117

POLITICA

esattamente

ai mezzi

sario, non

deve

pagare

alcunché;

la tas-

gere, all'occorrenza, tutto ciò che è in eccedenza al necessario. Questi contro-

batterà che, per riguardo al proprio rango, ciò che sarebbe superfluo per un uomo appartenente a una classe inferiore, è per lui di prima necessità; ma ciò è falso; ché una persona altolocata ha due gambe né più né meno di un bifolco ed è dotato di un solo ventre come lui. Inoltre ciò che egli pretende come necessario lo è così poco che se fosse in grado di rinunciarvi per una causa degna non ne riceverebbe che un maggior rispetto. Il popolo si prosternerebbe di fronte a un ministro che si recasse a piedi al consiglio, avendo venduto le sue carrozze per sopperire a un urgente bisogno della nazione. Alla fin fine poi la legge non prescrive a nessuno la magnificenza, e il benessere non rappresenta mai una ragione valida in contrasto col diritto. Un terzo rapporto, che nessuno prende mai in considerazione e che invece meriterebbe

la

precedenza

assoluta,

quello dei vantaggi offerti a dalla confederazione sociale, tegge considerevolmente gli possedimenti dei ricchi e a

è

ciascuno che prosmisurati malapena

118

DISCORSO

permette che un povero disgraziato si goda la capanna costruita colle sue stesse mani ??. Tutti i vantaggi della società non sono forse per i potenti e per i ricchi? Tutte le occupazioni lucrative non sono forse in mano loro? Tutte le

grazie,

ogni

esenzione,

non

a loro uso esclusivo? blica

non

assume

sono

forse

E l’autorità pub-

forse

sempre

un

at-

teggiamento favorevole nei loro confronti? Non è forse vero che un uomo che goda di una certa considerazione, sia che derubi i suoi creditori sia che si macchi di qualche altra bricconata, ha l’impunità assicurata? Le bastonate che

dì, le violenze

che

commette,

i de-

litti stessi e gli omicidi di cui si macchia non sono forse dei fatti che vengono messi a tacere e di cui dopo sei mesi non se ne parla nemmeno più? Se invece

questo

stesso

uomo

viene

deru-

bato, la polizia intera si mette in movimento, e guai a quegli innocenti su cui cade il suo sospetto! Se poi deve attraversare un luogo malfamato, ecco pronte delle scorte che lo accompagnino. Si rompe l’asse della sua carrozza? Da ogni parte si accorre in suo aiuto. Si fa del chiasso davanti alla sua porta? Basta una sola parola e tutto tace. La folla gli dà noia? Basta un suo segno e tutto rientra nell’ordine. Un carrettiere gl'ingombra il passaggio? I suoi sono pronti a farlo fuori; e cinquanta onesti pedoni diretti al loro lavoro rischiano di venir travolti piuttosto che un ozioso mascalzone qualsiasi nella sua carrozza signorile non debba subire ritardi. Tutti questi riguardi non gli costano un bel nulla; fanno parte dei diritti dell'uomo riceo e non del prezzo della ricchezza. Com'è differente la situazione del povero! Più l'umanità gli è debitrice, più la società gli rifiuta: tutte le porte gli sono chiuse, anche quando è in diritto di farsele aprire; e se talvolta ottiene giustizia la ottiene con più fatica con cui un altro otterrebbe la grazia; se vi sono da fare corvées o milizie da radunare, è sempre a lui che

viene

accordata

la

preferenza;

è

sempre costretto ad addossarsi oltre ai suoi pesi anche quelli del suo vicino,

SULL’ECONOMIA

che,

essendo

più

ricco,

lui;

se

rovescia

il

POLITICA

è

in

grado

di

farsene esentare; alla prima disgrazia che lo colpisce, tutti si allontanano da si

suo

misero

car-

retto, non solo è ben lungi dal ricevere aiuto da qualcuno, ma deve reputarsi fortunato se riesce a sfuggire ai soprusi del seguito manesco del giovane duca;

in breve,

nel

momento

del

biso-

gno, l’assistenza gratuita svanisce proprio perché non ha di che pagarla; ma io lo considero un uomo morto se ha la

ventura

di

avere

un'anima

onesta,

una figlia graziosa e un vicino potente. Un altro punto non meno importante da prendere in esame è che alle perdite subite dai poveri è molto più difficile porre rimedio che a quelle dei ricchi,

e

nulla

non

che

la

difficoltà

di

accrescere

i propri beni aumenta sempre in proporzione delle proprie necessità. Col si combina

nulla;

nelle

del

ciò vale sia

negli affari che in fisica: il denaro è il seme del denaro e talvolta è più difficile guadagnare il primo baiocco piuttosto che il secondo milione. Dirò di più: tutto ciò che viene pagato dal povero è a fondo perduto, e rimane o ritorna

me ste che sono

mani

ricco;

e sicco-

prima o poi il gettito delle impopassa tra le mani dei soli uomini sono al governo o di coloro che.vi vicini, essi, anche pagando il loro

contingente,

hanno

ogni

interesse

ad

aumentarle. Riassumiamo in poche parole il patto sociale dei due stati: Tu bai bisogno di me perché io sono ricco mentre tu sei povero; facciamo dunque un accordo tra di noi: io ti concedo l'onore di

servirmi,

ma

a condizione

di conse-

quarmi quel po’ che ti resta, per ripagarmi della fatica che mi costerà il darti degli ordini”. Se si prendono attentamente in esame tutti questi elementi, si arriverà alla conclusione che se si vuole ripartire le tasse in maniera veramente equa e proporzionata, l’imposta non deve essere soltanto rapportata ai beni dei contribuenti,

ma

deve

essere

calcolata

sul

rapporto combinato tra la differenza delle loro condizioni e il superfluo dei

DISCORSO

SULL'ECONOMIA

rezza,

il

che

non

impedisce

che

vada

soggetta a molte evasioni, dal momento che è più facile nascondere al registro e alle citazioni i propri possedimenti che la propria persona. Per quel che riguarda tutte le altre imposte,

il censo

sulle terre, o la taglia

reale, è sempre stato considerato come il più vantaggioso proprio in quei paesi in cui si presta maggiore attenzione alla quantità della produzione e alla sicurezza della riscossione piuttosto che al minimo segno di malessere del popolo. Si è anche arrivati a dire che bisognava gravare sul contadino per scrollarlo dalla pigrizia e che questo, se non pungolato dal pagamento da versare, non avrebbe fatto alcunché. Ma l'esperienza dimostra quanto falsa sia presso tutti i popoli questa ridicola massima: è proprio laddove il contadino deve pagare ben poco, vale a dire in Olanda e in Inghilterra, e soprattutto dove non paga affatto, vale a dire in Cina, che si ha la miglior coltivazione della terra. Mentre invece ovunque il coltivatore si veda tassato in proporzione alla produzione del suo campo, egli lo lascia in uno stato di abbandono e ne ricava soltanto

lo

stretto

paesi

cui

viene

necessario.

Poiché,

per colui che perde il frutto della sua fatica, il non far nulla equivale a un guadagno, e il multare il lavoro mi pare un modo ben strano di mettere al . bando la pigrizia. Dalla tassa sulle terre o sul grano, soprattutto se eccessiva, derivano due inconvenienti talmente gravi che alla lunga non possono non portare allo spopolamento e alla rovina di tutti quei in

istituita.

119

POLITICA

loro beni. Si tratta dunque di un'operazione importantissima e assai difficile, giornalmente effettuata dalla brava gente che ne è incaricata e che conosce l’aritmetica ma di cui un Platone e un Montesquieu non avrebbero osato assumersene la responsabilità senza tremare e senza impetrare dal cielo lumi e integrità. Uno degli inconvenienti della tassa personale sta nel fatto che la si sente troppo e viene imposta con troppa du-

Il primo inconveniente è da addebitarsi al difetto di circolazione monetaria,

dal

momento

che

il

commercio

e

l'industria attirano nella capitale, dalla campagna, tutto il denaro: e l'imposta, distruggendo l'eventuale proporzione ancora sussistente tra le necessità del coltivatore e il prezzo del grano, provoca che il denaro vada incessantemente in una sola direzione e senza possibilità di ritorno, col risultato che più la città diventa ricca più il paese diventa miserabile. Il gettito delle taglie passa dalle mani del principe o del finanziere in quelle degli artigiani e dei commercianti;

e il coltivatore,

che

non

ne riceve che un'infinitesirma parte, per il fatto che continua ugualmente a pagare mentre riceve sempre meno, finisce coll’esaurirsi. Ma come si può pensare che possa vivere un uomo in possesso delle sole vene e privo di arterie o le cui arterie non portino il sangue che a un palmo dal cuore? In Persia, secondo Chardin, i diritti regali sulle derrate vengono pagati lo stesso in derfate;

quest’uso,

di

cui

Erodoto

ci

te-

stimonia l’esistenza in questo paese fino a Dario, può prevenire il male di cui ho appena parlato. Ma a meno che in Persia gli intendenti, i direttori, i commessi e i magazzinieri appartengano a una specie umana differente dalle altre, ho molti dubbi sul fatto che al re possa arrivare anche la minima parte di tutti i prodotti e che il grano non si sia guastato nei granai, e che il fuoco non abbia distrutto la maggior parte dei magazzini. Il secondo inconveniente deriva da un apparente vantaggio, che lascia che i mali si aggravino prima che li si possa percepire; e cioè che il grano è un prodotto che le imposte non possono in alcun modo far rincarare nel paese produttore e di cui, malgrado la sua assoluta necessità, la quantità può diminuire senza che ne aumenti il prezzo; col risultato che c'è molta gente che muore di fame mentre il grano continua a essere a buon mercato e che sol. tanto chi ha lavorato la terra viene gravato dall’imposta che non ha potuto

DISCORSO

120

defalcare dal prezzo di vendita. Bisogna fare una grande attenzione a non scambiare la taglia effettiva coi diritti su ogni merce, diritti che ne fanno rialzare il prezzo e che in questa maniera vengono pagati non dai commercianti ma dagli acquirenti. Questi diritti infatti, per quanto elevati, sono pur sempre volontari e vengono pagati dal mercante in proporzione alle merci acquistate;

e

siccome

non

compra

che

in

rapporto al suo smercio, detta legge al privato. Ma il coltivatore, che venda o meno, è costretto a pagare a scadenze fisse per il terreno che coltiva e quindi non è neanche padrone di aspettare che alla sua produzione venga messo il prezzo che desidera e quand’anche non la vendesse per mantenersi sarebbe costretto a venderla per pagare

la

taglia,

di

modo

che

è

talvolta

l’enormità dell'imposta a mantenere il grano a prezzo infimo. Va notato che le risorse del commercio e dell'industria, ben lungi dall’alleviare la taglia mediante l'abbondanza

del

denaro,

non

fanno

che

ren-

derla più gravosa. Non vorrei soffermarmi oltre su un punto così evidente, cioè che se in uno Stato la maggiore o minore quantità di denaro può conferirgli più o meno prestigio all'estero, non altera minimamente l’effettiva situazione economica dei cittadini e li lascia così come li trova. Ma sono due i punti importanti da sottolineare: l'uno è che,

a meno

che

derrate superflue del denaro non

smercio

all'estero,

lo Stato

non

abbia

e che l'abbondanza derivi che dal loro le città dove

si svol-

ge il commercio sono le uniche a risentire di quest'abbondanza, mentre il contadino non fa che diventare, in rapporto, sempre più povero; l’altro è che, poiché con la moltiplicazione del denaro tutti i prezzi subiscono un rialzo, ne consegue anche che le imposte crescano proporzionalmente, di modo che il contadino si trova con più tasse senza avere a sua disposizione un incremento di risorse. Dev'essere chiaro che la taglia sulle terre è una vera imposta sul loro pro-

SULL'ECONOMIA

POLITICA

dotto. Pertanto tutti sono d'accordo nel considerare che non vi è niente di più pericoloso di un'imposta sul grano a carico del consumatore: ma come si fa a non rendersi conto che è mille volte peggio quando è il coltivatore stesso a pagare quest’imposta? Non è forse un attentato diretto alla sussistenza stessa dello Stato alla sua radice? Non è forse mirare il più direttamente possibile allo spopolamento del paese e di conseguenza, alla lunga, alla sua rovina? Ché,

per

un

paese,

non

vi

è

carestia

peggiore di quella di uomini. Fa parte dei compiti del vero uomo di Stato quello di spingere le proprie

vedute, in materja di imposte, al di là dell'obiettivo delle finanze, di trasfor-

mare cariche onerose in utili regolamenti civici e d’insinuare nel popolo la convinzione che scopo di queste istituzioni sia stato il bene della nazione piuttosto che l’'introito delle tasse. I diritti sull'importazione di merci provenienti dall’estero, di cui gli abitanti sono così avidi senza che il paese ne abbia bisogno, sull'esportazione dei prodotti locali di cui il paese non ne ha poi in grande eccedenza e di cui all'estero

non

crative,

sulle

produzioni

sanno

farne

di arti inutili entrate

a meno,

nelle

e troppo città

sulle

lu-

degli

oggetti ornamentali e in genere su tutti gli oggetti di lusso, raggiungeranno entrambi questi obiettivi. È mediante questo tipo di imposte, che alleviano la povertà e gravano sulle ricchezze, che si deve svolgere l'opera di prevenzione nei riguardi dell'aumento continuo dell’ineguaglianza delle fortune, dell’asservimento ai ricchi da parte di una quantità di operai e di servitori inutili, della moltiplicazione di gente oziosa nelle città e della diserzione delle campagne. È di vitale importanza stabilire tra il prezzo delle cose e i diritti di cui vengono tassate un rapporto tale da non rappresentare, per l'avidità dei sinpoli, uno scoperto invito alla frode mediante l’entità dei profitti. Bisogna anche prevenire l’agevolazione del contrabbando, preferendo particolarmente quel. le merci che siano difficilmente celabili.

DISCORSO

SULL'ECONOMIA

121

POLITICA

In conclusione, è meglio che a pagare le tasse sia chi si serve delle cose tassate piuttosto di chi le vende, il quale, data la quantità di imposte che si ritrova, si sentirebbe più tentato di frodarle, avendo anche a disposizione un maggior numero di mezzi. È questa l’usanza costantemente applicata in Cina, il paese in cui si hanno le tasse più forti e meglio pagate del mondo; il commerciante non paga nulla, solo chi compra paga questo dazio senza che ne conseguano petò mormorii e sedizioni; dal momento che, essendo le derrate vitali come il riso e il grano del tutto libere da ogni imposta, il popolo non viene affatto oppresso e l'imposta non ricade che sui benestanti. Del resto tutte queste precauzioni devono essere suggerite non tanto dalla paura del contrabbando quanto dalla cura con cui il governo deve immunizzare i singoli privati dalla seduzione dei profitti illegittimi, i quali, dopo averli resi dei cattivi cittadi-

spesa diverrà una nuova ragione per sostenerla. Fin quando ci saranno, i ricchi vorranno distinguersi dai poveri e lo Stato non potrà trovare un reddito meno gravoso né più sicuro che non sia determinato da questa distinzione. Per la stessa ragione l'industria non trarrebbe alcun danno da un assetto economico che arricchisse le finanze, desse nuovo impulso all'agricoltura, dando

disonesti. Che si istituiscano pure forti tasse sulla livrea, sugli equipaggiamenti, sugli specchi, lampadari e mobili, sulle

le conseguenze: o i ricchi rinunceranno alle loro spese superflue per non farne che di utili, che andranno a profitto dello Stato, col risultato che la base delle imposte avrà prodotto l’effetto pari a quello delle migliori leggi suntuarie e che le spese dello Stato diminuiranno insieme a quelle dei privati e che il fisco troverà nella diminuzione dell'esborso un compenso alla diminuzio-

ni, non

stoffe

tarderebbero

e le

dorature,

molto

sui

a farne dei

cortili

e giar-

dini dei palazzi, su ogni tipo di spettacolo, sulle professioni oziose come i buffoni, i cantanti, gli istrioni; in poche parole su tutta quella miriade di oggetti, strumenti di lusso, di divertimento e di ozio che colpiscono lo sguardo di tutti e che possono tanto meno venir nascosti in quanto la loro sola utilizzazione possibile è quella di mettersi in mostra e che perderebbero ogni senso se non lo facessero. Non si tema che questi prodotti siano arbitrari soltanto perché non sono di necessità assoluta: denoterebbe una ben scarsa conoscenza umana chi credesse che gli uomini,

una

volta

sedotti

dal

lusso,

vi

possano poi rinunciare; sono mille volte- più capaci di rinunciare al necessario, preferendo morire di fame piuttosto che di vergogna. Quando la vanità di un'ostentata opulenza trarrà profitto sia dal prezzo della cosa che dall'importo delle tasse, l'aumento della

sollievo

al contadino,

e ravvicinasse

im-

percettibilmente tutte le situazioni economiche a quella misura media su cui poggia la forza effettiva di uno Stato. Potrebbe

accadere,

sono

d'accordo,

che

le imposte contribuissero a far passare più rapidamente alcune mode; ma questo accadrebbe soltanto perché se ne creino altre sulle quali l’operaio potrebbe guadagnarci senza che il fisco debba perderci niente. In poche parole, se per ipotesi lo spirito del governo si orientasse a fare del superfluo la base

di tutte

ne dell'entrata:

le tasse, due

sarebbero

o, se i ricchi non

dimi-

nuiscono affatto le loro spese incontrollate, il fisco troverà negli introiti delle imposte le risorse che cercava per sopperire ai bisogni reali dello Stato. Nel primo caso, il fisco si arricchisce di tutta la spesa in meno che deve fare; nel secondo si arricchisce vieppiù della spesa inutile dei privati. A tutto ciò va aggiunta questa importante distinzione in materia di diritto pubblico, a cui i governi, gelosi di far tutto da soli, dovrebbero prestare grande attenzione. Ho già detto che le tasse personali e le imposte sui generi di prima necessità, poiché intaccano direttamente il diritto di proprietà e di conseguenza il vero fondamento

DISCORSO

122 della società politica, sono gette

a

conseguenze

sempre

pericolose,

se

sognon

vengono istituite con l'espresso consenso del popolo o dei suoi rappresentanti. Ciò non vale per i dazi sui generi il cui uso può essere impedito; ché allora il privato, non essendo obbligato a pagare, il suo contributo può passare per volontario; in maniera che il singolo consenso di ogni contribuente sostituisce il consenso generale e in un qual che modo lo suppone: infatti, perché il popolo si dovrebbe opporre a tutte quelle imposte che non ricadrebbero che su chi è ben disposto a pagarle? Non ho dubbi che tutto ciò che non è prescritto dalle leggi né è contrario ai costumi e che il governo può vietare, lo può anche permettere purché sia sottoposto a un dazio. Se, per esempio, il governo può proibire l’uso del-

SULL'ECONOMIA

POLITICA

le carrozze, a maggior ragione può imporre una tassa su di esse, mezzo saggio e utile per condannare l’uso senza che questo cessi. A questo punto la tassa può essere considerata una specie di multa, il cui provento risarcisce l'abuso che punisce. Qualcuno potrà muovermi forse quest'obiezione: che coloro chiamati da Bodin impostori ?!, vale a dire coloro che impongono o escogitano tasse, appartenendo alla classe dei ricchi, si guarderanno bene dal risparmiare gli altri a proprie spese tassando se stessi per alleviare i poveri. Ma bisogna respingere idec del genere. Se in ogni nazione coloro a cui il sovrano affida il governo del popolo ne fossero nemici per definizione, non varrebbe più la pena di ricercare cosa devono fare per renderlo felice.

LETTERA DI J.-J. ROUSSEAU A VOLTAIRE 18

agosto

TRADUZIONE

DI

1756 EMILIO

RENZI

I vostri ultimi poemi,

Signore,

mi so-

no giunti nell’isolamento in cui attualmente vivo !; e per quanto tutti i miei amici conoscano l'amore che ho per le vostre opere, ignoro chi possa avermele mandate,

to voi

piacevoli

a meno

stesso. ma

anche

riconosciuto la do di dovervi al tempo stesso te. Non vi dirò so buono

Le

ho

che

non

siate

trovate

istruttive,

non

sta-

e vi

solo ho

mano del maestro. Creringraziare dell’opera e dell'esempio che mi dache tutto mi sia appar-

nella stessa misura;

ma

le co-

se che non mi trovano d'accordo finiscono anzi coll'impormi una confidenza ancora maggiore di quelle che mi avvincono, Talvolta non mi è facile difendere la mia ragione dalla seduzione della vostra poesia; ma proprio per rendere più degna delle vostre opere la

mia

ammirazione,

cerco

di

non

am-

mirare in esse tutto. Farò di più, vi dirò francamente non le cose belle che mi è parso di avvertire in quei due poemi, compito che terrorizzerebbe la mia pigrizia, e nemmeno i difetti che forse persone più avvedute di me faranno notare, quanto piuttosto il disappunto che in questo momento turba il piacere che andavo provando di fronte al vostro insegnamento, e questo benché sia ancora sotto l'impressione di una prima lettura in cui il mio cuore ascoltava avidamente il vostro

amandovi

come

un fratello,

onorandovi come un maestro, lusingandomi infine che nelle mie intenzioni riconosceste la sincerità di un’anima ret-

ta, e nelle mie parole il tono di un amico della verità che parla a un filosofo. Del resto, tanto più il vostro secondo poema mi affascina, quanto più prendo apertamente posizione contro il primo. Infatti,

dal

momento

che

non

avete

timore a contrapporvi a voi stesso, perché dovrei io temere di condividere la vostra opinione? Sono obbligato a credere che non teniate molto a dei sentimenti che voi stesso riufitate in modo così reciso. Le mie critiche riguardano dunque solo il vostro poema sul terremoto di Lisbona, poiché da esso mi aspettavo risultati maggiormente degno di quel senso di umanità che appare avervelo ispirato. A Pope e a Leibnitz, che sostengono che tutto è bene, rimproverate di recare insulto ai nostri mali, e gonfiate a tal punto il quadro delle nostre afflizioni da renderne più aspro il pensiero. Invece di consolarmi come speravo, mi addolorate ancora di più. Si direbbe che temiate che io non capisca abbastanza quanto sono infelice,

e che

crediate,

inoltre,

di

tranquil-

lizzarmi dimostrandomi che tutto è male. Attenzione a non ingannarsi, Signore; accade esattamente il contrario di quanto vi proponete. Quell'ottimismo che stimate così crudele mi è invece di consolazione proprio in quei dolori che mi descrivete come insopportabili. Il poema di Pope? lenisce i miei mali e mi induce alla sopportazione, il vostro rende più aspre le mie pene, mi spinge a discorsi di recriminazione, e privandomi di tutto eccetto una vacil-

126

LETTERA

lante

zione.

speranza In

questa

mi

riduce

strana

alla

uomini

dispera-

contrapposizio-

ne che regna tra ciò che voi affermate e ciò che io provo, placate la perplessità che mi agita e ditemi, chi inganna il sentimento, e chi la ragione. « Sopporta, uomo, mi dicono Pope e Leibnitz. I tuoi mali sono un effetto necessario della tua natura e della costituzione di questo universo. L’Essere eterno e benefico che ti governa volle garantirtene. Fra tutte le possibili economie dell’universo, ha scelto quella che riuniva il male minore e il bene maggiore, ovvero (per dire la stessa cosa in termini ancora più crudi, se è necessario), se non ha fatto meglio, è per-

ché meglio non poteva fare ». Che cosa mi dice ora il vostro poema? « Soffri per sempre, infelice. Se è un Dio

che

ti

ha

creato,

senza

dubbio

è

onnipotente e avrebbe potuto prevenire tutti i tuoi mali; non sperare dunque mai che essi finiscano, giacché non si comprenderebbe perché tu esista se non per soffrire e per morire ». Ignoro che cosa una simile dottrina possa avere di più consolante dell’ottimismo e della stessa fatalità. Quanto a me, confesso che mi sembra ancora più crudele del manicheismo. Se l'imbarazzo sull'origine del male vi obbliga ad alterare qualcuna delle perfezioni di Dio, perché mai voler giustificare la sua potenza a spese della sua bontà? Se proprio bisogna scegliere tra due errori, preferisco ancora il primo. Voi non volete, Signore, che si consideri la vostra opera come poema contro la Provvidenza, e da parte mia mi guarderò bene dal chiamarla in questo modo, sebbene abbiate qualificato come libro contro il genere umano un mio scritto in cui difendevo la causa del genere umano contro se stesso 3. So che bisogna distinguere tra le intenzioni di uno scrittore e le conseguenze che si possono ricavare dalla sua dottrina. La legittima difesa di me stesso mi obbliga soltanto

vendo

era

a

farvi

le miserie

giustificabile,

osservare

umane,

e perfino

che,

il mio

descri-

scopo

lodevole,

a

«quel che credo, perché io mostravo agli

loro

A VOLTAIRE

come producevano

sciagure,

e

di

essi stessi le

conseguenza

come

potevano evitarle. Non vedo come si possa ricercare l'origine del male morale se non nell'uomo libero, progredito e di conseguenza corrotto; e quanto ai mali fisici, se il concetto di materia sensibile e insieme impassibile è, a parer mio, una contraddizione,

essi

sono

inevitabili

in

ogni sistema di cui l’uomo faccia parte. La questione non è dunque perché l’uomo

non

perché aver

sia

egli

perfettamente

esista?

dimostrato

che,

Inoltre,

eccetto

felice,

credo

la

ma

di

morte,

che non è quasi un male se non per i preparativi con cui la si fa precedere, la maggior parte dei nostri mali fisici sono ancora opera nostra. Per restare nel vostro tema, e cioè Lisbona, dovete, ad esempio, convenire che non era

stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il

disastro

sarebbe

stato

molto

minore,

e

forse non vi sarebbe stato. Tutti sarebbero fuggiti alla prima scossa, e il giorno dopo li si sarebbe visti a venti leghe dalla città, perfettamente allegri come se nulla fosse successo. Invece, sono dovuti restare, abbarbicarsi alle macerie, esporsi a nuove scosse, poiché

ciò che lasciavano valeva di più di quello che potevano portare via. Quanti infelici sono morti in quel disastro perché volevano afferrare i propri abiti, o i documenti, o il denaro? Si ignora forse che la vita di un individuo è diventata la sua parte meno importante, e che non vale quasi la pena di salvarla, quando tutto il resto è stato perduto? Voi avreste voluto (e chi non lo avrebbe?) che il terremoto fosse avvenuto

nel centro di un deserto piuttosto che a Lisbona. Possiamo ‘dubitare che non se ne verifichino così anche nei deserti? Ma non se ne parla affatto, perché non arrecano alcun male ai signori cittadini, gli unici uomini di cui teniamo conto: danneggiano poco anche gli animali e i selvaggi che sono dispersi

LETTERA

A VOLTAIRE

127

in luoghi ritirati, e che non temono il crollo dei tetti né il rogo delle tazioni. Ma che cosa significherebbe simile privilegio? Vorrebbe dire l'ordine del mondo deve cambiare condo

i

nostri

salti

d'umore,

che

né abiun che se-

la

natura dev’essere sottomessa alle nostre leggi e che, se vogliamo che essa non provochi un terremoto in un qual-

che

luogo,

non

abbiamo

che

da

edifi-

carvi una città? Vi sono avvenimenti che spesso ci colpiscono con maggiore o minore intensità a seconda degli aspetti sotto i quali li consideriamo, e che perdono molto dell’orrore che ispirano a prima vista, se ci decidiamo a esaminarli più da vicino. Ho imparato da Zadig‘, e la natura ogni giorno me lo conferma, che non

sempre

una

morte

rapida

è

un

male reale, e che talvolta può parere un bene relativo. Indubbiamente molti tra coloro che furono schiacciati sotto le macerie di Lisbona hanno evitato dolori più grandi; e nonostante quel che di toccante, e quasi di poetico, possa avere

una

simile

descrizione,

non

è ac-

certato che uno solo di quegli sventurati abbia sofferto più che se, come capita di solito, avesse tra lunghe angosce atteso quella morte che lo ha colto di sorpresa. Esiste forse fine più triste di quella di un moribondo subissato da attenzioni inutili, soffocato da

notaio

ed

eredi,

assassinato

nel

suo

letto dai medici a loro piacimento e al quale infine barbari preti fanno con arte assaporare la morte? Da parte mia, noto ovunque che i mali cui la natura ci assoggetta sono assai meno crudeli di quelli che le attribuiamo. Tuttavia, per quanto ingegno possiamo impiegare per aggravare le nostre miserie a forza di belle istituzioni, non siamo riusciti, sino ad ora, a perfezio-

narci al punto da renderci insopportabile la vita, e da farci preferire all'esistenza il nulla. Altrimenti lo scoraggiamento e la disperazione si sarebbero ben presto -impossessati della maggior parte di noi, e il genere umano non sarebbe sopravvissuto a lungo. Ora, se è meglio per noi esistere che non esiste

re, basterebbe questo a giustificare la nostra esistenza, anche se non ricevessimo alcun risarcimento dall'attesa dei mali

che

dobbiamo

soffrire,

e anche

se

questi mali fossero così grandi come li descrivete. Ma su quest’argomento è difficile trovare buona fede negli uomini,

e

buoni

ragionamenti

nei

filosofi,

giacché costoro, quando confrontano i beni e i mali, dimenticano sempre il dolce sentimento dell’esistenza, indipendentemente da ogni altra sensazione, mentre la vanagloria di disprezzare la morte spinge gli altri a calunniare la vita; suppergiù come quelle donne che, avendo una veste macchiata e delle forbici, preferiscono dei buchi a delle macchie. Come Erasmo, voi pensate che ben pochi sono coloro che vorrebbero rinascere alle stesse condizioni in cui sono vissuti;

ma c'è chi calerebbe di molto

il

prezzo della sua mercanzia, che pure è molto cara, se solo avesse una qualche speranza di concludere l'affare. Del resto chi debbo credere che abbiate consultato a questo riguardo? Dei ricchi, forse, sazi di falsi piaceri, ma ignari di quelli veri, sempre annoiati della vita,

ma sempre timorosi di perderla; o forse dei letterati, tra tutte le specie di uomini quelli più sedentari, e quindi i più infelici. Volete invece uomini migliori,

o

almeno

comunemente

ceri, uomini che per essere la ranza debbono essere ascoltati ferenza degli altri? Consultate sto borghese, dalla vita modesta quilla, senza mire né ambizioni;

più

sin-

maggioa preun onee tranun bra-

vo artigiano, che vive comodamente proprio

mestiere;

anche

un

terebbe

volentieri,

anche

in cambio

del

contadino,

non della Francia in cui si sostiene che bisogna farli morire di miseria per fare vivere noi, ma per esempio della regione in cui vivete, e in genere di ogni paese libero. Oso infatti affremare che non esiste forse nell'alto Vallese un solo alpigiano che sia scontento della sua vita quasi di automa, e che non accetdel

Paradiso, il patto di rinascere di continuo per vegetare per sempre in quel modo. Sono queste differenze a farmi

LETTERA

128 ritenere che spesso a renderci insopportabile la vita sia l'abuso che ne facciamo, e nutro molto meno stima per coloro che sono dispiaciuti di aver vissuto, che non per colui che con Catone può dire: Nec me vixisse poenitet, quoniam

ita vixi,

ut non

frustra me

natum

existimem 5. Nonostante ciò, il saggio può talvolta scomparire volontariamente senza lamenti né disperazione, quando natura o caso gli ingiungano con chiarezza che è l'ora di andare. Tuttavia, per come vanno di solito le cose, la vita, per quanto cosparsa di mali, non

galo;

è, tutto

e

male,

se

vivere

considerato,

non

sempre

lo è molto

un

cattivo

morire

di rado.

è

re-

un

I nostri diversi modi di pensare su tutti questi argomenti mi fanno capire il motivo per cui la maggior parte del. le vostre prove sono per me così poco convincenti. Non ignoro infatti con quale maggior facilità la ragione umana assuma lo stampo delle nostre opinioni che

non

quello

della

verità,

e che, tra

due uomini di parere contrario, ciò che uno ritiene dimostrato, per l’altro è spesso solo un sofisma. Quando, per esempio, criticate la catena degli esseri così ben descritta da Pope*, voi sostenete

che

non

è vero che, eliminando

un atomo dal mondo, questo non potrebbe sussistere. Citate al riguardo Crouzas?, e aggiungete poi che la natura non è soggetta né ad alcuna forma

sun pianeta si muove

va

assolutamente

ad alcuna misura definite; che nes-

secondo una cur-

regolare;

che

nessun

essere conosciuto possiede una configurazione precisamente matematica; che nessuna quantità precisa è richiesta per nessuna operazione; che la natura non agisce mai rigorosamente; che quindi non abbiamo alcun motivo per affermare che un atomo in meno sulla terra ne causerebbe la distruzione. Vi confesso che riguardo a tutto ciò rimango colpito più dal vigore dell’argomentazione che da quello del ragionamento, e che in questo caso mi abbandonerei con maggior fiducia alla vostra autorità piuttosto che alle vostre prove. Per quanto riguarda Crouzas, non ho

A VOLTAIRE

letto la sua opera contro Pope e non sarei forse in grado di comprenderla, ma quel che è sicuro è che non gli concederò

ciò che

ho contestato

a voi, e che

nutro scarsissima fiducia sia nelle sue prove sia nella sua autorità. Lungi dal pensare che la natura non sia affatto assoggettata alla precisione delle quantità e delle figure, ritengo al contrario che solo essa segua rigorosamente questa precisione, giacché è l'unica che sappia confrontare esattamente i fini e i mezzi, e commisurare la forza della resistenza. Quanto a quelle pretese irregolarità, possiamo dubitare che ognuna abbia la sua causa fisica? E non percepirla, basta per negare che esista? Quelle apparenti irregolarità derivano senza dubbio da alcune leggi che ignoriamo e che la natura segue tanto fedelmente quanto quelle che ci sono note, o da un qualche fattore che non percepiamo e la cui azione di ostacolo o di concorso possiede misure fisse in tutte le sue operazioni. Altrimenti bisognerebbe affermare che esistono azioni senza principio e effetti senza causa, il che ripugna a qualsiasi filosofia. Supponiamo due pesi in equilibrio, però di dimensioni diverse, e aggiungiamo al più piccolo la quantità per cui essi differiscono. O i due pesi permarranno ancora in equilibrio, e avremo una causa senza effetto, o l'equilibrio sarà rotto, e avremo un effetto senza causa. Ma se i pesi fossero di ferro, e al di sotto di uno dei due si nascondesse un minuscolo

pezzo

di

calamita,

la

preci-

sione della natura gli toglierebbe allora l'apparenza della precisione, e a furia di esattezza essa sembrerebbe esserne priva. Non esistono nel mondo fisico una configurazione, una operazione, una legge, cui non sia possibile applicare esempi simili a quello che ho avanzato sul problema del peso. Asserite che nessun essere conosciuto presenta una configurazione precisamente gnore,

matematica. Vi chiedo allora, Sise esiste una configurazione pos-

sibile che non lo sia, e se agli occhi della natura la curva più strana non sia tanto regolare quanto lo è ai nostri

LETTERA

129

A VOLTAIRE

un cerchio perfetto. Immagino del resto che, se un qualche corpo potesse avere quella apparente regolarità, non potrebbe essere che l'universo stesso, supponendo che sia pieno e delimitato; giacché le figure matematiche non sono che astrazioni e non hanno quindi relazione se non con se stesse, mentre tutte quelle dei corpi naturali sono relative ad altri corpi, e a movimenti che le modificano. Cosicché questo non proverebbe ancora nulla contro la precisione della natura, quand'anche fossimo d'accordo su ciò che intendete con la parola precisione. Distinguete tra gli avvenimenti che hanno degli effetti e quelli che non ne hanno. Dubito della fondatezza di questa distinzione. Ogni avvenimento mi sembra possedere necessariamente qualche

effetto

o

morale

o fisico,

o

misto,

il quale però non sempre viene percepito in quanto la successione degli avvenimenti è ancora più difficile da seguire di quella degli uomini. Siccome in generale non si devono ricercare effetti più notevoli degli avvenimenti che li producono, la minima dimensione delle cause fa sì che spesso l’esame sia ridicolo, benché gli effetti siano sicuri, e spesso inoltre numerosi effetti quasi impercettibili si riuniscano a produrre un avvenimento degno di nota. Considerate anche che questo effetto agisca al di fuori del corpo che lo produce. Così la polvere sollevata da una carrozza può non far nulla al movimento della vettura e influire invece su quello del mondo; ma dal momento che non esiste nulla di estraneo all'universo, tutto ciò che vi avviene agisce necessariamente sull'universo stesso. Così, i vostri esempi mi appaiono più ingegnosi che convincenti, e vedo mille plausibili ragioni perché forse non fosse indifferente per l'Europa che quel certo giorno l'erede di Borgogna fosse pettinata o spettinata, né per il destino di Roma che Cesare volgesse lo sguardo

a destra

o a sinistra

e sputas-

se da una parte o dall'altra, recandosi al Senato il giorno in cui lo giustiziarono. In breve, ricordandomi del gra-

nello

di

sabbia

citato

da

Pascal*,

con-

divido per certi aspetti l’opinione del vostro Bramino”; e, in qualsiasi modo si esaminino le cose, se non tutti gli avvenimenti generano effetti sensibili, mi sembra incontestabile che tutti ne abbiano di reali, di cui lo spirito umano perde facilmente il filo ma che la natura non confonde mai. Affermate che è dimostrato che i corpi celesti compiono la loro evoluzione nello spazio non resistente. Sicuramente era una stupenda cosa da dimostrare; ma secondo l’abitudine della gente semplice, ho scarsissima fiducia nelle dimostrazioni superiori alle mie capacità. Suppongo che per costruire quella dimostrazione si sarebbe dovuto all'in circa condurre questo ragionamento. Una data forza che agisce secondo una determinata legge deve imprimere agli astri un certo movimento in uno spazio non-resistente. Ora, il movimento degli astri è esattamente calcolato, quindi non esiste resistenza. Ma chi può sapere se non esiste forse un milione di altre leggi possibili, senza contare quella vera, in base alle quali i medesimi movimenti si spiegherebbero in un fluido ancor meglio che nel vuoto come spiega quella legge? L'’orrore del vuoto non ha per lungo tempo spiegato la maggior parte degli effetti più tardi attribuiti all’azione dell’aria? Poiché altre esperienze avevano poi distrutto

l'orrore del vuoto,

non

si è for-

se trovato che tutto era pieno? Non si è rimesso in vigore il vuoto in base a nuovi calcoli? Chi può assicurarci che un sistema ancora più esatto non lo distruggerà daccapo? Tralasciamo pure le innumerevoli difficoltà che i fisici focse avanzerebbero sulla natura della luce e degli spazi luminosi; ma pensate sul serio che Bayle! di cui ammiro quanto voi la scienza e la dirittura in fatto di opinioni, avrebbe trovato la vostra talmente dimostrata? In generale sembra che gli scettici tendano a contraddire se stessi non appena assumono un tono dogmatico, e che nell’uso della parola dimostrare dovreb-

LETTERA

130 bero essere più sobri di qualsiasi altro. Quando ci si vanta di non sapere nulla, il modo per essere creduto sta forse nell’asserire tante cosc? D'altronde, molto giustamente avete corretto il sistema di Pope osservando che tra le creature e il Creatore non esiste alcuna gradazione proporzionale, e che se la catena degli esseri creati mette capo a Dio è perché egli la regge, e non perché egli ne costituisce il termine. Quanto al bene del tutto, preferibi. le a quello della sua parte, ecco ciò che

mettete

in

bocca

all'uomo:

«Io,

essere pensante e senziente, debbo essere caro al mio signore quanto i pianeti, che probabilmente non sentono affatto ». Indubbiamente questo universo materiale non deve essere più caro al suo Autore di un solo essere che pensa e sente. Ma il sistema di questo universo,

che

produce,

conserva

e pet-

petua tutti gli esseri che pensano e sentono, gli deve essere più caro di uno solo di questi esseri. Può dunque, nonostante la sua bontà, o piuttosto gra-

zie alla sua bontà stessa, sacrificare qual-

cosa della felicità degli individui alla conservazione del tutto. Credo, spero di valere agli occhi di Dio più della massa di un pianeta; ma se i pianeti sono abitati, come è probabile, per quale motivo varrei ai suoi occhi di più di tutti gli abitanti di Saturno? Si ha un bel deridere queste idee; quel che è certo è che tutte le analogie sono a favore dell’esistenza di quella popolazione,

e

che

contro

non

vi

è

se

non

l'orgoglio umano. Ora, posto che quegli abitanti esistano, la conservazione dell'universo sembra possedere, per Dio stesso, una moralità che si moltiplica per il numero dei mondi abitati, Che il cadavere di un uomo finisca

col nutrire vermi, lupi o piante, non è, lo riconosco, un riscatto della morte di quell'uomo; ma se, nel sistema del-

l'universo, per la conservazione del gemere umano, è necessario che tra gli uomini, gli animali e i vegetali esista una circolazione di materia, allora il ma-

le particolare di un individuo contribui-

A VOLTAIRE

sce al bene generale. Muoio, sono man-

giato dai vermi, fratelli vivranno

ma i miei figli, i miei come sono vissuto io,

riamente

Codro,

e faccio, per tutti

pur l'ordine della natura e gli uomini, ciò che volonta-

fecero

i Fileni e mille altri parte degli uomini. Tornando,

Signore,

Curzio,

per

i Deci,

una

piccola

al sistema che voi

attaccate, credo che non si possa esaminarlo in modo adeguato senza distinguere accuratamente il male particolare, la cui esistenza nessuno filosofo ha mai negato, dal male generale, che l’ottimista nega. Non si tratta di sapere se qualcuno di noi soffre oppure no,

ma

se era

bene

che

l'universo

è

bene,

sarebbe

esi-

stesse e se nella costituzione dell'universo i nostri mali fossero inevitabili. Credo che l'aggiunta di un articolo renderebbe più esatta la proposizione: e invece

di

Tutto

forse

meglio dire: Il tutto è bene, o Tutto è bene per il tutto. Allora è evidente che nessuno potrebbe portare prove dirette né a favore né contro, giacché simili prove dipendono da una perfetta conoscenza della costituzione del mondo e dello scopo del suo Autore, e questa conoscenza è incontestabilmente superiore all'intelligenza umana. I veri principi dell'ottimismo non possono essere tratti né dalla proprietà della materia né

dalla

meccanica

dell'universo,

ma

unicamente per induzione dalle perfezioni di Dio che presiede a tutto. Cosicché non si prova l’esistenza di Dio mediante il sistema di Pope, bensì il sistema di Pope mediante l'esistenza di Dio; e il problema dell’origine del male è incontestabilmente derivato dal problema della Provvidenza. Se infatti nessuno di questi due problemi è stato trattato meglio dell'altro, il motivo sta nel fatto che si è sempre ragionato male

sulla

Provvidenza,

e che

ciò

che

si è detto d’assurdo su di essa ha notevolmente ingarbugliato tutti i corollari che era possibile dedurre da quel grande e consolante dogma. Primi a danneggiare la causa di Dio sono stati i preti e i bigotti, che non sopportano l'idea che tutto avvenga se-

LETTERA condo

A VOLTAIRE

l’ordine

pre intervenire avvenimenti

stabilito,

ma

la giustizia

puramente

131 fanno

di Dio

naturali;

sem-

per

e per

essere sicuri del fatto loro, puniscono e castigano i malvagi, approvano o premiano i buoni indifferentemente con beni o mali, a seconda dell’avvenimento. Ignoro, da parte mia, se si tratti

di una buona teologia, ma trovo che fondare indifferentemente sul pro o sul contro le prove della Provvidenza, e attribuirle in modo indiscriminato tutto ciò che avverrebbe ugualmente senza di essa, sia un cattivo modo di ragionare. I filosofi,

a loro

volta,

non

vedo

gridare

che

tutto

è

a

Dio,

come

dice

Seneca,

Cartouche

o

Cesare,

blemi

cose

modo modo

in

modo

dovrebbero relativo assoluto

nobis,

non

pensare

a

corretto,

habitan-

questi

sembra

essere

pro-

che

considerate

nell'ordine nell'ordine

le

in

fisico, e in morale, co-

avrem-

dimostra sino a che punto il problema della Provvidenza dipenda da quello

sem-

perduto, la

stodia del loro bagaglio ?!. Se un qualche caso tragico avesse fatto morire nell’infanzia

diversorium

di dedit. Se vogliamo

cu-

mi

quando hanno male ai denti, o che sono poveri, o che li hanno derubati, e accollare

Natura

sicché l'idea più alta che posso formarmi della Provvidenza è che ogni essere materiale sia conformato nel miglior modo possibile rispetto al tutto, e ogni essere intelligente e sensibile nel miglior modo possibile rispetto a se stesso. In altri termini, ciò significa che per chi sente la propria esistenza, è meglio esistere che non esistere. Ma questa regola bisogna applicarla alla durata totale di ogni essere sensibile, e non ad alcuni istanti particolari della

brano affatto più ragionevoli, quando li vedo prendersela con il Cielo per il fatto che non sono tranquilli, quando li

ne duole per una notte ma ride per tutti gli altri giorni di una preoccupa zione così secondaria. Commorandi enim

sua

durata,

quali

la vita

umana.

Il che

mo detto: quali delitti avevano commesso? Quei due briganti sono pure vissuti, e noi diciamo: perché averlì lasciati vivere? Al contrario, una persona credente dirà nel primo caso: Dio voleva punire il padre togliendogli il figlio; e nel secondo caso: Dio ha salvato il figlio per castigare il popolo. Così qualunque decisione che la natura abbia preso, la Provvidenza ha sempre ragione per i credenti e sempre torto per i filosofi. Può darsi che nell’ordine delle cose umane essa non abbia né torto né ragione, perché tutto dipende dalla legge comune, e non vi è eccezione per nessuno. C'è da credere che gli eventi particolari nulla siano quaggiù agli occhi del Signore dell'univer-

perfetto, è saggio, potente e giusto; se è saggio e potente, tutto è bene; se è giusto e potente, la mia anima è immortale; se la mia anima è immortale, trent'anni di vita sono nulla per me, e sono forse necessari al mantenimento dell'universo. Se mi si riconosce la prima asserzione, non si potranno mettere in

universale, che egli si accontenti di conservare i generi e le specie e di presiedere al tutto senza preoccuparsi del modo in cui ogni individuo spende questa breve vita. Un re saggio, che voglia che nel suo Stato ognuno viva felice, ha forse bisogno di informarsi se i luoghi di ritrovo sono buoni? Se non lo sono, il frequentatore se

non è affatto necessario discutere sulle sue conseguenze. Nessuno di noi due si trova in quest'ultimo caso. Niente di simile perlomeno posso dedurre, per quanto vi riguarda, leggendo la raccolta delle vostre opere, dato che la maggior parte di esse mi offre le idee più grandi, più dolci e più consolanti della divintà, e

so, che

la sua

Provvidenza

sia soltanto

dell'immortalità

dell'anima,

di Dio.

Se

Dio

esiste,

dubbio

le

susseguenti.

alla

quale

sono felice di credere pur sapendo che la ragione può dubitarne, e da quello dell’eternità delle pene alla quale né voi né io né alcuno che abbia una giusta idea di Dio crederà mai. Se riconduco questi molteplici problemi al loro principio comune, mi sembra che tutti dipendano dall'esistenza è perfetto;

Se

la

si

se è

nega,

LETTERA

132 io preferisco molto di più un cristiano della vostra specie che di quella della Sorbona. Quanto a me, vi confesserò ingenuamente che su questo argomento né i pro né i contro mi sembrano dimostrati dai lumi

della

delle

probabilità,

fonda

la

ragione,

sua

e

credenza

che ,se

l’ateo,

il

teista

in modo

ancor

unicamente

su

più impreciso, mi sembra fondare i suoi

solo su possibilità contrarie. Inoltre, le obiezioni, da una parte come dall’al-

tra, rimangono insolubili, giacché fanno perno su cose su cui gli uomini non possiedono alcuna vera idea. Convengo

con

tutto

ciò,

e

tuttavia

credo

in

Dio

così fermamente come non credo in nessuna altra verità, perché credere e non credere sono le cose che meno dipendono da me, perché lo stato di dubbio è troppo violento per il mio animo, perché quando la mia ragione oscilla, la mia fede non può restare a lungo sospesa e prende le decisioni senza il suo sussidio, perché infine mille motivi di preferenza mi attirano verso una teoria più ricca di consolazioni e aggiungono il conforto della speranza all'equilibrio della ragione. [Ricordo che ciò che più mi ha colpito in tutta la mia vita, a proposito dell'assetto fortuito dell'universo, è il ventunesimo

pensiero

filosofico !?, in cui

si dimostra, mediante le leggi dell’analisi delle probabilità, che quando il numero dei casi è infinito la difficoltà dell'avvenimento è sufficientemente compensata dal numero dei casi, e che di conseguenza lo spirito deve essere colpito più dalla durata ipotetica del caos che dalla nascita reale dell'universo. Supponendo che il movimento sia necessario, questa è la cosa più decisa detta a mio avviso sulla questione, e, per

quel che mi riguarda, dichiaro che non conosco una sia pur minima risposta che abbia senso comune, né vero, né falso, salvo a considerare

come

falso ciò

che non si può sapere, ossia che il movimento sia essenziale alla materia. Da un altro punto di vista, non so se si sia mai spiegata con il materialismo la generazione dei corpi organici e la per-

A VOLTAIRE

petuità degli elementi originari della vita; ma tra queste due posizioni esiste questa differenza, che sebbene ambedue mi sembrino ugualmente convincenti, s0lo l'ultima mi persuade. Quanto alla prima, se mi si dicesse che la Henriade! è stata composta gettando a caso una manciata di caratteri tipografici lo escluderei nel modo più assoluto. È più verosimile che siano le combinazioni del caso a condurre le cose piuttosto che io a credervi, e sento che esiste un punto in cui le impossibilità morali equivalgono per me a una certezza fisica. Mi si parli pure dell'eternità dei tempi: io non l'ho percorsa; dell’infinità dei casi: io non li ho contati; e la mia incredulità, poco filosofica quanto volete

voi, trionferà qui sulla dimostrazione stessa. Concedo che ciò che a questo riguardo io chiamo prova del sentimento venga definito pregiudizio, e questa caparbietà di giudizio non la spaccio come un modello. Ma, con una buona fede forse senza confronti, la sostengo came una insopprimibile tendenza del mio animo, che mai nulla potrà contrastare,

di cui

sinora

non

ho

da

dolermi,

e che non si può attaccare se non con crudeltà].

Ecco dunque una verità da cui ambedue prendiamo le mosse, appoggiandosi alla quale voi sentite quanto è facile difendere l'ottimismo e giustificare

la Provvidenza,

e non

sta a voi

ri-

petere i ragionamenti, scontati ma solidi, così spesso fatti sull'argomento. Nei confronti dei filosof che non sono d’accordo sul principio, non bisogna disputare con essi su queste materie, perché quel che per noi è solo una prova del sentimento, per loro non può diventare una dimostrazione, e perché dire a un uomo «Dovete credere a questo perché io lo credo » non è un discorso ragionevole. Dal canto loro, essi non devono disputare con noi su queste stesse materie, giacché sono soltanto corolla. ri della proposizione principale che a malapena un avversario onesto osa opporre loro e perché a loro volta essi avrebbero torto se esigessero la prova del corollario indipendentemente dalla

LETTERA

133

A VOLTAIRE

proposizione che ne costituisce il fondamento. Anche per un’altra ragione penso che non dovrebbero disputare, e cioè perché è in certa misura disumano turbare gli animi tranquilli e sconvolgere gli uomini senza alcun profitto, quando ciò che si vuole insegnare loro non è né certo né utile. In una parola, penso che, stando al vostro esempio, non si dovrebbe attaccare troppo vigorosamente la superstizione che turba la società, così come rispettare troppo la religione che la sostiene. Ma sono indignato quanto lo siete voi del fatto che la fede di ciascuno non si esplichi nella più perfetta libertà, e che

l’uomo

abbia

l’ardire

di con-

trollare l’intimo delle coscienze in cui non deve penetrare, quasi che dipendesse da noi credere o non credere in materie in cui la dimostrazione non ha ragion d'essere, e quasi che fosse mai possibile asservire la ragione all’autorità. I re di

questo

mondo

possono

dunque

to ai diritti civili, e nonostante

ciò che

intromettersi nell’altro? il diritto di tormentare sudditi per costringerli Paradiso? Nient’affatto, umano è per sua stessa

E hanno forse quaggiù i loro ad andare in ogni governo natura limita-

ha potuto dire il sofista Hobbes, quando una persona serve bene lo Stato, non deve rendere conto a nessuno del modo in cui serve Dio. Ignoro se questo Essere giusto punirà un giorno i soprusi tirannici esercitati in suo nome. Quanto meno, sono certo

che

rifiuterà credente na fede. offendere

non

li

condividerà,

e che

non

la felicità eterna ad alcun non che sia stato virtuoso e in buoCome potrei dubitare, senza la sua bontà e persino la sua

giustizia, che un animo onesto non riscatti un errore involontario, e che co-

stumi irreprensibili non valgano mille culti bizzarri prescritti dagli uomini e che la ragione respinge? Ma dirò di più: se, a mia scelta, potessi a spese della fede acquisire dei meriti, e grazie alla virtù potessi compensare la mia supposta incredulità, non esiterei un attimo, « Senza

e preferire poter dire pensare a te ho fatto

a Dio: il bene

che

ti è caro,

e il mio

vo,

e non

cessato

cuore

ha

asse-

condato la tua volontà pur non conoscendola », piuttosto che dirgli, come un giorno dovrò fare: « Ahimè; ti amaho

ho conosciuto per piacerti ». Esiste,

lo

e

non

di

riconosco,

ho

offenderti;

fatto

una

ti

nulla

specie

di

professione di fede che le leggi possono imporre; ma al di fuori dei principi della morale e del diritto naturale, non può che essere puramente negativa, giacché possono esservi religioni che attaccano i fondamenti della società, e per assicurare la pace dello Stato bisogna cominciare con la liquida. zione di quelle religioni. Tra questi dogmi che vanno proscritti, il più odioso è

senza

dubbio

l’intolleranza,

ma

bi-

li bandirei

non

bandite

tutte

sogna combatterlo fin dall'origine, poiché i fanatici più sanguinosi mutano di linguaggio secondo la fortuna, e predicano solo pazienza e dolcezza quando non sono i più forti. Chiamo dunque intollerante per principio chiunque ritenga che non vi possano essere uomini per bene se non credono a tutto ciò cui crede lui, e condanni spietatamente tutti coloro che non pensano come lui. In effetti, non è frequente che i credenti siano tipi da lasciare in pace a questo mondo i reprobi, e un santo che creda di vivere con dei dannati sconfina piuttosto nel mestiere di diavolo. Se esistessero increduli intolleranti, che volessero forzare la gente a non

credere

a nulla,

messa,

mentre

sarebbero

meno severamente di chi volesse portarla a credere a tutto quel che piace loro. Vorrei quindi che in ogni Stato vi fosse un codice morale, o una specie di professione di fede civile, che prescrivesse i principi sociali che ciascuno sarebbe tenuto a riconoscere e bandisse i principi fanatici che ciascuno sarebbe tenuto a respingere, non in quanto empi ma in quanto sediziosi. Così, ogni religione che potesse accordarsi con questo codice sarebbe amle religioni che non potessero accordarvisi; e ognuno sarebbe libero di- non

LETTERA

134 avere altra religione se non il codice stesso !#. Una tale opera, condotta con

cura, sarebbe, credo, il libro più utile che mai sia stato scritto, e forse l’unico necessario all'uomo. Ecco, Signore,

un argomento per voi. La mia più viva speranza è che vogliate por mano a una tale opera e abbellirla con la vostra poesia in modo che sia alla portata di tutti: un’opera che dovrebbe ispirare,

sin

dall’infanzia,

nel

cuore

di

cisacuno quei sentimenti di dolcezza e di umanità che rifulgono nei vostri scritti e che ai bigotti mancherebbero sempre. Vi esorto a meditare su questo progetto, che deve piacere perlomeno alla vostra anima. Nel vostro Poema sulla religione naturale ci avete dato

il catechismo

dell’uomo;

dateci

ora,

con ciò che vi propongo, il catechismo del cittadino. È un argomento su cui meditare a lungo, e forse da riservare per l’ultima delle vostre opere così da concludere con un alto beneficio per il genere umano la più brillante carriera che mai scrittore abbia percorso. Non posso fare a meno di notare, Signore,

a

questo

riguardo

una

singo-

lare differenza tra voi e me in questa lettera. Ricco di gloria, disincantato di fronte alle vane grandezze, vivete libero negli agi; certo dell'immortalità, filosofate tranquillo sulla natura dell’anima;

c'è

e se

il corpo

Tronchin

Nonostante

ciò,

come in

o

il cuore

medico

questo

e

soffrono,

amico.

mondo

non

trovo

che

vedete che il male. Quanto a me, sconosciuto, povero e tormentato da una malattia senza rimedio, medito con pia-

cere

nel

mio

isolamento,

e

tutto è bene. Da dove provengono queste contraddizioni apparenti? Voi stesso l'avete spiegato: voi vivete felicemente; ma io spero, e la speranza rende tutto più bello. Soffro nell’abbandonare questa noiosa lettera, tanto quanto soffrireste voi nel

concluderla.

Perdonatemi,

voi

che

siete un grande uomo, uno zelo forse indiscreto, ma che non si sfogherebbe con voi se vi stimassi meno. Dio non voglia che pensi di offendere quello tra i miei contemporanei di cui onoro

A VOLTAIRE

di più le qualità, e i cui scritti maggiormente parlano al mio cuore; ma in giuoco è la causa della Provvidenza, da cui mi attendo tutto. Dopo aver attinto così a lungo consolazioni e coraggio dai vostri insegnamenti, mi è insopportabile che mi togliate ora tutto questo per offrirmi solo una speranza incerta e vaga, più come palliativo del momento che come risarcimento futuro. No, ho sofferto troppo in questa vita per non attenderne un’altra. Nessuna sottigliezza della metafisica mi farà dubitare un solo istante dell'immortalità dell'anima e di una Provvidenza benefica.

La

sento,

ci

credo,

la

voglio,

spero in essa, la difenderò sino al mio

ultimo istante di vita, e di tutte le discussioni che avrò sostenuto questa sa-

rà l’unica in cui sarà dimenticato. Jo

sono,

il mio

Signore,

interesse

non

ecc.

FRAMMENTO Il turbamento delle coscienze non ha mai fatto proseliti bensì solo uomini vili e falsi che si costringe a mentire continuamente al pubblico, a Dio stesso, e a professare sentimenti che non hanno. Il dogma è nulla, la morale è tutto,

Dio

credo

in

non

esige

affatto

da

noi

di

credere giacché non ce ne dà il potere, ma esige la pratica della virtù poiché ognuno è padrone delle proprie azioni. In breve, se qualcosa potesse provarmi l’esistenza del Diavolo, questo sarebbe rappresentato dall’orribile dogma dell’intolleranza, poiché nulla assomiglia di più a un prodotto dell'inferno della violenza fatta in onore del cielo. So che mai nessuno ha affermato queste cose con maggior vigore di voi e se le ripeto è solo per provarvi che Dio,

dal

momento

che

non

ignoro che chiunque voglia compiere persecuzioni in nome della religione non ha affatto religione o che se per caso è un credente può benissimo essere uno scellerato. Ho degli amici rispettabili che sono accusati di scetticismo in fatto di reli-

LETTERA

A VOLTAIRE

135

gione. Quanto a me, mi astengo nei loro riguardi da un giudizio temerario che

non

si

stessi,

mento

interessa né la società, dal mo-

che sono se

sono

persone in

oneste, né es-

buona

fede.

Farò

soltanto notare che non spetta ai loro accusatori persuadere l'opinione pubblica che esistono degli scellerati che adorano Dio e che tutte le persone oneste sono atee. Qualunque sia la credenza degli uomini in generale, la mia come la vostra si fondano sul fatto che essi verranno giudicati non pet la religione bensì per il cuore, perché hanno tutti un'idea precisa del bene e del male ma non una conoscenza infallibile del vero e del falso, e che sarebbe ingiusto dover rendere conto di ciò che non si è ricevuto. Adoro nel profondo dell'animo l’Autore del mio essere, e spero che non mi abbia creato per rendermi infelice e che non imputerà alla volontà le debolezze della natura. Ma quale che sia a proposito dell'essenza divina l’idea dei miei amici, come potrei dubitare che un cuore onesto non riscatti

un

errore

involontario,

e

che

dei costumi irreprensibili non valgano certi culti bizzarri prescritti da uomini, e che la ragione respinge. Dirò di più:

se a mia scelta potessi essere virtuoso e non credere in nulla, o avere una fe-

de

morta

e

senza

frutto,

non

esiterei

a preferire la prima condizione all’altra e preferirei addirittura poter dire a Dio: «Senza pensare a te ho fatto il bene che ti è caro e il mio cuore ha assecondato la tua volontà pur non conoscendola », piuttosto che dirgli: « Ahimè, ti amavo e non ho cessato di offenderti, ti ho conosciuto e non ho fatto

nulla per piacerti ». Sono stupefatto che si tolleri da così tanto tempo in certe persone l'infame e pia abitudine di accusare di empietà 1 filosofi che essi non sono riusciti a convincere e di perseguitare l'autore quando non hanno potuto confutarne l'opera. Ben più ancora lo sono per il fatto che i potenti si degnino così spesso di ascoltare quei bigotti e di porre sempre il braccio secolare a disposizione della loro crudeltà. I re di questo mondo possono intromettersi nell’altro e hanno forse il diritto di tormentare quaggiù i loro sudditi per costringerli ad andare in paradiso? Nient'affatto, L’autorità di ogni governo umano si limita per sua stessa natura

che

una

ai

ha

doveri

potuto

civili,

dire

persona, serve

e

nonostante

Hobbes,

bene

lo

Stato,

deve render conto a nessuno do in cui serve Dio.

ciò

quando

del

non

mo-

SCRITTI SULL’ABBÉ DE SAINT-PIERRE TRADUZIONE

DI

LUIGI

LUPORINI

ESTRATTO

DAL PROGETTO DI PACE PERPETUA DELL’ABBÉ DE SAINT-PIERRE Tunc

genus

bumanum

sibi consulat armis, inque gens omnis amet.

nità. Io vedrò, per lo meno idealmente, gli uomini unirsi e amarsi; penserò a una dolce e pacifica società di fra-

positis vicem

Lucano

Mai progetto più grande, più bello e più utile occupò lo spirito umano di quello di una pace perpetua e universale fra tutti i popoli dell'Europa, e mai autore fu più degno dell’attenzione del pubblico di colui che propone dei mezzi per mettere in esecuzione tale progetto. È persino assai difficile che un simile argomento non desti un poco di entusiasmo in un uomo sensibile e virtuoso;

e non

so

se

lo

tutto

facile,

l'illusione

di

un

non

in

ciò

cuore veramente umano, al quale lo zerende

sia

preferibile a quella ragione cruda e scostante che trova sempre nella sua indifferenza verso il pubblico bene il primo ostacolo a ogni cosa che lo può favorire. Non dubito che parecchi lettori anticipatamente si armino d’incredulità per resistere al piacere della persuasione, e li compiango per il fatto che così tristemente prendono l’ostinazione per saggezza.

Ma

spero

che

qualche

telli

che

tenti

tutti

guidati

anima

onesta condividerà la deliziosa emozione con la quale prendo la penna su un tema di tanto interesse per l’uma-

vivono

tutti

dagli

della

in

eterna

stessi

buona

sorte

e, nel realizzare dentro di me dro

così

commovente,

concordia,

principi,

con-

comune;

un qua-

l’immagine

di

una felicità che non esiste me ne farà provare, per qualche istante, una vera. Non ho potuto sottrarre queste prime righe al sentimento di cui ero colmo. Cerchiamo ora di ragionare a mente fredda. Ben deciso a non asserire alcuna cosa senza provarla, credo di poter pregare il lettore a sua volta di non negare alcuna cosa senza confutarla; giacché temo non tanto chi ragiona quanto chi, senza cedere alle prove, non vuole obiettare loro nulla. Non occorre aver a lungo meditato sui mezzi di perfezionare un qualunque regime, per accorgersi che impedimenti e ostacoli nascono non tanto dalla sua costituzione quanto dalle sue relazioni esterne; cosicché la maggior parte delle cure che andrebbero con-

sacrate alla sua struttura, siamo costretti a dedicarle alla sua sicurezza, e a

pensare più a metterlo in grado di resistere agli altri che a renderlo esso stesso perfetto. Se l’ordine sociale fosse, come si afferma, opera della ragione piuttosto che delle passioni, si sarebbe così a lungo tardato ad accorgersi che si è fatto troppo o troppo poco per la nostra felicità; che, essendo ciascuno di noi nello stato civile

SCRITTI

140 con

i propri

di natura

con

concittadini tutto

e nello stato

il resto del mondo,

non abbiamo prevenuto le guerre particolari se non per suscitarne di generali, le quali sono mille volte più terri-

bili;

e che,

unendoci

ad

alcuni

uomini,

diveniamo in realtà i nemici del genere umano? ! Se vi è qualche mezzo per rimuovere queste pericolose contraddizioni, esso non può essere altro che una forma di governo confederativa la quale, unendo tutti i popoli con legami simili a quelli che uniscono gli individui, sottometta in egual maniera gli uni e gli altri all'autorità delle leggi. Tale regime del resto sembra preferibile a ogni altro, per il fatto che è nello stesso tempo comprensivo dei vantaggi dei grandi e dei piccoli Stati, che è temibile all’esterno per la propria potenza, che forti vi sono le leggi e che è il solo atto a tenere parimenti a freno sudditi, capi

e stranieri ?.

ti aspetti

nuova,

Sebbene questa forma sembri per cere non

sia stata di fat-

to intesa bene altro che dai moderni, gli antichi non l'hanno ignorata. I Greci ebbero le loro Anfizionie, gli Etruschi

le

Lucumonie,

i

Latini

le

Ferie,

i Galli le Città e gli ultimi palpiti della Grecia si guadagnarono nuova fama nella Lega achea. Ma nessuna di queste confederazioni si avvicinò in saggezza al Corpo germanico, alla Lega elvetica e agli Stati Generali. E. se questi corpi politici sono ancora così pochi di numero e così lontani da quella perfezione di cui ‘sentiamo essi sarebbero suscettibili, si è che il meglio non si realizza come viene immaginato e, in politica come in morale, la vastità delle nostre conoscenze non prova altro che la grandezza dei nostri mali. Oltre a queste confederazioni pubbli. che ne possono essere formate tacitamente altre, meno appariscenti ma non meno

reali,

dall’unione

d'interessi,

dal-

l’analogia di principi, dalle usanze conformi o da altre circostanze che fanno sussistere comuni relazioni fra popoli divisi. In questo modo tutte le potenze d'Europa formano fra di loro una

SULL'ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

sorta di sistema nel quale sono unite da una stessa religione, da uno stesso diritto delle genti, dai costumi, lettere, dal commercio, e da una

di

equilibrio

effetto

suno

varlo,

che

necessario

si preoccupi non

sarebbe

di

e che,

tutto

senza

realmente tuttavia

dalle sorta

questo che

è

nes-

di conser-

tanto

facile

infrangere quanto molti pensano. Questa società dei popoli d'Europa non è esistita sempre, e le cause particolari che l'hanno fatta nascere servono a conservarla tuttora. Difatti, prima delle conquiste dei Romani, tutti i popoli di questa parte del mondo, barbari e sconosciuti gli uni agli altri, non avevano niente in comune se non la loro qualità di uomini, e questa qualità, avvilita

allora dalla

schiavitù,

non

differi-

va troppo nella loro mente da quella di bruto. Anche i Greci, raziocinanti e frivoli,

distinguevano,

due specie di uomini: cioè la loro, era fatta e l’altra,

che

per

così

dire,

tutto

il re-

di esse l’una, per comandare

comprendeva

sto del mondo, unicamente per servire. Da questo principio risultava che un Gallo o un Ibero non era per un Greco niente di più di quanto sarebbe stato un Cafro o un Americano, e gli stessi barbari non avevano fra loro più affinità di quanta ne avessero i Greci con gli uni e con gli altri. Ma quando questo popolo, per natura

sovrano,

fu

sottomesso

ai Romani

suoi schiavi, e una parte dell’emisfero conosciuto ebbe a subire lo stesso giogo, si formò una unione politica e civile fra tutti i membri di uno stesso impero. Questa unione fu resa assai più stretta dal principio, molto saggio o molto insensato, di rendere partecipi i vinti

di

tutti

i diritti

dei

vincitori,

e

soprattutto dal famoso decreto di Claudio, che incorporava tutti i sudditi di Roma nel numero dei suoi cittadini 3. Alla catena politica che riuniva in questo modo tutte le membra in un corpo si aggiunsero le istituzioni civili e le leggi che diedero una nuova forza a questi legami, determinando in maniera giusta, chiara e precisa, almeno nei limiti in cui ciò era possibile in un

ESTRATTO

DAL

PROGETTO

DI

PACE

Impero così vasto, i doveri e i diritti reciproci del principe e dei sudditi, e quelli dei cittadini fra loro. Il Codice di Teodosio e in seguito i Libri di Giustiniano,

furono

una

nuova

catena

di giustizia e di ragione opportunamente sostituita a quella del potere sovrano che si andava ormai sensibilmente allentando. Tale surrogato ritardò molto la dissoluzione dell'impero e gli conservò a lungo una sorta di giurisdizio ne sui medesimi barbari che lo mandavano in rovina. Un terzo legame, più forte dei precedenti, fu quello della religione, e non sì può negare che soprattutto al cristianesimo l'Europa debba ancora oggi quella specie di società che si è perpetuata fra

i

suoi

membri;

cosicché

chi,

fra

questi membri, non ha adottato il parere degli altri su questo punto è sempre rimasto come straniero fra loro. Il cristianesimo, tanto disprezzato al suo nascere, finì per servire da asilo ai suoi detrattori. Dopo averlo tanto crudelmente e vanamente perseguitato, l’Impero romano trovò in esso quelle risorse che non aveva più nelle proprie forze; le sue missioni erano per lui più fruttuose

delle

vittorie,

inviava

dei

ve-

scovi per rimediare agli errori dei generali e trionfava con i preti quando i soldati erano battuti. In tal modo i Franchi, i Goti, i Borgognoni, i Longobardi, gli Avari e mille altri finirono per riconoscere l'autorità dell'Impero dopo averlo soggiogato, e ricevettero, almeno in apparenza, insieme alla legge del Vangelo quella del principe che la faceva loro annunciare. Si portava ancora ‘un tale rispetto a questo grande Corpo morente che fino all'ultimo istante i suoi distruttori si ritennero onorati dei suoi titoli: si vedevano divenire ufficiali dell'Impero gli stessi conquistatori che l'avevano umiliato, i più grandi re accettare e perfino * Il rispetto per l'Impero romano è a tal punto sopravissuto alla sua potenza che patecchi giureconsulti hanno posto la questione se l'imperatore di Germania non fosse il sovrano naturale del mondo; e Bartolo ha spinto le

141

PERPETUA

brigare per ottenere la dignità di patrizio, la prefettura, il consolato. E, quale leone che lusinga l'uomo che potrebbe divorare, si vedevano questi terribili vincitori rendere omaggio al trono imperiale che era in loro potere rovesciare. . Ecco come il sacerdozio e l’Impero hanno formato il legame sociale di popoli diversi, i quali, senza alcuna comunanza di interessi, di diritti

reale o di

subordinazione, ne avevano una di principi e di opinioni, la cui influenza è durata anche quando la causa di essa era stata distrutta. L'antico simulacro dell'Impero romano ha continuato a formare una sorta di connessione fra i membri

che

ne

avevano

fatto

parte;

e

poiché Roma, dopo la distruzione dell'Impero, ha dominato in altra maniera, da questo duplice legame* è derivata una società più stretta fra le nazioni d'Europa, là dove era il centro di

queste

due

potenze,

che

non

nelle

altre parti del mondo, i cui diversi popoli, troppo dispersi per poter comunicare fra loro, non hanno per di più alcun punto di contatto. Aggiungete la situazione particolare dell'Europa, più unitormemente popolata,

più

uniformemente

fertile,

meglio

unita in tutte le sue parti; la continua mescolanza di interessi che i legami di sangue e gli affari del commercio, delle arti, delle colonie hanno prodotto fra i sovrani; la moltitudine dei fiumi e la varietà dei loro corsi, che tendono fa-

cile ogni comunicazione; l'umore incostante degli abitanti che li porta a viaggiare senza posa e trasferirsi di frequente gli uni presso gli altri; l’invenzione della stampa e il generale gusto per le lettere, che ha prodotto una comunanza

di

studi

e di

conoscenze;

in-

fine la moltitudine di piccoli Stati che, unita ai bisogni del lusso e alla diversità dei climi, rende gli uni sempre ne-

cose al punto di trattare da eretico chiunque osasse dubitarne. I libri dei canonisti sono pieni di decisioni simili all'autorità temporale

della Chiesa

romana 4.

142

SCRITTI

cessari agli altri. Tutte queste cause messe insieme fanno dell'Europa non soltanto,

come

l'Asia

e

l'Africa,

una

ideale collettività di popoli che hanno in comune solo un nome, ma una società reale con una religione, dei costumi, delle usanze e persino delle leg. gi, da cui nessuno dei popoli che la. compongono

può

allontanarsi

senza pro-

vocare immediatamente gravi danni. Si vedano, d'altro canto, i perpetui dissensi,

le azioni

brigantesche,

le usur-

pazioni, le rivolte, le guerre, gli assassinii che quotidianamente affliggono questa rispettabile dimora di saggi, questo brillante asilo delle scienze e delle arti; si e

si considerino i nostri bei discorla nostra orribile condotta, i no-

stri principi tanto umani e le nostre azioni tanto crudeli, una religione così dolce e una intolleranza così sanguinaria, una politica così saggia nei libri e così dura nella pratica, capi così benefici e popoli così miserabili, regimi così moderati e guerre così crudeli: a malapena si riesce a conciliare queste strane contraddizioni; e la pretesa fraternità dei popoli d'Europa sembra essere soltanto un nome beffardo per esprimere ironicamente il malanimo reciproco. Le cose tuttavia non fanno che seguire,

in

questo,

il

loro

corso

naturale.

Ogni società senza leggi o senza capi, ogni unione formata o conservata dal caso, necessariamente degenera in dispute e dissensi alla prima occasione in cui si determina un mutamento. L'antica unione dei popoli d'Europa ha reso in mille maniere complicati i loro interessi e i loro diritti. Essi hanno tanti punti di contatto che il più piccolo movimento degli uni non può mancare di ripercuotersi anche sugli altri; le divisioni sono tanto più funeste quanto più le connessioni sono intime; e le frequenti dispute hanno quasi la crudeltà delle guerre civili. Conveniamo dunque che lo stato relativo delle potenze europee è propriamente uno stato di guerra e che tutti i trattati parziali di alcune di queste potenze fra di loro sono tregue

SULL’ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

passeggere piuttosto che vere paci: sia perché tali trattati non hanno in genere altri garanti che le parti contraenti, sia perché i diritti dell'una e dell'altra parte non sono mai definiti in modo radicale. Questi diritti mal soffocati, o le pretese che ne tengono luogo tra potenze che non riconoscono alcun superiore, saranno immancabilmente fonte di muove guerre non appena altre circostanze avranno dato nuova forza ai pretendenti. D'altra parte il diritto pubblico dell'Europa non è per niente stabilito o autorizzato da un accordo, non ha principi generali e varia continuamente secondo i tempi e i luoghi; e perciò è pieno di regole contraddittorie che si possono conciliare soltanto mediante il diritto del più forte; in tal modo, poiché la ragione senza una guida sicura si piega sempre nei casi dubbi verso l’interesse

personale,

la

guerra

sarebbe

pur tuttavia inevitabile, quand'anche ciascuno volesse essere giusto. Tutto ciò che si può fare, con le migliori intenzioni, è decidere affari di tal genere per mezzo delle armi o sopirli con trattati

transitori;

ma

presto

alle

oc-

casioni che riaccendono le medesime dispute se ne aggiungono altre che le modificano;

tutto

si imbroglia,

tutto

si

complica; non si vede più nulla della sostanza delle cose; l’usurpazione passa per diritto, la debolezza per ingiustizia;

e,

in

mezzo a

tale

ininterrotto

disordine, ognuno si trova a poco a poco talmente allontanato dal suo posto che, se si potesse risalire al solido diritto primitivo, pochi sovrani in Europa non sarebbero tenuti a restituire tutto ciò che possiedono. Un altro germe di guerra, più nascosto ma non meno reale, sta nel fatto che le cose non mutano di forma quando cambiano di natura: Stati di fatto ereditari rimangono apparentemente elettivi; vi sono parlamenti o Stati nazionali nelle monarchie e capi ereditari nelle repubbliche; una potenza soggetta a un’altra conserva tuttavia una parvenza

tomessi

di

libertà;

a UNO

tutti

i popoli,

stesso potere,

non

sot-

sono

ESTRATTO

DAL

PROGETTO

DI PACE

governati dalle stesse leggi; l'ordine di successione è differente nei diversi Stati di

uno

stesso

sovrano;

e, per

finire,

ogni forma di governo tende sempre ad alterarsi senza che sia possibile impedire questo processo 5. Ecco le cause generali e particolari che ci uniscono per distruggerci, e ci fanno scrivere una così bella dottrina sociale con le mani sempre sporche di sangue umano. Una volta conosciute le cause del male, il rimedio,

se esiste,

è da

esse

suf-

ficientemente indicato. Ciascuno vede che ogni società è formata dagli interessi comuni, che ogni divisione nasce dagli interessi opposti; e poiché mille avvenimenti fortuiti possono cambiare e modificare gli uni e gli altri, da quando una società esiste è necessaria una forza coattiva, la quale dia ordine e armonia ai movimenti dei suoi membri, per dare agli interessi comuni e ai reciproci impegni quella solidità che da soli essi non saprebbero avere. Sarebbe d’altra parte un grande errore sperare che questo stato violento possa mai mutare per la sola forza delle cose e senza l'aiuto di artifici. Il sistema dell'Europa ha esattamente il grado di solidità che serve a mantenerla in una agitazione perpetua, senza sconvolgerla completamente; e se i nostri mali non possono aumentare, ancor meno essi possono aver fine, perché qualsiasi grande rivolgimento è ormai impossibile. Per dare a queste cose la necessaria evidenza,

cominciamo

a dare

un'oc-

chiata generale sullo stato presente dell'Europa. La dislocazione delle montagne, dei mari e dei fiumi, che servono da confine alle nazioni che la abitano,

sembra aver determinato il numero e la grandezza di queste nazioni; e si può dire che l'ordinamento politico di questa parte del mondo sia, per certi aspetti, opera della natura. Non si pensi, infatti, che questo tanto magnificato equilibrio sia stato stabilito da alcuno, e che qualcuno abbia fatto qualcosa con la intenzione di conservarlo:

si sentono

esso

esiste;

abbastanza

e coloro

potenti

che

per

non

in-

PERPETUA

143

frangerlo, coprono le loto mire partico lari col pretesto di sostenerlo. Ma, che vi si rifletta o meno, questo equilibrio sussiste e non ha bisogno che di se stesso per conservarsi senza che nessuno se ne dia pensiero; e, qualora si rompa per un attimo da un lato, esso si ristabilisce immediatamente da un altro: in tal modo, se i principi che furono accusati di aspirare alla monarchia universale vi hanno realmente aspirato, mostrarono in ciò più ambizione che genialità. Infatti, come considerare per un attimo tale progetto senza vederne tosto il ridicolo? Come non accorgersi che non esiste in Europa un potentato tanto superiore agli altri da poter mai divenirne il padrone? Tutti i conquistatori che hanno provocato dei rivolgimenti si son sempre presentati con forze insospettate, oppure con truppe straniere e diversamente addestrate alla guerra, a popoli disarmati o divisi o senza disciplina; ma dove troverebbe un principe europeo forze insospettate per opprimere tutti gli altri, quando il più potente di loro è una patte così piccola del tutto e quando, concordemente, essi sono così vigilanti? Avrà egli più truppe di tutti? Non è possibile: esse causeranno piuttosto la sua rovina, oppure saranno peggiori in ragione del loro maggior numero. Saranno meglio addestrate? Ne avrà proporzionatamente di meno. D'altra parte la disciplina è più o meno la stessa dappertutto o lo diventerà in poco tempo. Avrà più denaro? Medesime ne sono le fonti e mai il denaro ha permesso grandi conquiste. Farà un’invasione improvvisa? La fame o delle piazzeforti lo fermeranno a ogni passo. Vorrà ingrandirsi gradatamente? Egli dà il modo ai nemici di unirsi per resistere; il tempo, il denaro e gli uomini non tarderanno a mancargli. Tenterà di dividere le altre potenze per sconfiggerle mediante la vittoria dell'una sull’altra? Le regole dell'Europa rendono vana questa politica e il più limitato dei principi non cadrebbe in tale trappola. Infine, poiché nessuno di loro può avere una

esclusività

di risorse, la resisten-

144

SCRITTI

za, alla lunga,

tempo

risana

cidenti

della

sarà pari allo sforzo;

presto

fortuna,

gli improvvisi se

non

nei

e il

ac-

con-

fronti di ogni principe in particolare, almeno in favore della costituzione generale. Vogliamo ora provare a supporre un accordo di due o tre potentati per soggiogare tutti gli altri? Questi tre potentati, quali che siano, non costituiranno insieme neanche la metà dell'Europa. L'altra metà si unirà certamente contro di loro ed essi dovranno vincere un avversario di loro più forte. Aggiungo che le mire degli uni sono troppo contrastanti con quelle degli altri e che regna fra di loro una troppo grande gelosia perché essi possano persino proporsi un siffatto progetto; aggiungo ancora che, quand’anche se lo fossero proposto, l'avessero messo in esecuzione e avessero ottenuto qualche successo, questo successo sarebbe per i conquistatori alleati un seme di discordia, perché non sarebbe possibile spartire i vantaggi in modo tale che tutti si trovassero egualmente soddisfatti dei propri; e il meno fortunato si opporrebbe ben presto ai progressi degli altri, i quali non tarderebbero a dividersi a loro volta per analoghi motivi.

Dubito che, ste, si siano

da quando il mondo mai viste tre o anche

esidue

grandi potenze che, bene unite, ne soggiogassero altre senza urtarsi sui contributi o sulle spattizioni e senza fornire ben presto, per la loro discordia, nuove risorse ai deboli. Così, qualsiasi supprincipe

cambiare

raturo

Non

in

o

lo stato che

una

modo

delle

le Alpi,

lega

possa

considerevole

cose

il Reno,

ormai

e- du-

tra noi.

il mare,

Pirenei siano ostacoli insormontabili per l'ambizione; ma a questi ostacoli se ne aggiungono altri che li rafforzano o che

fanno riéntrare gli Stati nei loro con-

stare

i

fini quando sforzi momentanei ve li abbiano allontanati. Il vero sostegno del sistema europeo è certo in parte il giuoco dei negoziati, che quasi sempre si compensano a vicenda; ma questo sistema ha un altro punto d'appoggio-

DE

SAINT-PIERRE

alcunché,

certo

che,

ne

fa

lo

scoglio

per

tutti i conquistatori. Malgrado i difetti di questa conformazione dell'Impero, è essa

sussisterà,

to, e nessun potentato avrà di esser detronizzato da un

da temere altro, e il

l'equilibrio

fin

quando

europeo

non

sarà

mai

rot-

trattato di Westfalia® sarà forse per sempre la base del nostro sistema politico. Così il diritto pubblico, che i tedeschi

studiano

con

tanta

cura,

è an-

cora più importante di quanto essi pensino; e non soltanto il diritto pubblico germanico, ma, per certi aspetti, quello di tutta l'Europa. Ma,

se

il sistema

attuale

è

incrolla-

bile, per ciò stesso è il più tempestoso; giacché vi è fra le potenze europee un’azione e reazione che, pur non mutando completamente

la

loro

collocazione,

le

tiene in una agitazione continua; e i loro sforzi sono sempre vani e sempre rinascenti,

posizione si faccia, non è verosimile che

un

SULL'ABBÉ

ancor più solido, cioè il Corpo germanico. Situato quasi al centro dell'Europa, esso tiene in soggezione tutte le altre parti e serve forse ancor più alla conservazione dei vicini che a quella dei suoi propri membri: corpo che incute timore agli stranieri per la sua estensione, per il numero e il valore dei suoi popoli, ma utile a tutti per la sua conformazione che, mentre lo priva dei mezzi e della volontà di conqui-

come

i flutti

del

mare

che

senza posa ne agitano la superficie, senza mai mutarne il livello; e così i popoli vengono continuamente rovinati senza alcun sensibile profitto per i sovrani, Mi sarebbe facile dedurre questa stessa verità dagli interessi particolari di tutte le corti europee, giacché farei facilmente vedere che questi si intersecano in maniera da tenere in reciproca soggezione tutte le loro forze; ma le idee di commercio e di denaro hanno prodotto una specie di fanatismo politico e fanno cambiare così repentinamente gli interessi apparenti di ogni principe, che non si può stabilire nessun punto di riferimento stabile sui loro veri interessi, perché ora tutto dipende dai sistemi economici, la mag-

ESTRATTO gior

parte

DAL dei

PROGETTO

quali

assai

DI

bizzarri,

PACE che

passano per la testa dei ministri. Comunque il commercio che tende a equilibrarsi ogni giorno, togliendo a certe potenze il vantaggio esclusivo che essi ne traevano, toglie loro allo stesso tempo uno dei mezzi più forti che avevano per imporre la legge agli altri *. Ho insistito sull'uguale distribuzione di forze che risulta dall'attuale costituzione dell'Europa per dedurne una conseguenza importante per l’istituzione di una

associazione

generale;

infatti,

per formare una confederazione solida e durevole, bisogna mettere tutti i suoi membri in una reciproca dipendenza a tal punto che nessuno sia in grado di resistere da solo a tutti gli altri e che le associazioni particolari, che potrebbero nuocere alla grande, vi incontrino ostacoli sufficienti a impedirne l'attuazione: altrimenti la confederazione sarebbe vana e ognuno sarebbe in realtà indipendente pur in una apparente sudditanza. Se questi ostacoli sono dunque quali li ho sopra descritti, ora che tutte le potenze sono in una completa libertà di stringere fra loro leghe e trattati di offesa, si giudichi che cosa essi sarebbero qualora vi fosse una grande lega armata, sempre pronta a prevenire chi volesse prendere l'iniziativa di distruggerla o di resisterle. Ciò basta a mostrare che un'associazione di questo genere non consisterebbe in vane deliberazioni, alle quali ognuno potrebbe impunemente resistere, ma che ne nascerebbe una potenza effettiva, capace di costringere gli ambiziosi a mantenersi nel limite del trattato generale. Tre verità incontestabili risultano da questa esposizione. La prima è che, se si esclude quello turco, regna fra tutti i popoli d'Europa un vincolo sociale imperfetto, ma più stretto dei vincoli generici e allentati dell'umanità. La se* La situazione è mutata

da quando

scrive-

vo queste cose”; ma il mio principio resterà sempre vero. È assai facile prevedere, per esempio, che entro vent'anni l'Inghilterra, con tutta la sua gloria, sarà rovinata e per di più avrà

perduto

quanto

resta

della

sua

libertà.

Tutti

PERPETUA

conda società che la canza è che questa stesso

145

è

che l'imperfezione di questa rende la condizione di coloro compongono peggiore della mandi ogni società fra loro. La terza questi primi legami, che rendono società nociva, la rendono nello tempo suscettibile di essere per-

fezionata;

sicché

tutti

i

suoi

membri

potrebbero trarre la loro felicità da ciò che attualmente li fa miseri e mutare in una pace eterna lo stato di guerra che regna fra loro. Vediamo ora in quale modo questa grande opera, iniziata dalla sorte, può esser portata a compimento dalla tagione; e come la società libera e volontaria che unisce tutti gli stati europei, assumendo la forza e la solidità di un vero corpo politico, possa mutarsi in una confederazione effettiva. Non vi è dubbio

che

una

simile

istituzione,

dan-

do a questa associazione la perfezione che le mancava, ne distruggerà l'abuso, ne amplierà i vantaggi e costringerà tutte le parti a cooperare al bene comune; ma per tale fine bisogna che questa confederazione sia generale a tal punto che nessuna considerevole potenza vi si rifiuti; che essa abbia

un

tribu-

solida

e du-

nale giudiziario il quale possa stabilire le leggi e gli ordinamenti che debbono essere vincolanti per tutti i membri; che essa abbia una forza di coazione e di coercizione per costringere ogni Stato ‘a sottostare alle deliberazioni comuni tanto pet agire quanto per non agire;

infine

essa

deve

essere

revole per impedire che i membri se ne distacchino a loro piacimento non appena il proprio interesse particolare sembri loro contrario all’interesse generale. Ecco i segni sicuri dai quali si ravviserà che l'istituzione è saggia, utile e incrollabile: si tratta ora di estendere tale ipotesi per ricercare, per via di analisi, quali effetti ne debbono risultare, assicurano che l'agricoltura è fiorente in quel. l'isola, ma io scommetto che vi deperisce. Londra si ingrandisce tutti i giorni, dunque il regno si spopola. Gli Inglesi si vogliono conquistatori, dunque non tarderanno a essete schiavi.

146

SCRITTI

quali quale re di Si mezzo nerali

mezzi siano adatti a fondarla e speranza ragionevole si possa avemandarla ad effetto. producono di tanto in tanto in a noi .delle specie di Diete geche prendono il nome di congres-

si, dove ci si reca solennemente

da tutti

gli Stati d'Europa per tornarne eguali a prima, dove ci si riunisce per non dir nulla, dove si trattano gli affari pubblici come se fossero privati, dove si delibera in comune se il tavolo sarà tondo o quadrato, se la sala avrà più o meno porte, se il tale plenipotenziario volgerà

alla

finestra

il viso o le spalle,

se il tal altro, farà due mino

in più o in meno

pollici di cam-

durante

una

vi-

da

tre

sita e su mille questioni di pari importanza,

inutilmente

in discussione

secoli e davvero assai degne di tenere occupati gli uomini politici del nostro. Può darsi che i membri di una di queste assemblee siano, una volta tanto, dotati di senso comune, e neppure è impossibile che essi desiderino sinceramente il pubblico bene. Per le ragioni

che

saranno

dedotte

più

oltre,

si

può anche immaginare che, dopo aver appianato parecchie difficoltà, ricevono dai loro rispetttivi sovrani l'ordine di sottoscrivere la confederazione genetale che suppongo sommariamente consistere dei cinque seguenti articoli. Con il primo i sovrani contraenti istituiranno fra loro un'alleanza perpetua e irrevocabile e nomineranno dei plenipotenziari per tenere, in un luogo determinato, una dieta o un congresso permanente nel quale tutte le controversie delle parti contraenti saranno regolate e risolte per mezzo di un arbitrato o di un giudizio. Con il secondo si specificherà il numeto dei sovrani i cui plenipotenziari avranno

voto

nella

Dieta,

coloro

che

saranno invitati ad aderire al trattato, l'ordine, il tempo e il modo in cui la presidenza, a intervalli eguali, passerà da

uno

all’altro

e,

infine,

l'ammontare

dei contributi di ciascuno e la maniera di riscuoterli per provvedere alle spese comuni. Con il terzo la confederazione ga-

SULL’ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

rantirà a ciascuno dei suoi membri il possesso e il governo di tutti gli Stati che attualmente possiede e, allo stesso modo, la successione elettiva o taria, conformandosi interamente

eredi. a ciò

che è stabilito dalle leggi fondamentali di ciascun paese; e, per sopprimere in una sola volta la fonte delle contese che rinascono senza posa, si converrà di prendere i possessi attuali e gli ultimi trattati come base di tutti i diritti reciproci delle potenze contraenti, rinunciando

te a ogni

per

sempre

e

reciprocamen-

altra pretesa anteriore, salvo

le successioni future controverse e, se se ne da il caso, altri diritti che saranno

tutti regolati dall’arbitrato della Dieta, senza che sia permesso farsi giustizia per vie di fatto, né prendere mai le armi l'uno contro l’altro qualunque possa esserne il pretesto. Con il quarto si specificheranno i casi in cui ogni alleato, trasgressore del trattato,

sarebbe

messo

al

bando

dal-

l'Europa e proscritto come nemico pub-

blico:

e

cioè,

se

si

rifiutasse

di

dare

forza

del-

esecuzione alle decisioni della grande alleanza, se facesse preparativi di guerra, se negoziasse trattati contrari alla confederazione, se prendesse le armi per contrastarla o per attaccare qualcuno degli alleati. Sarà

inoltre

convenuto,

in

lo stesso articolo, di prendere le armi e di effettuare un'offensiva congiunta e a spese di tutti contro ogni Stato bandito dall'Europa, fin quando esso non abbia abbassato le armi, dato corso alle decisioni e alle ordinanze della Dieta, data soddisfazione dei torti, rimbor-

sate le spese e resa ragione dei preparativi di guerra contrari al trattato. Col quinto infine i plenipotenziari del Corpo europeo avranno sempre il potere di creare, a maggioranza dei voti in via provvisoria e, dopo i cinque anni, con i tre quarti dei voti in via definitiva,

secondo

le

istruzioni

delle

loro corti, gli ordinamenti che essi giudicheranno importanti per procurare tutti i vantaggi possibili alla Repubblica europea e a ciascuno dei suoi membri, ma non si potrà mai mutare nulla

ESTRATTO

DAL

PROGETTO

DI

PACE

di questi cinque articoli fondamentali senza il consenso unanime dei confederati. Questi cinque articoli, così riassunti

e stesi

in norme

generali,

sono,

me

ne

rebbero

rendo conto, soggetti a mille piccole difficoltà, parecchie delle quali richiederebbero lunghi schiarimenti; ma le piccole difficoltà in caso di bisogno vengono facilmente rimosse; non è di esse che si tratta in una impresa di siffatta importanza. Quando si porrà in dettaglio il problema della struttura del congresso si troveranno mille ostacoli e diecimila modi di rinnovarli. Qui si tratta

di

esaminare,

secondo

la

nella

dieta

diciannove

voti;

e cioè:

Il re di Danimarca.

La Svezia.

natura

La

Polonia.

Il re di Portogallo. Il sovrano di Roma. Il re di Prussia. L'Elettore di Baviera e i suoi as-

sociati.

L’Elettore

soddisfazione a tutti, né di ritutte le obiezioni, né di dire in

qual modo ogni cosa verrà fatta: basta mostrare che ogni cosa si può fare. Che cosa dunque si deve esaminare per poter giudicare questo sistema? Due questioni soltanto. Infatti non voglio fare al lettore l'offesa di provargli che, di solito, lo stato di pace è preferibile a quello di guerra. La prima questione è se la confederazione che viene proposta andrà dritta al suo scopo e sarà sufficiente a dare all'Europa una pace salda e perpetua. La seconda è se sia nell’interesse dei sovrani istituire tale confederazione e conseguire a tal prezzo una pace stabile. Quando l’utilità generale e particolare sarà in tal modo dimostrata non si vede più, nella logica delle cose, quale motivo potrebbe impedire la riuscita di una istituzione la quale non dipende che dalla volontà degli interessati. Per discutere anzitutto il primo articolo, applichiamo ora quanto detto prima sul sistema generale europeo, e sul comune sfotzo che circoscrive ogni potenza più o meno nei propri confini e non le permette di schiacciarne altre completamente. Per rendere più evidenti i miei ragionamenti su questo punto, unisco qui la lista delle dician-

147

L'imperatore dei Romani. L'imperatore di Russia. Il re di Francia. Il re di Spagna. Il re d'Inghilterra. Gli Stati Generali.

delle cose, se l'impresa è possibile o meno. Ci perderemo in volumi di bagatelle se si dovesse tutto prevedere e a tutto rispondere. Limitandosi ai principi incontestabili non si deve cercare di dar solvere

PERPETUA

nove potenze che si suppone compongano la Repubblica europea, in modo che, avendo ognuna voto uguale, vi sa-

Palatino

sociati.

e i suoi

as-

Gli Svizzeri e i loro associati. Gli Elettori ecclesiastici e i loro associati.

La Repubblica di suoi associati. Il re di Napoli. Il re di Sardegna. Parecchi

sovrani

quali la Repubblica

di

Venezia

minor

di Genova,

di

Modena

e

di

Parma,

di

associati,

e

avranno

abbiamo omesso da ranno uniti ai meno

e

e

i

rilievo,

i duchi

altri

che

questa lista, sapotenti in guisa insieme

a

loro

un diritto di voto simile al votum curiatum dei Conti dell’Impero. È inutile cercare di rendere più precisa questa

enumerazione,

perché,

di

rifatta,

ma

qui

al-

l'esecuzione del progetto, possono sopraggiungere da un momento all’altro avvenimenti sulla base dei quali essa andrebbe

di nuovo

che

non

cambierebbero nulla della sostanza del sistema. Basta gettare gli occhi su questa lista per vedere con estrema evidenza l'impossibilità per una qualsiasi delle potenze componenti di essere in grado di resistere a tutte le altre unite in Corpo, oppure di dar vita a una qual-

148

SCRITTI

siasi lega parziale capace di tener testa alla grande confederazione. E poi, come sarebbe formata questa lega? Sarebbe fra i più potenti? Abbiamo mostrato che essa non potrebbe essere

duratura;

ed

è

ora

assai

facile

vedere anche che essa è incompatibile con il sistema particolare di ogni grande potenza e con gli interessi che non sono separabili dalla sua costituzione. Si farebbe fra uno Stato grande e parecchi piccoli? Ma gli altri grandi Stati uniti alla confederazione riusciranno ben presto a schiacciare la lega; e bisogna riconoscere che alla grande alleanza,

qualora sia sempre unita e armata, sarà facile, in virtù del quarto articolo,

prevenire e soffocare sul nascere ogni alleanza parziale e sediziosa la quale tendesse a turbare la pace e l'ordine pubblico. Si veda quanto accade nel Corpo germanico malgrado gli abusi del suo ordinamento e l'estrema ineguaglianza dei suoi membri: ve ne è forse uno solo che osi esporsi al bando dell'Impero, violando apertamente la sua costituzione, a meno che non creda di aver buone ragioni per non temere che l'Impero voglia seriamente agire contro di lui? Così tengo per dimostrato che, una volta

istituita

la

Dieta

europea,

essa

non avrà mai da temere ribellioni e che, pef quanto alcuni abusi possano introdurvisi, essi non possono mai arrivare fino a rendere vano lo scopo dell'istituzione. Resta da vedere se tale scopo sarà veramente raggiunto dall’istituzione stessa, In quanto a questo, consideriamo i motivi per i-quali i principi mettono mano alle armi. Tali motivi sono: o far conquiste, o difendersi da un conquistatore, o indebolire un vicino troppo potente, o affermare i propri diritti quando essi vengano attaccati, o mettere fine a una contesa che non si è potuta

risolvere

amichevolmente,

o infine

tener fede agli impegni di un trattato. Non vi è motivo né pretesto di guerra che non si possa catalogare sotto una di queste sei voci. È dunque evidente

SULL'ABBÉ

che nessuno in

questo

DE

SAINT-PIERRE

dei sei casi può sussistere

nuovo

stato

di cose.

In primo luogo bisogna rinunciare alle conquiste per l'impossibilità di farsene, dal momento

che si è sicuri di es-

ser fermati nel proprio cammino da forze maggiori di quelle che si possono avere;

in

modo

che,

mentre

voglia

ingrandirsi

si rischia

di perder tutto, si è nell'impotenza di guadagnar qualcosa. Un principe ambizioso

che

in

Europa

fa due cose. Comincia col rafforzarsi con buone alleanze, poi cerca di prendere il nemico alla sprovvista. Ma a nulla servirebbero le alleanze partico lari contro un'alleanza più forte e che sempre

sussiste;

e, poiché

nessun

prin-

tutta

l'Eu-

uno

Stato

cipe avrà più alcun pretesto di prendere le armi, non sarebbe in grado di farlo senza essere scotto, preceduto e punito dalla sempre armata confederazione. La medesima ragione che toglie a ciascun principe ogni speranza di conquista, gli toglie, allo stesso tempo, ogni timore di venire attaccato; e non soltanto,

ropa,

curati,

con

i suoi come

la garanzia

di

ai

di

Stati

vengono

cittadini

a lui

ben amministrato i propri possessi”, anche in misura maggiore che non egli ne fosse l’unico e appropriato fensore, nella stessa proporzione l’intera Europa è più forte di lui solo. Non vi è più motivo per volere debolire un vicino dal quale non ha

più

niente

da

temere,

e

non

assima se diche da

si

insi

è

nemmeno tentati di farlo quando non si ha alcuna speranza di riuscita. Rispetto all'affermazione dei propri diritti si deve anzitutto osservare che una infinità di cavilli e di pretese oscure e ingarbugliate saranno completamente liquidate dall'articolo terzo della confederazione, il quale regola in modo definitivo tutti i diritti reciproci dei sovrani alleati sulla base dei loro attuali possessi. Così diverranno chiare per l'avvenire tutte le richieste e le pretese possibili e saranno giudicate nella Dieta man mano che potranno sorgere: aggiungete che se i mici diritti vengono

ESTRATTO

DAL

PROGETTO

DI

PACE

attaccati io debbo sostenerli con gli stessi mezzi. Ma non possono venire attaccati con le armi senza incorrere nel bando della Dieta. Non ho dunque bisogno di difenderli con le armi; e la stessa cosa vale per le ingiurie, i torti, le riparazioni e per tutte le controversie impreviste che possono sorgere fra due sovrani; e lo stesso potere che deve difendere i loro diritti deve anche riparare i loro torti. Quanto all'ultimo articolo, la soluzione salta agli occhi. Anzitutto si ve-

de che, non essendoci più aggressori da temere, non vi è più bisogno di un trattato difensivo e, poiché non saremmo in grado di crearne uno più solido e sicuro della grande confederazione, ogni altro sarebbe inutile, illegittimo, e di conseguenza, nullo. Una volta che sia istituita la confederazione, è dunque impossibile che resti alcun seme di guerra fra i confederati e che il fine della pace perpetua non venga puntualmente raggiunto con l'attuazione del sistema proposto. Ci rimane da esaminare l’altro problema concernente i vantaggi delle parti contraenti; giacché ci rendiamo ben conto che invano cercheremmo di far parlare l'interesse pubblico a danno dell'interesse particolare. Provare che la pace è in generale preferibile alla guerra non significa nulla per chi crede d'avere motivo di preferire la guerra alla pace; e mostrargli i mezzi per fondare una pace durevole altro non è che eccitarlo a opporvisi. Difatti, si dirà, voi togliete ai sovrani il

diritto

di

farsi

giustizia

da

soli,

di

essere ingiusti a loro piacimento; voi togliete loro il potere di ingrandirsi; voi li fate rinunciare a quell’apparato di potenza e di terrore col quale piace loro spaventare il mondo, a quella gloria di conquiste dalla quale traggono la loro fama; infine li costringete a essere giusti e pacifici. Quali saranno i compensi di tante privazioni? Non mi azzarderò a rispondere con l'Abbé de Saint-Pierre: la vera gloria dei principi sta nel-procurare la pubblica utilità e la felicità dei sudditi; tutti

149

PERPETUA

i loro interessi sono subordinati alla loro reputazione; la reputazione che si acquista presso i saggi è proporzionata al bene che si fa agli uomini; l’impresa di una pace perpetua, poiché è la maggiore che mai sia stata tentata, è la più atta a coprire il suo autore di gloria immortale; questa stessa impresa è anche la più utile ai popoli, e perciò la più onorifica per i sovrani; essa è soprattutto la sola a non esser lorda di

sangue,

di

rapine,

di

pianti,

di

ma-

ledizioni; infine il mezzo più sicuro per distinguersi tra la folla dei re è operare per la pubblica felicità. Tali discorsi,

nei

gabinetti

dei

ministri,

han-

no coperto di ridicolo l’autore e i suoi progetti; ma non diprezziamo, come

essi

fanno,

i suoi

argomenti

e, comun-

que stia la questione della virtù dei principi, parliamo dei loro interessi. Tutte le potenze d’Europa hanno diritti o pretese le une verso le altre. Questi diritti sono di natura tale da non poter mai essere perfettamente chiariti, perché non vi è una regola di giudizio comune e costante ed essi si fondano spesso sull'ambiguità o sulla non certezza dei fatti. Non riusciremmo nep-

pure

a

portare’

mai

a

una

conclusione

definitiva le controversie da loro causate, non solo per mancanza di un arbitro legittimo, ma anche perché al l'occasione ogni principe ritorna senza scrupoli sulle cessioni che i più potenti gli hanno strappato nei trattati con la forza, oppure dopo guerre sfortunate. È dunque un errore considerare soltanto le proprie pretese nei confronti degli altri e dimenticare quelle degli altri nei nostri, quando da nessuna parte vi è una maggiore giustizia o una superiorità di mezzi per far valere queste reciproche pretese. Quando tutto dipende dalla fortuna, i possedimenti attuali hanno un valore che la saggezza non permette di arrischiare contro un profitto futuro, fossero pur pari le probabilità; e tutti biasimano l’uomo agiato il quale, nella speranza di raddoppiare

i suoi

beni,

osi

rischiarli

in

un

colpo di dadi. Ma abbiamo fatto vedere che, nei progetti d'ingrandimento,

SCRITTI

150 ciascuno,

persino

nel

sistema

attuale,

trova una resistenza superiore al suo sforzo; ne consegue che, poiché i più potenti non hanno alcun motivo di giuocare e i più deboli nessuna speranza di profitto, conviene a tutti rinunciare a ciò che desiderano per assicurarsi di ciò che già possiedono. Consideriamo il dispendio di uomi. ni, denaro,

forze

di ogni

specie,

l’esau-

rimento in cui la guerra più fortunata getta un qualsiasi Stato; e confrontiamo tale danno con i vantaggi che esso ne ritrae: troveremo che spesso perde quando crede di aver vinto e che il vincitore, sempre più debole di prima del. la guerra, non ha altra consolazione se non il vedere il vinto più indebolito di lui. Questo vantaggio inoltre è più apparente che reale, perché la superiorità che

può

avere

acquisito

sul

suo

avver-

sario è stata nello stesso tempo perduta nei confronti delle potenze neutrali, le quali,

senza

mutare

di

condizioni,

di-

ventano sempre più forti, in confronto a noi,

a causa

del

nostro

indebolimento,

Se non tutti i re si sono ancora riavuti dalla follia delle conquiste, sembra almeno che i più saggi comincino a intravedere che esse talvolta costano più di quanto valgano. Senza addentrarci a questo proposito in mille distinzioni che ci condurrebbero troppo lontani, si può dire, in generale, che un principe il quale, per allargare le sue frontiere, perde tanti vecchi sudditi quanti ne acquista di nuovi, nell’ingrandirsi si indebolisce perché con un maggiore spazio da difendere non ha un maggior numero di difensori. Ora non si può ignorare che, con-il modo attuale di condurre la guerra, le perdite minori sono proprio quelle che si verificano negli eserciti: qui certo la perdita è evidente

e

concreta;

ma

nello

stesso

tempo in tutto lo Stato se ne produce una più grave e irreparabile di quella degli uomini che muoiono, a causa di quelli che non nascono, dell’aumento delle imposte, delle interruzioni del

commercio,

dell’esodo

dalle

campagne,

dell'abbandono dell’agricoltura. Questo male di cui inizialmente non ci si ac-

SULL’ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

corge, si fa crudelmente sentire in seguito, e allora ci si stupisce di essere così deboli pur essendo divenuti tanto potenti. Le conquiste

assumono

un

interesse

anche minore poiché ora si conoscono i mezzi per raddoppiare e triplicare di potenza non solo senza ampliamenti di

territorio,

ma

talvolta

restringendo-

lo, come fece molto saggiamente l'imperatore Adriano. Si sa che solo gli uomini fanno la forza dei re, e questa enunciazione deriva da quanto ho appena

detto,

cioè

che

fra

due

Stati

cose

fossero

i

quali nutrono lo stesso numero di abitanti, il più potente è effettivamente quello che occupa un territorio di estensione minore !. Dunque è con buone leggi, una saggia amministrazione e grandi vedute economiche che un sovrano ha la sicurezza di aumentare le proprie forze senza nulla concedere al caso. Le vere conquiste che compie nei confronti dei vicini, sono gli ordinamenti più utili che instaura nei propri Stati; e ogni suddito in più che gli nasce è un nemico che uccide. Non mi si deve obiettare che qui mi spingo troppo

oltre,

dato

che,

se

le

interesse

per

il mantenimen-

quali le rappresento, avendo ognuno un vero interesse a non entrare in guerra e unendosi gli interessi particolari al comune

to della pace, questa pace dovrebbe stabilirsi da sola e durare sempre senza nessuna confederazione. Ma questo sarebbe,

allo

stato

attuale

delle

cose,

un

pessimo ragionamento, giacché, sebbene per tutti sia assai meglio essere sempre in pace, la comune mancanza di sicurezza a tal riguardo fa sì che ciascuno, non potendo esser sicuro di evitare la guerra, cerchi almeno di iniziarla vantaggiosamente qualora gli si presenti l'occasione favorevole e di precedere il vicino, il quale a sua volta non mancherebbe casione contraria;

di precederlo in ocsicché molte guerre,

anche di offesa, sono ingiuste precau«zioni per porre al sicuro il proprio avere piuttosto che mezzi per usurpare quello altrui. Per quanto salutari possano essere in genere le massime riguar-

ESTRATTO danti

DAL

il bene

PROGETTO

pubblico,

DI

x

è certo

che,

PACE se

si considera solo gli scopi cui si bada in politica, e spesso perfino in morale, esse diventano perniciose per chi si ostini a praticarle con tutti quando nessuno le pratica con lui. Non ho nulla da dire sull'apparato militare, perché rimossi i solidi fondamenti o di paura o di speranza, questo apparato è un giuoco da bambini e i re non devono giocare alle bambole. Non dico niente neppure della gloria dei conquistatori perché, se ci fosse qual. che

mostro

unicamente

angustiato

per

non aver nessuno da massacrare, non si dovrebbe cercare di fargli intendere ragione, ma togliergli i mezzi con cui esercitare la sua furia assassina. Poiché la garanzia dell’articolo terzo previene ogni solida ragione di guerra, non è possibile avere dei motivi per suscitarla contro gli altri che non ne possano fornire

altrettanti,

agli

altri, contro

noi

stessi; ed è un grosso guadagno liberarsi da un rischio in cui ciascuno è solo contro tutti. Quanto alla dipendenza di ognuno dal

che

della

tribunale

non

comune,

diminuirà

in

sovranità,

ma

dell'avere

altrui,

è

assai

niente

al contrario

chiaro

i diritti li con-

soliderà e li renderà più sicuri, per mezzo dell'articolo terzo, garantendo a ognuno non solo i suoi Stati contro ogni invasione straniera, ma anche la sua autorità contro ogni ribellione dei sudditi !!, Così i principi non saranno meno assoluti e la loro corona sarà più sicura; in tal modo, poiché si sottopongono al giudizio della Dieta nelle loro liti da eguale a eguale e si tolgono il pericoloso potere di impadronirsi

non

fanno

altro

che rendere sicuri i loro veri diritti e rinunciare a quelli che non hanno. D'altra parte vi è una bella differenza fra il dipendere da altri o solamente da un Corpo politico, di cui si è membri e di cui ciascuno è capo a turno. Infatti in questo caso non si fa altro che mettere al sicuro la propria libertà con * A Questo punto obiezioni ma, poiché

si presentano anche altre l’autore del Progetto non

151

PERPETUA

le garanzie che ci vengon date: essa si alienerebbe nelle mani di un padrone ma si consolida in quelle degli associati. Il fatto è confermato dall’esempio del Corpo germanico: sebbene la sovranità dei suoi membri sia per molti aspetti alterata dalla sua costituzione ed essi si

trovino,

di

conseguenza,

in

una

si-

di questo

ca-

tuazione meno favorevole di quella nella quale si troverebbero i membri del Corpo europeo, non ve n'è tuttavia uno solo, per quanto geloso della propria autorità, che pur potendolo, voglia assicurarsi una indipendenza assoluta distaccandosi dall'Impero. Tenete inoltre presente che, avendo il Corpo germanico un capo permanente,

di

necessità

l'autorità

po tende incessantemente all’usurpazione; cosa che non può accadere nella Dieta europea, nella quale ci si deve alternare alla presidenza senza riguardo all'ineguaglianza di potenza. À tutte queste considerazioni se ne aggiunge un’altra ancor più importante per gente tanto avida di denaro quali sono sempre i principi: una pace continua rende estremamente più facile averne in abbondanza, per tutti i vantaggi che risulteranno ai loro popoli e a loro stessi, e per l'eccesso di spesa che vengono a risparmiare con il ridimensionamento dell’apparato bellico, di quel gran numero di fortificazioni e di quella enorme quantità di truppe che assorbono le loro entrate e divengono di giorno in giorno più onerose per i loro popoli e per loro stessi. So che non a tutti i sovrani conviene sopprimere tutte le loro truppe e non avere sottomano alcuna forza pubblica per soffocare una sommossa imprevista o respingere una invasione improvvisa *. So anche che si dovrà fornire un contingente alla confederazione, tanto per custodire le frontiere europee, quanto per mantenere l’armata confederale destinata a sostenere, in caso di bisogno, i decreti della Dieta. Ma una volta fatte queste spese, e soppresse per sempre se le è poste,

le ho escluse dal mio

esame.

152

SCRITTI

quelle

straordinarie

di

guerra,

resterà

ancora più della metà della spesa militare ordinaria da ripartire fra lo sgravio delle tasse ai sudditi e le casse del principe; in tal modo il popolo pagherà molto meno e il principe, assai più ricco, sarà in grado di stimolare il commercio,

l’agricoltura,

le

arti,

di

creare

istituzioni utili ad aumentare ancora la ricchezza del popolo e la sua; lo Stato avrebbe così una sicurezza ben più perfetta di quella che può trarre dagli eserciti e da tutto l'apparato di guerra che incessantemente lo esaurisce in tempo di pace. Si dirà forse che i paesi alle frontiere dell'Europa verrebbero allora a trovarsi in una posizione più svantaggiosa, e potrebbero egualmente dover sostenere delle guerre o con i Turchi o con i corsari africani o con i Tartari. A queste cose rispondo: 1) questi paesi si trovano oggi nella medesima condizione

e,

di

conseguenza,

questo

fatto non sarebbe da addursi come un vero svantaggio per loro, ma solamente come un vantaggio di meno e un inconveniente inevitabile al quale li espone

la

loro

posizione;

2)

liberati

da

ogni sorta di inquietudine dalla parte dell'Europa sarebbero assai meglio in grado

di resistere

verso

l'esterno;

3) la

onere tezze,

per i confederati; 4) queste forcostruite, mantenute e custodite

soppressione di tutte le fortificazioni all’interno dell'Europa e delle spese necessarie al loro mantenimento porrebbe la confederazione in grado di istituirne un gran numero sulle frontiere senza con spesa comune, sarebbero altrettante garanzie e mezzi di risparmio per le potenze di frontiera, di cui garantirebbero gli Stati; 5) le truppe della confederazione,

disposte

sui

confini

del-

l'Europa, sarebbero sempre pronte a respingere l'aggressore; 6) infine un Corpo tanto temibile quanto la Repubblica europea toglierebbe agli stranieri la voglia di attaccare uno qualsiasi dei suoi membri; allo stesso modo il Corpo germanico, molto meno potente, lo è tuttavia abbastanza per farsi rispettare dai vicini e proteggere utilmente tutti i

SULL'ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

principi che ne fanno parte. Si potrebbe dire ancora che,

se

gli

Europei non avessero guerre fra di loro, l'arte militare cadrebbe a poco a poco in oblio, le truppe perderebbero coraggio e disciplina, non vi sarebbero più né generali né soldati e l’Europa resterebbe alla mercé del primo venuto. Rispondo che accadrà una di queste due cose: o i vicini dell'Europa l’attaccheranno e le faranno guerra, oppure avranno timore della confederazione e la lasceranno in pace. Nel primo caso, ecco l’occasione per coltivare il genio e i talenti militari, per addestrare e formare le truppe. Le armate della confederazione saranno per tale aspetto la scuola dell'Europa; si andrà a imparare la guerra sulla frontiera, all’interno dell’Furopa si godrà della pace e si riunirà in tal modo i vantaggi dell'una e dell’altra. Si pensa forse che sia sempre necessario battersi in casa propria per diventare guerrieri? E i Francesi son forse meno valorosi perché le province di Turenna e di Angiò non sono in guerra l’una contro l'altra? Nel secondo caso non si potrà più, è vero,

addestrarsi

alla guerra,

ma

non

ve ne sarà più bisogno. A che pro esercitarsi alla guerra per non farla a nessuno? Che cosa è meglio, coltivare un'arte funesta oppure renderla inutile? Se vi fosse un segreto per godere di una salute inalterabile sarebbe cosa sensata respingerlo per non togliere ai medici l'occasione di farsi un’esperienza? Rimane da vedere in questo paragone quale delle due arti sia in sé più salutare e sia più degna di essere conservata, E non ci si minacci un'invasione improvvisa; sappiamo bene che l’Europa non ha da temerne, e che quel primo venuto non verrà mai. Non è più il tempo di quelle invasioni di barbari che sembravano cadere dalle nuvole. Dacché riusciamo a percorrere con occhio curioso tutta la superficie della terra, non può più capitarci niente che non sia da lungo tempo previsto. Nes. suna potenza al mondo è attualmente

ESTRATTO in grado e, se

DAL

PROGETTO

di minacciare

mai

ne

venisse

DI

PACE

l'intera Europa

una,

o ci

sarà

il

tempo di prepararsi, o per lo meno, se si è uniti in un Corpo, si sarà in grado di resisterle meglio che non se occorresse mettere fine di colpo a lunghe contese e riunirsi in fretta e furia. Abbiamo appena visto che, qualora si considerino bene tutti i pretesi inconvenienti dello stato di confedera-

zione,

essi

si

riducono

a

niente.

Ora

di

disordine

noi domandiamo se qualcuno al mondo oserebbe dire altrettanto di quelli che derivano dalla maniera attuale di porre fine alle dispute fra principe e principe sulla base del diritto del più forte, vale

a dire,

dallo

stato

e

di guerra necessariamente generato dalla reciproca indipendenza assoluta di tutti i sovrani nella società imperfetta che regna fra loro in Europa. Perché sia meglio in grado di considerare tali inconvenienti, farò in poche parole questo riassunto che offro all'esame del lettore. 1) Nessun diritto assicurato se non quello del più forte. 2) Mutamenti continui e inevitabili dei rapporti fra i popoli che impediscono a ciascuno di loro di consolidare la forza di cui dispone. 3)

Nessuna

to che

completa

i vicini

annientati.

4)

sicurezza

non

sono

Impossibilità

fin

sottomessi di

tan-

o

annien-

tarli tutti, dato che, una volta soggiogati i primi, se ne trovano sempre altri, 5) Precauzioni

e spese

immense

per

te-

nersi in guardia. 6) Mancanza di forza e di capacità difensiva da parte delle minoranze

e in caso

di rivolta;

giacché,

malgrado,

alle

quando lo Stato si divide in fazioni, chi può sostenere uno dei partiti contro l'altro? 7) Insicurezza negli impegni reciproci. 8) Non poter mai sperare giustizia da parte degli altri senza spese e perdite immense che non sempre la ottengono, e in cui l’oggetto disputato solo raramente compensa il danno. 9) Rischio inevitabile dei propri Stati e talvolta della vita nel tentativo di far valere i propri diritti. 10) Necessità di

prender

parte,

suo

liti

fra i vicini e di trovarsi in guerra quando meno lo si vorrebbe. 11) Interruzione del commercio e delle pubbliche

PERPETUA

entrate,

153

nel momento

necessarie.

12)

Pericolo

za, qualora

si sia forti.

in cui sono continuo,

più

qua-

lora si sia deboli, da parte di un vicino potente; oppure da parte di una allean-

13) Inutilità, in-

fine, della saggezza dove governa la fortuna, continue rovine dei popoli, indebolimento dello Stato nei successi e nei rovesci, completa impossibilità di istituire mai un buon governo, di fare assegnamento sul proprio avere, di rendere felici se stessi e gli altri. Ricapitoliamo allo stesso modo i vantaggi dell'arbitrato europeo per i principi confederati. 1) Sicurezza

totale

che

le

loro

con-

tese presenti e future saranno sempre risolte senza nessuna guerra; sicurezza incomparabilmente più utile per loro di quella che non sarebbe per i privati il non essere mai sottoposti a processo. 2) I motivi di contestazione eliminati o ridotti a poca cosa dall’annullamento di ogni pretesa anteriore, la qual cosa compenserà le rinunce e renderà più saldi i possessi. 3) Sicurezza totale e perpetua della persona del principe, della sua famiglia, dei suoi Stati e dell'ordine di successione fissato dalle leggi in ogni paese,

tanto

contro

l'ambizione

di

preten-

denti ingiusti e ambiziosi quanto contro le rivolte di sudditi ribelli. 4) Sicurezza completa dell’adempimento di tutti gli obblighi reciproci fra principe e principe, sotto la garanzia della Repubblica europea. 5) Libertà e sicurezza perfetta e perpetua per quanto concerne il commercio sia fra Stato e Stato, sia nelle province remote di ogni Stato. 6) Soppressione totale e perpetua delle spese militari straordinarie di terra e di mare in tempo di guerra, e consi. derevole diminuzione della spesa ordinaria in tempo di pace. 7) Sensibile incremento dell'agricol. ture e della popolazione, delle ricchezze dello Stato e delle entrate del principe. 8) Facilitazione per qualsiasi istitu zione che possa aumentare la gloria e l'autorità del sovrano, le risorse pubbliche e la felicità dei popoli.

SCRITTI

154

Lascio, come ho già detto, al giudizio dei lettori l'esame di tutti questi punti e il confronto fra lo stato di pace, quale risulta dalla confederazione, e lo stato di guerra, quale risulta dalla disorganizzaziane dell'Europa. Se noi abbiamo ragionato in modo giusto nell’esporre questo progetto, risulta dimostrato: in primo luogo, che lo stabilirsi di una pace perpetua dipende unicamente dal consenso dei sovrani, e non vi è altra difficoltà da sormontare che la loro resistenza; in se-

condo luogo, che questa istituzione sarebbe loro utile in ogni modo e non vi è nessun confronto da fare, neppure per loro, fra gli inconvenienti e i vantaggi; in terzo luogo, che è ragionevole supporre che il loro volere si accordi con il loro interesse; e infine, che questa istituzione, una volta formata, se-

cambiamento

non

della

ragionevolezza

altrui?);

ma

sol

dovrebbero

essere,

buoni,

generosi,

di-

sinteressati e amanti del pubblico bene per la loro umanità; ma quali sono, ingiusti, avidi e che antepongono a tutto il proprio interesse. Questo solo attribuiamo loro: una ragione bastante a giudicare ciò che è a loro utile ed abbastanza coraggio per fare la loro propria felicità. Se, malgrado tutto questo,

il

progetto

rimane

senza

effetto

non è perché sia chimerico; è perché gli uomini sono dissennati ed è una sorta di follia l'essere saggi in mezzo ai pazzi.

Nel prendere in esame la costituzione degli Stati che compongono l'Europa, ho visto come gli uni fossero

che,

a meno

di

non

aver

Il progetto di pace perpetua, essendo per il suo oggetto il più degno di tener occupato un uomo dabbene, fu anche, fra tutti quelli dell’Abbé de Saint-Pierre, quello sul quale egli rifletté più a lungo e che portò avanti con maggiore ostinazione: ci è infatti difficile dare altro nome a quello zelo da missionario che non gli venne mai meno

su questo punto,

nonostante

l’evi-

pubblico

bene,

dente impossibilità di successo, il ridicolo di cui si copriva di giorno in giorno, e l'avversione di cui fu sempre circondato. Sembra che questa anima retta,

intenta

solo

al

commisurasse l’attenzione che dedicava alle cose unicamente con il loro grado di utilità, senza mai lasciarsi scoraggiare dagli ostacoli né pensare mai all’interesse personale. Se

[FRAMMENTO]

SAINT-PIERRE

GIUDIZIO SUL PROGETTO DI PACE PERPETUA ®?

si può dire che i sovrani adotteran-

tanto che l'adotterebbero se prendessero in esame i loro veri interessi; giacché dobbiamo appunto rilevare che non abbiamo immaginato gli uomini quali

DE

in mano la forza, bisogna essere tanto ingenui quanto l’Abbé de Saint-Pierre per proporre la minima innovazione in qualsiasi forma di governo.

condo il piano proposto, sarebbe solida, duratura e corrisponderebbe perfettamente al suo scopo. Senza dubbio no questo progetto (chi può rispondere

SULL’ABBÉ

troppo grandi per poter essere ben governati e gli altri troppo piccoli per mantenersi indipendenti. In tutti regna un'infinità di abusi che è difficile prevenire e impossibile correggere, perché la maggior parte di tali abusi è fondata sugli interessi di quelli stessi che soli li potrebbero eliminare. Ho trovato che le connessioni esistenti fra tutte le potenze non lascerebbero mai ad alcuna di esse il tempo e la sicu rezza necessaria per rifondere la loro costituzione. Infine i pregiudizi sono talmente contrari a qualsiasi specie di

mai

verità

morale

fu

dimostrata,

mi sembra che essa sia l'utilità generale e particolare di questo progetto. Dalla sua esecuzione deriverebbero, sia per ogni principe, sia per ogni popolo, sia per tutta l'Europa, vantaggi immensi, chiari,

incontestabili,

e non

vi

è nien

GIUDIZIO

SUL

PROGETTO

DI

PACE

te di più solido ed esatto che i ragionamenti dai quali l’autore li deduce. Realizzate la sua Repubblica europea per la durata di un sol giorno: basterebbe a ciascuno

farla durare in eterno, vi troverebbe, in base

tanto all’e-

sperienza, il suo profitto particolare nel bene comune. I medesimi principi, che la difenderebbero se esistesse, ora si opporrebbero tuttavia allo stesso modo alla sua esecuzione e certamente ne impedirebbero la creazione come ne impedirebbero la fine. Così l’opera dell’Abbé de Saint-Pierre sulla pace perpetua appare a prima vista incapace di produtla e superflua per conservarla. Dunque è una vana speculazione, dirà qualche lettore impaziente. No, è un libro

solido

base

alla

e meditato,

ed

è molto

im-

portante che esista. Iniziamo dall'esame delle difficoltà sollevate da chi non giudica le ragioni col metro della ragione, ma solo in nulla getto

loro

riuscita,

e

che

non

ha

da obiettare contro questo prose non che esso non ha avuto

esecuzione.

Difatti,

essi

senza

dubbio

diranno, se questi vantaggi sono veramente reali, perché mai i sovrani d’Europa non hanno adottato tale progetto? Perché essi trascurano il proprio interesse se questo interesse è così ben dimostrato? Li si vede mai d'altronde rigettare i mezzi di accrescere le loro entrate e la loro potenza? Se esso fosse davvero utile a questo, come si afferma, si può forse credere che la loro sol-

lecitudine fosse minore per esso che per tutti quelli dai quali sono indotti in errore da sì lungo tempo, e che preferissero mille risorse ingannatrici a un evidente profitto? Senza dubbio questo è credibile; a meno di non supporre che la loro saggezza sia eguale alla loto ambizione e che essi vedano tanto meglio i loro vantaggi quanto più ardentemente li desiderano; invece il ricorrere sempre ad espedienti che lo ingannano è il grande castigo degli eccessi dell'’amor proprio,

e

l'ardore

delle

passioni

è

quasi

sempre ciò che li svia dal loro scopo. Distinguiamo dunque in politica come

155

PERPETUA

in morale l'interesse reale da quello apparente. Il primo sarebbe costituito dalla pace perpetua, e questo è stato dimostrato nel progelfo; il secondo è costituito dallo stato di indipendenza assoluta che sottrae i sovrani al dominio della legge per sottometterli a quello della fortuna; ed essi somigliano a un pilota dissennato il quale, per far mostra di un vano sapere e imporsi ai suoi marinai, preferisca ondeggiare fra le rocce durante la tempesta piuttosto che arrestare la nave con le ancore. Ogni preoccupazione dei re, o di coloro che essi investono delle proprie funzioni, è in relazione a due soli oggetti: accrescere il proprio dominio al. l'esterno e renderlo più assoluto all'interno.

Qualsiasi

Stato

non

altra

mira,

o

è

in

re-

lazione con uno dei due, o gli serve solo da pretesto. Tali sono il bere pubblico, la felicità dei sudditi, la gloria della nazione, parole proscritte per sempre dai gabinetti dei principi e così pesantemente impiegate negli editti pubblici, i quali non annunciano mai se non ordini funesti, e il popolo comincia subito a preoccuparsi quando i suoi padroni gli parlano delle loro paterne cure. In base a questi due principi fondamentali, si giudichi in qual modo i principi possano accogliere una proposta che urta direttamente l'uno e che non è molto più favorevole all'altro. Infatti si può ben intuire che la Dieta europea rende stabili i regimi di ogni meno

dei

suoi

confini,

che

non si può garantire i principi dalla rivolta dei sudditi senza garantire allo stesso tempo i sudditi dalla tirannia dei principi e che altrimenti l'istituzione non sarebbe in grado di sussistere. E io domando se vi sia al mondo un solo sovrano il quale, limitato così per sempre nei suoi progetti più cari, sopporti senza indignazione la sola idea di vedersi costretto a esser giusto, non soltanto verso gli stranieri, ma anche con i propri sudditi. È

anche

facile

comprendere

che,

da

una parte la guerra e le conquiste e dall’altra il progredire del dispotismo,

156

SCRITTI

si aiutino a vicenda, che in un popolo di schiavi si prenda a discrezione del denaro, e degli uomini per soggiogarne altri, che la guerra fornisca vicendevolmente un pretesto per esazioni pecuniarie e un altro non meno specioso per aver sempre grandi armate allo scopo di tenere il popolo in soggezione. Ciascuno infine vede con sufficiente chiarezza come i principi conquistatori facciano per lo meno altrettanta guerra ai loro sudditi che ai loro nemici e che la condizione dei vincitori non è migliore di quella dei vinti. « Ho battuto i Romani, scriveva Annibale ai Cartaginesi; inviatemi truppe; ho imposto tributi

all'Italia,

mandatemi

del

denaro ».

Ecco cosa significano i Te Deum, i falò e l'allegria del popolo di fronte ai trionfi dei propri padroni. Quanto alle controversie tra principe e principe, si può forse sperare di sottoporre

a un

tribunale

superiore

uo-

mini i quali osano vantarsi che il loro potere si fonda unicamente sulla spada e che menzionano Dio stesso solo per il fatto che sta in cielo? Nelle loro contese si sottoporranno i sovrani a procedimenti giudiziari che tutto il rigore delle leggi non ha mai potuto costringere i privati ad ammettere nelle loro? Un semplice gentiluomo offeso disdegna lo sporger querela presso il tribunale dei marescialli di Francia e voi volete che un re presenti le proprie alla Dieta europea? E in più vi è questa differenza: l’uno trasgredisce la legge ed espone

due volte la vita, mentre

l’al-

tro espone solo i suoi sudditi; ed egli usa, nel prendere le armi, di un diritto riconosciuto da tutto il genere umano e di cui egli afferma dover rendere conto solo a Dio. Un principe, che espone la sua causa alle sorti della guerra, non ignora di

correre

dei

rischi,

ma

essi

lo

toccano

malumori,

indebo-

meno dei vantaggi che si ripromette, perché teme la fortuna assai meno di quanto non speri nella propria saggezza; se è potente fa assegnamento sulle proprie forze, se debole sulle sue alleanze; talvolta gli torna utile liberarsi

all’interno

dei

SULL'ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

lire i sudditi indisciplinati, addirittura patire dei rovesci, e il politico abile sa trarre vantaggio dalle proprie disfatte. Spero che ci si ricordi che non sono io a ragionare in questo modo, ma il sofista di corte, il quale preferisce un grande territorio e pochi sudditi poveri e sottomessi all'incrollabile autorità su un popolo felice e prospero che la giustizia e le leggi conferiscono al principe.

Ancora per lo stesso principio egli rifiuta dentro di sé l'argomento tratto dalla sospensione del commercio, dallo spopolamento, dal dissesto delle finanze e dalle perdite effettive che sono causate da una vana conquista. È un calcolo assai errato quello di valutare sempre in termini di denaro i guadagni e le perdite dei sovrani. Il grado di potenza al quale essi mirano non è valutabile in base ai milioni che essi possiedono. Il principe fa sempre circo lare i propri progetti; egli vuol comandare per arricchirsi e si arricchisce per

comandare;

sacrificherà volta volta l’una

o l'altra cosa per procacciarsi quella delle due che gli manca, ma egli cerca di conseguirle separatamente soltanto per giungere ad averle alla fine tutte e due insieme, giacché per essere padrone degli uomini e delle loro cose occorre che abbia allo stesso tempo l’autorità e il denaro. Aggiungiamo, infine, a proposito dei vantaggi che deriveranno al commetcio da una pace generale e perpetua, che essi sono ben certi in se stessi ed incontestabili, ma che essendo comuni a tutti non saranno effettivi per nessuno, poiché vantaggi di tal genere non sono sensibili che per le loro differenze e poiché per accrescere la propria relativa potenza si deve cercare soltanto beni esclusivi. Continuamente ingannati dall’apparenza delle cose, i principi respingerebbero dunque questa pace, quand'anche essi stessi preferissero-i propri interessi. Che cosa accadrà quando essi li faranno considerare ai loro ministri, gli interessi dei quali sono sempre opposti a quelli del popolo e quasi sempre a

GIUDIZIO

SUL

PROGETTO

DI

PACE

quelli del principe? I ministri hanno bisogno della guerra per rendersi necessari, per gettare il principe in difficoltà da cui egli non possa togliersi senza di loro, e perdere lo Stato, se occorre, piuttosto del loro posto; ne hanno bisogno

per vessare il popolo, prendendo a pre-

testo le pubbliche necessità; ne hanno bisogno per procurare posti ai loro protetti, per guadagnare sui mercati, e per

crearsi segretamente mille poli abusivi; ne hanno soddisfare le loro passioni ciarsi a vicenda; ne hanno impadronirsi del principe, alla

corte,

quando

vi

si

odiosi monobisogno per e per scacbisogno per sottraendolo

formano

peri-

colosi intrighi contro di loro. Con la pace perpetua perderebbero tutte queste risorse; e il pubblico non cessa di domandarsi perché, se questo è un progetto possibile, essi non l'abbiano adottato! Non vede che in questo progetto non vi è nulla di impossibile se non che esso sia da loro adottato. Che cosa faranno dunque per opporvisi? Quello che hanno fatto sempre: lo volgeranno in ridicolo. Non si può neppure credere con l’Abbé de Saint-Pierre che, proprio con quella buona volontà che i principi e i loro

ministri

non

avranno

mai,

sia fa-

cile trovare un momento favorevole all'attuazione di questo sistema. Perché ciò accadesse occorrerebbe infatti che la somma degli interessi particolari non prevalesse sull'interesse comune e che ciascuno credesse di vedere nel bene di tutti il più grande bene che possa sperare per se stesso. Si richiede dunque una convergenza di saggezza in tante teste e una convergenza di rapporti in tanti

ingeressi

che

non

si

deve

aver

molta speranza nell'eventualità di un accordo fortuito di tutte le circostanze necessarie; tuttavia, se un accordo non ha

luogo,

soltanto

la forza

può

ad esso

supplire, e allora il problema non è più di persuadere ma di costringere, e non occorre più scrivere libri ma arruolare truppe. In tal modo, sebbene il progetto sia assai saggio, i mezzi per attuarlo risentono dell’ingenuità dell’autore; egli

PERPETUA

157

bonariamente si immaginava che bastasse riunire un congresso, proporgli i propri articoli: essi sarebbero stati sottoscritti e tutto si sarebbe concluso. Riconosciamo che in tutti i suoi progetti questo onest'uomo vedeva assai bene l’effetto delle cose quando esse fossero

stabilite,

ma

che

giudicava

co-

me un bambino riguardo ai mezzi per realizzarle. Vorrei soltanto, per provare che il progetto di una Repubblica cristiana non è chimerico, nominare il suo primo autore: infatti Enrico IV non era pazzo né Sully un visionario. L’Abbé de Saint-Pierre si serviva di questi grandi nomi per riproporre il loro sistema. Ma quale differenza nel tempo, nelle circostanze, nella proposta, nel modo di presentarla e nel suo autore! Al fine di giudicarla diamo un'occhiata alla situazione generale nel momento scelto da Enrico IV per l'esecuzione del suo progetto. La grandezza di Carlo V, che regnava su una parte del mondo e faceva tremare l’altra, l'aveva fatto aspirare alla monarchia universale con grandi possibilità di successo e con grandi doti per avvantaggiarsene. Suo figlio, più ricco e meno potente, perseguì incessantemente un progetto che non era capace di mandare a effetto e non cessò di dare all'Europa continue preoccupazioni, e la casa d'Austria aveva conseguito un tale ascendente sulle altre potenze che nessun principe regnava sicuro se non era in buoni rapporti con lei. Filippo III, ancor

meno

abile

del

padre,

fu

l’erede

di tutte le sue pretese. Il terrore della potenza spagnola teneva ancora l'Europa in soggezione e la Spagna continuava a dominare per l'abitudine al comando piuttosto che per il potere di farsi obbedire. In effetti la rivolta dei Paesi Bassi, gli armamenti contro l'Inghilterra, le guerre civili in Francia avevano esaurito le forze della Spagna e i tesori delle Indie. La casa d'Austria, divisa in due rami, non operava più di concerto come prima e, sebbene l'Imperatore si sforzasse di mantenere o di recuperare in Germania l'autorità di

SCRITTI

158 Carlo V, non

faceva altro che inimicarsi

i principi e fomentare leghe che non tardarono a spuntare e che per poco non lo detronizzarono. Così da tempo si preparava la decadenza della casa d'Austria e la restaurazione della comune libertà. Tuttavia nessuno osava arrischiarsi a essere il primo a scuotere il giogo e a esporsi da solo alla guerra. L'esempio dello stesso Enrivo IV, che se

l'era

cavata

così

male,

toglieva

co-

raggio a tutti gli altri. Del resto, per non parlare del duca di Savoia, troppo debole e troppo sottomesso per prendere una

qualsiasi

pace

di

tanti sovrani

iniziativa,

concepire

presa; ciascuno dalle circostanze re le. proprie grosso modo la rico concepì il blica cristiana e Progetto certo per se stesso e offuscare

la

non

c'era

fra

una

im-

un solo capo energico cae

sostenere

attendeva dal tempo e il momento di spezzacatene. Ecco qual’era situazione quando Enprogetto della Repubsi preparò ad attuarlo. grande, ammirevole di del quale non voglio

fama,

ma

che

avendo

per

sua segreta ragione la speranza di diminuire il potere di un temibile nemico riceveva da questo pressante motivo un impulso che difficilmente avrebbe trovato nella sola utilità comune. Vediamo ora quali mezzi quel grande uomo aveva impiegato per preparare una così alta impresa. Di buon grado sono disposto a considerarlo il primo ad

averne

viste

bene

tutte

le difficoltà;

riservò

l'attuazione

cosicché, avendo concepito getto fin dall'infanzia, vi tutta

la

vita,

e ne

questo prorifletté per

alla vecchiaia. Tale condotta prova anzitutto quella brama ardente e costante che solo può vincere i grandi ostacoli nelle cose difficili, e inoltre quella saggezza paziente e meditata la quale da gran tempo si spiana la via con la preveggenza e con la preparazione. Infatti vi è una bella differenza fra le imprese necessarie, nelle quali la stessa prudenza vuole che si conceda qualcosa al caso, e quelle che solo il successo può giustificare perché, avendo potuto fare a meno di compierle, non si dovevano tentare che a colpo sicuro. Anche il

SULL'ABBE

DE

SAINT-PIERRE

profondo segreto che mantenne per tut-

ta la vita, fino al momento dell’esecuzione, era tanto essenziale quanto diffi cile in una faccenda così importante,

alla quale era necessaria la cooperazione di tanta gente e che tanta gente aveva interesse a ostacolare. Sembra

che,

pur

avendo

tratto

dalla

sua

parte

un

mini

la maggioranza dell'Europa e stretto una lega con le maggiori potenze, avesse soltanto un solo confidente che fosse a conoscenza del piano in tutta la sua estensione e, per una fortuna che il cielo non ha accordato che al migliore dei

re,

questo

confidente

fu

stro integerrimo. Ma, senza che niente trapelasse di questi grandi progetti, tutto procedeva in silenzio verso la loro attuazione. Per due volte Sully era andato

a Londra;

la

macchinazione

era

concertata con re Giacomo e il re di Svezia era per parte sua impegnato: l'alleanza con i protestanti tedeschi era già conclusa; si poteva anche fare affida-

mento sui principi italiani, e tutti cooperavano al gran fine senza poter dire quale esso fosse, come gli operai che lavorano separatamente ai pezzi di una nuova macchina della quale essi ignorano la forma e l’uso. Che cosa dunque favoriva questo movimento generale? Era forse la pace perpetua che nessuno prevedeva e di cui pochi si sarebbero curati? O forse l'interesse pubblico che non è mai quello di alcuno in patticolare? Lo poteva sperare l’Abbé de SaintPierre! Ma in realtà ciascuno lavorava solo in vista del proprio interesse particolare, che Enrico

aveva avuto

l’accor-

tezza di mostrare a tutti loro sotto un aspetto assai attraente. Il re d’Inghilterra aveva da liberarsi dalle continue cospirazioni dei cattolici del suo regno, tutte fomentate dalla Spagna. Inoltre gli tornava assai utile un affrancamen-

to delle Province Unite, che gli costava molto sostenere, e che lo espone-

vano quotidianamente al rischio di una guerra che egli paventava o alla quale preferiva contribuire una buona volta con tutti gli altri così da liberarsene per sempre. Il re di Svezia voleva assicurarsi la Pomerania e metter piede in

GIUDIZIO

SUL

PROGETTO

Germania.

L’Elettore

compensati

meglio

DI

Palatino,

PACE

allora

protestante e capo della confessione di Augusta, aveva delle mire sulla Boemia e aveva parte in tutte quelle del re d'Inghilterra. I principi della Germania avevano da reprimere le usurpazioni di casa d'Austria. Il duca di Savoia avrebbe ottenuto Milano e la corona di Lombardia che egli desiderava ardentemente. Il papa stesso, molestato dalla tirannia spagnola, era della partita a prezzo del regno di Napoli che gli era stato promesso. Gli Olandesi, ri. avrebbero guadagnato loro

libertà.

di

tutti

gli

altri,

la sicurezza della

Infine,

oltre

all'interesse

e sensibile,

e che

ra per

comune di umiliare una potenza orgogliosa che voleva dominare ovunque, ciascuno ne aveva uno particolare assai

vivo

non

veniva

messo in forse dal timore di sostituire un tiranno all’altro, poiché ci si era accordati che le conquiste sarebbero state divise fra tutti gli alleati a esclusione delia Francia e dell'Inghilterra, le quali non avrebbero potuto tener nulla per sé. Questo bastava per calmare ogni perplessità sulle ambizioni di Entico IV. Ma questo saggio principe non ignorava che, pur non riservandosi niente con questo trattato, nondimeno veniva a guadagnarci più di ogni altro. Infatti, senza aggiungere nulla al suo patrimonio, gli bastava dividere quello della sola potenza che fosse superiore a lui per divenire egli stesso il più potente;

e

si

vede

chiaramente

che,

nel

prendere tutte le precauzioni che potevano assicurare il successo dell'impre-

sa, non

trascurava

mibili,



quelle

che

dovevano

dargli il primato nel corpo che voleva istituire. Inoltre i suoi preparativi non si limitavano a formare all’esterno leghe tea

contrarre

alleanze

con

suoi vicini e con quelli del suo nemico. Mentre interessava tanti popoli ad abbattere il primo potentato d'Europa, non dimenticava di porsi in grado di divenirlo egli stesso a sua volta. Impiegò quindici anni di pace a fare preparativi degni dell'impresa che meditava. Riempì i forzieri di denaro, gli

i

159

PERPETUA

arsenali di artiglieria, armi e munizioni; apprestò per tempo risorse e bisogni imprevisti, ma senza dubbio fece più di tutto ciò governando saggiamente i suoi popoli, sradicando a poco a poco tutti i germi di divisione e mettendo così bene in ordine le sue finanze da poter far fronte a tutto senza opprimere i suoi sudditi. In tal modo, tranquillo all'interno e temibile all'esterno, si trovò in grado di armare e mantenere alle armi sessantamila uomini e venti vascelli da guerra, di partire dal regno senza lasciarvi la minima fonte di disordine, e di far la guersei anni

senza

toccare

le entrate

ordinarie né imporre un soldo di nuove tasse. À tanti preparativi aggiungete, per la conduzione dell'impresa, lo stesso zelo e la stessa prudenza con cui era stata progettata, tanto da parte sua quanto da parte del suo ministro. Infine, a capo delle spedizioni militari, un condottiero

come

lui,

mentre

l'avversario

non ne aveva uno simile da opporgli, e potete giudicare se alla speranza del suo successo mancasse nulla di ciò che può annunciare un esito felice. Senza esser giunta a capire le sue mire, l’Europa, attenta ai suoi immensi preparativi, ne attendeva l’effetto con un certo sbigottimento. Un futile pretesto stava per dare inizio a questa grande rivoluzione. Una guerra che doveva esser l’ultima preparava una pace immortale, quando un

avvenimento,

il cui

orribile

mistero

lo rende ancor più spaventoso, venne ad allontanare per sempre l'ultima speranza del mondo. Lo stesso colpo che troncò per sempre la vita di quel buon re rituffò l'Europa in eterne guerre delle quali essa non può più sperare di vedere la fine. Comunque sia, questi sono i mezzi che Enrico IV aveva messo insieme per creare la stessa istituzione che l'Abbé de Saint-Pierre pretendeva costruire con un libro. E non mi si dica quindi che il suo sistema non è stato adottato perché non era buono. Si dica invece che era troppo buono per essere adottato; infatti il male e gli abusi di cui tanta

SCRITTI

160

gente profitta s’introducono da soli; ma ciò che è utile al pubblico non si introduce altro che con la forza, dato che

gli interessi particolari quasi sempre vi si oppongono. Certo, allo stato attuale, il progetto di una pace perpetua è ben

assurdo,

ma

ci restituiscano

un

En-

rico IV e un Sully, e quello della pace perpetua tornerà a essere un progetto ragionevole; o piuttosto ammiriamo un così bel disegno e consoliamoci di non vederlo attuare, giacché ciò non può avvenire che con mezzi violenti e terribili per la umanità. Non è possibile che si formino leghe federative altro che in seguito a rivolgimenti e, in base a tale principio, chi di noi può arrischiarsi a dire se questa lega europea sia da desiderare o da temere? Forse essa in una sola volta farebbe più male di quanto non ne impedirebbe per dei secoli. Giudizio sulla pace perpetua N.B. Abbiate cura di far mettere in bella queste cose da qualcuno che sia molto

intelligente,

molto

esatto,

ma

che non si dia pensiero di interpretarle.

LO STATO DI GUERRA NASCE DALLO STATO SOCIALE Ma qualora fosse vero che questa illimitata e indomita cupidigia fosse sviluppata in tutti gli uomini fino al punto che suppone il nostro sofista, essa non basterebbe a produrre quello stato di guerra universale di ciascuno contro

tutti,

di

cui

Hobbes

osa

tracciare

l'odioso quadro . Questo sfrenato desiderio di appropriarsi di ogni cosa è incompatibile con quello di distruggere tutti i propri simili; e il vincitore che dopo aver ucciso tutti avesse la mala sorte di restar solo al mondo non godrebbe di nulla per il fatto stesso che avrebbe tutto. A che cosa servono le stesse ricchezze se non a essere trasmesse? A che cosa gli servirebbe il possesso di tutto l’universo se egli ne

SULL'ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

fosse l’unico abitante? E che? Il suo stomaco divorerà tutti i frutti della terra? Chi ammasserà per lui i prodotti di tutti i climi? Chi renderà testimonianza del suo dominio nelle vaste solitudini in cui egli non abiterà? Che cosa

se

ne

farà

dei

tesori,

chi

consu-

merà le sue derrate, davanti a quali occhi dispiegherà il suo potere? Capisco: invece

ti

di massacrare

in

catene,

schiavi.

Questo

per

tutti,

avere

cambia

metterà

almeno

tut-

degli

immediatamente

tutto l'aspetto della questione e, dato che non si tratta più di distruggere, lo stato di guerra viene eliminato. Il lettore sospenda il giudizio a questo punto. Non dimenticherò di trattare questo argomento. L'uomo è per natura pacifico e timoroso;

al

minimo

pericolo

il suo

pri-

mo impulso è quello di fuggire; egli non diviene bellicoso che a forza di abitudine e di esperienza. L'onore, l’interesse,

i pregiudizi,

risolve

ad

la

vendetta,

tutte

le passioni che possono fargli sfidare i pericoli e la morte, sono lontane da lui nello stato di natura. E solo dopo essersi associato con qualche altro egli si attaccare

un

altro

uomo;

diviene soldato soltanto dopo essere stato cittadino. In ciò grandi disposizioni a far guerra a tutti i propri simili non se ne vedono. Ma che io mi soffermi su un sistema tanto ripugnante quanto assurdo, e che è già stato cento volte confutato, è veramente troppo. Non vi è dunque uno stato generale di guerra tra uomo e uomo !; e la specie umana non è stata creata unicamente per distruggersi a vicenda. Resta da esaminare la guerra accidentale e particolare che può nascere fra due o più individui. Se la legge naturale fosse scritta soltanto nella ragione umana essa sarebbe poco idonea a dirigere la maggior parte

delle

nostre

azioni,

ma

essa è an-

che impressa a caratteri indelebili cuore dell'uomo ed è qui che essa parla più forte di tutti i precetti filosofi; qui essa gli grida che non è permesso sacrificare la vita del

nel gli dei gli suo

LO

STATO

161

DI GUERRA

simile altro che per conservare la propria e suscita in lui l'orrore del versare senza collera il sangue umano, anche quando egli fosse a ciò obbligato. Mi rendo conto che, nelle dispute senza arbitri che possono sorgere nel-

temente da quelle di Stato. Ma questa è certo una questione oziosa, giacché,

possa

principe

lo

stato

di

talvolta

apertamente

natura,

un

ucciderne

uomo

un

con la forza,

sia

irritato

altro

sia

con

l'’in-

ganno. Ma se si tratta di una vera e propria guerra si provi a immaginare la strana situazione di un uomo che può conservare la sua vita soltanto a spese di quella di un altro e che, per un rapporto stabilitosi fra loro, occorra che l'uno muoia perché l’altro viva. La guerra è uno stato permanente che presuppone relazioni costanti, e queste relazioni assai di rado si danno fra uomo

e

uomo,

mentre

fra

gli

individui

tutto è sottoposto a un flusso continuo

che incessantemente muta rapporti ed interessi. Di modo che quasi nello stes-

so istante sorgono e cessano motivi di disputa, in un giorno comincia e finisce una lite e possono darsi combattimenti

e omicidi,

ma

mai,

o

assai

rara-

mente, lunghe inimicizie e guerre !, Nello

stato civile,

ove

la vita

di

tut-

ti i cittadini è alla mercé del sovrano e ove nessuno ha il diritto di disporre della propria né di quella degli altri, lo stato di guerra non può più darsi fra privati; e quanto ai duelli, alle disfide, ai cartelli di sfida, agli inviti a una singolar tenzone, a parte

il fatto che essi sono abusi non legittimi e barbari di norme esclusivamente militari,

da

essi

non

risultava

un

vero

stato di guerra, ma una’ faccenda privata che si definiva in tempo e luogo limitati, tanto che per un secondo combattimento occorreva un nuovo invito. Bisogna fare una eccezione per le guerre private che venivano sospese da tregue giornaliere, chiamate la pace di Dio, le quali furono sanzionate dagli statuti di San Luigi. Ma questo esempio

è un

caso

unico

nella

storia.

Ci si può anche chiedere se i re, i quali di fatto non sono soggetti ad autorità umane, potrebbero farsi l'un l’altro guerre personali e private indipenden-

come

si

sa,

spetta

a me

i

principi

non

hanno

la

consuetudine di risparmiare gli altri per esporsi di persona. Inoltre tale questione dipende da un'altra che non lo

Stato

sia

o

decidere:

sottoposto

meno;

cioè,

infatti,

alle

se anche

se

leggi

è ad

il

del-

esse

sottoposto, la sua persona è legata allo Stato e la sua vita appartiene ad esso come quella dell'ultimo dci cittadini. Ma se il principe è al di sopra delle leggi, egli vive nel puro stato di natura e non deve rendere conto delle sue azioni né ai suoi sudditi né a chicchessia. Lo Stato sociale Ci addentriamo ora in un nuovo ordine di cose. Vedremo gli uomini uniti da una concordia artificiale radunarsi per sgozzarsi l’un l'altro e tutti gli orrori della guerra nascere dalle precauzioni

che

avevamo

prese

per

prevenir-

stata

sostituita

la. Ma è anzitutto importante formarsi nozioni più esatte sull’essenza del corpo politico di quanto non si sia fatto finora. Il lettore pensi solamente che non si tratta tanto di storia e di fatti quanto di diritto e di giustizia, e che io esamino le cose secondo la loro natura piuttosto che secondo i nostri pregiudizi. Dalla formazione della prima società consegue necessariamente la formazione di tutte le altre. Bisogna farne parte o unirsi per resisterle. Bisogna imitarla ‘o lasciarsene inghiottire !9. In questo modo tutta la faccia della terra è mutata; dovunque la natura è scomparsa,

dovunque

è

dall'artificio umano; l'indipendenza e la libertà naturale hanno fatto posto alle leggi e alla schiavitù, e non vi è più possibilità di essere liberi; il filosofo cerca un uomo e non ne trova più. Ma invano si pensa di annullare la natura,

essa

rinasce

e si mostra

do-

ve meno ci si attenderebbe. L’indipendenza, tolta agli uomini, trovà rifugio nelle società, e questi grandi corpi, ab-

SCRITTI

162

bandonati ai loro impulsi, producono urti più terribili nella misura in cui la loro massa supera quella degli individui. Ma,

si

dirà,

se

ciascuno

di

questi

corpi ha un così solido assetto, come è possibile che giungano a urtarsi l’un l'altro? La loro propria costituzione non dovrebbe mantenere fra loro una pace eterna? Sono essi tenuti, come gli uomini, ad andare a cercare all’esterno

di che provvedere ai propri bisogni? Non hanno in se stessi tutto quanto è necessario alla propria conservazione? La concorrenza e gli scambi sono forse sorgente di una discordia inevitabile e in tutti i paesi del mondo non sono forse esistiti abitanti prima del commercio, prova invincibile che vi potevano vivere senza di esso? « Fine del capitolo: non esiste guerra fra gli uomini: esiste soltanto fra gli Stati ». Quanto a ciò, potrei limitarmi a rispondere con i fatti e non avrei a temere alcuna replica, ma non ho dimenticato di ragionare qui sulla natura delle cose e non su eventi che possono avere mille cause particolari, indipendenti dal principio comune. Ma consideriamo con attenzione la costituzione dei corpi politici e, benché a rigore ciascuno sia sufficiente alla propria conservazione, noi troveremo che le loro relazioni reciproche non mancano di essere molto più intime di quelle degli individui. Infatti l'uomo non ha in fondo alcuna relazione necessaria con i suoi

simili

e

può

vivere

in

tutto

il

suo vigore senza la loro cooperazione; egli ha bisogno non tanto di cure da parte degli uomini quanto di frutti dalla terra; e la terra produce più di quanto occorra per nutrire tutti i suoi abitanti. Si aggiunga che la natura ha fissato alla forza e alla grandezza dell’uomo un limite che egli non potrebbe oltrepassare. Da qualunque verso si consideri, egli trova limitate tutte le sue facoltà. La vita è corta, gli anni sono contati. Lo stomaco non diviene più grande con le ricchezze, le passioni han-

SULL’ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

no un bell’accrescersi ma i piaceri han-

no

una

loro

misura,

il cuore

è limitato

come tutto il resto e la capacità di godere è sempre la stessa. Ha un bell'innalzarsi idealmente, rimane sempre piccolo. Invece lo Stato, essendo un corpo artificiale,

non

ha

alcuna

misura

de-

terminata, la grandezza che gli è propria è indefinita, esso può sempre accrescerla e si sente sempre debole finché ne esiste qualcuno più forte di lui.

La

sua

sicurezza,

la

sua

conserva-

zione richiedono che esso si renda più potente di tutti i vicini. Esso può ac-

crescere, rinvigorire, fare uso delle sue forze soltanto a loro spese, e, se non

ha bisogno di cercare fuori di se stesso la

propria

sussistenza,

esso

vi

cerca

senza posa nuovi membri che gli diano una consistenza più salda. Infatti la ineguaglianza degli uomini ha dei limi. ti imposti dalla natura, ma quella delle società può crescere incessantemente fino a che una sola assorba tutte le altre. ° E così, poiché la grandezza del corpo politico è puramente relativa, esso è costretto a confrontarsi continuamente per conoscersi;

esso

dipende

da

tut-

to ciò che lo circonda e deve interessarsi a tutto ciò che vi accade, giacché ha un bel volersi chiudere in se stesso senza nulla guadagnare né perdere: diviene piccolo o grande, debole o forte, secondo che il suo vicino si espanda o si restringa, si rafforzi o si indebolisca. La sua stessa saldezza infine, rendendo più costanti le sue relazioni,

manda a un più sicuro effetto ogni sua azione e lo rende più pericoloso in ogni sua contesa. Sembra che ci si sia ingegnati a capovolgere tutte le vere idee delle cose. Tutto spinge l'uomo naturale al riposo; mangiare e dormire sono i soli bisogni che conosca; e solo la fame lo strappa alla sua pigrizia”. Lo hanno fatto diventare, in base a passioni che egli neppure conosce, un violento sempre pronto a tormentare i suoi simili; al contrario queste passioni, che sono esaltate in seno alla società da tutto

LO

STATO

DI

163

GUERRA

potere dei grandi, giacché la pubblica sensibilità non si accresce con il territorio: più esso si estende più la volontà diviene tiepida, più i movimenti divengono fiacchi e più questo grande corpo, sovraccarico del suo stesso pe-

ciò che possa suscitarle, vengono considerate come inesistenti. Mille scrittori hanno osato dire che il corpo politico è senza passioni e non ha altra ragione di esistere che la ragione stessa. Come se invece non si vedesse che la società consiste essenzialmente nella attività dei suoi membri e che uno Stato senza movimento non sarebbe altro che un corpo morto. Come se tutta la storia del mondo non ci mostrasse che le società meglio formate sono anche

le

più

attive

c,

tanto

so,

all'interno

quanto all'esterno, l’azione e reazione continua di tutti i loro membri non recasse testimonianza del vigore dell’intero corpo. La differenza fra l'arte dell'uomo e l'opera della natura si può riconoscere dagli effetti; i cittadini hanno un bel chiamarsi membri dello Stato: essi non saprebbero unirsi a lui come le membra vere lo sono al corpo. È impossibile fare in modo che ciascuno di loro non abbia una esistenza indi. viduale e separata con la quale egli possa bastare da solo alla propria conservazione;

i muscoli legami

sono

i nervi

hanno più

sono

meno

allentati,

meno

vigore,

sensibili,

tutti

il minimo

in-

sono

robusto

degli

Stati.

indebolisce,

cade

in

Ilanguore

e

le

condizioni,

che

cosa

sono

in

disconoscere

i di

lei

recare

of-

fondo simili paci se non una guerra proseguita con ancor maggiore crudeltà peiché il nemico vinto non ha più il diritto di difendersi? Ne parlerò in altro luogo. A tutto ciò aggiungete le tangibili testimonianze di cattiva volontà, le quali annunciano l'intenzione di nuocere, come il rifiutare a una potenza la dignità che

i

cidente può tutto disgiungere. Si tenga conto di quanto, nell'aggregazione del corpo politico, la forza pubblica sia inferiore alla somma delle forze particolari, quanti siano, per così dire, gli attriti negli ingranaggi della macchina nel suo complesso e si troverà che, fatte le debite proporzioni, il più debole degli uomini ha maggior forza per la propria conservazione di quanto non ne abbia per la sua il più

si

deperisce. Tali esempi bastano a dare una idea dei mezzi con i quali è possibile indebolire uno Stato e di quelli di cui la guerra sembra autorizzare l'uso per nuocere al nemico; per quanto concerne i trattati, alcuni dei quali di tali mezzi

Perché questo Stato sussista occorre perciò che la vivacità delle passioni supplisca a quella dei movimenti e che la sua volontà divenga tanto più efficace quanto più il suo potere si allenta. È la legge di conservazione che la natura stessa ha stabilito fra le specie e che le tiene tutte in vita malgrado le loro diseguaglianze. È anche, lo dico di sfuggita, il motivo per cui i piccoli Stati hanno in proporzione più

le

spetta,

il

diritti, il respingere le sue esigenze, il togliere ai suoi sudditi la libertà di commercio, l'eccitarle contro dei nemici e infine l'infrangere nei suoi confronti il diritto delle genti sotto un pretesto qualsiasi. Queste

diverse

maniere

di

fesa ad un corpo politico non sono tutte né egualmente fattibili, né egualmente utili a colui che le adopera; e vengono naturalmente preferite quelle da cui, allo stesso tempo, deriva il nostro proprio vantaggio e il danno al nemico. Così i principali oggetti delle reciproche

ostilità

divengono

la

terra,

il denaro e tutte le spoglie delle quali ci si può appropriare. Questa ignobile avidità muta a poco a poco il modo di concepire le cose e la guerra finisce per degenerare in brigantaggio, e da nemici e guerrieri si diviene, poco per

volta, tiranni e ladri. Per timore di adottare, senza rendersene conto, tali mutate concezioni, fis-

siamo prima di tutto le nostre con una definizione e cerchiamo di renderla così semplice da togliere ogni possibilità di errore.

SCRITTI

164

Chiamo guerra di potenza contro potenza l’effetto di una disposizione reciproca, costante e palese a distruggere lo

Stato

nemico

o,

per

lo meno,

a in-

che

resta

debolirlo con tutti i mezzi possibili. Quando questa disposizione si trasforma in azione si ha la guerra propriamente

detta;

fintanto

essa

senza effetto si ha lo stato di guerra. Prevedo una obiezione: dato che lo stato di guerra è a parer mio naturale fra le potenze, perché occorre che sia manifesta la disposizione da cui essa deriva? A ciò rispondo che prima ho parlato dello stato naturale e che qui parlo dello stato legittimo, e farò vedete più sotto come, per divenire tale, la guerra debba essere dichiarata. Distinzioni

fondamentali

Prego i lettori di non dimenticare che io non cerco ciò che rende la guerra vantaggiosa a chi la fa, ma ciò che la rende legittima. L'esser giusti è quasi sempre penoso. Ma possiamo forse esimerci dall’esserlo? Se

mai

vi

fu,

o

vi

sarà,

una

vera

guerra fra privati, chi sono dunque coloro fra i quali essa ha luogo e che possono effettivamente chiamarsi nemici? Rispondo che sono le persone pubbliche. E che cosa è una persona pubblica? Rispondo che è quell'ente morale che chiamiamo sovrano, al quale il patto sociale ha dato esistenza e di cui tutte le volontà portano il nome di legge. Applichiamo qui le distinzioni precedenti; si può dire che, quanto agli effetti della guerra, è il sovrano a fare il danno e lo Stato a riceverlo. Se la guerra si fa soltanto fra enti morali, non vi è odio fra gli uomini ed è possibile farla senza togliere la vita a nessuno. Ma ciò richiede una spiegazione. Se consideriamo le cose soltanto secondo il rigore del patto sociale, la terra, il denaro, gli uomini e tutto ciò che è compreso nei confini dello Stato gli appartiene senza eccezioni. Ma, poiché

SULL’ABBÉ

non

DE

SAINT-PIERRE

si possono annullare i diritti della

società,

fondati

su

tutto

ciò

quelli

della

natura,

bisogna considerare tutti questi oggetti sotto un duplice aspetto: cioè, il suolo come territorio pubblico e come patrimonio dei privati; i beni come appartenenti in un senso al sovrano e in un altro ai proprietari !*; gli abitanti come cittadini e come uomini. In sostanza il corpo politico, essendo soltanto una persona morale, non è altro che un ente nazionale. Togliete la convenzione pubblica e lo Stato è distrutto sull’istante senza la minima altera. zione

in

che

lo

compone;

e

tutte le convenzioni degli uomini non riusciranno mai a cambiare nulla nella costituzione delle cose. Che cosa è dunque far la guerra a un sovrano? È attaccare la convenzione pubblica e tutto ciò che ne deriva; giacché l'essenza dello Stato non consiste che in questo. Se il patto sociale potesse essere troncato in un sol colpo, istantaneamente non ci sarebbero più guerre; e lo Stato sarebbe ucciso da questo sol colpo senza che morisse un solo uomo. Aristotele dice che, per autorizzare i crudeli trattamenti che gli iloti pativano a Sparta, gli Efori, entrando in carica, dichiaravano loro solennemente guerra. Questa dichiarazione era tanto superflua quanto barbara. Tra loro lo stato di guerra sussisteva necessariamente per il solo fatto che gli uni erano i padroni e gli altri gli schiavi. Non vi è dubbio che,

poiché

i Lacedemoni

uccideva-

no gli iloti, gli iloti avessero il diritto di uccidere i Lacedemoni. Apro i libri di diritto e di morale, ascolto sapienti e giureconsulti e, preso ro

dai loro accattivanti discorsi, deplole miserie della natura, ammiro la

pace e la giustizia stabilite dall'ordine civile, benedico la saggezza delle pub-

bliche istituzioni e, nel vedermi cittadino, mi consolo di essere uomo. Be-

ne istruito sui mici doveri e sulla mia

felicità,

chiudo

il

libro,

esco

di

classe

e guardo intorno a me: vedo popoli disgraziati gemere sotto un giogo di ferro, il genere umano schiacciato da un pugno di oppressori, una moltitudine

LO STATO

165

DI GUERRA

affamati, oppressa dal dolore e dalfame, della quale il ricco beve in pail sangue e le lacrime, e dovunque forte armato del terribile potere delleggi contro il debole. Tutto ciò avviene pacificamente e senza ostacoli: è la tranquillità dei compagni di Ulisse rinchiusi nella caverna del Ciclope in attesa di essere divorati. Bisogna gemere e tacere. Stendia-

le idee

orrore.

le leggi; come popolo, ciascuno gode della libertà naturale: ciò rende in fondo la nostra situazione peggiore che non se queste distinzioni fossero sco-

di la ce il le

mo

un

velo

Alzo

eterno

su

questi oggetti

gli occhi

e guardo

di

lonta-

no. Scorgo fuochi e fiamme, campagne deserte, città messe a sacco. Uomini truci, dove trascinate quei disgra-

ziati? Odo un rumore raccapricciante; che tumulto! Che grida! Mi avvicino;

vedo una scena di assassinii, diecimila uomini sgozzati, i morti accatastati in mucchi, i morenti calpestati dai cavalli,

dovunque l'immagine della morte e dell'agonia. Questo dunque è il frutto delle istituzioni pacifiche! La pietà, la indignazione sorgono dal fondo del mio cuore. Ah filosofo barbaro! Vieni a leggerci il tuo libro su un campo di battaglia! Quali

viscere

umane

non

sarebbero

commosse davanti a tali tristi spettacoli? Ma non è più permesso essere uomini e perorare la causa dell'umanità. La giustizia e la verità devono essere piegate all'interesse dei più potenti: è la norma. Il popolo non dà né pensioni, né impieghi, né cattedre, né posti

alle

Accademie;

in virtù

di

che

co-

sa lo si dovrebbe proteggere? ! Principi magnanimi, parlo a nome del corpo letterario: opprimete il popolo con coscienza tranquilla; da voi soli noi attendiamo tutto; il popolo non ci serve a niente. In che modo una così fievole voce si fatà intendere attraverso tanti venali clamori? Ahimè! Bisogna che taccia; ma la voce del mio cuore non riuscirà ad aprirsi un varco in tanto triste silenzio? No; senza entrare in odiosi particolari che passerebbero per ironici per il solo

fatto

di

essere

veri,

mi

limite

rò, come ho sempre fatto, a esaminare le istituzioni umane in base ai loro principi, a correggere, se è possibile, I

tori

sbagliate

interessati,

che

a

ci danno

far

sì,

gli au-

almeno,

che

l'ingiustizia e la violenza non prendano impudentemente il nome di diritto e di equità. La prima cosa che osservo, nel considerare la condizione del genere uma-

no, sua

è una palese contraddizione nella costituzione che la rende sempre

vacillante, Come nello stato civile

nosciute.

uomini, e siamo

Infatti,

noi viviamo sottoposti al-

vivendo

nello

stesso

forza

e del-

tempo nell'ordine sociale e nello stato di natura, siamo soggetti agli inconvenienti dell'uno e dell'altro senza trovare sicurezza in nessuno dei due. La perfezione dell'ordine sociale consiste, è vero,

nel

concorso

della

la legge; ma a tal fine occorre che la legge diriga la forza; mentre, nelle idee di indipendenza assoluta dei principi, la forza sola, parlando

ai cittadini

sotto

il nome di legge e agli stranieri sotto il nome di ragion di Stato, toglie agli uni il potere e agli altri la volontà di resistere, cosicché il vano nome di giustizia serve ovunque come tutela alla violenza. Quanto

te chiamato

che,

leggi della

per

a ciò

che

viene

comunemen-

diritto delle genti, è certo

mancanza

di

ratifica,

le

sue

sono chimere ancora più deboli legge di natura. Questa almeno

parla al cuore

dei singoli, mentre,

aven-

do il diritto delle genti, come unica garanzia, il vantaggio di chi vi si sottomette, le sue decisioni sono rispettate soltanto nella misura in cui sono confermate dall’interesse. Nella condizione

mista

in

cui

ci

troviamo,

si dia

la preferenza all'uno o all’altro dei due sistemi, facendo troppo o troppo poco non abbiamo fatto niente, e siamo posti nella peggiore condizione in cui ci si poteva

trovare.

Ecco,

mi

sembra,

la

vera origine delle pubbliche calamità. Mettiamo per un momento a confronto queste idee coll’orrendo sistema di Hobbes: troveremo, completamente all'opposto della sua assurda dottrina,

SCRITTI

166

che, essendo lo stato di guerra ben lungi dall’essere naturale all'uomo, la guerra è nata dalla pace, o almeno dalle precauzioni prese dagli uomini per assicurarsi una pace duratura. Ma, prima di entrare in questa discussione, cerchiamo di spiegare ciò che... 0. Chi può avere ideato senza fremere

l’insensato sistema della guerra naturale di ciascuno contro tutti? Quale stra-

no animale sarebbe quello che credesse il proprio bene legato alla distruzione di tutta la sua specie! E come concepire

che

questa

specie,

per

quanto

mo-

struosa e detestabile, possa durare soltanto due generazioni? Ecco dunque fino a dove il desiderio, o piuttosto il furore, di istituire il dispotismo e l’obbedienza passiva ha condotto uno dei più begli ingegni che sia mai esistito. Un principio tanto feroce era degno di tale scopo.

le

Lo stato sociale, che comprime nostre

inclinazioni

naturali,

non

tutte

sa-

rebbe tuttavia capace di annientarle; malgrado i nostri pregiudizi e malgrado noi stessi, esse parlano ancora nel fondo dei nostri cuori e ci riportano spesso alla realtà che noi abbandoniamo per delle chimere. Se questa reciproca inimicizia distruttrice fosse legata alla nostra costituzione, ra sentire e ci

essa si farebbe tuttorespingerebbe, nostro

malgrado, attraverso tutte le catene sociali. L’orrendo odio contro l'umanità roderebbe il cuore dell'uomo. Egli sarebbe afflitto dalla nascita dei propri figli, sarebbe rallegrato dalla morte dei suoi fratelli e, quando trovasse qualcuno addormentato, il suo primo impulso sarebbe di ucciderlo. La benevolenza che ci fa prendere parte alla felicità dei nostri simili, la compassione che ci identifica con chi soffre e ci affligge del suo dolore sarebbero sentimenti sconosciuti e del tutto contrari alla natura. Un uomo sensibile

e pietoso

sarebbe

un

mostro;

c noi saremmo per natura ciò che riusciamo appena a divenire in mezzo alla depravazione che ci circonda. Invano il sofista direbbe che tale inimicizia reciproca non è innata e imme-

SULL’ABBÉ

diata,

ma

si

DE

SAINT-PIERRE

fonda

sulla

inevitabile

concorrenza che sorge dal diritto di ciascuno su tutte le cose. Infatti il sentimento di questo preteso diritto non è più connaturale all'uomo della guerra che egli ne fa nascere. L’ho già detto e non posso ripeterlo troppo: l’errore di Hobbes e dei filosofi è confondere l’uomo di natura con gli uomini che essi hanno sotto gli occhi,

e

trasferire

in

un

sistema

un

es-

nessuno

ha

sere che non può sussistere che in un altro. L'uomo desidera il proprio benessere e tutto ciò che ad esso possa contribuire; questo non è contestabile. Ma in natura questo benessere dell’uomo si limita al fabbisogno fisico. Infatti, quando l’anima è sana e il corpo non soffre, che cosa gli manca per essere felice in conformità alla sua costituzione? Chi non ha niente desidera poco;

chi

non

comanda

dera.

Chi

ha

offre

che

abissi

man

mano

a

poca ambizione. Ma il superfluo desta la cupidigia; più si ottiene, più si desimolto

vuole

avere

tutto;

in

chi

e la follia della monarchia universale ha sempre tormentato soltanto il cuore di un gran re. Ecco il cammino della natura, ecco lo sviluppo delle passioni. Un filosofo superficiale osserva delle anime cento volte rimpastate e fermentate nel lievito della società e crede di avere osservato l'uomo. Ma per conoscerlo bene bisogna saper distinguere la gradazione naturale dei suoi sentimenti, e non è tra gli abitanti di una grande città che bisogna ricercare l'originario tratto della natura nella impronta del cuore umano. Così questo metodo analitico non e misteri,

cui

è

più saggio capisce di meno. Si chieda loro perché i costumi si corrompono che

le menti

si illuminano;

non potendo trovare la causa di ciò essi avranno la sfrontatezza di negare il fatto. Si chieda perché i selvaggi trasportati da noi non condividono né le nostre passioni né i nostri piaceri, e non si curano affatto di tutto ciò che noi desideriamo con tanto ardore. Essi non lo spiegheranno mai o lo spiegheranno soltanto in base ai miei principi. Essi

FRAMMENTI

SULLA

GUERRA

167

non conoscono che ciò che vedono e non hanno mai visto la natura. Sanno assai bene che cosa è un borghese di Londra o di Parigi, ma non sapranno mai che cosa è un uomo. [FRAMMENTI

SULLA

conoscere

esattamente

quali

sia-

no i diritti di guerra esaminiamo con cura la natura della cosa e ammettiamo come vero soltanto ciò che se ne deduce necessariamente. Due uomini si battono nello stato di natura: la guerra fra loro è scoppiata. Ma perché si battono? Forse per mangiarsi a vicenda? Questo anche fra gli animali accade soltanto fra specie differenti. Fra gli uomini come fra i lupi il motivo della contesa è del tutto estraneo alla vita dei combattenti. Può ben avvenire che uno dei due perisca in combattimento,

ma

allora

la sua

morte

è il

della

con-

mezzo e non il fine della vittoria, giacché, appena il vinto cede, il vincitore si impadronisce della cosa disputata, il combattimento cessa e la guerra è finita. Bisogna osservare che, poiché lo stato sociale raccoglie intorno a noi una moltitudine di cose che dipendono più dai nostri capricci che dai nostri bisogni e che per natura ci sarebbero indifferenti, la maggior parte dei motivi di guerra divengono ancora più estranei alla vita dell'uomo di quanto non fosse nello stato di natura, e che si giunge spesso al punto che i privati si occupano assai poco degli eventi della guerra pubblica. Si prendono le armi per contrasti di potenza, di ricchezze o di considerazione,

e

il

motivo

2 di

GUERRA]

1 Per

Si uccide per vincere ma non vi è uomo tanto feroce da cercare di vincere per uccidere.

tesa finisce per trovarsi così lontano dalla persona del cittadino che egli non sta né meglio né peggio da vincitore che da vinto. Sarebbe ben strano che una guerra siffatta avesse una qualche relazione con la sua vita e che ci si creda in diritto di sgozzare degli uomini soltanto per mostrare loro di essere più orti.

Ora

che

noi

lo stato di guerra è presso

abolito,

non

esiste

più

guerra

loro

nemici

fra privati e gli uomini che di testa propria ne assalgano altri, pur dopo avere patito da questi qualche ingiuria,

non

sono

considerati

ma veri e propri briganti. Ciò è tanto vero che un suddito il quale, prenden-

do alla lettera i termini di una dichiarazione di guerra, volesse, senza diploma o patente regia, dar addosso ai ne-

mici

o

del

dovrebbe

suo

principe

esserlo.

sarebbe

punito

3 Soltanto popoli da lungo tempo provvisti di tranquille istituzioni possono immaginare di fare della guerra un vero e proprio mestiere a sé e di coloro che lo. esercitano una classe particolare. In un popolo nuovo dove l'interesse comune ha ancora tutto il suo vigore, tutti i cittadini in tempo di guerra sono soldati e non ci sono più soldati in tempo di pace. Questo è uno dei migliori segni della giovinezza e del vigore di una nazione. Di necessità occorre che degli uomini sempre armati siano per professione i nemici di tutti gli altri, oppure che non impieghino mai queste forze artificiali se non come espediente contro l’indebolimento interno; e le prime truppe regolari sono in qualche modo le prime rughe che annunciano l'approssimarsi della decrepitezza del regime.

4. Grazie di simile rore di crare i

a Dio non si vede più niente fra gli Europei. Si avrebbe orun principe che facesse massaprigionieri. Ci si indigna per-

sino contro

queste gnano

coloro

che

li maltrattano,

e

abominevoli massime che ripualla ragione e fanno fremere

SCRITTI

168

SULL’ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

l'umanità sono conosciute soltanto dai giureconsulti che ne fanno tranquillamente la base dei loro sistemi politici e

non possa essere loro comandata o alla quale non possano essere costretti con qualsiasi mezzo. E se, facendo loro gra-

vrana come la fonte di felicità per gli uomini, osano mostrarcela come il supplizio dei vinti. Per poco che si proceda di conseguenza in conseguenza, a ogni passo si fa sentire l'errore del principio; e si vede dovunque che in una decisione tanto temeratia la ragione non è stata consultata più della natura. Se volessi approfondire la nozione di stato di guerra dimostrerei agevolmente come esso non può risultare che dal libero consenso delle parti belligeranti; come, se l'una vuole attaccare e l’altra non vuole difendersi, non esiste stato di guerra ma soltanto violenza e aggressione; come, essendo lo stato di guerra stabilito da un libero consenso delle parti, questo libero consenso reciproco è necessario anche per ristabilire la pace; e come, a meno che uno degli avversari non sia annientato, la guerra non può finire altro che nel momento in cui entrambi dichiarano liberamente di rinunciarvi, cosicché in virtù del rapporto fra padrone e schiavo essi continuano anche loro malgrado a essere sempre in stato di guerra. Potrei mettere in

di esigere che portino le armi contro il loro paese, io chiedo a che cosa debbano adempiere: al giuramento da loro liberamente fatto alla patria oppure a quello che il nemico ha or ora strappato alla loro debolezza. Disubbidiranno ai loro padroni o massacreranno i loro concittadini? Forse .mi diranno che, poiché lo stato di schiavitù rende i prigionieri soggetti al loro padrone, essi mutano tosto di

che,

invece

questione

la

forza

vincolanti

di

se

mostrarci

le

e per

nello

promesse

evitare stato

l’autorità

strappate

la morte

di

libertà,

so-

con

è

niente,

dice

possa impunemente schiavi. Non vi è

Grozio,

che

di

mille

tormenti,

ci

si

accontenta

stato e, divenendo sudditi del loro nuovo sovrano, rinunciano alla loro vecchia

patria.

5 Quand’anche mille popoli feroci avessero massacrato i prigionieri, quand'anche mille dottori venduti alla tirannide avessero giustificato tali crimini, che cosa importa alla verità l'errore degli uomini e la loro barbarie alla giustizia? Non ricerchiamo quello che è stato fatto ma quello che si deve fare e respingiamo quelle autorità vili e mercenarie che tendono soltanto a rendere gli

uomini

schiavi,

cattivi

e

infelici,

siano e

se

tutte quelle fatte dal prigioniero al suo padrone in tale condizione possano significare altro che questo: « Mi impegno a obbedirvi per tutto il tempo che essendo il più forte voi non attenterete alla mia vita ». Vi è di più. Mi si dica se devono prevalere gli impegni solenni e irrevocabili presi con la patria in piena libertà o quelli che il terrore della morte ci farà contrarre con il nemico vincitore. Il preteso diritto di schiavità al quale sono soggetti i prigionieri di guerra è senza limiti. I giureconsulti lo hanno formalmente deciso. Non vi

zia

non

si

far patire a simili alcuna azione che

POLISINODIA DELL'ABBÉ DE SAINT-PIERRE ®

Capitolo I NECESSITÀ

NELLA

MONARCHIA

DI UNA FORMA DI GOVERNO SUBORDINATA AL PRINCIPE

Se i principi considerassero le funzioni di governo come doveri indispensabili, i più capaci si troverebbero a esserne i più oberati; le fatiche, se confrontate con le forze, parrebbero loro

sempre eccessive; li vedremmo tanto bramosi di ristringere i loro Stati o i loro diritti quanto sono avidi di estendere gli uni e gli altri; e il peso della

169

POLISINODIA corona schiaccerebbe presto la più forte testa che volesse portarla con serietà. Ma lungi dal considerare il proprio potere nei suoi disagi e nei suoi obblighi, essi non vi vedono che il piacere di comandare,

e,

siccome

ai

loro

occhi

il

popolo non è che lo strumento delle loro fantasie, più fantasie essi hanno da appagare più aumenta il bisogno di usurpazioni; e più l'intelletto è limitato e meschino più essi vogliono grande e potente l'autorità. Il dispotismo più assoluto richiede tuttavia fatica per mantenersi in piedi: qualunque principio stabilisca a suo vantaggio occorre sempre che egli lo celi con la lusinga di una pubblica utilità,

poli

di

che,

impiegando

contro

riunirla

se

stessi,

contro

di

la

forza

dei

po-

impedisca

lui,

che

loro

soffochi

di continuo la voce della natura e il grido di libertà sempre pronto a levarsi dall’estrema oppressione. Infine, quand'anche il popolo non fosse che un vile gregge senza ragione, occorrerebbero tuttavia delle cure per dirigerlo, e il principe, che pure non si dà pensiero di render felici i propri sudditi, non dimentica

almeno,

se

non

è

stolto,

di

conservare il suo patrimonio. Che fare dunque per conciliare indolenza e ambizione, potenza e piaceri, potere degli dei e vita animale? Scegliere per sé i vani onori e l’ozio, e demandare ad altri le disagevoli funzioni di governo,

riservandosi

tutt'al

più

di

scac-

ciare o cambiare coloro che ad esse adempiessero o troppo male o troppo bene. Con questo metodo l'ultimo degli uomini terrà pacificamente e comodamente lo scettro dell'universo; immerso in insulse voluttà, egli, se vuo-

le, porterà a spasso di festa in festa la sua ignoranza e la sua noia. Tuttavia gli si darà di conquistatore, di invincibile, di re dei re, di Imperatore Augu* Ai cittadini importa soltanto di essere go-

vernati con

faccenda

giustizia e in pace.

particolare

del

Del

principe

resto è una

che

lo Stato

sia grande, potente € florido, e ai sudditi questo non importa affatto. Il monarca dunque deve innanzitutto badare ai dettagli sui quali è fondata la libertà civile, la sicurezza del po-

sto, di monarca del mondo e di sacra maestà. Dimenticato sul trono, una nul-

lità agli occhi

dei vicini e persino

sudditi, incensato da obbedito da nessuno,

dei

tutti senza essere debole strumento

della tirannia dei cortigiani e della schiavità dei sudditi, gli si dirà che egli regna ed egli crederà di regnare. Ecco il quadro generale del regime di ogni monarchia troppo estesa. Chi vuol sostenere il mondo e non ha le spalle di Ercole deve attendersi di essere schiac-

ciato.

Il sovrano di un grande impero non è in sostanza altro che il ministro dei suoi ministri o il rappresentante di quanti governano sotto di lui. Ad essi si obbedisce in suo nome e, quando egli crede di far loro eseguire la propria volontà,

la loro.

menti;

è lui che

E

infatti,

senza

non

saperlo

potrebbe

siccome, non

esegue

esser altri

può

vedere

se non per mezzo dei loro occhi, è necessario che li lasci agire per tramite suo. Costretto ad abbandonare ad altri quelli che vengono chiamati dettagli* e che io chiamerei l'essenza del governare, egli riserva a se stesso le grandi questioni; gli sproloqui degli ambasciatori,

i pettegolezzi

ché,

suo

dei

gari la scelta dei propri malgrado,

favoriti,

deve

padroni,

e

averne

ma-

giac-

dal

momento che ha tanti schiavi. Che cosa

gliene importa del resto che l'amministrazione sia buona o cattiva? In che modo la sua felicità potrebbe esser turbata dalla miseria del popolo che egli non

può

vedere,

dalle

sue lagnanze

che

egli non può udire e dai disordini pubblici dei quali non verrà mai a conoscenza? La gloria dei principi è come i tesori di quel pazzo che si credeva proprietario di tutti i vascelli che giungevano in porto: il credere di possedere tutto gli impediva di desiderare alcunché e non era meno felice delle polo e anche, per molti aspetti, la propria. Dopo questo, se gli resta del tempo da perdere, può dedicarsi a tutte quelle grandi questioni che non interessano a nessuno, che non sorgo-

no mai se non dai difetti di un regime e che,

di conseguenza, non sono niente per un popolo felice e poca cosa per un re saggio.

SCRITTI

170

ricchezze che non aveva di quanto sarebbe stato se le avesse possedute. Che cosa farebbe di meglio, con le migliori intenzioni, il più giusto dei principi non appena egli intraprenda una fatica che la natura ha posto al di sopra delle sue forze? Egli è uomo e prende su di sé le funzioni di un dio, come può sperare di adempiere ad esse? Il saggio, se per caso si trova in trono,

de.

rinuncia

Egli

prende

al

forze, commisura

in

comando

esame

o

le

lo

divi-

proprie

ad esse le funzioni che

vuole esercitare e, per essere un re veramente grande, non prende su di sé un grande reame. Ma quanto farebbe il saggio ha poca attinenza con quanto faranno i principi. Cerchiamo almeno come possano fare il meno male possibile ciò che essi faranno sempre. Prima di entrare in argomento è bene notare che, se per miracolo qualche grande anima può bastare al disagevole onere

della

dignità

reale,

l'ordine

ere-

delirio

e di

ditario fissato per le successioni e la stravagante educazione degli eredi al trono ci daranno sempre cento imbecilli per un vero re; che ci saranno minori età,

malattie,

momenti

di

passione che lasceranno spesso alla testa dello Stato solo un simulacro di principe. Tuttavia occorre che gli affari vadano avanti. È dunque assolutamente necessario stabilire, presso tutti i popoli che hanno un re, una forma di governo che del re possa fare a meno; e, una volta posto che un sovrano raramente può governate in prima persona,

non

si

tratta

che

di

sapere

come

egli possa governare per mezzo di altri. Il discorso sulla polisinodia è dedicato alla soluzione di questo problema. Capitolo II TRE FORME SPECIFICHE DI GOVERNO SUBORDINATO

Un monarca, dice l’Abbé de SaintPierre, può ascoltare soltanto un solo uomo in tutti i suoi affari e affidare a lui tutta la propria autorità, come in

SULL’ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

altri tempi i re di Francia la davano ai maggiordomi di palazzo e come ancora oggi i principi orientali la confidano a quello che in Turchia prende il nome di gran visir. Per brevità chiamerò visirato questa sorta di ministero. Tale monarca può anche suddividere la propria autorità fra due o più uomini che ascolta separatamente sul genere di affari che è loro affidato, più o meno cgme faceva Luigi XIV con Col. bert e Louvois. È una forma che chiamerò nel prosieguo semivisirato. Infine tale monarca può far discutere gli affari di governo in assemblee e creare a questo scopo tanti consigli quanti sono i generi di affari da trattare. Questa forma di ministero che l'Abbé de Saint-Pierre chiama plurali tà di consigli o « polisinodia », è secondo lui, più o meno quella che il reggente duca di Orleans aveva stabilito sotto il suo governo e, ciò che le dà un peso ancor più grande, era anche quella adottata dall'allievo del virtuoso Fénelon 8. Per scegliere fra queste tre forme e decidere

quale

meriti

la preferenza,

non

basta considerarle all'ingrosso e sotto l'aspetto che presentano a prima vista; e non bisogna neppure contrapporre gli abusi dell’una alla perfezione dell'altra, né soffermarsi solo su certi momenti transitori di disordine o di splendore, ma supporle tutte tanto perfette quanto possono esserlo nella durata e, in questo

stato,

ricercare

le

loro

affinità

e le loro differenze. Ecco in qual modo si può fare un parallelo esatto. Capitolo III CON

RAPPORTO DI TALI FORME QUELLE DEL GOVERNO SUPREMO

I principi elementari possono trovare già qui

cazione.

Infatti

il visirato,

della politica la loro appliil semivistra-

to e la polisinodia sono, nell'economia del governo subalterno, manifestamen-

te affini alle tre forme specifiche del governo

supremo

e

molti

dei

principi

171

POLISINODIA che convengono all’amministrazione sovrana possono agevolmente applicarsi al ministero. Così il visirato deve avere in genere maggior vigore e celerità, il semivisirato maggiore puntualità e accuratezza e la polisinodia maggiore giustizia

e

costanza.

È

anche

sicuro

che,

come la democrazia tende naturalmente all'aristocrazia e l’aristocrazia alla monarchia 5, nello stesso modo la polisinodia tende al semivisirato e il semivisirato al visirato. Questo procedere della forza pubblica verso il rilassamento che obbliga a rafforzare le competenze, si ritarda o si accelera nella misura che tutte le parti dello Stato siano

bene

o

male

costituite;

e,

mosse forma

da

in

tale

una

esame,

idea

che, secondo

più

prendiamo

precisa

il nostro

le

della

autore, de-

ve avere la polisinodia.

IN

DICASTERI

tutti

E

gli

CONSIGLI

Il governo di uno Stato grande come la Francia racchiude in sé otto settori principali i quali debbono formare altrettanti dicasteri e di conseguenza avere ognuno il suo consiglio

particolare. Questi otto settori sono: giustizia, polizia, finanze, commercio,

marina, guerra, affari esteri e affari religiosi. Ci deve anche essere un nono consiglio che, servendo di collegamen-

altri,

unisca

tutte

le

parti del governo, dove i grandi affari, trattati e discussi in ultima istanza, non

attendono altro che la volontà del principe per la loro decisione definitiva, e che, pensando e lavorando in sua vece in caso di bisogno, supplisca alla di lui mancanza quando le malattie, le minori

età,

la

vecchiaia

o l’avversione

al

lavoro impediscano al re di svolgere le sue funzioni. In tal modo il consiglio generale deve essere sempre in piedi, o per la necessità del presente o come precauzione pet i bisogni futuri. Capitolo V DEI.

MODO

DI

COMPORLI

Quanto al modo di comporre tali consigli, quello che si può impiegare con maggior vantaggio sembra essere il metodo dello scrutinio. Infatti è evidente che per ogni altra via la sinodia sarà soltanto apparente; che, essendo i consigli gremiti di sole creature dei favoriti, non vi sarà effettiva libertà di voto;

e

che,

sotto

altri

nomi,

non

si

metodo

con

il

avrà se non un vero e proprio visirato o semivisirato. Non mi dilungherò qui sul metodo e i vantaggi dello scrutinio: siccome costituisce uno dei punti capitali del sistema di governo dell’Abbé de Saint-Pierre, ne tratto più lungamente altrove. Mi accontenterò di notare che, qualsiasi forma di ministero si adotti,

Capitolo IV SUDDIVISIONE

fra

sic-

come non si giunge al dispotismo e al visirato che quando tutti gli altri mezzi sono stati adoperati, sarebbe a parer mio un progetto mal concepito il pretendere di abbandonare questa forma per assumerne una delle precedenti. Infatti nessun'altra potrebbe bastare a ogni popolo che abbia potuto sopportare questa. Ma, senza voler lasciare l'una per l’altra, è tuttavia utile sapere quale delle tre sia più valida. Abbiamo visto or ora che per una analogia abbastanza naturale la polisinodia già merita la preferenza; rimane da indagare se l'esame delle cose stesse potrà confermargliela. Ma, prima di addentrarci

to

non

vi

è

altro

quale si possa esser sicuri di dare sempre la preferenza al merito più genuino; e questa ragione mostra il vantaggio piuttosto che la facilità di fare adottare lo scrutinio nelle corti dei re. Questa prima precauzione ne suppone

delle

altre che

la rendono

utile;

in-

maresciallo

di

fatti servirebbe a poco scegliere con uno scrutinio fra sudditi che non si conoscessero, né si potrebbe essere in grado di conoscere le capacità di coloro che non abbiamo visto lavorare nel campo al quale sono destinati. Se dunque occorrono dei gradi nell’esercito,

dall’alfiere

fino

al

SCRITTI

172

Francia, per formare i giovani ufficiali e renderli atti alle funzioni cui dovranno adempiere un giorno, non è forse ancora più importante istituire gradi simili nell'’amministrazione

civile,

dai

funzio-

nari ai presidenti dei consigli? Occorre forse meno tempo ed esperienza per imparare a dirigere un popolo che per comandare una armata? Le conoscenze dell'uomo di Stato si acquistano forse più facilmente di quelle dell'uomo

di

guerra,

ovvero

un

buon

ordina-

mento è meno necessario nell'economia politica che nella disciplina militare? I gradi scrupolosamente osservati sono stati la scuola di tanti grandi uomini prodotti dalla repubblica di Venezia: e perché per servire il principe a Parigi non seguire gli stessi metodi adottati a Venezia per servire lo Stato? So bene che l'interesse dei visir si oppone a questa nuova struttura e che essi non vogliono essere assoggettati a forme che intralcino il loro dispotismo, ma vogliono impiegare soltanto creature a loro del tutto devote, che, con una sola parola, possano ricacciare nella polvere dalla quale li traggono fuori. D'altra parte un uomo di sangue nobile, il quale ha per questa folla di lacché il disprezzo che essi meritano, disdegna di entrare in concorrenza con loro nella stessa carriera, e il governo dello Stato è così sempre pronto a diventare preda dei rifiuti dei cittadini. Perciò non sotto il visirato ma soltanto sotto la polisinodia si può sperare di stabilire dei gradi onesti nell'amministrazione civile, i quali non presuppongano la bassezza ma il merito e che possano di nuovo avvicinare la nobiltà agli affari, dai quali viene ostentatamente

allontanata

e che

ostenta di disprezzare.

essa,

a sua

volta,

Capitolo VI ROTAZIONE

DEI

DICASTERI

Dall’istituzione dei gradi consegue la necessità di far ruotare i dicasteri fra i membri di ogni consiglio e anche da

SULL’ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

un consiglio all’altro, in modo che ogni membro, istruito successivamente in tutti

i

settori

del

governo,

divenga

un

giorno capace di dire la sua nel consiglio generale e di partecipare alla grande amministrazione. L'idea di far ruotare i dicasteri si deve al Reggente che la stabilì nel consiglio

delle

finanze

e,

se

l'autorità

di un uomo che conosceva così bene i modi di governare non bastasse a farla adottare, non si può almeno non convenire sui sensibili vantaggi che nascerebbero da questo metodo. Senza dubbio possono darsi dei casi nei quali questa rotazione sembrerebbe poco utile o di difficile istituzione nella polisinodia.

Ma,

nella

polisinodia,

essa

non

è mai impossibile, mentre non è mai praticabile né nel visirato né nel semivisirato. Ora, per molte e assai valide ragioni, è importante istituire una forma di amministrazione nella quale questa rotazione possa avere luogo. 1) In primo luogo per prevenire le malversazioni dei funzionari i quali, cambiando di ufficio con i loro capi, non avranno tempo di aggiustare le loro bricconerie con la comodità con la quale lo fanno oggi; si aggiunga che, in quanto sono,

per

così

dire,

alla

discrezione

dei

loro successori, saranno più prudenti, cambiando dicastero, nel lasciare gli affari di quello che abbandonano in uno stato che potrebbe rovinarli se per caso si trovasse a esser loro successore un uomo onesto o un loro nemico. 2) In secondo luogo per obbligare gli stessi consiglieri a esser più vigilanti sulla propria condotta o su quella dei propri funzionari; per paura di esser tacciati di negligenza e anche di peggio allorquando la loro gestione sarà trasferita di volta in volta ad altro settore e verrà così a cadere sotto il giudizio del loro successore. 3) Per suscitare fra i membri di uno stesso corpo una lodevole emulazione a chi supererà il predecessore nello stesso lavoro. 4) Per correggere con questi frequenti mutamenti gli abusi che gli errori, i pregiudizi e le passioni di ciascun suddito avranno introdotto nella sua amministra-

173

POLISINODIA zione;

infatti,

fra

tanti

diversi

catat-

teri che successivamente dirigeranno lo stesso settore, essi correggeranno a Vicenda i loro errori e tutto andrà più costantemente verso il fine comune. 5) Per dare a ciascun membro di un consiglio conoscenze più chiare ed estese degli affari e delle loro diverse relazioni; in modo che avendo maneggiato gli altri settori veda distintamente che cosa sia il suo nei confronti

del tutto, che

non si creda sempre il più importante personaggio dello Stato e non nuoccia al bene generale per fare meglio quello del suo dicastero. 6) Per il fatto che tutti i pareri si danno meglio con conoscenza di causa, che ciascuno deve conoscere gli argomenti sui quali deve esprimere la propria opinione e che una maggiore uniformità di cognizioni produce una maggiore concordia e ragionevolezza nelle deliberazioni comuni. 7) Per tenere in esercizio la mente e i talenti

dei

ministri:

infatti,

portati

co-

me sono a lasciarsi andare facendo sempre lo stesso lavoro, finiscono per farsene una routine nella quale, per così dire, la genialità è contenuta e circoscritta dall'abitudine. Ora l'attenzione è per lo spirito ciò che l'esercizio è per il corpo; proprio essa gli dà vigore e destrezza, e lo rende atto a sopportare la fatica. Si può dire così che ciascun consigliere di Stato, tornando dopo qualche anno di rotazione a occuparsi del suo primo dicastero, si troverà effettivamente più capace che se non avesse affatto cambiato. Non nego che se fosse rimasto nello stesso avrebbe acquistato una maggiore facilità a sbrigare gli affari che ne dipendono; ma affermo che sarebbero stati fatti meno bene perché avrebbe avuto una maggiore limitatezza di vedute e non avrebbe avuto una conoscenza così precisa delle relazioni che questi affari hanno con quelli degli altri dicasteri. In tal modo egli nella rotazione viene a perdere da un lato, ma soltanto per guadagnare molto di più da un altro lato. 8) Infine per procurare una maggiore eguaglianza nel potere, una maggiore indipendenza fra i consiglieri di Stato e di conse-

guenza una maggiore libertà nei voti. Altrimenti, in un consiglio apparentemente numeroso,

vi sarebbero

in realtà sol.

tanto due o tre che esprimono il proprio parere, ai quali tutti gli altri sarebbero soggetti; più o meno come coloro che in altri tempi venivano chiamati

a Roma

Senatores

pedarii,

i qua-

li di norma consideravano non tanto il parere quanto l'autore di esso: inconveniente questo tanto più pericoloso poiché non è mai in favore della migliore decisione verso cui si ha bisogno di indirizzare i voti, Si potrebbe spingere ancora più lontano questa rotazione di dicasteri fino a estenderla

alla

stessa

presidenza;

in-

fatti, se risultava utile alla repubblica romana che i consoli tornassero in capo a un anno semplici senatori in attesa di un nuovo consolato, perché non dovrebbe essere utile al regno che i presidenti tornassero in capo a due o tre anni semplici consiglieri in attesa di una nuova presidenza? Non sarebbe forse, per così dire, proporre un premio ogni tre anni a quelli della cerchia che . durante questo lasso di tempo si fossero distinti nel proprio organismo? Non sarebbe forse un nuovo espediente atto a mantenere in una continua attività il movimento della macchina pubblica? E il vero segreto per tener vivo il lavoro comune non è forse il rendere sempre proporzionale ad esso il compenso? Capitolo VII ALTRI

VANTAGGI

DI TALE

ROTAZIONE

Non entrerò nei dettagli dei vantaggi della rotazione portata a questo grado estremo. Ciascuno vede come gli spostamenti,

che

divengono

necessari

per

la vecchiaia o l'indebolimento dei presidenti, si faranno senza asprezza e senza sforzi. Gli ex-presidenti dei consigli particolari avranno ancora una mèta di innalzamento, e cioè di sedere in consiglio generale, e i membri di tale con-

siglio quella di poter diventare a loro volta presidenti. Questo alternarsi di subordinazione e di autorità renderà l’una

174

SCRITTI

e l'altra nello stesso tempo più perfetta e più mite, e questa rotazione della presidenza è il più sicuro mezzo per impedire che la polisinodia possa degenerare in visirato; e in generale, poiché la rotazione distribuisce più uniformemente i lumi e il potere del ministero fra parecchi membri, l’autorità reale domina più agevolmente su ciascuno di loro. Tutto ciò deve risultare evidente a un lettore intelligente, ma se si dovesse dir tutto non bisognerebbe riassumere niente.

POLISINODIA

È

LA

PIÙ

nale

si divida

pre sotto assegni a sui quali i consigli generale naturali e

infatti,

in certo

senso,

SAINT-PIERRE

in diversi

comitati,

sem-

la presidenza del re, il quale ciascuno di loro gli argomenti essi debbono deliberare. Ecco particolari nati dal consiglio del quale essi sono membri la sinodia mutata in polisino-

dia, forma che io non dico essere la mi-

NATURALE

AMMINISTRAZIONE SUBORDINATA

Per la stessa ragione mi soffermo qui sulla forma della polisinodia, dopo aver stabilito i principi generali secondo i quali la si deve ordinare per renderla utile e durevole. Se inizialmente si presenta qualche imbarazzo, ciò è dovuto al fatto che è sempre difficile tenere insieme due forme di governo tanto differenti nei loro fondamenti quali la monarchica e la repubblicana, sebbene in fondo tale unione produca forse un tutto perfetto e il capolavoro della politica. Occorre dunque distinguere bene la forma apparente che regna ovunque dalla forma.reale della quale qui si tratta:

DE

gliore in questo Stato, ma bensì la prima e la più naturale.

Capitolo VIII LA

SULL’ABBÉ

di arbitrio nella quale l’intrigo e l’inclinazione naturale hanno una parte ben maggiore della ragione e della voce del popolo. Ed è più semplice che, in tanti affari di differente natura quanti ne offre il governo, il parlamento nazio-

si può

dire

che la polisinodia è la prima e più naturale di tutte le amministrazioni subordinate anche in una monarchia. Difatti, come le prime leggi nazionali furono fatte dalla nazione riunita in corpo, allo stesso modo le prime deliberazioni del principe furono fatte con i maggiorenti della nazione riuniti in consiglio. Il principe ha dei consiglieri prima di avere dei visir: gli uni li trova, gli altri li fa. L'ordine più elevato dello Stato forma naturalmente il sinodo o consiglio generale. Il monarca, una volta eletto, non ha che da presiedere, e questo è tutto; ma, quando

deve scegliere un ministro o dei favoriti, si comincia a introdurre una forma

Capitolo IX E LA

PIÙ

UTILE

Prendiamo ora in esame il retto fine del governo e gli ostacoli che da esso lo allontanano. Questo fine è incontesta-

bilmente

to e_ del

il maggior interesse dello Stare;

tali

ostacoli

sono,

oltre

il

difetto di lumi, gli interessi particolari degli amministratori. Ne consegue che, più questi interessi particolari trovano intralci e opposizioni, meno essi possono incidere nell’interesse pubblico; cosicché, se essi possono urtarsi e distruggersi a vicenda, per quanto vivaci li si supponga, essi diventerebbero nulli nelle delibere e l'interesse pubblico sarebbe

il solo

a essere

ascoltato.

Qual

mezzo più sicuro si può dunque avere di render nulli tutti questi interessi particolari del contrapporli fra loro attraverso la moltiplicazione delle opinioni? Ciò che rende particolari gli interessi è il fatto che essi non vanno d'ac-

cordo

fra

loro;

se

infatti

si accordasse-

ro non sarebbe più un interesse partico-

lare

ma

un

interesse

comune.

Ora,

di-

struggendo tutti questi interessi l’uno per mezzo dell'altro, rimane l'interesse pubblico il quale nella deliberazione ha da guadagnare tutto quanto perdono gli interessi particolari. Quando un visir esprime senza testimoni il proprio parere a' suo signore

175

POLISINODIA che cosa intralcia allora il suo interesse personale? Ha forse bisogno di molta destrezza per abbindolare un uomo tanto limitato quanto lo è comunemente

se non dal suo signore, che agevolmente inganna, egli si inquieta ben poco dei mormorii di tutti gli altri.

conda in una così piccola cerchia di lumi? Mediante esposizioni falsificate, pretesti speciosi, ragionamenti sofistici, chi gli impedisce di far decidere il principe con le grandi parole di onore della corona e di bene dello Stato alle imprese più funeste, quando egli personalmente ne traesse un vantaggio? Sarebbe certo un grosso evento se due interessi particolari così forti come quello del visir e quello del principe lasciassero uno spiraglio qualsiasi. all'interesse pubblico nelle deliberazioni di gabinetto. So bene che i consiglieri di Stato sa-

Capitolo X

un re, racchiuso

ranno uomini

da tutto ciò che

come

i visir, non

lo cir-

ho dub-

bi che, come loro, non abbiano spesso interessi particolari opposti a quelli della nazione e che, nell’esprimere il proprio parere, volentieri preferirebbero i primi ai secondi. Ma in una assemblea composta da membri tutti perspicaci e che non hanno gli stessi interessi, invano ciascuno prenderebbe l'iniziativa di indurre gli altri a quanto conviene esclusivamente a lui: senza persuadere nessuno, egli non farebbe che rendersi sospetto di corruzione e di infedeltà. Avrà un bel voler mancare al proprio dovere,

non

invano in Egli farà crificherà interesse tria, e, o sortirà

oserà

tentarlo

o lo tenterà

presenza di tanti osservatori. dunque di necessità virtù e saperciò pubblicamente il suo particolare al bene della paper realismo o per ipocrisia,

in questa

occasione

lo stesso

ef-

fetto per il bene della società. In questo caso un interesse particolare assai forte come quello della sua reputazione concorre con l'interesse pubblico. Invece un visir, il quale sappia con il favore delle tenebre del gabinetto sottrarre i segreti di Stato agli occhi di tutti, sempre si illude che non si potrà distinguere ciò che apparentemente egli fa per il pubblico bene da quanto fa in realtà per il proprio, e siccome, dopo tutto, questo visir non dipende

ALTRI

VANTAGGI

Da tale primo vantaggio ne vediamo derivare molti altri, i quali non possono darsi senza di questo. In primo luogo le risoluzioni dello Stato saranno meno frequentemente fondate su errori effettivi, perché non sarà altrettanto facile a chi farà la relazione sui fatti l'alterarli davanti a una assemblea illuminata, dove quasi sempre si troveranno

altri

lo era davanti ha

mai

visto

testimoni

a un

niente

nell'affare, come

principe

se non

con

che

non

gli oc-

chi del suo visir. Ed è certo che la maggior parte delle risoluzioni dello Stato dipendono dalla conoscenza dei fatti e si può anche dire, in generale, che quasi non si commettono errori se non col supporre veri dei fatti che sono falsi oppure falsi dei fatti che sono veri. In secondo luogo le imposte saranno ridotte a livelli meno intollerabili quando il principe potrà essere informato sulla vera situazione dei suoi popoli e sui loro veri bisogni. Ma questi chiarimenti non li troverà forse più agevolmente in un consiglio nel quale parecchi membri non avranno alcun maneggio nelle finanze né alcun riguardo cui badare che in un visir il quale vuol fomentare le passioni del suo signore, trattare con riguardo i bricconi che godono di favore,

arricchire

le proprie

creature,

ru-

bare a proprio comodo per se stesso? Si vede anche che le donne avranno minor potere e di conseguenza lo Stato andrà meglio. Infatti per una donna intrigante è più facile fare ottenere la carica

a un

visir

che

a cinquanta

siglieri e sedurre un uomo che tutto consesso. Gli affari non saranno più spesi o sconvolti dall’allontanamento un visir; anzi allorquando, legati una

comune

tuazione

sarà

deliberazione,

ripartita

la

tuttavia

loro

con-

un sodi da

at-

fra più

176

SCRITTI

consiglieri, che avranno ciascuno il proprio dicastero, saranno sbrigati con maggiore esattezza di quando occorre che tutto esca da uno stesso ufficio, I sistemi politici saranno meglio applicati e i regolamenti assai meglio osservati quando non vi saranno più sconvolgimenti nel ministero e ogni visir non si farà più un punto di onore dî distruggere tutte le istituzioni utili di colui che l'avrà preceduto, cosicché saremo sicuri che, una volta ideato un progetto,

esso non sarà più abbandonato se non quando sarà stata riconosciuta impossibile o cattiva la sua attuazione. A tutte queste conseguenze aggiungetene due non meno certe ma ancor più importanti le quali ne sono l’ultima risultanza e debbono dar loro un valore che non ha eguale agli occhi del vero cittadino. La prima è che in un lavoro comune

il merito, i talenti e l'in-

SULL’ABBE

DE

SAINT-PIERRE

zi da usare, e l’esperienza conferma che le deliberazioni di un senato sono in genere più sagge e meglio sopportate di quelle di un visir. Maggiori sono la scaltrezza

e il segreto

nel

visirato,

ma

essi

corrono

me-

maggiori sono la rettitudine e i lumi nella sinodia. I re saranno meglio informati sui loto affari; essi non potrebbero assistere ai consigli senza esserne al corrente, giacché è là che si osa dire la verità, e i membri di ogni consiglio avranno il più grande interesse a che il principe vi assista assiduamente, sia perché egli ne sostenga il potere, sia perché ne autorizzi le risoluzioni. Vi saranno meno vessazioni e ingiustizie da parte dei più forti, giacché per gli oppressi un consiglio è più accessibile

del

trono;

no rischi a portarvi le loro lagnanze e troveranno sempre in qualcuno dei suoi membri più protettori contro le violenze degli altri che sotto un visirato contro un solo uomo che può tutto, oppure contro un semivisir d'accordo con i suoi colleghi perché ciascuno di essi rimandi il giudizio sulle lagnanze che vengono fatte contro di lui: Lo Stato

tegrità si faranno più facilmente ricomoscere e ricompensare, sia nei membri dei consigli che saranno senza posa sotto gli occhi gli uni degli altri e di tutto lo Stato, sia nel regno intero dove nessuna notevole azione, nessun uomo degno di distinzione possono per lunsoffrirà meno della minore età, della go tempo sottrarsi allo sguardo di una debolezza e del decadimento del prinassemblea che vuole e può tutto vedecipe. Non vi sarà mai ministro abbare e nella quale la rivalità e l’emulastanza potente per divenire, qualora sia zione dei membri li porteranno spessa di alto lignaggio, temibile per il suo a farsi delle creature che offuschino i signore oppure per mettere da parte e meriti di quelle dei loro rivali; la sescontentare i grandi, se è di umili naconda e ultima conseguenza è che le tali. Ne consegue che da un lato vi dignità e gli impieghi distribuiti con saranno meno germi di guerra civile e dall’altro una maggiore sicurezza per la maggiore equità e ragione, l'interesse del principe e dello Stato meglio ascolconservazione dei diritti della casa reatato nelle deliberazioni, gli affari mele. Vi saranno anche meno guerre esterglio sbrigati e Îl merito più onorato rine perché meno gente avrà interesse a svegliano di necessità nel cuore del posuscitarle e avrà un minore potere per polo quell'amor di patria che è la più venirne a capo. Infine il trono ne ripotente forza di un saggio regime e che +. sulterà in ogni modo più saldo; la vomai non si spegne presso i cittadini se lontà del principe, che altro non è o non per gli errori dei capi. non deve essere che la volontà pubbliTali sono gli effetti necessari di una ca, verrà attuata in un modo migliore forma di governo che costringe l’inteedi conseguenza la nazione sarà più resse particolare a cedere all'interesse felice. generale. Inoltre la polisinodia offre alDel testo anche il mio autore contri vantaggi che danno ai precedenti un viene che l'attuazione del suo piano non nuovo valore. Assemblee numerose e il- sarebbe in ogni tempo parimenti vanlustri forniranno maggiori lumi sui meztaggiosa e che vi sono momenti di crisi

177

POLISINODIA e di torbidi nei quali occorre sostituire ai consigli permanenti delle commissioni straordinarie e che, quando per esempio.le finanze sono in un certo disordine, è necessario darle a sbrogliare a un uomo solo come fece Enrico IV con Rosni e Luigi XIV con Colbert. Questo potrebbe significare che i consigli non sono capaci di fare andar bene gli affari se non quando essi vanno avanti da soli. E difatti, per non parlare della polisinodia del Reggente, si sa quali risate suscitò,

in circostanze

spinose,

quel

le finanze

del-

ridicolo consiglio dei conti sventatamente richiesto dai notabili dell’assemblea di Rouen e accortamente concesso da Enrico

IV.

Ma,

le repubbliche

amministrate

siccome

sono

di quelle

in

genere

meglio

delle monarchie,

è da credersi che lo saranno meglio, o almeno più fedelmente da parte di un consiglio che di un ministto; e che, se un consiglio è forse inizialmente meno capace dell’attività necessaria per trarle fuori

da

uno

stato

di

disordine,

esso

è anche meno soggetto alla negligenza o all’infedeltà che ve le fanno cadere. E ciò si deve intendere non per una assemblea transitoria e subordinata ma per una vera e propria polisinodia ove i consigli abbiano realmente il potere che paiono avere, ove l’amministrazione degli affari non sia loro sottratta da dei

semivisir

e

ove,

sotto

gli

speciosi

nomi di consiglio di Stato e consiglio delle finanze, questi corpi non siano soltanto dei tribunali di giustizia o delle camere dei conti. Capitolo XI CONCLUSIONE

Sebbene i vantaggi della polisinodia non siano senza inconvenienti e gli inconvenienti delle altre forme di amministrazione non siano, almeno in apparenza, senza vantaggi, chiunque farà, senza parzialità, il confronto degli uni e degli altri troverà che la polisinodia non ha inconvenienti essenziali che un buon governo non possa agevolmente

tollerare, mentre tutti quelli del visirato e del semivisirato attaccano i fondamenti stessi della costituzione. Una amministrazione ininterrotta può perfezionarsi senza posa, processo questo impossibile negli intervalli e nei rivolgimenti del visirato. Confrontare il cammino uniforme e piano di una polisinodia con alcuni brillanti momenti del visirato è un sofisma grossolano che non riuscirebbe a ingannare il vero politico, perché l’amministrazione rara e transitoria di un buon visir e la forma generale del visirato, nella quale si hanno sempre secoli di disordine per qual-

che

anno

di buona

direzione,

sono

due

cose assai differenti; e la diligenza e il segreto, unici veri vantaggi del visirato, assai più necessari nei cattivi governi che in quelli buoni, sono deboli surrogati dei buoni ordinamenti, della giustizia e della previdenza, che prevengono i mali invece di rimediarvi. Al l’occorrenza ci possiamo inoltre procutare tali surrogati nella polisinodia per mezzo

di

commissioni

straordinarie,

mentre il visirato non fruisce mai di simili risorse a causa dei vantaggi di cui è privato. Lo stesso esempio dell'antico senato di Roma e di quello di Venezia prova che non sempre in un consiglio sono necessarie delle commissioni per sbrigare con prontezza e in segreto gli affari più importanti. Il visirato e il semivisirato, poiché avviliscono, corrompono e degradano gli ordini inferiori, esigerebbero in questo primo rango vomini perfetti, e non si può quasi salirvi o mantenervisi che a

forza di crimini, né ben comportarvisi che a fotza di virtù; in tal modo sem-

pre di ostacolo a se stesso, il governo genera di continuo i vizi che lo depra-

vano e, logorando lo Stato per rinforzarsi, finisce per perire come un edi-

ficio che si volesse innalzare senza posa con materiali tratti dalle sue fondamenta.

Questa

è la considerazione

più

importante agli occhi dell’uomo di Stato e ad essa io mi fermerò. La migliore forma di governo, o almeno la più duratura, è quella che rende gli uomini quali essa ha bisogno che siano. Lascia-'

178

SCRITTI

mo riflettere i lettori su questo assioma: ne troveranno facilmente l'applicazione.

GIUDIZIO

SULLA

POLISINODIA

Il Discorso sulla Polisinodia è, a parer mio, fra tutte le opere dell’Abbé de Saint-Pierre, la più approfondita, la meglio ragionata, quella dove si trovano meno ripetizioni e anche la meglio scritta; elogio di cui il saggio autore si sarebbe ben poco curato, ma che non è indifferente per i lettori superficiali. Inoltre questo scritto era soltanto un abbozzo: egli sosteneva di non aver avuto il tempo per abbreviarlo, ma in realtà non aveva avuto il tempo di guastarlo per voler dire tutto, e che Dio guardi il lettore impaziente dai compendi di tal fatta. Egli ha pure saputo evitare in questo discorso il rimprovero che risulta tanto comodo agli ignoranti, i quali sanno commisurare il possibile soltanto all’esistente, oppure ai cattivi. i quali trovano buono soltanto ciò che serve alla

loro

cattiveria,

quando

si

mostra

agli uni e agli altri che ciò che esiste potrebbe essere migliorato. Egli, dico, ha saputo evitare quel grande appiglio a cui ricorre quasi sempre la stupidità ricorrente nei confronti delle nuove scoperte della ragione, definendole perentoriamente

progetti

campati

in

aria

e fantasticherie. Infatti, quando scriveva a favore della polisinodia, la trovava già stabilita nel suo paese. Sempre pacato e assennato, amava mostrare ai compatrioti i vantaggi del regime al quale erano sottomessi e faceva un ragionevole e discreto confronto con quello del quale avevano appena finito di provare il rigore. Lodava il sistema del principe regnante, ne deduceva i vantaggi, mostrava quelli che ad esso si potevano aggiungere e le stesse modi. fiche che suggeriva consistevano meno, a suo giudizio, in cambiamenti da fare che nell’arte di perfezionare quanto era fatto. Una patte di queste idee gli erano venute sotto il regno di Luigi

SULL’ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

XIV, ma aveva avuto la saggezza di tacerle fin quando l’interesse dello Sta. to, quello del governo e il suo proprio gli permettessero di pubblicarle 2. Bisogna

convenire,

tuttavia,

che,

sot-

to uno stesso nome, vi era una estrema differenza fra la polisinodia quale esisteva e quella che proponeva l’Abbé de Saint-Pierre. Per poco che vi si ri fletta si troverà che l’amministrazione che citava ad esempio gli serviva assai più di pretesto che di modello per quella che aveva ideato. Con molta destrezza volse persino in obiezioni contro il proprio sistema le mancanze che rilevava in quello del Reggente e, sotto la veste di risposte alle sue obiezioni, mostrava senza alcun pericolo sia le mancanze che il loro rimedio. Non è impossibile che il Reggente, sebbene fosse spesso lodato in questo scritto in maniera non priva di destrezza, abbia penetrato la sottigliezza di questa critica e abbia abbandonato l'Abbé de Saint-Pierre tanto per picca quanto per

debolezza,

offeso

forse

la

reggenza,

dalle

mancanze

che venivano trovate nella sua opera più di quanto non fosse lusingato dei vantaggi che in essa venivano ravvisati. Inoltre egli fu forse scontento che le proprie segrete mire fossero in qualche modo svelate e si mostrasse che la sua istituzione era inferiore a quello che doveva essere per diventare vantaggiosa allo Stato e prendere un assetto fisso e duratuto. Difatti si vede chiaramente che l’Abbé de Saint-Pierre accusava di poter troppo facilmente degenerare in semivisirato e anche in visirato proprio la forma di polisinodia stabilita

sotto

nartca

regnante

di

essere

su-

scettibile, al pari dell'uno e dell'altro, di corruzione nei suoi membri e di un loro accordo contro l’interesse pubblico, di non aver mai altra sicurezza per la propria durata che la volontà del moe,

infine,

di

convenire

soltanto ai principi laboriosi e, di conseguenza, di essere più spesso contraria che favorevole al buon ordine e al disbrigo degli affari. Era la speranza di rimediare a questi diversi inconvenienti che lo induceva a propotre un’al-

GIUDIZIO

SULLA

179

POLISINODIA

tra polisinodia completamente differente da quella che egli fingeva voler soltanto perfezionare. L'identità dei nomi non ci deve dunque far confondere il suo progetto con quella ridicola polisinodia sulla quale egli voleva appoggiare l'autorità della propria, ma che si chiamava fin da al-

sere di ostacolo. Nel piano in questione egli voleva modificare una forma di governo, resa vacillante da una lunga durata,

con

mezzi

del

tutto

estranei

qualche mese senza aver fatto nient’altro che finire di guastar tutto. Infatti il modo in cui questa amministrazione era stata stabilita basta a far vedere

alla sua costituzione presente; voleva renderle quel vigore universale che mette, per così dire, tutta la persona in azione. Era come se avesse detto a un vecchio decrepito e gottoso: « Cammina, lavora; serviti delle braccia e delle gambe giacché l’esercizio giova alla salute », Infatti di niente di meno che una rivoluzione si tratta nella polisinodia e

essa andasse meglio e che si era pensato a screditare il parlamento agli occhi del popolo piuttosto che a dare ai suoi membri l'autorità che si fingeva di affidare loro. Era un tranello verso i poteri intermedi simile a quello che già aveva teso loro Enrico IV nell’as-

dono attualmente dei consigli nelle corti dei principi e sono appunto dei consigli a essere proposti, vi sia poca differenza tra l’un sistema e l’altro. La differenza è tale che bisognerebbe cominciare col distruggere tutto quanto esiste per dare al governo la forma im-

lora, per derisione, «i settanta ministri » e che venne riformata in capo a ‘

come

pon

semblea

ci

si

fosse

di Rouen,

curati

molto

che

tranello in cui la va-

nità li farà sempre cadere e che sempre li umilierà. L'ordine politico e l’ordine civile hanno nelle monarchie principi tanto differenti e regole tanto opposte che è quasi impossibile accordare le due amministrazioni, anche perché in generale i membri dei tribunali sono poco adatti per i consigli; sia che l'abitudine alle formalità nuoccia al disbrigo di affari che non ne richiedono, sia che vi sia una naturale incompatibilità tra ciò che chiamiamo principi di Stato e la giustizia e le leggi. Del resto, lasciando da parte i fatti, io, per mio conto, credo che il principe e il filo sofo possano entrambi aver ragione senza accordarsi nel loro sistema. Infatti una cosa è l’amministrazione transitoria e spesso tempestosa di una reggenza e altra cosa è una forma di governo durevole e costante che deve fare costituzionalmente parte dello Stato. Ed è

qui,

a

mio

giudizio,

che

si

ritrova

il consueto errore dell’Abbé de SaintPierre, che consiste nel non sapere applicare mai in modo giusto le proprie idee agli uomini, al tempo, alle circostanze e nell'offrire sempre come facilitazioni per l'attuazione di un progetto vantaggi che sono spesso destinati a es-

non

si deve

maginata

credere

dall’Abbé

che,

de

poiché

si ve-

Saint-Pierre;

e

nessuno ignora quanto è pericoloso in un grande Stato il momento di anarchia e di crisi che necessariamente precede una nuova istituzione. La sola introduzione dello scrutinio produrrebbe uno spaventoso sommovimento e più che nuovo vigore al corpo darebbe a ogni parte un moto continuo e convulso. Si giudichi il pericolo di smuovere una buona volta le enormi masse che compongono la monarchia francese! Chi potrà frenare questo sommovimento o prevedere tutti gli effetti che può produrre? Quand’anche tutti i vantaggi del nuovo piano fossero incontestabili, quale uomo assennato oserebbe prendere l'iniziativa di abolire le vecchie usanze, di cambiare i vecchi principi e di dare allo Stato una forma diversa da quella a cui l'hanno successivamente portata tredici secoli di storia? Che il governo sia ancora quello di altre volte o che durante tanti secoli

si

sia

insensibilmente

trasformato,

il toccarlo è parimenti imprudente. Se è lo stesso bisogna rispettarlo, se è degenerato lo è per la forza del tempo e delle cose, e la saggezza umana non può più farvi niente. Non basta considerare i mezzi che si vogliono impiegare se

SCRITTI

180

non si guarda anche agli uomini dei quali ci si vuol servire. Ora quando tutta una nazione non si occupa più che di sciocchezze, quale attenzione essa può dedicare alle grandi cose e, in un paese dove la musica è diventata un affare di Stato, che cosa saranno gli affari di Stato se non canzoni? Quando vediamo tutta Parigi mettersi in fermento per ottenere un posto di pagliaccio o di fine dicitore e le faccende dell’Accademia e dell'Opera far dimenticare l’interesse del principe e la gloria della nazione, quale speranza si può avere nell’avvicinare a un simile popolo gli affari pubblici e nel trasportarli

dalla

corte

alla

città?

Quale

fidu-

cia si può nutrire nell’elezione dei consigli quando si vedono quelle di una Accademia in balìa delle donne? Saranno forse esse meno sollecite a procacciare posti di ministro che di sapiente

oppure

saranno

migliori

intenditrici

in politica che in eloquenza? Si deve ben temere, in paesi ove i costumi sono scherniti, che queste istituzioni non si stabiliscano in maniera pacifica, non si mantengano senza turbamenti e non diano i sudditi migliori. D'altra parte, senza entrare nella vecchia questione della venalità delle cariche,

che

si

discute

soltanto

dove

la

gente è meglio provvista di denaro che di merito, si immagina forse qualche mezzo realizzabile per abolire in Francia tale venalità? Oppure si penserebbe che essa possa sussistere in una parte del governo mentre nell’altra vige il sistema elettivo; che l’una si attui

nei

tribunali,

l’altro

nei

consigli,

e

che soltanto i posti che sono rimasti alla discrezione del principe sarebbero lasciati all’elezione? Occorrerebbe aver vedute ben corte e ben false per volere unire cose tanto dissimili e basare uno stesso sistema su principi tanto differenti. Ma lasciamo queste applicazioni e consideriamo la cosa in se stessa. Quali sono le circostanze nelle quali una ‘monarchia ereditaria può senza ri‘volgimenti venir moderata da forme che l’avvicinino all’aristocrazia? Forse che i corpi intermedi tra principe e popolo

SULL'ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

possono, anzi devono, avere una giurisdizione indipendente dall'uno e dall’altro? Oppure, se sono precari e dipendenti dal principe, possono entrare mai come parti integranti nella costituzione dello Stato e avere anche una influenza reale sugli affari? Questioni preliminari che si dovevano discutere e che non sembrano facili da risolvere.

Infatti, se è vero che sempre vi è una tendenza naturale verso la corruzione e, di conseguenza, verso il dispotismo, è

difficile vedere con quali risorse politi che il principe, quand'anche lo volesse, potrebbe dare a questa tendenza una direzione contraria che non possa essere mutata dai suoi successori e dai loro ministri. L'Abbé de Saint-Pierre non pretendeva,

a dire

il vero,

che

re

la

decisione.

Questi

non

farebbero

che

la

sua

nuova forma togliesse niente all'autorità reale, giacché assegna ai consigli la deliberazione sulle materie e lascia al solo

differenti

consigli, egli dice, senza impedire al re di fate tutto ciò che egli vorrà, lo preserveranno spesso dal volere cose nocive alla sua gloria e alla sua felicità; porteranno davanti a lui la fiaccola della verità per mostrargli il cammino migliore e garantirlo dalle insidie. Ma poteva quest'uomo illuminato appagarsi di ragioni così cattive? Sperava forse che gli occhi del re potessero vedere gli oggetti attraverso gli occhiali dei saggi? Non si rendeva conto che di necessità occorreva che la deliberazione dei consigli divenisse ben presto una vana formalità oppure che l'autorità reale ne venisse alterata, e non si accorgeva lui stesso che unire la forma repubblicana alla monarchica era introdurre un regime misto? Di fatto i numerosi corpi la cui scelta non dipendesse interamente dal principe, e che di per sé non avrebbero alcun potere, diverrebbero presto un inutile fardello per lo Stato. Essi, senza far andar meglio gli affari,

ritardarne

il

disbrigo con lunghe formalità e, per servirmi dei suoi propri termini, non sarebbero che consigli da parata. I favoriti del principe, i quali raramente lo sono del pubblico, e che, di conse-

GIUDIZIO

SULLA

181

POLISINODIA

guenza, avrebbero poca influenza in consigli formati per elezione, deciderebbero da soli di tutti gli affari; il principe non assisterebbe mai ai consigli senza aver già preso partito su tutto ciò che si dovrebbe in essi trattare, oppure non ne uscirebbe mai senza consultare di nuovo nel suo gabinetto i propri favoriti sulle risoluzioni che in essi fossero prese; necessariamente infine i consigli diverrebbero disprezzabili, ridicoli e del tutto inutili, oppure i re perderebbero il loro potere, alternativa alla quale non si esporrebbero certo quand’anche ne dovesse risultare il maggior bene dello Stato e loro. Ecco press’'a poco, a quanto mi sembra, gli aspetti in base ai quali l’Abbé de Saint-Pierre avrebbe dovuto considerare la sostanza del suo sistema per stabilirne bene i principi; ma, invece di fare ciò, egli si trastulla a risolvere cinquanta cattive obiezioni che non vale la pena esaminare, oppure, e questo è peggio, a dare lui stesso cattive risposte quando le buone si presentano naturalmente,

come

se

cercasse

di

as-

sumere il modo di intendere le cose dei suoi oppositori per ricondurli alla ragione piuttosto che il linguaggio della ragione per convincere i saggi. Per

esempio,

dopo

essersi

obiettato

che nella polisinodia ciascuno dei consiglieri ha un suo piano generale, che questa diversità necessariamente produce decisioni che si contraddicono e difficoltà nel movimento complessivo, egli a questo risponde che non può esservi altro piano generale del cercare di perfezionare gli ordinamenti sui quali vertono tutte le parti del governo. Il migliore piano generale, egli dice, non è quello che mira più direttamente al maggior bene dello Stato in ogni affare particolare? Di qui trae la conclusione assai falsa che né i diversi piani generali né, di conseguenza, gli ordinamenti e gli affari che ad essi si colle gano possano mai intersecarsi o nuocersi a vicenda. Di fatto il maggior bene dello Stato non è sempre una cosa così chiara, né dipende quanto lo si crede dal maggior

bene di ogni parte: come se gli stessi affari non potessero avere una infinità di modi di ordinarsi fra loro e connessioni più o meno forti che formano altrettante differenze nei piani generali. Tali piani ben ordinati sono sempre duplici e racchiudono in un sistema comparato la forma attuale dello Stato e la sua forma perfezionata secondo le vedute dell'autore. Ora tale perfezione, in un tutto così composito come il corpo politico, non dipende soltanto da quella di ogni parte, così come, per dare una disposizione a un palazzo, non basta disporre bene ogni suo ambiente,

occorre

considerare

inoltre

i

ma

rapporti

del tutto, le conessioni più convenienti, l’organizzazione più comoda, la co-

municazione più agevole, l'insieme più perfetto e la simmetria più regolare. Questi fini generali sono talmente importanti che l'architetto capace sacrifica a quanto risulta meglio nel complesso mille vantaggi particolari che avrebbe potuto conservare in una organizzazione meno perfetta e meno semplice. Parimenti il politico non guarda in particolare



alle

finanze,



alla

guerra,

chi li ha formulati, sia cercando

la mag-

do

che

né al commercio, ma mette tutti questi settori in relazione a un fine comune e dalle proporzioni più convenienti risultano i piani generali, le cui dimensioni possono variare in mille modi secondo le idee e i punti di vista di giore

perfezione

l'attuazione

del

più

tutto,

sia

facile, senza

cercan-

sia

agevole talvolta scoprire quale di questi piani meriti la preferenza. Ora, proprio di questi piani si può dire che, se ogni consiglio e ogni consigliere ha il suo,

non

vi

saranno

se

non

contraddi-

essere,

e non

zioni negli affari e intralci nel movimento comune. Ma il piano generale, invece di essere quello di un uomo o

di

un

altro,

non

deve

è

difatti nella polisinodia, che quello del governo, e a questo grande modello si riferiscono necessariamente le deliberazioni comuni di ogni consiglio e il lavoro particolare di ogni membro, È pure certo che un simile piano si medita e si conserva meglio se affidato a un

SCRITTI

182

consiglio che non nella testa di un ministro o di un principe. Infatti ogni visir ha il proprio piano che non è mai quello del suo predecessore, e anche ogni semivisir ha il suo che non è né quello del suo predecessore, né quello del suo collega: perciò le repubbliche generalmente cambiano di sistema meno che le monarchie. Da questo concludo

con

l'Abbé

de

Saint-Pierre,

ma

per ragioni diverse, che la polisinodia è più favorevole all'unità di un piano generale del visirato o del semivisirato. Per

quanto

concerne

la

particolare

forma della sua polisinodia e i dettagli nei quali egli entra per determinarla, tutto

ciò

è

assai

ben

trattato

e,

caso

per caso, in maniera ottima per prevenire gli inconvenienti ai quali ciascuna cosa deve rimediare. Ma, quand’anche si

giungesse

all’attuazione,

non

so

se

regnerebbe una sufficiente armonia in tutto l'insieme. Infatti pare che l’istituzione dei gradi si accordi male con - quella della rotazione e la votazione ancor peggio con l'una e con l’altra; d’altra parte, se il creare l'istituzione è pericoloso,

si deve

temere

che, una

vol-

ta creatala, questi differenti meccanismi provochino mille difficoltà e mille squilibri negli ingranaggi della macchina quando si tratterà di farla andare. La rotazione della presidenza, in particolare, sarebbe un mezzo eccellente per impedire alla polisinodia di degenerare tosto jn visirato, se questa rotazione potesse essere durevole e non venisse arrestata dalla volontà del principe in favore del primo presidente che possieda la sempre ricercata arte di riuscirgli gradito. Cioè la polisinodia durerà fin quando il re non trovi un visir di proprio gradimento, ma anche sotto il visirato non si eviterà questo inconveniente. Debole rimedio quello la cui virtù si estingue all’approssimarsi del male che dovrebbe guarire! E non è forse un altro nostro cattivo espediente il fissare la necessità di ottenere una seconda volta i suffragi come freno per impedire ai presidenti di abusare la prima volta del loro credito? Non sarà forse più breve e più

SULL’ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

sicuro abusarne al punto di non sapere più che farsene dei suffragi? E il nostro stesso autore non accorda forse al principe il diritto di prorogare in caso di bisogno i presidenti a suo piacimento, cioè di farne veri e propri visir? Come ha fatto a non accorgersi mille

volte,

nel

così

assurdi

e

che

avesse

que

per

corso

della

sua

così

poco

vita

e

dei suoi scritti, di quanto sia vana occupazione la ricerca di forme durature per uno stato di cose che dipende sempre dalla volontà di un solo uomo? Queste difficoltà non sono sfuggite all’Abbé de Saint-Pierre, ma forse gli conveniva di più dissimularle che risolverle. Quando parla di queste contraddizioni e finge di conciliarle, lo fa con mezzi ragioni

ragio-

nevoli che ben ci si accorge che è imbarazzato o che non procede in buona fede. Sarebbe forse credibile che avesse messo avanti così a sproposito e annoverato fra tali mezzi l'amor di patria, il bene pubblico, il desiderio di una vera gloria e altre chimere da lungo tempo svanite o delle quali non restano più tracce se non in qualche piccola repubblica? Pensava seriamente che qualcosa di tutto ciò potesse effettivamente influire in una forma di governo monarchico? E dopo aver citato i Greci, i Romani e anche qualche moderno un’anima

antica,

non

rico-

nosce egli stesso che sarebbe ridicolo fondare la costituzione dello Stato su principi ormai estinti? Che cosa fa dunsupplire

a questi

mezzi

estra-

nei di cui riconosce l'insufficienza? Rimuove una difficoltà per mezzo di un’altra, stabilisce un sistema sopra un si. stema e fonda la sua polisinodia sulla sua repubblica europea. «Questa repubblica, egli dice, essendo garante dell'esecuzione dei capitolati imperiali per la Germania, dei capitolati parlamentari per l'Inghilterra, dei Pacta Conventa per la Polonia, non potrebbe esserlo anche per i capitolati firmati dal re in occasione della sua consacrazione per la forma di governo, quando questa forma sarà diventata legge fondamentale? E, dopo tutto, garantire i re dal cadere nella tirannia di un Nerone

POLISINODIA

183

non significa garantire loro e la posterità dalla rovina totale? ». « Si può, egli continua, far passare l'ordinamento della polisinodia sotto forma di legge fondamentale negli Stati Generali del regno, farli giurare ai re al momento della consacrazione e darle così la stessa autorità che ha la legge salica » 7. La penna cade di mano quando si vede un uomo di senno proporre seriamente simili espedienti. Non lasciamo tale argomento senza dare un'occhiata generale sulle tre forme di ministero messe a confronto in quest'opera. Il visirato è l’ultima risorsa di uno Stato che deperisce: è un palliativo talvolta necessario che può ridargli per un momento un certo vigore apparente. Ma in questa forma di amministrazione vi è una moltiplicazione di forze del tutto superflua in un governo sano. Il monarca e il visir sono due macchine perfettamente simili e l'una diviene inutile appena l'altra è in movimento: infatti, sentenzia Grozio, qui regit, rex est. In tal modo lo Stato sostiene un doppio peso che non produce se non un effetto semplice. A questo aggiungete che, essendo una gran parte della forza del visirato impiegata a rendere necessario il visir e a mantenerlo al suo posto, essa è inutile o nociva allo Stato. Anche l’Abbé de Saint-Pierre definisce a ragione il visirato una forma di governo grossolana, barbara, perniciosa ai popoli, pericolosa per i re, funesta alle case reali, e si può dire che non vi sia al mondo governo più deplorevole di quello dove il popolo è ridot-

FRAMMENTI

SULLA

fra le sue parti e di accordo fra i suoi ministri, soprattutto se qualcuno di loro, più

scaltro o cattivo degli altri, ten-

de in segreto al visirato. Allora tutto si svolge in intrighi di corte, lo Stato langue, e per ritrovare la ragione di tutto ciò che si fa sotto un simile governo non bisogna domandare a che cosa questo serva ma a chi questo nuoccia. Quanto alla polisinodia dell'Abbé de Saint-Pierre non saprei vedere come essa possa essere utile o fattibile in una vera

monarchia,

ma

soltanto

in

una

sorta di governo misto dove il capo non sia se non il presidente dei consigli, non abbia che il potere esecutivo e non possa fare niente di propria iniziativa. Non potrei inoltre credere che una simile amministrazione possa durare a lungo senza abusi; infatti gli interessi delle società parziali non sono meno separati da quelli dello Stato né meno perniciosi alla repubblica di quelli dei privati, e hanno anche un te in più, che ci si gloria

inconveniendi sostenere

a qualsiasi prezzo i diritti e le pretese del corpo di cui si è membri e, poiché ciò che vi è di disonesto nel preferirsi agli altri scompare in favore di una società numerosa di cui si fa parte, a forza di essere un buon senatore si finisce per diventare un cattivo cittadino *. Ciò rende l'aristocrazia la peggiore delle sovranità. Ciò renderebbe forse la polisinodia il peggiore di tutti i ministeri.

mivisirato esso è vantaggioso sotto un re che sa governare e riunire nelle sue

[FRAMMENTI SULLA POLISINODIA SOTTO FORMA DI DIALOGO FRA L'ABBÉ DE SAINT-PIERRE E ME, ROUSSEAU]

sotto un principe debole o poco laborioso questa amministrazione è cattiva, ingombrante, priva di coerenza e senza prospettive per mancanza di nessi

1. PREFAZIONE. L'’a[BBÉ] Non bisogua confondere qui due cose assai differenti, il governo di un determinato visir e il visirato in generale. Può acca-

* Scommetto che mille persone troveranno anche qui una contraddizione col Contratto sociale. Ciò prova che vi sono molti più lettori

che dovrebbero siano gli autori

to a desiderate

un

mani

redini

tutte

le

visir.

Quanto

dello

Stato,

al sema

imparare a leggere di quanti che dovrebbero imparare a ces-

sere conseguenti ”.

SCRITTI

184

SUILL'ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

dere che un visir sia uomo di grande ingegno, assai laborioso, assai temperante, di salute perfetta; può darsi che non abbia alcuna mira di arricchire 0 innalzare il suo casato, i parenti, gli amici; o che sia sempre dedito, unicamente e fortemente, alla giustizia e al bene dello Stato. Può anche darsi che egli sia capace di preferire interessi di tal genere alla propria reputazione. Ma vi è una differenza infinita fra il governo di un simile visir per venti o trenta anni e il visirato che io suppongo una forma di governo permanen-

già stabilita. Del resto proponendo questo espediente egli stesso conviene che ne occorrono altri in un paese dove l'amor di patria è estinto,

i[o] Si tratta dunque di sapere se nella scelta di una forma di governo bisogna fermarsi a quella che nell'ordine naturale delle cose abbia un qual. che grado di bontà, oppure a quella che potrà in verità essere assai più eccel-

sua

te, ecc. 0.

lente,

e quasi vi

ma

visir,

soltanto

miracolose. nuove

in

circostanze

D'altra

massime:

rare

parte, nuo-

tutti

i buoni

ordinamenti dei precedenti visir presto distrutti dal successore.

sono

2. alBBÉ] Jo sostengo che un perfetto visir non potrebbe far niente di me-

glio di stabilire,

prima

della sua morte,

la polisinodia anche nello Stato che egli governa. i[o]

Vi

è forse

un

visir, per quan-

to perfetto lo si voglia supporre, che non sia ben lieto di far rimpiangere la propria amministrazione e che voglia lasciarne dopo di sé una migliore della sua? 3. l'L'anRé] Una istituzione vasta come la polisinodia, della quale non si è ancora avuto nel mondo un modello eccellente e che richiedè un così grande sconvolgimento, non deve essere giudicata in base ai primi anni del suo esercizio né può conseguire la propria perfezione in così poco tempo. fo] [...] a sproposito; per Scipione non si trattava di stabilire una nuova consuetudine, ma di seguirne una

{...]

come

quando

egli

[l’Abbé]

vuole

che l'amor di patria impegni i presidenti attualmente in carica a rinunciare volontariamente alla presidenza perpetua e a sacrificare il diritto di precedenza al dovere di cittadino e cita il grande Scipione il quale militò sotto suo fratello contro Antioco senza tener conto che i Romani giungon qui per [...] 4. [o] taggi che

La egli

polisinodia,

maggior parte dei van[l'Abbé] deduce dalla una

volta

che

sia

isti-

tuita, mi sembrano perfettamente dimostrati. Ma quando egli vuole inol. tre dimostrare che è facile istituire tale polisinodia, allora si tratta solo di vaniloqui. Ancor peggio quando vuole assicurare a tale istituzione una durata di cui essa non è suscettibile in una monarchia e conciliare la suprema autorità del principe con la forma costante dei consigli. Qualora si voglia ragionare e istruirsi, non si può seguire l’autore fino a questo punto e si deve saper separare quanto egli diceva per rendere utile il progetto da quanto diceva per farlo adottare. 5. PREF[AZIONE]

ALLA POLISIN[ ODIA]

Egli [l’Abbé] prega i suoi avversari di non servirsi contro di lui che dello stesso metodo del quale egli si serve contro di loro,

[e di]

risolversi a combat-

e adottando

le distinzioni comu-

tere ad armi eguali e a non procedere con l'enfasi della declamazione né con le sottili trovate di una satira faceta che diverte senza nulla provare; ma spartendo semplicemente e metodica mente,

ni di « primo » e « secondo », affinché il lettore possa più comodamente confrontare le loro prove con le sue, le sue obiezioni con le loro e alla fine sistema

che

con sistema.

6. Invece di risolvere una obiezione scaturisce dalla resistenza dei pri-

vati,

egli

[l’Abbé]

spesso

si accontenta

FRAMMENTI

SULLA

7. L'ABBÉ Gli ulomini] abbastanza fortunati da non

non aver

sono alcun

inconveniente da temere qualunque sia la forma di governo che essi scelgano. Ma la più pericolosa è quella nella quale chi ha l'autorità può impunemente abusarne. Ecco ciò che io chiamo dispotismo. Ora sappiamo che quando l'uomo pubblico crede di non dover rendere affatto conto delle sue azioni, egli abusa, ecc. specie di dispotismo. 8. Egli [I'Abbé] chiama espediente ciò che fa preferire l’interesse pubblico all'interesse particolare. 9.

L’A[BBÉ]

Non

biasimo coloro che

vogliono servire bene ed essere ben pagati: essi sono giusti senza essere buoni. 10.

L'A[BBÉ]

I

consiglieri di Stato

si osservano troppo l’un l’altro per osar fare qualcosa contro il loro più preciso dovere. Si può perciò dire che la loro reciproca gelosia torni a vantaggio dello Stato. 11. L'A[BBÉ] La polisinodia è la forma [di governo] nella quale i ministri [dello Stato] più corrotti troveranno sempre le maggiori difficoltà a arricchirsi eccessivamente a spese dello Stato 2 del re. Di conseguenza essa è la forma meno onerosa per il regno, quand'anche essa per altri aspetti costasse di più. i[o] Infatti ciò che si spende in stipendi, emolumenti e altre legittime gratifiche è sempre meno oneroso per la nazione e ha meno pericolose conseguenze per il governo che se la stessa somma fosse perduta in furfanterie e malversazioni. 12. L'A[BBÉ] La maggioranza voti ottiene il medesimo risultato

l’unanimità.

185

POLISINODIA

di mostrare la pubblica utilità della cosa. Come se lo stesso principe potesse seguire il proprio interesse contro quello della gente che lo circonda.

dei del-

i[o]

Vorrebbero

governo e dove niente? 13.

i re una

forma

di

che

un

che funzionasse bene da sola essi non potessero guastare

Egli

[l'Abbé]

pretende

grande principe, atto a governare, metta gli affari in condizione da andare avanti, per così dire, da soli sotto un capo di ingegno più limitato. Ma, al contrario, un uomo di grandi capacità vuole operare egli stesso e non gli dispiace di farsi rimpiangere; un capo di scarse capacità, spossato dalle. proprie fatiche, è ben lontano dal poter insegnare ad altri a tirarsene facilmente fuori. In qual modo un u[omo] ordinario, che a mala pena sa fare il ministro o il funzionario, sarà capace di fare il principe e il signore? 14. L’A[BBÉ] Sebbene un grande genio abbia soltanto il proprio voto, egli è ben presto riconosciuto per tale dai suoi colleghi e di conseguenza viene preferito in una votazione per la presidenza e, qualora la rotazione di essa avvenga per elezione, sarà presidente più spesso di un altro. In tal modo gode nel suo consesso di una autorità proporzionata ai suoi lumi e conseguentemente

rende

allo

Stato

servigi

proporzionati

ai suoi talenti. Es[empio] Cicerone Senato [non aveva che il suo voto). un

in

15. L'A[BBÉ] Gli ex-presidenti di consiglio passeranno successivamen-

te agli altri per diventare atti a sedere in consiglio generale, perché ogni visir ba il suo che non è mai quello del predecessore e anche ogni semivisir ba il suo che non è né quello del predecessore né quello del collega. 16.

Un

pr[imo]

minlistro]

trascure-

rebbe progetti assai importanti di cui non fosse l’autore per attuarne altri in-

compar[abilmente]

meno

perché è lui ad averli ideati.

vantaggiosi

17. (0) I favoriti sopporteranno forse che si concedano a maggioranza di voti posti che non dipenderanno più

186

SCRITTI

da loro e dei quali essi non potranno più gratificare le loro creature? 18.

L’AaBBÉ

L'interesse

particolare

procura anche un movimento giore negli affari, e proprio de in generale il governo più vivo e attivo di quello

molto magquesto renmonarchico rep[ubbli]-

rendendo

cano.

gli ulomini]

Ma

tutti

questi

molto

più attivi,

movimenti

spesso irregolari e convulsi e, non vengano ordinati verso un mune, [nuocciono] guastano il sivo ingranaggio della macchina so di quanto non lo facilino. 19.

L'A[8BÉ]

Le

d[onne]

sono

qualora fine cocomplespiù spesscelgono

non le qualità necessarie al ministero, qualità che esse non conoscono e delle quali poco si curano: esse non domandano a un ministro altra qualità che una perfetta devozione alla loro ambizione e ai loro capricci. 20. L’A[BBÉ] I capricci e gli interessi particolari differiscono dalla saggezza e dalla ragione in questo: in persone diverse gli interessi sono sempre opposti, mentre la ragione e il bene generale vanno

di concerto allo stesso fine.

21. L’A[BBÉ]

delle

rivoluzioni:

Due

le cause generali

1) l’invasione

di

una

potenza straniera; 2) l'usurpa[zio]ne di un suddito divenuto troppo potente. Ora, la monarchia governata nel modo più saggio e su principi maggiormente volti al bene generale sarà meno soggetta alle guerte esterne, e l'autorità ripartita

fra

più

membil[i]

sarà,

di ciascuno di essi, meno ricolosa.

nelle

mani

grande e pe-

22. L'A[sBÉ] Preferisco, egli diceva, essere troppo chiaro e prolisso per qualcuno che essere troppo breve e oscuro per la maggioranza. I[o] Come non vedeva al contrario che dei ragionamenti sufficientemente sviluppati sono seguiti soltanto da una minoranza e che non si è mai abbastanza brevi per la moltitudine? A parer suo le piccole trascuratezze non sono disdicevoli nei grandi temi, dove è as-

SULL'’ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

sai rilevante l'argomento

le,

al contrario

dei

e poco lo sti-

discorsi

accademici

dove si guarda soltanto allo stile perché l'argomento è cosa da nulla. 23. L'A[B5É]

le per rità te, de

Qualora sorgessero del-

divergenze nel consiglio generale, quanto piccola possa essere l’autodel re, del reggente o della reggenessa sarebbe sempre abbastanza granper risolverle.

I[0]

prova

che egli ben

tratto

dalle

intuiva l’al-

terazione che la polisinodia doveva causare all'autorità reale; anche questo forse era uno dei vantaggi da lui contemplati in questa nuova forma, ma egli lo dissimulava per pauta di nuocere alla sua istituzione

esempio

la maggior parte alla polisinodia.

dei

Ris[poste]

difetti

contro

imputati

24. Perché mai venti o trent'anni di rotazione non potrebbero dare una sufficiente esperienza in tutti i dicasteri per ben giudicare di tutti gli affari in consiglio generale? Un visir che decida da solo di tutti gli affari ha forse potuto studiarli meglio e deve meglio conoscerli di venti o trenta consiglieri i qua-

li abbiano tutti lavorato successivamente in ognuno? Tale obiezione somiglia a quella che un tempo una ventina di uomini di lettere rivolgevano contro l'impresa dell’Enciclopedia tacciandola di temerarietà sebbene nessuno avesse detto niente contro Chambers per aver osato compierla da solo. 25: Lo studio della medicina esige conoscenze non meno estese di quello della politica, eppure un solo u[omo]. 26. L’A[BBÉ]

andava chelieu

regit, rex est*!. 27.

Sentenza di Grozio che

sempre dal e trascurava

L’A[BBÉ]

c[ardin]ale di RiL{uigi] XIII: Qui

Nell'amministrazione

di un visir, che sempre antepone i propri interessi al bene pubblico, più Je decisioni saranno sollecite e frequenti, peggio sarà per lo Stato.

FRAMMENTI

187

DIVERSI

28. L'A[BBÉ] Come per so è naturale fare molti giungere al plrimo] posto, rale che egli si esima da incresciosi sacrifici quando e si trovi sufficientemente 29.

L’A[BBÉ]

un ambiziosacrifici per così è natututti questi sia arrivato

affermato.

Imporre:a

ogni

con-

sigliere di consegnare tutti gli anni una memoria sui mezzi di perfezionare l'amministrazione del consesso di cui è membro. 30. L’A[BBÉ] uno dei la polisinodia è che non sventatamente un nuovo za averlo ponderatamente è una maggiore sicurezza tivi vengano respinti e presto o tardi, accettati. 31.

L'A[BBÉ]

scienza nella richiesti tre sbrogliare e 2) un vasto confrontare

La

vantaggi delvi si adotta progetto senesaminato. Vi che quelli catquelli buoni,

politica

è

una

tutti

insieme

molti

L'A[BBÉ]

de

Sl[ain]t-Pierre

di.

za, l’altro in un

altra, cosicché,

c[ardinale]

Richelieu

esservi di

stati

dal

sebbene

tempo

cento

del

genii

eguali o superiori al suo in mille altre materie,

egli

era

nondimeno

il

primo

fra tutti in politica, non soltanto perché in essa si eta maggiormente esercitato, ma anche perché ne aveva ricevuto il talento a un grado più alto. Egli pensa,

in

maniera

assai

errata

a

mio

parere, che soltanto l’esercizio e l'abitudine indirizzino lo spirito a una scienza piuttosto che a un’altra, e che un u[omo] riuscirebbe in tutto se a tutto dedicasse la medesima applicazione.

l’A[bbé]

de

Sl[aint]-P[ierre]

33. 1[o] Di tutte le qualità di un politico la più necessaria è un vero desiderio di procurare il bene pubblico e, se l'ingegno ne fa trovare i mezzi, è la virtù che li fa ricercare. Occorre dunque ben altro che il talento per governare bene e, dal momento che si tratta dell'interesse altrui, la testa funziona

sempre male quando una bella anima. 34. L'A[sBÉ] glianza di lumi sti nei consigli.

non

è diretta da

Una maggiore eguaprodurrà meno contra-

[FRAMMENTI

DIVERSI]

Estirpazione dei corsari

punti

mentica in questa divisione l'inclinazione natutale che porta due uomini dotati delle stesse qualità a farne uso differente e a eccellere l'uno in una scienpossano

che

Da ciò deriva evidentemen-

non aveva un marcato talento per la politica e che vi si era applicato soltanto con la ragione come alla scienza più utile agli uomini.

quale, per eccellere, sono requisiti: 1) l'acume per chiarire le materie oscure; ingegno per abbracciare e

di vista e molti nessi; 3) la precisione per accorgersi facilmente della debolezza 0 della forza di un ragionamento e della connessione necessaria o non necessaria dei mezzi col fine. I[o]

te

32. 1[o]

35. Ma non c’è fra noi alcun uomo di Stato il quale non pensi che per una buona politica sia più importante far del male agli altri che del bene a se stessi. 36. Poiché l’Italia e la Spagna sono situate rispetto al resto dell'Europa in maniera più favorevole al commercio con gli scali del Levante e delle coste dell’Africa, è interesse degli altri popoli lasciar sussistere una barriera insormontabile che impedisca a queste due nazioni di stabilire un tale commercio del quale essi stessi talora profittano, cosicché essi guadagnano forse di più di tanto in tanto per questo commercio esclusivo di quanto non perdano per le prede fatte a loro danno dai corsari durante la guerra e per le donazioni che essi esigono in tempo di pace. Per lo meno questo è quanto bisogna esaminare. 37.

essere]

[...] colui che si creda capace [di [cambiare]

di

foggiare

un

po-

188

SCRITTI

polo deve sentirsi in grado di cambiare

per

così

[dire],

la

natura

degli

vomi-

ni, bisogna che egli trasformi ogni individuo, che per se stesso è un tutto perfetto e solitario, in parte di un tutto più grande dal quale questo individuo sua vita

za],

riceva, in qualche modo, la e il suo essere [la sua esisten-

bisogna

che

egli

mutili

per

così

dire la costituzione dell’uomo per [...] ??.

[PROGETTO DI INTRODUZIONE A UN'OPERA SULL'ABBÉ DE SAINT-PIERRE] Due cose sono da considerare nei progetti che concernono la pubblica amministrazione,

cioè

l'ideazione

e

l’esecu-

zione. All’autore spetta mostrare che quanto propone è utile e fattibile; al governo spetta accettarlo o respingerlo; al saggio spetta giudicare se l'uno e l’altro

hanno

nistri

sono

fatto

bene

tacciati

di

o male.

In ge-

nerale gli ideatori di progetti sono tacciati di forgiare delle chimere e i miopporsi

sempre

al bene dello Stato, Queste due opinioni sono false e pericolose. Quale uomo sensato crederà che l'interesse particolare non può mai accordarsi con l'’in‘teresse pubblico o che non si può propotre niente di utile, o che tutto ciò che il ministero adotta è per necessità bene e quello che respinge per necessità male, che il governo non commette mai errore e che nulla si può toccare senza far del male? Occorrerebbe pensare o che necessariamente va sempre tutto male oppure che le cose non sono mai state migliori e neppure diverse da quelle che sono; bisognerebbe concedere ai re l'infallibilità che appartiene soltanto a Dio oppure disperare per sempre del pubblico interesse. Così la ragione tacerebbe nel più importante affare di sua competenza. Noi non trarremmo né frutto dalla storia né conoscenze dalle nostre riflessioni, noi andremmo sempre con lo stesso passo senza riguardo ai tempi, alle circostanze, ai

SULL’ABBÉ

nuovi

bisogni,

DE

SAINT-PIERRE

e, nella

sublime

arte

di

governare i popoli, ci comporteremmo da autori piuttosto che da uomini. È dunque un pregiudizio disprezzare un progetto solamente perché è nuovo e uno ancor più ridicolo è disprezzarlo perché ad esso non è stata data esecuzione, e rigettare come non fattibile tutto quello che non è stato messo in pratica. Un altro pregiudizio sarebbe l'approvare senza esaminarli tutti i progetti che si mandano a effetto e giudicare le cose soltanto in base al parere di persone, sempre sospette e spesso in errore, che le giudicano assai più per loro che per noi e talvolta assai male anche per loro stessi. Questi errori sono nocivi alla società e la ragione basta a garantire da essi ogni uomo di giudizio anche se limitato, giacché non bisogna farsi ingannare da quei pretesi segreti della politica sui quali non si farebbe mistero se si fosse capaci di comprenderli. Essi o sono cattivi o non sono niente, in quanto non si tratta che di render felici i popoli, cosa che è, o deve essere, l’unico fine del governo. L'arte di pervenirvi non ha nulla di

tenebroso,

ma

quella

funesta

rità copre espedienti più odiosi comprensibili e che ci vengono così profondi solo per paura si tenti di scoprirli. Applichiamo tali principi a pera. La conseguenza sarà che, le cose che in essa vengono non

siano

non vuol

debbano

state

mandate

quest’osebbene proposte

a effetto,

dire che non possano

esserlo,



che

oscu-

che indescritti che noi

al

ciò

o non

contrario

questo rifiuto sia per esse un pregiudizio

favorevole,

né,

infine,

che

i

pri-

vati non possano in questo giudicare se il governo ha torto o ragione. Molti dei progetti che vi sono riassunti furono a loro tempo presentati al ministero: sono stati tutti trascurati. Là sono stati trattati come chimere e nessuno li ha letti; io ho fatto del mio meglio per far sì che lo fossero. Spetta ai cittadini leggerli nello stesso spirito che li ha dettati e che li riassume; spetta al pubblico giudicarli. Se ho espresso su ciò il mio parere,

FRAMMENTI

189

E NOTE

ho esposto allo stesso tempo le mie ragioni; con questo non ho fatto altro che quel che farà ogni individuo il quale leggerà questo libro con l’attenzione che l'importanza della materia esige e che io ero costretto a darle nel rimaneggiarla. Così il mio giudizio non è una regola ma un esempio. Mi auguro di esser seguito da tutti i miei lettori e che,

per

l'utilità

pubblica,

ciascuno

vo-

glia esprimere il suo parere favorevole o contrario tanto francamente: quanto io ho espresso il mio, senza riguardo alla mia qualità di editore e senza ritegno nei confronti di un autore che io rispetto. Amicus Plato, magis amica veritas. Non so se in ciò si troverà quella razionalità sulla quale tutti i nostri giudizi debbono fondarsi: sono sicuro che vi si troverà almeno l'imparzialità che fa loro onore.

[FRAMMENTI E NOTE SULL'ABBÉ DE SAINT-PERRE]* 1 Scrivo la vita di un uomo semplice, onesto e veritiero. Queste qualità me lo hanno reso caro e lo renderanno senza dubbio caro ai lettori. Non dipenderà da me se non le rtavviseranno nella sua storia. Coloro che non ne saranno appagati possono esimersi dal leggerla. L’Abbé de Saint-Pierre nacque nel 1658 nel castello di Saint-Pierre Eglise in bassa Normandia da una famiglia illustre e da questo onore seppe trarre un merito rendendosi illustre egli stesso sebbene i suoi antenati l’avessero dispensato da questa cura. 2 Egli non aveva molto calore e le sue virtù erano opera piuttosto della ragione che del carattere, ma aveva nell'anima tutta la semplicità che po-

teva

sofia

facilitare

dolce

la

pratica

e umana,

di

una

e allo stesso

filo-

tem-

po tutta la fermezza necessaria per attenersi costantemente ai propri principi. 3 Sarebbe stato uomo assai saggio se non avesse avuto la mania della ragione. Sembrava ignorare che i principi come gli altri uomini non si fanno guidare se non dalle passioni e non ragionano se non per giustificare le sciocchezze che esse fanno loto fare.

4 Provava tanto piacere a vedere funzionare la sua macchina che quasi non si dava pensiero dei mezzi per farla andare. In lui continuamente l’immaginazione ingannava la ragione. Egli dimostrava,

è vero,

ma

dimostrava

‘soltanto

gli effetti di una causa impossibile a prodursi e ragionava molto bene su falsi principi. 5 Le sue opere non sarebbero state per questo lette molto di più, ma la sua persona sarebbe stata più rispettata, oppure, qualora l’avessero ancora screditato,

ciò

sarebbe

quanto uomo to visionario.

avvenuto

dabbene

soltanto

in

e non in quan-

6 Egli disegnava, per così dire, la sommità di un edificio del quale bisognava tracciare le fondamenta. 7 ... s&bbene si rendesse conto di quanto siamo frivoli, egli metteva nei suoi

190 scritti menti. lo di quello

SCRITTI soltanto la ragione senza ornaIl suo errore non era tanto quel. considerarci dei bambini quanto di parlarci come a degli uomini. 8

Gli

u[omini],

egli

diceva,

sono

si dica

due

tura?

L'Abbé

de

volte

la

stessa

cosa,

la seconda sbadiglia e non ascolta più se non lo si costringe. Ora come costringere i grandi bambini ad ascoltare se non attraverso il piacere della letSaint-Pierre,

DE

trascu-

rando di piacere ai lettori, andava dunque contro i suoi propri principi.

fra

gli

uomini,

ma,

che, se durante si eccelle meno di gusto, se ne si eccellesse in

11 La sua inclinazione a fare il bene non era quella di un cuore sensibile preso da un ardente amore per l'umanità. Essa era fredda e metodica come lui. Egli era incline al bene e incitava tutti a esserlo perché con i suoi ragionamenti aveva trovato che era bene che lo fossero.

voleva

far

S. Pierre Egli aveva puttuttavia amato. È un tributo che il saggio deve pagare una volta alla follia o alla natura. Ma, sebbene questa debolezza non avesse recato danno alla sua ragione universale, la sua ragione particolare ne aveva talmente sofferto che fu obbligato ad andare nella sua provincia per riparare nello spazio di qualche anno le brecce che i suoi errori avevano aperto nella sua fortuna. 13 Come quest'uomo se che è ancor più agli altri il male che quello che abbiamo

assennato ignorasdifficile perdonare si è fatto loro di ‘da loro ricevuto.

14

10 Se accondiscendeva a rispondere a tutte queste obiezioni, nondimeno egli ne vedeva molto bene la futilità. Ma il suo scopo era riuscire e non brillare; occorreva dunque rispondere con altrettanta cura agli spiriti meschini, dai quali quasi sempre dipende il successo delle buone iniziative, e ai grandi che spesso non fanno ‘che approvarli.

poiché

12

9 Egli non si accorgeva un secolo di filosofi nelle opere letterarie e giudica meglio che se esse.

SAINT-PIERRE

loro adottare i suoi principi e far loro apprezzare la sua ragione disinteressata, si rendeva più bambino di loro.

co-

me dei bambini: bisogna ripetere loro cento volte la stessa cosa perché la tengano a mente. Ma un bambino, al

quale

SULL'ABBÉ

L’Abbé de Saint-Pierre facendo il bene, e senza passione, sembrava un Dio

« So mente,

bene, signore, di essere, io,

ridicolo; pre assai obbligato te sicuro cora più

gli un

disse freddauomo molto

ma quanto vi dico è pur assennato e, se voi foste a rispondere seriamente, che recitereste una parte ridicola della mia ».

Toccato,

l'uomo

altolocato

mise

semmai siaanda

parte le facezie, volle ragionare e fu di conseguenza battuto. Questo l’ho saputo proprio da lui. 15 L’ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

Ritratto dell'Abbé de Saint-Pierre ne Il Secolo di Luigi XIV. 1

Egli credeva i cittadini obbligati a fare un certo numero di figli

FRAMMENTI

191

E NOTE

pet la patria. Aveva sempre una serva in età di farne e si coricava con lei tutti i sabati e non la toccava più appena ella fosse gravida. A questo riguardo si risparmiava nel suo piacere per conservarsi più a lungo capace di generare. Egli si riteneva responsabile nei confronti del pubblico bene della sua virtù prolifica. Ai suoi bastardi faceva imparare un mestiere che non fosse soggetto alla moda. Ed è per questo che non ne faceva deli] parrucchieri *. 2

3.

4

5

6

A proposito di una dama che pensava poco e parlava bene: « Che questa donna non dica ciò che io penso ». A proposito di un discorso letto al signor di Fontenelle che lo trovò piatto: « Mi rassomiglierà maggiormente ». [Egli]

diceva

che in Francia

era

mal

ricevuto

dai

mi-

8

9

ne,

essendomi

accorto

no,

ho

di discutere.

non

fa tornare

cessato

«Per

adottare

che

la

ra-

in sé nessu-

il vostro

sistema,

gli diceva il signor di Fontenelle, bisognerebbe che gli uomini fossero ragionevoli e se essi lo fossero non ne avrebbero bisogno ». Ciò che rendeva gradevole l’essere in relazione con lui era il fatto che

le sue

lettere,

benché

sem-

plici, avevano sempre allusioni particolari alla persona alla quale scri-

veva,

10

11

cosicché ...

«Ovunque provo piacere, diceva ingenuamente, perché la mia anima è sana ». L’Abbé

la sua

de

amante

sava appena 12

Saint-Pierre tutti

i sabati

vedeva

e ces-

essa era incinta.

Il signor di Fontenelle, che era

il suo

Aristarco,

proposito

gli aveva

detto,

a

francese,

che

il

del discorso

all'’Ac[cademia]

di ingresso

suo stile era piatto. « Tanto meglio, rispose l’Abbé, mi assomiglierà maggiormente, e per un onest'uomo è sufficiente dedicare due ore della vita a un discorso per l'Accademia ». 13

nistri e senza voler accorgersi della loro cattiva accoglienza andava sempre al suo scopo. Allora soprattutto avrebbe dovuto ricordare“che parlava a bambini assai fieri di giocare con grandi pupazzi. Non si viene ricevuti meglio nelle corti secolari con progetti vantaggiosi per i popoli che in quella di Roma quando si proponga la riforma del clero.

1 primi tre [anni] che passai a Parigi discutevo con tutti; alla figione

tut-

ti erano dei bambini. Il signor di Fontenelle gli domandò: « Che età mi date? ». « Dieci anni». Nelle sue raccolte vedremo che anche lui talvolta era un bambino. Polisinodia. AI momento della sua esclusione dall'Accademia egli ebbe tutte palle nere all'infuori di una bianca e il signor di Fontenelle dichiarò che era la sua. Esempio quasi unico di un corpo letterario che si disonora all'unanimità. [Egli]

7

14

Del resto si sostiene che in questi sbandamenti di gioventù, dai quali non sempre l’età mette un uomo in salvo, egli ebbe sempre con la sua amante lo stesso ritegno che già ebbe Zenobia col proprio marito, Gli uomini,

diceva Dryden,

non

sono che bambini di alta statura; le nostre inclinazioni mutano tanto

quanto le loro e noi non siamo né meno mutevoli né meno insaziabili di loro.

192

SCRITTI

15

L'Abbé de Saint-Pierre aveva scritto alla maggior parte dei col. legi del r[egno]

per istituire in cia-

accettata,

si

scuno “di loro un premio di bontà assegnato dagli scolari a maggioranza di voti. In nessun luogo, che io sappia, tale istituzione è stata collegi virtù. 16

il

tanto

ha

progredire

a cuore

della

nei

vera

Rivolgendosi ai principi non doveva ignorare che parlava a bambini assai più bambini degli altri, ma non cessava di fare loro intendere ragione come a dei saggi. 16

Per

quale

strano

contrasto

dare

di

fantasticherie ai suoi pr[ogetti]... Il progetto di pace perpetua era dovuto a Enrico IV, l'imposta proporzionale

al mar[escia]llo

di Vauban,

la po-

lisinodia al Reggente. In pratica non faceva altro che perfezionare le idee che avevano avuto i più grandi uomini di Stato e tuttavia gli rinfacciavano le sue chimere. 17 MEMORIE

DELL'ABBÉ

DE

PER LA VITA

SAINT-PIERRE

Charles Castel de Saint-Pierre nacque nel castello di Saint-Pierre Eglise in bassa Normandia il 13 febbraio 1658, Era il terzo figlio di Charles Castel batone di Saint-Pierre gran balivo del Cotentin e di Madelaine Gigaut de Bellefonds dama di grande merito. Era proprio lei, si è sostenuto,

a essere

raffigu-

rata da Saint-Evremond nel discorso dal titolo Idea della donna che non esiste ed era quasi impossibile lodare in modo più splendido una d[onna] che pure esisteva. L’Abbé de Saint-Pierre fu mandato al collegio dei gesuiti di Rouen nel 1667, con i due fratelli cadetti, e vi

rimase

SULL’ABBÉ fino

al

DE

1673,

SAINT-PIERRE anno

nel

quale

il

padre lo richiamò presso di sé, dove rimase per tre anni. In questo lasso di tempo si applicò allo studio delle leggi e soprattutto a quelle della sua provincia. Dopo la morte del padre scelse lo stato ecclesiastico e ricominciò gli studi interrotti al collegio dei gesuiti di Caen dove prese la licenza e studiò pure teologia. Ma per avere maggiore agio di studiare e di vedere gli uomini più valenti del regno in ogni disciplina venne a Parigi nel 1680, e con lui anche il signor di Varignon prete di Caen col quale amava discutere di fisica e di . teologia e al quale assicurò 300* di rendita vitalizia sebbene egli stesso, avendo quattro fratelli e molte sorelle, non ne avesse più di 1500* di legittima. Studiò chimica con il signor Lemery, anatomia con il signor Du Vernay, entrambi dell’Accademia delle scienze, vedeva spesso il padre Malebranche e le persone più dotte nelle scienze naturali. Nel 1683 gli capitò fra le mani il primo tomo dei Dialoghi dei morti del signor di Fontenelle, che era appena uscito, e questa opera gli dette il desiderio di fare la conoscenza dell'autore il quale allora viveva a Reims. Alcuni affari di famiglia avevano ivi attirato l’Abbé de Saint-Pierre e gli dettero occasione di fare amicizia con lui. Si vedevano tutti i giorni ed egli lo indusse a venire a Parigi e a fissarvi la sua dimora. Il

signor

di

Fontenelle,

che

stava

presso suo zio signor Corneille, vicino a Saint Roch, veniva spesso a passare diversi giorni dall'Abbé de Saint-Pierre che stava in Faubourg Saint-Jacques. Anche

l’Abbé

de

Vertot,

suo

antico

compagno di collegio, veniva a passare due giorni alla settimana dall’Abbé de Saint-Pierre;

egli

lavorava

allora

alla

sua Storia della congiura del Portogallo. L’Abbé de Saint-Pierre lavorava su delle osservazioni morali e il signor di Fontenelle alle sue poesie pastorali. Il pomeriggio essi andavano a continuare le loro conversazioni e le loro discus-

FRAMMENTI

E NOTE

193

sioni al Lussemburgo, profittando in tal modo delle reciproche critiche. La preferenza che l'Abbé de SaintPierre dava alla morale rispetto alla fisica e alle matematiche derivava dal fatto che egli riteneva che la conoscenza della morale potesse contribuire molto più della conoscenza delle altre scienze a rendere gli uomini felici e virtuosi. Alla fine di un *soggiorno di tre anni nel Faubourg Saint-Jacques, il signor Varignon fu nominato professore di matematica al collegio Mazzarino e vi pre-

gnare coloro che governavano ad appoggiare tutto ciò che poteva contribuire a istituzioni tanto salutari. Tale riflessione, che si presentava spesso al suo spirito, lo persuase che non la morale era la scienza più importante per la felicità degli uomini,

i suoi giorni in Normandia. Di questa compagnia restò solo l’Abbé de SaintPierre; egli rientrò nel centro della città dove continuò a vedere coloro che per scienza e ingegno godevano della maggiore reputazione. Dopo diverse riflessioni sui differenti modi che gli uomini seguono per aumentare la loro felicità e per dominare i loro mali, egli si accorse che la maggior parte della felicità o della infelicità umana veniva dalle buone o dalle cattive leggi. Vide con chiarezza che, se coloro i quali sono più utili alla società, sia per i loro grandi talenti che per la loro virtù, avessero sempre le maggiori cariche e fossero maggiormente onorati e rispettati in proporzione al loro me-

rale per quello della politica, come aveva lasciato lo studio della fisica per quello della morale. Da allora in poi si applicò quasi esclusivamente alla scienza del governo degli Stati e fu sorpreso di trovare così poca gente che si applicasse al medesimo studio.

se dimora,

rito

verso

l'Abbé

la

Vertot

nazione,

la

andò

a finire

società

uma-

na sarebbe incomparabilmente più felice. Egli rimase perciò persuaso che, fintanto che le leggi di governo non fossero abbastanza sagge da volgere, con sufficienti ricompense, giustamente distribuite, i desideri degli uomini verso i talenti e la virtù, gli uomini non avrebbero potuto essere molto felici. Fu questa persuasione a deciderlo ad applicarsi da quel momento allo studio del governo per cercare di scoprire i mezzi di creare saggi ordinamenti e di far fare delle buone istituzioni le quali vincolassero sufficientemente gli uomini, per mezzo del loro interesse particolare, a lavorare costantemente e con ardore per procurare l’interesse pubblico; e soprattutto egli decise di ricercare i mezzi più efficaci per impe-

ma

la

politica

alla

società,

o

scienza

del

governo,

e che una sola legge savia poteva rendere felici un numero incomparabilmente maggiore di uomini che non cento buoni trattati di morale. Così, allo scopo di divenire più utile lasciò

Io

studio

della

mo-

Suo fratello, il Padre de Saint-Pierre, gesuita, fu nominato confessore di Madame, la cognata del re, nel 1692 e nel

1693. L'Abbé* de Saint-Pierre comprò la carica di primo elemosiniere di tale principessa. Fra le considerazioni che lo indussero a frequentare la corte ve ne erano due che gli andavano assai a genio. La prima, che là poteva vedere gli uomini che ricoprivano i ruoli principali nel regno, conoscerne i talenti e giudicare con sicurezza se essi erano più felici e più capaci di rendersi felici che non i semplici privati senza cariche e senza grandi fortune. La seconda era di poter conoscere con maggiore esattezza e facilità quali erano i segreti della macchina del governo e scoprire in qual modo la si potesse perfezionare, sia per accrescere la gloria di chi governa sia per accrescere i vantaggi di chi è governato. Egli pensò che, con molte riflessioni, poteva aprire nuove strade in politica e far fare in pochi anni ai filosofi della politica progressi assai grandi in questa scienza così trascurata. Tale intento di essere utile agli uomini in generale e alla sua patria in particolare fu il principale motivo dello studio che intraprese sulle leggi dei

SCRITTI

194

diversi settori del governo. Fu accolto all'Accademia francese nel 1695 e passò parecchi anni a corte, dove studiava gli uomini e gli affari politici e dove allo stesso tempo raccoglieva

materiali

per

allungare

la

scrivere

di ciò che,

negli avvenimenti del suo tempo, gli pareva maggiormente degno di attenzione. Nel 1707 fu costretto a recarsi in Normandia per affari di famiglia. E là compose due opere: la prima sull’importanza e i mezzi per rendere più praticabili le strade maestre, l’altra fu il primo abbozzo della sua grande opera, intitolata Progetto per rendere perpetua la pace in Europa. Egli vendette la sua carica di primo elemosiniere di Madame nel 1713 per avere maggiore agio di meditare e di scrivere. Conservò il suo alloggio a palazzo reale e andava di tanto in tanto a passare l’estate in una tenuta in Normandia, appartenente al fratello conte de Saint-Pierre; là egli compose diverse opere politiche. Nel 1717 dette alle stampe il terzo volume in-12 del Progetto di pace perpetua. Per

mattinata,

che

[pena]

gli fece

l’eccessiva

Paziente,

mi-

seria nella quale aveva visto in campagna i contadini a causa della sproporzionata imposta arbitraria; per rimediare a ciò scrisse molte memorie che fece in seguito stampare col titolo di Progetto di una tariffa di imposte. Lo dilettava molto l’intrattenersi con persone di valore; i suoi costumi erano miti, inalterabili e pieni di indulgenza;

DE

SAINT-PIERRE

semplice,

senza

boria,

aman-

do fa buona fama più della fortuna e il pubblico bene più della fama, diceva: «Io occupo da uomo le mie matti. nate, il pomeriggio spesso mi diverto con i grandi bambini non potendo conferire con uomini ». Egli chiamava grandi bambini le donne e la maggior parte degli uomini. Era sempre occupato, ma erano occupazioni libere e di sua scelta, ed era estremamente docile di fronte alle critiche che venivano rivolte alle sue opere. Di questa docilità egli anzi si vantava e non aveva altra «passione e ambizione che lavorare con successo per la pubblica utilità; ha concluso la sua vita lavorando tutti i giorni per rendere più utili le sue opere. È morto nel 1743, all’età di ottantacinque anni, in modo assai dolce e tranquillo, dopo aver ricevuto tutti i sacramenti della Chiesa.

è il

momento più adatto a scrivere, soleva coricarsi alle otto e alzarsi alle quattro, non lavorava dopo il desinare, mangiava del pane alle sette e beveva qualche sorso di vino con molta acqua. În seguito abolì il vino. A desinare mangiava con assai buon appetito. Egli attribuiva alla sua dieta il fatto di essere immune dalle dolorose malattie della calcolosi e della gotta e credeva di poter guarire dalla maggior parte delle malattie mangiando poco e bevendo molta acqua calda quando si sentiva indisposto. Molta

SULL’ABBÉ

rari erano i suoi biasimi perché era spesso portato a scusare, mentre lodava volentieri quanto era degno di lode.

18 [NOTA SULL'ESCLUSIONE DELL'ABBÉ DE SAINT-PIERRE DALL'ACCADEMIA FRANCESE]

Avendo

contro

di

rettore,

per

appreso lui

quanto

si

all’Ac[cademia]

ttamava

l’Abbé

de Saint-Pierre scrisse il 4 maggio 1718 al signor di Sacy, che era allora il didare

assicurazione

circa

la

rettitudine delle proprie intenzioni e per rendere manifesto ciò che egli credeva di dovere a lui stesso e ai col. leghi nel giustificarsi da una accusa che gli rimproverava piuttosto una cattiva volontà che dell’imprudenza. Egli aggiunse, a proposito dello scandalo che certe espressioni parevano provocare in persone di riguardo che rispettava, di esser pronto, se ciò li poteva appagare, a firmarne la ritrattazione, ma soltanto con una clausola che dimostrasse le sue intenzioni e il rispetto che sempte ave-

FRAMMENTI

195

E NOTE

va avuto per la memoria del defunto re, clausola conforme alla verità, della quale egli preferiva esser la vittima piuttosto che accusarsi falsamente *. A questa lettera era unita una memoria sulla forma del procedimento a suo carico, nella quale egli provava che si procedeva contro di lui in una maniera irregolare, parimenti contraria agli statuti e agli usi dell'Accademia, e anzi ingiusta sotto ogni aspetto qualora lo si condannasse senza volerlo ascoltare. Pregava il signor di Sacy far leggere tale memoria nella seduta dell’Accademia del

giorno

successivo,

e

l'indomani

stesso,

il 5 maggio, compose un’altra memoria sulla sostanza dell’accusa in cui dimostrava le seguenti cinque proposizioni. La prima, che tutte le volte che il governo attuale è migliore di quello precedente, spetta a un buon cittadino il dirlo e il provarlo, e che ogni scrittore il quale faccia l'una e l’altra cosa non può per questo essere biasimato. La seconda, che non si è in grado di produrre una prova completa in tale materia senza fare un confronto totale degli inconvenienti e dei vantaggi del. l'una e dell’altra amministrazione. , La terza,

che,

qualora

cato,

nella

sua

l’autore

dissimulas-

se o minimizzasse le mancanze del precedente ministero per dei riguardi nei confronti di famiglie private, egli tra direbbe la causa del pubblico. La quarta: non esser vero che egli avesse manopera,

di

rispetto

alla

memoria del defunto re. La quinta, che uno scritto, nel quale sono affermate più verità utili allo Stato che errori particolari rimproverati a qualcuno dei suoi defunti membri, è più degno di lode che di biasimo e di conseguenza l’autore merita di esser ricompensato piuttosto che punito. Ma, mentre l'Abbé de Saint-Pierre così dimostrava la propria innocenza, l'Accademia procedeva con non maggiore regolarità né meno celermente alla sua

condanna,

e

quello

stesso

giorno,

il 5 di maggio, in cui redigeva la sua memoria egli fu escluso dalle assemblee con delibera quasi unanime. Il suo posto non fu per questo dichiarato

vacante e ci si comportò come si era fatto con Furetière. Si dice che egli

ottenesse

ricercando tori

di

una

sola

qualcuno

chi

palla

potesse

dei

bianca

suoi

essere

e che,

persecu-

tale

palla,

il signor di Fontenelle dichiarasse ad alta voce che era la sua. Così un uomo debole ma retto trova nella sua virtù la forza e il coraggio quando sono in questione la giustizia e un amico. L’Abbé de Saint-Pierre sostenne la sua disgrazia non solo con la moderazione che conviene al saggio, ma con quella superiorità della ragione che gli era propria e che sembrava inaccessibile alle passioni umane. Spinse il suo rispetto fino a scrivere al signor di Sacy una seconda lettera, piena di mitezza e di onestà, nella quale lo pregava di rendersi testimone presso l'Accademia del suo rammarico di esser privato dell’onore e del piacere di assistere alle assemblee. Egli supplicava i suoi antichi colleghi di perdonargli il dispiacere che poteva aver loro procurato come egli per parte sua perdonava loro il torto che gli avevano fatto, e offriva i suoi servigi in caso di bisogno a quelli stessi che più energicamente avevano preso posizione

contro

di lui. Fece

di più,

continuò a recarsi dall’Abbé de Dangeau e, raddoppiando Ila cortesia e la mitezza nei suoi confronti, non risparmiò nulla per fargli tollerare la propria presenza. Ma, siccome le offese che si sono fatte non si perdonano tanto facilmente quanto quelle che si sono ricevute, l’Abbé de Dangeau gli fece comprendere che, dopo quanto era accaduto, era per loro sconveniente vedersi, ed egli si ritirò assai afflitto che gli uomini dabbene i quali lo avevano privato dell’Accademia lo privassero anche della loro compagnia. 19 [SUL

MEDESIMO

ARGOMENTO]

Del resto è esempio unico nella storia che un autore sia pubblicamente e impunemente insultato per avere prefe-

SCRITTI

196

rito il regime attuale a quello che lo ha preceduto, ed è la più grande prova di giustizia, debolezza o trascuratezza che possa dare quello stesso regime che egli loda. Cosicché la disgrazia medesima di tale autore viene a fornire in una siffatta occasione una prova contro lui stesso. Un tale ardire da parte dell’Accademia avrebbe potuto portare il nome di coraggio se esso fosse stato il frutto dell’integrità piuttosto che di una fazione e se fosse mai concesso di dare un nome onesto a una

azione

ingiusta

[...]

20 SUPPLEMENTO AL « JOURNAL DES SAVANS ET DE TRÉVOUX » APRILE

[L'Abbé

1758,

P.

111

de Saint-Pierre]

Ecc.

aveva

un’a-

nima senza passioni e senza pregiudizi. Non intendeva che la ragione, non diceva

che

la

verità,

ma

senza

orpelli,

come egli la vedeva attraverso il velo che la potenza getta sulle ingiustizie. Lasciamo, egli dice, che il volgo sciocco misuri gli u[omini] secondo il potere; chi se ne intende li misura secondo la grandezza dei motivi della loro impresa. Su questa base è permesso giudicare

i re, gli eroi,

i ministri,

La virtù insieme a conoscenze mediocri è più utile per se stessi e per gli altri delle grandi conoscenze unite a una virtù mediocre o a vizi frammisti a virtù. Così l'abilità dei Veneziani non ha impedito che la loro potenza non sia diminuita negli ultimi due secoli, mentre gli Svizzeri con il loro buon senso hanno accresciuto la loro reputazione. L'’Abbé de Saint-Pierre scrive senza eleganza, senza persuasione e io non mi stanco di leggerlo! Perché? Perché egli pensa sempre e in maniera utile; perché in lui la politica si fonde sempre così bene con la morale che la maggior parte dei suoi principi per lo Stato sono consigli di virtù. Un erario degli onori diviene assai

SULL’ABBÉ

DE

SAINT-PIERRE

necessario in uno Stato in cui i privati sono ricchi. La venalità di cariche e di impieghi è dunque una delle cause principali della decadenza delle monarchie. Segrais diceva che quasi tutti i giovani all’età di quindici o diciotto anni hanno voglia di farsi religiosi e chiama tale voglia la varicella dello spirito. «Ho avuto tale varicella, disse l’Abbé de Saint-Pierre, ma non ne sono rima-

sto segnato », Un religioso lo complimentava un giorno per delle lettere contro i giansenisti che circolavano sotto il suo nome. « Padre, gli rispose, amo più di ogni altra cosa la pace e la tranquillità dello Stato e della Chiesa. In verità sono dell'opinione di Molina sulla libertà, ma non molinista perché questo è un termine del pattito persecutore ». « Ma,

disse

il religioso,

vina,

mentre

voi

non

vi cu-

rate dunque di salvare la verità dagli artifici dell’errore ». «No, padre, rispose l'Abbé de Saint-Pierre, quando per salvare la verità occorre perdere la carità. Le verità non cade mai in rola

carità

si

perde

segni di disprezzo e di odio ».

con

i

21 SECOLO

DI LUIGI XIV DI VOLTAIRE ?

L’Abbé

de Saint-Pierre era un genti

luomo di Normandia, il quale possedendo una mediocre fortuna la divise a lun-

go con i celebri Varignon e Fontenelle. Egli visse sempre a Parigi come se fosse stato un filosofo di Atene dicendo e scrivendo liberamente il suo pensiero su ogni argomento, e impiegando lo stile di un legislatore del tempo passato. Egli mescolava la più grande semplicità e la mitezza più inalterabile con la più invincibile ostinazione. Le sue opere non sono se non progetti. La maggior parte delle sue buone intenzioni furono considerate ridicole per la maniera in cui egli le esponeva e per i dettagli nei quali si addentrava, e perché pareva sempre

parlare

a u[omini]

di un

altro

FRAMMENTI

197

E NOTE

secolo. Tuttavia egli rese grossi servigi sotto la reggenza del duca di Orleans per liberare il regno dalla imposta arbitraria. Egli scrisse da ulomo] di Stato su questo argomento e agì da vero cittadino aiutando con le sue cure più di un intendente a stabilire l'imposta proporzionale. Questo servizio reso al. la patria basta a rendere degna di rispetto la sua memoria. Egli fu tuttavia escluso dalle assemblee dell’Accadlemia] di Francia, di cui era membro, per

aver preferito con un poco di asprezza,

in uno dei suoi scritti politici, intitolato la Polisinodia, i consigli istituiti dal

Reggente al modo di governare di L[ui-

gi)

XIV.

Il clardin]ale

di Polignac,

il

quale allora // senza dubbio assieme a Mad[am]e du Maine // cospirava contro il Reggente, godette nell'Accademia

di Francia dell'autorità di fare escludere L’A[bbé] de Slaint]}-P[ierre]. Ed è strano il fatto che il duca di Orleans, il quale dava alloggio all’Abate nel Palazzo Reale e aveva al suo servizio tutta la famiglia, tollerasse tale esclusione. Alla sua morte si venne anche meno all'uso invalso nelle Accademie di fare un elogio di coloro che sono

morti, e la

tomba fu privata dei suoi vani fiori che, a dire il vero, non aggiungono mai niente alla reputazione ma il cui rifiuto diventa un oltraggio. I suoi costumi, i suoi puri intenti, i servigi da lui resi meritano che non lo st dimentichi in questa sede. Morì a ottantadue anni nel 1742. Gli domandai qualche giorno prima della morte con quale occhio guardasse alla sua fine; egli mi rispose: « Co[m]e a un viaggio in campagna ».

LETTERA SUGLI Al signor d’Alembert,

A D’ALEMBERT SPETTACOLI dell’Accademia

francese,

dell’Accade-

mia reale delle scienze di Parigi, di quella di Prussia, della Società

reale di Londra, dell'Accademia reale delle belle lettere di Svezia e dell’Istituto di Bologna: Sul suo articolo Ginevra, nel settimo volume dell’Enciclopedia, e particolarmente sul progetto di istituire un teatro di prosa in

quella città’.

TRADUZIONE

DI

GIUSEPPE

SCUTO

PREFAZIONE Se in questa occasione ho preso la penna senza che ve ne fosse necessità, ho avuto

torto.

Per me, non

può

essere

vantaggioso né piacevole attaccare il signor d’Alembert. Io lo stimo; ammiro il suo talento; mi piacciono le sue opere; sono sensibile al bene che ha detto del mio paese. Essendo ‘stato anche io onorato dai suoi elogi, una giusta onestà mi impone a mia volta’ tutti i riguardi nei suoi confronti; ma i riguardi sono più importanti del dovere solo per quelle persone per cui la morale consiste nelle apparenze. Giustizia e verità, ecco i primi doveri dell’uomo. Umanità, patria, ecco i suoi primi affetti. Ogni qual volta, per motivi. contingenti, egli cambia quest'ordine, è colpevole. Potrei esserlo

io

nel

fare

il mio

dovere?

Per.

rispondermi, bisogna avere una patria da servite, e più amore per il proprio dovere che paura di dispiacere agli altri. Dato che non tutti possono avere l'Enciclopedia a portata di mano, trascriverò qui il passo dell'articolo Girevra che mi ha spinto a prendere la penna.

Avrebbe

dovuto

avessi aspirato io oso aspirare do alla quale di nessuno. Nel leggere

farmela

cadere,

se

alla gloria letteraria, ma a un'altra gloria, riguarnon temo la concorrenza questo

passo

isolatamen-

te, più di un lettore sarà sorpreso dallo

zelo che lo ha dettato; leggendolo nel suo contesto, si noterà che il fatto che

non ci sia teatro a Ginevra, mentre potrebbe esserci, occupa un ottavo dello spazio rispetto agli altri argomenti ?. « Le rappresentazioni teatrali non sono permesse a Ginevra; non tanto perché vi si disapprovino gli spettacoli in . se stessi, quanto perché si teme, a quel che si dice, il gusto del lusso, della dis-

sipazione e del libertinaggio che le compagnie teatrali difondono fra i giovani. Ciò nonostante, non sarebbe possibile rimediare a questo inconveniente per mezzo di leggi, severe e rigorosamente applicate, sul comportamento degli attori? Con questo sistema Ginevra avreb‘be sia gli spettacoli che i buoni costumi, e godrebbe i vantaggi degli uni e degli altri; gli spettacoli teatrali formerebbero il gusto dei cittadini e darebbero loro una delicatezza di modi e una sensibilità che è difficile acquisire senza questo aiuto; la letteratura ne trarrebbe vantaggio, senza che il libertinaggio aumentasse, e Ginevra riunirebbe in sé la saggezza di Sparta e la cultura di Atene. C'è un’altra considerazione, degna di una repubblica così saggia e così illuminata, che dovrebbe convincerla, forse, a permettere gli spettacoli. Il barbaro pregiudizio contro la professione dell'attore, lo stato di umiliazione in cui abbiamo messo questi uomini così necessari al progresso e alla sopravvivenza delle arti, è certamente uno dei principali motivi che contribuiscono a quella sregolatezza di costumi che rimproveriamo loro; essi cercano

LETTERA

202 di

rifarsi,

attraverso

i piaceri,

di quel-

la stima che la loro condizione non può ottenere. Da noi, un attore di buoni costumi è doppiamente rispettabile; tuttavia gliene siamo a stento grati. L'esattore delle imposte che insulta la pubblica indigenza e se ne ingrassa, il cortigiano che striscia umilmente e *che non paga i suoi debiti; ecco il tipo di uomini cui tributiamo più onore. Se a Ginevra gli attori fossero non solamente tollerati, ma anzitutto frenati da sagge leggi, protetti in seguito, e anche stimati appena ne fossero degni, infine considerati come gli altri cittadini, questa città avrebbe presto il privilegio di possedere ciò che noi crediamo così raro, e che non lo è che per nostra colpa: una compagnia di attori degni di rispetto. Bisogna aggiungere che questa compagnia diventerebbe presto la migliore d'Europa; molte persone piene di gusto e di disposizione per il teatro, e che da noi temono di disonorarsi dedicandovisi,

per

nore,

coltivare ma

accorrerebbero

non

addirittura

soltanto

a

Ginevra

senza

riscuotendo

diso-

stima,

una inclinazione così piacevole e così poco comune. La permanenza in questa

città,

che

molti

Francesi

considerano

noiosa per la mancanza di spettacoli, diventerebbe allora ricca di onesti divertimenti, come lo è per la filosofia e per la libertà; e gli stranieri non sarebbero più sorpresi di vedere che, in una città dove sono proibite le rappresentazioni tranquille e decenti, si permettono farse grossolane e prive di spirito,

tanto

contrarie

al

buon

gusto,

quanto lo sono ai buoni costumi. Ma non è tutto; a poco a poco l'esempio degli attori di Ginevra, la tranquillità della loro condotta e la stima che ne acquisterebbero, servirebbero di modello agli attori degli altri paesi e di lezione per coloro che- finora li hanno trattati con tanto rigore, ed anche con tanta incoerenza. Non accadrebbe più di vederli da un lato, pensionati dal governo, dall’altro, oggetto di anatemi; i nostri preti perderebbero l'abitudine di scomunicarli, i nostri borghesi perderebbero quella di guardarli con disprezzo; ed

A D'ALEMBERT

una piccola repubblica avrebbe la gloria di aver riformato l'Europa sotto questo aspetto, forse più importante di quel che non si pensi ». Questo è certamente il quadro più piacevole e seducente che ci si potesse offrire,

ma

anche,

nello stesso tempo,

più pericoloso consiglio che tesse dare. Almenò, questo pensiero; le mie ragioni sono scritto. Con quale avidità la

di Ginevra,

trascinata

l'istituzione

di

vo del mio

allarme,

il

ci si poè il mio in questo gioventù

da un’autorità

di

così grande peso, si abbandonerà a delle idee verso le quali è già fin troppo incline? Quanti giovani di Ginevra, per il resto bravi cittadini, dopo la pubblicazione di questo volume non aspettano che il momento di favorire un

teatro,

credendo

di

rendere un servizio alla propria patria e, quasi, al genere umano? Ecco il motiecco il male che

io

vorrei prevenire. Rendo giustizia alle intenzioni del signor d'Alembert, e spero che egli vorrà renderne alle mie; non ho il desiderio di dispiacergli più di quanto egli abbia voglia di nuocerci. Ma,

infine,

anche

se

io

mi

sbagliassi,

non devo forse agire, parlare secondo la mia coscienza e i miei lumi? Avrei dovuto tacere? Avrei forse potuto farlo senza tradire la mia patria e il mio dovere? * Per avere il diritto di tacere in questa occasione,

non

avrei

mai

dovuto

scri-

vere su argomenti meno importanti. O dolce oscurità che fosti la mia felicità durante trent'anni, avrei dovuto saperti amare sempre! Bisognerebbe che non si sapesse che ho avuto legami con gli editori dell’Enciclopedia, che ho fornito alcuni articoli dell’opera‘, che il mio nome si trova fra quelli degli autori; bisognerebbe che il mio zelo per il mio paese fosse meno conosciuto, che si supponesse che l'articolo Ginevra mi fosse sfuggito, o che, dal mio silenzio, non si potesse supporre che io accetto ciò che contiene. Poiché nulla di tutto ciò è possibile, bisogna dunque che parli; bisogna che sconfessi ciò che non accetto, perché non mi si imputi di avere sentimenti diversi da quelli che nutro. I

LETTERA

203

A D’ALEMBERT

miei compatrioti non hanno bisogno dei miei

consigli,

lo

so

bene;

ma

sono

io

che ho bisogno di nobilitarmi, mostrando che la penso come loro sui nostri principi. Non ignoro quanto questo scritto, così inferiore a quello che dovrebbe essere, sia ugualmente inferiore a ciò che avrei potuto scrivere in giorni più felici. Tanti sono i motivi che hanno concorso a metterlo ancora al di sotto della mediocrità che potevo un tempo raggiungere, che mi meraviglio che non sia ancora peggiore.

Scrivevo per la mia

patria: se fosse vero che lo zelo può supplire al talento, avrei scritto meglio

che mai; ma, pur rendendomi conto di ciò che sarebbe stato necessario fare, non

ne sono stato capace. Ho detto freddamente la verità; ma a chi essa interessa?

Triste raccomandazione per un libro! Per essere utili, bisogna essere piacevoli; ma la mia penna ha perduto quest'arte. Qualcuno mi rinfaccerà questa perdita crudelmente.

E sia:

mi

sento

decaduto,

e non sarà possibile decadere ancora. Innanzitutto, qui non si tratta più di

vane

chiacchiere

È

dunque

filosofiche,

una concreta verità che to un popolo. Non si volgermi ad un piccolo sone, ma al pubblico; fare pensare gli altri, francamente quale sia stato

ma

di

interessa a tuttratta più di rinumero di pernon si tratta di ma di spiegare il mio pensiero.

necessario

che

cam-

biassi di stile: per meglio farmi capire da tutti, ho detto meno cose in più parole; volendo essere chiaro e semplice,

ho finito per essere lento e prolisso. Contavo di scrivere al massimo uno o due fogli di stampa; ho cominciato alla svelta e, dato che l’argomento si faceva vieppiù complesso durante la stesura, ho continuato senza più trattenermi,

Ero

malato

e

triste;

e

benché

avessi un gran bisogno di distrazioni, mi sentivo così poco in grado di pensare

e di

dovere

scrivere

da compiere

che,

non

se

l'idea

di

un

mi avesse so-

* «Ad amicum etsi produxeris gladium, non desperes; est enim regressus. Ad amicum si aperueris os triste, non timeas; est enim concordatio: excepto convicio, et improperio et super-

stenuto,

mi

sarebbe

accaduto

cento

vol-

te di gettare via il mio scritto. Per questo sono diventato meno severo con me

stesso.

Ho

cercato,

nel

mio

lavoro,

l'aspetto piacevole, che me lo rendesse sopportabile. Mi sono lasciato andare a tutte le digressioni possibili, senza prevedere in che misura, per sollevare me stesso dalla noia, vi avrei fatto sprofondare il lettore. Sarà impossibile trovare in quest'opera del buon gusto, una scelta, delle correzioni. Vivendo solo, non ho potuto mostrarla

a nessuno.

Avevo,

prima,

un

Aristarco severo e giudizioso, adesso non l'ho più, né lo voglio * più: ma lo rimpiangerò

sempre;

egli

manca

mag-

giormente al mio cuore che ai miei seritti 5. La solitudine calma l’anima e dà pace alle passioni che il disordine del mondo ha fatto nascere. Lontani dai vizi che ci sdegnano, ne parliamo con minore indignazione; lontani dai mali che ci colpiscono, il cuore ne è meno commosso. Da quando non frequento più gli uomini, ho quasi smesso di odiare i malvagi. Del resto, il fatto che mi abbiano fatto del male, mi toglie il diritto di dirne di loro. Bisogna ormai che io li perdoni, se non voglio rassomigliare a loro. Senza accorgermene, sostituirei l'amore della vendetta a quello della giustizia; sarà meglio che dimentichi tutto. Spero che non mi si trovi più così aspro come mi si rimproverava, ma che mi faceva leggere; prefetisco essere meno letto, pur di vivere tranquillo. A queste ragioni se ne aggiunge una più crudele che invano tenterei di dissimulare; il pubblico se ne accorgerebbe comunque. Se fra gli scritti che sono usciti dalla mia penna, questo è ancora inferiore agli altri, è più colpa mia che delle circostanze: sono io che sono inferiore a me stesso. I mali del corpo stancano l'anima: a forza di soffrire, essa perde le sue capacità. bia, et mysterii revelatione, et plaga dolosa; in his

XXI,

omnibus

26, 27).

effugiet

amicus ».

(Ecclesiastic.,

LETTERA

204 Un momento di passeggero fermento ha prodotto in me una parvenza di talento; è apparso tardi, si è presto spento. Ritornando

nel

mio

stato

naturale,

so-

no ritornato alla nullità. Non ho suto che un momento; ho vergogna sopravvivere a me stesso. Lettore, se coglierai questa mia ultima opera indulgenza, accoglierai ciò che resta me stesso; perché, per me, io non sto più. Montmorency,

20 marzo

visdi accon di esi-

1758.

Signore,

stro

articolo

ho

letto con

Ginevra,

nel

piacere

settimo

cive, che, ancorché tributate con buona intenzione, offendono lo stato, gli inte-

ressi, le opinioni, o i pregiudizi di chi ne è l'oggetto. Ignorate forse che il nome di setta è comunque odioso e che una tale imputazione, raramente priva di conseguenze per i laici, non lo è mai per i teologi? Voi mi risponderete che si tratta di fatti e non

il vovolu-

me dell’Enciclopedia. Rileggendolo con piacere ancor maggiore, esso mi ha fornito lo spunto per alcune riflessioni, che ho creduto di poter offrire, sotto i vostri auspici, al pubblico e ai miei concittadini. Molte cose sono degne di lode in quest'articolo, ma se gli elogi di cui voi onorate la mia patria mi tolgono il diritto di ricambiarveli, la mia sincerità parlerà al posto mio; non essere del vostro parere su alcuni punti, significherà essere sufficientemente chiaro sugli altri. Comincerò da quell’argomento che meno mi piace trattare, e il cui esame è il meno adatto a me; ma sul quale i motivi che ho appena spiegato non mi permettono di tacere. È il giudizio che voi date sulla dottrina. dei nostri ministri in materia di religione. Voi avete fat-

di lodi, e che

il filosofo

ha

più riguardi per la verità che per gli uomini: ma questa pretesa verità non è così chiara né così indifferente da darvi il diritto di proporla senza un'autorità

J-J. ROUSSEAU CITTADINO DI GINEVRA AL SIGNOR D'ALEMBERT

A D'ALEMBERT

questi non si offenda per delle lodi no-

sufficiente,

e

io

non

vedo

su

che

così

ristretto,

cosa ci si possa basare per dimostrare che le idee che un corpo professa e sulle quali esso basa il proprio operato non sono le sue. Mi risponderete che voi non attribuite a tutto il corpo ecclesiastico le idee di cui parlate, ma solo a molti di quelli che ne fanno parte; ma molti,

in

un

numero

co-

stituiscono ancora la maggior parte, cosicché il corpo stesso ha diritto di risentirsene. Molti pastori di Ginevra, secondo voi,

sono dei perfetti sociniani. Ecco cosa voi dichiarate ad alta voce a tutta l'Europa. Mi permetto di chiedervi come ne siate a conoscenza: non può essere che in base alle vostre congetture, o attraverso

le

altrui

testimonianze,

o

attra-

considerazione che essi hanno dimostra-

verso le affermazioni dei pastori in questione. Ora, negli argomenti puramente dogmatici e che non riguardano questioni morali, come si può giudicare la altrui fede per mezzo di congetture? Come la si può giudicare in base alla dichiarazione di un terzo, contro quella del. l'interessato? Chi può sapere meglio di me ciò che credo o non credo? E a chi bisogna dare più fiducia che non a me stesso? Se un prete fanatico, dopo aver tratto dagli scritti di un onest'uomo del-

loro amore per la filosofia, e dimostrando che non temono l'occhio del filosofo. Ma, signore, quando si vuol rendere onore a qualcuno, bisogna che lo si faccia a modo suo, non a modo nostro; affinché

perseguiterà l’autore, il prete farà il suo mestiere e non stupirà nessuno. Ma dobbiamo tributare onore alle persone oneste nello stesso modo con cui un disonesto le perseguita? E il filosofo imi-

to

un

elogio,

molto

bello,

che

aumenta

molto

vero

\di questo rispettabile corpo; un elogio ‘adatto ad esso soltanto fra tutti i cleri del to

mondo,

nei

vostri

e

confronti,

ancora

la

manifestando

il

le

conclusioni

sofistiche

e

sconfessate,

LETTERA

205

A D’ALEMBERT

terà quei capziosi ragionamenti di cui è stato spesso vittima? Resterebbe dunque da supporre, riguardo a quei nostri pastori che voi pretendete siano sociniani, e che rifiutano le pene eterne, che essi vi abbiano confidato in proposito le loro idee

essi non la riconoscano; e aggiungo che questa non assomiglia per niente a quella che ci insegnano. Ignoro cosa sia il socinianismo, sicché non posso parlarne

delle loro idee e se ve le avessero con-

in generale sono favorevole a tutte le religioni tranquille, in cui si serve l’Essere eterno secondo la ragione che esso ci ha data. Quando un uomo non può cre-

personali: fidate,

ma,

senza

se si trattasse

dubbio

ve

ne

realmente

avrebbero

parlato in segreto, nell’onesto e libero sfogo di una conversazione filosofica; le avrebbero dette al filosofo, non già allo scrittore. Non si tratta dunque di questo,

e

la

mia

dimostrazione

è

senza

possibile replica; resta il fatto che voi avete pubblicato queste confidenze. Non pretendo, per questo, di giudicare o disprezzare la dottrina che imputate loro; dico soltanto che non si ha il diritto di imputargliela a meno che * Mi sembra di intravedere un principio che, se riuscito a dimostrare, come lo si potrebbe, strapperebbe immediatamente le armi dalle mani dei superstiziosi e degli intolleranti e calmerebbe questa mania di proselitismo che sembra animare gli increduli: il fatto che la ragione umana non ha una misura comune ben determinata, e che è ingiusto fornire la propria misura come regola a quelle degli altri. Supponiamo la buona fede, senza la quale ogni discussione non è altro che una inutile chiacchera. Fino ad un certo punto esistono dei principi comuni, una evidenza comune; e inoltre ciascuno è determinato dalla propria ragione; questo sentimento non fa diventare scettici; «ma, dato che neanche la ragione ha dei limiti fissi, e nessuno essendo capace di penetrare quella altrui, ecco che tutt'ad un tratto il fiero dogmatico si deve arrendere. Se si riuscisse a ristabilire la pace là dove regnano l'interesse, la vanità e l'orgoglio, si riuscirebbe a far cessare i dissensi che oppongono i preti ai filosofi. Ma probabilmente non ci guadagnerebbero

né gli uni

né gli altri:

non

ci sarebbero

più

né persecuzioni né discussioni; i primi non avrebbero nessuno da tormentare, i secondi, nessuno da convincere; tanto varrebbe che Jasciassero la loro professione. Se, dunque, mi si chiedesse perché io stesso partecipo ad una discussione, risponderei che parlo al più gran numero possibile di persone, che espongo delle verità pratiche, che mi fondo sull'esperienza, che compio il mio dovere e che, dopo aver detto ciò che penso, non reputo malvagio chi non è della mia stessa opinione. ** Bisogna tener presente che la mia risposta si indirizza a uno scrittore che non è protestante; e io credo, in effetti, di rispondergli,



bene



male;

anzi,

in

base

ad

al-

cune confuse cognizioni su questa setta e sul suo fondatore *, mi sento più al. lontanato che

dere ciò che

attratto da essa. Tuttavia,

reputa

assurdo,

non

è col-

pa sua, è colpa della sua ragione*: e, come potrei concepire che Dio lo punisca di non essersi fatta una mente ** diversa da quella ricevuta da lui? Se un teologo venisse ad ordinarmi da parte di Dio, di credere

che la parte è più

grande del tutto, cos'altro potrei pensare se non che quest'uomo viene a ordimostrando che ciò che egli imputa ai nostri ministri riguardo alla nostra religione, verrebbe fatto inutilmente, e viene fatto necessariamente in altre religioni senza che vi si faccia caso. II mondo delle idee, compresa la geometria, è pieno di verità incomprensibili e tuttavia incontestabili, dato che la ragione che ne dimostra l’esistenza non può attingere ad esse, per così dire, attraverso gli ostacoli che la limitano, ma soltanto intravederle. Tale ‘è il dogma dell'esistenza di Dio; tali sono quei misteri che sono ammessi dalle religioni protestanti. I misteri che urtano contro la ragione, per usare i termini del signor d'Alembert, sono completamente un'altra cosa. La loro stessa contraddizione li fa rientrare nei limiti della ragione; ed essa ha tutti gli appigli possibili per dimostrare che non esistono: dato che, anche se non si può percepire una cosa assurda, niente è più chiaro dell'assurdità. Ecco cosa succede quando si sostengono contemporaneamente due posizioni contraddittorie. Se mi si viene a dire che lo spazio di un pollice è uguale allo spazio di un piede, non mi si dirà affatto una cosa misteriosa, oscuta, incomprensibile; mi si dirà, al contrario, una assurdità luminosa e tangibile, una cosa che è evidentemente falsa. Di qual-

siasi genere

siano

le dimostrazioni

che

la so-

stengono, non potrebbero mai prevalere su quella che la distrugge, poiché questa deriva immediatamente dalle nozioni originali che sono alla base di qualsiasi certezza umana. Se non fosse così, la ragione, testimoniando contro se stessa, ci obbligherebbe a rifiutarla, e, lungi dal farci credere in questo o in quello, ci impedirebbe di credere in alcunché, dato che ogni principio di fede sarebbe stato distrutto. Perciò, qualsiasi uomo, di qualsiasi religione, se

LETTERA

206 dinarmi

di essere pazzo?

Senza dubbio

l’ortodosso, che non vede nessuna assurdità nei misteri, è obbligato a crederci; ma se il sociniano ve ne trova, cosa

possiamo rimproverargli? Gli proveremo forse che non ce ne sono? Lui comincerà col provarci che è una assurdità ragionare su quello che non si è capaci di capire. Che fare dunque? Lasciarlo in pace. To non mi scandalizzo per il fatto che coloro

che

servono

un

Dio

clemente,

rifiutino l’eternità delle pene, se la trovano incompatibile con la Sua giusti zia”. Se in tale caso interpretano come possono i passaggi contrari alla loro opinione invece di abbandonare quest’ultima, che cos'altro potrebbero fare? Nessuno più di me è pieno di rispetto e di amore per il più sublime di tutti i libri; esso mi consola e mi istruisce ogni

giorno, mentre gli altri non mi causano che disgusto. Ma sostengo anche che, se le Scritture ci dessero di Dio una idea indegna di per questo

lui, bisognerebbe motivo, come in

rifiutarle, geometria

si rifiutano quelle dimostrazioni che portano a conclusioni assurde: infatti, qualunque sia l'autenticità del sacro testo, è più facile credere che la Bibbia sia stata alterata piuttosto che Dio sia ingiusto o malvagio. Ecco, signore, le ragioni che mi impediscono di biasimare queste idee quando siano professate da teologi onesti e moderati, i quali dalla loro stessa dottrina hanno imparato a non obbligare nessuno ad adottarle. Dirò di più; maniere di pensare così proprie di una creatura ragionevole e debole, così degne di un Creatofe giusto e misericordioso, mi sembrano preferibili allo stupido consenso che fa dell’uomo una dice di credere a tali misteri, o mente o non sa quel che dice. * Sulla tolleranza cristiana, si può consultare il capitolo che porta questo titolo, nell'undicesimo libro della Dottrina cristiana del professor Vernet®. Vi si vedrà per quali ragioni la Chiesa deve mostrare ancora maggiore circospezione e discrezione nella censura degli errori della fede che in quella degli errori di natura morale, e come, nelle regole di questa censura, la dolcezza del cristiano, la sapienza del dotto

A D'ALEMBERT

bestia e alla barbara intolleranza che si compiace di tormentare già in questa vita coloro che destina, nell'altra, ai peggiori tormenti. In questo senso vi ringrazio, in nome della mia patria, per il senso di umanità e lo spirito di filosofia

che

voi

riconoscete

al

suo

clero,

e per la giustizia che vi degnate di rendergli; su questo punto sono d’'accor-

do con voi. Ma, pur essendo umani, filo-

sofi e tolleranti *, non ne consegue che i membri di quel clero siano anche eretici. Non posso approvarvi né imitarvi riguardo al nome di setta che date loro e alle opinioni che loro attribuite. Benché

un

tale

sistema,

forse,

non

sia

niente :meno che onorevole, mi guarderò bene dall'attribuirlo ai miei pastori, i quali non lo hanno adottato, poiché temerei che l'elogio che farei di loro potrebbe fornire ad altri il motivo di una grave accusa e finirebbe col nuocere a coloro che avevo preteso di lodare. Perché occuparmi delle altrui professioni di fede? Ho imparato anche troppo a diffidare di queste imputazioni temerarie! Quante persone non si sono occupate della mia, accusandomi di essere irreligioso, e hanno sbagliato nel lepgere nel mio animo? Non li accuserò di essere loro stessi irreligiosi, dato che uno dei doveri che la religione mi impone è quello di rispettare i segreti della coscienza. Signore, limitiamoci a giudicare le azioni degli uomini, lasciamo che sia Dio a giudicare della loro fede. ° Forse ho detto ormai troppo su un argomento la cui trattazione non mi compete, e che non è l’argomento di questa lettera; i pastori di Ginevra non hanno bisogno della penna altrui per difendersi **;

non sarà certo la mia ad es-

e lo zelo del pastore si alleino tra loro.

** Stando a quel che mi si scrive, lo hanno appena fatto per mezzo di una pubblica dichiarazione di fede. Questa non è giunta fino al mio ritiro, ma so che il pubblico l’ha accolta applaudendo. Così, non soltanto ho il piacere di essere stato il primo a rendere loro l’onare che meritano, ma anche quello di vedere confermato unanimemente il mio giudizio. So bene che questa dichiarazione rende inutile

tutta la parte iniziale della mia lettera e la ren-

LETTERA

207

A D'ALEMBERT

sere prescelta per un tale scopo, e del resto tali discussioni sono troppo lontane dalle mie inclinazioni perché io mi ci dedichi con piacere; ma dovendo parlare di quello stesso articolo in cui voi attribuite loro delle opinioni che non

ci risulta

che

abbiano,

il fatto

che

io tacessi su questa asserzione poteva sembrare un assenso. Essendo sensibile alla nostra fortuna di possedere un corpo di teologi, filosofi e pacifici, 0, meglio ancora, un corpo di funzionari preposti alla morale* e di ministri della virtù, vedo nascere con timore qualsiasi occasione che li porti ad abbassarsi fino a essere soltanto della gente di chiesa. Ci preme che essi restino come sono. Ci preme che anch'essi possano godere di quella pace di cui ci ispirano l’amore e che odiose discussioni teologiche non turbino più i loro sonni e i nostri. Ci preme, infine, poter continuare a imparare dalle loro lezioni e dal loro esempio che anche la dolcezza e l'umanità sono virtù proprie del cristiano !9, Mi affretto a passare a una discussione meno importante e meno seria, ma che ci interessa sufficientemente da meritare

le

nostre

riflessioni,

e

della

quale mi occupo più volentieri essendo un po’ più di mia competenza: si tratta del progetto di istituire un teatro di prosa a Ginevra. Non esporrò qui le mie congetture sui motivi che vi hanno spinto a proporci una istituzione così contraria ai nostri principi. Quali che possano essere le vostre ragioni, per me importano soltanto le nostre, e quello che oserò dire su di voi è che siete senza dubbio il primo filosofo ** che abbia mai proposto a un popolo libero, a una piccola città, a uno Stato povero, derebbe mentre

parlando

forse stavo

dello

indiscreta, in tutt'altro caso; ma per sopprimerla, ho visto che

stesso

articolo

ferto l'occasione, la stessa a sussistere, e che il mio

potuto

interpretare

come

che

ragione silenzio

un

ne

ha

of-

continuava si sarebbe

assenso.

Smetto

dunque queste riflessioni tanto più volentieri, dato che, anche se sono inutili in una questione felicemente conclusa, contengono solo cose onorevoli per la Chiesa di Ginevra e utili a tutti gli uomini di ogni paese.

di assumersi l'onere di pubbliche rappresentazioni. Quanti problemi io trovo da discutere in quello che voi credete di poter risolvere: se gli spettacoli siano in sé buoni o dannosi, se possano accordarsi con i buoni costumi, se siano compatibili con l’austerità di una repubblica, se sia possibile tollerarli in una città piccola, se la professione di attore sia onesta, se le attrici possano essere oneste quanto le altre donne, se le buone leggi bastino a reprimere gli abusi, se queste leggi possano essere bene osservate, etc. Tutto è così ancora problematico sui veri effetti del teatro, perché le discussioni da esso generate, riguardando solo la gente di chiesa e la gente di mondo, fanno in modo che ciascuno veda la questione solo attraverso i propri pregiudizi. Ecco qui, signore, un tipo di ricerche che non sarebbero indegne della vostra penna. Per quel che mi riguarda, senza pretendere di farle io stesso,

mi

basterà

cercare

in

questo saggio i chiarimenti che avete reso necessari; e vi prego di considerare che, enunciando il mio parere sul vostro esempio, adempio a un dovere verso la mia patria, e, se espongo idee sbagliate, questo errore non nuocerà a nessuno. A un primo rapido sguardo gettato su queste istituzioni, vedo subito che lo spettacolo è un divertimento; e se è vero che i divertimenti sono necessari per l'uomo, converrete che devono, almeno, essere permessi nella misura in cui sono necessari, e che ogni divertimento inutile è un male per un essere la cui vita è così breve e il cui tempo è così prezioso. La condizione d’uomo ha i suoi piaceri, che derivano dalla * Così l'abate di Saint- Pierre* usava chiamare gli ecclesiastici; sia per dire cosa essi siano in realtà, sia pet indicare ciò che dovrebbe-

ro essere.

** Fra due celebri storici, entrambi filosofi, entrambi cati al signor d'Alembert, quello moderno sarebbe probabilmente del suo parere; ma lo sarebbe stato anche Tacito, che lui ama, su cui medita, che si degna di tradurre, il grave Tacito che egli ama citare e che — a parte l'oscurità del linguaggio — egli imita così bene?

LETTERA

208 sua

natura,

che

nascono

dalle

sue

fa-

tiche, dai suoi rapporti, dai suoi bisogni; questi piaceri, tanto più dolci per chi li gusta con animo sano, rendono chiunque ne sappia godere, poco sensibile a tutti gli altri piaceri. Un padre, un figlio, un marito, un cittadino hanno dei doveri così piacevoli da adempiere, da non avere tempo per annoiarsi. Un buon impiego del tempo lo rende ancora più prezioso, e meglio lo si mette a profitto, meno se ne trova da perdere. Perciò si vede costantemente che l'abitudine al lavoro rende insopportabile l'inazione e che una coscienza tranquilla toglie il gusto dei piaceri frivoli; è invece la scontentezza del proprio operato, il peso della noia, l'allontanamento dai gusti semplici e naturali, che rendono così necessario il divertimento inconsueto. Non mi piace che ci sia continuamente bisogno di far dipendere i propri sentimenti dal palcoscenico, come se ci si trovasse male nel proprio intimo. La stessa natura ha ispirato la celebre risposta di quel barbaro * al quale si vantavano le magnificenze del circo e dei giuochi istituiti a Roma. «I Romani,

domandò

quel

brav’uomo,

non

hanno dunque né mogli né figli? » Il barbaro aveva ragione: noi crediamo che il teatro sia un punto di riunione, in realtà è il posto in cui ciascuno si isola; vi si va per dimenticare i propri amici, i propri conviventi, i propri parenti; per interessarsi a delle favole, per piangere le sventure dei morti o per ridere alle spese dei vivi. Ma avrci dovuto accorgermi che questo linguaggio non è più di moda in questi tempi; cercherò di usarne uno più. facile da capire. Chiedere se gli spettacoli siano buoni * Crisostomo, in Matt., omelia 38. #* « Possono esserci spettacoli riprovevoli in se stessi, come quelli inumani o indecenti o licenziosi: tali erano alcuni spettacoli pagani. Ci sono però alcuni spettacoli innocui che diventano dannosi per l'abuso che se ne fa. Per esempio, le commedie non hanno niente di negativo finché contengono un ritratto dei caratteri e delle azioni degli uomini, ove si potrebbero anche dare lezioni piacevoli e utili per tutti; ma se vi si diffonde una morale rilassata, se le persone che esercitano questa professione conducono una vita debosciata e corrompono

A D’ALEMBERT

o cattivi in se stessi è porsi una domanda troppo vaga; significa esaminare un problema prima di averne stabilito i termini. Gli spettacoli son fatti per il popolo, e solo dai loro effetti su questo se ne possono determinare in assoluto le loro qualità. Esistono infinite specie di spettacoli **: da popolo a popolo c'è una prodigiosa varietà di costumi, di temperamenti, di caratteri. La specie umana è unica, lo ammetto; ma l'uomo, modificato dalle religioni, dai governi,

dalle leggi, dai costumi, dai pregiudizi, dai

climi,

diventa

così

diverso

da

se

stesso che non bisogna più cercare tra di noi ciò che è buono per l'uomo in generale, ma ciò cheè buono per tutti gli uomini in tempi e luoghi diversi !. Così

le commedie

di Menandro,

adatte

per il teatro di Atene non lo erano per quello di Roma; così i combattimenti di gladiatori che ai tempi della repubblica animavano il coraggio e il valore dei Romani, al tempo degli imperatori non ispiravano altro che amore per il sangue e crudeltà alla plebaglia romana; lo stesso oggetto, offerto in tempi diversi allo stesso popolo, gli insegnò prima a disprezzare la propria vita, in seguito a giocare con la vita altrui. Quanto al genere degli spettacoli, è necessariamente il piacere che essi danno, e non la loro utilità, a determinarlo. Se sono anche utili, tanto meglio; ma il loro fine principale è quello di piacere, e se il popolo si diverte questo fine è raggiunto. Sarà sempre soltanto questo fatto a impedire che si possa dare a queste istituzioni i miglioramenti di cui sono suscettibili; ed è un grave errore formarsi un’idea di perfezione impossibile da mettere in pratica senza gli altri, se questi spettacoli sono favorevoli alla vanità, all’ozio, al lusso, all'impudicizia, è evidente che la cosa diventa un abuso e che, se non si può correggere quest'abuso o garantirsene, è meglio rinunciare a questo divertimento » (Istituzioni cristiane, t. III, }. III, cap.

XVI)".

Ecco ben posti i termini del problema: si tratta di sapere se la morale del teatro è necessariamente rilassata, se gli abusi sono inevitabili, se gli inconvenienti derivano dal fatto in sé o da cause che sia impossibile eliminare.

LETTERA

* Per quanto poco anticipasse i suoi tempi, stesso Molière aveva difficoltà nell'affermarla sua migliore opera, I! Misantropo”, fu insuccesso alla prima rappresentazione, poila diede troppo presto e il pubblico non ancora pronto a recepirla. Tutto ciò è basato su una regola evidente: che un popolo segue spesso usanze che disprezza, o che è pronto a disprezzare appena gli se ne dia l'esempio. Quando, ai miei tempi, i burattini avevano grande successo, si dicevano in teatro le stesse cose che pensavano coloro che ttascorrevano la giornata in questo sciocco divertimento; ma sulla scena bisogna rispettare lo si; un ché era

209

A D'ALEMBERT

dover respingere coloro che si crede di istruire. Ecco da cosa nasce la varietà degli spettacoli; dai diversi gusti dei popoli. Un popolo intrepido, serio e feroce, vuole dei giuochi pericolosi € sanguinosi, in cui si mettano in evidenza il valore e il sangue freddo. Un popolo crudele ed ardente vuole sangue, duelli, terribili passioni. Un popolo voluttuoso vuole danze e musiche. Un popolo galante vuole amore e cortesia. Un popolo scherzoso vuole scherzi e comicità. Trabit sua quemque voluptas. Per compiacerli, ci vogliono degli spettacoli che favoriscano le loro inclinazioni invece di moderarle. ll palcoscenico è generalmente un ritratto delle passioni umane, il cui originale è presente nell'animo di tutti: ma se il pittore non lusingasse queste passioni, gli spettatori sarebbero presto scontenti e non vorrebbero più vedersi sotto un aspetto che li rendesse spregevoli a se stessi. Se egli dà colori odiosi a qualcuna di queste passioni, lo fa soltanto con quelle non comuni e naturalmente odiose. Così l’autore non fa che seguire il sentimento del pubblico, e queste passioni ributtanti vengono sempre usate per sottolinearne altre, se non più legittime, almeno più gradite al pubblico. Solo la ragione è inutile sul palcoscenico. Un uomo senza passioni, o sempre capace di dominarle, non interesserebbe nessuno; è già stato notato che uno stoico sarebbe un personaggio insopportabile nella tragedia; potrebbe tutt'al più far ridere nella commedia. Non si attribuisca dunque al teatro la capacità di cambiare sentimenti e co-

stumi che abbellire. trastare i ridotto a

esso può soltanto seguire e Un autore che volesse congusti generali, sarebbe presto scrivere solo per se stesso.

Quando Molière modificò il teatro comico, attaccò delle mode, delle inezie; ma non per questo contrastò il gusto

del pubblico *, ma lo seguì e lo sviluppò, come fece da parte sua anche Corneille. Era il vecchio teatro che cominciava a infastidire questo gusto, perché in un secolo diventato più raffinato il teatro continuava

a essere rozzo.

Così, essendo il .gusto generale cambiato dopo questi due scrittori, nel caso che i loro capolavori fossero ancora sconosciuti, oggi non avrebbero alcun successo.

tori; se più per un reale Si dice è

mai

Li

ammirino

pure

i conosci-

il pubblico li ammira ancora è timore di contraddirsi che per apprezzamento dei loro pregi. che una buona commedia non

un

insuccesso;

invero

io

credo

pongono

sem-

che una buona commedia non contrari mai i gusti ** del proprio tempo. Chi dubita che sui nostri palcoscenici una tragedia di Sofocle sarebbe un totale insuccesso? Non saremmo capaci di metterci al posto di gente con una mentalità tanto diversa dalla nostra. Tutti gli autori che ci vogliono mostrare

costumi

stranieri,

pre molta attenzione per adattarli ai nostri. Senza questa precauzione non si

avrà

mai

successo,

e

anche

il

suc-

cesso di coloro che hanno osservato tale precauzione ha spesso cause ben diverse da quelle che un osservatore superficiale può supporre. Quando l'Arlecchino selvaggio !* riscuote un così grande successo presso gli spettatori, è forse i gusti costanti di un popolo, i suoi costumi, i suoi vecchi pregiudizi. Nessun poeta, che abbia violato questa regola, se ne è trovato

bene.

** Parlo indifferentemente di gusto o costumi, dato che, sebbene le due cose siano differenti, hanno un'origine comune e sono soggette ai medesimi cambiamenti. Ciò non significa che il buon gusto sia sempre contemporaneo ai buoni costumi, idea questa che richiede chiarimenti e discussioni; ma è incontestabile che un certo sviluppo del gusto corrisponde sempre a un uguale sviluppo dei costumi.

210

LETTERA

per la semplicità e il buon senso che trovano in questo personaggio, e forse che uno solo di loro vorrebbe assomigliargli? Al contrario, perché questa commedia favorisce la disposizione del loro spirito a prediligere e ricercare idee nuove ed eccentriche. Ora per loro non ce ne sono di più nuove di quelle naturali; è proprio la loro avversione per le cose banali che li conduce, talvolta, alla semplicità. Da queste prime osservazioni consegue che, generalmente, l’effetto generale del teatro è di rafforzare il carattere nazionale, di favorire le inclinazioni naturali, di dare una nuova forza a tutte

le passioni. In tal senso, dato che questo effetto sembrerebbe limitarsi a rafforzare i costumi tradizionali senza cambiarli,

il

teatro

risulterebbe

come

cosa

positiva per i buoni, negativa per i cattivi. Inoltre, nel primo caso resterebbe sempre da sapere se le passioni troppo favorite non degenerino in vizi. So che la poetica del teatro pretende di agire in modo del tutto contrario, cioè di purificare le passioni favorendole,

ma

ho

notevoli

difficoltà ad accet-

tare questa teoria: essa significa forse che, per diventare saggi e temperanti, bisogna cominciare con l'essere pazzi furiosi? « Eh! non si tratta di questo, diranno i sostenitori del teatro. La tragedia pretende certamente di dipingere delle passioni

che

ci

commuovano,

ma

non

vuole che la nostra commozione sia uguale a quella del personaggio tormentato da una

passione.

Più

spesso,

invece,

il fine della tragedia è quello di ispirarci passioni opposte a quelle che animano i suoi personaggi ». Dicono anche che se gli autori abusano del loro potere di commuovere per far convergere il nostro interesse su soggetti indegni, questa colpa va attribuita alla ignoranza e alla depravazione degli scrittori, e non all'arte in se stessa. Essi dicono infine che un ritratto fedele delle passionie delle pene che le accompagnano * Si

metta,

per

esempio,

su un

palcoscenico

francese, un personaggio onesto e virtuoso, ma

A D’ALEMBERT

basta per farcele evitare con tutta la cuta di cui siamo capaci. Per rendersi conto della malafede di queste risposte, basta constatare il proprio stato d'animo alla fine di una tragedia.

L'emozione,

l’intenerimento noi,

e

che

il

turbamento,

che sentiamo

continuano

a

dentro di

sussistere

fin

dopo lo spettacolo, mostrano forse una propensione a correggere 0 a dominare le nostre passioni? L'impressione viva e toccante cui prendiamo l’abitudine, e che ritorna così spesso, è forse adatta a moderare i nostri sentimenti in caso di necessità? Per qual motivo l'immagine delle pene che nascono dalle passioni dovrebbe cancellare quella delle estasi di piacere e di gioia alla cui nascita assistiamo e che gli autori si preoccupano di abbellire per rendere più piacevoli le loro opere? Non sappiamo forse che

tutte

le passioni

sono

sorelle,

che una sola basta per risvegliarne mille e che il combatterle una con l'altra non è che un modo di rendere il nostro animo sensibile a tutte? Il solo strumento che serva a purificarle è la ragione; ed ho già detto che la ragione non ottiene alcun effetto in teatro. Noi non ci commoviamo insieme a tutti i personaggi, è vero; poiché, essendo opposti i loro interessi, sarà necessario che l'autore ce ne renda uno preferibile, altrimenti non ne preferiremmo alcuno; ma, lungi per questo dallo scegliere le passioni che ci vuole fare amare, è costretto a scegliere quelle che noi già amiamo. Ciò che ho detto sul genere degli spettacoli, deve anche essere considerato dal punto di vista della sua capacità di interessare: a Londra, un dramma è interessante se suscita l'odio per i Francesi;

a Tunisi,

la passione

prefe-

rita potrebbe essere la pirateria; a Messina, una

bella vendetta;

a Goa,

il pri-

vilegio di mandare al rogo gli Ebrei. Un autore* che vada contro questi principi, potrà scrivere un'opera molto bella ma che nessuno andrà a vedere; in questo caso bisognerà accusare quest’autore

semplice e rozzo, senza amore, senza galanteria e che sia incapace di dire frasi spiritose; vi si

LETTERA

A D'ALEMBERT

211

di ignoranza per non aver obbedito alla prima legge della sua arte, quella del successo, che è di fondamento a tutte le altre. Dunque,

il teatro purifica

tutte

le passioni cui non siamo soggetti e fomenta quelle che già abbiamo, È proprio un bel rimedio! Esiste dunque un concorso di cause generali e particolari che impediscono di conferire agli spettacoli la perfezione di cui li crediamo suscettibili e fanno sì che essi non producano i risultati benefici che sembra se ne debbano attendere. Anche supponendo una tale perfezione e un pubblico nella sua migliore disposizione di spirito, questi effetti si ridurrebbero ugualmente a nulla,

in

mancanza

di

mezzi

che

li

rendano percepibili. Io non conosco che tre mezzi attraverso i quali si possa agire sui costumi di un popolo, ovvero la forza delle leggi, l'autorità delle opinioni, l'attrazione del piacere. Ora, le leggi non hanno alcuna influenza sul teatro,

la cui

minima

costrizione

sareb-

be * causa di fastidio più che di divertimento. L'opinione non dipende affatto da esse, dato che il teatro, più che

dettare leggi al pubblico,

ne riceve da

esso; quanto al piacere che se ne può ricavare, esso consiste, tutt'al più, nel

farci tornare a teatro più spesso. Esaminiamo se ci possono essere altre

cause;

mi

si dice

che

il teatro,

di-

retto come può e deve esserlo, rende piacevole la virtù e odioso il vizio. E che, dunque? Prima che vi fossero delle commedie,

non

si

odiavano

forse

i

metta un uomo sapiente e senza pregiudizi che, insultato da uno spadaccino, rifiuta di andare a farsi squartare dall'offensore; si usi pure tutta l'arte teatrale per rendere questi personaggi altrettanto simpatici al pubblico francese come

se la cosa avesse successo, am-

nico...

Li

si

ama

quanto

ce

ne

metterò di aver avuto torto. * Le leggi possono determinare gli argomenti, la forma degli spettacoli, il modo di rappresentarli; ma non riuscirebbero mai a co-

forse

nella

società,

quando li si conosce per tali? Siamo poi sicuri che quest'odio sia opera dell’autore o non piuttosto dei crimini che questi fa loro commettere? Siamo sicuri che una semplice esposizione di questi crimini ce ne darebbe meno orrore

di

diano

i colori

sotto

quali ce li dipinge? Se tutta la sua arte consiste nel mostrarci dei malfattori per renderceli

odiosi,

non

vedo

che

cosa

abbia di ammirevole quest'arte; si prendono già troppe lezioni su questo argomento senza bisogno di quest’ultima. Posso aggiungere un altro sospetto che mi viene in mente? Temo che un uomo, al quale si espongano in precedenza

i delitti

di

Fedra

e di Medea,

li

detesti di più all’inizio che alla fine della tragedia; se questo timore è fondato,

cosa

penseremo

del teatro? Vorrei

che

dei

mi

tanto vantati effetti

si

dimostrasse,

con

chiarezza e senza parole inutili, attraverso quali mezzi esso possa suscitare in noi dei sentimenti che altrimenti non avremmo, e come ci possa far dare un giudizio diverso da quello che altrimenti avremmo riguardo a dei personaggi onesti. Quanto sono fanciullesche e prive di significato tutte queste vane pretese di acutezza! Ah! se la bellezza della virtù fosse opera dell'arte, già da molto tempo quest’ultima l'avrebbe completa-

mente

malvagi e non si amavano i buoni? Sono forse questi sentimenti più deboli nei paesi privi di teatro? Il teatro rende piacevole la virtù...È dunque capace di un grande prodigio, facendo ciò che la natura e la ragione fanno prima di

quello del Cid:

lui! I malvagi sono odiati sul palcosce-

sfigurata.

Quanto

a me,

se mi

si

dovesse ancora accusare di malvagità perché oso affermare che l’uomo è nato buono, continuerò a pensarlo, e credo ormai di averlo dimostrato; l'origine dell'interesse che ci fa amare ciò che è onesto e ci ispira odio per il male, è in noi, non nelle commedie. Non c’è arte che sia capace di suscitare questo in-

stringere il pubblico a divertirsi. L'imperatore Nerone, quando cantava nel circo, faceva sgozzare quelli che si addormentavano; ciò nonostante non’riusciva a tenere rutti svegli, e mancò poco che il piacere di un sonnellino costasse la vita a Vespasiano. O nobili attori dell’Opéra di Parigi, se aveste goduto del potere imperiale, a quest'ora non. mi lamenterei di aver vissuto troppo!

i

212

LETTERA

teresse;

l'arte

timento

naturale

virsene.

è capace

L'amore

soltanto

di

ser-

umano,

co-

del bello* è un sen-

dell’animo

me l’amore per se stessi; non nasce da una predisposizione di scene; l’autore non lo inventa, lo trova; sentimento puro, che egli

e da questo sa sfruttare,

nascono le dolci lacrime che ci fa versare. Immaginate la commedia più perfetta possibile; c'è forse qualcuno, che andando a vederla per la prima volta, non sia già convinto di ciò che vi si prova e già prevenuto favorevolmente nei confronti dei personaggi che dovrà amare? Ma non si tratta di questo; bensì si tratta di agire coerentemente con i propri principi e di imitare coloro che si stimano.

L'animo

umano

è sempre

retto

in tutto ciò che non lo riguarda personalmente; nelle dispute delle quali siamo solo degli spettatori, prendiamo subito le parti di chi è nel giusto e non c'è nessun atto di cattiveria che non ci indigni profondamente finché non sia un atto utile per noi. Ma non appena il nostro interesse sia chiamato in causa, i nostri sentimenti vengono corrotti, ed

è allora soltanto che preferiamo il male che ci è utile al bene che la natura ci spinge ad amare. Il fatto che l’iniquo tragga un doppio vantaggio dalla propria ingiustizia e dalla probità altrui, non è forse nell'ordine naturale delle cose? Quale trattato potrebbe essere più vantaggioso per lui più di quello che stabilisse che l’umanità intera deve comportarsi

con giustizia,

eccettuato

lui so-

lo; di modo che ognuno gli desse onestamente ciò che gli spetta, e lui, invece, non desse nulla a nessuno? Costui ama

* Qui è questione del bello morale; checché ne dicano i filosofi, questo amore è innato nell'uomo, costituisce il fondamento della coscienza. Posso citare in proposito la piccola commedia Narine!, che ha fatto mormorare il pubblico e che è stata sostenuta soltanto dalla reputazione dell'autore; tutto ciò perché l'onote, la virtù, i puri sentimenti naturali vi sono preferiti all’ingiusto pregiudizio delle diverse condizioni sociali. ** Tacito riferisce” che Valerio Asiatico, ingiustamente accusato per ordine di Messalina,

la

virtù,

senza

A D'ALEMBERT

dubbio,

ma

l'ama

negli

altri poiché spera di profittarne; non l’accetta per se stesso perché gli costerebbe cara. Cosa va dunque a vedere al teatro? Esattamente ciò che gli piacerebbe trovare dappertutto: lezioni di virtù per il pubblico, da cui egli si sottrae, e persone

che

si sacrificano

al do-

vere, mentre da lui non si deve esigere

niente.

Sento dire che la tragedia conduce alla pietà attraverso la paura; sia pure. Ma di che sorta di pietà si tratta? Una emo-

zione

vana

ed

effimera,

che

non

dura

più dell'illusione che l'ha prodotta; un resto di sentimento naturale che viene subito sconfitto dalle passioni, una pietà inutile che si nutre di qualche lacrima e che non ha mai provocato il più piccolo atto di umanità. Proprio per questo motivo il sanguinario Silla piangeva commosso nell’udire di atrocità che non aveva commesso lui stesso. Proprio per questo

motivo,

in

teatro,

il tiranno

di

Fere si celava temendo che gli altri si accorgessero che piangeva insieme ad Andromaca e Priamo, e nello stesso tempo, d'altra parte, assisteva senza dare

segno di commozione alle grida di tanti sventurati che dietro suo ordine venivano trucidati ! ogni giorno **. Se, come dice Diogene Laerzio, ci commoviamo più volentieri per mali inesistenti piuttosto che per mali reali, se le finzioni del teatro qualche volta ci strappano più lacrime di quante ne strapperebbe la realtà dei fatti rappresentati, ciò avviene più perché le emozioni sono pure e senza ombra di preoccupazioni

per noi che non, come

sa l'abate Du

pen-

Bos !5, perché sono meno

che voleva perderlo, si difese così bene di fronte all'imperatore da commuoverlo profondamente e da strappare delle lacrime a Messalina stessa. Per rimettersi dalla commozione questultima entrò in una stanza vicina, non senza prima aver sussurrato a Vitellio, fra le lacrime, di non lasciarsi sfuggire l'accusato. Quando vedo a teatro una di queste donne, così fiere delle loro lacrime, non posso non pensare al pianto di Messalina per quel povero Valerio Asiatico.

LETTERA

A D'ALEMBERT

213

forti e non riescono a procurarci un dolore autentico *. Piangendo di fronte

a queste finzioni, noi diamo soddisfazione a tutti i diritti d’umanità, senza dover metterci nulla di nostto; mentre in-

vece

i veri

sventurati

noi cure, consolazioni,

che

finirebbero

sofferenza,

che

esigerebbero

conforto,

coll’associarci

se

non

altro

da

fatiche,

alla loro

sarebbero

onerose alla nostra pigrizia e da cui preferiamo essere esentati. Si direbbe che il nostro cuore si chiuda temendo di intenerirsi a nostre spese. In definitiva, quando un uomo ha ammirato

le buone

azioni

delle commedie,

quando si è commosso per sofferenze immaginarie, che altro gli si può chiedere?

Lui

stesso,

non

è forse

contento

di sé? Non applaude forse la propria purezza d’animo? Forse che non si sdebita di tutto ciò che deve alla virtù rendendole questo omaggio? Cosa dovrebbe fare di più? Forse praticarla lui stesso?

Ma

lui

non

è certo

un

attore,

non ha nessuna parte da sostenere. Più ci rifletto, più mi convinco che ciò che ci viene rappresentato al teatro,

viene allontanato da noi, non avvicinato; quando vado a vedere I/ conte

d'Essex!, il periodo del regno di Eli. sabetta si allontana di dieci secoli dalla mia mente, e, se venisse rappresentato un avvenimento accaduto ieri a Parigi, mi sembrerebbe dei tempi di Molière. Il teatro ha le sue leggi, i suoi principi, la sua morale particolare, così come il proprio linguaggio e i propri costumi. Ci diciamo chiaramente che nulla di tutto ciò è adatto a noi, e ci sentiremmo

altrettanto ridicoli nell’adottare le virtù degli eroi teatrali quanto nel parlare in versi o nell’indossare abiti alla moda di Roma antica. Ecco dunque, più o meno, a cosa servono tutti questi nobili sentimenti e tutte le brillanti massime che vengono enunciate con enfasi; servono a essere relegate per sempre sul palco* Du Bos sostiene che il poeta ci rattrista solo nella misura da noi voluta; che non riesce a farci amare i suoi eroi più di quanto noi vogliamo. Tutto ciò è smentito dall’esperienza: molti, infatti, non vanno ad assistere alle tragedie poiché si emozionano al punto di

scenico,

servono

per mostrarci

la virtù

come se fosse una finzione teatrale, adat-

ta a divertire il pubblico, ma che sarebbe follia voler trasferire nella vita sociale. Così, l'effetto più vantaggioso delle migliori tragedie è quello di ridurre i doveri dell'uomo a sensazioni passeggere, sterili e senza significato; all'incirca come quelle persone ben educate che credono di avere fatto un atto di carità dicendo ad un povero: « Che Dio vi assista ». Possiamo,

è vero,

dare

una

struttura

più semplice alla scena e riaccostare il tono della commedia a quello della realtà;

ma

in questo

modo

non

correg-

giamo i costumi, li dipingiamo; un brutto viso non appare tale a chi lo possiede. Se si vuole correggere la morale attraverso

la

caricatura,

si

abbandona

la verosimiglianza, e il quadro non fa più effetto. La caricatura non rende odiosi i fatti, li rende solo ridicoli; da ciò risulta un grande inconveniente: che, a forza di temere

il ridicolo,

i vizi non

vengono più temuti, e non si è capaci di guarire quello senza fomentare questi. Voi chiederete perché si deve considerare necessaria una tale opposizione. Perché, signore? Perché i buoni non deridono i malvagi, ma li schiacciano con il loro disprezzo, e nulla è meno divertente o ridicolo della virtù indi gnata. Invece il ridicolo è l'arma favorita del

vizio;

è per

mezzo

di essa

che

at-

tacca nel fondo degli animi il rispetto che è dovuto alla virtù, e finisce con lo spegnete l'amore che si ha per quest'ultima. Così, tutto ci porta a non accettare questa vana idea di perfezione in cui ci vogliono far credere a proposito degli spettacoli, diretti verso la morale comune del pubblico. Il severo Muralt?° considerava un errore lo sperare di poter fornire nello spettacolo i veri rapporti delle cose, dato che, in generale, il poeta

sentirsene male; altri che pur si vergognano di piangere in pubblico, lo fanno malgrado la loro migliore volontà; e questi avvenimenti non sono abbastanza rari per costituire un'eccezione rispetto a ciò che afferma questo autore.

LETTERA

214 non può che alterare questi rapporti per renderli adatti al gusto popolare. Nel comico, li sminuisce e li mette un livello subumano; nel tragico,

a li

esalta per renderli eroici e per metterli al di sopra dell’umanità. In tal modo questi rapporti non possono mai essere

alla

loro

altezza,

e noi

a

teatro

vediamo sempre personaggi diversi dai nostri simili. Aggiungerò che questa differenza è così universalmente nota e riconosciuta che persino Aristotele la considera come una regola della sua Poetica: Comoedia enim deteriores, tragoedia meliores quam nunc sunt, imi-

tari conantur. Ecco una imitazione intelligente, che si propone come oggetto

ciò che non esiste, e che fra il difetto e l’eccesso, si allontana da ciò che esiste

come da una cosa inutile! Ma che importa l’autenticità dell’imitazione, purché l'illusione sussista? Non si tratta che di stimolare la curiosità del pubblico; queste produzioni dello spirito, come la maggior parte delle altre, non hanno altro scopo che quello di essere applaudite; quando l’autore viene applaudito, insieme agli attori, la commedia sembra aver raggiunto il proprio fine e non vi si cerca nessuna altra utilità. Ora,

se

l'aspetto

positivo

è nullo,

non resta che quello negativo, e dato che quest’ultimo è evidente, il problema mi sembra risolto; ma citiamo pure degli esempi che possano rendere la soluzione più immediatamente percepibile. Credo di poter proporre, come una verità facile da provare a causa delle precedenti,

che

il

teatro

francese,

con

tutti i suoi difetti, è ciononostante tanto perfetto quanto gli è possibile, sia per quel che riguarda il divertimento, sia per l'utilità; questi due punti favorevoli vi coesistono in un rapporto che non può essere turbato senza togliere all’uno più di quanto non si dia all’altro, il che renderebbe ancora meno perfetto questo teatro. Ciò non vuol dire che un uomo geniale non possa essere capace di in* I Greci

non

avevano

bisogno

di

basare

sull'amore il principale interesse delle loro tragedie, e in effetti non ve lo basavano affatto. La nostra tragedia, che non ha le stesse risorse,

A D'ALEMBERT

ventare un genere di commedie migliore di quello attualmente esistente: ma poiché questo nuovo genere dovrebbe sostenersi sulle capacità dell'autore, perirà certamente con lui, e i successori

di quest'ultimo, privi delle stesse capacità, saranno sempre costretti a ricorrere ai soliti sistemi, se divertire e interessare. Quali

tualmente

questi

sistemi?

nomi,

grandi

vorranno sono at-

Azioni

crimini

fa-

mose,

grandi

e

media,

il comico

favole, ventati

avvenimenti evidentemente indal poeta, non riescono a fare

grandi virtù per la tragedia; per la come il piacevole;

l’amore

per ambedue *. Io mi domando che profitto i buoni costumi possano trarre da tutto ciò. Mi si dirà che in queste opere il crimine viene sempre punito e la virtù sempre ricompensata; risponderò che, anche se ciò fosse vero, poiché la maggior parte delle azioni tragiche sono solo una

tori;

grande

a forza

impressione di

mostrar

sugli

loro

che

spetta-

li si

vuole istruire, non lo si fa più. Io rispondo inoltre che, dato che queste punizioni

e queste

ricompense

avvengono

sempre attraverso mezzi innaturali, non ci st può attendere nulla di simile nel normale corso degli avvenimenti umani, Infine rispondo negando il fatto. In generale non è e non può essere vero: poiché questo fine, non essendo quello verso cui gli scrittori indirizzano le loro opere, lo raggiungono raramente, anche perché sarebbe di ostacolo al successo. Vizio o virtù, che importa, purché ci si imponga allo spettatore dandosi aria di grandezza? In tal modo il teatro francese, senza dubbio il più perfetto, o quanto meno il più costante che ci sia mai stato, decreta ugualmente il trionfo sia per i grandi scellerati che per i più illustri eroi: ne sono testimoni Catilina, Maometto,

Atreo, e tanti altri.

Mi rendo conto che non bisogna sempre guardare alla catastrofe per giudicare l’effetto morale di una tragedia, non tivo

riuscirebbe a di interesse;

fare a meno di questo vedremo in seguito il

tivo di questa differenza.

momo-

LETTERA

A D’'ALEMBERT

215

e che da questo punto di vista lo scopo viene raggiunto allorché si dà maggior risalto al virtuoso sfortunato, che al colpevole felice; il che non impedisce che la pretesa regola venga violata. Dato che nessuno preferirebbe essere Nerone piuttosto che Britannico, convengo che da questo punto di vista bisogna considerare buona la tragedia che li rappresenta, anche se comporta la morte di Britannico. Ma in base allo stesso principio, che giudizio potremo dare di una tragedia in cui, anche se i criminali vengono puniti, ci vengono rappresentati sotto una luce così favorevole da spostare su di loro tutto l'interesse? Una tragedia in cui Catone, il più grande degli uomini, sostiene il ruolo di un pedante;

in

cui

Cicerone,

il

patria, il solo che ne fosse degno, ci viene mostrato come un vile retore, un codardo; mentre l’infame Catilina, co-

perto di innominabili crimini, pronto a sgozzare tutti i magistrati e a ridurre in cenere la propria patria, recita il di un grand'uomo,

e riunisce con

i suoi talenti, col suo coraggio, con la sua fermezza la stima di tutti gli spettatori? Ammettiamo pure che avesse un

animo

forte;

ad

ogni

modo,

non

eta

forse un destabile scellerato? Era forse necessario presentare i crimini di un brigante come azioni eroiche? A cosa si limita, dunque, la morale di questa tragedia, se non a incoraggiare dei nuovi Catilina e a fornire agli abili malvagi il premio della pubblica stima, altrimenti dovuta agli uomini onesti? Ma questo è il gusto che sulla scena bisogna lusingare, tali sono i costumi di un secolo colto;

il sapere,

lo

spirito,

il coraggio

* Mi ricordo di aver trovato in Omar maggior calore ed elevazione davanti a Zopiro che

a Maometto stesso; consideravo questo fatto come un ‘difetto. Pensandoci meglio ho cambiato idea. Omar, trascinato dal suo fanatismo, non può parlare del proprio maestro che con quell'entusiasmo, fatto di zelo e di ammirazio-

ne, che

lo eleva

ne;

e tu,

al di sopra dell'umanità. Ma

Maometto non è fanatico, è un furbo che sapendo bene quanto sia inutile fingersi ispirato nei confronti di Zopiro, cerca di guadagnarselo

dolce

e modesta

virtù,

resti

sempre priva di onori! Come siamo ciechi fra tanti lumi! Vittime dei nostri applausi insensati, non impareremo mai quanto sia degno di disprezzo e odio colui che, per somma sfortuna del genere umano, profitta del genio e dei talenti elargitigli dalla natura: Atreo e Maometto non hanno neppure la debole risorsa di una catastrofe; il mostro, che in queste due tragedie giuoca il ruolo di eroe, può facilmente commettere i propri crimini, ne gode; e uno dei due lo afferma in chiari versi nel finale della tragedia: Et je jouis enfin du prix de mes [ forfaits.

salvatore

della repubblica, Cicerone, il primo che fosse insignito del nome di padre della

ruolo

meritano la nostra esclusiva ammirazio-

Voglio supporre che gli spettatori, congedati con questa bella massima, non ne concludano che il crimine è pagato con il piacere e la felicità: ma chiedo infine chi possa aver tratto profitto da una tragedia in cui questa massima viene messa in evidenza. Per quel che riguarda il Maometto ®, il difetto di dirigere l'ammirazione del pubblico verso il colpevole sarebbe tanto più grave in quanto questi ha ben altro ruolo, se l’autore non

avesse

avuto cura di

portare verso un personaggio secondario un interesse fatto di rispetto e ammirazione,

capace

struita

con

di cancellare

o almeno

di

equilibrare il terrore e lo stupore che Maometto ispira. La scena che questi due personaggi recitano insieme è cotanta

arte

che

Maometto,

senza smentirsi, senza perdere nulla della propria superiorità, viene tuttavia eclissato dal semplice buon senso e dalla intrepida virtù di Zopiro *. Ci voleva dimostrandogli fiducia e sollecitandone l’ambizione. Questo aspetto ragionevole lo rende meno brillante di Omar, dato che egli è più grande e sa meglio distinguere gli uomini, Egli stesso dice o fa capire questo fatto sulla scena. Era colpa mia se non lo avevo capito: è quel che capita a noi scrittorucoli; nel censurare gli scritti dei nostri maestri, la nostra stu-

pidità ci fa vedere raviglie

per

le

mille errori che sono

persone

intelligenti.

me-

LETTERA

216 uno scrittore ben cosciente della propria forza per osar mettere faccia a faccia due simili interlocutori. Non ho mai sentito fare di questa particolare scena un elogio sufficiente; ma non ne conosco un’altra,

nel

teatro

francese,

in

cui

la

mano di un grande maestro sia più sensibilmente impressa, e in cui l'aspetto sacro della virtù abbia più evidentemente il sopravvento sulla grandezza del genio. Un'altra considerazione che tende a giustificare quest'opera è che non vi si tratta solo di mostrare i misfatti in genere, ma in particolare i misfatti del fanatismo, allo scopo di insegnare al popolo a riconoscerli e a difendersene. Per sfortuna queste preoccupazioni sono inutili e non sempre senza pericolo: il fanatismo non è un errore, ma un furore

cieco e stupido, mai trattenuto dalla ragione. L’unico segreto per impedirne la nascita è di contenere coloro che lo suscitano. Dimostrate pure a dei pazzi che i loro capi li ingannano; non per questo

li seguiranno

meno

ardentemen-

te. Dato che il fanatismo esiste, non vedo che un modo per arrestarne il progresso: usare contro di esso le sue stesse armi. Non si tratta né di ragionare né di convincere; bisogna lasciar petdere la filosofia, chiudere i libri, impugnare la spada e colpire questi truffatori. Inoltre, per quel che riguarda Maometto, temo che agli occhi degli spettatori la sua grandezza d’animo diminuisca notevolmente i suoi crimini e che una tale opera, recitata di fronte a gente fornita di discernimento, produca più Maometti che Zopiri. Quel che comunque è certo è che tali esempi non sono incoraggianti per la virtù. ° Il nero Atreo non ha alcuna di queste

attenuanti, l'orrore che ispira è del tutto negativo; non c’insegna altro che

A D'ALEMBERT

un altro personaggio capace, con il proprio carattere, di dividere con lui l’attenzione del pubblico: infatti, quanto

allo sdolcinato Plistene, non so come lo si è potuto sopportare in una tale

tragedia. Seneca non ha introdotto l'amore nella sua: e dato che l’autore moderno ha voluto imitarlo in tutto il resto,

avrebbe

dovuto

farlo

anche

in

questo. Certamente bisogna avere un cuore molto elastico per sopportare degli incontri galanti accanto alle scene di Atreo. Prima di concludere su questa commedia, non posso fare a meno di rilevare un merito che a molti sembrerà un difetto: il ruolo di Tieste, fra quelli che sono stari portati sulla nostra scena, è quello che più risente del gusto antico. Non è un eroe coraggioso, non è un modello di virtù, né si può dire che sia

un

scellerato *; è un

uomo

debole

e tuttavia interessante solo perché è umano e infelice. Mi sembra anche che pet questi motivi il sentimento che suscita è di tenerezza e commozione; quest'uomo,

infatti,

è vicino

a ciascuno

di

noi, mentre l'eroismo ci affligge più di quanto ci commuova; dato che, in definitiva,

non

ci

riguarda.

Non

sarebbe

forse desiderabile che i nostri sublimi scrittori si degnassero di scendere un po’ dalla loro perpetua altezza facendo-

ci commuovere

della

semplice

trimenti,

ogni

tanto

umanità

impietosendoci

per

le sorti

sofferente?

Al

solo per l'eroi-

smo infelice, finiremmo col non avere pietà per nessuno. Gli antichi avevano degli eroi, ma mettevano come protagonisti della loro tragedia degli uomini;

noi,

invece,

abbiamo

a stento

degli

uomini e mettiamo come protagonisti solo degli eroi. Gli antichi parlavano di umanità

in frasi

meno

retoriche,

ma

benché egli non sia grande che per il proprio furore, non c’è in tutta l’opera

la sapevano mettere in pratica. Potremmo applicare a loro e a noi un aneddoto riportato da Plutarco e che non posso fare a meno di trascrivere: un

* La prova di ciò sta nel fatto che interessa; per quel che riguarda la colpa di cui viene punito, è vecchia, anche troppo espiata, è una

colpa troppo piccola per un cattivo da tragedia, che non viene considerato come tale se non è capace di far fremere d'orrore.

a fremere

di

fronte

al

suo

crimine;

e

LETTERA vecchio e

non

dolo

217

A D'ALEMBERT

ateniese cercava posto a teatro

lo

trovava;

in difficoltà,

lontano;

egli

dei

giovani,

gli fecero

si avvicinò,

veden-

segno

ma

questi

da

si

strinsero tra loro e si beffarono di lui. Il pover'uomo fece il giro del teatro, molto imbarazzato e sempre alla mercé degli schiamazzi della gioventù. Gli ambasciatori di Sparta se ne accorsero, si alzarono immediatamente e lo fecero sedere fra loro al posto d'onore. Questo fatto fu notato da tutti gli spettatori che applaudirono all’unisono. « Ah! che

disgrazia!

esclamò

il vecchio,

addo-

lorato. Gli Ateniesi sanno ciò che è onesto, ma sono gli Spartani che lo mettono in pratica » 3. Ecco la filosofia moderna e i costumi antichi. Ritorno al mio argomento. Che cosa si impara nella Fedra e nell’Edipo, se non che l’uomo non è libero e che il cielo punisce quegli stessi delitti che gli fa commettere? Che cosa impariamo nella Medea, se non fino a che punto il furore della gelosia può rendere crudele e snaturata una madre? Seguiamo la maggior parte delle rappresentazioni del teatro francese; troveremo quasi in tutte

mostri

abominevoli,

azioni

atroci;

utili se vogliamo a rendere interessanti le tragedie e a fornire terreno d'esercizio alla virtù, ma certamente pericolose perché abituano gli occhi del popolo a degli orrori di cui non dovrebbe nemmeno

essere

a conoscenza,

a dei

crimi-

ni che non dovrebbe nemmeno ritenere possibili. Non è neppure vero che l’assassinio e il parricidio sono sempre rappresentati

come

odiosi.

Col

favore

di

non so quali comode ipotesi, li si rende leciti o quanto meno perdonabili. A stento

non

scusiamo

Fedra

incestuosa,

che versa sangue innocente. Sifax che avvelena la propria moglie, il giovane Orazio che pugnala la propria sorella, Agamennone che immola la propria figlia, Oreste che sgozza la propria madre, rimangono comunque personaggi interessanti. Consideriamo anche che l’autore, per fare parlare ciascuno secondo il suo carattere, è obbligato a mettere in bocca ai cattivi le loro massime e i loro principi, rivestiti di tutto

lo splendore di bellissimi versi declamati con tono solenne e sentenzioso per l'edificazioni del pubblico. Se i Greci sopportavano simili spettacoli, era perché rappresentavano in questo

modo

tenere

sempre

le

tradizioni

nazionali,

presenti in ogni tempo nel loro popolo, e che avevano le loro ragioni per manvive, dato

che

anche

l’a-

spetto odioso rientrava nel loro modo di vedere. Priva degli stessi motivi e dello stesso interesse, come può la stessa tragedia trovare tra di noi spettatori capaci di sopportare le scene che questa presenta e i personaggi che vi agiscono? L'uno uccide il proprio padre, sposa la madre e diventa fratello dei propri figli; l’altro obbliga un figlio a sgozzare il proprio padre, un terzo fa bere al padre il sangue del proprio figlio. Viene paura alla sola idea degli orrori di cui si riempie il teatro francese per il divertimento del popolo più dolce e più umano che esista sulla terra. No! io sostengo, e prendo a testimonianza l'orrore dei miei lettori, che

i massacri dei gladiatori non erano così barbari come questi spettacoli. Vi si vedeva scorrere il sangue, è vero; ma non ci si contaminava l'immaginazione con crimini che fanno fremere la natura. Fortunatamente la tragedia, così

come

è attualmente,

è tanto lontana

da

noi, ci presenta esseri così giganteschi, così goffamente esagerati, così chimerici, che l'esempio dei loro vizi non è più contagioso di quanto sia utile quello delle loro virtù; e quindi tanto meno essa si propone di istruirci, tanto meno male essa si procura. Ma così non è della commedia i cui costumi hanno un rapporto più immediato con i nostri € i cui personaggi somigliano di più agli uomini. Tutto nella commedia è pericoloso e pernicioso, tutto comporta conseguenze per gli spettatori; il piacere stesso della comicità essendo fondato su

una

anomalia

dell'animo

umano,

ne

consegue che più una commedia è piacevole e perfetta, più il suo effetto è funesto

alla

morale;

ma,

senza

ripetere

ciò che ho già detto riguardo alla sua natura, mi limiterò a fornire qualche

LETTERA

218 esempio,

queste

dando

un

pagine,

rapido

al vostro

sguardo,

teatro

in

comico.

Consideriamolo nel momento della sua perfezione, cioè al suo sorgere. Tutti sono d’accordo, e la cosa apparirà sempre

più

evidente,

che

Molière,

fra

gli autori comici le cui opere ci sono note, è il più perfetto. Ma chi può non convenire nel fatto che le opere dello

stesso Molière, i cui talenti io ammiro più che chiunque, non siano una scuola di vizi e di cattivi costumi, più

pericolosi ancora che in quei libri in cui si fa professione di insegnarli? La sua maggiore preoccupazione è quella di mettere in ridicolo la bontà e la semplicità, di mettere in luce favorevole l’astuzia e la menzogna: i suoi personaggi onesti sono persone che si limitano

a parlare,

si agiscono sfacciato

i suoi

personaggi

e ottengono

successo.

Alla

vizio-

sempre

il più

fine, l'onore de-

gli applausi, raro per i personaggi degni di stima, tocca quasi sempre al più furbo. Esaminiamo la comicità di quest’autore; ovunque troverete che i vizi di carattere ne sono lo strumento, mentre i difetti naturali ne sono il soggetto; troverete che la malizia dell'uno punisce la semplicità dell'altro, che gli stupidi sono vittime dei cattivi. Il che, benché sia anche troppo vero nel mondo, non è giusto mettere nel teatro con aria di approvarlo, quasi per spingere gli animi perfidi a colpire l’ingenuità delle persone oneste, facendola passare per stupidità. Dat Ecco,

veniam in

corvis,

generale,

vexat

lo spirito

lière e dei suoi imitatori. persone

che,

tutt'al

censura

[columbas ®.

più,

di

Mo-

Si tratta di

scherniscono

talvolta i vizi senza mai provocare amo-

re

per

la

virtù;

di

costoro,

un

antico

diceva che sanno spegnere la lampada, ma che non vi mettono mai olio. * Non

dico

che debbano

essere

condannati

per forza. Può darsi che i servitori non siano che gli strumenti della malvagità dei loro padroni, da quando questi ultimi han tolto loro

A D’ALEMBERT

Notate come, per moltiplicare i suoi scherzi, quest'uomo turbi l’intero ordine sociale; con quale scandalo egli rovesci tutti i più sacri rapporti su cui esso è fondato; come egli derida i giusti diritti dei padri sui figli, dei mariti sulle mogli, dei padroni sui servi! Ci fa

ridere, è vero, e per questo è ancora più colpevole, nel forzare, col suo ir-

resistibile fascino, gli stessi saggi a prestarsi a degli scherzi che ‘dovrebbero causare la loro indignazione. Mi si dice che

egli

combatte

1 vizi;

vorrei

che

si

confrontassero quelli da lui combattuti con quelli da lui favoriti. Chi è più biasimevole, un borghese senza spirito e vanitoso che stupidamente si atteggia a gentiluomo, o il gentiluomo briccone che lo inganna? Nella commedia di cui sto parlando, non è forse quest’ultimo che viene presentato come onesto? For. se

che

l'interesse

non

è puntato

verso

di lui, forse che il pubblico non applaude tutti gli inganni a cui sottopone l’altro? È più criminale un contadino tanto

pazzo da sposare

una signorina, o

una donna che cerca di disonorare il proprio marito? Cosa dobbiamo pensare di una commedia in cui il pubblico applaude l’infedeltà, la menzogna, l'impudenza di una tale donna, e ride della stupidità del contadino punito? L'essere avari ed usurai è un grande difetto; ma non è forse ancora più grande, per un figlio, derubare il proprio padre, mancargli di rispetto, fargli

mille

rimproveri

insultanti,

e,

quando viene maledetto dal padre infuriato, rispondergli di non sapere cosa farsene dei suoi doni? Se la cosa è divertente

dal punto

di vista comico,

non

per questo è meno degna di punizione; e la commedia in cui si rende amabile il figlio insolente, colpevole di tale azione,

non

è forse

una

tiva morale? Non mi fermerò tori;

l'onore

dell'invenzione.

la società

caso,

sia

intrigo

sia

al

del resto sa-

Tuttavia

dubito

che,

teatro.

Ammesso

che

l’immagine

adatta

di cat-

a parlare dei servi-

tutti li condannano*;

in questo qualche

scuola

troppo

necessario

nelle

ingenua

del-

commedie,

LETTERA

A D'ALEMBERT

219

rebbe ingiusto imputare a Molière gli errori dei suoi personaggi e del suo secolo, visto che se ne è castigato da solo Non approfittiamo né delle sregolatezze

le

delle

sue

opere

manchevolezze

che

nelle altre sue opere;

giovanili,

possono

e passiamo



del-

esserci subito

a quello che tutti considerano il suo capolavoro: cioè, I{ Misantropo. Penso che questa commedia ci sveli, meglio di qualsiasi altra, l'autentica prospettiva in cui Molière ha composto tutto il suo teatro; ci può dunque far giudicate meglio dei suoi veri effetti. Dovendo piacere al pubblico, ha seguito il gusto di quelli che ne formano la maggioranza; in base a questo gusto ha creato un modello, su questo modello un elenco di difetti opposti dai quali ha tratto

i suoi

caratteri

comici,

i cui vari

aspetti ha distribuito nelle sue commedie. Egli non ha preteso, perciò, di co-

struire un onest'uomo, ma un uomo di mondo; non ha voluto castigare i vizi, ma colpire il ridicolo; e, come ho già detto, ha trovato nel vizio stesso uno

strumento molto efficace. Così, volendo esporre alla pubblica derisione tutti i difetti contrari alle qualità dell'uomo amabile, dell'uomo di società, dopo aver portato sulla scena tanti altri individui ridicoli, vi ha pottato quello che il mondo perdona con maggiore difficoltà, il ridicolo virtuoso: ed è ciò che ha fatto nel Misantropo. Non mi si potranno negare due cose: primo, che Alceste in questa commedia è un uomo onesto, sincero, degno di stima, veramente una brava persona; secondo, che l’autore gli conferisce una personalità ridicola. Ce n'è abbastanza per rendere Molière imperdonabile. Si potrebbe dire che egli ha portato sulla scena, con Alceste, non la virtù, ma un autentico difetto, che è l'odio per gli uomini. A questo io rispondo che non è

vero ch'egli abbia conferito al suo personaggio un tale sentimento: bisogna non farsi ingannare dal nome di Misantropo, come se chi lo porta debba per forza essere nemico del genere umano: questo sentimento non sarebbe un difetto, sarebbe piuttosto una depravazione della natura nonché il più grande

dei

vizi. Questo

le virtù

carità,

sociali

niente

perché,

sono

è loro

dato

che

riconducibili

così

tutte

alla

profondamen-

te contrario come l’inumanità. Il vero misantropo è un mostro: semmai esistesse, non

re. Può

farebbe ridere, farebbe orro-

esservi

capitato

stito, alla Commedia

di avere

Italiana,

assi-

a un’ope-

ra il cui titolo è: La vita è un sogno. Ricordatevi il personaggio principale di questa commedia, ecco il vero misantropo 5, Cos'è dunque il Misantropo di Molière? Un onest'uomo che odia i costumi del proprio secolo e Ila malvagità dei propri contemporanei; che, proprio perché

ama

i suoi

simili,

odia

in

essi

il

iniquità

a

male che si producono l’un l’altro e i vizi che da questi mali derivano. Se fosse meno colpito dagli errori dell'umanità,

meno

indignato

dalle

cui assiste, sarebbe forse più umano? Tanto vale sostenere che un padre tenero ama più i figli degli altri che i propri, poiché si irrita degli errori di questi ultimi e non dice mai niente agli altri. Questi sentimenti del Misantropo, sono perfettamente sviluppati nel suo personaggio. Egli dice, lo ammetto, di aver concepito un incredibile odio vetso il genere umano; ma in che occasione egli fa una tale affermazione? * Quando, furente per aver visto il suo amico tradire vilmente i suoi sentimenti e ingannare l'uomo che si rivolge a lui per aiuto, si vede per di più preso in giro al culmine della propria collera. È nor-

non so se sarebbe meglio che i soli servitori ne fossero responsabili, e che la gente onesta restasse tale, almeno sulla scena.

e invertire l'ordine delle commedie, Ma anche se i miei esempi fossero poco esatti, non per

memoria,

commedia, ma dallo spirito generale che ho ben studiato.

* Premetto

confusi tempi

e

che essendo privo di testi e di

non

ricordi

a teatro,

di

avendo

come

osservazioni

posso

sbagliarmi

materiale

fatte

nelle

in

che

altri

citazioni

questo

sarebbero

meno

esatte

le

mie

ragioni,

visto che esse non derivano da questa o quella del

teatro,

220

LETTERA

male che questa collera degeneri in ira e lo conduca a dire più di quanto egli pensi normalmente. Del resto, i motivi che egli adduce di questa collera universale, la giustificano pienamente: Les uns parce qu'ils sont méchans, et les autres, pour étre gux Non

è dunque

è nemico,

ma

A D'ALEMBERT

Alceste una così grande quantità dei propri principi, che molti hanno creduto abbia voluto dipingere se stesso. Ciò risulta evidente dalla delusione provata dal pubblico alla prima rappresentazione, per non essere stato, riguardo al

sonetto,

dello

Tuttavia

questo

stesso

parere

del

Mi-

[méchans complaisans.

santropo: era infatti evidente che questo parere era quello dell’autore.

degli uomini che egli

so viene presentato come ridicolo; e lo

della

cattiveria

di

alcuni

è

in

effetti,

sotto

carattere così virtuocerti

aspetti;

e che

e della complicità che questa cattiveria trova negli altri. Se non vi fossero né bricconi né adulatori, egli amerebbe tutti. Ma non esistono onest'uomini che non siano misantropi in questo senso; piuttosto, i veri misantropi sono quelli che non Ia pensano così. In definitiva, non conosco nemico più grande dell'umanità che quello che è amico di

l'intenzione dell’autore è proprio quel. la di renderlo tale lo dimostra il carattere dell'amico Filinte che viene contrapposto al suo. Questo Filinte è il saggio della commedia; un onest'uomo del gran mondo, le cui massime somigliano molto a quelle dei bricconi; una di quelle persone tanto dolci e moderate che trovano sempre che tutto va

coraggia continuamente i malvagi e adula con la sua colpevole compiacenza i vizi da cui nascono tutti i disordini della società. Una prova sicura che Alceste non è un misantropo nel senso letterale della parola è che, con il suo fare brusco e con le sue impennate, non cessa di piacere e di interessare. Gli spettatori, in verità, non desidererebbero assomigliargli, perché tanta onestà non è comoda. Tuttavia nessuno di essi sarebbe infastidito dal trattare con qualcuno che gli somiglia, ciò che non accadrebbe se egli fosse veramente nemico dichiarato dell'umanità. In tutte le altre commedie di Molière, il personaggio comico è sempre odioso o spregevole; in questa, anche se Alceste ha dei difetti reali di cui è giusto ridere, si prova tut-

qualcosa vada meglio; che sono sempre contente di tutti, perché non si preoc-

tutti; che, sempre

tavia, in fondo

contento

di tutto, in-

al cuore, un rispetto per

lui dal quale non ci si può sottrarre. In questo caso la forza della virtù prevale

sull'arte

dello

scrittore,

e fa

ono-

re al suo carattere. Benché Molière scrivesse commedie riprovevoli, era personalmente un onest'uomo, e mai il pennello di un onest’'uomo è stato capace di dipingere in colori odiosi gli aspetti dell'onestà e della rettitudine. C'è di più: Molière ha messo sulle labbra di

bene, dato che cupano

di

non

nessuno;

hanno che,

interesse che

sedute

a una

tavola, sostengono che il popolo non soffre la fame; che, a pancia piena, reputano di cattivo gusto che si perori in favore dei poveri; che, dopo aver ben chiuso la propria casa, assisterebbero tranquillamente alla rapina, all’assassinio, al saccheggio, al massacro di tutta l'umanità senza lamentarsi, visto che

Dio li ha dotati di un animo dolce tanto meritorio nel sopportare le sventure altrui. Notiamo facilmente che la flemma ragionatrice di costui è molto adatta ad aumentare e a mettere in evidenza in modo comico i furori dell'altro. L'errore di Molière è quello di non aver fatto del Misantropo un individuo collerico e bilioso, ma avergli dato dei furori infantili riguardo ad argomenti che non avrebbero dovuto commuoverlo. Il ca. rattere del Misantropo sfugge al domi. nio del poeta; esso è determinato dalla natura della sua passione dominante. Questa passione consiste in un violento odio per tutti i vizi, nato da un amore ardente per la vitù e inacidito dal continuo spettacolo della malvagità umana. Solo un animo grande e nobile ne è

LETTERA

221

A D'ALEMBERT

dunque suscettibile. L’orrore e il disprezzo alimentati da questa passione per tutti i vizi che l'hanno provocata, servono anche ad allontanarli dall’animo che essa turba. Inoltre, questa continua contemplazione dei disordini della società lo aliena da se stesso per fissare tutta la sua attenzione sul genere umano. Questa abitudine lo eleva, conferisce grandezza alle sue idee, distrugge in lui quelle basse inclinazioni che stimolano e danno forza all’orgoglio; da questo concorso di cause nasce una cérta forza d'animo, una fierezza di carattere, che non lascia posto, nel suo ani-

mo, a sentimenti indegni di occuparlo. Non è che l’uomo non resti sempre tale; che la passione non lo renda spes-

so debole, ingiusto, irragionevole; che non spii, forse, i motivi nascosti delle

altrui

dere

la

azioni

col segreto

corruzione

dei

piacere di ve-

loro

cuori;

che

un piccolo inconveniente non gli dia spesso motivi di collera; e che infine un individuo abile e malvagio, non possa, itritandolo ad arte, fare apparire lui stesso malvagio. Ma non è meno vero che non tutti i mezzi sono capaci di produrre questi effetti, ma questi devono essere scelti in base al suo carat. tere per poterlo trascinare, senza di che sarebbe come sostituire al Misantropo un altro uomo, dipingendolo con tratti che non sono i suoi. Ecco dunque da che parte stanno i difetti di carattere del Misantropo, ed ecco anche l'uso ammirevole che ne fa Molière in tutte le scene dove Alceste compare insieme al suo amico, in cui i rigidi principi e gli scherzi di quest'ultimo, sconvolgendo continuamente l’altro, lo portano a dire sempre mille impertinenze ben azzeccate; ma questo

carattere

all’occasione tanta

duro

gli

asprezza,

e

inaccessibile,

procura

tanta

bile

contemporaneamente

che

e

lo

allontana da ogni dolore puerile privo di fondamento ragionevole e da ogni interesse personale troppo vivo, di cui egli non deve essere assolutamente suscettibile. Si adiri pure per tutti i disordini di cui è solo testimone: si tratterà di nuove pennellate aggiunte al

quadro; ma bisogna che rimanga impassibile nei confronti di ciò che lo riguarda personalmente. Infatti, poiché ha dichiarato guerra ai malvagi, deve aspettarsi che essi gliela muovano. Se non avesse previsto il male che gli sarebbe derivato dalla propria franchezza, egli sarebbe uno stupido, non un onesto. Se

una

donna

infedele

lo

tradisce,

se

amici non degni lo disonorano, se amici deboli lo abbandonano, deve sopportare senza lamentarsi: egli conosce gli uomini. Se queste distinzioni sono esatte, Moliére non ha bene afferrato il carattere del Misantropo. Forse per errore? Certamente no. Ma ecco come il desiderio di fare ridere alle spalle del perso naggio lo ha costretto a degradarlo, contro la verità del carattere. Dopo l’avventura del sonetto, perché Alceste non prevede il disonesto comportamento di Oronte? Può stupirsene quando glielo dicono, come se fosse la prima volta in vita sua che è sincero o come fosse la prima volta che la sua sincerità gli crea un nemico? Non deve forse prepararsi tranquillamente a perdere il processo, invece di mostrare in anticipo una delusione infantile? Ce sont vingi mille francs qu'il [rnr'en pourra cotter; mais pour vingi mille francs {j'aurai droit de pester. Un misantropo non ha bisogno di comprare così caro il diritto di prote-

stare, basta che apra gli occhi; del resto, non ama sufficientemente il dena-

ro perché possa credere di aver acquistato in proposito un nuovo diritto grazie a una sconfitta processuale: ma era necessario far ridere il pubblico. Nella scena con Dubois, più Alceste ha motivi per spazientirsi, più deve rimanere tranquillo e freddo, perché la stupidità del servo non è un vizio. Il misantropo e il collerico sono due caratteri molto diversi: era una occasione opportuna per distinguerli. Molière lo sapeva, ma bisognava far ridere il pubblico.

222

LETTERA

A rischio di far ridere anche il lettore a mie spese, mi permetto di accusare questo scrittore di aver mancato delle occasioni eccellenti, una grande verità,

e forse

anche

nuove e felici

si-

tuazioni. Si trattava di cambiare l’intreccio in modo che Filinte diventasse attore principale nello svolgimento della commedia, affinché si potessero apporre le azioni di Filinte e di Alceste in evidente opposizione ai loro rispettivi principi e in perfetta conformità con i loro caratteri. Intendo dire che era necessario che il Misantropo fosse sempre furioso contro i vizi della società e sempre

tranquillo

di fronte

alle cattive-

rie di cui egli era vittima. AI contrario, il saggio Filinte doveva considerare tut-

ti i disordini della società con tranquillo stoicismo e adirarsi per la minima contrarietà personale. In effetti, mi ac-

corgo che le persone indifferenti all’ingiustizia sociale sono quelle che più si arrabbiano per il minimo torto che viene loro fatto, e che restano sagge finché non vengono coinvolte personalmente. Somigliano a quel celebre irlandese che non voleva alzarsi dal letto benché la casa andasse a fuoco. Gli gridavano: « La casa è in fiamme ». « Che m’importa?,

rispondeva

tario ». Alla

fine

lui,

sono

il fuoco

solo

il loca

arrivò

sino

alla sua stanza; solo allora si alzò dal letto, si mise a correre, a gridare, ad

agitarsi; cominciava a capire che a volte bisogna interessarsi alla casa in cui si abita anche se non è la propria. Mi

sembra

che

se Molière,

nel

trat-

tare i caratteri in questione, avesse seguito questa idea, ciascuno dei due sarebbe stato più autentico, più teatrale, e che quello di Alceste avrebbe sortito più effetto; ma in questo caso il pubblico avrebbe potuto ridere solo alle spalle dell'uomo di mondo, mentre l’interesse dell'autore era che ridesse alle spalle del Misantropo *. * Sono sicuro che, prendendo spunto dall'idea da me proposta, un uomo di genio potrebbe creare un nuovo Misantropo, non meno autentico di quello ateniese, ugualmente meritorio di quello di Molière e indubbiamente più istruttivo *. Vedo solo un inconveniente al

Per

talvolta

lo stesso in

A D’ALEMBERT

fine lo fa prorompere

frasi

d'ira,

di

senso

com-

pletamente opposto a quello che gli presta. Come questa nella scena del sonetto:

La peste de ta chute, empoisonneur

[au Diable! En eusses-tu fait une è te casser le [nez!

imptecazione tanto più fuori luogo nella bocca del Misantropo, che ha appena criticato imprecazioni più sopportabili

presenti

nel

sonetto

di

Oronte;

è

proprio strano che chi la lancia, proponga immediatamente dopo, come modello di gusto, la canzone del Re Enrico.

È inutile sostenere che queste parole sfuggono in un momento di disappunto; infatti il disappunto detta solo imprecazioni; e Alceste, che passa la sua

vita

a brontolare,

dovrebbe

to anche brontolando me alla sua mentalità: Morbleu!

un

aver

tono

assun-

confor-

vil complaisant! vous [louez

des

sotises.

Così deve parlare il Misantropo quando è in collera. Dopo una tale frase, un’imprecazione

non

sarà

mai

adatta.

Ma bisognava far ridere il pubblico; ecco come la virtù viene avvilita. Una cosa abbastanza notevole in questa commedia è che gli elementi estranei che l'autore ha aggiunto al personaggio del Misantropo, lo hanno obbligato ad addolcire quello che invece era il tratto essenziale del suo carattere. In

tal

modo,

mentre

in

tutte

le

altre

sue commedie i caratteri vengono caricati per ottenere un effetto maggiore, solo in questa i tratti vengono addolciti per renderlo più teatrale. La stessa scena di cui ho appena parlato me ne fornisce la prova: vi si vede Alceste tergiversare e cercare scappatoie successo di questa nuova commedia, ed è che non potrebbe mai piacere; infatti, checché se ne dica, nessuno ride di buon cuore di cose che lo disonorano. Ed eccoci così rientrati nei miei principi.

LETTERA

A D’ALEMBERT

223

per dare il proprio parere a Oronte. Questi non è il Minsantropo: è un onest'uoino di mondo che ha delle difficoltà a ingannare chi si rivolge a lui. La forza del carattere esigeva che gli dicesse bruscamente: « Il vostro sonetto non vale nulla, gettatelo via »; ma questo avrebbe eliminato l'aspetto comico che nasce dall’imbarazzo del Misantropo e dai suoi continui Nor dico questo, che però in fondo sono solo delle menzogne. Se Filinte, seguendo il suo esempio, gli avesse detto a questo punto:

« Che

mi

dici, traditore? », che

cosa gli avrebbe potuto rispondere? In verità non vale la pena di rimanere misantropo, essendolo solo a metà: se ci si permette

il primo

compromesso

e la

prima menzogna, dove si troverà una ragione sufficiente per fermarsi prima di diventare

tanto falso come

un cortigiano?

L'amico di Alceste deve conoscerlo. Come osa proporgli di far visita ai giudici,

cioè,

in

termini

chiari,

di corrom-

perli? Come può supporre che un uomo capace di rinunciare persino alla buona educazione per amore della virtù, sia capace di mancare ai propri doveri per motivi d'interesse? Raccomandarsi a un giudice! Non occorre essere misantropi;

basta

essere

onesti

per

non

accettare una cosa del genere. Poiché, in definitiva, qualunque aspetto si dia alla faccenda, chi fa pressione sul giudice, o lo sollecita a compiere il suo dovere, e in questo caso lo offende, oppure gli vuole far fare una eccezione per certe persone, e allora intende corromperlo: dato che ogni eccezione è un crimine per un giudice, che deve conoscere il caso e non le parti, e non considerare altro che l’ordine e la legge. Ora, io affermo che spingere un giudice a compiere una azione disonesta,

equivale

a essere

disonesti;

è me-

glio perdere una causa giusta piuttosto che commettere chiaro, evidente;

un crimine. Questo è non c'è nulla da obiet-

tare. La morale corrente è basata principi diversi, non lo ignoro. Mi sta dimostrare che tutto ciò che deva ridicolo il Misantropo, egli lo ceva per compiere il suo dovere di

su barenfauo-

mo onesto;

e che il suo carattere doveva

essere originariamente lacunoso, se il suo amico pensava che potesse discostarsene. Se talvolta un autore abile lascia che questo carattere agisca secondo tutta la sua potenza, ciò accade soltanto quando questa potenza rende più teatrale la scena e produce un contrasto comico o situazionale più evidente. Tale, per esempio, è l’umore taciturno e silenzioso di Alceste, e in seguito l’intrepida censura, vivamente accentuata, della conversa-

zione in casa della civetta. Allons, Qui

ferme,

l’autore

ha

poussez, mes bons [amis de cour.

fortemente

accentuato

la distinzione tra il Maldicente e il Misantropo. Questi, nella sua bile aspra e mordente, sta la satira.

aborre la calunnia e deteSono i vizi pubblici, i mal-

vagi in generale che egli attacca; la maldicenza meschina e segreta non è degna di lui; egli Ia disprezza e la odia negli altri; quando parla male di qualcuno, comincia col dirglielo in faccia. Così,

in

tutta

la

commedia,

non

rag-

giunge effetto maggiore che in questa scena, poiché in essa è aderente a se stesso,

e

se

fa

ridere

il

pubblico,

gli

onesti non atrossiranno di aver riso. Ma, in generale, non possiamo negare che se il Misantropo fosse stato ancora più misantropo, sarebbe stato meno divertente;

dato

che

la

sua

franchezza

e

la sua fermezza, talmente incrollabili, non l'avrebbero mai messo in imbarazzo. Non è dunque per riguardo nei suoi confronti che l'autore addolcisce talvolta il suo carattere, al contrario, lo fa per renderlo ridicolo. Un altro motivo ve lo costringe; ed è che il Misantropo della commedia, poiché deve parlare di ciò che vede, deve vivere nel mondo, e conseguentemente deve temperare la propria fermezza e addolcire le proprie maniere, a causa di quelle forme

di riguardo, menzognere

e false, che

stanno alla base della buona educazione, educazione che il mondo esige da chiunque voglia vivervi. Se egli fosse diverso, i suoi discorsi non avrebbe-

LETTERA

224

A D'ALEMBERT

ro più effetti. L'interesse dell'autore è quello di renderlo ridicolo, ma non di farlo sembrare pazzo; tale infatti apparirebbe agli occhi del pubblico se fosse completamente saggio. Ci è difficile lasciar perdere questa meravigliosa commedia, una volta che

grare con barbari scherzi il triste apparato della morte. 1 diritti più sacri, i più toccanti sentimenti naturali vengono presi in giro in questa odiosa scena. Vi vengono riuniti, come per divertimento, gli scherzi più riprovevoli, con una giovialità che fa passare tutto ciò

za tema di smentite, la più ricca di sana moralità fra tutte le commedie di Molière, giudicheremo in base ad essa

manità, tutto è applaudito. il morto, con caro nipote, e

si è cominciato ad occuparsene; e, più ci si pensa, più vi si scoprono nuove beltà. Ma infine, dato che essa è, sen-

tutte

le altre

e converremo

che,

essen-

do intenzione dell'autore di piacere a spiriti corrotti, o la sua morale porta al male, o il falso bene che essa predica è più pericoloso che il male stesso: poiché seduce sotto una apparenza di ragione, poiché fa preferire l’uso e i principi del mondo alla rettitudine esemplare, poiché situa la saggezza fra il vizio e la virtù, poiché, per sollevare gli spettatori, li persuade che per essere onesti basta non essere dichiaratamente scellerati. Sarebbe troppo facile per me passare dall'esame di Molière, a quello dei suoi successori che, privi della sua genialità,

della

sua

onestà,

si

sono

limi-

tati a seguire i suoi aspetti più vilmente interessati, dedicandosi

all'adulazione

di una gioventù debosciata e di donne immorali. Non renderò a Dancourt ? l'onore di parlare di lui: le sue opere non

turbano

con

termini

osceni,

questo

meno

ma

bi-

sogna avere caste solo le'orecchie per poterle sopportare. Regnard *, più mo-

desto,

non

è per

perico-

loso: lasciando all’altro il compito di divertire le sgualdrine, si occupa di incoraggiare i furfanti. È incredibile il fatto che, col permesso della polizia, si reciti pubblica. mente una commedia in cui, nell’appartamento di uno zio appena morto, si vede il nipote, l’uomo onesto della com-

media, occuparsi insieme ai suoi degni amici di cose che la legge punisce con la corda; e che in luogo delle lacrime che un semplice senso di umanità provocherebbe,

indifferenti,

in

simili

si faccia

casi,

a gara

anche

nel

agli

ralle-

come furto,

che

scherzi innocenti. Falsificazione, calunnia, trutfa, menzogna, inu-

era

trovato

senso

stato

vi è presente e tutto vi Essendosi poi risvegliato grande dispiacere del suo non volendo ratificare ciò fatto

il modo

con

in suo

nome,

di strappargli

la forza;

tutto

finisce

viene

un concon

la

soddisfazione degli attori e degli spettatori, i quali, interessati loro malgrado a tali delinquenti, escono dal teatro con l’edificante ricordo di essere stati intimamente complici dei crimini cui hanno assistito. Diciamolo chiaramente: chi di noi è abbastanza sicuro di se stesso per poter assistere a una tale commedia senza essere complice dei raggiri che vi si compiono? Chi non sarebbe un po’ dispiaciuto se il disonesto finisse con l'essere sorpreso o fallisse il colpo? Chi non diventa, almeno per un istante, imbroglione egli stesso, nell’interessarsi a lui? Dato che avere interesse per qualcuno è come mettersi al suo posto. Bella istruzione per la gioventù, quella in cui gli uomini adulti hanno difficoltà a garantirsi dalla seduzione del vizio! Questo vuol dire che non deve mai essere permesso portare sulla scena avvenimenti riprovevoli? No; ma in verità, per sapere mettere sulla scena un personaggio disonesto,

bisogna

che

l’autore

sia mol-

to onesto. Questi difetti sono inerenti a tal punto al nostro

teatro che, volendoli

elimi-

nare, bisognerebbe contraffarlo. I nostri autori moderni, guidati da intenzioni migliori, scrivono commedie più castigate, ma ciò nonostante che cosa succede? Che esse non sono più realmente comiche e non producono nessun

effetto.

Istruiscono

molto,

se

si

vuole, ma annoiano ancora di più. Tanto varrebbe andare alla predica.

LETTERA

A D'ALEMBERT

225

In questa decadenza del teatro, ci si vede costretti a sostituire la vera bellezza ormai scomparsa con ornamenti capaci di ingannare le masse. Non sapendo più dare alimento alla potenza della

comicità

e dei

caratteri,

si è rin-

forzato l'interesse per l’amore. La stessa cosa è stata fatta nella tragedia per supplire a situazioni ispirate dagli interessi dello Stato che non conta più, e a sentimenti naturali e semplici che non commuovono più nessuno. Gli autori concorrono, in nome della pubblica utilità, a dare nuovi colori a questa pericolosa passione; dopo Molière e Corneille, assistiamo

al successo

teatrale

di

romanzi che di tragedia hanno solo il nome. L’amore è il regno delle donne. Sono esse che necessariamente ne dettano le regole, dato che secondo l'ordine

della

natura

a

loro

tocca

di

resistere,

le donne

e le fan-

e agli uomini di vincere questa resistenza al prezzo della loro libertà. Un effetto naturale di questo tipo di spettacoli è dunque di estendere l'impero del

sesso, di rendere

ciulle precettrici del pubblico e di conferire loro un dominio sugli spettatori, paragonabile a quello che hanno sui loro innamorati. Ritenete, Signore, che questo ordine di cose sia privo di inconvenienti

e che,

aumentando

con

tanta

cura l'ascendente delle donne, gli uomini saranno per questo meglio governati? Possono esservi nel mondo poche donne degne di essere ascoltate da un uo-

La più affascinante delle creature, la più capace di commuovere un cuore sensibile e di spingere verso il bene, è, lo confesso, una donna

amabile

cercarsi

che

e virtuosa;

ma dove si nasconde una tale creatura celeste? Non è forse crudele contemplarla con tanto piacere a teatro, per trovarne di così diverse nella società? Tuttavia questo quadro seducente sortisce il proprio effetto; l'incanto prodotto da questi prodigi di saggezza si traduce in profitto per donne senza onore. Se un giovane ha conosciuto il mondo solo sulla scena, il primo mezzo che gli si offre per incontrare la virtù è di una

amante

ve lo conduca,

sperando di incontrare almeno una Costanza ? o una Cénie *. È così, che fidandosi del modello immaginario, di un’apparenza modesta e tenera, di una dolcezza simulata, nescius aurae fallacis®, il giovane pazzo corre alla rovina, pensando di diventare un saggio. Ciò mi fornisce l'occasione di proporre una specie di problema: gli antichi avevano in generale un grande rispetto per le donne **, ma dimostravano questo rispetto con l’astenersi dall’esporle al giudizio del pubblico, e pensavano di onorare la loro modestia col tacere sulle altre loro virtù. Avevano come principio che il paese in cui i costumi erano più onesti era quello in cui si parlava meno delle donne; e che la donna più onesta era la meno nota. In base a questo principio uno Spartano,

ascoltando

uno

straniero

che

fa-

ma è da esse che, in generale,

ceva gli elogi di una donna a lui nota, lo interruppe infuriato: « Quando la smetterai di parlar male di una donna onesta? » ??. Da ciò derivava inoltre

* Non è per caso che qui parlo della Cénie, benché questa deliziosa commedia sia stata scritta da una donna”; infatti, cercando in buona fede la verità, non riesco a nascondere quel che è contrario alle mie idee; e non è a una donna, ma a tutte le donne, che nego l'ingegno degli uomini. Tanto più volentieri rendo onore all'autrice della Cénie, in quanto,

ventati volgari o superati. Sappiamo bene quale uso Virgilio abbia fatto della parola Matres in una occasione in cui le madri troiane non erano state affatto oneste. In luogo di questo termine noi non abbiamo che la parola Signora, che non è adatta a tutte, e che comunque invecchia insensibilmente e che è ormai stata bandita dal linguaggio attualmente in voga. Osservo che gli antichi usavano trarre i loro titoli di onore dai diritti della natura, mentre noi non traiamo i nostri che dai diritti provenienti dal rango sociale.

mo

retto;

bisogna ascoltare i consigli? e non può esserci alcun altro mezzo di rispettare il loro sesso senza avvilire il nostro?

avendo di che lamentarmi

dei suoi discorsi, le

rendo un omaggio puro e disinteressato, come tutti gli elogi che escono dalla mia penna. ** Davano loro diversi nomi, tutti onorevoli, che noi non usiamo più o che sono di-

LETTERA

226 che nelle loro commedie i ruoli di innamorate e di fanciulle da marito erano rappresentati esclusivamente da schiave o prostitute. Avevano una idea talmente

alta

della

modestia

femminile,

noi,

al contrario,

che avrebbero pensato di mancare di riguardo nei suoi confronti portando sulla scena una fanciulla onesta *. In una parola, l’immagine evidente del vizio li colpiva meno di quella del pudore offeso. Presso

di

la donna

più stimata è quella che più fa parlare di sé, che più spesso è presente nella mondanità, presso la quale si cena più spesso, che detta più imperiosamente la

moda;

che

giudica,

de, si pronunzia, lento,

al merito,

bilisce il gli umili mente il peggio. In non sanno dizi

su

livello filosofi favore. fondo, nulla,

tutto;

ma

sentenzia,

rende omaggio

alle virtù,

che

deci-

al ta-

ne

sta-

e gli aspetti; di cui mendicano più bassaSulla scena è ancora nella vita reale esse benché emettano giunel

teatro,

rese

sa-

pienti dalla cultura degli uomini, filosofe grazie agli autori, schiacciano il nostro sesso grazie al talento dello stesso, e gli spettatori sprovveduti imparano scioccamente dalle donne ciò che hanno avuto cura di insegnare loro. Tuito ciò, in verità, è burlarsi di loro, accusarle di vanità puerile; non du-

bito che le più intelligenti ne siano offese. Sfogliate la maggiore parte delle commedie moderne: c'è sempre qualche donna che sa tutto, che insegna tutto agli uomini; è sempre la dama di corte che fa ripetere il catechismo al piccolo Jean de Saintré, Un bambino non sarebbe in grado di mangiare il pane se questo non gli ‘venisse tagliato dalla governante. Ecco un’immagine di ciò che accade nelle commedie moderne. La

bambinaia

sta

sulla

scena,

i bambi-

-ni in platea. Ancora una volta, io non nego che questo metodo non sia privo di vantaggi e che tali precettori non siano capaci di dare peso e valore alle * Se facevano un uso diverso di questo principio nelle tragedie è perché, secondo il sistema politico del loro teatro, non si dispia-

A D'ALEMBERT

loro lezioni. Ma ritorniamo alla mia domanda: tra l’uso antico e il nostro, quale il più onorevole per le donne e che rende meglio al loro sesso il rispetto che gli è dovuto? Lo stesso motivo che nelle nostre rappresentazioni tragiche o comiche assegna alle donne la prevalenza sugli uomini, l’assegna anche ai giovani sui vecchi; è questo un altro rovesciamento, non meno riprovevole, dei rapporti naturali. Poiché l'interesse è sempre puntato su coloro che si amano, ne deriva che i personaggi di età anziana non possono sostenere, sempre e soltanto, che ruoli di secondo piano; o sono anche loro innamorati, e allora sono ridicoli.

Turpe senex miles®*. Vengono usati nelle tragedie come tiranni o usurpatori;

nelle

commedie

come

gelosi,

usu-

rai, pedanti, padri insopportabili, soggetti tali da essere ingannati da tutti. Ecco sotto quale onorevole aspetto gli anziani vengono rappresentati sulla scena; ecco quale rispetto nei loro confron-

ti viene ispirato ai giovani. Ringraziamo l'illustre autore di Zaira e di Nani ne* per aver sottratto a questo disprezzo il venerabile Lusignan e il buon vecchio Philippe Humbert. Ve ne sono anche

altri;

ma

ciò

è

forse

sufficiente

ad arrestare il torrente del pubblico pregiudizio, e per cancellare l’avvilimento in cui la maggior parte degli autori si compiace di mostrare l’età della saggezza, dell'esperienza e dell’autorità? Come possiamo dubitare che l’abitudine di vedere sempre nei vecchi i personaggi odiosi della scena, non aiuti a farli respingere dalla società, e che, abituati a confondere quelli veri con i rimbambiti e i geronti della commedia, non ci succeda di disprezzarli allo stesso modo? Basta osservare a Parigi, in una qualunque riunione, le arie sicure e decise proprie della imprudente gioventù, mentre

gli

anziani,

modesti

e timorosi,

non osano aprire bocca o vengono ascoltati a stento. Non si assiste a nulla di cevano di far credere che le persone di alto rango non hanno bisogno di pudore e fanno sempre eccezione alle regole morali.

LETTERA

227

A D'ALEMBERT

simile nelle province e nei paesi in cui

non ci sono spettacoli; forse che in tutto il mondo, escluse le grandi città, un

capo canuto non continua a ispirare rispetto? Mi si dirà che a Parigi anche i vecchi contribuiscono a rendersi spregevoli, rinunciando al comportamento adatto a loro, prendendo in modo indecente l'aspetto e le maniere della gioventù; e che imitandone la galanteria, è facile che vengano preferiti loro i giovani che, almeno,

si comportano

da tali;

ma, al contrario, è proprio perché non hanno altro modo di farsi sopportare,

che essi sono costretti ad usare quello, e

preferiscono essere tollerati per i loro aspetti ridicoli piuttosto che non esserlo completamente. Certamente non è sufficiente mostrarsi divertenti per divenirlo

in realtà, e non

di una

donna,

è possibile

che

un galante di sessant'anni sia un personaggio piacevole; ma la sua stessa indecenza sl trasforma in guadagno: per più infatti, è un

trionfo

tra-

scinare un Nestore legato al proprio carro per dimostrare che la freddezza dell'età non garantisce dall’ardore dei sensi da lei ispirato. Ecco perché le donne incoraggiano questi decani di Citera,

e

maliziosamente

trattano

come

uomini affascinanti, questi vecchi matti che troverebbero meno simpatici se fossero meno stravaganti. Ma torniamo all'argomento. Questi non sono i soli effetti che il teatro amoroso produce. Bisogna attribuirgliene di molto più gravi, e importanti, dei quali non sto a esaminare la fondatezza, ma che spesso sono stati vigorosamente sostenuti dagli scrittori ecclesiastici. I pericoli che possono essere prodotti dalla rappresentazione di una passione contagiosa, è stato loro risposto, vengono prevenuti dal modo in cui

vengono rappresentati: l’amore rappresentato a teatro viene reso legittimo, il suo fine è sempre onesto, spesso viene sacrificato al dovere e alla virtù e non appena diventa colpevole viene punito. Benissimo. Ma non è buffo pretendere di regolare così a fatti compiutii moti dell'animo con i principi della ragione, dover attendere gli avvenimenti per ca-

pire che impressione si debba avere dalle situazioni che li producono? Il male che si rimprovera al teatro non è quello di ispirare passioni criminali, ma quello di esporre l'animo a sentimenti troppo teneri, che vengono poi soddisfatti a spese della virtù. Le dolci emozioni che vi si provano non hanno di per se stesse un oggetto ben determinato, ma ne fanno nascere la necessità. Esse non portano l'amore ma ci preparano a sentirlo; non ci fanno scegliere la persona amata ma ci obbligano a fare una scelta di questo genere. Così esse diventano criminose o innocenti solo in base all’uso che noi ne facciamo,

seguendo

il

nostro

seducenti,

meno

carattere

che è indipendente dall’esempio che riceve. Anche se fosse vero che sulla scena vengono portate solo passioni legittime, ne deriva forse che per questo esse producono un effetto minore e meno pericoloso? Come se le vive immagini di una innocente tenerezza fossero meno dolci,

meno

capaci

di

riscaldare un animo sensibile, di quelle di un amore criminale per cui l’orrore del vizio serve almeno da antidoto. Ma se l'idea dell'innocenza abbellisce per qualche istante il sentimento che si accompagna ad essa, ben presto le circostanze vengono cancellate nel ricordo, mentre l'impressione suscitata dalla dolce passione resta viva nel fondo del cuore: allorché il patrizio Manlio fu cacciato dal senato di Roma per aver baciato la propria moglie in presenza della figlia, cosa vi era di riprovevole nell’azione in se stessa?

Nulla, certamente:

essa

anzi dimostrava un sentimento degno di lode; ma i casti ardori della madre potevano ispirarne di meno casti alla figlia. Significava dunque fare di una azione molto onesta un esempio di corruzione. Ecco qual è l’effetto dei leciti amori del teatro. Si pretende di guaritci dall'amore grazie alla rappresentazione delle sue debolezze. Ignoro in che modo gli autori tentino

di

ottenere

tale

risultato;

ma

noto che gli spettatori sono sempre dalla parte del debole innamorato e che talvolta sono infastiditi se questi non è sufficientemente debole. Mi chiedo se

LETTERA

228 è un modo serio per cercare di non assomigliargli. Ricordatevi,

Signore,

di

una

comme-

dia alla cui rappresentazione, credo che abbiamo

assistito insieme, pochi anni fa,

e che ci procurò un inaspettato divertimento,

sia perché

l’autore

vi aveva

in-

trodotto più bellezze di quanto noi non pensassimo, sia perché l'attrice prestava il proprio fascino al personaggio da lei interpretato: parlo della Berezice di Racine. In che stato d'animo lo spettatore assiste all'inizio di questa commedia? Con un senso di disprezzo per la debolezza di un imperatore e di un Romano, che

esita,

come

l'ultimo

degli

uomini,

fra la propria amante e il proprio dove-

re; che, sempre immerso in un’incertezza disonorevole, avvilisce con effemi-

nati lamenti il carattere quasi divino conferitogli dalla storia; che costringe a cercare

in un

vile

spasimante

da

vi-

coli il benefattore del mondo, la delizia del genere umano. Che cosa ne pensa lo stesso spettatore dopo la rappresentazione? Finisce col compiangere quest'uomo sensibile che in un primo momento

disprezzava,

finisce con

l'inte-

ressarsi alla stessa passione di cui prima lo accusava, col lagnarsi nel proprio intimo del sacrificio che questi è costretto a fate in nome delle patrie lepgi. Ecco quali erano i sentimenti di ognuno di noi durante la rappresentazione. Il personaggio di Tito, impersonato molto bene, avrebbe sortito qualche effetto se fosse stato più degno di lui; ma tutti si accorsero che l'interesse principale era fondato su Berenice e che le sorti del suo amore erano determinanti per il tragico finale. Ciò non vuol dire che î suoi continui pianti commovessero grandemente durante la rappresentazione; ma al quinto atto, quando, cessando di lamentarsi, assumeva un

aspetto cupo, non piangeva e abbassava il tono della voce, dava la parola a un dolore freddo, simile alla disperazione, allora l’arte dell'attrice aumentava la pateticità del personaggio, e gli spettatori,

profondamente

commossi,

comin-

ciavano a piangere quando Berenice aveva ormai smesso. Cosa significava que-

A D'ALEMBERT

sto, se non che essi temevano

fosse

cacciata

Tito

si

via,

che ella

e sentivano

in

anti-

cipo il dolore che ne avrebbe invaso l'animo, quando ciascuno desiderava che lasciasse

commuovere,

anche

a

costo di stimarlo di meno? Forse che questa tragedia non ha raggiunto il proprio fine, e contemporaneamente ha insegnato agli spettatori a superare le debolezze dell'amore? Il finale smentisce queste segrete speranze, ma che importa? Esso non cancella gli effetti della tragedia. La regina si allontana senza congedarsi dal pubblico; l'imperatore la scaccia invitus invitam, potremmo aggiungere invito spectatore. Tito ha un bel restare Romano,

nessuno sta dalla sua parte; tutti gli spettatori hanno sposato Berenice. Mi si potrebbe tuttavia contestare questo effetto, se si sostenesse che l’esempio di forza e di virtù che si vede in

Tito,

vincitore

di

se

stesso,

è

alla

base dell’interesse che questa tragedia presenta, e che, compiangendo Berenice, si è ben

lieti di farlo;

dicendo

que-

sto, anzi, si rientra nei principi da me enunciati: perché, come ho già detto, i sacrifici in nome del dovere e della virtù sono sempre ricchi di un segreto fascino anche per gli animi corrotti: la prova che un tale sentimento non è effetto della tragedia, è il fatto che gli spettatori lo provavano già prima di assistervi. Ciò non impedisce che il soddisfacimento di certe passioni non sembri loro preferibile

alla

stessa

virtù,

e

che

sono

ben

contenti di vedere Tito virtuoso e magnanimo, anche se lo sarebbero ancora di più se questi fosse debole ma felice; quanto meno, al suo posto, loro sarebbero tali. Per rendere più evidente questa verità, immaginiamo un finale del tutto diverso da quello proposto dall’autore;

immaginiamo

che Tito, avendo

consultato meglio il proprio cuore, e non volendo infrangere le leggi di Roma, né sacrificare la propria felicità all’ambizione, decida, in base a principi del tutto diversi, di abdicare per amore di Berenice al proprio impero; immaginiamo che Berenice, colpita da un così grande sacrificio, si accorga che sarebbe suo do-

LETTERA vere

A D’ALEMBERT

rinunciare

amante,

e tuttavia

nell’ebrezza la

a

sposare

lo accetti.

229 il

proprio

Ambedue

dei piaceri dell'amore,

tranquillità,

della

innocenza,

del-

rinun-

cerebbero alle vane grandezze, prenderebbero, con la dolce gioia causata dai veri

moti

naturali,

la

decisione

di

an-

dare a vivere felici e in incognito, in un angolo della terra. Se una scena così commovente fosse animata da sentimenti teneri e patetici, favoriti dall’argomento stesso e che Racine sarebbe stato ben capace di mettere in risalto; se Tito nel lasciare i Romani indirizzasse loro un discorso quale lo esige la circostanza e l’argomento; non sarebbe forse evidente

che, a meno

che l’autore

non fosse del tutto incapace, un tale discorso farebbe piangere tutto il pubblico? Se la tragedia finisse in questa

maniera, sarebbe, forse, meno buona, meno istruttiva, meno conforme alla

realtà storica; ma forse piacerebbe di meno agli spettatori e li lascerebbe meno soddisfatti? I quattro primi atti sussisterebbero all’incirca come sono a-

desso,

e tuttavia

se ne trarrebbero

con-

clusioni completamente opposte. Tanto è vero che le rappresentazioni dell'amore impressionano sempre più dei principi della saggezza e che gli effetti di una tragedia sono del tutto indipendenti dallo svolgimento del finale *. Vogliamo sapere se è certo che, mostrando le conseguenze funeste delle passioni sfrenate, la tragedia insegna a garantirsene? Consultiamo la nostra esperienza: questi funesti effetti vengono fortemente rappresentati in Zaîra: causano la morte dei due amanti e tolgono a Orosmano molto più della vita, dato

che

costui

si suicida

solo

per

liberarsi dal più crudele sentimento che possa pervadere un animo umano: il rimorso di aver accoltellato la propria amata.

Queste

sono

in

effetti

lezioni

molto energiche. Sarei curioso di trovare qualcuno, uomo o donna, che potesse vantarsi di essere uscito dalla rap* Nel settimo volume di Pamela *, c'è un esame molto giudizioso dell’Andromaca di Racine, nel quale si nota che questa tragedia non

presentazione nei confronti

di

Zzira

ben

premunito

dell'amore. Per conto mio,

mi immagino che ogni spettatore, nel proprio intimo, alla tine della tragedia dica a se stesso: « Ah! che mi si dia una Zaira e farò in modo di non ucciderla ». Se le donne non si sono stancate dall'accorrere in massa a questa tragedia incantevole, né si sono stancate di spingere gli uomini a fare lo stesso, non dirò che ciò avviene per trarre incoraggiamento dall’esempio dell'eroina a non imitare un sacrificio che le riesce così male; ma perché, di tutte le tragedie

che

si

vedono

a

teatro,

nessun’al-

tra mostra con maggiore fascino la potenza dell'amore e l’imperio della bellezza; inoltre vi si impara anche a non giudicare dalle apparenze la propria amante. Una donna sensibile vede senza orrore,

in

Orosmano

che

immola

Zaira

alla gelosia, il trasporto della passione; è infatti minor male morire per mano del proprio amato che esserne poco amata. Si dipinga l’amore come si vuole: o seduce o non è amore. Se è male dipinto, la commedia

è scadente;

se è ben

dipinto, offusca tutto ciò che gli sta intorno.

Le

effetti

non

sue

lotte,

i

suoi

dolori,

le

sue sofferenze lo rendono ancora più commovente che se non avesse nessuna resistenza da vincere. I suoi tristi scoraggiano,

e

proprio

gra-

zie alle sventure che Io accompagnano esso diventa più interessante. Ci si dice a malincuore che un sentimento così delizioso consola qualunque sventura. Un'immagine così dolce intenerisce insensibilmente il cuore: della passione, si prende in considerazione solo il piacere,

non

il tormento.

Nessuno

si cre-

de obbligato a essere un eroe, ed è così che,

ammirando

l'amore

onesto,

ci si

abbandona all’amore criminale. Ciò che finisce col rendere pericolose queste immagini, è proprio quel che si fa per renderle più piacevoli; è il fatto che sulla scena le vediamo solo in animi riesce a raggiungere teso scopo.

più

delle

altre

il suo

pre-

LETTERA

230 onesti,

e che

i due

amanti

sono

sem-

pre modelli di perfezione. Come sarebbe possibile non provare interesse per una passione talmente affascinante, tra due animi il cui carattere è già in sé tanto interessante? Non credo che fra tutti

i nostri

drammi,

ce ne sia uno

in

cui l’amore reciproco non piaccia allo spettatore. Se un amante sfortunato arde di non corrisposta passione, viene subito respinto dal pubblico. Si crede di fare una cosa straordinaria nel rendere degno di stima oppure odioso un amante, a secondo

che sia fortunato o no nei

suoi amori; facendo sempre accettare dal pubblico i sentimenti della sua amante e dando alla tenerezza tutto l’interesse che compete alla virtù. Sarebbe invece opportuno insegnare ai giovani a sfuggire gli errori di una inclinazione cieca che crede sempre di basarsi sulla stima, a temere di abbandonare un animo virtuoso ad un oggetto indegno di lui. Conosco solo I{ Misantropo, in cui il personaggio principale faccia una scelta sbagliata*: rendere innamorato il Misantropo era facile; il colpo di genio consiste nell’averlo fatto innamorare di una civetta.

Per

il resto, tutto

il teatro con-

siste in una raccolta di donne perfette. Si direbbe quasi che vi si siano rifugiate tutte. Questa è un'immagine fedele della società? È così che si può rendere sospetta una passione che è la rovina di tanta gente onesta? Ancora un po’ e ci farebbero credere che un uomo onesto debba per forza innamorarsi e che una amante riamata debba essere necessariamente virtuosa. Proprio un bell'insegnamento! Ancora una volta non mi occupo di giudicare se sia giusto o ingiusto fondare sull'amore il principale interesse del teatro; ma è mia opinione che se talvolta le sue descrizioni sono pericolose,

continueranno

sempre

ad

esserlo,

qualsiasi cosa si faccia per travestirle. Affermo che voler correggere le impressioni con altre impressioni diverse che non le accompagnano nel fondo dell'ani* Aggiungiamo

splendida

commedia,

Il

Mercante

la cui

morale

di

Londra,

ottiene

di-

A D'ALEMBERT

mo o che l'animo presto distingue, equivale a parlare in mala fede del teatro, o a parlarne

con

ignoranza;

si tratta di

impressioni che ne nascondono anche i pericoli e conferiscono a questo sentimento

ingannatore

una nuova attrazione

grazie alla quale esso perde coloro che vi si abbandonano. Sia che si deducano dalla natura degli spettacoli, in generale, le forme migliori di cui essi sono suscettibili, sia che si esamini tutto ciò che i lumi di un secolo e di un popolo intelligente hanno creato per perfezionare i nostri; credo si possa concludere da queste considerazioni diverse che l’effetto morale degli spettacoli e del teatro non potrebbe mai essere di per se stesso salutare;

dato che, pur contandone solo i vantaggi, non vi si trova alcuna reale uti-

lità che sia priva di più importanti difetti. Ora, in seguito alla sua stessa inutilità,

il

teatro,

mentre

è

impotente

a

correggere i costumi, può fare molto per peggiorarli. Col favorire tutte le nostre inclinazioni, fornisce nuova potenza a quelle che ci dominano; le continue

emozioni cui veniamo sottoposti ci snervano,

ci

indeboliscono,

ci

rendono

in-

capaci di resistere alle nostre passioni; lo sterile interesse che viene prestato al.

la virtù non serve che a soddisfare il nostro amor proprio, senza costringetci

a praticarla. Quelli dei miei compatrioti che non disapprovano l’essenza stessa degli spettacoli, hanno dunque torto. Oltre a questi effetti del teatro, relativi alle cose rappresentate, ve ne sono altri non meno conseguenti, e che riguardano direttamente la scena e i personaggi rappresentati; ed è a questi che i già citati Ginevrini attribuiscono il gusto per il lusso, per l’ornamento, per la dissipazione di cui temono l’introduzione

fra di noi. Non è solo la frequentazione degli attori, ma anche quella del teatro, che può causare questo amore attraverso il suo apparato e attraverso gli abbigliamenti degli attori. Anche se non avesse

altro

rettamente medie

effetto

che

l'interruzione,

il suo scopo, più di tutte le com-

francesi

a me

note.

LETTERA

A D'ALEMBERT

231

in determinate ore, del corso degli affari pubblici e privati e l'offerta di un sicuro rifugio per l’ozio, non sarebbe possibile che la facoltà di poter andare

ogni

giorno,

regolarmente,

nello

stesso

posto per alienarsi da se stesso occupan-

dosi di cose estranee, non finisse col dare

al cittadino abitudini diverse e non gli formasse nuovi costumi. Ma questi cambiamenti sarebbero vantaggiosi oppure nocivi? È un problema che dipende più dall’osservazione del comportamento degli spettatori, che dall'esame degli spettacoli in se stessi. È sicuro che questi cambiamenti li condurrebbero tutti, più o meno,

allo stesso punto;

è dunque

in

base alla situazione in cui ognuno si trovava precedentemente che bisogna calcolare le differenze.

Quando i divertimenti sono, per loro natura, indifferenti (voglio considerare tali, per un momento, gli spettacoli), è

la natura delle occupazioni da loro interrotte che li fa giudicare buoni o cattivi;

soprattutto

se sono

abbastanza

at-

traenti per diventare essi stessi delle oc-

cupazioni,

e sostituire

il loro

piacere

a

quello del lavoro. I.a ragione vuole che vengano favoriti i divertimenti per le persone le cui occupazioni sono dannose, e che vengano distolte dagli stessi divertimenti quelle persone che svolgono,

al contrario,

un

lavoro

utile. Un'al-

tra considerazione generale consiglia di non lasciare che siano gli uomini oziosi e corrotti a scegliere la natura dei di. vertimenti, nel timore che essi li creino conformi alle loro inclinazioni viziose, e diventino dunque altrettanto pericolosi

nei

loro

divertimenti,

come

lo

sono nei loro affari. Ma consentite pure a un popolo laborioso di distrarsi dal proprio lavoro come e quando vuole; non bisognerà mai temere che esso abusi di questa libertà, né sarà necessario affannarsi per cercargli dei divertimenti piacevoli.

Infatti,

così

come

non

sono

necessarie grandi raffinatezze per i cibi cui l'astinenza e la fame fanno da condimento, così neppure ne bisognano molte per i divertimenti di chi è sfinito dal lavoro, di chi considera già il riposo come la più dolce delle cose. In una

grande città, piena di gente intrigante, sfaccendata, atea, priva di principi, la cui immaginazione, depravata dall'ozio, dalla scioperatezza, dallo sfrenato amore per il piacere e dalla moltitudine dei bisogni, genera solo mostruosità e ispira solo delitti; in una grande città in cui la morale e l'onore non valgono

‘nulla,

dato

che

ciascuno,

nascondendo

facilmente la propria condotta agli occhi del pubblico, si mostra soltanto grazie al proprio credito e viene reputato solo in base alle proprie ricchezze, l'autorità non si sforzerebbe mai abbastanza di moltiplicare i piaceri leciti operando per renderli più attraenti, per togliere ai cittadini la tentazione di cercarne di più pericolosi. Dato che impedire loro di far qualcosa equivale a impedir loro di fare del male, due ore al giorno tolte

all'attività del vizio impediscono la realizzazione di un dodicesimo dei crimini possibili. E tutto ciò che gli spettacoli

visti

strie,

arti,

o da

vedere

causano,

come

manifatture,

bisogna

aste-

le riunioni nei caffè e in altri luoghi frequentati dai fannulloni e dai delinquenti della città, è ancora tanto di guadagnato per i padri di famiglia, sia riguardo all'onore delle loro figlie e delle loro mogli, sia riguardo alla loro borsa o a quella dei loro figli. Ma nelle piccole città, nei luoghi meno popolati, in cui i cittadini, sempre sotto gli occhi del pubblico, sono naturalmente i censori l'uno dell’altro, e dove la polizia può facilmente osservare l’attività di tutti, bisogna seguire principi del tutto opposti. Se ci sono indunersi dall’offrire distrazioni che- rilas: sano il severo interesse che fa diventare piacere il proprio lavoro e arricchisce il governo grazie all’avarizia dei sudditi. Se un paese privo di commerci abitua gli abitanti all’ozio, invece di fomentare in essi la scioperatezza alla quale una vita facile e tranquilla li dispone fin troppo, è necessario rendergliela odiosa spingendoli, a forza di annoiarli, a utilizzare fattivamente un tempo che non saprebbero come impiegare. Noto che a Parigi, dove tutto viene giudicato in base alle apparenze, poiché manca il

LETTERA

232 tempo di esaminare a fondo alcunché, si pensa, dall'aspetto inattivo e languido per cui la maggior parte delle città di provincia ci colpiscono ad un primo sguardo, che gli abitanti, immersi in un futile ozio, non s'occupino d'altro che di vegetare o darsi reciprocamente fastidio o litigare. È un errore che sarebbe facile correggere, pensando che la maggior parte dei letterati che brillano a Parigi, la maggior parte delle invenzioni utili e nuove provengono dalle tanto disprezzate province. Passate un po’ di tempo in una piccola città, nella quale avreste supposto di trovare solo degli automi;

non

persone mie

quasi

molto

solo

delle grandi

oscuri,

sempre che

vi

più

troverete

sensate

città,

uomini

ma

subito

delle

scim-

vi scoprirete

di genio,

vi sorprenderanrio

con

anche

i lo-

ro talenti, con le loro opere e che voi sorprenderete ancor più col tributargli la

vostra

ammirazione,

e che,

nel

mo-

strarvi dei prodigi di lavoro, di pazien-

za, e di industriosità, crederanno di aver-

vi mostrato delle cose che sono comuni a Parigi. Questa è la semplicità dei geni autentici; essi non sono né intriganti né attivi; ignorano la strada degli onori e della fortuna né pensano

no,

meno

A D'ALEMBERT

disperso,

meno

annegato

fra

le opinioni volgari, si elabora e fermenta meglio nella tranquilla solitudine, dato che osservando meno cose se ne inventano di più; infine perché, meno pressati dal tempo, si ha più facilità ad allargare e indirizzare le proprie idee. Mi ricordo di aver visto, quando ero giovane, presso Neuchîtel, uno spettacolo molto piacevole e forse unico al mondo: una montagna intera coperta di case delle quali ciascuna sta al centro dei campi che ne dipendono; in modo che queste case, sepalfate da distanze proporzionali alle ricchezze dei loro proprietari, offrono contemporancamente ai numerosi abitanti di questa montagna il raccoglimento tipico di un eremo e i piaceri della società. Questi felici contadini, tutti agiati e liberi da tasse, imposte, balzelli, corvè, coltivano con tut-

ta la cura possibile dei campi il cui prodotto tocca a loro, e usano il tempo libero che questa coltivazione lascia loro per costruire con le loro stesse mani mille cose utili e per mettere a profitto la genialità inventiva fornita loro dalla natura. Soprattutto d'inverno, tempo in cui il livello delle nevi impedisce una facile

comunicazione,

ognuno

di

essi,

a cercarli; non fanno confronti con nessuno: traggono ogni risorsa da se stessi,

chiuso al calduccio con la sua famiglia nella sua bella casetta di legno* così

sibili

occupa con mille piacevoli lavori che allontanano la noia del suo asilo e aumentano il suo benessere. Mai nessun

sono

insensibili alle

alle offese e poco

lodi;

se conoscono

se

sen-

stessi,

non si assegnano un posto, e godono di se stessi senza sopravvalutarsi.

pulita,

che

ha

costruito

da



solo,

si

In una piccola città si trova, proporzionalmente, una attività senza dubbio minore di quella propria di una capitale: perché le passioni vi sono meno vive e i bisogni meno pressanti; ma vi si trovano più spiriti originali, più industrio-

ebanista, magnano, vetraio, tornitore professionista è entrato in questo paese;

perché si è meno

uno che non sia stato costruito dal capofamiglia. Resta ad essi anche del tempo per inventare e costruire mille di.

sità

scuno,

inventiva, avendo

più

autentiche

novità,

imitatori, perché cia-

meno

modelli,

ricava più

cose da se stesso e mette più di suo in tutto ciò che fa; perché lo spirito uma* Mi sembra di sentire rito di Parigi protestare a molti altri, purché non sia dimostrare dottamente alle soprattutto alle signore che strano) che è impossibile che

qualche bello spiquesto punto e a lui a leggere, e signore (perché è questi tipi dimouna casa di legno

tutti fanno questi lavori per se stessi, nessuno per gli altri; nella quantità di mobili comodi e persino eleganti che compongono il loro arredamento e abbelliscono

versi

la loro casa,

strumenti

di

non

acciaio,

se ne vede

di

legno,

di

sia calda: «Che menzogna grossolana! che errore di fisica! Ah, povero autore! ». Sì, certo,

si

tratta

di

una

dimostrazione

inconfutabile.

Ma tutto quello che so è che gli svizzeri scorrono l'inverno al calduccio, in mezzo nevi, in case di legno.

traalle

LETTERA cartapesta

A D'ALEMBERT che

vendono

233

agli

stranieri;

molti di questi oggetti arrivano fino a Parigi, fra gli altri quei piccoli orologi di legno che vi si vedono da qualche an no a questa parte. Ne costruiscono anche in ferro, fanno anche orologi da tasca e. cosa incredibile, ognuno di loro riunisce in sé tutte le diverse professioni in cui si suddivide l’orologeria, e si costruisce da sé i propri strumenti. Non è tutto: possiedono anche libri utili e sono abbastanza istruiti; ragionano in modo molto sensato di tutti gli argomenti, di molti di essi addirittura con spirito *. Costruiscono sifoni, calamiti, occhiali, pompe, barometri, came-

re oscure; le loro stanze sono tappezzate da una quantità di strumenti diver-

si;

scambiereste

facilmente

la cucina

di

un contadino con una officina meccanica o con un laboratorio di fisica sperimentale. Tutti conoscono un po’ di disegno, di pittura, di aritmetica; la maggior parte di loro suonano il flauto, molti conoscono un po’ la musica e cantano

armoniosamente.

Queste

arti

non

vengono insegnate loro da maestri, ma le derivano, per così dire, per tradizione: di quelli che io ho conosciuto e che sapevano la musica, uno mi diceva averla imparata dal padre, un altro dalla zia, un altro dal cugino,

alcuni credeva.

forte e maschia

di Goudimel #,

no di averla sempre saputa. Uno dei loro svaghi più comuni è quello di cantare i salmi in quattro parti insieme alle mogli e ai figli; si resta stupiti nel sentire uscire da queste capanne rustiche la armonia

dimenticata ormai da tanto tempo dai nostri sapienti artisti. Non potevo fermarmi mentre visitavo queste belle casette, che gli abitanti mi offrivano sempre la più franca ospitalità. Purtroppo ero giovane: la mia curiosità non era che quella di un fanciullo e pensavo a divertirmi piuttosto che a istruirmi. Dopo trenta anni, le poche osservazioni compiute in quei tem* Passo

citare

come

esempio

un

uomo

di

merito, molto noto a Parigi e ripetutamente onorato dai suffragi dell'Accadernia delle scienze: si tratta del signor Rivaz, celebre vallese ”.

pi hanno abbandonato la mia memoria. Ricordo solamente che in quegli uomini ammiravo continuamente un meravi. glioso insieme di finezze e di semplicità, cose che apparirebbero contrastanti tra loro, e che

non

ho

più

trovato

da

nes-

suna altra parte. Comunque non ricordo

altro dei loro costumi, della loro società,

dei loro caratteri. Adesso che sarei capace di guardarli con occhi diversi, non potrò più vedere quel paese felice? Ahi. mè! è sulla strada per arrivare al mio. Dopo questa breve descrizione, supponiamo che sulla montagna di cui ho parlato, in mezzo alle case, venga costruito un teatro fisso e poco costoso, col pretesto, per esempio, di offrire un onesto divertimento a persone continuamente occupate e in grado di sostenere una piccola spesa; ammettiamo che questa gente si appassioni a tale spettacolo e vediamo che cosa può derivare da una tale istituzione. Mi

accorgo

come

ptima

cosa

che,

da

quando il loro lavoro non sarà più il loro divertimento avendone acquistato uno nuovo, quest'ultimo li allontanerà dal primo; lo zelo non produrrà più tanto tempo libero e non sarà più origine

delle

stesse

invenzioni.

Del

resto,

ci sarà ogni giorno una reale perdita di tempo per quelli che assisteranno agli spettacoli; non si ricomincia a lavorare quando la propria immaginazione è piena di quello cui si è appena assistito: se ne discute o vi si pensa. Conseguentemente il primo danno sarebbe un rallentamento del lavoro. Anche se si paga poco all'ingresso, è sempre una spesa che prima non veniva fatta. Si deve pagare per se stessi, per la moglie, e quando li si porta, anche per i figli; e spesso bisogna portarceli. Oltre a ciò, un operaio non si mostra in pubblico col vestito da lavoro: deve mettersi perciò più spesso l’abito da festa, cambiarsi più spesso la biancheria,

incipriarsi,

radersi;

tutto

questo

costa

So che non molti dei suoi compatrioti gli assomigliano, ma alla fine è vivendo come loro che ha appreso a superarli.

LETTERA

234 tempo e denaro, Dunque, come secondo danno, l'aumento delle spese. Un lavoro meno continuo e un aumento delle spese devono essere rimborsati;

tale

rimborso

verrà

ottenuto

tra-

mite il prezzo dei lavori, che verrà au-

mentato; molti mercanti, seccati da questo aumento, abbandoneranno i Monta-

gnoni*

e

acquisteranno

presso

altri

Svizzeri loro vicini, che, senza essere meno lavoratori, non hanno teatro e non aumentano i prezzi; perciò, come terzo danno, la diminuzione delle vendite.

Quando

non

il tempo è cattivo, le strade

sono

praticabili;

dato

che

biso-

gnerà sempre che la compagnia teatrale possa mantenersi anche in questi periodi, essa non interromperà le rappresentazioni. Non sarà dunque possibile evitare di andare a teatro con qualsiasi tempo faccia. Durante l'inverno sarà necessario spalare la neve dai sentieri, forse

pavimentarli;

Dio

voglia

che

non

si debba anche fornirli di lampioni, Ecco le spese pubbliche e di conseguenza i contributi privati. Organizzazione del fisco: quarto danno. Le mogli dei Montagnoni,

andando

a

teatro,

prima

per

vedere e poi per essere viste vorrebbero

vestirsi,

e vorranno

farlo

con

La moglie del castellano terà mai di mostrarsi vestita la del maestro di scuola; la maestro di scuola cercherà di

eleganza.

non accetcome quel. moglie del abbigliarsi

come quella del castellano. Da ciò nascerà presto l'emulazione nell’ornarsi, che finirà col rovinare i mariti, e forse

li convincerà a trovare. sempre nuovi mezzi per eludere le leggi suntuarie. Introduzione del lusso: quinto danno. Tutto il restoè facile immaginarlo. Senza considerare gli altri inconvenienti

che

ho enumerato,

o che

enumererò

in

seguito, senza considerare il tipo di spettacolo e i suoi effetti morali, mi limito solo a ciò che riguarda il lavoro e il guadagno: mi sembra di poter di. mostrare, in modo

evidentemente

conse-

guente, che un popolo ricco, ma che deve solo alla propria industriosità questa ricchezza, scambiando la realtà con le * È questo

il nome

che

vien

dato,

nel paese,

A D’ALEMBERT

apparenze, si rovini nel momento stesso in cui vuole brillare. Del resto, non bisogna scandalizzarsi contro l’aspetto astratto della mia supposizione; la do come tale e voglio solo rendere più o meno evidenti le sue inevitabili conseguenze. A parte alcune

circostanze,

troverete

anche

altrove

dei Montagnoni e, wmutatis mutandis, l'esempio ha una sua applicazione. Così anche se fosse vero che gli spettacoli non

sono

negativi

in se stessi,

bisogne-

rebbe sempre domandarsi se non lo diventino nei confronti di quel popolo cui sono destinati. In certi posti saranno utili per attirare i turisti, per aumentare

la circolazione delle valute, per stimolare gli artisti, per cambiare le mode, per dare da fare alla gente troppo ricca o che aspira a diventarlo, per renderla meno nociva, per distrarre il popolo dal. le sue

propri per

miserie,

capi

per

fargli

mostrandogli

conservare

e

dimenticare

dei

perfezionare

pagliacci,

i

il gusto

quando ormai l'onestà è stata perduta, per coprire con la vernice delle buone maniere la bruttezza del vizio, per impedire,

in

una

e

a

parola,

che

i cattivi

co-

l’amore

per

stumi degenerino nel banditismo. In altri luoghi, gli spettacoli servirebbero solo a distruggere l'amore per il lavoro, a scoraggiare l'industria, a rovinare i privati

l’ozio, vivere

a far

senza

ispirar

loro

loro cercare

lavorare,

i mezzi

a rendere

un

per po-

polo ozioso e vile, a impedirgli di vedere quali siano i problemi pubblici e

privati di cui debba occuparsi, a sostituire con la comicità la vera saggezza, a

sostituite

il gergo

del

teatro

alla

pra-

tica delle virtù, a far diventare la morale una concezione metafisica, a trave-

stire i cittadini in begli spiriti, le ma dri di famiglia in donne facili e le figlie in innamorate da teatro. L'effetto generale sarà lo stesso su tutti gli uomini, ma gli uomini così cambiati converranno di più o di meno al loro paese: diventando uguali, i malvagi ci guadagneranno, gli onesti ci perderanno ancorta di più; tutti acquisteranno un caagli

abitanti

della

montagna.

LETTERA

A D’ALEMBERT

235

rattere di mollezza, un’inclinazione all'ozio, che agli uni toglierà la pratica delle grandi virtù, e impedirà agli altri di organizzare grandi crimini. Da queste nuove riflessioni deriva una conseguenza completamente contraria a quella che traevo dalle prime; ovvero che, quando il popolo è corrotto, gli spettacoli sono positivi per lui, mentre sono negativi solo quando questo è buono. Sembrerebbe dunque che questi effetti opposti debbano annullarsi tra loro, e che gli spettacoli debbano rimanere indifferenti a tutti gli effetti; ma c'è questa differenza: che l'effetto che rinforza

il bene

e il male,

essendo

deri-

vato dallo spirito delle commedie, è come esse soggetto a mille modificazioni che lo riducono quasi a niente; mentre quello che cambia il bene in male e il male in bene, poiché risulta dalla stessa

essenza dello spettacolo, è un effetto costante, reale, che è presente continua-

mente, e che alla fine prevarrà. Da ciò deriva che, per poter

care

se

sia opportuno

o meno

giudi-

istituire

un teatro in una qualunque città, bisogna prima sapere se la morale di quest’ultima sia buona o cattiva; problema sul quale, forse, non è mio diritto pronunciarmi in questa sede. Comunque sia, tutto ciò che posso concedere su questo punto è che la commedia non ci farà del male solo quando nulla ormai potrà farcene. Per prevenire gli inconvenienti che possono derivare dall’esempio degli attori, voi vorreste che li si obbligas se a essere onesti. In questa maniera, voi dite, sarebbe possibile far convivere la morale e gli spettacoli, e si potrebbero avere al tempo stesso gli uni e gli altri. Spettacoli e buoni costumi! Ecco una cosa che sarebbe veramente degna di esser vista, tanto più che sarebbe la prima volta. Ma quali sono i mezzi che voi suggerite per frenare l’immoralità degli attori? Leggi severe e bene applicate. Questo significa, per lo meno, ammettere

che nati, sono re?

essi hanno bisogno di essere free che i mezzi per tale scopo non di facile applicazione. Leggi seveLa prima è quella di non soppor-

tarli. Se noi | infrangiamo, che cosa diventerà la severità delle altre? Leggi bene applicate? Il problema è sapere se ciò sia possibile: infatti la forza delle leggi ha una sua misura, ma anche quella dei vizi che esse reprimono ha la sua. È solo dopo aver confrontato queste due quantità e trovato che la prima supera la seconda, che ci si può rassicurare riguardo all'applicazione delle leggi. L’autentica scienza della legislazione consiste nella conoscenza di tali rapporti: infatti, se si trattasse soltanto di emettere decreti su decreti, regolamenti su regolamenti, allo scopo di rimediare agli abusi man mano che si presentano, verrebbero dette, senza dubbio, tante

belle cose, ma che nella maggior parte finirebbero col restare senza effetti e servirebbero più come consigli sul modo di agire, che come regole di comportamento. In fondo, l’istituzione delle leggi non è cosa tanto eccezionale che ogni uomo, con un po' di buon senso e di giustizia, non possa trovare da solo quelle che opportunamente osservate sarebbero più utili alla società. Qualunque studente di diritto sarebbe capace di fabbricare un codice morale altrettanto puro di quello di Platone. Ma non si tratta solo di questo; si tratta di conformare così profondamente questo codice allo spirito del popolo per cui esso è stato preparato e alle cose sulle quali si fanno le leggi, che l'esecuzione possa derivare dal solo concorso di questi fattori; si tratta di imporre al popolo, così come fece Solone, non tanto leggi migliori in se stesse, quanto piuttosto le migliori fra quelle che possono derivare dalla presente situazione. Altrimenti sarebbe ancora meglio lasciar sussistere i disordini, piuttosto che impedirli o prevenirli con leggi che non possono mai essere osservate; mediare al male,

stigio delle leggi. Un'altra

infatti, oltre a non risi diminuirebbe il pre-

osservazione,

non

meno

im-

portante, è che le cose riguardanti la morale e la giustizia universale non possono essere regolate come quelle riguardanti la giustizia privata e il diritto immutabile, cioè con editti e leggi; co-

236

LETTERA

munque,

sono

se qualche

influire

sulla

volta le leggi pos

morale,

ciò

avviene

allorché traggono la loro forza da quest'ultima. Allora esse le rendono questa stessa forza per una reazione ben conosciuta agli autentici uomini politici. Il primo atto degli Efori che entravano in carica a Sparta era un pubblico editto per mezzo del quale obbligavano i cittadini, non a osservare le leggi, quanto ad amarle, perché osservarle non pesasse

loro.

Questo

proclama,

che

non

era una formula priva di significato, mostra perfettamente quale fosse lo spi. rito delle istituzioni spartane, grazie alle quali le leggi e la morale, intimamente legate nell'animo dei cittadini, vi costituivano, per così dire, un corpo unico. Ma non illudiamoci di veder rina-

scere Sparta in mezzo al commercio e al-

l’amore per il denaro. Se noi avessimo gli stessi principi, si potrebbe istituire, senza

rischi,

un

teatro

a Ginevra:

nessun cittadino o nessun metterebbe piedi. In che modo,

dunque,

borghese

il governo

mai

vi

può

influenzare i costumi? Rispondo: attraverso l'opinione pubblica. Se Ie nostre

abitudini, dai nostri

allorché siamo soli, nascono stessi sentimenti, nella socie-

tà nasceranno dalle altrui opinioni. Quando

non

si

vive

rinchiusi

in

se

stessi,

ma attraverso gli altri, sono i giudizi di costoro che regolano in tutto e per tutto la nostra opinione; niente sembra buono o desiderabile agli individui se non ciò che il pubblico ha giudicato tale. La sola felicità per la maggior parte degli uomini consiste nell'essere reputati felici. Riguardo alla scelta di strumenti adat-

ti a dirigere la pubblica opinione, si tratta di una questione diversa, e che sarebbe inutile risolvere al vostro posto, né è questo il momento di risolverla per conto della massa. Mi limiterò a dimostrare, con un esempio concreto, che tali strumenti non sono né le leggi, né le pene, né alcun altro tipo di strumenti di coercizione. Questo esempio vi sta davanti agli occhi, è dalla vostra patria che io lo traggo: è quello del tribunale dei marescialli di Francia, con-

A D’ALEMBERT

siderati giudici supremi delle questioni di onore. Di che cosa si occupa questa istituzione? Di modificare l'opinione del pubblico riguardo ai duelli, alla riparazione delle offese, e riguardo a quelle occasioni in cui un uomo onesto è costretto,

pena

l'infamia,

a lavare

con

la

spada le offese. Da ciò deriva che, in primo luogo, dato che la forza non ha alcun potere sullo spirito, era necessario eliminare con la massima cura qualsiasi violenza da un tribunale che era stato creato per operare un tale cambiamento. La stessa parola di tribunale era mal concepita; preferirei quella di corte d'onore. Sue sole armi dovrebbero essere l'onore e l’infamia: mai una ricompensa utile, mai una punizione corporale, mai una prigione, niente arresti, nessuna guardia armata; solo un ufficiale giudiziario che avrebbe fatto la citazione, toccando l’accusato con una bacchetta bianca, senza

che da ciò conseguissero altre costrizioni per farlo comparire in giudizio. È vero che il non comparire di fronte ai giudici, entro

il termine

fissato, avrebbe

si-

gnificato confessarsi privi d'onore, sarebbe stato un condannarsi da se stessi. Da questo fatto sarebbe evidentemente risultata una nota d'infamia, una degradazione di nobiltà, una incapacità di servire il sovrano nei tribunali, negli eserciti, e altre punizioni di questo tipo, riferentesi direttamente all'opinione o che ne sarebbero un necessario effetto. Ne deriverebbe, in secondo luogo, che, per sradicare il pubblico pregiudizio, sarebbe necessario che i giudici avessero una grande autorità in materia; e riguardo a questo punto, chi lo aveva istruito era perfettamente entrato nello spirito di una tale istituzione: infatti, in un popolo di guerrieri, chi, meglio di vecchi militari carichi di onore, incanutiti fra gli allori e che abbiano provato cento volte a prezzo del loro sangue di non ignorare quando il dovere esige che questo venga sparso, chi meglio di loro può giudicare quali siano le occasioni opportune per mostrare il proprio coraggio €

LETTERA

237

A D'ALEMBERT

i casi in cui l'onore offeso chieda soddisfazione? Ne

deriva,

in terzo

luogo,

che,

nulla

essendo più indipendente dai supremi poteri che il giudizio del pubblico, il sovrano dovrebbe guardarsi, su ogni argomento, di intromettersi con decisioni arbitrarie fra i decreti emessi per rappresentare

questo

giudizio,

e, cosa

ancora

più grave, per determinarlo. Avrebbe do-

vuto,

al

contrario,

sforzarsi

di

mettere©

la corte d'onore al di sopra di se stesso, sottomettendosi ai suoi rispettabili decreti. Non bisognava dunque cominciare col condannare a morte tutti i duellanti indistintamente, il che significava crea-

re, tutto d'un tratto, un'opposizione cla-

morosa fra legge e onore, visto che la legge non può condannare nessuno a perdere l'onore. Se tutto un popolo giudica vigliacco un uomo, il re, nonostante la sua potenza, avrà un bel dichiararlo coraggioso, nessuno vi crederà; quest’uo-

mo, passando per un vigliacco che vuole essere

onorato

a tutti

i costi,

verrà

disprezzato ancora di più. Riguardo a quel che dicono gli editti, ovvero che battersi in duello significa offendere Dio, questo è senza dubbio un parere molto pio, ma la legge civile non giudica i peccati. Ogni volta che l'autorità regia vorrà mescolarsi ai conflitti fra l'onore e la religione, essa si comprometterà con ambedue le parti. Né gli editti sono più ragionevoli quando affermano che, invece di duellare, bisogna rivolgerci ai mare-

feroce pregiudizio che ad essa si oppone;

ma

non

avviene

la

stessa

cosa

al-

lorché venga offeso l'onore di persone a cui è legato il nostro. In tal caso non è più possibile alcun accomodamento: se mio padre è stato schiaffeggiato, se mia sorella, mia moglie o la mia amante vengono offese, come potrò conservare il mio onore senza tener conto del loro? Non bastano né i marescialli, né le soddisfazioni; è necessario che io faccia vendetta, o sarò disonorato; i decreti

non mi lasciano scelta: l'esecuzione o l'infamia. Per citare un esempio che riguarda direttamente il problema in discussione, non c'è forse perfetto accordo tra lo spirito del teatro e quello delle leggi, nel fatto che si va a teatro per applaudire quello stesso Cid, che altrimenti andremmo a vedere impiccare alla Grève? Si ha un bel dire; né la ragione, né la virtù, né le leggi potranno vincere la pubblica opinione fino a quando non verrà trovato il modo di modificarla. Ancora una volta quest'arte non ha nulla a che fare con la violenza. I mezzi stabiliti, nel caso in cui venissero applicati, servirebbero solo a punire gli uomini

onesti e a salvare i vili; ma

for-

na, significa giudicare da se stessi ciò che normalmente viene rinviato a loto giudizio. Si sa che non è permesso ai marescialli di concedere il duello anche

tunatamente tali mezzi sono troppo assurdi per poter essere applicati, sono serviti soltanto per cambiare il nome dei duelli. Come bisognava comportarsi, dunque? Credo che fosse necessario sottomettere completamente i combattimenti privati alla giurisdizione dei marescialli, per giudicarli, per prevenirli o anche per permetterli. Non solo bisognava lasciar loro il diritto di accordare il campo quando lo ritenevano necessario; ma era importante che usassero

d'uscita per l'onore offeso; secondo i pregiudizi diffusi, tali casi sono frequen-

to per togliere al pubblico un'idea ab. bastanza difficile da distruggere, e che

cui si è creduto di poter ripagare la parte lesa, sono giuochi puerili. Date a un uomo il diritto di accettare una riparazione per se stesso e di perdonare il suo avversario: comportandovi abilmente, potrete piano piano sostituire questa regola di condotta al

cioè che nelle questioni di loro competenza essi giudicano più in base alla volontà del principe che al proprio sentimento. Allora non ci sarebbe vergogna a domandar loro di accordare il duello

scialli; duello,

nei

condannare senza distinzione il condannarlo senza riserva alcu-

casi

ti, perché

in

cui

non

restino

le soddisfazioni

altre

vie

formali,

con

talvolta

di questo

da

abolisce

sola

diritto,

tutta

la

anche

loro

soltan-

autorità,

nel caso in cui fosse necessario; e neanche nell’astenersene, allorché i motivi

238

LETTERA

per accordarlo non fossero considerati sufficienti; ci sarà sempre qualcuno che dirà

loro:

«Sono

stato

offeso,

fate

in

modo che io non sia costretto a battermi ». In questo modo, i duelli segreti cadrebbero

senz'altro

in disuso,

dato che,

essendo l’onore offeso in grado di difendersi, e il coraggio in grado di essere ostentato sul campo di battaglia, chi si fosse nascosto allo scopo di potersi battere,

verrebbe

sersi

battuti

sospettato,

mentre

quelli

che la corte d'onore avesse giudicato esmale *, verrebbero

deferiti

il fatto comincerebbe

col co-

ai tribunali comuni come vili assassini. Convengo che, venendo parecchi duelli giudicati solo dopo essersi conclusi, e molti altri invece venendo solennemente autorizzati,

stare la vita a non

pochi

uomini

dab-

bene; ma questo servirebbe in seguito per salvare un'infinità di altre persone,

mentre, invece, dal sangue versato in opposizione alla legge nascono motivi perché se ne versi ancora. Che cosa sarebbe successo in seguito? A misura che la corte d’onore avesse acquistato autorità sull’opinione pubblica, grazic alla saggezza e al peso delle sue decisioni, sarebbe divenuta pian piano più severa, fino al punto che, riducendosi a nulla i motivi legittimi, il punto d'onore avrebbe mutato i propri principi, i duelli sarebbero stati completamente aboliti. In realtà non ci sono state

tante

tuzione i duelli perché ti; ciò costumi mento verse e

difficoltà,

ma

tuttavia

l’isti-

è risultata inutile. Se oggigiorno sono più rari, ciò non avviene essi vengono disprezzati o puniavviene perché sono cambiati i **: la prova che questo cambiaproviene da cause del tutto dinelle quali il governo non ha

* Male nel senso di essersi da vigliacchi o con inganno,

battuti non solo ma anche senza

giusto motivo e senza ragione; cosa questa che

sarebbe stata dedotta come evidente in tutti i casi non portati di fronte al tribunale. ** Un tempo gli uomini si bisticciavano nelle taverne; li si è disgustati di questo divertimento primitivo, offrendogliene altri con facilità, Un tempo si squartavano per un'amante; vivendo in familiarità con le donne, si sono

A D'ALEMBERT

nulla a che fare, la prova che la pubblica opinione non è cambiata assoluta mente a questo riguardo, è che, dopo tante inutili precauzioni, qualsiasi gentiluomo che non chieda che gli venga resa ragione per un affronto non è meno disonorato di un tempo. Una quarta conseguenza dello scopo

della medesima istituzione è che, dato che nessun uomo può vivere civilmente

senza onore, tutte le classi in cui si porta abitualmente la spada, da quella principesca a quella militare, e anche quelle classi che non la portano, devono sottostare a questa corte d'onore; le prime per rendere conto del loro comportamento e delle loro azioni, le seconde per render conto dei loro discorsi e dei loro principi. È tutte restano ugualmente soggette a essere onorate 0 disonorate a secondo della conformità o della opposizione della loro vita o dei loro sentimenti ai principi dell'onore stabiliti nella nazione e riformati insensibilmente per opera del tribunale, in base alle massime della giustizia e della ragione. Limitare questa competenza ai nobili e ai militari, significherebbe tagliare i rami e lasciar perdere le radici; infatti, se è l'onore che spinge la nobiltà ad agire, esso spinge il popolo a parlare; gli uni si battono solo perché gli altri li giudi. cano, e per cambiare le azioni di cui la pubblica stima è l'oggetto bisogna innanzi tutto modificare i giudizi che se ne danno. Sono convinto che non si riuscirà mai a cambiare questi fatti, sen-

za farvi intervenire anche le donne,

dal.

le quali dipende in gran parte il modo di pensare degli uomini. Da questo principio deriva inoltre che il tribunale deve essere più o meno temuto dalle diverse classi, in propor-

accorti che non valeva la pena di battersi per loro. Tolte l'ubriachezza e le donne, restano pochi motivi sufficienti per litigarsi. Nel mondo ci si batte ormai solo per motivi di giuoco. I militari si battono soltanto per alcune prerogative, o per non essere costretti ad abbandonare il servizio. In questo secolo illuminato, tutti sanno calcolare quanto valga il proprio onore e la propria vita.

LETTERA

239

A D’ALEMBERT

zione alla quantità maggiore o minore di onore che esse hanno da perdere, secondo le idee comuni che in tale caso

bisogna sempre prendere come regola. Se l'istituzione funziona bene, i nobili

e i principi devono tremare al solo sentire nominare la corte d'onore. Sarebbe stato

necessario

che,

nell'’istituirla,

le

si fossero portati davanti tutti i contrasti personali esistenti allora tra i Pari del regno; sarebbe stato opportuno che il tribunale li avesse giudicati definitivamente, per quanto possibile, secondo le leggi dell'onore; sarebbe stato opportuno che tali giudizi fossero i più severi possibili, che vi fossero state degradazioni di precedenza e di rango, personali e indipendenti dal diritto dei posti; che venissero comminati divieti di portare le armi o di comparire in presenza del sovrano, o altre punizioni simili, in sé prive di valore, ma gravi secondo la pubblica opinione, sino ad arrivare all'infamia compresa, che si sarebbe potuta considerare come la pena capitale decretata dalla corte d’onore. Tutte queste pene, con il concorso dell’autorità

sovrana,

avrebbero

dovuto

comportare gli stessi effetti che comportano normalmente i giudizi pubblici allorché la forza non ne annulla le decisioni; il tribunale non avrebbe dovuto giudicare delle cose prive di importanza, né avrebbe dovuto mai lasciare i giudizi in sospeso; lo stesso re avrebbe dovuto esservi citato quando gettò il suo bastone dalla finestra per paura, così disse, di picchiare un gentiluomo *; avrebbe dovuto comparire, come accu-

sato, insieme al suo avvocato, essere giudicato solennemente, condannato a

una riparazione verso il gentiluomo per l'offesa indiretta che gli aveva fatto; al tempo stesso il tribunale avrebbe dovuto offrirgli un premio d'onore per la moderazione che aveva mostrato nella sua collera. Questo premio, che doveva essere un segno molto semplice ma visibile, portato dal re per tutta la vita, sarebbe stato, io credo, un ornamento

dei

sd Il signor di Lauzun. Ecco, secondo colpi di bastone che sarebbero stati

me, dati

più onorevole di quelli reali e sarebbe diventato oggetto delle canzoni di numerosi poeti. È sicuro che, quanto all'onore, i re sono soggetti più che gli altri al giudizio del pubblico, e possono di conseguenza comparire senza abbassarsi davanti al tribunale che lo rappresenta. Luigi XIV era capace di simili azioni e sono sicuro che le avrebbe compiute se qualcuno gliele avesse suggerite.

Pur

con

altre simili,

tutte

queste

è dubbio

precauzioni,

che vi si sarebbe

e

riusciti: dato che una tale istituzione è completamente contraria allo spirito della monarchia; ma quel che è certo è che, per averle trascurate, per aver voluto mescolare la forza e la legge in materia di pregiudizi e cambiare i principi dell'onore tramite la violenza, abbiamo compromesso l'autorità reale e rese degne di disprezzo leggi che oltrepassavano il loro potere. Eppure

in cosa consisteva questo pre-

giudizio che si voleva distruggere? Ncll’idea più assurda e barbara che sia mai entrata nello spitito umano, ovvero che si possa supplire con l'audacia a tutti i doveri sociali; che un uomo non è più disonesto, briccone, che diventa civile,

calunniatore, ma umano, educato,

quando è capace di battersi bene; che la menzogna diventa verità, il furto diventa legittimo, la perfidia diventa onesta, l'infedeltà diventa degna di lode non appena tutto ciò venga sostenuto con la spada alla mano; che un affronto è sempre riparato sufficientemente con un colpo di spada, e che non si ha mai

torto nei confronti di una persona, pur-

ché la si uccida.

Esiste,

lo ammetto,

un

altro tipo di duello in cui la cortesia si unisce alla crudeltà e in cui la gente viene uccisa per puro caso; ed è quello in cui ci si batte al primo sangue. Al primo sangue! Buon Dio! E cosa vuoi fartene di questo sangue, bestia feroce? Vuoi berlo? Come si può pensare a simili orrori senza commuoversi? Tali sono i pregiudizi che i re di Franmolto nobilmente.

240

LETTERA

cia, coadiuvati da tutta la forza pubblica, hanno tentato in vano di attaccare. Il pregiudizio, signore del mondo, non è stato piegato dal potere sovrano; sono anzi i re ad esserne i primi schiavi, Chiudo questa lunga digressione, che purtroppo non sarà l’ultima; e da questo esempio forse troppo brillante, ritorno,

si parva licet componere

magnis,

a più semplici esempi. Uno degli infallibili

effetti

del

teatro,

se

esso

viene

istituito in una città piccola come la nostra, sarà quello di mutare i nostri principi o, se si preferisce, i nostri pregiudizi e la nostra opinione pubblica; il che cambierà per forza i nostri costumi in favore di altri, migliori o peggiori non

lo so ancora,

ma

senza dubbio

me-

no adatti per la nostra costituzione. Vi domando, Signore, con quali leggi efficaci potrete rimediare a ciò. Il governo può influire molto sui costumi ma solo nella averli

sua costituzione determinati, non

cambi

esso

capacità

di

cambiarli,

stesso,

ma

iniziale; solo non

tranne ha

che

dopo ha la

difficoltà

non

an-

che nel conservarli contro gli inevitabili incidenti che li minacciano e contro la naturale decadenza che li altera. L'opinione

cile da

pubblica,

governare,

bile e mutevole.

anche

se così difft-

è in se stessa

mo-

Il caso, mille cause for-

tuite, mille circostanze impreviste compiono ciò che la forza e la ragione non sarebbero mai capaci di fare; o piuttosto, è proprio per il fatto che sono dirette dal caso che la forza non ha alcun una

potere su di esse; come i dadi che, volta partiti dalla mano, non se-

gnano il punto desiderato, qualunque sia l'impulso a cui sono stati sottoposti. Tutto ciò che la saggezza umana può

fare, è di prevenire i cambiamenti, di ar-

restarne le cause fin dall'origine; ma non appena questi cambiamenti siano tollerati e autorizzati, è difficile rimanere

padrone dei risultati, né si può mai essere sicuri di esserlo. Come fare dunque per evitare quelli di cui abbiamo introdotto volontariamente la causa? Vorreste forse proporci di creare, a imita* Il concistoro e la Camera di Riforma.

A D’ALEMBERT

zione dell'istituzione di cui ho appena parlato, dei censori? Ne abbiamo di già *. E se tutta la forza di questo tribunale basta a stento per farci restare tali quali siamo, quando avremo dato una nuova spinta al decadimento della rotola, che potrà fare per arrestare questo cammino? È evidente che non sarà più sufficiente. Il primo sintomo della sua impotenza nel prevenire i malefici effetti del teatro sarà quello di averne permesso l’istituzione. Infatti è facile prevedere che queste due istituzioni non potrebbero esistere contemporaneamente se non per un periodo molto breve, e che la commedia renderà ridicoli i censori o che i censori faranno cacciar via i commedianti. Ma non si tratta solo dell’insufficienza delle leggi nel reprimere i cattivi costumi lasciandone sussistere la causa. Si troverà, lo prevedo, che, avendo la men-

te necessariamente piena degli abusi prodotti dal teatro e della impossibilità generica di impedire tali abusi, non rispondo in modo abbastanza preciso all'espediente proposto, che è quello di avere degli attori che siano contempotaneamente onest’uomini;

ovvero, di far-

li diventare tali. In definitiva, questa discussione particolare non è più molto necessaria: infatti, tutto ciò che ho detto fino ad ora sugli effetti della commedia, essendo completamente indipendente dalla moralità degli attori, sarebbe ugualmente valido anche se questi ultimi traessero profitto dalle lezioni che ci esortate

a

dare

loro

e

diventassero,

grazie a noi, dei modelli di virtù. Tuttavia, per riguardo alle idee di quei miei compatrioti che non vedono nel teatro altri pericoli che quelli rappresentati dai cattivi costumi degli attori, cercherò ancora di vedere se, anche nel-

la loro supposizione, questo espediente sia praticabile con qualche speranza di successo e se possa bastare per tranquillizzarli. Cominciando a osservare i fatti prima di discutere sulle cause, è mia opinione personale che quella dell'attore sia una

LETTERA

A D'ALEMBERT

condizione

licenziosa

241 che

sono presenti anche a Roma, prima del-

sregolatezza; che le donne vi conducano

presenti non solo nello spirito del popolo, ma giustificati da precise leggi che dichiaravano infami gli attori, toglievano loro il titolo di cittadino romano e i conseguenti diritti e ponevano le attrici al livello delle prostitute. In questo caso non si possono aver altre ragioni che quelle derivanti dalla natura stessa della cosa. I preti e i sacerdoti pagani, favorevoli più che contrari agli spettacoli inseriti nei giuochi religio

gli uomini, una

vita

in essa,

e immorale;

si abbandonino

scandalosa;

che

gli

uni

alla

e

le

altre, contemporaneamente avari e spendaccioni, sempre coperti di debiti e sempre intenti a sperperare il denaro a piene

mani,

siano

altrettanto

sfrenati

nel-

le loro dissipazioni che poco scrupolosi riguardo ai mezzi di guadagno. Noto an-

cora che, in tutti i paesi, la loro professione è considerata disonorevole, e quelli che la esercitano, scomunicati o

meno, vengono disprezzati * ovunque, e che anche a Parigi, dove sono maggiormente stimati e dove tengono una condotta migliore che in qualsiasi altro luogo, un borghese si vergognerebbe nel frequentare quelli stessi attori che vede ogni giorno seduti alla stessa tavola dei grandi. Una terza osservazione, non meno importante, è che lo sdegno è più forte là dove i costumi sono più puri; ci sono paesi dominati dall’innocenza e dalla semplicità, nei quali il mestiere di attore viene considerato quasi orribile. Questi sono fatti incontestabili. Mi direte che si tratta solo di pregiudizi. D'accordo: ma poiché questi pregiudizi sono universali, bisogna pure che

abbiano

una

causa

universale,

e

non vedo come la si possa trovare altrove che nella professione da cui derivano. À questo, voi risponderete che gli attori st comportano spregevalmente solo perché li si disprezza; ma perché li si dovrebbe disprezzare se non fossero degni solo di questo? Perché il loro mestiere dovrebbe essere più inviso degli altri se non fosse differente? Ecco un argomento di cui ci si dovrebbe forse occupare prima di giustificarli a danno del pubblico. Potrei imputare questi pregiudizi agli schiamazzi * Anche

celebre

del clero, se non trovassi che

se

gli

Oldfield?”

Inglesi

vicino

hanno

ai loro

inumato

re,

non

il

vo-

levano onorare il suo mestiere, ma il suo ta. lento. Ai loro occhi il grande ingegno nobilita anche le più umili condizioni; invece l'ingegno mediocre diminuisce anche le più illustri. Per quel che riguarda la professione di attore, quelli cattivi o mediocri vengono disprezzati

la

nascita

del

cristianesimo,

e li

trovo

si **, non avevano alcun interesse a screditarli; infatti non li screditavano. Ciò nonostante, fin da allora, c'era motivo di indignarsi, come fate voi, sulla con-

tradizione di che vengono diate;

disonorare delle persone protette, pagate, stipen-

il che, a dir il vero, non mi sem-

bra così strano come a voi, perché talvolta è opportuno che lo Stato incoraggi e protegga professioni disonorevoli ma utili, senza che per questo coloro che le esercitano debbano essere considerati migliori per questo motivo. Ho letto da qualche parte che queste umiliazioni venivano imposte maggiormente agli istrioni e ai buffoni, che riem-

pivano sto che zione è termini

di oscenità le loro farse, piuttoai veri attori; ma questa distininsostenibile: infatti, essendo i di attore e istrione perfettamen-

te sinonimi,

una

l'uno

non

differenza era

greco,

è mai

esistita

l'altro

etrusco.

maggiore

del

tra loro

fatto

che

Cicero-

ne, nel libro De oratore, chiama istrioni i due più grandi attori che ci siano mai stati a Roma: Esopo e Roscio; nella sua arringa in favore di quest’ultimo, compiange che una persona così degna debba esercitare un mestiere così poco onesto. Lungi dal far distinzione fra commedianti,

istrioni

e buffoni,



tra

gli attori tragici e quelli comici, la legge

a Londra,

del mondo. ** Tito

furono

almeno, Livio

introdotti

se non afferma

a Roma

di più, che nel testo che

i giuochi

nel

390,

in

scenici

occa-

sione di una peste che bisognava far cessare. Al giorno d'oggi, per un motivo analogo, sì chiuderebbero i teatti e questo sarebbe certamente più ragionevole.

LETTERA

242 copre indistintamente dello stesso obbrobrio tutti coloro che calcano la scena: Quisquis in scenam prodierit, ait praetor, infamis est ®. È vero tuttavia che questo obbrobrio non ricadeva tanto sulla rappresentazione, quanto sulla categoria che ne faceva un mestiere, dal momento che alla fine degli spettacoli la gioventù di Roma si presentava pubblicamente,

senza ricavarne

disonore, al-

le Atellane o agli Esodi. Fatta questa eccezione, si legge in mille diversi punti che tutti gli attori erano schiavi e venivano trattati come tali quando il pubblico non era contento di loro. Conosco un solo popolo che a questo proposito avesse principi diversi da tutti gli altri: i Greci. È certo che presso di loro la professione di attore era così poco riprovevole che la storia greca fornisce esempi di attori incaricati di funzioni pubbliche, sia nello Stato sia nelle ambascerie. Ma sarebbe facile trovare

il motivo

di questa

eccezione.

1°)

Essendo la tragedia un’invenzione greca, così come la commedia, non potevano mettere in anticipo il disprezzo su una professione di cui non si conoscevano ancora gli effetti; quando si cominciò a conoscerli, l'opinione pubblica aveva già preso questa piega. 2°) Dato che la tragedia era originariamente un fatto religioso, i suoi attori vennero considerati più dei sacerdoti che dei fannulloni. 3°) Poiché gli argomenti delle opere venivano tratti dalla storia della nazione, che i Greci adoravano, essi vedevano in

questi attori dei rispettabili cittadini istruiti, che rappresentavano di fronte ai loro compatrioti la storia del loro paese, e non delle persone che recitassero storie inventate. 4°) Questo popolo, entusiasta della propria libertà fino a credere che i Greci fossero gli unici uomini naturalmente liberi, si ricordava con piacere delle antiche infelicità e dei crimini dei loro padroni. Queste grandi rappresentazioni li istruivano continuamente, ed essi non potevano fare a meno di provare un po’ di rispetto per chi era tramite di questa istruzione. 5°) Poiché la tragedia veniva recitata originariamente solo dagli uomini, non si vede-

A D'ALEMBERT

va sulla scena quella scandalosa promiscuità che rende le nostre scene altrettante scuole di cattivi costumi. fine, i loro spettacoli non erano

6°) Inmeschi-

ni come quelli del giorno d’oggi. I loro teatri non venivano costruiti per inte-

resse e per avidità, non erano rinchiusi nell'oscurità; i loro attori non avevano

bisogno di chiedere denaro ai loro spettatori, né di contare di nascosto le persone che entravano per essere sicuri di poter cenare. Questi grandi e superbi spettacoli, rappresentati all'aria aperta, di fronte a tutto un popolo, offrivano continuamente

combattimenti,

vittorie,

ricompense,

tutti soggetti capaci di ispirare nei Greci una ardente emulazione e di riscaldare i loro cuori con sentimenti di onore e di gloria. È in mezzo a questo imponente apparato, così adatto a elevare e commuovere gli animi, che gli attori, animati dallo stesso zelo, partecipavano secondo il loro talento agli onori che venivano resi ai vincitori dei giuochi olimpici, che spesso erano i più importanti protagonisti della vita nazionale. Non mi sorprende il fatto che, lungi dall’avvilirli,

il loro

mestiere,

esercitato

in

questa maniera, conferisse loro quella grandezza d’animo e quel nobile disinteresse che sembravano talvolta elevare l’attore all'altezza del suo personaggio.

Nonostante ciò la Grecia, a eccezione di

Sparta, non è mai stata citata come un esempio di buon costume; e Sparta, che non sopportava assolutamente il teatro, si guardava bene dal rendere onore agli attori ‘!, Ritorniamo

ai

Romani,

i quali,

lun-

gi dal seguire l'esempio dei Greci su questo argomento, ne diedero uno completamente opposto. Quando le loro leggi dichiararono infami gli attori, lo fecero forse per rendere disonorevole questa professione? Quale sarebbe stata la utilità di una disposizione così crudele? In effetti, queste leggi non la disonoravano affatto: non facevano che sanzionarne l’inseparabile disonore; infatti le buone leggi non cambiano mai la natura delle cose, ma

si limitano

a seguirla,

e solo tali leggi vengono osservate. Non

LETTERA

A D'ALEMBERT

243

sere scambiato col personaggio da lui si tratta dunque di scagliarsi immediatamente contro i pregiudizi, ma di sapere . rappresentato, né che lo si creda commosso dalle passioni che imita, e so che, per prima cosa se si tratta solo di pregiudizi; se la professione dell'attore non accettando questa imitazione per quel sia disonorevole in se stessa; infatti, se che vale, la fa diventare completamente per sfortuna essa lo è, avremo un bel innocente. Così non lo accuso di essere realmente un ingannatore, quanto di colstabilire che non lo è: invece di riabitivare l’arte di ingannare gli uomini e litarla, non faremmo che avvilire noi di avere delle abitudini che, innocenti stessi. In che cosa consiste il talento dell’atsolo sulla scena, servono altrove solo per delinquere. Questi uomini così ben tore? Nell'arte di travestirsi, di assumere vestiti, così ben esercitati a usare il toun carattere diverso dal proprio, di apparire differenti da come si è, di appasno della galanteria e gli accenti della sionarsi a sangue freddo, di dire cose passione, non abuseranno mai di quediverse da quelle che si pensano con la st’arte per sedurre la gioventù? Questi stessa naturalezza che si avrebbe se le camerieri disonesti, così veloci di lingua si pensasse realmente, di dimenticare ine di mano sul palcoscenico, presi nelle fine la propria condizione a forza di asspire di un mestiere più dispendioso che sumere quella degli altri. Che cosa è il lucroso, non avranno mai simili interesmestiere dell'attore? Un mestiere a causate distrazioni? Forse che non scambiesa del quale ci si offre pubblicamente ranno mai la borsa di un figlio prodigo per denaro, ci si sottomette all’ignomio di un padre avaro con quella di Leannia e agli affronti di chi peraltro ha acdro o di Argante? * Dovunque la tenquistato il diritto di farli, si mette in tazione di agire male aumenta se accomvendita la propria persona. Scongiuro pagnata dall’opportunità di farlo; biso gna proprio che i commedianti siano più qualunque uomo onesto di dire se non sente nell’intimo del suo cuore che in virtuosi degli altri uomini, visto che non questo commercio di se stessi vi è qualsono più corrotti di loro. cosa di servile e di basso. Voi filosofi, Mi si potrà dire che anche l'oratore che pretendete di essere tanto al di soe il predicatore, oltre agli attori, si pra dei pregiudizi, non morireste forse espongono di persona. Ma la differenza tutti dalla vergogna se doveste andare a è molto grande: quando l’oratore aprecitare, vilmente travestiti da sovrani, pare in pubblico, lo fa per parlare, non un ruolo diverso dal vostro di fronte per offrirsi in spettacolo: rappresenta soal pubblico, e se doveste esporre le volo se stesso, non svolge che il proprio stre maestà ai fischi della plebaglia? ruolo, non parla che in proprio nome, Quale dunque, in fondo, l’idea che l’atnon dice, o non dovrebbe dire, altro tore si fa della propria condizione? Un che quel che pensa; essendovi coinciinsieme di bassezza, di falsità, di ridicolo denza tra l’uomo e il personaggio, esso orgoglio e di indegno avvilimento, tale si tiene al proprio posto; si trova nella da renderlo adatto a tutti i personaggi stessa situazione di qualunque altro cittranne che al più nobile di tutti: il tadino intento ad adempiere le proprie personaggio di uomo che egli ha abbanfunzioni. Ma un attore, quando mostra donato. sul palcoscenico sentimenti diversi dai So bene che l'inganno dell’attore non suoi, dicendo solo quello che gli vien è quello di un disonesto che vuole truffatto dire, rappresentando spesso un esfare, so come esso non pretenda di essere inesistente, scompare e, per così di* Questa accusa è stata criticata come esagerata e ridicola. Chi lo ha fatto ha avuto ragione. L'unico vizio di cui gli attori vengono raramente accusati è quello di essere truffatori. Il loro mestiere, che li tiene occupati a lungo,

e che sotto certi aspetti conferisce loro dei sentimenti di onore, li tiene lontani da una tale bassezza. Non cancello questo passaggio perché ho giurato a me stesso di non cambiare nulla, ma lo sconfesso come ingiusto *.

244

LETTERA

re, annulla se stesso nel proprio personaggio; in questo oblio dell’uomo, quel che ne resta serve di divertimento agli spettatori. E cosa dobbiamo dire di coloro che, avendo paura di valere troppo come uomini, si abbassano fino al punto di rappresentare personaggi ai quali si sentirebbero offesi di assomigliare? È senza dubbio un male vedere nel mondo tante persone scellerate che recitano la parte di uomini onesti; ma vi è niente di più odioso, di più fastidioso e di più vile di un uomo onesto che recita sulla scena la parte di uno scellerato e dà fondo a tutta la sua arte per far risaltare principi criminali che ispirano orrore a lui stesso? Se in tutto questo non si vede altro che una professione poco onesta, bisogna vedere un’altra fonte di cattivi costumi nella dissolutezza

delle

riodo,

non

attrici,

la

cui

dissolutezza

causa e trascina quella degli attori. Ma perché questa dissolutezza dev'essere inevitabile? Perché!? In qualsiasi altro peci

sarebbe

stato

motivo

di

chiederselo; ma in questo secolo, quando sotto il nome di filosofia, regnano così spietatamente i pregiudizi e gli errori, gli uomini, imbestialiti dal loro falso sapere, chiudono lo spirito alla voce della ragione e il cuore alla voce della natura.

'

In qualunque nazione, in qualsiasi paese, in qualsiasi condizione, i due sessi hanno fra loro un legame così forte e così naturale da risultarne che i costumi dell'uno decidono sempre dei costumi dell'altro. Ciò non vuol dire che questi costumi debbano essere sempre gli stessi,

ma

essi

hanno

sempre

lo

stesso

grado di bontà, modificato in ciascun sesso secondo le inclinazioni che gli sono proprie. Le Inglesi sono dolci e timide, gli Inglesi sono duri e feroci. Da cosa deriva quest’apparente opposizione? Dal fatto che il carattere di ogni

A D’ALEMBERT

cosa. Ì due sessi preferiscono vivere isolati: ambedue sono sensibili ai piaceri della tavola, ambedue si rassomigliano nel bere dopo ipasti, gli uomini il vino,

le donne il tè; ambedue si dedicano al giuoco, ma senza accanirsi, e ne fanno

un mestiere più che una passione; ambedue hanno un grande rispetto per l’onestà; ambedue amano la patria e le leggi; ambedue onorano la fedeltà coniugale

e, se

la violano,

e

silenziosi

non

se ne

ri-

tengono per questo meritevoli; ad ambedue piace la pace domestica; sono tutti due

e

Jlaconici;

ambedue

difficili da commuovere; ambedue furenti nelle loro passioni; per tutti i due l'amore è cosa terribile e tragica: esso

decide del loro destino e, come dice Muralt, si tratta di lasciarvi la vita o la

ragione; infine ambedue amano la campagna, e le signore inglesi passeggiano nei loro parchi solitari altrettanto volentieri di quando vanno a mettersi in mostra a Vauxhall. Da questo gusto comune per la solitudine nasce anche quello per le letture contemplative e per i romanzi, dei quali l'Inghilterra è piena *. In tal modo ambedue i sessi, in maggior raccoglimento con se stessi, si abbandonano meno alle frivole imitazioni e prendono più gusto ai veri piaceri della vita; pensano meno a sembrare che a essere felici. Ho citato apposta gli Inglesi poiché essi sono,

fra tutti i popoli

del

mondo,

quello in cui i costumi dei due sessi appaiono inizialmente più diversi. Dal rapporto esistente tra di loro in quel particolare paese, possiamo trarre conclusioni anche per gli altri. Tutta la differenza consiste nel fatto che la vita delle donne è un continuo sviluppo dei loro costumi; mentre invece per quelli

degli

uomini,

livellandosi

ulteriormente

carattere nazionale di spingere tutto agli estremi. Così avviene, all’incirca, di ogni

nell’uniformità degli affari, bisogna attendere, per giudicarli, di averli visti nei piaceri. Volete conoscere gli uomini? Studiate le donne. Questo principio è generale, e fino a questo punto tutti sa-

* Sono, come gli uomini, sublimi o detestabili. Finora, in qualunque lingua, non è mai

paragonato avvicini.

sesso

stato

viene

scritto

così

nessun

rinforzato,

romanzo

che

e che

possa

è nel

essere

a C/arissa *, o che

comunque

vi

si

LETTERA

A D'ALEMBERT

245

ranno d'accordo con me. Ma se aggiungo a ciò il fatto che non possono esi. stere buoni costumi per le donne al di fuori

di

una

vita

ritirata

e domestica,

se dico che le serene occupazioni domestiche sono una loro prerogativa esclusiva, che la dignità del loro sesso consiste nella modestia, che il pudore e la vergogna sono inseparabili dall’onestà, che il cercare gli sguardi degli uomini deve essere considerato già un lasciarsi corrompere, e che una donna che si metta in mostra

si disonora, immediatamen-

te si leverà contro di me quella effimera filosofia che nasce e muore negli angoli della grande città e che pretende di soffocare il grido della natura e l’unanime voce del genere umano. Banali pregiudizi! mi si dirà. Errori puerili! Inganni della legge e dell’educazione! Il pudore non vale nulla, è solo un'invenzione delle leggi della società per mettere al sicuro i diritti dei padri e dei mariti e per stabilire un certo ordine nelle famiglie. Perché arrossire dei nostri bisogni naturali? Perché trovare motivi di vergogna in un’azione così indifferente in se stessa e così benefica nei suoi effetti, come quella della perpetuazione della specie? Perché, pur essendoci uguale desiderio da ambedue le parti, il modo di mostrarlo dovrebbe essere diverso? Perché uno dei due sessi dovrebbe rifiutarsi più dell’altro a una inclinazione presente in ambedue? Perché l’uomo dovrebbe avere, su questo argomento, leggi diverse rispetto a quelle degli altri animali? Tes pourquoi,

Ma

questi

indirizzarli

dit le Dieu, ne [finiroient jamais.

interrogativi

all'uomo,

bensì

non

bisogna

al suo Crea-

tore. Non è ridicolo dover spiegare perché mi vergogni di un sentimento naturale, allorché tale vergogna non mi è meno naturale del sentimento stesso? Tanto varrebbe domandarmi il perché di questo sentimento. Forse tocca a me rendere conto di ciò che ha fatto natura? Con questo tipo di ragionamento, quelli che non riescono a spiegarsi per-

ché l’uomo esista, dovrebbero negare che esiste. Temo che questi grandi scrutatori dei disegni divini abbiano dato troppo poco peso alle ragioni che ne stanno alla base. Io, che

non

mi vanto

di conoscerle,

credo di vederne alcune che sono sfug-

gite al loro

esame;

si,

si

checché

ne

possano

dire costoro, la vergogna che vela agli occhi altrui i piaceri dell'amore, ha pure un significato: è la comune salvaguardia, fornita dalla natura ai due sesallorché

trovino

in

uno

stato

di

debolezza e di oblio di sé che li abbandonerebbe nelle mani del primo venuto; e coprendo il loro sonno con le ombre della notte, perché durante il periodo delle tenebre restino meno esposti agli attentati gli uni degli altri, fa che ogni animale sofferente ricerchi la solitudine e i luoghi solitari, per sof. frire e morire in pace, lontano dagli attacchi che non è più in grado di respingere. Quanto al pudore sessuale in particolare, che arma più dolce avrebbe potuto dare questa stessa natura a colui che destinava a difendersi? I desideri si equivalgono! Che cosa vuol dire? C'è forse da ambedue le parti una stessa capacità di soddisfarli? Cosa accadrebbe della specie umana se si mutasse l'ordine dell'attacco e della difesa? L'attaccante, scegliendo casualmente il momento dell'assalto, non potrebbe mai vincere;

l’as-

salito verrebbe lasciato in pace proprio nel momento

in cui vorrebbe arrendersi,

o inseguito senza tregua quando sarebbe troppo debole per soccombere: infine, perché il perenne dissidio tra la volontà e il potere non permetterebbe l’incontro dei desideri, l'amore non sarebbe più il sostegno della natura, ma ne diventerebbe il distruttore e il flagello. Se i due sessi avessero fatto e ricevuto proposte in misura uguale, si sarebbero rivelati ambedue importanti; fuochi sempre languenti in una noiosa libertà, non si sarebbero mai potuti riattizzare;

il più

dolce

di

tutti

i senti-

menti avrebbe a stento sfiorato il cuore umano,

e il suo

fine

non

sarebbe

stato

ben raggiunto. L'apparente ostacolo che

246

LETTERA

sembra allontanare questo oggetto è in realtà ciò che più lo avvicina; i desideri velati dalla vergogna diventano, per questo, più seducenti: il pudore li accende mentre

li mette

in imbarazzo:

i timori,

le scappatoie, le riserve, le timide confessioni, la tenera e timorosa

malizia di-

cono ciò che esso credeva di tacere meglio di come avrebbe potuto fare la passione priva di pudore. È proprio questo che dà valore ai favori e dolcezza ai rifiuti;

in

realtà,

il vero

amore

pos-

siede ciò che gli viene conteso solo dal pudore; questo insieme di debolezza e di modestia, lo rende più commovente e più tenero; meno ottiene, più aumenta il valore di ciò che ha ottenuto: è in tal modo che si arriva a godere sia delle privazioni che dei piaceri. Perché

mai,

mi

si dice,

ciò

che

non

è vergognoso per l’uomo dovrebbe esserlo pet la donna? Per qual motivo uno dei due sessi dovrebbe poter considerare criminoso ciò che dall’altro viene considerato come lecito? Come se le conseguenze fossero le stesse per ambedue! Come se tutti i severi doveri della donna

non derivassero da un fatto solo,

che ogni bambino deve avere un padre. Anche escludendo queste importanti considerazioni, dovremmo dare ugualmente una stessa risposta, senza possibilità di replica. Questa è la volontà della natura, di cui sarebbe un delitto soffocare

A D'ALEMBERT

la voce. L'uomo può anche essere audace, questo è il suo destino *; è pur necessario che qualcuno si faccia avanti. Ma ogni donna senza pudore è colpevole e depravata, perché essa calpesta un sentimento che è proprio del suo sesso. Come è possibile contestare l’autenticità di tale sentimento? Anche se tutta la terra non gli rendesse clamorosa testimonianza, per constatarlo sarebbe sufficiente un semplice paragone dei sessi. Non è forse la natura che conferisce alle fanciulle quell’aspetto tanto dolce, reso ancor più commovente da una certa timidezza? Non è forse essa che conferisce loro quello sguardo così tenero e così timido, cui non si può resistere se non con immensa difficoltà? Non viene forse da essa quel loro splendido incarnato, la finezza della cui pelle si nota meglio grazie a un lieve rossore? Non è forse essa che le rende timide, perché inizialmente fuggano e successivamente si arrendano, in un momento di debo-

lezza? A che scopo avrebbe dato loro un cuore più sensibile alla pietà, minor velocità nel correre, un corpo meno

te, una

sottili,

statura

se non

più bassa,

le avesse

muscoli

destinate

sciarsi sconfiggere? Soggette alle dità della gravidanza, e ai dolori to, questo aumento di lavoro una diminuzione di forza? Ma

for-

più

a la-

scomodel paresigeva per ri-

* Bisogna distinguere questa audacia dalla insolenza o dalla brutalità, perché niente parte da sentimenti più diversi e niente comporta effetti più contrari. Immagino l'amore libero e innocente, che prenda legge soltanto da se stesso; è solo a lui che tocca di presiedere ai propri misteri e di formare l'unione delle persone e quella dei cuori. Se un uomo insulta il pudore del sesso e attenta violentemente alle grazie di un giovane essere che non ha nessun sentimento nei suoi confronti, la sua volgarità non viene affatto riscattata dalla pas-

li fa nascere, è satiresca audacia: audacia umana è invece quella di saper testimoniare questi desideri senza dispiacere, saperli rendere interessanti, fare in modo che vengano condivisi, dominare i sentimenti prima di assalire il corpo. Non è sufficiente neanche l’essere riamati: la comunanza dei desideri non ci autorizza a soddisfarli; è necessario, inoltre, anche il consenso della volontà. Il cuore accorda inutilmente ciò che viene rifiutato dalla volontà. L'uomo e l'amante onesto si astengono, anche

rale, privo di delicatezza, incapace di amore e di onestà, Il maggior valore dei piaceri risiede nel cuore che li offre: un vero amante troverebbe solo dolore, rabbia e disperazione, nell'atto stesso di possedere l'oggetto del proprio amore, se pensasse di non essere riamato. Pretendere di soddisfare i propri desideri con l'insolenza e senza il consenso di colei che

nell'amore, L'arte di chi sa amare consiste nel leggerlo negli occhi o nel comportamento, anche quando la bocca sembri volerlo rifiutare; a questo punto, se raggiunge la propria felicità, non sarà stato brutale ma onesto; non oltraggia il pudore, lo rispetta, lo serve, gli lascia l'onore di difendere ancora ciò che esso gli avrebbe forse ceduto.

sione:

è oltraggiosa,

esprime un animo

immo-

quando potrebbero avere successo. Strappare un tacito consenso è la massima violenza permessa

LETTERA

A D'ALEMBERT

247

durle a questo stato penoso, era necessario che fossero abbastanza forti per soccombere solo alla propria volontà, abbastanza deboli perché potessero trovare sempre un pretesto per arrendersi.

Ecco,

esattamente

delineata,

la

condi-

zione in cui sono state poste dalla natura. Passiamo dal ragionamento all’esperienza; se il pudore fosse un pregiudizio della società

e dell’educazione,

que-

sto sentimento dovrebbe essere più forte là dove l'educazione viene maggiormente curata e dove le leggi sociali vengono continuamente perfezionate; dovrebbe essere meno forte là dove si è rimasti più vicini allo stato primitivo. La realtà è completamente opposta *: nelle nostre montagne le donne sono timide e modeste, una parola basta a farle arrossire, non osano alzare gli occhi su-

gli uomini, e restano silenziose in loro presenza. Nelle grandi città, il pudore è

considerato cosa ignobile e bassa; è in pratica l’unica cosa di cui una donna bene educata potrebbe vergognarsi; l'onore di esser riuscite a fare arrossire un uomo ben educato appartiene solo alle donne della migliore società. L’argomentazione tratta dall’esempio delle

bestie

non

è determinante,

ed

è

completamente falsa. L'uomo non è né un cane né un lupo. Basta introdurre nella sua specie i più elementari rapporti sociali per conferire ai suoi sentimenti una moralità completamente sconosciuta agli animali. Gli animali possiedono un cuore e delle passioni; ma la sacra immagine dell'onestà e della bellezza è entrata solo in un cuore umano. Malgrado ciò, da dove è stata tratta l'idea che l'istinto non potrebbe mai produrre negli animali effetti simili a quelli che il pudore produce negli uomini? Ogni giorno trovo nuove dimostrazioni del contrario. Vedo animali che si nascondono durante l'espletazione di alcuni bisogni naturali, allo scopo di sottrarche che

* Prevedo

l'obbiezione:

le donne

selvagge,

girano nude, sono spudorate? Rispondo le nostre lo sono ancora di più, dato che

re ai sensi un oggetto di disgusto; li vedo in seguito, invece di fuggire, intenti a coprite le loro tracce. Cosa manca a queste cure, perché abbiano un aspetto di decenza

e di onestà,

se non

il fatto

di non essere state adottate da un uomo? Negli amori animaleschi, vedo capricci,

scelte,

rifiuti

significativi,

molto

vicini al principio di eccitare la passione grazie agli ostacoli. Anche mentre sto scrivendo ne ho un esempio sotto gli occhi: due giovani piccioni, nella felice età dei loro primi amori, mi offrono uno

spettacolo ben diverso dalla sciocca brutalità che i nostri sapienti attribuiscono loro. La bianca colomba segue passo passo il suo amato e prende la fuga non appena egli si gira. Quando egli resta

inattivo, viene riscosso da leggere beccate; se fugge, viene inseguito; se si schernisce, viene di nuovo attirato da un breve svolazzare; l'innocenza della

natura amministra le moine e la cedevole resistenza con un'arte che sarebbe degna della più abile civetta; l’allegra Galatea non avrebbe potuto far di meglio, ed è possibile che Virgilio abbia tratto proprio da un colombaio una delle sue più belle immagini. Anche se si potesse negare che un particolare sentimento di pudore sia proprio delle donne, non sarebbe meno vero che nella società il loro compito deve essere limitato a una vita domestica

e ritirata,

e che

è necessario

edu-

carle con criteri adatti a questo scopo *. Se

la timidezza,

il pudore,

la modestia,

che sono loro proprie, sono invenzioni sociali, è pur necessario per la società che le donne acquisiscano tali qualità; è

necessario

coltivarle

in

esse,

e

una

donna che le disprezza offende i buoni costumi. Vi è forse nel mondo uno spettacolo così commovente, così degno di rispetto come quello di una madre di famiglia circondata dai suoi figliuoli, intenta a organizzare i lavori domestici, procurando così una vita felice al marito e governando saggiamente la casa? si vestono. Leggete la fine di questo proposito delle fanciulle di Sparta.

saggio,

a

248

LETTERA

Là essa si mostra in tutta la dignità propria di una donna onesta; è là incute veramente rispetto, ed è là che la bellezza divide con l'onore gli omaggi che sono dovuti alla virtù. Una casa priva di padrona è un corpo privo di anima, prossimo a corrompersi; una donna lontana dalla propria casa perde il suo maggior vanto e, priva dei suoi veri orna-

menti, si mostra con indecenza. Se ha un marito, che cosa va a cercare in mezzo agli altri uomini? Se non ce l'ha,

perché rischia di allontanare, con un comportamento inverecondo, colui che sarebbe tentato di sposarla? Qualunque cosa possa fare, è evidente che il suo posto non è in mezzo al pubblico; anche la sua bellezza, che piace senza interessare, è una mancanza in più, che il suo stesso cuore le rimprovera. Questa impressione, sia che ci venga dalla natura o dall’educazione, è comune a

tutti

i popoli del mondo; almeno a quelli presso i quali la donna viene tenuta in considerazione secondo la sua modestia. Dovunque è convinzione corrente che, trascurando le consuetudini del loro sesso, ne trascurano anche i doveri; ovunque si vede che allora, facendo diventare sfrontatezza quella che nell'uomo è ferma e virile sicurezza, esse si avviliscono con questa odiosa imitazione, disonorando contemporaneamente il loro e il nostro sesso. So bene che in alcuni paesi regnano usanze contrarie; ma osservate anche a quali costumi esse abbiano dato origine. Non ho bisogno di ricorrere ad altri esempi per confermate i miei principi. Applichiamo ai costumi delle donne quel che ho detto poco fa riguardo all’onore cui sono obbligate. ‘Presso tutti i popoli antichi, che avessero un certo grado di civiltà,

esse

vivevano

rinchiuse,

usci-

vano raramente in pubblico, giammai insieme agli uomini, con i quali non

* Nel teatro di Atene, le donne occupavano

una galleria in alto, chiamata cercis, inadatta a veder bene e a essere viste; ma, in base all'avventura di Valeria e di Silla, sembrerebbe che nel circo di Roma stessero mescolate in mezzo alla folla degli uomini.

A D’ALEMBERT

era loro consentito di passeggiare; a teatro non avevano i posti migliori, né si mettevano in mostra *, non avevano il permesso di assistere a tutti gli spetta-

coli,

e tutti

sanno

che

quelle

che

osa-

vano mostrarsi ai giuochi olimpici venivano condannate a morte. In casa vivevano in un appartamento separato, nel quale gli uomini non entravano.

Quando

i loro

mariti

davano

le donne

oneste

un banchetto, esse si presentavano a ta-

vola

molto

raramente;

uscivano dalla stanza prima della conclusione del pasto, le altre invece non partecipavano alla fase iniziale. I due sessi non si riunivano

mai

insieme;

non

passavano mai insieme la giornata. Questa preoccupazione di non stancarsi maî gli uni degli altri faceva sì che essi si rivedessero tra loro con un maggior piacere; è certo che presso di loro la pace domestica era più sicura e che vi era tra gli sposi più unione che al giorno d'oggi **. Tali erano le usanze dei Persiani, dei Greci, dei Romani, e anche degli Egi-

ziani, nonostante le stupide facezie di Erodoto che si contraddicono da sole. Se talvolta le donne uscivano dai limiti di questa modestia, la pubblica indignazione dimostrava che si trattava di una eccezione. Che cosa non è stato detto riguardo alla libertà del sesso a Sparta? Del resto si può anche capire, dalla Lisistrata di Aristofane, quanto la condotta delle Ateniesi fosse scandalosa agli occhi dei Greci; e nella Roma già corrotta, con quale scandalo fu visto il fatto che delle donne si presentassero al tribunale dei triumviri! Tutto è cambiato. Da quando orde di barbari hanno invaso l’Éuropa, trascinando con sé le loro donne in mezzo ai loro

eserciti,

campamenti,

settentrionali,

la licenziosità

unita che

dei loro ac-

al rigore

rende

meno

dei

climi

necessa-

** La causa di ciò potrebbe essere facilmen-

te attribuita alla facilità del divorzio; ma i Greci facevano poco uso di quest’istituzione; quanto a Roma, passarono cinquecento anni prima che qualcuno si avvalesse della legge che lo ammetteva,

LETTERA

A D'ALEMBERT

ria la riservatezza,

introdusse

249 un nuovo

modo di vita, favorito in seguito dai libri di cavalleria in cui le belle dame passavano la vita a farsi rapire dagli uomini con tutto il rispetto‘e con tutti gli onori. Poiché questi libri erano Ila scuola di buona educazione di quei tempi, le idee di libertà da essì ispirate si insinuarono nelle corti e nelle grandi città, dove l’attenzione per la raffinatezza è maggiore; col progredire, questa raffinatezza divenne volgarità. È così che la naturale modestia del sesso è sparita pian piano, e i costumi delle vivandiere si sono trasferiti alle donne di classe. Volete sapere quanto questi usi, contrari alle idee

naturali,

siano

scandalosi

per chi non vi è abituato? Giudicate dall’imbarazzata sorpresa degli stranieri e dei provinciali nell’assistere a comportamenti così insoliti per loro. Questo imbarazzo è una lode per le donne del loro paese, e bisogna credere che quelle che lo causano ne sarebbero meno fiere se ne conoscessero meglio i motivi. Non è che incutano rispetto, è piuttosto che fanno

arrossire;

e

il

pudore,

cacciato

via dalla donna con i suoi discorsi e con il suo comportamento, si rifugia nel cuore degli uomini. Ritornando

ora

alle

nostre

attrici,

chiedo come una condizione il cui unico scopo è quello di mostrarsi al pubblico e, cosa assai peggiore, di mostrarsi per denaro, possa essere conveniente a donne oneste ed essere compatibile con la modestia e con i buoni costumi. È forse necessario discutere sulle differenze morali fra i sessi, pet accorgersi di quanto sia difficile che colei che si mostra a un certo prezzo non offra presto il proprio corpo e non si lasci mai tentare di soddisfare quei desideri che suscita tanto abilmente? Ma come! Malgrado mille timide precauzioni, una donna onesta e saggia, esposta al minimo pericolo, conserva’ difficilmente un animo queste fanciulle audaci, prive

siasi

educazione

se non

quella

saldo; e di qual-

fornita

* E che succederà supponendo che abbiano anche la bellezza che si ha ragione di esigere

dalla civetteria e da una serie di parti amorose,

assai

poco

vestite *, continua-

mente circondate da una gioventù ardente e temeraria,

in mezzo

le

ai

alle dolci voci

dell’amore e del piacere, resisteranno alla loro età, al loro cuore, agli oggetti che circondano,

discorsi

di

cui

sono

le interlocutrici, alle sempre diverse occasioni, all'oro cui sono praticamente già vendute? Bisognerebbe crederci di una stupidità infantile per volerci ingannare a tal punto. Il vizio può anche nascondersi

nell'oscurità,

sterà impressa li; nella

donna,

la

sua

impronta

re-

sulle fronti dei colpevol'audacia

è sicuro

indi-

zio di vergogna; essa non arrossisce più perché è già arrossita troppe volte; se qualche volta il pudore sopravvive alla castità, cosa dobbiamo

pensare

della ca-

stità quando anche il pudore è spento? Se vogliamo, possiamo supporre che ci siano state delle eccezioni; supponiamo Qu'il en soit jusqu'à trois que l'on [pourroit nommer.

A questo proposito, posso sforzarmi di credere ciò che non ho mai visto o sentito raccontare. Chiameremo forse onesto un mestiere che rende prodigiosa una donna onesta, e che ci fa disprezzare quelle che lo esercitano, a meno di continui e miracolosi interventi? La mancanza di modestia è così pertinente alla

loro condizione, ed esse stesse se ne ac-

corgono così bene, che non ce n'è una che non si sentirebbe ridicola nel fingere di prendere sul serio i discorsi di onore e di saggezza che declama al pubblico. Per paura che queste massime severe abbiano un effetto contrario al suo interesse, l'attrice è sempre la prima a fare una farsa del proprio personaggio e a distruggere così la propria opera. Essa abbandona, rientrata tra le quinte, sia la morale del teatro che la propria dignità, e se sulla scena si imparano lezioni di virtù, le si dimenticano presto nel ridotto. da

loro?

Si

vedano

in

proposito

zioni sul Figlio naturale *.

le

Osserva.

250

LETTERA

Dopo quel che ho appena detto, non credo di dover spiegare anche come la dissolutezza delle attrici trascini spesso con sé quella degli attori; soprattutto in un mestiere che li porta a vivere nella più grande familiarità. Non ho bisogno di dimostrare come da una condizione disonorevole nascano facilmente sentimenti poco onesti, né come i vizi dividano coloro che dovrebberd essere uniti dal comune interesse, né mi dilungherò sulle tante occasioni di litigio e di di. scordia che vi possono essere nella divisione delle parti e degli incassi; la scelta delle commedie, la gelosia per gli applausi suscitano continuamente liti, soprattutto tra le attrici, senza parlare degli intrighi galanti. È ancora più inutile che esponga gli effetti che, inevitabili in quelle persone, naturalmente derivano dall'unione del lusso e della miseria. Ho già parlato abbastanza per voi e per gli uomini ragionevoli; mai abbastanza per le persone prevenute che non vogliono vedere ciò che la ragione mostra loro, ma vogliono vedere solo ciò che conviene alle loro passioni o ai loro pregiudizi. Se tutto ciò deriva dalla professione di attore, come potremo fare, Signore, per evitarne gli effetti? Da parte mia vedo un solo rimedio: eliminare la causa.

Quando

i mali

dell'uomo

derivano

dalla sua natura o da un suo modo di vivere che egli non è in grado di cambiare, forse che i medici sono in grado di eliminarli? Proibire all'attore di essere un vizioso, equivale al proibire a un uomo di essere ammalato. Dobbiamo per questo disprezzare tutti gli attori? Al contrario, ne deriva che,

come voi avete detto, un attore che sia modesto, morale e onesto, è per questi

motivi doppiamente degno di rispetto; infatti egli dimostra che l’amore per la virtù è in lui più forte delle passioni umane e dell'influenza della sua professione. Il solo torto che gli si possa imputare è di aver intrapreso una tale professione; ma troppo spesso un errore di gioventù può decidere il corso dell'intera esistenza; del resto quando si sente di avere un

vero

talento, come

A D'ALEMBERT

si può resistere a un'attrazione così forte? I grandi attori si giustificano da se stessi; sono quelli scadenti che devono essere disprezzati. Se sono rimasto tanto a lungo nei termini del problema generale, non è perché non avevo maggior interesse ad applicarli in modo preciso alla città di Ginevra; ma la ripugnanza di portare sulla scena

i miei

concittadini,

mi

ha

fatto

differire il più possibile il parlare di noi. Tuttavia bisogna arrivarci; il mio compito sarà soddisfatto solo imperfettamente, se non avrò cercato cosa potrebbe derivare, nella nostra particolare situazione, dalla eventuale istituzione di un teatro nella nostra città, nel caso in

cui il vostro parere e le vostre ragioni in proposito riuscissero a convincere il governo a sopportare l’esistenza di una tale istituzione. Mi limiterò a quegli effetti così evidenti da non poter essere contestati da nessuno che pur minimamente conosca la nostra città. Ginevra

è ricca, è vero;

ma

anche

se

non vi si notano quelle enormi sproporzioni di fortuna che impoveriscono un paese intero per arricchire pochi abitanti, e che spargono la miseria intorno all’opulenza, è ugualmente vero che, se alcuni Ginevrini possiedono patrimoni piuttosto notevoli, parecchi altri vivono in una dura povertà, ed è anche certo che il benessere della maggioranza dei cittadini deriva dal lavoro continuo, dal-

l'economia e dalla modestia, piuttosto che da una solida ricchezza. Ci sono molte città che sono più povere della nostra, nelle quali il borghese è in grado di spendere assai più per i propri divertimenti, perché la campagna che lo nutre non si esaurisce; ed essendo il suo

tempo privo di valore, può perderlo senza esserne danneggiato. Da noi non è la stessa cosa, dato che, privi di territori da sfruttare, dobbiamo basarci solo sulle nostre industrie. Il popolo ginevrino vive unicamente grazie al lavoro e continua ad avere il necessario finché tifiuta ciò che è superfluo. Questa è una delle ragioni delle leggi suntuarie. Non credo che nessun'altra piccola città del mondo offra un simile spettacolo.

LETTERA

251

A D'ALEMBERT

Visitate il quartiere di Saint Gervais: sembra che vi sia riunita tutta l’orologeria di Europa. Percorrete il Molard e le piccole strade intorno al lago: un'attrezzatura commerciale in grande stile, cumuli

di

balle,

barili

ammassati

alla

rinfusa, un odore di spezie e di droghe vi fanno credere di essere in un porto

di mare.

AI

Paquis,

braccia,

l'uso

alle

Eaux-Vives,

il

rumore e l'aspetto delle fabbriche di tela indiana vi faranno credere di essere a Zurigo. La città sembra moltiplicarsi, tanti sono i lavori che vi vengono compiuti. Ho visto persone che a una prima occhiata ne calcolavano la popolazione a un centinaio di migliaia di abitanti. Le del

tempo,

l’accortezza

e l'austera parsimonia sono i veri tesori del Ginevrino; ecco in quale condizione noi aspettiamo un divertimento adatto a gente oziosa, che togliendoci contemporaneamente il tempo e il denaro, raddoppierebbe certamente le nostre spese. Ginevra arriva a stento a ventiquattromila abitanti, voi lo sapete bene. Vedo che Lione, benché sia proporzionalmente più ricca e più popolosa di almeno cinque o sei volte, possiede per l'esattezza

un

solo

teatro,

e

nel

caso

in cui questo teatro fosse un teatro d'opera la ricchezza della città non basterebbe certamente a mantenerlo. Vedo che Parigi, capitale della Francia e baratro delle ricchezze di questo grande regno, ne mantiene soltanto tre‘ in modo abbastanza mediocre e un quarto solo in certi periodi dell'anno. Supponiamo che questo quarto spettacolo sia permanente *. Vedo che, con più di seicentomila

abitanti,

trovo dell’opulenza

questo

luogo

e dell’ozio

di

ri-

fornisce

* Se non calcolo anche il Concerto Spirituale è perché, invece di essere uno spettacolo aggiunto agli altri, ne è solo il supplemento. Non calcolo neppure gli spettacolini della fiera, ma in compenso calcolo quest'ultima per tutto l’anno, anche se dura solo sei mesi. In base ai confronti fatti per stabilire se sia possibile che una compagnia di attori possa vivere a Ginevra, suppongo dovunque rapporti più favorevoli a una risposta positiva

di quanto non lo siano in realtà.

a stento allo spettacolo mille o milleduecento spettatori, tutto compreso. Nel resto del paese,

vedo

Bordeaux,

Rouen,

grandi porti di mare, vedo Lille e Strasburgo, grandi città di guerra, pieni di ufficiali oziosi che aspettano tutto il giorno che sia mezzogiorno e le otto, ad avere un teatro di prosa; eppure quante tasse imposte occorrono per sostenerlo! Ma quante altre città ben più grandi della nostra, quante sedi di parlamenti e di corti sovrane non sono in grado di mantenere teatri stabili! Per poter giudicare se siamo in grado di far meglio, prendiamo come termine di paragone uno molto conosciuto, per esempio la città di Parigi. Dico dunque che se più di seicentomila abitanti non forniscono giornalmente ai vari teatri di

Parigi

che

milleduecento

spettatori,

meno di ventiquattromila abitanti non potrebbero fornirne più di quarantotto ai teatri di Ginevra. E da questo numero,

bisognerebbe

inoltre

detrarre

posti gratuiti e bisognerebbe inoltre supporre che a Ginevra, proporzionalmente,

ci

siano

Parigi;

sì,

ma

altrettanti

i

fannulloni

che a Parigi; supposizione questa che mi sembra insostenibile. Ora, se gli attori francesi, pensionati dal re e proprietari dei loro teatri, possono mantenersi a stento a Parigi, con un pubblico di trecento spettatori ** per ogni rappresentazione, mi domando come farebbero a mantenersi gli attori di Ginevra con l’unica risorsa di quarantotto spettatori? Mi risponderete che la vita è meno cara a Ginevra che a i biglietti

dovranno

co-

stare proporzionalmente meno; e inoltre, la spesa del cibo, per gli attori, è la meno importante; quel che costa real** Quelli che vanno a teatro solo nei giorni di festa, quando il pubblico è numeroso, troveranno che questa valutazione è inferiore alla realtà; ma quelli che come me ci sono andati ininterrottamente, per dieci anni, sanno bene che è superiore. : Se bisogna dunque diminuire la cifra quotidiana di trecento spettatori a Parigi, bisognerà diminuire proporzionalmente la cifra di

quarantotto

obbiezioni.

a Ginevra;

il che

rafforza

le mic

LETTERA

252 mente sono i vestiti, gli ornamentti: bisognerà far arrivare queste cose da Parigi, oppure istruire degli operai che non

vi sono

abituati. Queste cose costa-

no meno solo nei luoghi in cui sono diffuse. Voi mi risponderete che verranno assoggettati alle nostre leggi suntuarie. Ma un tentativo di riforma teatrale sarebbe vano; mai Cleopatra o Serse potranno gustare la nostra semplicità. Poiché la condizione degli attori impone loro di badare alle apparenze, impedirglielo sarebbe come toglier loro il gusto del loro mestiere, e penso che mai un buon attore possa consentire a diventare un quacchero. Infine mi si può muovere l’obbiezione che, essendo la compagnia di Ginevra meno numerosa di quella di Parigi, potrà sopravvivere con

spese

molto

minori;

d'accordo,

ma

questa differenza sarà in una proporzione di trecento a quarantotto? Bisogna anche aggiungere che una compagnia numerosa gode del vantaggio di poter recitare più spesso; mentre in una piccola compagnia in cui mancano i sostituti non tutti potrebbero recitare ogni giorno; la malattia o l'assenza di un solo attore impedirebbe una rappresentazione, e questo significherebbe perdere l’incasso. I Ginevrini amano molto la campagna: lo si può giudicare dalla quantità di case che ci sono, sparse intorno alla città. Il richiamo della caccia e la bellezza delle campagne circostanti aumentano questo amore salutare, Le porte, che vengono chiuse prima del tramonto, impediscono di andare a passeggiare fuori dalle mura;

dato che le case di cam-

pagna sono così vicine, durante l'estate poche delle persorie agiate restano a dormire in città. Ognuno, dopo aver passato la giornata accudendo ai propri affari, parte di sera, mentre le porte chiudono, e se ne torna nel suo piccolo * So che tutte le nostre grandi fortificazioni sono la cosa più inutile del mondo e che, anche se avessimo abbastanza. truppe per difenderle, sarebbero ugualmente del tutto inutili: perché certamente nessuno verrà ad assediarci. Ma per non dover temere nessun assedio, dob-

A D’'ALEMBERT

ritiro per respirare un'aria più pura e per godere del più bel paesaggio che esista al mondo. Ci sono anche molti cittadini e molti borghesi che risiedono in questi villini per tutto l'anno e non possiedono neanche casa a Ginevra. Tutti costoro sarebbero perduti per il teatro; e durante la bella stagione, non gli resterebbe come risorsa che quella gente che non ci va mai. A Parigi le cose vanno ben altrimenti: il teatro viene facilmente congiunto alla villeggiatura; durante tutta l'estate si vedono continuamente, dopo il termine degli spettacoli,

carrozze

Quanto la

libertà

che

escono

dalla

alla gente che dorme di

uscirne

in

città.

in città,

qualsiasi

ora,

la tenta meno di quanto la difficoltà di farlo non la trattenga. Le pubbliche passeggiate annoiano presto, bisogna recarsi così lontano per raggiungere la campagna, l'aria puzza talmente di immondizie, e il paesaggio è così poco attraente, che si preferisce chiudersi in un teatro. Ecco dunque un'altra differenza che andrebbe a svantaggio dei nostri attori; una metà dell'anno sarebbe perduta per loro. Voi credete, Signore, che nell'altra

metà riuscirebbero facilmente a colmare un così grande vuoto? Da parte mia, non vedo altro rimedio che quello di cambiare l’ora di chiusura delle porte, sacrificando la sicurezza al divertimento e lasciare aperta la piazzaforte durante la notte *, in mezzo a tre grandi potenze, la più lontana delle quali non ha da fare che mezza lega per arrivare fino alle nostre mura. Questo non è tutto: è impossibile che un'istituzione talmente contraria ai nostri antichi principi possa riscuotere un consenso generale. Quanti generosi cittadini non vedrebbero con indignazione sorgere un tale monumento di lusso e di mollezza sulle rovine della nostra antica semplicità e minacciare biamo tuttavia garantirci ogni sorpresa: niente è più facile che trovarci vicini degli eserciti in assetto di guerra. Conosciamo anche troppo l'uso che se ne può fare, e dobbiamo pensare che l'occasione fornisce ottimi pretesti anche

a chi non ne ha.

LETTERA A D'ALEMBERT le nostre pubbliche libertà? Voi credete che costoro potranno autorizzare con la. loro presenza un'innovazione che hanno così fortemente osteggiata? Siate sicuro che molte di quelle persone che a Parigi vanno a teatro senza scrupolo, non ci metterebbero mai i piedi a Ginevra, perché il bene della patria importa loro più del divertimento personale. Quale madre imprudente arriverà sino al punto di condurre la propria figlia a questa pericolosa scuola? Quante donne rispettabili non crederebbero di disonorarsi recandovisi loro stesse? Se alcune persone a Parigi si astengono dall'andare a teatro, ciò avviene solo per scrupoli religiosi, scrupoli che senza dubbio non sarebbero meno forti presso di noi; inoltre noi avremmo più motivi di virtù, di costume, di patriottismo, che tratterrebbero coloro su cui la nostra religione è impotente *.

Ho dimostrato che è assolutamente impossibile che un teatro possa mantenersi a Ginevra col solo concorso degli spettatori. Sarebbe perciò necessario una di queste due cose: o che i ricchi si tassassero per mantenerlo, pesante fardello che essi non potrebbero addossarsi per lungo tempo; o che lo Stato se ne occupasse e lo mantenesse a proprie spese. Ma come farebbe a mantenerlo? Potrebbe forse farlo diminuendo le spese necessarie, per le quali è a stento sufficiente il suo scarso reddito? Oppure dovrebbe destinare a quest’importante uso quelle somme che la parsimonia e l'onestà dell'amministrazione riescono talvolta a mettere da parte per i momenti di urgente necessità? Sarà forse necessario abolire la nostra già piccola guarnigione e montare noi stessi la guardia alle nostre porte? Dovremmo forse ridurre i già piccoli onorari dei nostri magistrati? Oppure dovremmo togliere dalla nostra borsa i risparmi per gli in* Non intendo, con ciò, sostenere che si possa essere virtuosi senza essere religiosi; sono stato per lungo tempo sostenitore di questa errata opinione, della quale non sono più convinto. Ma intendo dire che un credente può talvolta astenersi, per motivi di pura virtù so-

253 cidenti imprevisti? Senza questi espedienti non vedo come possano essercene altri di praticabili che non siano quelli delle tasse e delle imposizioni; si tratterebbe di riunire i nostri cittadini e i nostri borghesi in consiglio generale nella chiesa di Saint Pierre e proporre loro,

con

la

massima

serietà,

di

istituire

un'imposta per l'istituzione di un teatro stabile. Dio non voglia che i nostri saggi e degni magistrati siano mai capaci di fare una proposta del genere! Riguardo a come potrebbe venire accolta, lo si può prevedere facilmente dall’accoglienza che è stata riservata al vostro articolo. Se per sventura noi riuscissimo a trovare qualche espediente per sormontare queste difficoltà, sarebbe tanto peggio per noi; perché ciò potrebbe avvenire soltanto col favore di qualche vizio segreto che, rendendoci ancora più meschini nella nostra pochezza, finirebbe prima o poi col perderci. Supponiamo tuttavia che il nostro grande amore per il teatro riuscisse a compiere un tale miracolo: immaginiamo degli attori felicemente stabiliti

a Ginevra,

tenuti

efficacemente

a freno dalle nostre leggi, un teatro fiorente e molto frequentato; supponiamo infine la nostra città in quello stato in cui voi dite che si troverebbe se avesse insieme una buona morale e degli spettacoli e potesse unire i vantaggi degli uni e quelli degli altri: vantaggi che comunque mi sembrano poco conciliabili tra loro, dato che quello degli spettacoli, essendo solo un surrogato della buona morale, non potrebbe sopravvivere laddove quest’ultima esiste già. La prirma immediata conseguenza di una tale istituzione sarebbe, come ho già detto, una rivoluzione delle tudini. Questa rivoluzione

nostre abiavverrebbe

ciale, da certe azioni indifferenti e che non

in se stesse direttamente

in bene o in male? dobbiamo esaminare.

la coscienza,

come

È ciò che

che sono riguardano

ormai

il fatto di recarsi a teatro

in un luogo in cui non mili manifestazioni.

è bello

sopportare

si-

LETTERA

254 Non esiste Stato costituito sanamente in cui non ci siano consuetudini relative alla forma di governo e che non contribuiscano a mantenerla. Tale era, per esempio, in altri tempi, a Londra, quella dei salotti, così ingiustamente ridicolizzata dai redattori dello « Spectator » *: a questi salotti, una volta divenuti ri. dicoli, sono succeduti i caffè e i luoghi di malaffare. Dubito che il popolo inglese abbia tratto un reale vantaggio dal cambiamento avvenuto. Salotti simili esistono attualmente a Ginevra col nome di circoli; e ho modo, Signore, di giudicare,

in

base

al

vostro

articolo,

che

voi avevate notato con approvazione il tono sensato e ragionevole che vi regna. Questa usanza è antica presso di noi, nonostante la novità del nome. Tali

salotti esistevano già ai tempi della mia fanciullezza sotto il nome di società;

ma

la forma ne era meno buona e meno regolare. L'esercizio delle armi che ci riunisce tutte le primavere, le diverse lotterie che si tengono durante un certo periodo dell’anno, le feste militari che sono occasione di queste lotterie, l'amore per la caccia, comune a tutti i Ginevrini, dando occasione a frequenti riunioni di uomini, favorivano le cene co-

muni, le scampagnate, e infine le amici.

zie; ma queste riunioni, che avevano co-

me scopo soltanto il divertimento, avvenivano solo nelle osterie. Le nostre discordie civili, per cui la necessità di discutere dei problemi costringeva a riunirsi più spesso e a deliberare con calma,

fecero

diventare

queste

rumorose

società, incontri più austeri. Queste riunioni presero il nome di circoli; e da una causa molto triste sono derivati effetti molto buoni *. Questi

circoli

sono

società

di dodici

o quindici persone, che affittano un comodo appartamento, fornito con spese comuni di mobili e dei necessari apparati. In questo appartamento si recano ogni pomeriggio quei soci che non sono trattenuti altrove dai loro affari o dai loro divertimenti.

Ci si riunisce colà, e

ciascuno si dedica tranquillamente ai pas* Parlerò

tra poco

degli

inconvenienti.

satempi

preferiti;

A D'ALEMBERT

si giuoca

a carte,

si

discorre, si legge, si fuma, si beve. Qual-

che volta vi si cena, ma raramente, perché i Ginevrini sono ordinati e amano vivere insieme alla propria famiglia. Spesso si passeggia anche insieme, e come divertimento si fanno esercizi che rendono e mantengono robusto il corpo. Le signore e le fanciulle, da parte loto, si uniscono in gruppi, in casa dell'una o dell'altra. Scopo di queste riunioni è un giuoco di società, una merenda e, come è facile immaginare, un inesauribile

chiacchiericcio.

anche se non

Gli

sono severamente

uomini,

esclusi

da queste riunioni, vi intervengono raramente; sono più propenso a pensare

male di chi vi si reca spesso di chi non vi si fa mai vedere. Tali sono i divertimenti giornalieri della borghesia ginevrina. Pur senza essere privi di piacevolezza e di allegria, hanno qualcosa di semplice e di innocente,

ma

tipico della

appena

vi

morale

fosse

circoli, addio riunioni!

un

repubblicana;

teatro,

addio

Ecco in cosa con-

sisterebbe la modificazione da me predetta: tutto ciò decadrebbe inevitabil. mente; se mi citaste come esempio Londra,

di

cui

io

stesso

ho

parlato,

dove

l’esistenza dei teatri stabili non impediva quella dei salotti, vi risponderò

che, ri

sia

nell’abolizione

dei

circoli...

No,

Si-

te;

ma

che

mi

avete

co-

spetto a noi esiste una notevole differenza: mentre il teatro è solo un punto di quella immensa città, nella nostra diventerebbe un oggetto enorme, capace di assorbire ogni interesse. Se voi mi chiedeste poi che male ci gnore, un filosofo non può mai fare una domanda del genere; questi sono discorsi degni delle donne o dei giovani, che considerano i nostri circoli come un corpo di guardia e credono già di sentire l'odore di tabacco. Bisogna tuttavia rispondere, perché questa volta, anche se mi rivolgo a voi, parlo per il pubblico, e ciò è senza dubbio evidenstretto. Dico

siete

per

voi

prima

cosa

ci

che

se l’odore

LETTERA

A D’ALEMBERT

255

del tabacco è una cosa negativa, è invece ottima cosa restare padroni dei propri beni ed essere sicuri di dormire a casa propria. Ma dimenticavo già che non sto scrivendo per dei d'Alembert. Bisogna che io mi spieghi in una maniera diversa. Seguiamo le indicazioni della natura, chiediamo quale sia il bene della società;

ne ricaveremo che i due

lute;

infatti

sessi de-

vono pur riunirsi qualche volta, ma devono vivere normalmente separati. L'ho già detto per quel che riguarda le donne, e lo ribadisco ora per gli uomini. Questi risentono quanto e più di loro di una eccessiva familiarità: esse vi perdono solo la reputazione, ma noi ci perdiamo sia la reputazione che la saquesto

sesso

più

debole,

anche se non è in grado di assumere il nostro stesso modo di vita, per lui troppo faticoso, ci costringe ad assumere il suo, che per noi è troppo molle; e siccome esse non sopportano la lontananza, nell’impossibilità di diventare

uomini,

tendono

a farci

diventare

sempre

a

capo

invece,

abbiamo

scoperto **.

In

tutto

maniere

com-

ciò niente donne: ma si sapeva dove trovarle in caso di bisogno, e dai loro scritti e nei frammenti delle loro conversazioni che sono giunte sino a noi non sembra che né lo spirito, né il gusto, né lo stesso amore perdessero niente ‘a causa di questa riservatezza. Noi, assunto

pletamente opposte; vilmente obbedienti alla volontà del sesso che dovremmo proteggere e non servire, abbiamo imparato a disprezzario mentre gli obbediamo e a offenderlo con le nostre cure ironiche; ogni donna di Parigi riunisce nel suo appartamento un serraglio di uomini che sono più effeminati di lei, che sono capaci di rendere qualsiasi omaggio alla bellezza tranne quello del cuore, di cui essa è degna. Tuttavia, guardate questi stessi uomini, sempre costretti in queste prigioni volontarie, alzarsi,

sedersi,

andar

continuamen-

te su e giù dalla finestra al caminetto, prendere e posare cento volte un parafuoco,

sfogliare

libri,

osservare

quadri,

donne. Questo inconveniente, degradante per l'uomo, è molto diffuso dappertutto; ma deve essere prevenuto essenzialmente negli Stati simili al nostro. Per un re, governare uomini o donne deve essere del tutto indifferente, purché venga obbedito; ma in una repubblica, gli uomini sono necessari *. Gli antichi passavano quasi tutta la loro vita all'aria aperta, oppure badando agli affari o occupandosi dello Stato sulla pubblica piazza, passeggiando in campagna, nei giardini, in riva al mare, sotto la pioggia o il sole, quasi

girare e piroettare per la stanza, mentre l'idolo disteso immobile sulla sua sedia a sdraio non ha di attivo che la lingua e gli occhi. Da cosa può venire questa differenza se non dalla natura che impone alle donne una vita sedentaria e casalinga e ne impone una tutta diversa agli uomini, e dal fatto che tale inquietudine mostra quali siano i veri bisogni di questi ultimi? Se gli Orien-

* Mi si dirà che essi sono necessari ai re per la guerra. Niente affatto. Invece di trenta-

Chi crederebbe mai che questo scherzo, il cui fine è abbastanza evidente, sia stato preso alla lettera in Francia, da persone intelligenti? ‘ ** Dopo la battaglia vinta da Cambise contro Psammetico, i cadaveri degli Egiziani spiccavano fra gli altri morti per la grande durezza del loro cranio dato che essi andavano sempre in gito a testa nuda, mentre i Persiani, sempre coperti dalle loro grandi tiare, avevano il cranio così tenero che la si poteva rompere

mila

uomini,

centomila

essi non

donne.

Le

fanno

donne

altro che

non

prendere

mancano

di

coraggio, preferiscono l'onore alla vita e quando combattono lo fanno bene. L’inconveniente del loro sesso è di non reggere alle fatiche della guerra e alle intemperie della cattiva stagione. La soluzione consiste dunque nell’averne sempre il triplo di quelle che sono necessarie per combattere, per poterne sacrificare

i due terzi alle malattie e alla mortalità.

tali, che il loro clima fa sudare abbondantemente, si dedicano scarsamente agli

esercizi fisici e non passeggiano tamente,

almeno

stanno

seduti

assolu-

all’aria

aperta per poter respirare meglio; men-

senza sforzi. Lo stesso Erodoto fu tempo dopo testimone di tale differenza *°.

256

LETTERA

tre invece,

qui da noi,

le donne

si pre-

occupano di far soffocare i loro amici in camere ben chiuse. Se paragoniamo la forza degli uomini antichi con quella dei moderni, non vi si trova alcuna similitudine. I nostri esercizi fisici sono giuochi da bambini in confronto all'antica ginnastica: abbiamo abbandonato la pallacorda perché troppo faticosa, non si viaggia più a cavallo. Non voglio parlare dei nostri eserciti. Non è possibile concepire marce come quelle degli eserciti greco e romano. Il percorso, la fatica, il carico del soldato romano è stancante anche a leggersi e opprime l'immaginazione. Gli ufficiali di fanteria non potevano andare a cavallo. Spesso i generali compivano a piedi gli stessi percorsi delle loro truppe. I due Catoni non hanno mai viaggiato in modo diverso, sia che fossero

soli, sia insieme

ai loro eserciti.

Anche Ottone, l’etterminato Ottone, mar-

ciava

pesantemente

armato

in

testa

al-

le proprie truppe, dirigendosi verso Vitellio. Si trovi al giorno d’oggi un solo guerriero che sia capace di fare altrettanto. Siamo decaduti in tutto. I nostri pittori e i nostri scultori si lamentano di non poter più trovare modelli paragonabili a quelli dell’antichità. Perché? L'uomo è degenerato? Forse la specie soffre di una decrepitezza fisica simile a quella dell'individuo? Al contrario: i Barbari del nord, che hanno, per così dire, popolato l'Europa con una nuova razza, erano più alti e più forti dei Romani che sono stati sconfitti e sotto* Fra tutti i popoli d’Italia, i Romani erano gli uomini di più bassa statura; Tito Livio riferisce che questa differenza era così grande che si notava al primo colpo d'occhio negli eserciti degli uni e degli altri. Ciò nonostante l'esercizio e la disciplina prevalsero talmente sulla natura che i deboli riuscirono a fare ciò che non riusciva ai forti, e li vinsero, ** Le donne, in generale, non hanno amore per nessun’arte, non si intendono di nessuna di esse e sono prive di genialità. Possono riuscire nelle opere minori che non richiedono altro che leggerezze di spirito, gusto, grazia, €

talvolta anche un po’ di filosofia e di raziona-

lità. Possono Jento, e tutto

acquisire scienze, erudizione, taciò che può essere acquisito gra-

A D’'ALEMBERT

messi da loro. Dunque noi, che discendiamo per la maggior parte da questa nuova razza, dovremmo essere più forti;

ma

gli

antichi

Romani

vivevano

da

uomini* e traevano nei loro continui esercizi il vigore che la natura gli aveva rifiutato; nol invece disperdiamo il nostro vigore nella vita molle e indolente cui siamo ridotti dalla dipendenza sessuale. Se i Barbari di cui ho appena parlato vivevano in comunanza con le donne, non per questo vivevano alla loro maniera;

erano

le donne

che avevano

il

coraggio di vivere come loro, così come le Spartane. Le donne diventavano robuste e gli uomini non diventavano deboli. Se questa continua cura di contrariare la natura è nociva al corpo, lo è ancora di più allo spirito: immaginate quale può essere la tempra di un uomo la cui unica occupazione sia quella di divertire le donne e che trascorre l'intera vita a fare per loro ciò che esse dovrebbero

fare per noi, quando,

sfiniti dai la-

vori di cui esse non sarebbero capaci, i nostri spiriti sono desiderosi di distrazione. Abbandonati a queste abitudini infantili, come potremmo elevarci fino a qualcosa di grande? Il nostro talento, i nostri scritti risentono di queste frivole occupazioni **; sono piacevoli se si vuole, ma meschini e freddi come i nostri sentimenti; il loro unico merito consiste

in una certa piacevolezza che non è tuttavia difficile conferire a queste nullità. Questa moltitudine di opere effimere che nascono ogni giorno ha come unico zie allo studio. Ma quel fuoco celeste che riscalda e infiamma gli animi, quel genio che consuma e divora, quella bruciante eloquenza, quelle sublimi estasi che portano fino in fondo ai cuori il loro fascino saranno sempre assenti dagli scritti dalle donne: questi sono sempre freddi e graziosi, in loro somiglianza; saranno pur spiritose, ma sempre prive di nerbo; saranno più sensate che appassionate. Non sanno né descrivere né sentire l’amore. A mia co-

noscenza solo Saffo e un'altra fanno eccezione. Sono pronto a scommettere qualsiasi cosa che

le

Lettere

Portoghesi

uomo ", Dovunque

sono

state

le donne

scritte

abbiano

da

del

un

po-

tere, domina anche il loro gusto: ecco cosa determina il gusto del nostro secolo.

LETTERA

257

A D'ALEMBERT

scapo quello di divertire le donne ed è priva di forza e di profondità; pet questo va a finire sempre dalla toeletta al

cestino della carta straccia. Questo è il modo per poter riscrivere continuamen-

te le stesse cose e per renderle continuamente nuove. Mi si citeranno due o tre opere che fanno eccezione; ma io sono in grado di citarne centomila che possono confermare la mia tesi. Per questo motivo, la maggior parte delle opere del nostro secolo periranno con lui, e la posterità avrà l'impressione che

questo periodo, in verità così fertile di opere letterarie, ne abbia prodotte pochissime. Non

sarebbe

difficile

dimostrare

che,

con queste abitudini, le donne ci perdono invece di guadagnarci. Noi le lusinghiamo senza amarle, le serviamo senza render

loro onore,

le circondiamo

di

persone piacevoli ma esse sono prive di autentici amanti; il peggio è che le prime, senza avere i sentimenti dei secondi, ne usurpano comunque i diritti. La comunanza dei due sessi, diventata troppo facile e troppo diffusa, ha prodotto, queste due conseguenze, e in questo modo lo spirito generale della galanteria soffoca contemporaneamente il talento e l’amore. Da parte mia, soffro nel pensare quanto poco onore venga reso alle donne, a come si osi rivolger loro continuamente quelle sciocche galanterie, quei complimenti ironici e offensivi ai quali non si conferisce neppure l'aspetto esteriore della buona fede; offenderle con queste menzogne evidenti non equivale forse a dire che non si trova nessuna autentica verità da dir loro? Che l’amore si illuda

sulle qualità dell'essere

amato,

è cosa anche troppo frequente; ma tutto quello squallido gergo riguarda forse l'amore? Anche coloro che se ne servono, non lo usano forse con tutte le donne? Non sarebbero forse disperati se li si credesse sinceramente innamotati di una sola donna? Non se ne preoccupino. Bisognerebbe avere una ben strana idea dell'amore per credere che ne siano capaci, e nulla è più lontano dal suo accento che quello della

galanteria. Dal mio modo di concepite questa grande passione, i suoi turbamenti, i suoi smarrimenti, le sue palpitazioni, le sue estasi e le sue espressioni

infuocate, il suo silenzio più totale e i suoi ineffabili sguardi che la timidezza rende temerari e che mostrano con la paura il desiderio; mi sembra che dopo un linguaggio così veemente, se all’innamorato capitasse anche una sola volta

di

dire

«Io

vi

amo»,

l’innamorata

indignata dovrebbe rispondergli « Voi non mi amate più » e non vorrebbe più rivederlo durante tutta la vita. I nostri circoli ci conservano ancora l'immagine degli antichi costumi: gli uomini riuniti tra loro, dispensati dal dover abbassare le loro idee al livello delle donne e dal dover rivestire galantemente la ragione, possono occuparsi di discorsi importanti e seri senza timore del ridicolo. Si osa parlare di patria e di virtù, senza passare per noiosi, si osa

essere se stessi senza doversi piegare alle massime di una pettegola. Se l’argomento della conversazione diventa meno elegante la ragione prende il sopravvento;

non

ci si permettono



scherzi



facezie; non ci si tira d’impaccio grazie a una battuta di spirito; non si hanno eccessivi riguardi durante una discussione: ognuno vedendosi attaccato da un avversario nel pieno delle sue capacità,

si vede

costretto

a usare

tutte

le

sue per difendersi. Ecco come lo spirito acquista equilibrio e vigore. Non ci si vergogna troppo se vengono a galla espressioni licenziose: i meno vol gari non sono sempre i più onesti, e un linguaggio un po’ rustico è comunque preferibile a quello stile troppo ricercato con cui i due sessi si seducono reciprocamente e si familiarizzano elegantemente col vizio. Il modo di vivere più conforme alle inclinazioni dell'uomo è quello più adatto al suo temperamento: non si resta tutto il giorno seduti, ci si occupa in esercizi fisici, si va e si viene; infatti molte riunioni si tengono in campagna e altre l'hanno come meta. Ci sono giardini adatti alle passeggiate, spaziosi cortili per gli esercizi fisici, un grande lago per nuotare, tutta la cam-

LETTERA

258 pagna libera per andare a caccia; e non bisogna credere che questa caccia sia altrettanto comoda che nei dintorni di Parigi, dove si trova la selvaggina davanti ai piedi e dove si spara stando a cavallo. Infine queste oneste istituzioni contengono tutto ciò che può contribuire a formare negli stessi uomini degli amici,

dei

cittadini,

dei

soldati,

in

de-

finitiva tutto ciò che è più adatto a un popolo libero. Le società di donne vengono accusate di un difetto, quello di renderle maldicenti e ironiche; del resto si può ben capire che i pettegolezzi di una piccola città non sfuggano a questi citcoli femminili;

ci si rende

anche

conto

che

neanche i mariti assenti vengano risparmiati, e che ogni donna bella e ammi. rata non sia ben vista nel circolo della sua vicina. Ma forse questo inconveniente è più positivo che negativo ed è senza dubbio un male minore di quelli di cui prende il posto: infatti cos'è meglio, che una donna sparli del marito insieme alle amiche o che gli faccia del male stando sola a colloquio con un uomo? È peggiore il fatto che critichi la sregolatezza della sua vicina o che la imiti? Anche se le Ginevrine usano raccontare con facilità ciò che sanno e a volte ciò che immaginano, esse tengono in orrore la calunnia e non le si sentità mai intentare nei confronti di qualcuno accuse che loro stesse ritengono false; mentre in altri paesi le donne, ugualmente colpevoli per il loro silenzio e per i loro discorsi, nascondono per paura di ritorsioni il male che conoscono, mentre rendono pubblico per vendetta il male da loro inventato. Quanti pubblici scandali non vengono frenati dal timore di queste severe osservatrici? Nella nostra città esse svolgono quasi ufficio di censori. Allo stesso modo, ai bei tempi di Roma, i cit* Questo principio, su cui i buoni costumi, è sviluppato

chiara e più estesa

in un

si in

basano tutti maniera più

altro scritto di cui

io sono depositario e che mi riservo di pubblicare, se mi resta tempo per farlo, anche se questo annunzio non è proprio adatto a conciliar-

A D'ALEMBERT

tadini che si sorvegliavano tra loro, si accusavano pubblicamente per amore della giustizia; ma quando Ro oma divenne corrotta, e non vi fu altro da fare per i buoni costumi che nascondere quelli cattivi, l’odio per i vizi, tendente a smascherarli, venne considerato un vizio esso. stesso. Ai cittadini zelanti succedettero i delatori infami; mentre prima erano

i buoni

volta.

Per

ad accusare

i cattivi, ora

furono i primi a essere accusati a loro fortuna,

noi

siamo

ben

lon-

tani da una così funesta situazione. Non siamo ridotti al punto di nasconderci ai nostri stessi occhi per paura di farci orrore. Per quel che mi riguarda, le donne non godranno di maggior rispetto quando saranno più circospette: saranno più indulgenti quando avranno più motivi per esserlo con se stesse; quando ciascuna avrà bisogno di discrezione per se stessa, ne darà l'esempio alle altre. Non ci si allarmi dunque per i pettegolezzi dei circoli femminili. Che sparlino quanto vogliono purché lo facciano fra di loro. Delle donne che fossero veramente corrotte non riuscirebbero a sopportare a lungo questo modo di vivere, e per quanto sia loro cara la maldicenza, preferirebbero praticarla insieme agli uomini. Nonostante quel

che mi è stato detto, non ho mai visitato nessuna di queste società senza ave-

re un spetto

segreto moto di stima e di riper le sue componenti. Questo

è, dicevo

a me

stesso,

il fine della

na-

tura che conferisce gusti diversi ai due sessi perché vivano separati, ciascuno a proprio modo*. Queste deliziose persone passano così il loro tempo, dedite alle occupazioni che sono degne di loro o a divertimenti semplici e innocenti, molto adatti a colpire un cuore onesto e a dare una buona impressione di sé. Non posso sapere che cosa abbiano

gli

detto,

ma

hanno

vissuto

insie-

in anticipo il favore delle signore. Sarà facile capire che il manoscritto di cui parlavo in questa nota era quello della Nuova Eloisa, che apparve due anni dopo questa ope-

ra”.

LETTERA

259

A D'ALEMBERT

me, forse hanno parlato di uomini, ma

porto

cavano così severamente il comportamento degli altri, almeno il loro era irreprensibile. Anche i circoli maschili hanno senza

dominato dall'ordine e dalla regolarità. È anche facile dimostrare che gli abusi che possono risultarne deriverebbero ugualmente da qualsiasi altro tipo di rapporto, che anzi potrebbe produrne di ancora peggiori. Prima di pensare a distruggere un’usanza ormai stabilita, bisogna aver ben considerato cosa porre al posto di essa. Chiunque sia in grado di proporne una che sia facile da mettere in pratica e che non comporti nessun abuso possibile, la proponga dunque, e che i circoli vengano definitivamente chiusi, alla buon'ora, Intanto lasciamo che passino le notti a bere coloro che altrimenti le trascorrerebbero intenti a fare cose peggiori. Ogni intemperanza è un vizio, soprattutto quella che ci toglie la più nobile delle nostre facoltà. L’eccesso del vino degrada l'uomo, aliena almeno temporaneamente la sua ragione, finisce con abbrutirlo. Ma in definitiva l'amore per il vino non può essere considerato un

ne hanno

dubbio

fatto a meno;

i loro

difetti,

e mentre

ma

cosa

scosto,

criti-

di uma-

no non ha i suoi? Vi si gioca, vi si beve, ci si ubriaca, vi si trascorrono le notti: queste cose possono essere vere come possono essere esagerate. Dappertutto

vi è del

bene

sioma

triviale,

che

diversa

misura.

e del

Si abusa non

male,

ma

si deve



di tutto:

in

as-

re-

spingere né accettare completamente. La regola per scegliere è semplice: quando il bene è superiore al male, bisogna accettarlo nonostante i suoi inconvenienti. Quando il male supera il bene, bisogna respingerlo anche se presenta dei vantaggi. Quando la cosa è buona in sé ed è cattiva solo per i suoi eccessi, e se gli eccessi possono essere evitati senza

difficoltà o tollerati

senza

danno,

allora

possono servire come pretesto per abolire senza ragione una usanza utile; ma ciò che è cattivo in sé, lo sarà sempre *, qualunque cosa si faccia per trarne vantaggio. Questa è la differenza essenziale fra i circoli e gli spettacoli. I cittadini di uno stesso Stato, gli abi. tanti di una stessa città non sono eremiti, non sarebbero capaci di vivere sempre soli e separati, anche se lo potessero; non dovrebbero esservi obbligati. Solo il despotismo più estremo si allarma alla vista di sette o otto uomini riuniti, temendo sempre che i loro incontri servano a discutere delle loro sventure. Ora, fra tutti i tipi di rapporto che possono riunire dei privati in una città come

la nostra,

i circoli sono certamen-

te il più ragionevole, il più onesto e il meno pericoloso: poiché questo rap* Parlo

dell'ordine

morale,

perché

nell’ordi-

ne fisico non esiste nulla di assolutamente cattivo. Tutto vi è buono.

** Non calunniamo questo vizio; non è abbastanza brutto da se stesso? Il vino non fa diventare cattivi, rivela coloro che sono tali. Chi, în stato di ubriachezza uccise Clitus, uccise

Philotas a sangue freddo. Se l’ubriachezza ha le

x

non

crimine;

esso

può

né vuole

è pubblico,

è infatti causa

rimanere

è lecito

di pochi

ed

na-

è

delitti,

fa diventare gli uomini stupidi ma non cattivi **. Per una lite passeggera da lui provocata, ci sono cento durevoli amicizie. Parlando genericamente, i bevitori sono cordiali, sinceri; sono quasi tutti uomini buoni, onesti, giusti, fedeli

e coraggiosi, escluso il loro difetto particolare. Si può dire altrettanto dei vi-

zi che si sostituiscono a questo? Oppure vogliamo fare, di tutta una città, un

popolo di persone prive di difetti e moderate in ogni loro manifestazione? Quante apparenti virtù spesso non fanno altro che nascondere vizi reali! I saggi non bevono perché sono temperanti, gli astuti perché sono falsi. Nei paesi di cattivi costumi, di intrighi, di tradimenti e di adulteri, si teme uno stato

sue escandescenze, quale passione ne è priva? La differenza sta nel fatto che le altre passioni restano sepolte nel fondo dell'animo, mentre questa si accende e si estingue all'istante. A parte questa esaltazione, passeggera e facilmente evitabile, stiamo pur sicuri che chiunque si comporti male nell'ebrezza, già da sobrio aveva cattive intenzioni.

LETTERA

260 di indiscrezione in cui l'animo finisce con lo scoprirsi senza che lo si voglia. Dovunque, la gente che detesta l’ubriachezza è sempre quella che ha maggior interesse a garantirsene: in Svizzera essa

viene

quasi

tenuta

in stima,

a Na-

poli viene detestata; ma bisogna temere di più l'intemperanza dello Svizzero o la riservatezza dell’Italiano? Lo ripeto, la cosa migliore sarebbe essere sobri e sinceri, non solo per se stessi ma anche per la società; infatti tutto ciò che è cattivo moralmente,

lo è

anche da un punto di vista politico. Ma il predicatore si limita al male personale, mentre il magistrato ne vede solo le conseguenze sociali; il primo ha come fine la irraggiungibile perfezione del-

l’uomo, l’altro ha come scopo il bene dello Stato, nella misura in cui esso è

raggiungibile; quindi non tutto ciò che giustamente viene biasimato dal pulpito deve essere sempre punito dalle leggi. Un popolo non è mai perito per l'eccesso di vino, mentre tutti periscono per il disordine della condotta femminile. La ragione di questa differenza è evidente: il primo di questi due vizi allontana dagli altri, il secondo li genera tutti. Anche la differenza d’età vi contribuisce: il vino tenta di meno i giovani e li abbatte con minore facilità; infatti il sangue ardente dà loro altri desideri; nell'età delle passioni, tut-

te si infiammano per il fuoco di una so-

la; la ragione si altera nel momento stesso in cui nasce; l'uomo ancora sel-

vaggio diventa indisciplinato prima di esser stato sottomesso al giogo delle leggi. Ma se un sangue ormai freddo cerca un

soccorso

che

lo rianimi,

se un li-

quore benefico riesce a supplire allo spirito ormai scomparso *, se un vecchio abusa di questa dolce medicina, egli ha comunque finito da tempo di avere doveri nei confronti della sua patria, la priva soltanto dei suoi anni superflui. Ha senza dubbio totto: cessa infatti di essere un cittadino prima ancora di morire. Ma il giovane non ha ancora inizia-

* Platone, nelle sue Leggi permette l'uso del vino soltanto ai vecchi, e ad essi permette an-

A D'ALEMBERT

to ad esserlo: diventa piuttosto un nemico pubblico, per la seduzione operata sui suoi complici e per l'esempio e l’effetto della sua morale

corrotta,

so-

prattutto a causa dei costumi esiziali che non manca di diffondere intorno a sé per renderli leciti. Sarebbe meglio che un tale individuo non fosse mai. esistito. Dalla passione per il giuoco nasce un abuso più pericoloso, ma che viene represso o prevenuto con maggiore facilità. È una questione di polizia, la cui ispezione diventa più facile e più efficace nei circoli che nelle case private. Anche l’opinione pubblica può avere una certa importanza su questo argomento, e non appena si metteranno in auge i giuochi basati sull'esercizio fisico e sull’abilità,

le carte,

i dadi,

i vati

giuochi d'azzardo cesseranno sicuramente. Jo stesso non credo, dica, che questi sistemi

checché se ne oziosi e diso-

nesti di rimpinguare le proprie finanze acquistino mai un grande credito presso un popolo ragionevole e laborioso, che conosce troppo il valore del tempo e del denaro per divertirsi a perderli contemporaneamente. Manteniamo dunque i circoli nonostante i loro difetti; questi difetti infatti non derivano dall'istituzione in sé ma dagli uomini che ne fanno parte; non esiste nella vita sociale alcuna forma possibile nella quale questi stessi difetti non producano conseguenze più negative. Ancora una cosa, non stiamo a cercare la chimera della perfezione, ma cerchiamo invece la migliore situazione possibile di quelle che sono consentite dalla natura umana e dalla organizzazione della società. Esistono popoli cui mi rivolgerei dicendo: « Distruggete i circoli e i salotti, togliete ogni barriera di

convenienza

tra

i sessi,

arrivate,

se

è possibile, fino a essere perfettamente corrotti. Ma voi, Ginevrini, evitate di divenitlo se siete ancora in tempo. Temete il primo passo che non resta l’unico, ricordatevi che è più facile conserche l’abuso estemporaneo ??,

LETTERA

261

A D'ALEMBERT

vare i buoni costumi che frenare i cattivi ». Basterebbero due soli anni di teatro per rovinare tutto. Non si riuscirebbe a dividersi fra tanti divertimenti: poiché l'ora degli spettacoli coinciderebbe con gli orari d'apertura dei circoli, ne provocherebbe la fine; troppi soci se ne allontanerebbero,

i

restanti

sarebbero

troppo poco assidui per poter essere di risorsa gli uni agli altri e per far sopravvivere a lungo le associazioni. I due sessi quotidianamente riuniti in uno stesso luogo, i gruppi che si formerebbero

per recarvisi,

i modi

di vivere che

vi si vedrebbero rappresentati e che sarebbero presto imitati da tutti, l'esposizione di signore e signorine vestite a festa e messe in mostra nei palchi come nella vetrina di un negozio in attesa di acquirenti, l’affluenza di tutta la bella gioventù che verrebbe a mettersi in mostra da parte sua, e che troverebbe più divertente la pratica delle riverenze a teatro che quella della ginnastica a PleinPalais,

le scenette

intime

con

le donne

che verrebbero organizzate all'uscita, quanto meno con le attrici, e infine il disprezzo per le antiche abitudini, derivante

dall'adozione

delle

nuove;

tut-

to ciò sostituirebbe presto alla nostra antica semplicità la piacevole atmosfera della Francia e la divertente vita di Parigi; dubito del resto che dei Parigini in visita a Ginevra potrebbero conservare a lungo la loro simpatia per il nostro governo Inutile nasconderlo: le intenzioni sono ancora oneste, ma già la morale prende la china della decadenza; noi seguiamo da vicino le tracce di quei popoli la cui sorte paventiamo continuamente. Ad esempio, mi si assicura che l’educazione della gioventù è generalmente .migliorata; tutto ciò, tuttavia può essere provato soltanto col dimostrare che essa ha preparato cittadini migliori. Certo i fanciulli fanno meglio la riverenza e sanno prendere più galantemente la mano delle signore, sanno dir loro una infinità di gentilezze a causa delle quali mi piacerebbe farli frustare; sono certo capaci di decidere, esprimere la propria opinione,

fare domande, togliere la parola agli adulti e dar fastidio a tutti senza modestia e senza discrezione. Mi si dice che questo li forma: sono d'accordo sul fatto che li forma a diventare impertinenti, cosa che fra tutte quelle che imparano sarà l’unica che non dimenticheranno. Non è tutto, Per trattenerli vicini alle donne che essi sono destinati a fare divertire,

li si alleva

suoi benefici

effetti;

come

bambine,

li si protegge dal sole, dal vento, dalla pioggia, dalla polvere, affinché non possano mai essere in grado di sopportare queste cose. Poiché non si può preservarli completamente dal contatto con l'aria aperta, li si espone ad essa solo quando ha perduto almeno la metà dei li si priva di qual-

siasi esercizio fisico, si tolgono loro tutte le capacità, li si rende incapaci a qualunque cosa tranne che a quei servigi galanti cui sono destinati; l'unica cosa che le donne non esigono da questi vili schiavi è che vengano consacrati al loro servizio alla moda degli Orientali. Fatta questa eccezione, l’unica cosa che li distingue da loro è che, non avendo ricevuto dalla natura le grazie di quelle, vi sostituiscono il ridicolo. Durante il mio ultimo viaggio a Ginevra, ho già visto diverse di queste signorine in giustacuore, con i denti bianchi, le mani curate, la voce flautata, con in mano un

grazioso parasole verde, tentare di imitare gofamente i grandi. Ai miei tempi si era più rozzi; i fanciulli,

allevati

rusticamente,

non

ave-

vano paura di abbronzarsi, non temevano le correnti d'aria, cui erano stati abituati fin dalla più tenera età. I padri li portavano a caccia con loro, li conducevano in campagna, li abituavano ai più svariati esercizi fisici e alle più diverse compagnie. Timidi e riservati nei confronti degli adulti, erano coraggiosi, fieri e combattivi

tra di loro;

cura,

si sfidavano

alla

volta

si ferivano,

e poi

vano

nessuna

pettinatura

lotta,

di

non

cui

ave-

aver

alla corsa,

ai pugni; si battevano con abilità e talsi abbracciava-

no piangendo. Ritornavano a casa sudati, senza fiato, strappati; erano dei monelli; ma questi monelli sono diven:

LETTERA

262 tati vomini che hanno nel cuore l’amore per la patria e sangue da versare per essa. Piaccia a Dio che un giorno si possa dire altrettanto dei nostri bei signorini così agghindati, e che questi uomini di quindici anni non diventino bambini a trenta anni! Fortunatamente non sono tutti così. La maggior parte di loro ha conservato

l'antica

rudezza,

che

mantiene

la

buo-

na salute come i buoni costumi. Anche coloro che sono stati rammolliti per un certo periodo da una educazione troppo raffinata,

saranno

costretti,

da grandi,

a

piegarsi alle abitudini dei loro compatrioti. Gli uni perderanno la loro asprezza nella frequentazione della gente; gli altri acquisteranno forza nell’esercitarla. Tutti diventeranno, lo spero, degni dei loro antenati o almeno di quel che sono oggi i loro genitori. Ma non dobbiamo illuderci di conservare la nostra libertà mentre rinunciamo a quei costumi che ce ne hanno resa possibile l’acquisizione. Ritorno ai nostri attori, sempre supponendo per loro un successo che mi sembra impossibile, e trovo che un tale successo sarebbe avverso alle nostre isti-

tuzioni, non solo in modo indiretto, attraverso l’attacco alla morale, ma an-

che direttamente, rompendo l’equilibrio che deve esistere tra lé diverse componenti dello Stato per conservarne intero il corpo. Tra le varie ragioni che potrei addurre, mi limiterò a sceglierne una che me-

glio si adatta alla maggioranza, dato che si occupa soltanto dell'interesse e del denato, sempre più evidenti, per gli uomini volgari, degli effetti morali dei quali non sono in grado di vedere il rap-

* Anche prezzo dei

patrimoni,

se si aumentasse la posti in proporzione

non

per questo

differenza a quella

del dei

l'equilibrio verreb-

be ristabilito. Questi posti inferiori, messi a un prezzo troppo basso, verrebbero disertati dal popolo minuto; e ognuno, pur di occuparne di più dignitosi, finirebbe sempre con lo spendere più dei propri mezzi. Sono osservazioni che si possono fare agli spettacoli della

Fiera. Il motivo di questo disordine è nel fatto

A D’ALEMBERT

porto con le cause, né l'influenza sul destino dello Stato. Si possono considerare gli spettacoli,

quando hanno successo, come una specie di tassa che, anche se volontaria, non

è meno pesante per il popolo; visto che gli fornisce una continua occasione di spesa, cui esso non è capace di resistere.

Questa

tassa

è

negativa,

non

solo

perché la collettività non ne trae alcun vantaggio, ma anche perché la ripartizione, invece di essere proporzionale, pesa sul povero al di sopra delle sue sostanze e attenua le spese del ricco sostituendo i divertimenti più costosi che esso si procurerebbe in mancanza di quello. Per essere d’accordo, basta fare attenzione alla differenza di prezzo dei posti, che non è né può essere proporzionale alle sostanze delle persone che li occupano. Alla Comèdie Francaise i palchi di prim'ordine e la platea 5 costano quattro franchi per le rappresentazioni ordinarie, sei quando c’è l’aumento; invece i secondi posti costano venti soldi, e si è anche cercato parecchie vol-

te di aumentarli. Ora, non si può dire che il patrimonio dei più ricchi che vanno a teatro è solo il quadruplo di quello dei più poveri. Parlando in generale, i primi sono anche troppo ricchi, mentre la maggior parte degli altri non possiede nulla *. Avviene la stessa cosa che con le imposte sul grano, sul vino, sul sale, su tutte le cose necessarie alla vita, tasse che sembtano giuste a prima vista, ma che sono, in verità, molto ini-

que: infatti il povero, che può spendere solo per le cose necessarie, è obbligato a sperperare i tre quarti di ciò che spende con le tasse, mentre questo stesso necessario costituisce una minima par-

che

le prime

ferimento

file costituiscono

fisso,

cui

tutti

un

tendono

punto

di ri-

sempre

ad

avvicinarsi, senza che lo si possa spostare. Il povero cerca continuamente di elevarsi al di sopra dei suoi venti soldi, ma il ricco, per sfuggire alla sua vicinanza, non ha altro rifugio al di sopra dei suoi quattro franchi, suo malgrado deve lasciarsi avvicinare e, se ne soffre nell’orgoglio, ci guadagna la sua borsa.

LETTERA

263

A D’ALEMBERT

te della spesa del ricco, per cui la tassa è quasi insensibile*. In questo modo chi possiede poco finisce col pagare molto e chi possiede molto paga poco; non vedo cosa possa esservi di giusto-in tutto ciò. Mi si può chiedere chi obblighi il povero ad andare a teatro. Io risponderò: primo, quelli che lo istituiscono e gliene danno

la

tentazione;

secondo,

la

sua

stessa povertà che, condannandolo a un

continuo

lavoro, senza speranza di ripo-

so, gli rende necessario qualche divertimento perché possa sopportarlo. Egli non si considera infelice di lavorare senza tregua se tutti gli altri fanno la stessa cosa; ma non è forse una cosa triste per chi lavora il privarsi dei diverti. menti cui anche gli oziosi hanno diritto? Perciò egli li condivide; e lo stesso divertimento che per il ricco è un modo di fare economia, indebolisce doppiamente il povero, sia per l'aumento delle spese che per la minore applicazione al lavoro, come ho già spiegato. Da queste nuove riflessioni consegue evidentemente che gli spettacoli moderni, ai quali si può assistere solo pagando, tendono in ogni modo

ad aumentare

il dislivello dei patrimoni, meno sensibilmente, in verità, nelle grandi capitali che nelle città piccole come la nostra. Anche ammettendo che tale inuguaglianza, limitata a un certo livello, possa avere i suoi vantaggi, certamente voi concederete che essa deve avere dei limiti, soprattutto in un piccolo Stato repubblicano. In una monarchia, in cui tutte le classi sono intermedie tra il principe e il popolo, il fatto che alcuni individui passino dall’una all’altra classe può essere

anche

senza

importanza;

infatti,

dal momento che altri ne prendono il posto, questo cambiamento non interrompe il progresso sociale. Ma in una democrazia, dove gli stessi uomini sono sudditi e sovrani, considerati sotto rap* Ecco

altri loro

allo

perché

gli imposteurs

pubblici

bricconi

scopo

affamare

monopolio

mentre

di

il ricco

sulle

non

ha

di Bodin

stabiliscono

cose

essenziali

lentamente

motivi

per

e gli

sempre

il

alla vita,

il

popolo

lamentarsi.

porti differenti 5, non appena un piccolo numero di loro superi in ricchezza

la massa,

lo Stato deve

ricchezze.

So

necessariamente

perire o trasformarsi. Sia che il ricco diventi più ricco o il povero più indigente, la disparità tra i patrimoni aumenta comunque; e tale disparità, diventata eccessiva, finisce col distruggere l’equilibrio di cui ho parlato. i In una monarchia, la ricchezza non potrà mai elevare un privato al di sopra del sovrano; mentre in una repubblica essa lo potrà facilmente elevare al di sopra delle leggi. Il governo verrà così esautorato e il ricco diventerà l’unico sovrano. In base a questi principi incontestabili, resta da stabilire se l’inuguaglianza non abbia raggiunto tra noi quel limite cui essa può pervenire senza porre in pericolo la repubblica. Riguardo a questo fatto mi rimetto a coloro che meglio di me conoscono la nostra costituzione e la nostra ripartizione delle soltanto

che, essendo

solo

il tempo quello che imprime all’ordine delle cose una naturale inclinazione verso questa inuguaglianza facendola successivamente progredire fino al suo termine ultimo, sarebbe una grande imprudenza accelerarla maggiormente con istituzioni che la favoriscono. Il grande Sully, che ci amava, sarebbe ben stato capace di dircelo: gli spettacoli e il teatro, in una piccola

repubblica

come

Ginevra,

inde-

boliscono lo Stato. Se la sola istituzione del teatro ci è tanto nociva, che profitto trarremo dalle

commedie che vi si rappresentano? I vantaggi che esse possono procurare ai popoli per cui sono state scritte torneranno a nostro danno dandoci come istruzione quello che è stato dato loro come censura, o almeno dirigendo i nostri gusti e le nostre inclinazioni su quelle cose del mondo che convengono meno. La tragedia ci rappresenterà tiranni ed eroi. Cosa potremmo farcene? Siamo forse adatSe fosse minacciato il minimo oggetto lussuoso

o fastoso, tutto sarebbe perduto; ma purché i grandi siano contenti, che importa se il popolo muore di fame?

LETTERA

264 ti per averne o per diventare tali? Essa ci procurerà una inutile ammirazione per la potenza e per la grandezza. A che ci servirà? Diventeremmo più grandi o più potenti per questo? Che importanza può avere per noi l’osservare sulla scena quali siano i doveri dei sovrani, mentre trascureremo i nostri? La sterile ammirazione per le virtù letterarie potrà mai compensare le virtù semplici e modeste che formano un buon cittadino? Invece di guarirci dalle nostre manie, la commedia ci contagerà con quelle altrui: ci convincerà che abbiamo torto a disprezzare quei vizi che altrove vengono stimati. Per quanto stravagante possa essere un marchese, resterà sempre un marchese. Rendetevi conto quale risonanza questo titolo possa avere in un paese tanto fortunato da non averne; e chissà quanti zoticoni crederanno di essere alla moda,

imitando

i marchesi

del

secolo scorso! Non voglio ripetere quello che ho già detto sulla buona fede sempre ingannata, sul vizio scaltro che trionfa sempre, sul continuo esempio delle bricconerie presentate come divertenti. Che lezioni per un popolo i cui sentimenti sono ancora tutti ricchi di naturale onestà, che pensa che un furfante è sempre degno di disprezzo e che un uomo onesto non può mai essere ridicolo! Come? Platone bandiva Omero dalla sua repubblica, e noi dovremmo sopportare Molière nella nostra? Che cosa potrebbe esservi di peggio per noi che di rassomigliare agli individui che egli descrive, anche a quelli per cui ci ispira amore? Ho

già detto abbastanza, credo, al lo-

ro riguardo; né ho migliore opinione degli eroi di Racine, di questi eroi così ben

vestiti, così dolciastri, così

teneri, i

quali sotto una parvenza di coraggio e di virtù ci mostrano soltanto i modelli dei giovinotti di cui ho parlato, dediti alla galanteria, alla mollezza, all'amore, a

tutto ciò che può effeminare l’uomo e intiepidirlo nell'amore per i suoi autentici doveri. Tutto il teatro francese si ispira solo alla tenerezza: essa è la grande virtù cui tutte le altre vengono sa-

crificate, o che

quanto

meno

viene

resa

A D’'ALEMBERT

desiderabilissima agli occhi degli spettatori. Non voglio dire che si abbiano tutti i torti, almeno per quel che riguarda lo scopo del poeta; so bene che un uomo privo di passioni è solo una chimera; che l’interesse del teatro è fondato solo sulle passioni; che il cuore non si interessa a quelle che gli sono estranee, né a quelle che preferiamo non vedere negli altri anche se vi siamo soggetti noi stessi. L'amore per l'umanità, quello per la patria, sono i sentimenti la cui rappresentazione commuove maggiormente quelli che ne sono compenetrati; ma quando queste due passioni si estinguono, resta solo l'amore propriamente detto che sia capace di supplirvi, dato che il suo fascino è più naturale e viene meno facilmente cancellato dal cuore rispetto agli altri. Ciò nonostante, esso non è ugualmente adatto a tutti gli uomini, e lo si può ammettere più facilmente come complemento ai buoni sentimenti

che

tome

sentimento

buono

in

sé,

non perché non sia lodevole di per se stesso, core qualsiasi passione ben regolata, ma perché i suoi eccessi sono pericolosi e inevitabili. Il più malvagio degli uomini è quel. lo che maggiormente si isola, che maggiormente concentra su se stesso il proprio sentimento; il migliore è colui il quale divide il suo affetto in modo uguale fra tutti i suoi simili. È meglio amare una donna che amare solo se stessi al mondo. Ma chiunque ami teneramente i propri genitori, i propri amici, la propria patria e il genere umano, si degrada se lo fa con un attaccamento disordinato, che nuoce ben presto a tutti gli altri e che viene loro inevitabilmente preferito. In base a questo principio affermo che vi sono paesi in cui i costumi sono talmente cattivi che sarebbe una fortuna poter risalire fino all’amore; ma che vi sono altri paesi dove i costumi sono tanto buoni che scendere fino ad esso diventerebbe una cosa negativa; oso credere che il mio paese sia tale. Aggiungerò che per noi gli oggetti di passioni smodate sono più pericolosi che per gli altri, dato che abbiamo anche troppo una inclinazione natu-

LETTERA

265

A D'ALEMBERT

rale ad amarli. Sotto un aspetto flemma-

di tatto, privo di delicatezza, importuno

animo ardente e sensibile, più facile a commuoversi che a frenarsi. In questo soggiorno della ragione, la bellezza non è né straniera né priva di potenza; il lievito della melanconia vi fa fermentare spesso l’amore, gli uomini sono anche troppo capaci di provare violente passioni, le donne di ispirarne, e i tristi effetti che tali passioni hanno talvolta prodotto dimostrano anche troppo quale pericolo vi sia a eccitarle con spet. tacoli teneri e commoventi. Se gli eroi di alcune tragedie sottomettono l'amore al dovere, pur ammirando la loro forza il cuore sta dalla parte della loro debolezza; si impara non tanto ad avere il loro coraggio quanto a metterci in condizione di averne bisogno. Sarà un nuovo campo di esercizio per la virtù; ma chi ha il coraggio di esporla a tali con-

de da molte cose; i tentativi di imitazione cui assistiamo nel teatro, i con-

tico e freddo,

trasti

merita

il Ginevrino

di

nasconde un

soccombervi.

L'amore,

perfino l'amore, si traveste per sorprenderla; si ricopre con il suo entusiasmo, ne usurpa la potenza, imita il suo linguaggio, e quando ci si accorge dell'errore, è troppo tardi per tornare indietro!

Quanti

uomini

bennati,

sedotti

da

queste apparenze di amanti teneri e ge-

nerosi, sono diventati lentamente vili corruttori, privi di morale, privi di ri-

spetto per la fedeltà coniugale, senza riguardi per i diritti della fiducia e dell'amicizia! Fortunato colui che sa fermarsi al bordo del precipizio e sa impedirsi di cadervi! Dobbiamo sperare di riuscire a fermarci in mezzo a una corsa veloce? Possiamo imparare a superare la tenerezza, intenerendoci ogni giorno? È facile trionfare di una debole inclinazione, ma chi ha conosciuto il vero

amore

e ha

saputo

vincerlo,

ah!,

perdoniamo a quel mortale, se esiste, di osare di pretendere alla virtù! Così, da qualsiasi punto si considerino le cose, siamo sempre colpiti da una stessa verità. Tutto ciò che le opere teatrali possono avere di positivo per coloro a cui sono state destinate, sarà dannoso per noi; anche il gusto che noi crederemo di aver acquisito grazie ad esse sarà solo un falso gusto, privo

surrogato della ragione. Il gusto dipen-

fronti che possono nascerne, le riflessioni sull'arte di piacere agli spettatori sono capaci di farlo germogliare, ma non sono sufficienti al suo sviluppo. Ci vogliono le grandi città, le belle arti e il lusso, una certa intimità tra i cittadini, una stretta dipendenza fra di loro, la galanteria e anche un po’ di depravazione; ci vogliono dei vizi che sia necessario abbellire perché tutto abbia un aspetto gradevole, ed è necessario riuscire a trovare tutto ciò. Una parte di queste cose ci mancherà sempre, e dovremo sempre temere di acquistare l’altra. Avremo degli attori, ma quali? Forse che una buona compagnia verrà a stabilirsi di punto in bianco in una città di ventiquattromila abitanti? I nostri attori dunque saranno inizialmente scadenti, e noi saremo inizialmente dei cat-

tivi giudici. Saremo noi a formarli, o saranno loro che ci formeranno? Avremo delle buone commedie, ma poiché le accetteremo per tali in base alla altrui parola, ci crederemo dispensati dall’esaminarle, e non guadagneremo di più a guardarle che a leggerle. Nonostante questo ci daremo arie da conoscitori, da arbitri del teatro, né rinunceremo a spendere i nostri soldi, e saremo anche più ridicoli. Non si è ridicoli per mancanza di gusto, allorché lo si disprezza; lo si è soltanto quando ci si vanta di averne uno che in realtà è pessimo.

Che

cos'è, in definitiva, que-

sto gusto tanto celebrato? L'arte di intendersi di cose futili. A dire il vero quando c’è qualcosa di così grande da conservare come la libertà, tutto il resto

è molto puerile. Vedo solo un rimedio per tanti inconvenienti: quello di scrivere noi stessi i nostri drammi al fine di avere un teatro nostro, e di avere, ancor prima che degli attori, degli autori. Infatti non è giusto che ci si proponga ogni tipo di imitazione; solo quelle oneste

266

LETTERA

sono adatte agli uomini liberi *. È certo che commedie tratte, come quelle dei Greci, dalle antiche sventure della patria o dai difetti attuali del popolo, sarebbero capaci di offrire agli spettatori utili lezioni. Chi sarebbero dunque gli eroi delle nostre tragedie? Dei Berthelier, dei Lévrery? # Ah, degni cittadini! Siete stati certo degli eroi, ma la vostra

oscurità vi avvilisce, i vostri nomi troppo comuni disonorano la grandezza dei vostri animi ** e noi stessi non siamo più abbastanza grandi per sapervi ammirare. Quali saranno i nostri tiranni? Forse i gentiluomini del Cucchiaio ***, forse i vescovi di Ginevra, o i conti di Savoia,

antenati

di una

casata con la

quale abbiamo trattato recentemente e alla quale dobbiamo del rispetto? Cinquanta anni fa, sono sicuro che anche il diavolo **** e l'Anticristo vi avrebbero avuto la loro parte. Presso i Greci, popolo del resto piuttosto allegro, tutto era grave e serio non appena si parlava * «Si quis ergo in nostram urbem venerit, qui animi sapientia in omnes possit sese vertere formas, et omnia imitari, volueritque poemata sua ostentare, venerabimur quidem ipsum, ut sacrum, admirabilem et jucundum: dicemus au-

tem

non

esse ejusmodi

hominem

in republica

nostra, neque fas esse ut insit; mittemusque in aliam urbem, unguento caput ejus perungentes, lanaque coronantes. Nos autem austeriore minusque jucundo utemur poeta, fabularumque fictore, utilitatis gratia, qui decori nobis rationem exprimat, et quae dici debent dicat in his formulis quas a principio pro legibus tulimus, quando cives erudire aggressi sumus », (Plat., De Republ.,

lib. III). ** Philibert Berthelier fu il Catone della no-

stra patria; con questa differenza, che la libertà pubblica finisce con l'uno e comincia con l'altro. Quando fu arrestato, possedeva una donnola; egli consegnò la spada con quella fierezza che è tanto adatta alla virtù sfortunata, poi continuò a giocare con la donnola, senza degnarsi di rispondere agli oltraggi dei suoi guardiani. Morì come deve morire un martire della libertà.

Jean Lévrery fu il Favonio di Berthelier, non

perché ne imitasse puerilmente i discorsi e le mezniere, ma per l'essere morto volontariamente ceme lui, ben sapendo che l'esempio della sua merte sarebbe stato più utile al paese che la sua stessa vita. Prima di andare al patibolo, tiacciò sul muro della prigione questo epitaffio, che era stato composto per il suo predecessore:

A D'ALEMBERT

della patria; ma in questo secolo superficiale, in cui nulla sfugge al ridicolo, escluso il potere, non si osa parlare di eroismo che nei grandi Stati, benché non se ne trovi che in quelli piccoli. Per quel che riguarda la commedia, non bisogna neanche pensarci. Essa causerebbe presso di noi i più spaventosi disordini; servirebbe come strumento alle fazioni, ai partiti, alle vendette private. La nostra città è così piccola che le più semplici descrizioni di costume degenererebbero presto in satire personali.

L’esempio

dell’antica

Atene,

cit-

tà enormemente più popolosa di Ginevra, ci offre una lezione esemplare: fu proprio a. teatro che venne preparato l’esilio di molti grandi uomini e la morte di Socrate; è per la passione del teatro che Atene finì col perire; i suoi disastri giustificarono anche troppo il dolore provato da Solone alle prime rappresentazioni di Tespi. Ciò che per noi è certo, è che bisognerà trarre i peggiori

Quid mihi mors nocuit? Virtus post fata [virescit; cruce, nec saevi gladio perit illa [tyranni.

nec

«** Era una confraternita di gentiluomini sa-

voiardi, che avevano fatto voto di brigantaggio contro la città di Ginevra e che, come stemma della loro associazione, portavano un cucchiaio appeso al collo”. **** In gioventù ho letto una tragedia sul l'Escalade *, nella quale il diavolo era, in effetti, uno degli attori. Mi è stato raccontato che durante una rappresentazione di “questo dramma, mentre il personaggio entrava in scena, si trovò sdoppiato, come se l'originale si fosse ingelosito per il fatto che si osava imitarlo, e che immediatamente lo spavento fece fuggire tutti gli spettatori e interrompere la rappresentazione. Questo racconto è burlesco e tale sembrerà a Parigi, più ancora che a Ginevra; tuttavia, se ci si presta alle supposizioni, si troverà in questa doppia apparizione un effetto teatrale veramente spaventoso. Riesco a immaginarmi un solo spettacolo più semplice e ancora più terribile: quello della mano che

esce dal muro

zar e che scrive fa tremare dalla

durante il banchetto parole paura.

di Baltha-

misteriose. La sola idea Mi sembra che i nostri

poeti lirici siano ben lontani da tali sublimi invenzioni; per provocare spavento, essi si basano

su

un

insieme

di

sceneggiature

prive

di

effetti. Anche sulla scena, non bisogna fare affidamento soltanto sugli occhi, ma bisogna tere l'immaginazione.

scuo-

LETTERA

267

A D'ALEMBERT

auspici per il futuro della repubblica quando si vedranno i cittadini, travestiti da belli spiriti, intenti a comporre versi secondo la moda francese e commedie, capacità che non abbiamo e che non possederemo mai. Ma si degni piuttosto il Signor Voltaire a comporre per noi delle tragedie sul modello della Morte di Cesare, del primo atto del Bryto, e, se dobbiamo avere assolutamente un teatro, che si impegni a riempirlo sempre con la sua genialità e a vivere altrettanto a lungo che le sue tragedie. Sarei dell'opinione che tutte queste riflessioni venissero attentamente considerate prima di aggiungere alla lista il gusto per l’eleganza e per la dissipazione che l'esempio degli attori finirebbe col suscitare nella nostra gioventù; ma infine quest’esempio farebbe comunque il suo effetto, e se le leggi sono ovunque insufficienti per reprimere i vizi che nascono

dalla natura

delle cose, co-

me credo di aver dimostrato, quanto più lo sarebbero fra noi, dove il primo segno della loro debolezza sarebbe la stessa presenza degli attori! Infatti non sarebbero esattamente loro che avrebbero introdotto il gusto per la dissipazione; al contrario, questo stesso gusto li avrebbe preceduti, li avrebbe anche introdotti,

ed

essi

non

farebbero

altro

che dare nuova forza a una tendenza già formata, la quale, dopo averli fatti accettare, a maggior ragione li farebbe restare, pur con tutti i loro difetti. Mi baso sempre sulla supposizione che essi riescano a vivere comodamente in una città così piccola, e sostengo che se li onoreremo, come voi pretendete, in un paese in cui tutti sono più o meno uguali,

avranno

essi

saranno

uguali

in più il pubblico

a

tutti,

e

favore che

acquisteranno naturalmente. Non saranno tenuti a freno, come altrove, dai

grandi di cui cercano i favori e di cui temono la malevolenza. I magistrati incuteranno

* Bisogna

loro

rispetto,

sempre

e sia. Ma

ricordarsi

che

il

que-

teatro,

per sopravvivere a Ginevra, ha bisogno che questo gusto diventi una passione; se è soltanto moderato, esso finirà con lo spegnersi. La ra-

sti magistrati saranno stati prima dei semplici cittadini; forse avranno avuto con

loro una

certa familiarità,

i loro fi-

gli resteranno loro amici, le loro mogli continueranno ad amare il divertimento. Tutti questi legami potranno essere strumenti di indulgenza e di protezione cui non sarà sempre facile resistere. Ben presto gli attori, sicuri dell'impunità, ne procureranno anche ai loro imitatori; sarà da costoro che avrà inizio il disordine, né si vede dove questo potrebbe fermarsi.

Le

donne,

i giovani,

i ricchi,

i fannulloni, tutti saranno dalla loro parte, tutti eluderanno le leggi che li infa-

stidiscono,

cenza; crederà re. Chi se non che

non

tutti

favoriranno

la

loro

li-

ognuno, cercando di soddisfarli, di lavorare per il proprio piaceoserà opporsi a questo torrente, qualche vecchio pastore severo verrà

assolutamente

ascoltato,

e la cui serietà e gravità verranno considerate pedanteria presso una gioventù sconsiderata? Infine, per poco che uniscano

abilità

e astuzia

al loro

successo,

non passeranno trenta anni che diventeranno gli arbitri dello Stato *. Si vedranno gli aspiranti alle cariche pubbliche brigare per ottenere i loro favori nelle votazioni,

le

elezioni

si

terranno

nei

camerini delle attrici, i capi di un popolo libero saranno le creature di una banda di buffoni. Mi sento cadere la penna dalle mani a questo pensiero. Lo si scarti pure se si vuole, mi si accusi pure di spingere troppo oltre le mie previsioni, non ho più che una parola da dire. Qualunque cosa succeda, o quella gente cambierà la loro morale in seguito alla convivenza con noi, o riuscirà a corrompere la nostra. Quando questa alternativa non ci spaventerà più, gli attori potranno anche venire; non ci potranno più fare del male. Ecco, Signore, le considerazioni che volevo proporre, al pubblico e a voi, sul problema che vi siete compiaciuto di trattare in un articolo al quale esso gione esige dunque che, nell’esaminare gli effetti del teatro, li si misuri in base a una causa che sia capace di dar loro sostentamento.

LETTERA

268 era, secondo me, completamente estraneo. Anche se i miei motivi, essendo meno forti di quanto non mi sembrino, non riuscissero ad avere sufficiente peso per controbattere i vostri, converrete almeno che in uno Stato piccolo come la repubblica di Ginevra qualunque novità è pericolosa, e che non bisogna mai introdurne tranne che non ve ne siano motivi urgenti o gravi. Ci si mostri dunque la pressante necessità di questa innovazione. Dove sono i disordini che ci obbligano a ricorrere a un espediente così sospetto? Forse che perderemmo tutto senza di esso? La nostra città è forse così grande, l’ozio e i vizi vi hanno già tali progressi, che senza spettacoli essa sia incapace di sopravvivere? Voi affermate che essa sopporta spettacoli ben peggiori, che offendono in misura non minore il gusto e la morale; ma esiste una differenza fra il mostrare i cattivi costumi e il criticare quelli buoni, dato che quest'ultimo fatto dipende più dall'impressione causata dallo spettacolo che dalle sue qualità. In questo senso, che rapporto può esistere tra qualche farsa effimera e un teatro stabile, tra gli scherzi di un ciarlatano e le rappresentazioni continue di opere drammatiche, tra i teatrini della Fiera

costruiti per divertire il popolo e un teatro importante in cui la gente onesta penserà di andare per istruirsi? Fra questi divertimenti, uno è privo di conseguenze e viene subito dimenticato, l’al-

tro è una cosa importante, degna di atti-

rare l’attenzione del governo. In qualunque paese, il divertimento per i fanciulli è una cosa lecita; chiunque voglia rimanere fanciullo può farlo senza che ne derivino inconvenienti. Se questi stupidi spettacoli sono privi di gusto, tanto meglio, la gente se ne stancherà più facilmente;

se

sono

rozzi,

saranno

per

questo meno seducenti. Il vizio non riesce a introdursi scandalizzando l’onestà, bensì

travestendosi da essa, e le pa-

role volgari sono più contrarie all'educazione che alla morale. Ecco perché le espressioni sono sempre più ricercate e le orecchie sempre più scrupolose nei paesi più corrotti. Forse che i discorsi

A D'ALEMBERT

del mercato infiammano molto i giovani che li ascoltano? Se le frasi discrete del teatro fanno del bene, preferirei che una fanciulla assistesse a cento spettacoli di saltimbanchi, piuttosto che a una sola rappresentazione dell’Oracolo 9. Del resto confesso che per conto mio preferirei che potessimo fare a meno di tutti questi teatrini, e che, grandi e piccoli, riuscissimo a trarre i nostri piaceri e doveri dalla nostra condizione e da noi stessi. Ma se è forse giusto cacciar

via

i saltimbanchi,

non

ne

de-

riva che sia necessario chiamare gli attori, Nel vostro stesso paese avete visto che la città di Marsiglia ha resistito a lungo a una tale innovazione, disobbedendo anche ai continui ordini del ministro, e che grazie a questo disprezzo per un divertimento frivolo ha continuato a conservare un'immagine rispettabile della propria antica libertà. Che esempio per una città che non ha ancora perduto la propria! Non

una

si

pensi,

soprattutto,

tale istituzione

tale, salvo

ad

a

creare

a titolo sperimen-

abolirla una

volta

che

se

ne fossero riscontrati gli inconvenienti; infatti questi inconvenienti non possono essere distrutti insieme al teatro che ne è stato l'origine, essi permangono anche quando ne venga rimosso il motivo; non appena si fanno sentire, sono ormai irrimediabili. Quando i costumi e i gusti sono ormai alterati sarà impossibile modificarli, dato che la corruzione li avtà compenetrati, ed anche i divertimenti, i nostri innocenti divertimenti, avranno

perduto la loro seduzione: stati disgustati per sempre tacoli.

L'ozio

diventato

né saremo dagli spet-

necessario,

il

tempo libero che non sapremo più come riempire ci faranno diventare schiavi di noi stessi. Gli attori, nel partire, ci lasceranno la noia come garanzia del loro ritorno; questa ci obbligherà presto a richiamarli o a far di peggio. Avremo sbagliato nell’istituire il teatro, faremo male a lasciarlo sopravvivere, e faremo male a distruggerlo: dopo il primo errore, ci resterà solo la scelta tra i nostri

mali. Come!

Non

ci vuole nessuno spetta-

LETTERA

A D'ALEMBERT

269

colo in una repubblica? Al contrario, ce ne vogliono molti; essi sono nati nelle repubbliche ed è in esse che li vediamo risplendere in una autentica atmosfera di festa. Quali sono i popoli cui si addice meglio di riunirsi spesso e di costruire fra loro i piacevoli legami del divertimento e della gioia, se non quelli che hanno tanti motivi per amarsi e per restare sempre uniti? Abbiamo già tante di queste feste pubbliche, sarò felicissimo se verranno ancora aumentate. Ma non adottiamo questi spettacoli esclusivi, che

rinchiudono

tristemente

un

ri-

stretto numero di persone in un luogo oscuro, che le obbligano a restare immobili nel silenzio

e nell’inazione;

che of-

frono agli occhi solo quinte, punte di ferro, soldati e orribili immagini della servitù e dell’inuguaglianza. No, popoli felici, queste non sono le vostre feste. Voi dovete riunirvi all'aria aperta, per abbandonarvi al piacevole sentimento della felicità. Che i vostri divertimenti non

siano né effimeri né mercenari,

che

essi non vengano avvelenati da ciò che sa di obbligo e d'interesse, che siano liberi

e generosi

come

voi,

che il. sole

presieda ai vostri innocenti spettacoli; voi stessi sarete il più degno spettacolo che possa mai apparire alla luce di esso. Ma quali saranno in definitiva i temi di questi spettacoli? Niente, se si vuole. Grazie alla libertà, dovunque vi siano

riunioni,

là sarà

anche

il benessere.

Piantate in mezzo a una pubblica piazza

* Non basta che il popolo abbia pane e si accontenti della sua condizione; bisogna che ci viva bene; così adempirà ai suoi doveri, si tormenterà meno per mutar condizione, e l'ordine pubblico sarà stabile. I buoni costumi sono

legati più

di quanto

ne che ciascuno prova neggi e la disposizione l'inquietudine e dallo le quando si aspira al gna amare il proprio

si creda

alla soddisfazio-

del proprio stato. I maall'intrigo vengono dalscontento; tutto va maposto degli altri. Bisomestiere per farlo bene.

La stabilità dello Stato è sicura solo quando tut-

ti si sentono al loro posto, e i privati si uni. scono e concorrono al bene pubblico, invece di logorarsi gli uni contro gli altri, come avviene in tutti gli Stati mal costituiti. Ciò premesso, che pensare di quelli che vorrebbero togliere al popolo feste, piaceri e ogni sorta di’ diverti-

menti

come

altrettante

distrazioni

che

lo di-

un

palo

coronato

di fiori,

ponetevi

in-

torno un popolo, e otterrete una festa. Ancor meglio: fornite come spettacolo gli stessi spettatori, fateli diventare attori loro stessi;

fate in modo

che cia-

te a tutti, i re dell’archibugio,

del can-

soldati?

fondare,

scuno veda e ami se stesso negli altri, affinché tutti abbiano più forti vincoli di amicizia. Non è necessario che io ricordi i giuochi degli antichi Greci; ne esistono di più moderni, tuttora in vigore, e li ritrovo precisamente tra di noi. Abbiamo tutti gli anni parate, gare apernone, della navigazione. Tali utili e piacevoli istituzioni * non saranno mai troppe, non si avranno mai a sufficienza simili re. Perché non si dovrebbero fare, per diventare sani e robusti, le stesse cose che si fanno per imparare l'esercizio delle armi? La repubblica ha forse meno bisogno di operai che di Perché

sull'esempio

non dovremmo

delle

gare

militari,

anche

gare di ginnastica, di lotta, di corsa, di lancio del disco, e di diversi esercizi fi-

sici? Perché non dovremmo rianimare i nostri barcaioli con regate sul lago? Ci sarebbe forse uno spettacolo più bello al mondo di questo grande e superbo lago pieno di centinaia di imbarcazioni elegantemente imbandierate, e che a un segnale partissero insieme per andare a cogliere una bandiera posata sul traguardo, e che poi accompagnassero in processione il vincitore che va trionfante a ricevere il meritato premio? Questolgono dal lavoro? Questa idea è barbara e falsa. Va male se il popolo ha solo il tempo di guadagnarsi il pane, ne dovrà avere anche per mangiarlo con gioia, altrimenti non se lo guadagnerà per molto. Quel Dio giusto e benefico che vuole che il popolo si occupi, vuole anche che si rilassi: la matura gli impone in ugual modo la fatica e il riposo, il piacere e il dolore. Il disgusto per il lavoro affligge quei disgraziati più del lavoro stesso. Volete dunque rendere attivo e laborioso un popolo? Dategli feste, offritegli divertimenti che gli facciano amare la sua condizione e gli impediscano di invidiarne una più comoda. Giornate perdute in questo modo valorizzeranno tutte le altre. Presiedete ai suoi piaceri per renderli onesti: è l'unico modo per ravvivarne il lavoro.

LETTERA

270 ste feste sarebbero costose solo volendolo, la sola affluenza del pubblico basta a renderle splendide. Ciò nonostante bisogna averle viste per capire quanta passione esse suscitino nei Ginevrini. Diventano irriconoscibili; non sono più gli stessi cittadini così ordinati e che non si staccano mai dalle loro regole economiche; non sono più quei ragionatori pedanti che valutano tutto secondo l’interesse, fino ai limiti del ridicolo. Essi diventano vivaci, gai, gentili, han-

no il cuore negli occhi oltre che sulle labbra, trovano ogni modo per comunicare la loro felicità e il loro diverti. mento,

invitano,

convincono,

obbligano,

si contendono gli invitati. Tutti i gruppi si fondono in uno solo, tutto diventa comune a tutti. Sedersi a un tavolo o a un altro diventa quasi indifferente; l'immagine sarebbe quasi quella delle mense degli Spartani, se non fossero più abbondanti; ma questa abbondanza diventa in tal caso giusta e conveniente; la stessa visione di tale profusione rende più commovente quella della libertà che la produce. L’inverno, tempo che viene dedicato ai rapporti privati con gli amici, è il meno adatto alle pubbliche feste. Esiste tuttavia un tipo di feste sul quale vorrei che ci fossero meno scrupoli: i balli tra i giovani in età di sposarsi. Non ho mai ben capito perché ci si scandalizzi tanto per la danza e per le riunioni

cui

essa



occasione,

come

se

ci fosse più male a danzare che a cantare, come se questi svaghi non fossero ugualmente di ispirazione naturale, e come se fosse un delitto per coloro che sono destinati a sposarsi di divertirsi insieme

con

un

onesto

svago.

L'uomo

e

la donna sono fatti l'uno per l’altra. Dio vuole che essi seguano il loro destino. Senza dubbio il più importante e il più sacro di tutti i vincoli sociali è il matrimonio. Le religioni false sono contrarie

alla

natura;

solo

la

nostra,

che

la

segue e che la regola, la dichiara una istituzione divina e adatta all'uomo. Essa non deve aggiungere al matrimonio, oltre agli inconvenienti dell'ordine civile, difficoltà non prescritte dal Van.

A D’ALEMBERT

gelo e condannate da ogni governo saggio. Ma mi si dica allora dove i giovani in età di sposarsi possano avere occasione di simpatizzare tra loro e di vedersi con maggiore decenza e circospezione che in una riunione dove gli occhi del pubblico, continuamente puntati su di loro, li obbligherebbero alla riservatezza,

controllo.

alla modestia

e al massimo

In che cosa Dio viene offeso

da un esercizio piacevole, salutare, adat-

to alla vivacità dei giovani, e che consiste nel presentarsi l’uno all'altra con grazia e buone maniere, e al quale gli spettatori impongono una serietà quale non si oserebbe infrangere neanche per un istante? Possiamo forse immaginare un modo più onesto per non ingannare gli altri, almeno riguardo all’aspetto, e per presentarsi con tutti i propri pregi e difetti alle persone che hanno diritto di conoscerci bene prima di‘ doverci amare? Forse che il dovere di amarsi reciprocamente non comprende anche quello di piacersi, e non è forse una preoccupazione degna di due persone oneste e cristiane che vogliono sposarsi quella di preparare in tal modo il cuore all'amore scambievole che Dio esige da loro? Che cosa succede dove regna la continua costrizione, dove la più piccola spensieratezza viene punita come un delitto, dove

i giovani di ambo

i sessi non

hanno il coraggio di incontrarsi pubblicamente,

e dove

l’indiscreta

severità

di

un pastore non è capace di predicare altro, in nome di Dio, che un servile imbarazzo,

la tristezza e la noia?

Certa-

mente si eluderà la tirannia insopportabile, sconfessata

dalla natura e dalla ra-

Quanti

a

gione. Essa sostituisce ai divertimenti leciti, di cui la gioventù allegra e serena viene privata, piaceri più pericolosi. incontri

due,

abilmente

pre-

parati, non sostituiscono le pubbliche riunioni! A forza di nascondersi come se si fosse colpevoli, si è tentati di divenirlo. La gioia innocente ama manifestarsi

alla

luce

del

sole,

ma

il vizio

è

amico delle tenebre; l'innocenza e la segretezza non potranno convivere a lungo.

LETTERA

271

A D'ALEMBERT

Per conto mio, lungi dal biasimare divertimenti così semplici, desidererei al contrario che essi fossero pubblicamente autorizzati, che se ne prevenisse ogni

disordine interno trasformandoli in balli solenni e periodici, aperti indistinta mente a tutti i giovani in età di matri. monio. Desidererei che un magistrato *, designato dal Consiglio, si degnasse di presiedere a queste danze. Vorrei che i genitori vi assistessero per poter vegliare sui loro figli, per essere testimoni della

loro

grazia,

della

loro

bravura

e

degli applausi che riscuoterebbero, per godere in tal modo del più piacevole spettacolo che possa commuovere un cuore paterno. Vorrei che tutte le persone sposate vi assistessero indistintamente,

come

spettatori

e come

giudici,

senza che venisse permesso ad alcuno di profanare la dignità coniugale col prendere parte alle danze; perché, quale scopo onesto potrebbe avere il mettersi pubblicamente in mostra in questa maniera? Desidererei che nella sala ci fosse

una

zona

dignitosamente sone

adulte

delimitata,

sistemata,

dell'uno

per

comoda

e dell’altro

le

e

per-

sesso,

le quali, dopo aver già dato cittadini alla patria, vedrebbero anche i loro nipoti prepararsi a diventarlo. Vorrei che nessuno entrasse o uscisse senza salutare questa assemblea, e che tutte le coppie di giovani venissero, prima di cominciare la loro danza e dopo averla finita, a fare una profonda riverenza per abituarsi di buon'ora a rispettare la vecchiaia. Sono certo che questa simpatica riunione dei due estremi della vita umana darebbe a questa assemblea un aspetto commovente,

e che

nella zona

degli anziani

si vedrebbero forse scendere lacrime di gioia e di rimpianto, capaci di causarne anche a uno spettatore sensibile. Vorrei che ogni anno, all'ultimo ballo, la fan* A ogni corporazione di mestiere, a ognuna delle società pubbliche di cui è composto il nostro Stato, presiede uno di questi magistrati, col nome di Signore-incaricato. Essi assSistono a tutte le riunioni e anche ai banchetti. La loro presenza non impedisce una onesta familiarità fra i membri dell'associazione, ma fa in

ciulla che nei precedenti si fosse comportata con maggior modestia e virtù e che fosse piaciuta maggiormente a tutti, venisse incoronata personalmente dal Signore-incaricato e insignita del titolo di regina del ballo, che potrebbe portare per tutto l'anno. Vorrei, che finita la riunione, essa venisse riaccompagnata in corteo, e che il padre e la madre venissero complimentati e ringraziati per avere una figlia così bene educata. Vorrei infine che, se essa si sposasse durante l’anno, la Signoria le facesse un dono o le accordasse un segno di distinzione pubblica, affinché questo onore fosse una cosa tanto seria da non poter mai diventare oggetto di scherno. È pur vero che si dovrebbe spesso temere qualche parzialità, se l’età dei giudici non lasciasse tutta la preferenza al

merito;

ma

volta che una

se

anche

accadesse

tal-

ragazza bella e modesta

fosse la favorita, cosa ci sarebbe di male? Avendo tante tentazioni da vincere,

non avrebbe forse maggior bisogno di essere incoraggiata? La bellezza e l’ingegno non sono ugualmente doni di natura? Cosa ci sarebbe di male se essa ottenesse onori che la spingessero a esserne degna e riuscissero a contentare l'orgoglio senza offendere la virtù? Perfezionando questo progetto mantenendone le intenzioni, si potrebbe dare a queste feste, sotto un aspetto di galanteria

‘e

di

divertimento,

una

svariata

quantità di utili scopi che ne farebbero una importante istituzione di civiltà e di morale. I giovani, avendo appuntamenti

sicuri

e onesti,

sarebbero

meno

zienza,

negli

intervalli,

alle occupazioni

tentati di cercarne di più pericolosi. Ogni sesso si dedicherebbe con maggior pa-

e ai piaceri che gli competono, e si consolerebbe più facilmente dell’essere privato della compagnia dell’altro. I cittamodo che nessuno oltrepassi il rispetto che de-

ve essere portato alle leggi, ai costumi, alla decenza, anche durante il divertimento e il piacere. Tale istituzione è molto bella, e costituisce uno dei grandi legami che uniscono un popolo ai suoi capi.

272

LETTERA

dini di ogni condizione godrebbero di uno spettacolo piacevole, soprattutto per i genitori. La cura dell'abbigliamento delle figlie sarebbe motivo di divertimento per le madri, che le distoglierebbe da divertimenti diversi; poiché questo abbigliamento avrebbe uno scopo innocente

e lodevole,

sarebbe

del

tutto

appropriato. Queste occasioni di riunirsi per conoscersi e per organizzare matri. moni rappresenterebbero un facile sistema per riavvicinare le famiglie nemiche e per consolidare la pace, tanto necessaria al nostro Stato. Pur senza di. minuire l'autorità paterna, le tendenze dei figli sarebbero più libere. La scelta dipenderebbe un po' più dai sentimenti; le

similitudini

di

età,

di

carattere,

di

gusto verrebbero assecondate; si darebbe un'importanza minore alle affinità di condizione

e di beni,

che,

quando

ven-

gono seguite a discapito delle altre, creano matrimoni male assortiti. Poiché la conoscenza diverrebbe più facile, i matrimoni sarebbero più frequenti; tali matrimoni, meno limitati dalla parità di

le fazioni,

A D'ALEMBERT

limiterebbero

l’eccessiva

inu-

guaglianza, manterrebbero meglio il popolo nella via tracciata dalla sua costituzione;

questi

balli, organizzati

in tale

maniera, somiglierebbero meno a uno spettacolo pubblico che a una grande riunione familiare, e dal seno della gioia e dei piaceri uscirebbero la concordia, la conservazione, e la prosperità della repubblica *. Con queste idee sarebbe facile isti. tuire con poca spesa e senza pericolo una quantità di spettacoli anche maggiori di quanti non siano necessari a rendere piacevole e allegro il soggiorno nella nostra città anche per gli stranieri, i quali, poiché non troverebbero nulla

di simile in altri luoghi, verrebbero anche soltanto per vedere una cosa unica. Anche se in verità io considero, per motivi diversi, una

tale affluenza un incon-

veniente più che un vantaggio; da parte mia sono convinto che qualunque straniero, stabilitosi a Ginevra, vi abbia no-

ciuto più che fare del bene. Ma

voi

sapete,

Signore,

chi

dovrem-

condizione, impedirebbero la nascita del.

mo sforzarci di attirare e trattenere tra

* Mi pare divertente immaginare talvolta i giudizi che parecchi daranno sui miei gusti in base a ciò che scrivo, Su quanto ho appena affermato non si mancherà di dire: «Questo uomo è pazzo per la danza»: ora io mi annoio a veder ballare; « Non può sotirire il teatro »: invece amo il teatro alla follia; « Ha avversione per le donne »: e qui ho anche troppe giustificazioni; « Ha antipatia per gli attori »: mentre ho tutti i motivi per lodarli, e l'amicizia dell'unico di loro che ho conosciuto bene non può che onorare un uomo onesto®, Stesso giudizio sui poeti dei quali sono costretto a criticare le commedie: quelli che sono morti non sarebbero di mio gusto, e contro i viventi sarei irritato. La verità è che Racine mi affascina, e che non ho mai perduto per mia colpa una rappresentazione di Molière. Se ho parlato meno di Corneille, è perché non mi è rimasto abbastanza in mente, avendo assistito poco alle sue commedie e mancandomi i libri. Quanto all'autore di Atreo e di Catilina, l'ho visto una sola volta, e fu in occasione di un servizio che mi rese. Stimo il suo genio e rispetto la sua vecchiaia; ma, per quanto onori la sua persona, sono obbligato a essere imparziale verso le sue commedie, e non potrei saldare il mio debito a spese del bene pubblico

zioni e il disinteresse che li detta, quali pochi autori hanno mostrato e che pochissimi vorrebbero imitare. Mai disegno particolare ha macchiato quel desiderio di essere utile agli altri che mi ha fatto prendere la penna, e ho quasi sempre scritto contro il mio interesse. Vitam impendere vero: ecco il motto che ho scelto, e del quale mi sento degno, Lettori,

e della verità. Se i miei qualche

orgoglio,

è per

la

scritti m'ispirano purezza

delle

un

inten-

posso

ingannare

me

stesso,

mici,

dato

possono

ma

non

ingannare

voi volontariamente; potete anche criticare i miei errori, ma non potete criticare la mia buona fede. L'amore per il bene del pubblico è il solo sentimento che mi rende capace di parlargli; in questo caso so dimenticare me stesso, e se qualcuno mi offende io non lo controbatto, temendo che la collera mi renda ingiusto. Un tale principio è utile ai miei ne-

che

nuocermi

a loro

pia-

cere senza paura di rappresaglie; ai miei lettori, che non temono che il mio odio mi induca ad ingannarli; soprattutto a me stesso che, rimanendo tranquillo nonostante le offese, sono vittima solo del male che mi viene fatto e non di quello che farei. Sacra e autentica verità, cui ho consacrato la vita, mai le mie passioni potranno insozzare l’amore che ho per te; né l'interesse, né la paura potrebbero alterare l'omaggio che desidero offrirti; e la mia penna non ti rifiuterà mai nulla, se non quelle cose in cui teme di cedere alla vendetta!

LETTERA

273

A D’ALEMBERT

le mura della nostra città? Gli stessi Ginevrini

che,

pur

amando

sinceramente

il loro paese, hanno una notevole tendenza a viaggiare, al punto che non esiste luogo alcuno in cui essi non siano conosciuti. Metà dei nostri cittadini, sparsi in Europa e nel mondo, vivono e muoiono lontani dalla loro patria; considererei anche me stesso nel novero con maggior dolore se fossi meno inutile al mio paese. So bene che noi siamo obbligati ad andare a cercare lontano quelle risorse che ci vengono negate dalla nostra terra, e che potremmo difficilmente sopravvivere se restassimo chiusi

nei

suoi

confini;

ma

che

almeno

questo esilio non sia eterno per tutti. Quelli il cui lavoro è stato benedetto dal cielo, possano venire come le api che riportano il miele all'alveare, per rallegrare i loro compatrioti con lo spettacolo della loro ricchezza, per suscitare l'emulazione dei giovani e per arricchire il paese con la loro fortuna, godendo modestamente nella loro patria i beni che hanno acquistato altrove. Potrebbe forse il teatro, sempre meno perfetto da

noi



di

che

altrove,

indurli

a ritornare?

Lascerebbero gli spettacoli di Parigi o di Londra per venire ad assistere a quelGinevra?

No,

no,

Signore,

non

potremmo indurli a tornare così. È necessario che ciascuno di noi capisca che non può trovare altrove ciò che ha lasciato in patria; bisogna che un fascino irresistibile lo richiami nel posto da cui non

avrebbe

mai

dovuto

allontanarsi;

il ricordo dei primi esercizi, dei primi spettacoli, dei primi divertimenti resti profondamente impresso nei nostri cuori, che le dolci sensazioni provate durante la fanciullezza permangano e aumentino come il passare degli anni, mentre le altre si cancellano; bisogna che in mezzo al lusso e alla triste magnificenza delle grandi nazioni una voce segreta parli nell’intimo del nostro animo: « Ahimè, dove sono i giuochi e le feste della mia gioventù? Dove la concordia dei cittadini? Dove la fraternità? Dove la pura gioia e l'allegria sin-

cera? Dove sono la pace, la libertà, l'uguaglianza, l'onestà? Andiamo a ri-

trovare tutto ciò ». E che! Con il cuore del Ginevrino, con una città così felice, con un paese così bello, un governo così giusto, divertimenti così autentici e puri, e tutto ciò che ci vuole per poterne godere, perché non adoriamo tutti la patria? Così

richiamava

i suoi

cittadini,

con

feste modeste e giuochi privi di sfarzo, quella Sparta che non cesserò mai di citare per l'esempio che dovremmo trarne; per questo ad Atene tra le opere d'arte,

a Susa

in

mezzo

ai lussi

e alle

mollezze, Io Spartano annoiato sospirava per il ricordo dei volgari banchetti e dei faticosi esercizi. Solo a Sparta, in un ozio

laborioso,

tutto era divertimen-

to e spettacolo, solo là i più duri lavori diventavano svaghi e il minimo riposo diventava fonte di pubblica istruzione, solo là i cittadini continuamente riuniti consacravano la vita intera a divertimenti che riguardavano la vita dello Stato e a giuochi a cui si sottraevano solo per fare la guerra. Sento già alcuni lettori ironici che mi domandano se fra tante cose meravigliose, io non voglia introdurre anche nelle feste di Ginevra le danze delle giovani spartane. Rispondo che vorrei credere che i nostri occhi e i nostri animi siano abbastanza puri per assistere a un tale spettacolo, e che le giovani, in tale occasione, fossero protette a Gine-

vra come a Sparta dalla onestà pubblica; ma qualunque sia la stima che io nutro per i miei compatrioti, so anche troppo quanta distanza ci sia tra loro e gli Spartani; propongo loro, tra le istituzioni di questi ultimi, solo quelle di cui sono capaci. Se il saggio Plutarco si è assunto il compito di giustificare tale usanza, perché dovrei incaricarmene dopo di lui? Tutto diventa chiaro ammettendo che questa usanza era adatta solo agli alunni di Licurgo, dato che solo la loro vita frugale e laboriosa, i loro costumi puri e severi, la loro tipica forza d'animo potevano rendere innocente ai loro occhi uno spettacolo che sarebbe scandaloso per un popolo che fosse solo onesto. Ma crediamo forse che il raffinato ab-

274

LETTERA

bigliamento delle nostre donne sia meno pericoloso di una nudità totale, di cui l'abitudine cambierebbe presto il primo effetto in indifferenza e forse in disgusto? L'immediato potere dei sensi è debole e limitato: essi provocano i loro peggiori danni con il solo ausilio dell'immaginazione, dato che questa si prende cura di eccitare il desiderio prestando agli oggetti un'attrattiva maggiore di quanta non gliene abbia fornito la

natura;

è essa

che

rende

scandaloso

alla vista ciò che questa non vede più soltanto

come

nudo,

ma

come

privo

di

abiti. Non esiste nessun abito tanto modesto che un occhio infiammato dall'im-

maginazione non riesca ad attraversare con il desiderio. Una giovane cinese, pro-

tendendo la punta del piede bendato e calzato farà più danno a Pechino di quanto non ne faccia la più bella fanciulla del mondo danzando nuda ai piedi del Taigeto. Ma quando ci si veste con tanta abilità e così approssimativamente * Ricordo di essere stato colpito nelle mia infanzia da uno spettacolo abbastanza semplice e la cui impressione tuttavia è sempre rimasta viva in me non ostante il tempo e il muta mento intervenuto nei miei interessi. ll reggi-

mento

di Saint-Gervais® aveva

fatto le mano-

vre, e secondo le usanze, i cittadini avevano cenato in gruppi. La maggior parte di quelli che componevano il reggimento si riunirono dapo cena nella piazza di Saint-Gervais e si misero a danzare tutti insieme, ufficiali e soldati, intorno alla fontana sulla cui vasca erano saliti i tamburini, i piffesi e quelli che portavano le torce. Una danza di gente resa allegra da una cena abbondante non sembrerebbe dover presentare nulla di interessante; tuttavia l’insieme di cinque o seicento uomini che si tengono tutti per mano e che formano una lunga fila che ondeggia seguendo il tempo, ordinatamente, con mille movimenti e giravolte, mille tipi di evoluzioni, la scelta delle musiche che Ie animavano, il rumote dei tamburi, la luce delle fiaccole, una certa aria militaresca unita al divertimento, tutte queste cose formavano una sensazione fortissima che riscaldava il sangue, Era tardi e le donne dormivario, ma si alzareno tutte. Subito le finestre si riempirono di spettatrici ché davano un nuovo impulso agli attori; ma esse non rimasero a lungo alla finestra, vennero in piazza: le mogli venivano a vedere i propri mariti mentre le serve porta-

vano

il vino;

anche

i bambini,

svegliati

dal

fracasso, vennero mezzo spogliati fra i padri e le madri. La danza venne sospesa e fu tutto

A D'ALEMBERT

come fanno le donne oggi, quando si nasconde una patte del corpo solo per adornare quella che viene esposta, Heu!

male

tum mites defendit [pampinus uvas®.

Chiudiamo queste numerose digressioni. Grazie al cielo, ecco qui l'ultima: sono alla fine di questo scritto. Citavo le feste degli Spartani come modello di quelle che vorrei vedere qui da noi. Non solo a causa del loro scopo le trovo raccomandabili, ma anche per la loro

semplicità: senza pompa, senza lusso, senza preparativi, tutto vi respirava, con un segreto fascino di patriottismo che le rendeva

interessanti,

un certo spirito

militaresco tipico degli uomini liberi *; senza affari e senza piaceri, almeno quelli che tra di noi vengono

chiamati così,

trascorrevano in questa dolce uniformità la giornata senza trovarla troppo lunga e la vita senza trovarla troppo corta.

un abbracciarsi, un ridere, un salutarsi, un farsi festa. Tutto ciò provocò una grande commozione che non sarei capace di descrivere, ma che risultò abbastanza naturale nella generale allegria, trovandosi tutti in mezzo a ciò che era loro caro. Mio padre, abbracciandomi, fu preso da vna emozione che io credo di saper condividere anche oggi, e mi disse: « Jean-Jacques, ama il tuo paese; guarda questi buoni Ginevrini, sono tutti amici, tutti fratelli; la felicità e la concordia regnano tra di loro, Tu sei Ginevrino, un giorno vedrai altri popoli, ma quando avrai viaggiato come tuo padre, ti accorgerai che non esiste nessuno che sia uguale a loro ». Si cercò di ricominciare la danza, ma non fu possibile: nessuno sapeva più quel che faceva, tutti erano in preda a un'ebrezza più dolce di quella del vino. Dopo essere rimasti ancora a ridere e chiacchierare sulla piazza, bisognò separarsi, e ciascuno tornò alla propria casa insieme ai familiari; ecco come queste donne, graziose e prudenti al tempo stesso, riportarono a casa i mariti, non turbandone il divertimento, ma condividendolo. Capisco perché questo spettacolo, che tanto mi commosse, possa essere privo di attrattive per molti altri: occorrono occhi fatti per vederlo, un cuore fatto per sentirlo. No, l'unica gioia pura è quella pubblica, e i veri sentimenti naturali hanno imperio solo sul popolo. Ah! dignità, figlia dell'orgoglio e madre della noia, quando mai i tuoi tristi schiavi hanno conosciuto momenti simili durante la loro vita?

LETTERA

275

A D’ALEMBERT

Tornavano a casa ogni sera, allegri e attivi, per consumare la loro cena frugale, contenti della patria, dei propri concittadini e di se stessi. Se vogliamo qualche esempio di questi divertimenti pubblici, eccone uno che viene riferito da Plutarco: egli racconta che c'erano sempre tre danze, con altrettanti gruppi, secondo la differenza di età; queste danze venivano fatte seguendo i canti del gruppo corrispondente. Cominciava per prima quella dei vecchi, che cantava la seguente strofa: Nous avons été jadis, jeunes, vaillans et bardis. Seguiva

cantavano armi:

poi

quella

battendo

Nous

degli

uomini,

che

il ritmo con le loro

le sommes

maintenant,

a l'épreuve à tout venant. Poi venivano

vano loro forza: Et

i fanciulli, che risponde-

cantando

nous

con

bientòt

tutta

la

le serons,

qui tous vous surpasserons.

loro

Ecco, Signore, gli spettacoli che sono adatti alle repubbliche. Riguardo a quel tipo di spettacoli di cui il vostro articolo Ginevra mi ha obbligato a parlare in questo saggio, semmai l'interesse di privati cittadini riuscirà a istituirlo fra le nostre mura, ne prevedo i tristi effetti; ne ho mostrati alcuni, potrei mostrarne altri; ma si tratterebbe, allora,

di spaventarsi troppo per una sventura immaginaria che la vigilanza dei nostri magistrati

saprà

certamente

prevenire.

Non pretendo di istruire uomini più sapienti di me. Mi basta aver parlato a sufficienza per consolare la gioventù del mio paese di essere privata di un divertimento che costerebbe tanto alla loro patria. Esorto dunque questa fortunata gioventù a profittare del consiglio con cui il vostro articolo si conclude. Possa essa conoscere e meritare la propria sorte! Possa rendersi sempre conto di quanto una tranquilla felicità sia preferibile a quei vani piaceri che tendono a distruggerla! Che tale gioventù possa riuscire a trasmettere ai propri discendenti la virtù, la libertà e la pace che ha ereditato dai propri antenati! Questo è l'ultimo augurio con il quale pongo termine al mio scritto, quello con cui terminerà la mia vita.

DEL

CONTRATTO

o principi

SOCIALE

del diritto politico

di Jean-Jacques Rousseau,

cittadino di Ginevra

dicamus leges.

TRADUZIONE

DI

RODOLFO

- foederis aequas

MONDOLFO

Aeneid.,

XI.

AVVERTENZA Questo trattatello è estratto da un lavoro più ampio, intrapreso in altri tempi, senza aver consultato le mie forze, e abbandonato da un lungo tempo!. Dei diversi brani che si potevano trarre da ciò che era fatto, questo è il più considerevole,

e mi

è sembrato

il meno

degno di essere offerto al pubblico. resto già non esiste più.

LIBRO Voglio

ricercare

Il

civile,

ci possa essere qualche regola di amministrazione legittima e sicura, prendendo gli uomini quali sono e le leggi quali possono essere. Cercherò di associar sempre,

in

questa

ricerca,

ciò

che

medito

sui

governi,

il

diritto permette con ciò che l'interesse prescrive, affinché la giustizia e l’utilità non si trovino disgiunte. Entro nell'argomento senza giustificare l’importanza del mio soggetto. Mi si domanderà se sono principe o legislatore, per scrivere di politica. Rispondo di no, e che appunto per ciò scrivo di politica. Se fossi principe o legislatore, non perderei il mio tempo a dire ciò che bisogna fare: lo farei, o starei zitto. Nato cittadino di un libero Stato, e membro del corpo sovrano ?, per debole che sia l'influenza che la mia voce pos-

di

trovar

sempre,

nelle mie ricerche, nuove ragioni d’amare quello del mio paese! Capitolo I

in-

PRIMO se, nell'ordine

sa avere negli affari pubblici, il diritto di votarvi basta per impormi il dovere di istruitrmene: felice, ogni volta che

ARGOMENTO

DI

QUESTO

PRIMO

LIBRO

L'uomo è nato libero ?, e dappertutto è in catene. Quegli, che si crede padrone degli altri, non è mai meno schiavo di essi. Come s’è operato questo cambiamento? Io l’ignoro. Che cosa può renderlo legittimo? Credo di poter risolvere questo problema. Se non considerassi altro che la forza e l'effetto

che

ne

deriva,

direi:

fino

a

che un popolo sia costretto a obbedire ed obbedisca, fa bene; non appena possa scuotere il giogo e lo scuota, fa anche meglio: perché, ricuperando la propria libertà, per via dello stesso diritto che gliel'ha strappata, o ha ragione lui di riprendersela, o non vi era ragione di togliergliela. Ma l'ordine sociale è un diritto sacro, che serve di base a tut-

ti gli altri. Tuttavia questo diritto non proviene dalla natura; esso è dunque fondato su convenzioni. Si tratta di sapere quali siano tali convenzioni. Ma prima di venire a questo, mi incombe il compito di fondare le affermazioni ora avanzate.

DEL

280 Capitolo II DELLE

SOCIETÀ

PRIMITIVE

La più antica di tutte le società, e la sola naturale, è quella della famiglia; ancorché i figliuoli non restino legati al padre se non per quel tempo che hanno bisogno di lui per la propria conservazione. Non appena questo bisogno cessi, il legame naturale si scioglie. Dispensati i figli dall'obbedienza che dovevano al padre, e il padre dalle cure che doveva ai figli, rientrano tutti ugualmente nell'indipendenza. Se essi continuano a restare uniti, non è più naturalmente,

ma volontariamente; e la famiglia stessa non si mantiene che per convenzione‘. Questa

libertà

comune

è una

conse-

guenza della natura dell’uomo. La sua prima legge è di vegliare alla propria conservazione, le sue prime cure sono quelle che deve a se stesso; e, appena raggiunta l’età della ragione, essendo lui solo giudice dei mezzi adatti alla sua conservazione, diviene perciò il padrone di se stesso. La famiglia è dunque, se si vuole, il primo

modello

delle

società

politiche;

il capo è l’immagine del padre, il popolo è l’immagine dei figli, e tutti, essendo nati uguali e liberi, non rinunciano alla libertà che per loro utilità. Tutta

la differenza

sta in ciò, che

nella

CONTRATTO

SOCIALE

potrebbe forse seguire un metodo più conseguente, ma non uno più favorevole ai tiranni. È dunque dubbio, secondo Grozio, se il genere umano appartenga a un centinaio d'uomini, o se questo centinaio d’uomini appartenga al genere umano; e,

in

tutto

il

suo

libro,

egli

sembra

propendere verso la prima opinione; questo è anche il sentimento di Hobbes. Ecco così tutta la specie umana divisa in greggi di bestiame, ciascuno dei quali ha il suo capo, che lo sorveglia per divorarlo. Come un pastore è d'una natura superiore a quella del suo gregge, così anche i pastori d’uomini, che sono i loro capi, sono d'una natura superiore a quella dei loro popoli. Così ragionava, stando

a Filone,

l’imperatore

Caligola;

concludendo abbastanza bene, da questa analogia, che i re erano dei e i popoli bestie. Il ragionamento di Caligola è simile a quello di Hobbes e di Grozio *. Anche Aristotele, prima di tutti loro aveva detto che gli uomini non sono naturalmente uguali; ma che gli uni nascono per la schiavitù, gli altri per la dominazione. Aristotele aveva ragione, ma egli prendeva l’effetto per la causa. Ogni uomo, nato

vitù;

mella schiavitù,

niente

di

più

nasce per la schia-

certo.

Gli

schiavi

perdon tutto nelle loro catene, perfino il desiderio di liberarsene; essi amano

famiglia l’amore del padre peri suoi figliuoli lo ripaga dalle cure che egli prodiga loro; mentre, nello Stato, il piacere di comandare supplisce a quest'amore che il capo non ha per i suoi popoli 5. Grozio nega che qualsiasi potere umano sia stabilito in favore di quelli che son governati; egli cita ad esempio la schiavitù. Il suo modo più costante di ragionare consiste nello stabilire sempre il diritto per via del fatto*: si

Ia loro schiavitù, come i compagni di Ulisse amavano il loro abbrutimento'**.

* «Le sapienti ricerche sul diritto pubblico

cini, del marchese d'Argenson. Ecco precisamente ciò che ha fatto Grozio. #* Vedi un trattatello di Plutarco, intitolato:

non si, e ci si tato

sono spesso che la storia degli antichi abuci si è ostinati fuor di proposito quando è presa la pena di studiarli troppo ». Tratdegli interessi della Francia con i suoi vi-

Se vi son dunque

schiavi

per natura,

si

è perché ci sono stati degli schiavi contro natura. La forza ha fatto i primi schiavi, la loro viltà li ha perpetuati. Io non ho detto nulla del re Adamo né

dell’imperatore

grandi monarchi verso, come fecero taluno ha creduto ro. Spero che mi

Noè,

padre

dei

tre

che si divisero l’uniifigli di Saturno, che di riconoscere in losi sarà grati di questa

Che le bestie fanno uso di ragione.

LIBRO

281

PRIMO

moderazione;

perché,

discendendo

di-

rettamente da uno di questi principi, e forse dal ramo primogenito, come posso sapere, se, alla verifica dei titoli, non

mi troverei a essere il legittimo re del genere

può

umano?

disconoscere

Che

che

che

ne

Adamo

sia, non

si

sia stato

sovrano del mondo, come Robinson della sua isola, finché ne fu il solo abitan-

te; e ciò che v'era di comodo in questo impero si era che il monarca, sicuro del suo trono, non aveva da temere né bellioni, né guerre, né cospiratori.

ri-

Capitolo III DEL

DIRITTO

DEL

PIÙ

ironicamente,

in

realtà

eretto

in

principio. Ma non ci sarà spiegata mai questa frase? La forza è una potenza fisica; io non vedo che moralità possa mai risultare dai suoi effetti. Cedere alla forza è un atto di necessità,

non di vo-

lontà; è, tutt'al più, un atto di prudenza. In che senso potrà mai essere un dovere? Supponiamo un momento questo preteso diritto. Io dico che ne risulta solamente un groviglio inestricabile, giacché subito che la forza fa il diritto, l’effetto cambia col cambiare della causa: ogni forza, che superi la prima, le succede nel suo diritto. Appena si possa disubbidire impunemente, lo si può legittimamente; e, poiché il più forte ha sempre ragione, non si tratta che di fare in guisa da essere il più forte. Ora che diritto è quello che svanisce quando la forza cessa? Se bisogna ubbidire per forza, non si ha bisogno di ubbidire per dovere, e se non si è più forzati a ubbidire, non vi si è più obbligati. Si vede dunque che questa parola diritto non aggiunge nulla alla forza; non significa in questo caso proprio nulla.

Obbedire

Dio,

lo

ammetto;

forza

la borsa,

ma

ne

viene

anche

ogni malattia; vuol forse dire ciò sia proibito chiamare il medico? Se brigante mi sorprende in mezzo a bosco, non solo mi toccherà dargli ma,

se anche

che un un per

la potessi

sottrarre, sarò obbligato in coscienza a dargliela? Perché alla fin fine, anche la pistola ch’egli tiene è un potere. Conveniamo dunque che la forza non fa il diritto, e che non si è obbligati a obbedire che ai poteri legittimi. Così la mia questione originaria torna sempre in campo.

FORTE

Il più forte non è mai abbastanza forte per essere sempre il padrone, se non trasformi la sua forza in diritto e l'obbedienza in dovere. Da ciò il diritto del più forte, diritto in apparenza preso

dire: cedete alla forza, il precetto è buono, ma superfluo; garantisco che non sarà mai violato. Ogni potere viene da

al potere. Se questo vuol

Capitolo IV DELLA

SCHIAVITÙ ?

Poiché nessuno ha un'autorità naturale sul suo simile, e poiché la forza non produce diritto, restano dunque le convenzioni a base di ogni autorità legittima fra gli uomini. Se un individuo, dice Grozio, può alienare la sua libertà e rendersi schiavo d’un padrone, perché non potrebbe tutto un popolo alienare la sua, e rendersi suddito di un re? Ci sono qui parecchie patole equivoche, che avrebbero bisogno di spiegazione; ma fermiamoci alla parola alienare. Alienare significa regalare

o

vendere.

Ora

un

uomo,

che

si

faccia schiavo di un altro, non si regala; si vende almeno in cambio del suo sostentamento; ma un popolo perché si vende? Ben lungi dal fornire ai suoi sudditi il loro sostentamento, un re non

trae il proprio che da loro; e, secondo Rabelais, un re non vive con poco. I sudditi danno dunque la loro persona a condizione che si prenderanno loro anche gli averi? Non vedo che mai resti loro da salvare. Si dirà che il despota assicura ai suoi sudditi la tranquillità civile. E sia; ma che cosa ci guadagnano essi, se le guerre, che l’ambizione di lui tira addosso, se la sua insaziabile avidità, se le vessa-

282

DEL

zioni del suo ministero li desolano più che non farebbero i loro dissensi? Che ci guadagnano, se questa stessa tranquillità è una delle loro miserie? Si vive tranquilli anche nelle carceri: basta questo per trovarcisi bene? I Greci chiusi nell’antro del Ciclope vivevano tranquilli, aspettando che venisse il loro turno per essere divorati. Dire che un uomo si dà gratuitamente, è dire cosa

assurda

e inconcepibile;

un tal atto è illegittimo e nullo, per il solo fatto che chi lo compie non è in possesso del buon senso. Dire la stessa cosa di un intero popolo, significa supporre un popolo di pazzi; e la pazzia non crea diritto. Quand’anche ciascuno potesse alienare se stesso, non può alienare i suoi figliuoli; essi nascono uomini e liberi; la loro libertà appartiene loro; nessuno

fuor che essi medesimi ha il diritto di disporne. Prima che siano giunti all'età della ragione, il padre può, a loro nome, stipulare le condizioni per la loro conservazione, per il loro benessere,

ma

non

darli

senza condizioni;

contrario

ai

fini

irrevocabilmente,

e

perché un tal dono è

della

natura,

e

oltre-

passa i diritti della paternità. Bisognerebbe dunque, perché un governo arbitrario fosse legittimo, che a ogni generazione il popolo fosse padrone di ammetterlo o di rifiutarlo: ma allora questo governo non sarebbe più arbitrario. Rinunziare alla propria libertà signi fica rinunziare alla propria qualità d’uomo,

ai diritti dell'umanità,

anzi

ai suoi

CONTRATTO

SOCIALE

sta sola condizione, senza equivalente, senza ricambio, non porta come conseguenza la nullità dell’atto? Che diritto infatti avrebbe il mio schiavo contro di me, dappoiché tutto ciò ch'egli ha mi appartiene, ed essendo il suo diritto tutto mio, questo diritto mio contro me stesso è una parola vuota di senso? Grozio e gli altri traggono dalla guerra un’altra origine del preteso diritto di schiavitù. Il vincitore avendo, secondo loro, il diritto di uccidere il vinto, que-

sti può della

riscattare

sua

libertà;

la sua vita a prezzo convenzione

tanto

più legittima, in quanto va a profitto di entrambi. Ma è chiaro che questo preteso diritto di uccidere i vinti non risulta in alcun modo dallo stato di guerra. Per il solo fatto che gli uomini, vivendo nella loro originaria indipendenza, non hanno fra loro rapporti abbastanza costanti da costituire né lo stato di pace né lo stato di guerra, essi non sono naturalmente nemici. Il rapporto con le cose e non quello con gli uomini costituisce la guerra; e non potendo lo stato di guerra nascere dalle semplici relazioni personali,

ma

solo

dalle

relazioni

reali,

la guerra privata o fra uomo e uomo non può esistere né nello stato di na-

tura, dove non c’è proprietà costante, né nello stato sociale, dove tutto è sot-

to l'autorità delle leggi *. I combattimenti

particolari,

i duelli,

gli scontri, sono atti che non costituiscono uno stato; e, quanto alle guerre private,

autorizzate

feudale,

sistema

dalle

istituzioni

di

doveri. Non v'è nessun indennizzo possibile per chiunque rinunci a tutto. Una tal rinuncia è incompatibile con la natura dell’uomo; ed equivale a togliere ogni moralità alle sue azioni il togliere ogni libertà alla sua volontà. Infine è una convenzione vana e contraddittoria lo stipulare da una parte un'autorità assoluta, e dall'altra un’obbedienza senza limiti. Non è chiaro che non si è impegnati a nulla verso colui dal quale si abbia il diritto di esigere tutto? E que-

Luigi IX re di Francia, e sospese dalla Tregua di Dio, sono abusi del governo

(I Romani, che hanno inteso e rispettato il diritto di guerra più che alcuna nazione al

mondo, portavan lo scrupolo a questo riguardo sino al punto di non permettere a un cittadino

assurdo

se

mai

ve

ne

fu, contrario ai principi del diritto naturale e a ogni buona costituzione di Stato. La guerra non è dunque una relazione

da

Stato,

uomo

nella

a

uomo,

quale

ma

i singoli

da

Stato

a

individui

non sono nemici che accidentalmente, non come uomini e nemmeno come cittadini *, ma come soldati: non come

LIBRO

PRIMO

membri

della

283

patria,

ma

come

suoi

di-

fensori. E infine ogni Stato non può aver per nemici che altri Stati, e non

uomini, atteso che diversa non si può

fra cose di natura stabilire alcun vero

rapporto.

Questo principio è anche conforme le massime stabilite in ogni tempo alla pratica costante di tutti i popoli vili. Le dichiarazioni di guerra sono

aled ciav-

vertimenti non tanto ai sovrani, quanto ai loro sudditi. Lo straniero, sia re, sia privato, sia popolo, che rubi, uccida, non

è un nemico,

i difensori,

finché

essi

nemici

o

strumenti

del

sia necessario

diritto

di

uccidere

tutti,

dico

che

uno

nemico,

essi ridiventano semplicemente uomini, e non si ha più diritto sopra la loro vita. Talvolta si può uccidere lo Stato senza uccidere uno solo dei suoi componenti; ora la guerra non dà nessun diritto, che non

è chiaro

fetto; e l’uso del diritto di guerra non suppone nessun trattato di pace. Essi

no le armi in pugno; ma appena essi le depongono e si arrendano, cessando di

essere

non

che si cade in un circolo vizioso? Supponendo anche questo terribile

abbia-

è un bri-

gante. Anche in piena guerra un principe giusto s’impadronisce, sì, in paese nemico, di tutto ciò che appartiene al pubblico; ma rispetta la persona e i beni dei privati; rispetta i diritti sui quali sono fondati anche i beni suoi. Essendo fine della guerra la distruzione dello Stato nemico, si ha il diritto di ucciderne

diritto di vita e di morte,

schiavo fatto in guerra o un popolo conquistato non è tenuto assolutamente a nulla verso il suo padrone, se non ad obbedirgli finché vi sia costretto. Prendendogli un equivalente della sua vita, il vincitore non gli ha fatto alcuna grazia: invece di ucciderlo senza frutto, lo ha ucciso utilmente. Lungi dunque dall'aver egli acquistato su di lui alcuna autorità congiunta con la forza, sussiste fra loro lo stato di guerra come pri-

o detenga sudditi senza dichiarar guerra al principe,

nemico, se non quando non lo si possa rendere schiavo: il diritto di farlo schiavo non deriva dunque dal diritto di ucciderlo; è dunque uno scambio iniquo il fargli acquistare a prezzo della sua libertà la vita, sulla quale non si ha nessun diritto. Fondando il diritto di vita e di morte sopra il diritto di schiavitù, e il diritto di schiavitù sopra il

al suo

fi-

ne. Questi principi non son certo quelli di Grozio: non sono fondati sull’autorità di poeti, ma derivano dalla natura

ma;

han ma

la

loro

stessa

relazione

ne

è l'ef-

fatto una convenzione; sia pure; questa convenzione, lungi dal di-

struggere lo stato di guerra, ne suppone la continuità. Così, per qualsiasi verso consideria-

mo le cose, il diritto di schiavitù è nullo, non soltanto perché illegittimo,

ma perché è assurdo e non significa niente. Queste parole schiavità e diritto

delle cose, e sono fondati sulla ragione’.

sono

di servir come volontario, senz’essere stato espressamente arruolato conto il nemico, e proprio contro quel nemico, Essendo stata riformata una legione, in cui Catone figlio faceva e sue prime armi sotto Popilio, Catone padre scrisse a Popilio che, se voleva che suo figlio continuasse a servire sotto di lui, bisognava fargli prestare un nuovo giuramento militare, perché essendo annullato il primo, egli non po-

teva più portare le armi contro il nemico. E lo stesso Catone scrisse a suo figlio di star bene

Riguardo al diritto di conquista, esso non ha altro fondamento che la legge del più forte. Se la guerra non dà al vincitore il diritto di massacrare i popoli vinti, questo diritto, che egli non ha, non può fondare quello di asservirli. Non si ha il diritto di uccidere il

conttadittorie;

si

escludono

reci-

procamente. Sia da uomo ad uomo, sia da uomo a popolo, sarà sempre ugual mente insensato questo discorso: «Io faccio con te una convenzione tutta a tuo carico e tutta a mio vantaggio, che io osserverò finché mi piacerà, c che tu osserverai finché piacerà a me ».

attento, e non presentarsi al combattimento senza aver prestato il nuovo giuramento. So bene che mi si potrà opporre l'assedio di Chiusi e altri fatti particolari; ma io cito leggi e costumi, I Romani son quelli che meno spesso han trasgredito le loro leggi, e i soli che ne

abbiano avute di così

belle.

DEL CONTRATTO

284 Capitolo V COME OCCORRA SEMPRE RISALIRE A UNA PRIMA CONVENZIONE

Quand’anche

accordassi

DEL

tutto ciò che

ho confutato finora, i fautori del dispotismo non avrebbero per ciò fatta più strada. Ci sarà sempre una gran diffe renza fra il sottomettere una moltitudine e il governare una società. Anche se

uomini

sparsi

siano

numero,

io

successivamente

asserviti ad uno solo, quale che ne possa

essere

il

non

vedo

in

ciò

che un padrone e degli schiavi; non ci vedo

un

popolo

e il suo

capo;

è, se si

vuole, un’aggregazione, ma non un’associazione; non c'è in essa né bene pubblico, né corpo politico. Avesse pure quest'uomo asservita la metà del mondo, è sempre nulla più che un privato; il suo interesse, separato da quello degli altri, non è mai altro che un interesse privato. Se quest'uomo viene a morire, il suo impero, dopo di lui, resta sparso e senza legame, come una quercia si dissolve e cade in un mucchio di ceneri quando il fuoco l'abbia consumata. Un popolo, dice Grozio, può darsi ad un re. Secondo Grozio un popolo è dunque un popolo, prima di darsi a un re. Questo

stesso dono

SOCIALE

Capitolo VI

è un atto civile;

esso suppone una deliberazione pubblica. Prima dunque di esaminare l’atto, per il quale un popolo elegge un re, sarebbe bene esaminare l'atto, per il quale un popolo è un popolo; giacché questo atto, essendo necessariamente anteriore all'altro, è il vero fondamento

la società !0. ” Infatti, se non ci fosse alcuna

del-

con-

venzione anteriore, dove starebbe, a meno che l'elezione fosse unanime, l'ob-

bligo per la minoranza di sottoporsi alla scelta della maggioranza? E dove mai cento, che vogliano un padrone, hanno il diritto di votare per dieci, che non ne vogliano? La legge della maggioranza dei voti è essa stessa una regola stabilita per convenzione; e suppone, almeno una prima volta, l'unanimità.

PATTO

SOCIALE

Suppongo che gli uomini siano giunti al punto, in cui gli ostacoli, che nuocciano alla loro conservazione nello stato di natura, prendano con la loro resistenza il sopravvento sulle forze che ciascun individuo possa impiegare per mantenersi in tale stato. Allora quello stato originario non può più sussistere; e il genere umano perirebbe, se non cambiasse la sua maniera d'essere !!, Ora, siccome gli uomini non possono generare nuove forze, ma solo unire e dirigere quelle esistenti, essi non hanno più altro mezzo di conservarsi, se non di formare per aggregazione una somma di forze, che possa prevalere sulla resistenza, metterle in moto

per un solo

mini;

e la libertà

scopo, e farle operare in accordo. Questa somma di forze non può nascere che dal concorso di parecchi uoma,

essendo

la forza

di ogni uomo i primi strumenti della sua conservazione, come potrà egli impegnarli senza nuocersi e senza trascurare le cure che deve a se stesso? Questa difficoltà, ricondotta al mio argomento,

può

enunciarsi

in

questi

termi-

ni: « Trovare una forma di associazione, che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona ed i beni di ciascun associato; e per la quale ognuno, unendosi

a tutti, non obbedisca

mentale,

di

tuttavia

che a se stesso, e resti altrettanto libero di prima ». Tale è il problema fondacui

il contratto

sociale



la soluzione. Le clausole di questo contratto sono talmente determinate dalla natura dell'atto che la minima modificazione le renderebbe vane e di effetto nullo; in modo che, per quanto forse non siano state mai enunciate formalmente, sono ovunque le stesse, ovunque tacitamente ammesse e riconosciute, fino a che, essendo violato il patto sociale, ciascuno rientri nei suoi diritti primieri e riprenda la sua libertà naturale, perdendo

LIBRO

285

PRIMO

la libertà convenzionale vi rinunciò. Queste

cono

tutte

clausole,

a una

bene

sola:

per

la

intese,

cioè

quale si ridu-

l’aliena-

zione totale di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità;

perché, in primo luogo, se ciascuno si dà tutto intiero, la condizione è uguale per tutti; e se la condizione è uguale per tutti, nessuno ha interesse a renderla onerosa per gli altri. Di più, facendosi l’alienazione senza riserve, l'unione è perfetta per quanto può essere, e nessun associato ha più niente da rivendicare; perché, se restasse qualche diritto ai singoli, non essendoci alcun

superiore

comune,

che

potesse

pronunciarsi fra loro e il pubblico, ciascuno, essendo su qualche punto il proprio giudice, pretenderebbe ben presto di

esser

di natura diverrebbe vana.

tale

su

tutti;

sicché

lo

stato

persisterebbe, e l'occasione necessariamente tirannica o

Infine ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a nessuno; e siccome non c'è as-

sociato, sul quale non si acquisti lo stesso diritto che gli si cede su noi stessi, si guadagna l'equivalente intiero di ciò che si perde, e più forza per conservare ciò che si ha. Se dunque si escluda dal patto sociale ciò che non fa parte della sua essenza,

si

troverà

ch’esso

si

riduce

ai

termini seguenti: « Ciascuno di noi mette in comune la sua persona e tutto il suo potere, sotto la suprema direzione della volontà generale; e noi tutti in corpo riceviamo ciascun membro come parte indivisibile del tutto » !?. * Il vero senso di questa parola è quasi completamente cancellato presso i moderni: i più scambiano la città materiale con la città politica e l'abitante col cittadino. Essi non sanno che le case fanno la città materiale, ma solo

i cittadini fanno la città politica. Questo stesso errore costò caro in passato

ai Cartaginesi.

Non

ho mai letto che il titolo di cives sia mai stato

dato ai sudditi di nessun principe; neanche, anticamente, ai Macedoni, né, ai giorni nostri, agli Inglesi, per quanto più vicini alla libertà di tutti gli altri. I soli Francesi prendono tutti familiarmente questo nome di cittadini, perché non ne hanno alcuna idea esatta, come si può

Immediatamente, in cambio della persona privata di ciascun contraente, quest'atto di associazione produce un corpo morale e collettivo, composto di tanti membri quanti voti ha l’assemblea; il quale riceve da questo stesso atto la sua unità,

il

suo

blica,

che

si

fo

e la sua volontà.

comune,

forma

Questa così

la

sua

persona

vita

pub-

dall'unione

di

tutte le altre, prendeva altra volta il nome di città * e prende ora quello di repubblica o di corpo politico, il quale è

chiamato

dai

suoi

membri

Stato,

in

quanto è passivo, sovrano in quanto è attivo, potenza nel confronto coi suoi simili. Riguardo agli associati, essi prendono collettivamente il nome di popolo, e si chiamano particolarmente cittadini in quanto partecipi dell'autorità sovrana, e sudditi in quanto sottomessi alle leggi dello Stato. Ma questi termini si confondon spesso e si scambiano l'uno con l’altro; basta saperli distinguere quando sono usati in tutta la loro precisione. Capitolo VII DEL

SOVRANO

Si vede da questa formula che l'atto di associazione racchiude un’obbligazione reciproca tra pubblico e privati, e che ciascun individuo, contrattando, per così

dire,

con

se

stesso,

si trova

impe-

gnato sotto un doppio rapporto; cioè come membro del sovrano verso i privati, e come membro dello Stato verso il sovrano. Ma non si può applicare qui vedere nei loro dizionari; senza di che cadrebbero, usurpandolo, nel delitto di lesa maestà: questo nome per essi esprime una virtù-e non un diritto. Quando Bodin ha voluto parlare dei . nostri cittadini e abitanti, ha preso un grosso granchio, scambiando gli uni con gli altri.

D'Alembert invece non ci si è ingannato e ha distinto bene, nel suo articolo Girevra, i quat-

tro ordini d’uomini (anzi cinque, contandoci i semplici stranieri), che vivono nella nostra cit-

tà, e di cui solo due compongono la repubblica. Nessun altro autore francese, che io mi sappia, ha

capito

il vero

senso

della

parola

cittadino.

DEL

286 la norma del diritto civile, che nessuno è tenuto agli obblighi assunti con se stesso; perché c’è una gran differenza tra l’obbligarsi verso se stesso e l’obbligarsi verso un tutto, di cui si faccia parte. Bisogna osservare ancora che la deliberazione pubblica, che può obbligare tutti

i sudditi

verso

il

sovrano,

a ca-

gione delle due relazioni diverse sotto le quali ciascuno di essi è considerato, non può, per la ragione opposta, obbligare il sovrano verso se stesso; e, per conseguenza, è contro la natura del corpo politico che il sovrano imponga a se stesso una legge che non possa infrangere. Non potendosi considerare che sotto un solo e medesimo rapporto, egli è allora nel caso di un privato contraente con se stesso: dal che si vede che non c'è e non può esserci alcuna specie di legge fondamentale obbligatoria per il corpo del popolo, neanche il contratto sociale. Ciò non significa che questo corpo non possa benissimo obbligarsi verso altri, in ciò che non deroghi da questo contratto;

perché,

di

fronte

allo

stra-

niero, esso diviene un essere semplice, un individuo. Ma il corpo politico o il sovrano, traendo il suo essere solo dalla santità del contratto, non può mai obbligarsi, neanche verso altri, a nulla che deroghi da questo atto originario, come sarebbe l'alienare qualche parte di se stesso o il sottomettersi a un altro sovrano. Violar l’atto, per il quale esso esiste, equivarrebbe ad annientarsi; e ciò che non è nulla, nulla produce. Non appena questa moltitudine sia riunita così in un corpo, nessuno può offendere uno dei suoi membri senza attaccare il corpo, e ancor meno offendere il corpo senza che i membri se ne risentano. Così il dovere e l’interesse obbligano ugualmente le due parti contraenti ad aiutarsi reciprocamente: e gli stessi uomini debbono cercare di riunire ‘sotto questo doppio rapporto tutti i vantaggi che ne dipendono. Ora

il sovrano,

non

essendo

formato

CONTRATTO

SOCIALE

che degli individui che lo compongono, non ha né può avere interesse contrario al loro; per conseguenza il potere sovrano non ha affatto bisogno di un garante verso i sudditi, perché è impossibile che il corpo voglia nuocere a tutti i suoi membri; e noi vedremo più oltre che nemmeno può nuocere ad alcuno in particolare. Il sovrano, per il solo fatto che è, è sempre tutto ciò che deve essere. Ma non è così dei sudditi verso il sovrano,

al

quale,

nonostante

il comune

interesse, nulla risponderebbe dei loro obblighi, se egli non trovasse mezzi di assicurarsi della loro fedeltà. In

realtà

ogni

individuo

può,

come

uomo, avere una volontà particolare contraria o dissimile dalla volontà generale, che

egli ha come

cittadino;

il suo

interesse privato può parlargli in modo

del tutto diverso dall’interesse comune; la sua esistenza assoluta, e naturalmente

indipendente, può fargli considerare ciò

che

deve

alla

causa

comune,

come

una

contribuzione gratuita, la cui perdita sarebbe meno dannosa agli altri, di quanto il pagamento ne sia gravoso a lui; e considerando la persona morale, che costituisce lo Stato come un ente di ragione, poiché questo non è un uomo, egli godrebbe dei diritti di cittadino senza voler compiere i doveri di suddito; ingiustizia, il cui progresso cagionerebbe la rovina del corpo politico. Affinché dunque il patto sociale non sia una vana formula, esso deve racchiu-

dere tacitamente questo impegno, il quale solo può dar forza agli altri: che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò che non significa altro, se non che lo si costringerà ad esser libero;

perché

tale

è la condizione

che,

dando ogni cittadino alla patria, lo garantisce da ogni dipendenza personale; condizione che forma il meccanismo e il funzionamento della macchina politica, che sola rende legittime le obbligazioni civili, le quali senza di ciò sarebbero assurde, tiranniche, e soggette ai più enormi abusi.

LIBRO PRIMO

287

Capitolo VIII DELLO

Questo tura allo

STATO

CIVILE

passaggio dallo stato di nastato civile produce nell’uo-

mo un cambiamento

molto

all'istinto,

alle

notevole, so-

stituendo nella sua condotta la giustizia e

dando

moralità che loro mancava lora

soltanto,

sue

azioni

la

innanzi. Al.

subentrando

la voce

natura,

ne

guadagna

in

cambio

di

così grandi, e le sue facoltà si esercitano e si sviluppano, le sue idee si estendono,

i

suoi

sentimenti

si

nobilitano,

tutta la sua anima si eleva a tal punto che, se gli abusi di questa nuova condizione non la degradassero spesso al di sotto di quella da cui è uscito, egli dovrebbe benedire continuamente l’istante felice che ne lo strappò per sempre, e che d'un animale stupido e limitato fece un essere intelligente e un uomo !. Riduciamo tutto questo bilancio a termini facili a paragonare. Ciò che l’uomo perde nel contratto sociale è la sua libertà naturale e un diritto illimitato su tutto ciò che tenta e che può conseguire; ciò che guadagna è la libertà civile e la proprietà di tutto ciò che possiede. Per non ingannarsi su queste compensazioni, bisogna distinguer bene la libertà naturale, che non ha limiti che nelle forze dell’individuo, dalla

libertà

è se

non

civile, che

volontà generale:

l'effetto

è limitata

dalla

e il possesso, che non della

forza,

o

Capitolo IX

del

dovere all'impulso fisico e il diritto all'appetito, l’uomo, il quale fino allora non aveva guardato che a se stesso, si vede forzato ad operate secondo altri principi e a consultare la sua ragione prima di dar ascolto alle sue tendenze. Sebbene, in questo stato, si privi di non pochi vantaggi che gli vengono dalla

libertà morale che, sola, rende l’uomo veramente padrone di se stesso; perché l'impulso del solo appetito è schiavitù, e l'obbedienza alla legge, che noi stessi ci siamo prescritta, è libertà. Ma ho già detto troppo su questo punto, e il senso filosofico della parola libertà non fa parte qui del mio argomento.

il di-

ritto del primo occupante, della proprietà che non può essere fondata che su un titolo positivo. Si potrebbe, a ciò che precede, aggiungere, all'attivo dello stato civile, la

DEL

DOMINIO

REALE

Ciascun membro della comunità si dà

ad essa, nel momento che essa si forma, tal quale egli si trova attualmente, lui e tutte le sue forze, di cui fanno

parte i beni che egli possiede. Non che, per mezzo di quest’atto, il possesso cam-

bi

di

natura

di

fatto,

cambiando

di mani,

e di-

venga proprietà nelle mani del sovrano; ma, poiché le forze della città sono senza paragone maggiori di quelle di un singolo, il possesso pubblico è, anche più

forte

e

più

irrevocabile,

pur senza essere più legittimo, almeno per gli stranieri, poiché lo Stato, di fronte ai suoi membri, è padrone di tutti i loro beni per il contratto sociale, che, nello Stato, diritti; ma esso

serve di base a tutti i non è tale, di fronte

alle altre potenze, che per il diritto primo occupante, che ha acquisito singoli. Il diritto di primo» occupante, quanto più reale che quello del più

di dai

per for-

te, non diventa un vero diritto che dopo

l'istituzione di quello di proprietà. uomo ha naturalmente diritto a ciò che gli è necessario; ma l'atto tivo, che lo rende proprietario di

Ogni tutto posiqual.

che bene, lo esclude da tutto il resto. Fatta la sua parte, egli deve limitarvisi,

e non ha più alcun diritto alla comunità. Ecco perché il diritto di primo occupante,

così

debole

ciò

d’altri,

allo

stato

di

na-

tura, è rispettabile per ogni uomo civile. In questo diritto si rispetta meno ch'è

stro.

che

ciò che

non

è no-

288

DEL

In generale, per legittimare su un terreno qualunque il diritto del primo occupante, occorrono le seguenti condizioni: primo, che quel terreno non sia ancera abitato da nessuno;

secondo, che

cerimonia,

e la

non se ne occupi che la quantità di cui si ha bisogno per vivere; terzo, che se ne prenda possesso, non con una vana ma

col

lavoro

cultura,

solo segno di proprietà che, in difetto di titoli giuridici, debba essere rispettato da altri !. Infatti, accordare al bisogno e al lavoro il diritto del primo occupante non equivale forse ad estenderlo fino al punto cui esso può giungere? È possibile non porre limiti a tale diritto? Basterà mettere il piede su di un terreno comune, per pretender subito d’esserne il padrone? Basterà aver la forza di respingerne un momento gli altri uomini per toglier loro il diritto di ritornarvi mai? Come può, un uomo o un popolo, impadronirsi di un territorio immenso e privarne tutto il genere umano, se non per via di un'usurpazione meritevole di pena, poiché essa toglie al resto degli uomini il soggiorno e gli alimenti, che la natura dà loro in comune?

Quando

Nu-

fiez Balbao prendeva dalla tiva possesso del mare del Sud e di tutta l’America meridionale in nome della corona di Castiglia, bastava questo per spodestarne tutti gli abitanti ed escluderne tutti i principi del mondo? A questa stregua tali cerimonie si sarebbero moltiplicate abbastanza

vanamente;

e

il

Re

Catto-

lico non avrebbe avuto che a prendere d'un colpo, dal quo gabinetto, possesso di tutto l'universo, salvo dover poi ritagliare dal suo impero ciò che era posseduto antecedentemente dagli altri principi. Si capisce come le terre dei privati, riunite e contigue, divengano territorio pubblico, e come il diritto di sovranità, estendendosi dai sudditi al terreno che occupano, diventi ad un tempo reale e personale; ciò mette i possessoti in una maggior dipendenza e converte le loro stesse forze in garanzie della loro fe-

CONTRATTO

SOCIALE

deltà; vantaggio, che non sembra essere stato inteso bene dagli antichi monarchi, che, chiamandosi soltanto re dei Persiani, degli Sciti, dei Macedoni,

sem-

bravano considerarsi capi degli uomini piuttosto che signori del paese. Quelli d'oggi si chiamano più avvedutamente

re di Francia, di Spagna, d'Inghilterra, ecc.: tenendo così il terreno, essi sono

ben sicuri di tenerne gli abitanti. Ciò che vi è di singolare, in quest'alienazione,

si è che,

a loro

hanno,

nell'accettare

beni dei privati, la comunità, lungi dallo spogliarneli, non fa che assicurarne loro il legittimo possesso, mutare l'usurpazione in vero diritto, e il godimento in proprietà !5. Allora, essendo i possessori considerati depositari del bene pubbli. co, essendo i loro diritti rispettati da tutti i membri dello Stato e mantenuti da tutte le forze di questo contro lo straniero, essi per mezzo di una cessione, vantaggiosa al pubblico e più ancora stessi,

per

così

dire,

i

ac-

quistato tutto ciò che han dato: paradosso, che si spiega facilmente per mezzo della distinzione dei diritti che il sovrano e il proprietario hanno sullo stesso terreno, come si vedrà più oltre. Può accadere ancora che gli uomini comincino ad unirsi prima di posseder nulla, e che, impadronendosi in seguito di un terreno sufficiente per tutti, ne godano in comune o se lo dividano fra loro,

sia

in

egual

misura,

sia

secondo

proporzioni stabilite dal sovrano. In qualsiasi modo si faccia questo acquisto, il diritto, che ogni privato ha sul proprio terreno, è sempre subordinato al diritto

che

la comunità

ha

su

tutti;

senza di che non vi sarebbe solidità nel vincolo

sociale, né

forza

reale nell’eser-

cizio della sovranità. Terminerò questo capitolo libro con un'osservazione,

e questo

che deve

ser-

vire di base a tutto il sistema sociale: cioè che invece di distruggere l'uguaglianza naturale, il patto fondamentale sostituisce al contrario un’uguaglianza morale e legittima a ciò che la natura aveva potuto mettere di disuguaglianza

LIBRO

289

SECONDO

fisica fra gli uomini, i quali, pur potendo esser disuguali di forza o di genio, divengono tutti uguali per convenzione e di diritto *. FINE

DEL

LIBRO

LIBRO

PRIMO

LA

SOVRANITÀ

È

INALIENABILE

La prima e più importante conseguenza dei principi stabiliti più innanzi è che la volontà generale può sola dirigere le forze dello Stato secondo il fine della sua istituzione, che è il bene comune; perché, se l'opposizione degli interessi privati ha reso necessaria l'istituzione

della

società,

a

suo

volta

l’ac-

cordo di questi stessi interessi l'ha resa possibile. Precisamente ciò che v'è di comune fra questi interessi forma il vincolo sociale; e se non ci fosse qualche punto, su cui tutti gli interessi si accordino, nessuna società potrebbe esistere. Ora unicamente in vista di questo comune interesse la società deve esser governata. Dico dunque che la sovranità, non essendo che l'esercizio della volontà ge-

nerale, non può mai alienarsi, e che il sovrano, che non è se non un ente col-

lettivo, non può essere rappresentato che da se stesso; può bensì trasmettersi il potere, ma non la volontà !*, Infatti, se non è impossibile che una volontà privata si accordi su qualche punto con la volontà generale, è impossibile almeno che quest’accordo sia durevole e costante; perché la volontà sin-

non

* Sotto è che

i cattivi governi, questa uguaglianza apparente e illusoria; essa non serve

che a mantenere

e la volontà generale all’uguaglianza. È più impossibile ancora che ci sia un garante di tale accordo, quando pure sarebbe necessario che sempre esistesse; ciò non sarebbe resultato di arte, ma di puro caso. Il sovrano può ben dire: « Io voglio attualmente ciò che vuole quel dato uomo, 0 per lo meno ciò che dice di

SECONDO

Capitolo I CHE

gola tende di sua natura alle preferenze,

il povero nella sua miseria e

il ricco nella sua usurpazione. Nella realtà le leggi sono sempre utili a chi possiede, e dannose a chi non ha nulla; dal che deriva che lo stato sociale non è vantaggioso agli uomini,

volere»,

ma

esso

non

può

dire:

« Ciò che quell'uomo vorrà domani, io lo vorrò ancora », poiché è assurdo che la volontà dia a se stessa catene per l'avvenire, e non dipende da alcuna volontà il consentire a cosa contraria al bene del volente. Se dunque il popolo prometta semplicemente di obbedire, in quest'atto esso si dissolve, perde la sua qualità di popolo; dal momento che v'è un padrone,

non v'è più un sovrano,

e da allora in poi il corpo politico è distrutto. Ciò non vuol dire che gli ordini dei capi non possano passare per volontà generali, finché il sovrano, per quanto libero di opporvisi, se ne astenga. In tal caso, dal silenzio universale si deve

presumere il consenso del popolo. Ma questo sarà spiegato più ampiamente. Capitolo II CHE LA SOVRANITÀ è

È INDIVISIBILE

Per la stessa ragione che la sovranità inalienabile,

essa

è indivisibile;

per-

ché o la volontà è generale ** o non è tale; essa o è quella del corpo popolare o solo d'una patte. Nel primo caso questa volontà dichiarata è un atto di sovranità e fa legge; nel secondo non è che una volontà particolare o un atto di magistratura; tutt’al più un decreto. Ma i nostri politici, non potendo diche in quanto posseggano tutti qualcosa, e nessuno di loro abbia nulla di troppo. ** Perché una volontà sia generale, non è sempre necessario che essa sia unanime, ma è necessario che di tutti i voti sia tenuto conto; ogni esclusione formale rompe la generalità.

290

DEL

videre

la sovranità

dividono

dono

nel suo principio,

nel suo oggetto:

in

forza

la

essi la divi-

e volontà;

in

potere

e

in

le-

gislativo e potere esecutivo; in diritto d'imposta, di giustizia e di guerra; in amministrazione

interna

potere

di trattare con lo straniero: talvolta confondono tutte queste parti, e talvolta le separano. Essi fanno del sovrano un essere fantastico e formato di pezzi aggiunti;

l'uomo avesse

proprio

con

gli

come

parecchi

occhi,

se

componessero

corpi, di cui uno

l’altro

le braccia,

l'al-

tro i piedi e nulla più. I ciarlatani giapponesi, si dice, tagliano a pezzi un fanciullo sotto gli occhi degli spettatori; poi, gettando in aria tutte le sue membra una dopo l’altra, fanno ricadere il fanciullo vivo e tutto riunito. Tali sono press’a poco i giuochi di bussolotti dei nostri politici; dopo aver smembrato

il corpo

sociale,

con

un

giuoco

di

prestigio, degno di una fiera, essi ne riuniscono i pezzi non si sa come. Questo errore deriva dal non essersi formate nozioni esatte dell'autorità sovrana, e dall’aver preso per parti di questa autorità quelle che non ne erano che emanazioni !, Così, per esempio, si è considerato l’atto di dichiarar guerra e quello di far la pace come atti di sovranità; ciò che non è, poiché ciascuno di questi atti non è una legge, ma solo un'applicazione della legge, un atto speciale che determina il caso della legge, come lo si vedrà chiaramente, quando l’idea connessa con la parola /egge sarà fissata. Seguendo del pari le altre divisioni, si troverebbe che, ogni volta che si crede vedere la sovranità divisa, si cade in er-

rore; che i diritti, che si prendono per parti di questa sovranità, le son tutti subordinati, e suppongono sempre volontà

sovrane,

di cui

questi

diritti

non

danno che l'esecuzione. Non si potrebbe dire quanto simile mancanza d’esattezza abbia oscurate le conclusioni degli autori in materia di diritto politico, quando han voluto giudicare dei diritti rispettivi dei re e dei popoli in base ai principi che avevano

CONTRATTO

stabiliti. Ognuno

SOCIALE

può, vedere; nei capi-

toli III e IV del primo libro di Gro-

zio, come quest'uomo sapiente e il suo traduttore Barbeyrac si aggroviglino, si confondano nei loro sofistni, per paura di dir troppo o di non dire abbastanza a seconda

gli

delle loro vedute, e di urtare

interessi

Grozio,

che

rifugiato

dovevano

in

Francia,

conciliare. scontento

della sua patria, e volendo far la corte a Luigi XIII, al quale il suo libro è dedicato, nulla risparmia per spogliare i popoli di tutti i loro diritti e rivestirne i re, con tutta l’arte possibile. Tale sarebbe stata anche l'inclinazione di Barbeyrac,

che

dedicava

la sua

traduzione

al re d'Inghilterra Giorgio I. Ma disgraziatamente l'espulsione di Giacomo II, che egli chiama abdicazione, lo costringeva a tenersi riservato, a destreggiarsi, a tergiversare, per non fare di Guglielmo un usurpatore. Se questi due scrittori avessero adottati i veri principi, tutte le difficoltà

sarebbero

state

eliminate,

ed

essi sarebbe stati sempre conseguenti; ma avrebbero detto con tristezza la verità, e non

avrebbero

fatto

la corte

ad

altri che al popolo. Ora, la verità non conduce alla fortuna, e il popolo non dà né ambasciate, né cattedre, né pensioni. Capitolo III SE

LA VOLONTÀ

GENERALE

POSSA

ERRARE

Da quanto precede consegue che la volontà generale è sempre retta e tende sempre all’utilità pubblica: ma non ne consegue che le deliberazioni del popolo abbiano sempre la stessa rettitudine. Si vuol sempre il proprio bene, ma non sempre lo si vede: non si corrompe mai il popolo, ma spesso lo si inganna, ed allora soltanto egli sembra volere ciò che è male. ° V'è spesso gran differenza fra la volontà di tutti e la volontà generale: questa non guarda .che all'interesse comune, l’altra guarda all'interesse privato e non è che una somma di volontà parti-

LIBRO colari:

291

SECONDO ma

togliete

da

queste

volontà

il più e il meno, che si distruggono a vicenda *, e resta per somma delle differenze la volontà generale. Se allorquando il popolo, sufficientemente informato, delibera, i cittadini non avessero alcuna comunicazione fra di loro, dal gran numero delle piccole differenze risulterebbe sempre la volontà generale,

e la deliberazione

sareb-

be sempre buona. Ma quando si crean fazioni, associazioni parziali a spese della grande, la volontà di ciascuna di queste associazioni diventa generale rispetto ai suoi membri,

e particolare rispetto

allo Stato: si può dire allora che non ci sono più tanti votanti quanti uomini; ma solo quante associazioni. Le differenze

diventano

meno

numerose,

dan-

no un risultato meno generale. Infine, quando una di queste associazioni è così grande, da prevalere su tutte le altre, non avete più per risultato una somma di piccole differenze, ma una differenza unica; allora non c'è più volontà generale, e il parere che prevale non è che un parere particolare. Importa dunque, per aver veramente l’espressione della volontà generale, che non vi siano società parziali nello Stato, e che

ogni

cittadino

non

Capitolo IV

pensi

che

con la sua testa **. Tale fu l’unica e sublime istituzione del gran Licurgo. Che se vi sono società parziali, bisogna moltiplicarne il numero e prevenirne la disuguaglianza, come fecero Solone, Numa, Servio. Queste precauzioni son le sole valide perché la volontà generale sia sempre illuminata e il popolo non s'inganni. * « Ogni interesse, dice il marchese d'Argen-

son, ha principi diversi. L'accordo di due intetessi privati si costituisce in opposizione a quelli di un terzo », Egli avrebbe potuto aggiungere che l'accordo di tutti gli interessi si costituisce in opposizione a quello di ciascuno. Se non ci fossero interessi diversi, a malapena si sentirebbe l'interesse comune, che non troverebbe mai ostacolo; tutto andrebbe da sé, e la

politica cesserebbe di essere un'arte !. ** «Vera cosa è, dice Machiavelli, che alcune divisioni nuociono alle repubbliche, ed

DEI

LIMITI

DEL

POTERE

SOVRANO

Se lo Stato o la città non è che una persona morale, la cui vita consiste nel-

l'unione dei suoi membri,

e se la sua cu-

ra più importante è quella della propria conservazione, essa ha bisogno di una forza universale e coattiva, per muovere e disporre ogni parte nel modo più conveniente al tutto. Come la natura dà a ogni uomo un potere assoluto su tutte le sue membra, il patto sociale dà al corpo politico un potere assoluto su tutte le sue; e questo stesso potere, diretto da una volontà generale, porta, come ho già detto, il nome di sovranità. Ma,

oltre

la

persona

pubblica,

noi

dobbiamo considerare le persone private che la compongore, la cui vita e la cui libertà sono naturalmente indipendenti da essa. Si tratta dunque di distinguere bene i rispettivi diritti dei cittadini e del sovrano ***, e i doveri, cui

debbono sudditi,

adempiere

dal diritto

i primi

naturale

in quanto

di cui deb-

bono godere in quanto uomini. Si conviene che tutto ciò che ciascuno aliena, col patto sociale, del suo potere,

dei

suoi

beni,

della

sua

libertà

solo quella parte di tutto ciò, il cui interessi alla comunità; ma bisogna venire anche che solo il sovrano è dice di questo interesse. Tutti i servigi, che un cittadino rendere

allo Stato, esso glieli deve,

appena il sovrano glieli domandi; sovrano,

i*sudditi

da parte sua,

di

alcuna

non

catena

è

uso congiupuò non

ma il

può caricare

inutile

alla

alcune giovano: quelle nuociono che sono dalle sette e da partigiani accompagnate; quelle giovano, che senza sette e senza partigiani si mantengono. Non potendo adunque povvedere un fondatore d'una repubblica che non siano nimicizie in quella, ha da provveder almeno che non vi siano sette ». Istorie fiorentine, lib. VII. *** Lettori attenti, non affrettatevi, vi prego, ad accusarmi qui di contraddizione. Non ho potuto evitarla nei termini, vista la povertà della lingua; ma aspettate.

DEL CONTRATTO

292

SOCIALE

comunità: esso non può neanche volerlo: perché sotto la legge di ragione

su di un fatto. Quando il popolo di Atene, ‘per esempio, nominava o con-

sotto la legge di natura. Gli impegni, che ci legano al corpo sociale, non sono obbligatori che in quanto siano reciproci; e la loro natura è tale, che adempiendoli non si può lavorare per altri senza lavorare anche per sé. Perché mai la volontà generale

l'uno, imponeva pene all’altro e, con una quantità di decreti particolari, esercitava indistintamente tutti gli atti di governo, il popolo allora non aveva più una volontà generale propriamente det-

nulla

si fa senza

è sempre

retta,

causa,

non

e perché

meno

mai

che

tutti

vo-

gliono costantemente la felicità di ciascuno di loro, se non perché non c'è nessuno che non si appropri di questo termine ciascuno, e che non pensi a se stesso, votando per tutti? Il che prova che l'uguaglianza di diritto e la nozione di giustizia, che essa produce, derivano dalla

per

preferenza

conseguenza,

che

ciascuno

dalla

natura

si dà,

e,

dell’uo-

mo; che la volontà generale, per essere veramente tale, dev’esser tale così nel suo oggetto come nella sua essenza; che

essa deve partire da tutti per applicarsi a tutti; e che essa perde

la sua rettitu-

dine naturale quando tenda a qualche oggetto individuale e determinato, perché allora, giudicando di ciò che ci è estraneo,

noi

non

abbiamo

alcun

vero

principio di equità che ci guidi. Infatti, appena si tratti di un fatto o di un diritto particolare su di un punto che non sia stato regolato da una convenzione generale e anteriore, l'affare diventa contenzioso: è un processo, in cui i privati interessati costituiscono una delle parti e il pubblico l'altra, ma nel quale non vedo né la legge che bisogna seguire, né il giudice che deve pronunciarsi. Sarebbe ridicolo di voler allora riferirsi ad un’espressa decisione della volontà generale, la quale non può essere che la conclusione di una delle parti, e, per conseguenza, non è per l'altra che una volontà estranea, particolare,

portata, in questa occasione, ver-

so l'ingiustizia, e soggetta all'errore. Così, a quel modo che una volontà particolare non può rappresentare la volontà generale, la volontà generale a sua volta cambia

di

natura,

avendo

un

oggetto

particolare, e non può più come generale pronunciarsi né su di un uomo, né

gedava

ta,

esso

i suoi

capi,

non

agiva

decretava

onori

più

sovrano,

come

al-

ma come magistrato. Ciò sembrava contrario alle idee comuni, ma bisogna lasciarmi il tempo di esporre le mie. Con ciò si deve intendere che ciò che rende generale la volontà non è tanto il numero dei voti, quanto l'interesse

comune che li unisce; perché, in questa istituzione, ciascuno si sottomette neces-

sariamente alle condizioni che impone agli altri: accordo mirabile dell'interesse

e della

giustizia,

che

conferisce

alle de-

liberazioni comuni un carattere di equi-

tà, che si vede

svanire

nella discussione

di ogni affare privato, per mancanza un

interesse comune,

di

che unisca e iden-

tifichi la regola del giudice con quella della parte. ” Da qualsiasi parte si risalga al principio, si arriva sempre alla stessa conclusione, cioè che il patto sociale stabilisce fra i cittadini una tale uguaglianza, che essi s'impegnano tutti sotto le stesse condizioni, e debbono godere tutti degli stessi diritti. Così per la natura del patto, ogni atto di sovranità, cioè ogni atto autentico della volontà generale, obbliga o favorisce ugualmente tutti i cittadini;

in modo

che il sovrano

obbediscono

nessuno,

ma

conosce solo il corpo della nazione, e non distingue alcuno di quelli che la compongono. Che cosa è dunque propriamente un atto di sovranità?» Non è una convenzione del superiore con l'inferiore, ma una convenzione del corpo con ciascuno dei suoi membri: convenzione legittima, perché ha per base il contratto sociale; equa, perché è comune a tutti; utile, perché non può aver altro oggetto che il bene generale; e solida, perché ha per garanzia la forza pubblica e il potere sovrano. Fino a che i sudditi non sono sotto messi che a tali convenzioni, essi nor a

solo

alla

LIBRO

SECONDO

293

Capitolo V

loro propria volontà: e domandare fin dove si estendano i diritti rispettivi del sovrano

e

dei

cittadini,

vuol

dire

do-

mandar fino a che punto questi possano

impegnarsi con se stessi, ciascuno verso tutti, e tutti verso ciascuno di loro.

Da ciò si vede che il potere sovrano, per quanto sia assoluto, sacro e inviolabile, non passa e non può passare i limiti delle convenzioni generali !’, e che ogni uomo può disporre pienamente di ciò che gli è stato lasciato dei suoi beni e della sua libertà da queste convenzioni;

in modo

che

il sovrano

non

è

mai in diritto di gravare un suddito più

che

un

altro,

perché

allora,

diventando

privato l’affare, il suo potere non è più competente. Una volta ammesse queste distinzioni, è così falso che nel contratto sociale vi sia, da parte dei singoli, alcuna rinuncia effettiva, che la loro condizione, per

effetto di questo contratto, si trova ad essere realmente preferibile a quella che era per l'innanzi e che, in luogo di un'alienazione,

essi

non

han

fatto

che

che

altri

uno scambio vantaggioso di una manicra di essere incerta e precaria con un’altra migliore e più sicura; dell’indipendenza naturale con la libertà; del potere di muocere altrui con la propria sicurezza;

e

della

loro

forza,

poteva sopraffare, con un diritto che l'unione sociale rende invincibile. La loro vita stessa, ch'essi hanno consacrata allo Stato, ne è continuamente protetta; e quando essi l’espongano per la sua

difesa,

che

fanno

mai,

se non

ren-

dergli ciò che han ricevuto da lui? Che fanno mai, se non ciò che farebbero più spesso e con più pericolo nello stato di natura,

quando,

nel dar

battaglie

inevi-

tabili, dovrebbero difendere col pericolo della loro vita ciò che serve loro a conservarla? Tutti debbono combattere in caso di bisogno per la patria, è vero; ma così nessuno ha mai da combattere per se stesso. Non c’è forse ancora un guadagno, a correre, per ciò che forma la nostra sicurezza, solo una parte dei rischi che bisognerebbe correre per noi stessi,

tolta?

non

appena

la sicurezza

ci fosse

DEL

DIRITTO

DI

VITA

E

DI

MORTE

Si domanda come i privati, non avendo diritto di disporre della propria vita, possano trasmettere al sovrano questo

stesso

diritto,

che

essi

non

hanno.

Questo problema non sembra difficile a risolvere se non perché è posto male. Ogni uomo ha diritto di rischiare la propria vita per conservarla. Ha mai detto nessuno che chi si getta da una finestra per sfuggire a un incendio sia colpevole di suicidio? Ha mai nessuno imputato questo stesso delitto a chi perisca in una tempesta, della quale pure, imbarcandosi, non ignorava il pericolo? Il trattato sociale ha per fine la conservazione dei contraenti. Chi vuole il fine vuole anche i mezzi, e questi mezzi sono inseparabili da qualche rischio, e anche da qualche perdita. Chi vuol conservar la sua vita a spese degli altri, deve anche darla per essi quando occorra. Ora, il cittadino non è più giudice del pericolo, al quale la legge vuole che si esponga; e, quando il principe gli abbia detto: «Occorre allo Stato che tu muoia », egli deve morire, poiché solo a questa condizione ha vissuto fino allora

in sicurezza,

e la sua vita

non

è

più soltanto un beneficio della natura, ma un dono condizionato dello Stato. La pena di. morte, inflitta ai criminali, può essere considerata press'a poco sotto lo stesso angolo visuale: per non essere vittima di un assassino si consente a morire se tale si diventi. In questo trattato, lungi dal disporre della propria vita, non si pensa che a garantirla, e non è a presumere che alcuno dei contraenti premediti allora di farsi impiccare. D'altra parte ogni malfattore, attaccando il diritto sociale, diventa, pei suoi

misfatti, ribelle e traditore verso la patria; egli cessa di esserne membro, violandone le leggi; anzi le ta guerra. Al lora la conservazione dello Stato è incompatibile con la sua; bisogna che uno dei due perisca; e quando si fa

294 morire tanto

DEL il colpevole,

come

cittadino,

lo si uccide quanto

non

come

ne-

mico. Le procedure, il giudizio sono le prove e la dichiarazione che egli ha rotto il trattato sociale, e, per conseguenza, non è più membro dello Stato. Ora, siccome egli si è riconosciuto tale, almeno per la sua dimora nello Stato, egli deve esserne tagliato fuori con l’esilio come violatore del patto, o con la morte, come nemico pubblico; poiché un tale nemico non è una persona morale, è un uomo, e allora avviene che

è diritto di guerra

uccidere il vinto.

Ma, si dirà, la condanna

d'un crimina-

le è un atto privato. D'accordo, e infatti

questa

condanna

non

appartiene

‘al so-

vrano; è un diritto che egli può conferire, senza poterlo esercitare lui stesso. Tutte

le mie

idee sono

concatenate,

ma

io non saprei esporle tutte in una volta. Del resto, la frequenza dei supplizi è sempre un segno di debolezza o di pigrizia nel governo. Non c'è malvagio che non si potesse render buono a qualcosa, Non

si ha il diritto di far morire,

sia pure per l'esempio, se non chi non possa esser conservato senza pericolo. Riguardo al diritto di far grazia, o di esonerare un colpevole dalla pena assegnata dalla legge e pronunciata dal giudice,

esso

non

appartiene

se non

a chi

sia al disopra del giudice e della legge.

Vale a dire al sovrano; e anche il suo diritto su ciò non è ben chiaro, e i casi

in cui farne uso sono molto rari. In uno Stato ben governato, vi son poche punizioni; non perché vi si facciano molte grazie, ma perché ci sono pochi criminali: il moltiplicarsi dei delitti ne assicura l’impunità quando lo Stato sia in decadenza. Sotto la repubblica romana, mai il Senato o i consoli tentarono di far grazia; il popolo stesso non ne faceva, benché revocasse talora il suo stesso giudizio. Le grazie frequenti presagiscono che ben presto i misfatti non ne avranno più bisogno, e ognuno vede dove ciò conduca. Ma sento che il mio cuore mormora e trattiene la mia penna: lasciamo discutere tali questioni all'uomo giusto che non ha mai peccato, né mai ha avuto bisogno egli stesso di grazia.

CONTRATTO

SOCIALE

Capitolo VI DELLA

LEGGE

Col patto sociale noi abbiamo data l’esistenza e la vita al corpo politico; si tratta ora di dargli il movimento e la volontà con la legislazione. Ché l'atto originario, per il quale questo corpo si forma e si unisce, non determina an-

cora nulla di ciò per conservarsi.

che

esso

,

deve

fare

Ciò che è bene e conforme all'ordine, è

tale per la natura stessa delle cose e indipendentemente dalle convenzioni umane. Ogni giustizia vien da Dio, Egli solo ne è la fonte; ma se noi sapessimo riceverla così dall’alto, non avremmo

bisogno né di governo né di leggi. Senza dubbio v'è una giustizia universale, emanata dalla sola ragione; ma questa giustizia, per essere ammessa fra noi, deve essere reciproca. Per considerare le

cose

umanamente,

sanzione naturale zia sono vane fra fanno che il bene del giusto, quando tutti

setvi zioni veri, getto.

quanti,

in

mancanza

di

le leggi della giustigli uomini; esse non del malvagio e il male questi le osservi con

senza

che

nessuno

le

os-

con lui. Occorron dunque convene leggi, per unire i diritti ai doe ricondurre la giustizia al suo ogNello stato di natura, dove tutto

è comune,

io non debbo

niente a coloro

cui niente ho promesso; io non riconosco come proprietà altrui se non ciò che a me sia inutile. Non è così nello stato civile, dove

tutti i diritti sono

fis-

sati dalle leggi. Ma che cosa è dunque infine una legge? Fino a che ci contenteremo di non congiungere a questa parola che idee metafisiche, continueremo a ragionare senza intenderci, e quando avremo pur detto che cosa sia una legge di natura, non sapremo meglio che cosa sia una legge dello Stato. Ho già detto che non poteva esserci affatto una volontà generale sopra un oggetto particolare. Infatti quest’oggetto particolare o è nello Stato o fuori

dello Stato. Se è fuori dello Stato, una volontà, che gli è straniera, non è af-

LIBRO

295

SECONDO

fatto generale rispetto a lui; e se questo oggetto è nello Stato, esso ne fa parte: allora, fra il tutto e la parte si forma una relazione che ne fa due enti separati, dei quali la parte è uno, e il tutto, meno questa stessa parte, è l'al. tro. Ma il tutto meno una parte non è più il tutto; e finché questo rapporto

ge possa essere ingiusta, poiché nessuno è ingiusto verso se stesso; né come si possa esser liberi e sottomessi alle leggi, poiché esse non sono che registrazioni delle nostre volontà. Si vede ancora che, dovendo la legge riunire l'universalità della volontà e quella dell'oggetto, ciò che un uomo,

due parti disuguali: dal che segue che la volontà dell'una non è affatto più generale di fronte all'altra. Ma quando tutto il popolo delibera su tutto il popolo, esso non considera

è una legge; ciò che ordini lo stesso sovrano su di un oggetto particolare, neppur questo è una legge, ma un decreto; non un atto di sovranità, ma di magistratura. Io chiamo dunque repubblica ogni stato retto da leggi, sotto qualsiasi forma d’amministrazione possa essere: perché allora solo l'interesse pubblico governa, e la cosa pubblica è una realtà. Ogni governo legittimo è repubblicano *; spiegherò più innanzi che cosa sia il governo. Le leggi non sono propriamente che le condizioni dell’associazione civile. Il popolo, sottomesso alle leggi, deve esserne lui l’autore; soltanto a quelli che si associano spetta regolare le condizioni della società. Ma come le regoleranno? Forse di comune accordo, per una subitanea ispirazione? Il corpo politico ha forse un organo per enunciare le sue volontà? Chi gli darà la previdenza necessaria per disciplinarne gli atti e promulgarli anticipatamente? Ovvero come pronuncerà tali volontà al momento del bisogno? Come una moltitudine cieca, che spesso non sa ciò che voglia, perché raramente sa ciò che sia bene per lei, attuerebbe mai da sé quell’impresa

sussista,

che

non

se stesso;

si

ha

più

e se una

un

tutto,

relazione

ma

allora

si costituisce, è dell'oggetto intiero, considerato sotto un certo aspetto, con l'oggetto intiero, considerato sotto un altro aspetto, senza alcuna divisione del tutto.

Allora l’oggetto su cui si delibera è generale, come la volontà deliberante. Quest’atto io chiamo una legge. Quando dico che l’oggetto delle leggi è sempre generale, intendo che la legge considera i sudditi come corpo e le azioni come

astratte, mai un uomo

come

in-

dividuo, né un’azione particolare. Così la legge può ben decretare che ci saranno certi privilegi, ma non può conferirne personalmente a nessuno; la legge può costituire

diverse

classi

di

cittadini,

e

assegnare anche le qualità che daran diritto a queste classi, ma non può nominare

il tale e il tal altro,

che

vi ab-

biano ad essere ammessi; essa può stabilire un governo reale e una successione ereditaria, ma non può eleggere un dato re, né nominare

una data fami-

glia reale; in una parola ogni funzione, che si riferisca a un oggetto individuale, non appartiene al potere legislativo. In base a questo concetto si vede subito che non bisogna più domandare a chi spetti far le leggi, poiché esse sono atti della volontà generale;

né se il prin-

cipe stia al disopra delle leggi, poiché egli è membro dello Stato; né se la leg* Con questa parola non intendo solo un'aristocrazia © una democrazia, ma in generale ogni governo guidato dalla volontà generale, che è la legge. Per essere legittimo, non occorre

quale

che

sia,

ordini

di

sua

testa,

non

così grande, così difficile, che è un siste-

ma di legislazione? Da sé il popolo vuole sempre il bene, ma non sempre lo vede da sé. La volontà generale è sempre retta, ma il giudizio che la guida non sempre è illuminato. Bisogna farle vedere gli oggetti come sono, e talvolta come le debbono apparire, mostrare il che il governo

si confonda

è repubblica. seguente.

Questo

ne sia il ministro:

allora

verrà

col sovrano,

la monarchia chiarito

ma

nel

che

stessa

libro

DEL

296 buon cammino che cerca, proteggerla dalla seduzione delle volontà particolari, ravvicinare ai suoi occhi i luoghi e i tempi, far contrappeso all’attrattiva dei vantaggi presenti e sensibili col pericolo dei mali lontani e nascosti. I singoli privati veggono il bene che respingono; il pubblico vuole il bene che non vede. Tutti ugualmente han bisogno di guida, Bisogna obbligare gli uni a conformare le loro volontà alla loro ragione; bisogna insegnare all’altro a conoscere ciò che vuole. Allora dall'illuminata coscienza pubblica risulta l’unione dell’intelletto e della volontà nel corpo sociale; da ciò l'esatto concorso delle parti, e infine la maggior.forza del tutto. Ecco da che nasce la necessità di un legislatore. Capitolo VII DEL

stesso

ragionamento,

che

Caligola

formulava riguardo al fatto, Platone lo formulava riguardo-al diritto, per definire l’uomo civile o regale, che egli cerca nel suo libro De/ Regno ®. Ma se è vero che un gran principe è un uomo raro, che sarà di un grande legislatore? Il primo non ha che da seguire il modello che l'altro deve proporre. Questi è il meccanico che inventa la macchina, quello non è che l'operaio che la monta e la fa muodo

* Un popolo non diventa celebre che quanla sua legislazione incomincia a declinare.

Si ignora per quanti secoli le istituzioni di Li-

CONTRATTO

nascimento

Montesquieu,

SOCIALE

delle società, dice

i capi

delle

fanno

l'istituzione,

e

na,

trasformare

ogni

repubbliche

successivamente

l'istituzione forma i capi delle repubbliche. . Colui che sa intraprendere l'istituzione di un popolo, deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura umadi

individuo,

per se stesso è un tutto perfetto tario, in parte di un tutto più dal quale quest’individuo riceva, to qual modo, la sua vita e il sere;

d’alterare

la

costituzione

che

€ soligrande, in cersuo es-

dell'uo-

mo per rafforzarla; di sostituire un'esistenza parziale e morale all'esistenza fisica e indipendente che abbiamo ricevuta

tutti

dalla

natura.

Bisogna,

in

una

parola, che egli tolga all'uomo forze che gli son proprie, per dargliene altre che gli siano estranee, delle quali non possa far uso senza il soccorso altrui, Più tali forze

LEGISLATORE

Per scoprire le migliori norme di società che convengano alle nazioni, ci vorrebbe un'intelligenza superiore, che vedesse tutte le passioni degli uomini e non ne sentisse alcuna; che non avesse alcun rappotto con la nostra natura, e pur la conoscesse a fondo; che per la sua felicità fosse indipendente da noi e tuttavia volesse bene occuparsi della nostra, infine che, preparandosi, nel progresso dei tempi, una gloria lontana, potesse lavorare in un secolo e godere in un altro *. Ci vorrebbero gli dei per dar leggi agli uomini. Lo

vere, Nel

naturali

sono

morte

e annientate,

più quelle acquisite sono grandi e durevoli, e più anche l'istituzione è solida e perfetta: di modo che, se ogni cittadino non è nulla, non può nulla se non per mezzo di tutti gli altri, e se la forza acquisita dal tutto sia uguale o superiore alla somma delle forze naturali di tutti gli individui, si può dire che la legislazione ha toccato il più alto grado di perfezione che possa raggiungere. Il legislatore è, sotto tutti i rispetti, un uomo straordinario nello Stato 2. Se tale deve essere pel suo genio, non è meno tale per il suo ufficio. Questo non è

magistratura,

non

è

sovranità.

Que-

«sto è ufficio, che costituisce la repubblica,

non

entra

nella

sua

costituzione:

è

una funzione particolare e superiore, che non ha niente di comune coll'impero sopra gli uomini; perché, se chi comanda agli uomini non deve comandare alle leggi, neppure chi comanda alle leggi deve comandare agli uomini; altri. menti le sue leggi, ministre delle sue passioni, non farebbero spesso che per. petuare le suc ingiustizie; mai egli pocurgo abbian formata la felicità degli Spartani: prima che Grecia,

si

parlasse

di

loro

nel

resto

della

LIBRO

297

SECONDO

trebbe evitare che intendimenti particolari alterassero la santità del suo lavoro. Quando Licurgo diede le leggi alla sua patria, egli cominciò dall’abdicare la sua dignità regale. Era costume della maggior parte delle città greche d'affidare a stranieri la istituzione legislativa dei loro cittadini. Le repubbliche italiane moderne imitarono spesso questo uso; quella di Ginevra fece altrettanto, e se ne trovò bene *. Roma, nella sua più bella età,

vide

rinascere

nel suo

seno

tutti

delitti della tirannia e si vide vicina a perire, per aver riunito sugli stessi capi l'autorità legislativa e.il potere sovrano.

i

Ciò nonostante, i decemviri stessi non

s'arrogarono mai il diritto di far passare alcuna legge per sola loro autorità. « Nulla di ciò che noi vi proponiamo, dicevano al popolo, può passare in legge senza il

vostro

consenso.

Romani,

siate

voi

stessi gli autori delle leggi che devono formare la vostra felicità ». Chi redige le leggi non ha dunque e non deve avere alcun diritto legislativo; e il popolo stesso non può, quand’anche lo volesse, spogliarsi di questo diritto incomunicabile, perché, secondo il patto fondamentale,

non

c’è

che

la

volontà

generale che obblighi i singoli, e non si può mai esser sicuri che una volontà particolare sia conforme alla volontà generale, se non dopo averla sottoposta al libero suffragio del popolo: questo io l’ho già detto; ma non è inutile ripeterlo. Così si trovano contemporaneamente nell’opera della legislazione due condizioni fra loro incompatibili; una impresa al

di

sopra

delle

forze

umane,

e,

per

eseguirla, un'autorità che è nulla. Altra difficoltà che merita attenzione. I saggi, che vogliono parlare al volgo

* Quelli che considerano Calvino solo come teologo, non conoscono la vastità del suo genio. La redazione dei nostri saggi editti, in cui egli ebbe molta parte, gli fa altrettanto onore quanto la sua istituzione. Qualsiasi rivoluzione il tempo possa portare nel nostro culto, finché l'amore della patria e della libertà non sarà spento fra noi, la memoria di questo grand'uomo non cesserà mai dall’esservi benedetta,

il loro linguaggio, invece del suo, non saprebbero esserne capiti. Ora vi sono mille specie d'idee, che è impossibile tradurre nella lingua del popolo. Le vedute troppo generali e gli oggetti troppo lontani sono ugualmente fuori della sua capacità: ogni individuo, non apprezzando altro piano di governo che quello che si riferisce al suo interesse particolare, difficilmente scorge i vantaggi che deve ritrarre dalle privazioni continue che le buone leggi impongono. Perché un popolo nascente potesse apprezzare le sane massime della politica, e seguire le regole fondamentali della ragion di Stato, bisognerebbe che l'effetto potesse diventar

causa;

che

lo spirito sociale, il

quale dev'essere l’opera dell’istituzione, presiedesse all'istituzione stessa, e che gli uomini fossero, prima delle leggi, ciò che devono diventare per mezzo di esse, Così dunque il legislatore, non potendo adoperare né la forza né il ragionamento, deve per necessità ricorrere a un’autorità di altro ordine, che possa trascinare senza bisogno di violenza e persuadere senza bisogno di convincere. Ecco quel che obbligò, in ogni tempo, i padri delle nazioni e a ricorrere al. l'intervento del cielo, e ad onorare gli dei della loro propria saggezza, affinché i popoli, sottomessi alle leggi dello Stato come a quelle della natura, e riconoscendo lo stesso potere nella formazione dell’uomo e in quella dello Stato, obbedissero con libertà e portassero docilmente il giogo della felicità pubblica. Questa

ragione

sublime,

che

si eleva

al di sopra delle capacità degli uomini volgari, è quella di cui il legislatore mette le decisioni nella bocca degli immortali, per trascinare con la forza dell’autorità divina quelli che la prudenza umana non basterebbe a scuotere **. Ma non

** « E veramente, dice Machiavelli, mai, non fu alcun ordinatore di leggi straordinarie in un popolo, che non ricorresse a Dio, perché altrimenti non sarebbero accettate: perché sono molti beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da potergli persuadere ad altrui ». Discorsi sopra Tito Livio, lib. I, cap. XL.

DEL

298

CONTRATTO

SOCIALE

tocca a ogni uomo di poter fare parlare gli dei, né di esser creduto, quando si annunzi come loro interprete. La grande anima del legislatore è il vero miracolo che deve dar la prova della sua missione. Ogni uomo può far incidere tavole di pietà, o comprare un oracolo, o fingere un segreto commercio con qual-

sua disciplina ad un vizi. Mille nazioni hanno ra, che non avrebbero portare buone leggi; e

a parlargli all'orecchio, o trovare altri mezzi grossolani di incuter rispetto al popolo. Colui che non saprà far che

tanto in gioventù; diventa incorreggibile invecchiando. Una volta che i costumi sian già stabiliti, e i pregiudizi abbian preso radice, è impresa pericolosa e vana volerli riformare; il popolo non può sopportare nemmeno che si tocchino i suoi mali per distruggerli, simile a quei malati stupidi e senza coraggio, che tremano solo a vedere il medico. Non che, a quel modo che certe malattie sconvolgono la testa degli uomini

che

divinità,

questo,

o ammaestrare

potrà

anche,

un branco di stupidi;

per

ma

un

uccello

caso,

riunire

non fonderà

mai un impero, e la sua stravagante ope-

ra perirà ben presto con lui. Vane illusioni formano un vincolo passeggero; non v'è che la saggezza, che possa renderlo durevole. La legge giudaica che sempre sussiste, e quella del figlio d’Ismaele, che da dieci secoli governa la metà del mondo, celebrano ancora oggi la grandezza degli uomini che le hanno dettate; e mentre l'orgogliosa filosofia o il cieco spirito di parte non vedono in essi

che

fortunati

impostori,

il vero

politico ammira nelle loro istituzioni quel grande e potente genio, che presiede alle istituzioni durevoli. Non bisogna da tutto ciò concludere con Warburton 2, che la politica e la religione abbiano fra noi un comune oggetto; ma che all'origine delle nazioni l'una serve di strumento all'altra. Capitolo VIII DEL

Come,

edificio,

prima

POPOLO

d’innalzare

l’architettò

osserva

un

e

grande

sonda

il

terreno, per vedere se possa sostenerne il peso, così il saggio istitutore non comincia dal redigere leggi buone per se stesse, ma esamina prima se il popolo, al quale le destina, sia adatto a sopportar:. le. Per ciò Platone rifiutò di dar leggi agli Arcadi e ai Cirenaici, sapendo che questi due popoli erano ricchi e non potevano tollerar l'uguaglianza; per ciò a Creta si videro buone leggi e cattivi uomini, perché Minosse aveva data la

avrebbero

potuto,

non

popolo

carico

di

brillato sulla termai potuto sopquelle stesse, che hanno

avuto,

in

tutta la foro durata, che un tempo assai breve per ciò. La maggior parte dei popoli,

come

degli

uomini,

è docile

sol-

e tolgono loro il ricordo del passato, non

compaiono talvolta, nella storia degli Stati, epoche violente, nelle quali le rivoluzioni fanno sui popoli l'effetto che certe crisi

fanno

sugli individui;

e l'or-

rore del passato tien luogo dell'oblio, e lo Stato, caduto in preda alle fiamme delle guerre civili, rinasce, per così dire, dalle sue ceneri, e riprende il vigore della giovinezza uscendo dalle braccia della morte. Tale fu Sparta, al tempo di Licurgo, tale fu Roma dopo i Tarquini, e tali sono state fra noi l'Olanda

e la Svizzera, dopo l'espulsione dei tiranni. Ma questi casi sono rari, sono eccezioni, la cui ragione si trova sempre nella costituzione particolare dello Stato, che esca dal comune. Esse non potrebbero neanche aver luogo due volte in uno stesso popolo; perché esso può rendersi libero

finché

sia

soltanto

barbaro,

ma

non lo può più, quando la molla della civiltà sia consumata. Allora i torbidi possono distinguerlo, senza che le rivoluzioni possano restaurarlo; e, appena le sue catene sono infrante, esso cade a pezzi e non esiste più; gli occorre ormai un padrone, non un liberatore. Popoli liberi, ricordatevi di questa massima: « La libertà si può conquistare, ma recuperare non si può mai ».

LIBRO

299

SECONDO

La giovinezza non è l'infanzia. Per le

nazioni, come per gli uomini, vi è un periodo di giovinezza, o, se si vuole, di

maturità, che bisogna aspettare, prima di sottometterle a leggi: ma la maturità di un popolo non è sempre facile a conoscere: e se la si previene, l’opera è fallita. Un dato popolo è disciplinabile sin dalla nascita, un altro neppur dopo dieci secoli. I Russi non saranno mai veramente inciviliti, perché son stati tali troppo presto. Pietro aveva il genio imitativo; ma non aveva il vero genio, quel-

lo che crea e fa tutto dal nulla. Alcune

delle

cose

che

fece

erano

baro,

ma

non

ha

veduto

buone,

ma

la

maggior parte erano fuor di luogo. Egli ha veduto che il suo popolo era barche

non

era

a

non

maturo per la civiltà; ha voluto civilizzarlo quando occorreva soltanto agguerrirlo. Egli ha voluto farne senz'altro dei Tedeschi, o ‘degli Inglesi, quando bisognava incominciare dal farne dei Russi: ha impedito così ai suoi sudditi di diventar mai ciò che potrebbero essere, persuadendoli che erano ciò che non sono. Così un precettore francese foggia il suo alunno a farsi ammirare un momento

nella

sua

infanzia,

e

esser più nulla dopo. L’impero di Russia vorrà soggiogare l'Europa, e sarà esso stesso soggiogato. I Tartari, suoi sud-

diti

o

suoi

vicini,

diventeranno

i suoi

padroni e i nostri: questa rivoluzione mi sembra immancabile. Tutti i re d'Europa lavorano d'accordo ad accelerarla.

SEGUITO

Come la natura ha dato limiti alla stadi

un

uomo

ben

sati i quali essa non o nani, così rispetto tuzione di uno Stato stensione ch'esso può sia né troppo grande governato, né troppo conservare da sé. In

conformato,

pas-

fa più che giganti alla migliore costivi son limiti all’eavere, affinché non per poter esser ben piccolo per potersi tutto il corpo po-

litico c'è un maximum

lenta;

e, in generale,

di forza, ch'esso

uno

Stato piccolo

è proporzionalmente più forte di uno grande , Mille ragioni dimostrano questa mas‘sima. In primo luogo l’amministrazione diventa più penosa a grandi distanze, come un peso diventa più grave all’estremità di una leva più lunga. Essa diventa anche più onerosa a misura che i gradi si moltiplicano; perché ogni città ha anzitutto la sua, che il popolo paga; ogni distretto ha la sua, pagata ancora dal popolo; di poi ogni provincia, e poi i grandi governi, e le satrapie, e i vicereami, che bisogna pagare sempre più cari a misura che si sale, e sempre a spese del disgraziato popolo; infine viene l’amministrazione suprema, che schiaccia tutto. Tutti sovraccarichi esauriscono continuamente i sudditi: lungi dall'essere meglio governati da tutti questi diversi ordini, lo sono assai meno che se ve ne fosse uno solo sopra di loro. Frattanto restano a stento mezzi per i casi straordinari; e quando bisogna ricorrervi, lo Stato è sempre alla vigilia della sua rovina. Né questo è tutto; non solo il governo ha minor vigore e rapidità per far osservare le leggi, impedire le vessazioni, correggere gli abusi, prevenire le imprese sediziose, che possono tentarsi nei luoghi lontani; ma il popolo ha meno affetto per i suoi capi, che non vede mai; per la patria, che ai suoi occhi è come il mondo;

Capitolo IX

tura

non saprebbe sorpassare, dal quale spesso si allontana a furia d’ingrandirsi. Più il vincolo sociale si estende, e più si al-

e per

i suoi

concittadini,

la

maggior parte dei quali gli è estranea. Le stesse leggi non possono convenire a tante province diverse, che hanno costumi differenti, che vivono sotto opposti climi, e che non possono sopportare la stessa forma di governo. Leggi diverse non genereranno che turbamento e confusione fra popoli che, vivendo sotto gli stessi capi e in continua comunicazione, passano o si maritano gli uni presso gli altri, e, sottomessi ad altri costumi, non sanno mai se il loro patrimonio sia proprio loro. I talenti sono sepolti, le virtù ignorate, i vizi impuniti in questa molti.

DEL CONTRATTO

300 tudine di uomini sconosciuti gli uni agli

altri, che la sede dell'amministrazione su-

prema riunisce in un medesimo luogo. I capi, oppressi dagli affari, non veggon nulla da sé; lo Stato è governato da commessi. Infine le misure che bisogna prendere per mantenere l'autorità generale, alla quale tanti ufficiali lontani vogliono sottrarsi o imporsi, assorbono tutte le cure pubbliche; non ne restan più per la felicità del popolo; a stento ne restano per la sua difesa, in caso di bisogno; e così un corpo, troppo grande rispetto alla sua costituzione, si sprofonda e perisce schiacciato sotto il suo proprio peso. D'altra parte lo Stato deve darsi una certa base per aver solidità, per resistere alle scosse che non mancherà di provare, e agli sforzi che sarà costretto a fare per sostenersi; ché tutti i popoli hanno una specie di forza centrifuga, per la quale operano di continuo gli uni contro gli altri, e tendono ad ingrandirsi a spese dei loro vicini, come i vortici di Cartesio. Così i deboli rischiano di essere presto inghiottiti; e nessuno può conservarsi,

se non

mettendosi

con gli altri

SOCIALE

Capitolo X SEGUITO

Si può misurare un corpo politico in due modi: cioè dall’estensione del territorio e dal numero della popolazione; e vi è, fra l’una e l’altra di queste misure, un rapporto conveniente per dare allo Stato la sua vera grandezza. Gli uomini

fanno

gli uomini: dunque che mento

dei

lo Stato,

e il terreno

nutre

il rapporto conveniente è la terra basti al sostenta-

suoi

abitanti,

e che

vi siano

tanti abitanti, quanti la terra possa nutrirne. In questa proporzione si trova il maximum di forza di un numero dato di popolazione: perché se vi è terreno di troppo, la difesa ne è onerosa, la coltura insufficiente, il prodotto superfluo: questa è la causa prossima delle guerre difensive;

se invece non ce n'è abbastan-

za, lo Stato si trova, per il complemen-

to,

alla

discrezione

dei

suoi

vicini:

e

questa è la causa prossima delle guerre offensive. Ogni popolo che non abbia,

per la sua posizione, che l'alternativa fra

il commercio e la guerra, è debole in se stesso; dipende dai suoi vicini, dipende

in una specie di equilibrio che renda la compressione quasi uguale dappertutto. Si vede da ciò che ci sono ragioni di estendersi e ragioni di restringersi; € non costituisce certo la minore fra le abilità dell'uomo politico il saper trovare, fra le une e le altre, la proporzione più vantaggiosa alla conservazione dello Stato. Si può dire in generale che le prime, non essendo che esteriori e rela-

stenza incerta e breve. O egli soggioga, e cambia di condizione; o è soggiogato, e non è più nulla. Non può conservarsi libero che a forza di piccolezza o di grandezza. Non si può dare in cifre che un rapporto fisso fra l'estensione di terra e il

sana

procamente, sia a cagione delle differenze che si trovano nelle qualità del terre-

tive, devono essere subordinate alle altre, che sono interne ed assolute, Una

e

forte

costituzione

è la

prima

cosa che bisogna ricercare; e si deve con-

tare più sul vigore che nasce da un buon governo, che sui mezzi che fornisce un gran territorio. Del resto si sono veduti Stati costitui ti in tal modo, che la necessità delle con-

quiste rientrava nella loro stessa costituzione, e che per mantenersi erano costretti ad ingrandirsi senza tregua. Forse essi si rallegravan molto di tale felice necessità, che per altro mostrava loro, col termine della loro grandezza, l'inevitabile momento della loro caduta.

dagli

avvenimenti;

numero no,

d'uomini,

nei suoi

gradi

non

che

ha

si

mai

un'esi-

bastino

di fertilità,

nella

recina-

tura delle sue produzioni, nell’influsso dei climi; sia a cagion di quelle che si osservano nei temperamenti degli uomini che le abitano, dei quali alcuni consuman poco in un paese fertile, altri molto su di un suolo ingrato. Bisogna anche aver riguardo alla più o meno grande fecondità delle donne; a ciò che il paese possa avere di più o meno favorevole alla popolazione; alla misura in cui il legislatore possa sperare di concorrervi con le sue istituzioni: di modo

LIBRO

301

SECONDO

che egli non deve fondare il suo giudizio su ciò che vede, ma su ciò che prevede; né fermarsi tanto allo stato attuale della popolazione, quanto a quello cui questa debba naturalmente pervenire.

Infine

vi sono

mille

occasioni,

in

cui gli accidenti particolari del luogo esigono o permettono che si abbracci più terreno di quanto sembri necessario. Co-

sì sarà il caso di estendersi molto in un paese di montagne, dove le produzioni naturali, cioè i boschi e i pascoli, esigono minor lavoro, dove l’esperienza insegna che le donne sono più feconde che in pianura, e dove un gran suolo inclinato non dà che una piccola base orizzontale,

la sola che si debba

contare

per la vegetazione. Al contrario, può restringersi in riva al mare, anche fra le rocce e le sabbie quasi sterili, perché ivi la pesca può supplire in gran parte alle produzioni della terra, perché gli uomini debbono essere più riuniti per respingere i pirati, e del resto, vi è più facilità di liberare il paese, per mezzo di colonie, dagli abitanti dei quali fosse sovraccarico. A queste condizioni per istituire un popolo, bisogna aggiungerne una, che non può supplire a nessun'altra, ma senza la quale queste sono tutte inutili; ed è che si goda l'abbondanza e la pace, perché il tempo in cui lo Stato si ordina è, come quello in cui si forma un battaglione, il momento in cui il corpo è meno capace di resistenza e più facile a distinguere. Si resisterebbe meglio in un disordine assoluto che in un periodo

di

fermento,

in

cui

ciascuno

si occupi

della sua posizione e non del pericolo. Se una guerra, una carestia, una sedizione sopraggiungano in questo tempo di

crisi, lo Stato è immancabilmente

rove-

sciato. Non che non vi siano molti governi istituiti proprio nel corso di questi ura-

* Se di due popoli vicini, uno non potesse fare a meno dell'altro, sarebbe una condizione molto dura per il primo e molto pericolosa per il secondo. Ogni nazione saggia, in un caso simile, si sforzerà ben presto di liberare l’altra da tale dipendenza. La repubblica di Thlascala, incastrata nell'impero del Messico, pre-

gani; ma allora sono questi stessi governi che distruggono lo Stato. Gli usurpatori suscitano o scelgon sempre tali tempi di torbidi per far passare, coll'aiuto del terrore pubblico, leggi distruttive, che il popolo non adotterebbe mai a sangue freddo. La scelta del momento dell'istituzione è uno dei caratteri più sicuri dai quali si possa distinguere l'opera del ‘legislatore da quella del tiranno. Che popolo è dunque adatto alla legislazione? Quello che, trovandosi già stretto da qualche vincolo d'origine, d’interesse o di convenzione,

cora portato il vero quello che non abbia stizioni ben radicate, ma di essere oppresso

non

abbia

an-

giogo delle leggi; costumi né superquello che non teda un'improvvisa

invasione; che, senza entrare nelle questioni dei suoi vicini, possa resistere da solo a ciascuno di essi, o aiutatsi con

l'uno per respingere l’altro; quello di cui ogni membro possa essere conosciuto da tutti, e dove

non si sia costretti a

caricare un uomo di un fardello maggiore di quello che un uomo possa portare; quello che possa fare a meno degli altri popoli e del quale ogni altro popolo possa far a meno *; quello che non sia né ricco né povero, e possa bastare a se stesso; infine quello che riunisca la saldezza di un antico popolo con la docilità di un popolo nuovo. Ciò che rende penosa l’opera della legislazione, non è tanto quel che bisogna istituire, quanto quel che bisogna distruggere; e ciò

che

rende

il successo

così

raro,

è l'im-

possibilità di trovare la semplicità della natura congiunta ai bisogni della società.

Tutte

queste

condizioni,

è vero,

si

trovano difficilmente riunite. Perciò si vedono pochi Stati ben costituiti. V'è ancora in Europa un paese capace -di legislazione; è l'isola di Corsica. Il valore e la costanza con cui questo poferì fare a meno del sale, che comprarlo dai Messicani, o anche accettarne gratuitamente. I saggi Thlascalani videro il tranello nascosto sotto questa liberalità, Essi si conservarono liberi: e questo piccolo Stato, chiuso in quel grande impero, fu infine lo strumento della sua rovina.

DEL

302 polo valoroso ha saputo ricuperare e difendere la sua libertà, meriterebbero proprio che qualche uomo saggio gli insegnasse a conservarla. Ho il presentimento che un giorno questa piccola isola meraviglierà l'Europa. Capitolo XI DEI

DIVERSI

SISTEMI

DI

LEGISLAZIONE

Se si ricerchi in che consista precisamente il più gran bene di tutti, che deve essere l'intento di ogni sistema di legislazione,

si troverà

che

si riduce

a que-

sti due oggetti principali: la libertà e l'uguaglianza: la libertà, perché ogni dipendenza particolare è altrettanta forza tolta

all'organismo

dello

Stato;

l’ugua-

glianza, perché la libertà non può sussistere senza dì essa. Ho già detto che cosa sia la libertà civile; riguardo all’uguaglianza, non bisogna intendere con questa parola che i gradi di potenza e di ricchezza abbiano ad

essere

che, quanto sotto

assolutamente

di ogni

identici;

ma

alla potenza, essa sia al di violenza,

e non

si eserciti

mai se non in virtù del-grado e delle leggi; e quanto alla ricchezza, che nessun cittadino

sia tanto opulento,

da po-

terne comprare un altro, e nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi 5: ciò che suppone da parte dei gran-

di,

moderazione

di

avere

e di

credito,

e da parte dei piccoli, moderazione avidità e di cupidigia *.

di

Questa uguaglianza, dicono, è una chi-

mera speculativa, che non può esistere in pratica, Ma se l’abuso è inevitabile, ne segue forse che non si debba almeno regolarlo? Precisamente perché la forza * Se volete

ravvicinate

dunque

i grandi

dare

estremi

solidità

per

allo Stato,

quanto

sia

possibile; non tollerate né gente opulenta né pezzenti, Questi due stati, naturalmente inseparabili, sono ugualmente funesti al bene comune; dall'uno escono i fautori della tirannia, dall'altro i tiranni; fra essi sempre si fa traffico della libertà pubblica; uno la compra, l'al-

CONTRATTO

SOCIALE

delle cose tende sempre a distruggere l'uguaglianza, la forza della legislazione deve sempre tendere a mantenerla. Ma questi oggetti generali di ogni buona istituzione debbono essere modificati in ogni paese dai rapporti che nascono tanto dalla condizione locale, quanto dal carattere degli abitanti: e sulla base di questi rapporti bisogna assegnare a ciascun popolo un sistema particolare’ d’istituzione, che sia il migliore, non forse in se stesso, ma per lo Stato al quale sia destinato. Se, per esempio, il suolo è ingrato e sterile, o il paese troppo stretto per gli abitanti, volgetevi dalla parte dell'industria e delle arti, di cui voi scambierete i prodotti

con le derrate che vi mancano. Se, al contrario, occupate ricche pianure e colline fertili, o in buon terreno siete scarsi di abitanti, date tutte le vostre cure al-

l'agricoltura, che moltiplica gli uomini, e

scacciate

le

arti,

che

non

farebbero

che terminar di spopolare il paese, radunando su qualche punto del territorio i pochi abitanti che ha **. Se occupate riviere estese e comode, e coprite il mare di navi, e coltivate il commercio e la

navigazione, avrete un'esistenza brillante e breve. Se il mare non bagna sulle vostre coste che rocce quasi inaccessibili, €e restate barbari e ittiofagi, vivrete perciò più tranquilli, migliori forse, e certamente più felici. In una parola, oltre le regole comuni a tutti, ogni popolo racchiude in sé qualche causa, che le ordina in una maniera particolare e rende la sua legislazione adatta a lui solo. Così è che in altri tempi gli Ebrei, e recentemente gli Arabi, hanno avuto la religione per oggetto principale; gli Ateniesi le lettere; Cartagine e Tiro il commercio; Rodi la marina; Sparta la guertro la vende.

** Qualche ramo del commercio estero, dice il signor d’Argenson, non diffonde altro che una falsa utilità per un regno in generale; es-

sa può

arricchire qualche

privato,

fosse anche

qualche città; ma la nazione intera non vi guadagna nulla, e il popolo non sta affatto meglio per ciò.

LIBRO

303

SECONDO

ra; e Roma la virtù. L'autore dello Spirito delle leggi ha mostrato con moltissimi esempi con che arte il legislatore diriga l’istituzione verso ciascuno di questi oggetti. Ciò che rende la costituzione di uno Stato veramente solida e durevole, è che le regole siano talmente osservate, che i rapporti naturali e le leggi cadano sempre d'accordo sui medesimi punti, che queste non facciano, per così dire, che

ne di cambiare le migliori; ché, male da sé, chi glielo? La seconda membri

le sue leggi, fossero pur se gli piaccia di farsi del ha il diritto d'impedirrelazione

è

quella

fra loro, o con il corpo

dei

intero;

le leg-

e questo rapporto deve essere, per quanto sia possibile, piccolo sotto il primo rispetto, grande sotto il secondo; in modo che ogni cittadino resti in perfetta indipendenza da tutti gli altri, e in dipendenza estrema dalla città: il che si ottiene sempre con gli stessi mezzi: poiché non c’è che la forza dello Stato che faccia la libertà dei suoi membri. Da questo secondo rapporto nascono le leggi civili. Si può considerare una terza specie di relazione fra l'uomo e la legge, cioè quel.

zione alterarsi; e lo Stato non cesserà di

questa dà luogo all'istituzione delle leg-

assicurare,

accompagnare,

rettificare

le

delle cose; l'altra alla

se l'uno tenda alla servitù e libertà; l'uno alle ricchezze,

altre. Ma se il legislatore, ingannandosi sul suo oggetto, assuma un principio diverso da quello che nasce dalla natura l’altra al popolamento;

l'uno alla pace,

l'altra alle conquiste, si vedranno

gi indebolirsi poco a poco e la costituessere agitato fino a che non sia distrutto o mutato, e l'invincibile natura abbia

ripreso il suo dominio.

Capitolo XII DIVISIONE

Per dar ordine

DELLE

di essere

LEGGI

a tutto, o dare la mi-

buono?

della

disobbedienza

con

la

pena;

e

gi criminali, che, in fondo, non sono tan-

to una specie particolare to la sanzione di tutte le A queste tre specie di giunge una quarta, la più

di leggi, quanaltre, leggi se ne agimportante di

tutte, che non s’incide né sul marmo né sul bronzo, ma nel cuore dei cittadini:

glior forma possibile alla cosa pubblica, vi sono diverse relazioni da considerare. In primo luogo l’azione del corpo intero che operi su se stesso, cioè il rapporto del tutto col tutto o del sovrano con lo Stato; e questo rapporto è composto da quello tra i termini intermedi, come vedremo più oltre. Le leggi che regolano questo rappotto portano il nome di leggi politiche e si chiamano anche leggi fondamentali, non senza qualche ragione, se queste leggi sono sagge; ché, se non c’è in ogni Stato altro che una maniera buona a dargli ordine, il popolo che l'abbia trovata deve attenervisi: ma se l’ordine stabilito è cattivo, perché si dovrebbero prendere per fondamentali le leggi, che gli impediscano

la

D'altra

parte,

in ogni caso un popolo è sempre padro-

che forma la vera costituzione dello Stato; che prende ogni giorno novella forza; che, quando le altre leggi invecchiano o si spengono, le rianima o le suppli. sce, conserva un popolo nello spirito della sua istituzione, e sostituisce Insensibil-

mente

la forza

dell'autorità.

dell'abitudine

Parlo

dei

a quella

costumi,

delle

usanze, e soprattutto delle opinioni; parte conosciuta ai nostri politici, ma dalla quale dipende il successo di tutte le altre; parte di cui il grande legislatore si occupa in segreto, mentre sembra limitarsi a regolamenti particolari, che non

sono che il sesto della volta, di cui i costumi, più lenti a nascere, formano in-

fine la Fra litiche, verno, mento.

chiave incrollabile. queste diverse classi, le leggi poche costituiscono la forma di gosono le sole relative al mio argoFINE

DEL

LIBRO

SECONDO

304

DEL LIBRO

TERZO

Prima di parlare delle diverse forme di governo, cerchiamo di fissare il senso preciso di questa parola, che non è stata ancora troppo ben spiegata. Capitolo I DEL

GOVERNO

IN

volontà

che

GENERALE

determina

l’atto;

l’altra

fisica, cioè la forza che l'esegue. Quando io cammino verso un oggetto, bisogna in primo luogo che ci voglia andare; in secondo luogo che i miei piedi mi ci portino. Se un paralitico voglia correre, se un uomo agile non voglia, tutt'e due resteranno fermi. Il corpo politico ha gli stessi motori: vi si distinguono del pari la forza e la volontà; questa sotto il nome di potere legislativo, quella sotto il nome di potere esecutivo. Nulla vi si fa o vi si deve fare senza il loro concorso. Noi abbiamo veduto che il potere legislativo appartiene al popolo, e non può appartenere che a lui. È facile vedere, al contrario, dai principi stabiliti qui innanzi ?, che il potere esecutivo non può appartenere alla generalità in quanto legislatrice o sovrana, perché questo potere non consiste che in atti particolari, che non sono di competenza della legge, né, per conseguenza, del sovrano, del quale tutti gli atti non possono essere che leggi. Occorre dunque alla forza pubblica un agente proprio, che la riunisca e la metta in opera seconda le direzioni della volontà generale, che serva alla comunicazione

dello

Stato

e del

sovrano,

che faccia, in certo qual modo, nella perdi

SOCIALE

spondenza, incaricato dell'esecuzione del.

Avverto il lettore che questo capitolo deve esser letto posatamente, e che io non so l’arte di essere chiaro per chi non voglia essere attento. Ogni azione libera ha due cause, che concorrono a produrla: una morale, cioè la

CONTRATTO

sona pubblica ciò che nell'uomo fa l'unione dell’anima e del corpo. Ecco qual è, nello Stato, la ragion d'essere del gogoverno, confuso a torto col sovrano, di cui non è che il ministro. Che cosa è dunque il governo? Un corpo intermediario istituito fra i sudditi e il sovrano per la loro reciproca corri-

* Così a Venezia si dà al Collegio il nome Serenissimo principè, anche quando il doge

le leggi, e della conservazione della libertà, sia civile sia politica. I membri di questo corpo si chiamano magistrati o re, tioè governatori; e il corpo intero porta il nome di principe *. Così, chi pretende che l'atto, pel quale un popolo si sottomette ai capi, non sia un contratto, ha molta ragione 2?. Non è assolutamente altro che un mandato, un ufficio, nel quale, come semplici ufficiali del sovrano, essi esercitano in suo

nome il potere del quale egli li ha fatti

depositari,

che

può

limitare,

zione d'un

tal diritto, essendo

modificare

e riprendere quando gli piaccia. L'alienaincompa-

tibile con la natura del corpo sociale, è contraria al fine dell'associazione. Chiamo dunque governo o amministrazione suprema l'esercizio legittimo del potere esecutivo, e principe o magistrato

l'uomo o il corpo incaricato di questa amministrazione. Nel governo si trovano le forze mediatrici, i cui rapporti valgono a comporre

quello del tutto col tutto, o del sovrano

con lo Stato. Si può rappresentare quest’ultimo rapporto con quello degli estremi di una proporzione continua, di cui il governo sia il medio proporzionale. Il governo riceve dal sovrano gli ordini ch'esso dà al popolo;

e, perché

lo Stato

sia in buon equilibrio, bisogna, tutto commisurato, che vi sia uguaglianza fra il prodotto o il potere del governo preso per se stesso, e il prodotto o il potere dei cittadini sovrani da una parte e sudditi dall'altra 2. Inoltre non si potrebbe alterare alcuno dei tre termini, senza rompere immediatamente la proporzione. Se il sovrano voglia governare, o il magistrato voglia non

vi

assista.

LIBRO

305

TERZO

dar leggi, o i sudditi rifiutino di obbedire, il disordine succede alla regola, la forza e la volontà non operan più d’ac-

si richiamino alla volontà generale, cioè i costumi alle leggi, tanto più la forza repressiva deve aumentare. Dunque il go-

così nel dispotismo o nell’anarchia. In-

lativamente più forte, a misura che il popolo sia più numeroso. D'altra parte, offrendo l'ingrandimento dello Stato ai depositari dell’autorità pubblica più tentazioni e più.mezzi di abusare del loro potere, quanto più forza debba aver il governo per contenere il popolo, tanto più il sovrano deve averne a sua volta per contenere il governo. Non parlo qui di una forza assoluta, ma della forza relativa delle diverse parti dello Stato. Da questo doppio rapporto consegue che la proporzione continua fra il governo, il principe e il popolo, non sia un'idea arbitraria, ma una conseguenza necessaria della natura del corpo politico. Ne consegue ancora che, essendo uno degli estremi, cioè il popolo, come suddito, fisso e rappresentato dall'unità, ogni volta che aumenti o diminuisca la ragione duplicata, la ragione semplice

cordo,

e

lo Stato

in

dissoluzione

cade

fine, come non c'è che un sol medio pro-

porzionale entro ogni rapporto, così non c'è altro che un solo buon governo pos-

sibile in uno Stato; ma siccome mille av-

venimenti possono cambiare i rapporti di un popolo, non solo diversi governi possono esser buoni per diversi popoli, ma anche per uno stesso popolo in tempi diversi. Per cercar di dare un’idea dei diversi rapporti che possono regnare fra questi due estremi, prenderò ad esempio il numero dei componenti il popolo, come rapporto più facile ad esprimersi. Supponiamo che lo Stato sia composto di diecimila cittadini. Il sovrano non può esser considerato che collettivamente e come un corpo; ma ogni singolo, in qualità di suddito, è considerato come individuo: pertanto il sovrano sta al suddito come diecimila sta a uno; vale a dire ogni membro dello Stato non ha di parte sua che la decimillesima parte dell'autorità sovrana, benché gli sia sottomesso tutto intiero. Se il popolo sia composto di centomila uomini,

la condizione

dei sudditi non

mu-

ta, e ciascuno porta su di sé ugualmente tutto l'impero delle leggi, mentre il suo voto, ridotto a un centomillesimo, ha

un'influenza dieci volte minote nella redazione delle leggi stesse. Allora, restando il suddito sempre uno, il rapporto col sovrano aumenta in ragione del numero dei cittadini. Dal che segue che più lo Stato s'ingrandisce, più la libertà diminuisce. Quanto dico che il rapporto aumenta, intendo dire che si allontana dall’uguaglianza. Così, quanto maggiore è il valore del rapporto nell'accezione matematica, tanto minore è nel significato comune; nella prima il rapporto, considerato secondo la quantità, si misura dall'esponente; nell’altro, considerato secondo l’identità (qualitativa), si valuta per comparazione.

Ora, quanto meno le volontà private

verno,

aumenti

per esser

buono,

o diminuisca

deve

essere

ugualmente 79;

re-

e,

per conseguenza, il termine medio sia mutato. Ciò dimostra che non v'è una costituzione di governo unica e assoluta, ma che vi possono essere tanti governi differenti per natura quanti Stati differenti per grandezza. Se, volgendo in ridicolo questo sistema, si dicesse che, per trovare questo medio proporzionale e formare il corpo del governo, non occorra altro, secondo me, che estrarre la radice quadrata del numero del popolo, risponderei che io non prendo qui questo numero se non come esempio; che i rapporti, dei quali io parlo, non si misurano solo dal numero degli uomini, ma in generale dalla quantità di azione, la quale si combina con

motlitudini

di cause;

che

del

resto

se, per esprimermi con meno parole, io prendo a prestito, per un momento, termini geometrici, non ignoro tuttavia che la precisione geometrica non ha luogo nelle quantità morali. Il governo è, in piccolo, ciò che il corpo politico che lo racchiude è in gran-

de, È una persona

morale, dotata di

DEL

306 certe facoltà, attiva come il sovrano, pas-

siva come lo Stato, che si può scomporre in altri rapporti simili, onde nasce per conseguenza una nuova proporzione; e un'altra ancora nasce dentro que-

sta,

secondo

l'ordine

ché si artiva a un visibile, cioè a un strato supremo, che tarci, nel mezzo di come l’unità fra la e quella dei numeri. Senza impacciarci

dei

tribunali,

fin-

termine medio indisolo capo o magipossiamo rappresenquesta progressione, serie delle frazioni in questa moltipli-

cazione di termini, contentiamoci di con-

siderare il governo come un nuovo corpo nello Stato, distinto dal popolo e dal sovrano,

e mediatore

fra l'uno e l'altro.

Fra questi due corpi c’è questa differenza essenziale: che lo Stato esiste per se stesso e il governo non esiste che per via del sovrano. Così la volontà dominante del principe non è, e non deve essere, che la volontà generale o la legge: la sua forza non è che la forza pubblica concentrata in lui: non appena egli voglia ricavar da se stesso qualche atto assoluto e indipendente, il collegamento del tutto comincia a rilasciarsi. Se avvenisse infine che il principe avesse una volontà individuale più attiva di quella

del

sovrano,

ed

usasse,

per

obbedire

a

questa volontà individuale, della forza pubblica che è nelle sue mani, in modo

ne

ai suòi

membri,

una

forza,

una

vo-

titoli,

pri-

lontà propria, che tenda alla sua consetvazione. Questa esistenza particolare suppone assemblee, consigli, potere di deliberare,

di

risolvere,

diritti,

vilegi, che appartengono esclusivamente al principe, e rendono la condizione del magistrato tanto più onorevole, quanto

SOCIALE

nel modo di ordinare, entro il tutto, que-

sto tutto subalterno in modo che non alteri la costituzione generale rafforzando la propria, che tenga distinta sempre la sua forza particolare, destinata alla propria conservazione, dalla forza pubblica, destinata alla conservazione dello Stato, che, in una parola, sia sempre

pronto a sacrificare il governo al popolo, e non il popolo al governo. D'altra parte, per quanto il corpo artificiale del governo sia l'opera di un al-

tro corpo artificiale, e non abbia, in certo qual modo, che una vita d'accatto e

subordinata, ciò non impedisce che possa operare con maggiore o minor vigore o celerità, e godere, per così dire, di una

salute più o meno

robusta.

Infine, senza

allontanarsi direttamente dal fine della sua istituzione, può scostarsene più o meno, secondo il modo

in cui sia costituito.

Da tutte queste differenze nascono i rapporti diversi che il governo deve avere col corpo dello Stato, secondo i rapporti accidentali o partciolari, dai quali questo stesso Stato è modificato. Perché spesso il governo migliore per se stesso diverrà il più vizioso, se i suoi rapporti non siano alterati a seconda dei difetti del corpo politico al quale appartiene. Capitolo II

che si avessero, per così dire, due sovrani, uno di diritto e l’altro di fatto,

immediatamente l'unione sociale svanirebbe, e il corpo politico sarebbe in dissolvimento *. Ciò non pertanto, perché il corpo del governo abbia un'esistenza, una vita rea le che lo distingua dal corpo dello Stato; perché tutti i suoi membri possano operare armonicamente e rispondere al fine per il quale esso è istituito, gli occorre un io particolare, una sensibilità comu-

CONTRATTO

più sia difficile. Le difficoltà consistono

DEL LE

PRINCIPIO CHE COSTITUISCE DIVERSE FORME DI GOVERNO

Per esporre la causa generale di queste differenze, bisogna distinguere qui il principe e il governo, come ho già distinto innanzi lo Stato e il sovrano. Il corpo dei magistrati! può essere composto di un numero più o meno grande di membri. Abbiamo detto che il rapporto fra il sovrano e i sudditi era tanto più grande, quanto più il popolo eta numeroso; e, per un’analogia evidente, possiamo dire altrettanto del governo rispetto ai magistrati. Ora la forza totale del governo, essendo sempre quella dello Stato, non varia punto; dal che deriva che, quanto più debba usare di

LIBRO

307

TERZO

questa forza verso i propri membri, tanto meno gliene resta per operare su tutto il popolo. Dunque, più i magistrati sian numerosi, più il governo è debole. Siccome questo principio è fondamentale, occupiamoci a spiegarlo meglio. Noi possiamo distinguere, nella persona del magistrato, tre volontà essenzialmente diverse: in primo luogo la volontà propria dell'individuo, che non tende se non al suo vantaggio particolare;

in secondo,

la volontà comune

dei

magistrati, che si riferisce unicamente al vantaggio del principe, e si può chiamare volontà del corpo: questa è generale rispetto al governo, e particolare rispetto allo Stato, di cui il governo fa parte; in terzo luogo la volontà del popolo o volontà sovrana, che è generale, sia rispetto allo Stato considerato come il tutto, sia rispetto al governo considerato come parte del tutto. In una legislazione perfetta, la volontà particolare o individuale deve esser nulla; la volontà di corpo propria del governo

molto

subordinata,

e, per

con-

seguenza, la volontà generale sovrana sempre dominante e regola unica di tutte le altre. Al contrario,

secondo

l'ordine natura-

le, queste diverse volontà divengono più attive, a misura che si concentrino. Così

la volontà generale è sempre la più debole,

la volontà

di corpo

ha il secondo

posto, e la volontà particolare il primo di tutti;

in modo

che, nel governo,

cia-

scun membro è in primo luogo se stesso, e poi magistrato, e poi cittadino; gradazione direttamente opposta a quella che l'ordine sociale esige. Posto ciò, se il governo sia tutto in mano d'una sola persona, ecco che la volontà particolare e la volontà di corpo sono perfettamente riunite, e, per conseguenza, quest’ultima è al più alto grado d’intensità che possa avere. Ora, siccome dal grado della volontà dipende l'uso della forza, e la forza assoluta del governo non varia affatto, ne segue che il più attivo dei governi sia quello di un solo individuo. AI contrario, uniamo il governo all’au-

torità legislativa; facciamo del sovrano il principe e di tutti i cittadini altrettanti magistrati: allora la volontà di

corpo,

confusa

con

la volontà

generale,

non avrà più attività di essa e lascerà la volontà particolare con tutta la sua forza. Così il governo, sempre con la stessa forza assoluta, sarà nel suo wzizzimzuri di

forza relativa o di attività. Questi rapporti sono incontestabili, e altre considerazioni valgono a confermarli ancora. Si vede, per esempio, che ogni magistrato è più attivo nel suo corpo che ogni cittadino nel suo, e che per conseguenza la volontà particolare ha molto più influenza negli atti del governo che in quelli del sovrano; ché ogni magistrato è quasi sempre incaricato di qualche funzione dal governo, mentre ogni cittadino, preso per sé, non ha alcuna funzione della sovranità. D'altra parte, più lo Stato si estende, più la sua forza reale aumenta, benché non aumenti in ragione della sua estensione; ma, restando lo stesso lo Stato, i magi-

strati hanno un bel moltiplicarsi, il governo non ne acquista affatto maggior forza reale, perché questa forza è quella dello Stato, la cui misura è sempre uguale. Così la forza relativa o l’attività del governo diminuisce, senza che la sua torza assoluta o reale possa aumentare. È anche certo che il disbrigo degli affari diventa più lento, a misura che più persone

ne siano

incaricate;

che, conce-

dendo troppo alla prudenza, non si concede abbastanza alla fortuna; che si lascia fuggire l’occasione, e, a forza di deliberare, si perde spesso il frutto della deliberazione. Ho dimostrato poco fa che il governo si rilascia a misura che i magistrati si moltiplichino; e ho provato qui innanzi che più il popolo sia numeroso, più la forza repressiva deve aumentare. Dal che segue che il rapporto dei magistrati al governo dev'essere inverso al rapporto dei sudditi

al sovrano;

cioè, più lo: Sta-

to s'ingrandisce, più il governo deve restringersi; di modo che il numero dei capi diminuisca in ragione dell'aumento del popolo *. Del resto, io non parlo qui che della

308

DEL

forza relativa del governo, e non della sua rettitudine: perché al contrario, più il magistrato è numeroso, più la volontà del corpo si avvicina alla volontà generale; là dove, sotto un magistrato unico,

questa stessa volontà di corpo non è, come ho già detto, che una volontà particolare. Così si perde da una parte ciò che si può guadagnare dall’altra, e l’arte del legislatore sta nel saper fissare il punto in cui la forza e la volontà del governo, sempre in mutua proporzione, si combinino nel rapporto più vantaggioso per lo Stato.

DIVISIONE Si è veduto,

le

mani

di

un

piccolo

imperatori

in una

volta, senza

che

si potesse dire che l'impero fosse diviso. Così vi è un punto, in cui ogni forma di governo si confonde con la successiva; e si vede che, sotto tre sole denominazio-

ni, il governo è realmente suscettibile di tante forme diverse, quanti cittadini ha lo Stato. V'è di più: questo stesso governo, po-

tendo,

sotto

certi

rispetti,

dividersi

in

altre parti, una amministrata in un moe l’altra

tità

precedente,

perché si distinguano le diverse specie o forme di governi dal numero dei membri che li compongono: resta da vedere, in questo, come si faccia questa divisione. Il sovrano può, in primo luogo, affidare il deposito del governo a tutto il popolo o alla maggior parte del popolo, in modo che vi siano più cittadini magistrati che cittadini semplici privati. Si dì a questa forma di governo il nome di democrazia. Oppure può restringere il governo fra

SOCIALE

in un

altro,

può

risultare,

da queste tre forme combinate, una quan-

DEI GOVERNI nel capitolo

otto

do

Capitolo III

CONTRATTO

so governo regio è suscettibile di una qualche divisione. Sparta ebbe costantemente due re per la sua costituzione; e si son visti nell'impero romano sino a

numero,

in

modo che vi siano più semplici cittadini che magistrati; e questa forma porta il nome di aristocrazia. Infine può concentrare tutto il governo nelle mani di un unico magistrato, dal quale tutti gli altri ricevano il loro potere. Questa terza forma è la più comune, e si chiama monarchia 0 governo regio. Si deve osservare che tutte queste forme, o almeno le due prime, sono suscettibili del più o del meno; e hanno anche una latitudine abbastanza grande; ché la democrazia può abbracciar tutto il popolo, o restringersi fino alla metà. L'aristocrazia, a sua volta, può, dalla metà del popolo, restringersi fino al più piccolo numero indefinitamente. Lo stes-

di

forme

miste,

di

cui

ciascuna

è

moltiplicabile per tutte le forme semplici. In ogni tempo si è disputato molto sulla miglior forma di governo, senza considerare che ciascuna di esse è la migliore in certi casi, e la peggiore in altri. Se,

nei

diversi

Stati,

il numero

dei

magistrati supremi dev’essere in ragione inversa di quello dei cittadini, ne segue che in generale il governo democratico conviene ai piccoli Stati, l'aristocratico ai medi, e il monarchico ai grandi. Questa regola risulta direttamente dal principio. Ma come tener conto dell'infinità di circostanze che possono dar luogo ad eccezioni? Capitolo IV DELLA

DEMOCRAZIA

Chi fa la legge sa meglio d'ogni ‘altro come debba essere eseguita e interpretata. Sembrerebbe dunque che non si potesse avere una migliore costituzione che quella in cui il potere esecutivo fosse congiunto al legislativo: ma questo proprio rende tale governo insufficiente sotto certi rispetti, perché le cose che devono

essere distinte non lo sono, e il

principe e il sovrano, essendo la stessa persona, non formano, per così dire, che

un governo senza governo.

LIBRO

TERZO

309

Non è bene che chi fa le leggi le esegua, né che il corpo del popolo distolga la sua attenzione dalle vedute generali per volgerla agli oggetti particolari. Nulla è più pericoloso che l’influenza degli interessi privati negli affari pubblici, e l'abuso delle leggi da parte del governo è un male minore che la corruzione del legislatore, conseguenza infallibile delle vedute particolari. Allo-

cessarie;

sostanza, ogni riforma diventa impossibile. Un popolo, che non abusasse mai

zioni necessarie, questo bell’ingegno ha spesso mancato di giustezza, qualche

ra,

del

essendo

lo

Stato

governo,

alterato

non

abuserebbe

bene,

non

nella

alle

uno

Stato

molto

sua

volta

terzo,

una

grande

palatino

di

Posnania,

meno,

re

vanità;

toglie

allo

non

avendo

di chiarezza,

l’autorità

fatte

e non

sovrana

ha

le distin-

visto

ovunque

che,

la

è vero,

a seconda

più o

della forma

di

governo. Aggiungiamo che non vi è forma di governo, così soggetta alle guerre civili e alle agitazioni intestine, come quello democratico o popolare, perché non ve n'è alcuno, che tenda così continuamente a cambiare

fortemente e di forma, né

che domandi maggior vigilanza o coraggio per essere mantenuto nella forma sua. In questa costituzione sopra tutte il cittadino si deve armare di forza e di costanza, e dire ogni giorno della sua

vita,

in fondo

al suo

cuore,

ciò

che diceva un virtuoso palatino* alla dieta di Polonia: Melo periculosam libertatem, quam quietum servitium*. Se vi fosse un popolo di dei, esso si governerebbe democraticamente. Un governo così perfetto non conviene ad uomini.

dove

del

alla

go in ogni Stato ben costituito;

Capitolo V DELL’ARISTOCRAZIA

Noi abbiamo qui due persone morali ben distinte, cioè il governo e il so-

uguaglianza

padre

col possesso,

stessa, lo stesso principio deve aver luo-

nei gradi e nelle fortune, senza di che l'uguaglianza non potrebbe sussistere a lungo nei diritti e nell’autorità; infine, poco o punto lusso; perché, o il lusso è effetto delle ricchezze, o le rende ne* Il

ma,

essendo

il popolo sia facile a radunarsi, ed ogni cittadino possa agevolmente conoscer tutti gli altri; secondo, una grande semplicità di costumi, che prevenga il mol. tiplicarsi degli affari e le discussioni spinose;

mollezze,

virtù:

più bi-

piccolo,

l'uno

tempo

Stato tutti i cittadini, per asservirli gli uni agli altri, e tutti quanti all’opinione. Ecco perché un autore celebre 5 ha dato la virtù come fondamento alla repubblica, perché tutte queste condizioni non potrebbero sussistere senza la

sogno di essere governato. A prendere la parola a rigore, una vera democrazia non è mai esistita né esisterà mai. È contro l'ordine naturale che la maggioranza governi e la minoranza sia governata. Non si può immaginare che il popolo resti continuamente adunato per occuparsi degli affari pubblici, e si vede facilmente che esso non potrebbe istituire commissioni a quest'uopo, senza che la forma dell'amministrazione cambiasse #. Infatti io credo di poter porre come principio che, quando le funzioni del governo sian divise fra parecchi tribunali, i meno numerosi acquistino, prima o poi, la maggiore autorità, non foss'altro a cagione della facilità di sbrigare gli affari, a cui sono condotti naturalmente. D'altra parte, quante cose difficili a riunire non suppone un tale governo! Primo,

stesso

l’altro con la cupidigia; vende la patria

neanche

avrebbe

nello

il ricco e il povero,

dell'indipendenza; un popolo, che gover-

nasse sempre

corrompe

vrano; e, per conseguenza, due volontà generali, una rispetto a tutti i cittadini,

l’altra solo rispetto ai membri ministrazione. di

Polonia,

duca

Così,

di

benché

Lorena.

dell’am-

il governo

DEL

310 possa regolare il suo reggimento interno come gli pare, non può mai parlare al popolo che in nome del sovrano, cioè in nome del popolo stesso; ciò che non bisogna mai dimenticare. Le prime società si governarono aristocraticamente. I capi di famiglia deliberavano fra loro sugli affari pubblici. I giovani cedevano senza fatica all'autorità dell'esperienza. Da ciò i nomi di preti, anziani, senato, geronti. I selvaggi dell'America settentrionale si governano così ai nostri tempi, e son governati molto bene. Ma, a misura che la disuguaglianza d'istituzione la vinse sulla disuguaglianza naturale, la ricchezza o il potere* furono preferiti all'età, e l’aristocrazia divenne elettiva. Infine il potere, trasmesso coi beni dal padre ai figli, nel rendere patrizie le famiglie, rese il governo

ereditario,

crazia:

naturale,

di venti anni. Vi son dunque

e

si

videro

tre specie

senatori

di aristo-

CONTRATTO

SOCIALE

meglio all'estero da venerabili senatori che da una moltitudine sconosciuta o disprezzata. In una parola, è l’ordinamento migliore e più naturale che i più saggi governino la moltitudine, quando si sia sicuri che la governeranno per suo e non per loro profitto. Non bisogna moltiplicare inutilmente le competenze, né fare con ventimila uomini ciò che cento uomini scelti possan fare anche meglio. Ma bisogna rilevare che l’interesse di corpo comincia

qui a esser me-

no atto ad indirizzare la forza pubblica sulla traccia della volontà generale, e che un'altra tendenza inevitabile toglie alle leggi una parte della forza esecutiva. Riguardo alle convenienze particolari, non occorre né uno Stato così piccolo, né un popolo così semplice e retto, perché l'esecuzione delle leggi scaturisca immediatamente dalla volontà pub-

blica,

come

in

una

buona

democrazia.

verno popolare, tutti i cittadini nascono magistrati; ma questa invece li limita a un piccol numero, nel quale non entrano, se non per elezione **; che è un mezzo per il quale la probità, la mente illuminata, l’esperienza e tutte le altre ragioni di preferenza e di stima pubblica sono altrettante nuove garanzie che si sarà governati saggiamente. Di più le assemblee si fanno più comodamente, gli affari si discutono meglio, si sbrigano con più ordine e diligenza; il credito dello Stato è sostenuto

Né c’è maggior bisogno di una nazione così grande, che i capi sparsi a governarla possano farla da sovrano ciascuno nel suo dipartimento, e cominciare a rendersi indipendenti per diventare infine i padroni. Ma se l'aristocrazia esige qualche virtù di meno che il governo popolare, essa ne esige altre, che le son proprie, come la moderazione nei ricchi, e la capacità di contentarsi nei poveri ; perché sembra che un'uguaglianza rigorosa sarebbe fuori di luogo in essa; e non fu osservata nemmeno a Sparta. Del resto, se questa forma comporta una certa disuguaglianza di fortuna, è proprio perché in generale l'amministrazione degli affari pubblici sia affidata a quelli che possan meglio dedicarle tutto il loro tempo, ma non, come pretende Aristotele *, perché i ricchi siano sempre preferiti. Al contrario interessa

* È chiaro che la parola opfimates, presso gli antichi, non vuol dire i migliori, ma i più potenti. ** Importa assai regolare con leggi la forma di elezione dei magistrati; ché abbandonandola alla volontà del principe, non si può evitar

di cadere nell'aristocrazia ereditaria, com'è accaduto alle repubbliche di Venezia e di Berna. Così la prima è da gran tempo uno Stato in dissoluzione; ma la seconda si mantiene per l'estrema saggezza del suo Senato; eccezione molto onorevole e molto rischiosa.

elettiva,

ereditaria.

La

membri;

ché,

go-

prima non conviene che a popoli semplici; la terza è il peggiore di tutti i governi. La seconda è il governo migliore: è l’aristocrazia propriamente detta. Oltre il vantaggio della distinzione dei due poteri, essa ha quello della scelta

dei

suoi

nel

LIBRO

311

TERZO

molto che una scelta opposta insegni qualche volta al popolo che nel merito degli uomini vi sono ragioni di preferenza più importanti che la ricchezza. Capitolo VI DELLA

Finora

noi

principe

MONARCHIA

abbiamo

come

una

considerato

persona

morale

il

e

collettiva, unita dalla forza delle leggi, e depositaria nello Stato del potere riunito nelle mani di una persona naturale,

di

un

uomo

reale,

che

solo

abbia

diritto di disporne secondo le leggi. È ciò che si chiama un monarca o un re. Tutto al contrario delle altre amministrazioni,

in

cui

un

essere

collettivo

rappresenta un individuo, in questa un individuo rappresenta un essere collettivo;

in

modo

che

l'unità

morale,

che

costituisce il principe, è nello stesso tempo un'unità fisica, nella quale tutte le facoltà, che la legge riunisce nell'altra con

tanto

sforzo,

si trovano

riunite

naturalmente. Così la volontà del popolo e la volontà del principe, e la forza pubblica dello Stato e la forza particolare del governo, rispondon tutte allo stesso movente: tutte le molle della macchina sono nella stessa mano, tutto concorre verso la stessa mèta;

non vi sono movi-

menti opposti, che si annullino a vicenda, e non si può immaginare alcuna specie di costituzione, in cui uno sforzo minore produca un'azione più considerevole. Archimede che, seduto tranquillamente sulla riva, tira a galla senza fatica un gran vascello, mi rappresenta un monarca abile, che governa dal suo gabinetto i suoi vasti Stati e fa muover

tutto,

sembrando

immobile.

Ma se non v'è altro governo che ab* Machiavelli

era

un

uomo

onesto

e

un

buon cittadino, ma, legato alla casa dei Medici, eta costretto, nell’oppressione della sua patria, a mascherare il suo amore per la libertà. La

scelta

sola

del

suo

esecrabile

eroe

abbastanza la sua intenzione segreta; sizione delle massime del suo libro

manifesta

e l’oppodel Prin-

bia più vigore, non ve ne è alcuno in cui la volontà particolare abbia più impero e domini più agevolmente le altre:

tutto

concorre

allo

stesso

fine,

è

vero; ma questo fine non è quello della felicità pubblica, e la forza stessa dell'amministrazione volge continuamente a danno dello Stato”. I re voglion esser assoluti, e da lontano si grida loro che il miglior modo di esser tali si è di farsi amare dai loro popoli.

Questa

zionata;

mai

massima

è molto

bella,

anche molto vera sotto certi rispetti; disgraziatamente nelle corti si burleran sempre di essa. La potenza, che viene dall'amore dei popoli, è senza dubbio la più grande; ma è precaria e condii principi

se ne

contente-

ranno. I migliori re vogliono poter esser cattivi, se loro aggradi, senza cessar di essere i padroni. Un predicatore politico avrà

un

bel

dir

loro

che,

essendo

la

temibile;

essi

san

e che

non

forza del popolo la loro forza, il loro più grande interesse è che il popolo sia fiorente,

numeroso,

polo

debole,

bene che ciò non è vero. Il loro interesse personale è in primo luogo che il posia

miserabile,

possa mai resister loro. Consento che, supponendo i sudditi sempre perfetta mente sottomessi, l'interesse del principe sarebbe allora che il popolo fosse potente, affinché questa potenza, essendo la sua stessa potenza, lo rendesse temibile ai suoi vicini; ma siccome quest'interesse non è che secondario e subordinato, e le due supposizioni sono fra loro incompatibili, è naturale che i principi diano sempre la preferenza alla massima che è loro più immediatamente utile. Ciò Samuele delineava vigorosamente agli Ebrei, ciò Machiavelli ha fatto vedere con evidenza. Fingendo

di

dar

lezioni

ai re,

ne

ha

date

di

ben grandi ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il libro dei repubblicani *. cipe a quelle dei suoi Discorsi su Tito Livio e della sua Storia di Firenze, dimostra che questo profondo politico non ha avuto finora che lettori superficiali o corrotti. La corte di Roma ha severamente proibito il suo libro; e lo credo bene: è ben d'essa che egli dipinge più chiara-

mente ©,

DEL CONTRATTO

312 Abbiamo trovato, esaminando i rapporti generali, che la monarchia non è conveniente che in grandi Stati; lo troveremo ancora esaminandola in se stessa. Più l’amministrazione pubblica è numerosa, più il rapporto del principe ai sudditi diminuisce e si avvicina all'uguaglianza, in modo che questo rapporto è 1, ossia l'uguaglianza stessa, nella democrazia. Questo stesso rapporto aumenta, a misura che il governo si restringa, e raggiunge il suo maximum quando il governo sia nelle mani di un solo. Allora appare una distanza troppo grande fra il principe e il popolo, e lo Stato manca di collegamento. Per formarlo, occorrono dunque ordini intermedi; occorrono principi, grandi e nobiltà, per riempirli **. Ora nulla di tutto ciò conviene a un piccolo Stato, che tutti questi grandi rovinano. Ma se è difficile che un grande Stato sia ben governato, molto più difficile è che sia governato bene da un solo uomo;

e

ciascuno

sa

ciò

che

quando il re si crei sostituti. Un

difetto

essenziale

e

avviene,

inevitabile,

che metterà sempre il governo monarchico al di sotto di quello repubblicano, è in ciò: che in questo la designazione pubblica non inalza mai ai primi posti se non uomini illuminati e capaci, che li occupano con onore; là dove quelli che arrivano nelle monarchie non sono spesso che piccoli imbroglioni, piccoli bricconi, piccoli intriganti, ai quali le piccole capacità, che nelle corti fanno atrivare ai grandi posti, non servono che a mostrare al pubblico la loro inettitudine, appena vi siano arrivati. Il popolo s’inganna in questa scelta assai meno che il principe; e un uomo di vero merito è quasi tanto raro nel ministero, quanto uno sciocco a capo di un governo repubblicano. Così quando, per qualche caso fortunato, uno di questi uomini, nati per governare, prenda il timone degli affari in una monarchia ridotta quasi all’estremo da queste masnade di ministri galanti, si resta tutti stupefatti dei mezzi che sa trovare; e ciò segna un’èra in un paese. Affinché uno Stato monarchico po-

SOCIALE

tesse esser ben governato, bisognerebbe che la sua grandezza o la sua estensione fosse commisurata alle capacità di chi governa. È più facile conquistare che amministrare. Data una leva sufficiente, con un dito si può smuovere il mondo; ma per sostenerlo occorrono le spalle di Ercole. Per poco che uno Stato sia grande, il principe è quasi sempre troppo piccolo. Quando, al contrario, avvenga che lo Stato sia troppo piccolo per il suo capo,

ciò che è assai raro,

è ancora mal governato; perché il capo, seguendo sempre la vastità delle sue vedute, dimentica gli interessi dei popoli, e con l'abuso delle capacità, che ha di troppo, non li rende meno infelici di quanto farebbe un capo limitato, col difetto di quelle che gli mancano. Bisognerebbe, per così dire, che un reame si stendesse o si restringesse a cia-

scun regno, secondo il valore del principe; là dove, avendo le capacità di

un

può

Senato

misure

avere

limiti

più

fisse,

costanti,

e

lo

Stato

l’ammini-

strazione non andar meno bene. Il danno più sensibile del governo di un solo è il difetto di quella continuità

successiva,

che

forma

nei due

al-

tri governi un collegamento ininterrotto.

Morto

un

re,

ne

occorre

un

altro;

le

elezioni lasciano intervalli pericolosi; sono tempestose; e a meno che i cittadini

siano

di

un

disinteresse,

di

un’in-

tegrità, che tale governo non comporta affatto, le brighe e la corruzione vi si

caccian

quale

venda

dentro.

lo Stato a sua

È

difficile

che

si sia venduto,

volta,

e non

colui,

non

al

lo

si indennizzi

sui deboli del danaro che i potenti gli hanno estorto. Prima ‘o poi tutto diventa venale sotto una simile amministra-

zione;

e la pace,

sotto i re, è interregni. Che cosa sti mali? Si rie in certe

di

cui

si gode

allora

peggiore del disordine degli

si è fatto per prevenire queson rese le corone ereditafamiglie; e si è stabilito un

ordine di successione, che previene ogni

disputa alla morte dei re; ciò vuol dire che, sostituendo il danno delle reggenze a quello delle elezioni, si è preferito un’apparente tranquillità a una sag-

LIBRO

313

TERZO

gia amministrazione, si è preferito rischiare di aver per capi ragazzi, mostri, imbecilli, anziché aver a disputare sulla scelta dei buoni re. Non si è considerato che, esponendosi così ai rischi dell'alternativa,

si

mettono

quasi

tutte

le

probabilità contro di sé. Era una parola molto sensata quella del giovane Dionigi, al quale suo padre, rimproverandogli un'azione vergognosa, diceva: « Te ne ho dato io l'esempio? ». « Ah, rispose il figlio, vostro padre non era re! » *. Tutto concorre a privar di giustizia e di ragione un uomo educato a comandare agli altri. Si prende molta cura, a quanto

si dice, per insegnare

ai giovani

principi l’arte di regnare: ma non sembra che questa educazione profitti loro. Si farebbe meglio a cominciar dall’insegnare loro l’arte di obbedire. I più grandi

re, che

la storia abbia

celebrato,

non son stati affatto allevati per regnare; è una scienza che non si possiede mai

così

poco,

come

dopo

averla

impa-

rata troppo, e si acquista meglio obbedendo che comandando. Nam utilissimus idem ac brevissimus bonarum malarumque rerum delectus cogitare quid aut nolueris sub alio principe aut volueris *. Una conseguenza di simile mancanza di coerenza è l'incostanza del gover-

no regio, che, regolandosi ora su un disegno, ora su un altro, secondo il ca-

rattete del principe che regna, o delle persone che regnano per lui, non può avere a lungo un fine fisso né una condotta coerente: la qual variabilità rende sempre lo Stato ondeggiante di regola in regola, di disegno in disegno, e non ha luogo negli altri governi, dove il principe è sempre lo stesso. Così si vede, in generale, se vi è più astuzia in una corte, vi è più saggezza in un Senato, e le repubbliche perseguono i loro fini con vedute più costanti e meglio seguite; mentre ogni rivoluzione nel ministero ne produce una nello Stato, essendo regola comune a tutti i ministri, e a quasi tutti i re, di prendere * Tacrro

Hist.,

lib. I.

in ogni cosa l'indirizzo diametralmente opposto a quello del loro predecessore. Da

questa

stessa

incoerenza

si ricava

anche la soluzione di un sofisma molto familiare ai politici monarchici: che consiste non solo nel paragonare il governo civile al governo domestico, e il principe al padre di famiglia, errore già confutato #; ma anche nel conferire generosamente a questo magistrato tutte le virtù di cui avrebbe bisogno, e nel supporre sempre che il principe sia ciò che dovrebbe essere: con la qual supposizione il governo regio è evidentemente preferibile ad ogni altro, perché incontestabilmente è il più forte; sere anche il migliore, non

e, per esgli manca

che una volontà di corpo più conforme alla volontà generale.

Ma se, secondo Platone **, l’uomo che

sia re per matura è un personaggio tanto raro, quante volte concorreranno natura e fortuna a incoraggiarlo? E se l'educazione regale corrompe necessariamente quelli che la ricevono, che mai si deve sperare da una successione di uomini tutti educati per regnare? È dunque un volersi ingannare il confondere il governo regio con quello di un buon re. Per vedere che cosa sia questo governo in se stesso, bisogna considerarlo sotto principi limitati o cattivi; perché

o arriveranno

tali al trono, o il trono

renderà tali. Queste difficoltà

non

sono

li

sfuggite

ai nostri autori, ma essi non se ne sono turbati, Il rimedio sta, dicono loro, nell'obbedire senza mormorare; Dio dà i

cattivi re nella sua collera, e bisogna sopportarli come punizioni del cielo. Questo discorso è edificante, senza dubbio,

ma

io non

so

se non

converrebbe

meglio sul pulpito che in un libro politico *. Che si direbbe di un medico che promettesse miracoli, e la cui arte stesse tutta nell’esortare il malato alla pazienza? Si sa bene che bisogna sopportare un cattivo governo quando lo si abbia: ma il problema sarebbe di trovarne uno buono. «* In Civili,

DEL

314

Capitolo VII DEI GOVERNI

per

MISTI ‘

Propriamente parlando non vi sono governi semplici. Occorre che un capo unico

abbia

magistrati

subalterni;

esecutivo,

dal

numero

v'è

sempre

maggiore

una

al

gradazione

minore,

con

questa differenza, che talvolta il numero

maggiore dipende dal minore, e talvolta il minore dal maggiore. Qualche

volta

vi è divisione

uguale,

sia quando le parti costitutive siano in reciproca dipendenza, come nel governo d’Inghilterra, sia quando l'autorità di ogni parte sia indipendente, ma imperfetta, come in Polonia. Quest'ultima forma è cattiva, perché non vi è affatto unità nel governo, e anche lo Stato manca di coesione. Val meglio un governo semplice o un governo misto? Questione molto dibattuta dai politici, alla quale bisogna dar la stessa risposta che ho dato più sopra su ogni forma di governo. Il governo semplice è il migliore in se stesso, per il solo fatto che è semplice. Ma, quando il potere esecutivo non dipenda abbastanza dal legislativo, quando cioè vi sia dal principe al governo rapporto maggiore che dal popolo al principe, bisogna rimediare a questa mancanza di proporziore dividendo il governo; perché allora tutte le sue parti non

hanno

meno

autorità sui sudditi,

e

la loro divisione le rende tutte insieme meno forti contro il sovrano. Si previene anche il medesimo difetto istituendo

magistrati

intermedi,

che,

la-

sciando il governo nella sua interezza, servono solo a bilanciare i due poteri e a mantenere i loro rispettivi diritti. Allora il governo non è misto, è temperato. Si può rimediare con mezzi simili al difetto opposto, e, quando il governo sia troppo fiacco, erigere tribunali per concentrarlo. Ciò si pratica in tutte le democrazie. Nel primo caso si divide il governo per indebolirlo, e nel secondo

perché

SOCIALE

il maximuri

di

forza e di debolezza si trovano ugual mente nei governi semplici, mentre le forme miste danno una forza media. Capitolo VIII

oc-

corre che un governo popolare abbia un capo. Così, nella divisione del potere

CONTRATTO

rinforzarlo,

COME NON OGNI FORMA DI GOVERNO SIA ADATTA

La

libertà,

non

AD OGNI PAESE essendo

un

frutto di

tutti i climi, non è alla portata di tutti i popoli. Più si mediti questo principio, stabilito da Montesquieu, più se ne sente la verità; più lo si contesti, più si dà occasione di fondarlo su nuove prove. In tutti i governi del mondo la persona pubblica consuma e non produce nulla. Onde le viene dunque la sostanza consumata? Dal lavoro dei suoi membri. Il superfluo dei singoli produce il necessario del pubblico. Dal che segue che lo stato civile non può sussistere, che in quanto il lavoro degli uomini renda al di là dei loro bisogni. Ora questa eccedenza non è la stessa in tutti i paesi del mondo. In parecchi è considerevole, in altri mediocre, in altri nulla, in altri negativa. Que-

sto rapporto dipende dalla fertilità del clima, dal genere di lavoro che la terra esige, dalla natura delle sue produzioni, dalla forza dei suoi abitanti, dal maggiore o minore consumo che sia loro necessario, e da parecchi altri rapporti simili, dei quali è composto. D'altra parte, i governi non sono tutti della stessa natura;

ve n’ha che divo-

ran di più e di meno; e le differenze sono fondate su questo altro principio, che, più le contribuzioni pubbliche si allontanano dalla loro sorgente, e più sono onerose. Non sulla quantità delle imposte bisogna misurare quest’onere, ma sul cammino che debbono fare per ritornare nelle mani dalle quali sono uscite. Quando questa circolazione sia pronta e bene istituita, pagar poco o molto non importa; il popolo è sempre ricco e le finanze vanno sempre bene. AI contrario, per poco che il popolo

LIBRO

TERZO

315

dia, quando questo poco non gli ritorni, dando sempre, presto si esaurisce; lo Stato non è mai ricco, e il popolo è sempre pezzente. Da ciò segue che più la distanza dal popolo al governo aumenti, più i tributi divengono onerosi; così nella democrazia il popolo è meno gravato; nell'aristocrazia

di

più;

nella

monarchia

porta il più gran peso. La monarchia non conviene dunque che alle nazioni ricche;

l'aristocrazia

agli

Stati

medio-

cri in ricchezza e in grandezza; la democrazia agli Stati piccoli e poveri. Infatti,

più

vi

si

rifletta,

più

si tro-

va in ciò differenza fra gli Stati liberi e i monarchici.

Nei

primi,

tutto

si

ado-

pera per l'utilità comune; negli altri le forze pubbliche e particolari sono

reciproche, e l'una s'aumenta con l’indebolirsi dell’altra; infine, invece di go-

vernare i sudditi per renderli felici, il dispotismo li rende miserabili per governarli. Ecco dunque, in ogni clima, cause naturali, in base alle quali si può assegnare la forma di governo alla quale la forza

del

clima

trascina,

e

dire

anche

che specie di abitanti esso debba avere. I luoghi ingrati e sterili, dove il prodotto non

valga

incolti e vaggi; i mini non debbono bari;

il lavoro,

debbono

restare

deserti, o solo popolati da selluoghi dove il lavoro degli uorenda che lo stretto necessario essere abitati dai popoli bar-

ogni

costituzione

di

Stato

vi

sa-

rebbe impossibile; i luoghi dove l’eccesso del prodotto sul lavoro sia mediocre, convengono ai popoli liberi; quelli dove il terreno abbondante e fertile dia molto prodotto con poco lavoro, voglio no essere governati monarchicamente, per consumare col lusso del principe l'eccesso di superfluo dei sudditi; perché val meglio che: questo eccesso sia assorbito dal governo, che dissipato dai

privati. Vi sono eccezioni, so bene; ma queste stesse eccezioni confermano la

regola, in quanto producono prima o poi rivoluzioni, che riconducono le cose all'ordine naturale. Distinguiamo sempre le leggi generali dalle cause particolari che possano mo-

dificarne

l’effetto.

Quand'anche

tutto

il Mezzogiorno fosse coperto di repubbliche e tutto il Nord di Stati dispotici, non sarebbe men vero che, per effetto del clima, paesi caldi,

il dispotismo convenga ai la barbarie ai paesi freddi,

e la buona costituzione di Stato alle regioni intermedie #°. Veggo pure che, concedendo il principio, si potrà disputare sull’applicazione: si potrà dire che vi son paesi freddi molto fertili, e meridionali molto ingrati. Ma questa difficoltà non è tale se non per chi non esamini la cosa in tutti i suoi rapporti. Bisogna, come ho già detto, tener conto di quelli dei lavori, delle forze, del consumo, ecc. Supponiamo che, di due terreni uguali, uno

renda

cinque

e l’altro

dieci.

Se

gli abitanti del primo consumino quattro e quelli dell'altro nove, l'eccesso del primo prodotto sarà un quinto, e quello ‘ del secondo un decimo. Essendo dunque il rapporto di queste due eccedenze inverso a quello dei prodotti, il terreno che produca solo cinque darà un superfluo doppio di quello del terreno che produca dieci. Ma non è questione di un prodotto doppio, ed io non credo che alcuno osi, in generale, metter la fertilità dei paesi freddi in uguaglianza anche con quella dei paesi caldi. Tuttavia supponiamo quest'uguaglianza: lasciamo, se si voglia, in bilancio l'Inghilterra con la Sicilia, e la Polonia con l'Egitto: sud, avremo l'Africa e le Indie;

più più

al al

nord, non avremo più nulla. Per questa uguaglianza di prodotto, che differenza nella coltura! In Sicilia non occorre che grattare la terra; ma in Inghilterra quante

cure

per

lavorarla!

Ora

colà,

dove occorrano più braccia per dare lo stesso prodotto, il superfluo deve necessariamente esser minore. Considerate, inoltre, che la stessa quantità di uomini consuma molto meno nei paesi caldi. Il clima esige che si sia sobri per star bene: gli Europei che vogliano viverci come a casa loro muoiono tutti di dissenteria e d'indigestione. « Noi

siamo,

dice Chardin 5, bestie car-

nivore, lupi, a paragone

degli Asiatici.

DEL

316 Qualcuno attribuisce la sobrietà dei Persiani al fatto che il loro paese è meno coltivato;

io credo,

al contrario,

che

il

loro paese abbondi meno di derrate, perché ne occorrono meno agli abitanti. Se la

loro

frugalità,

egli

continua,

fosse

un effetto della povertà del paese, non vi sarebbero che i poveri a mangiar poco, mentre generalmente son tutti; e si mangerebbe più o meno, in ciascuna provincia, a seconda della fertilità del paese, mentre si trova la stessa sobrietà per tutto il regno. Essi si lodano mol. to della loro maniera

di vivere, dicendo

che basta guardare la loro carnagione, per riconoscere quanto essa sia più eccellente di quella dei cristiani. In realtà la carnagione dei Persiani è unita, essi hanno la pelle bella, fine e liscia, mentre la carnagione degli Armeni, loro sudditi,

che

vivono

all’europea,

è

ruvida,

bitorzoluta, e i loro corpi sono grossi € pesanti ».

Più ci avviciniamo all’equatore, più i popoli vivono con poco. Non mangia-

no quasi affatto carne; il riso, il mais, il cuscus, il miglio, la cassava sono i

loro alimenti abituali. In India vi sono milioni di uomini, il cui nutrimento non

costa un soldo al giorno. Noi vediamo, persino

in

Europa,

differenze

sensibili

di appetito fra i popoli del Nord e quelli del Mezzogiorno. Uno spagnolo vivrà otto giorni col pranzo di un tedesco. Nei paesi dove gli uomini son più voraci, il lusso si volge anche verso gli oggetti di consumo: in Inghilterra si mostra su di una tavola carica di carne,

in

Italia

vi

trattano

a zucchero

e

fiori. Il lusso delle vesti offre pure simili differenze. Nei climi dove i cambiamenti di stagione sian rapidi e violenti, si hanno abiti migliori e più semplici: in quelli dove si veston solo per ornamento si cerca più lo splendore che l’utilità: gli stessi abiti sono un lusso. A Napoli vedrete ogni giorno passeggiare a Posillipo uomini in giustacuore dorato e senza calze. La stessa cosa avviene per gli edifici: si dà tutto alla magnificenza, quando non si abbia nulla da temere

CONTRATTO

SOCIALE

dalle ingiurie dell’aria. A Parigi, a Londra si vogliono alloggi caldi e comodi; a Madrid si hanno saloni splendidi, ma senza finestre in topaie.

che chiudano,

e si dorme

ni, nutrienti, Francia, dove

di gusto eccellente. In non son nutriti che d’ac-

Gli alimenti sono molto più sostanziosi e succulenti nei paesi caldi: terza differenza, che non può non influire sulla seconda. Perché in Italia si mangiano tanti legumi? Perché lì sono buoqua, non quasi per occupano stano per coltivarli. i grani di a quelli

nutrono e non sono contati nulla sulle mense; ma non pertanto meno terreno, e colo meno altrettanta fatica a È esperienza già fatta che Barberia, inferiori del resto francesi, rendono molto di

più in farina, e quelli di Francia, a loro volta, rendono più che i grani del

Nord. Dal che si può arguire che una gradazione simile si osserva general. mente,

nella

stessa

tore al polo. Ora, gio evidente quello dotto uguale una alimenti? A tutte queste posso aggiungerne

direzione,

dall’equa-

non è uno svantagdi avere in un prominor quantità di varie considerazioni una che ne discende

_e le rafforza; che i paesi caldi hanno mi-

nor bisogno di abitanti che i paesi freddi, e potrebbero nutrirne di più; ciò che produce un doppio superfluo, sempre a vantaggio del dispotismo. Più grande è la superficie occupata dallo stesso numero di abitanti, più le rivolte diventano difficili, perché non si può accordarsi né prontamente né segretamente, ed è sempre facile al governo sventare i disegni e tagliare le comunicazioni. Ma più un popolo numeroso si ravvicina, meno il governo può compiere usurpazioni sul sovrano: i capi deliberano tanto sicuramente nelle loro Camere quanto il principe nel suo consiglio; la folla si raccoglie tanto presto sulle piazze quanto le truppe nei loro quartieri. Il vantaggio di un governo tirannico è dunque in ciò: poter operare a grandi distanze. Con l'aiuto dei punti di appoggio che si dà, la sua forza aumenta a

LIBRO

317

TERZO

distanza come quella delle leve *. Quella del popolo, invece, non opera che concentrata; svanisce e si perde estendendosi, come l'effetto della polvere sparsa in terra, che prende fuoco solo grano a grano. I paesi meno popolati sono anche i più adatti alla tirannia: le bestie feroci non regnano che nei deserti.

INDICI

DI

UN

indeterminato;

o,

bello

l’esser

temuto

su questi

dai

vicini,

punti e altri simili, si sarebbe

che se si fosse d'accordo

BUON

GOVERNO

Quando si domanda dunque in maniera assoluta quale sia il miglior governo, si pone un problema insolubile

quanto

trova

l’altro preferisce esserne ignorato; uno è contento quando il denaro circola, l’altro esige che il popolo abbia pane. Quand'anche si raggiungesse l'accordo

forse fatto un passo avanti? Mancando le quantità morali di misura precisa, an-

Capitolo IX DEGLI

il miglior governo sia quello più severo, l’altro sostiene che sia quello più dolce: questi vuole che i delitti si puniscano, e quegli che si prevengano; uno

se

si

vuole,

che ha tante buone soluzioni, quante combinazioni possibili vi siano nelle posizioni assolute e relative dei popoli. Ma se si domandasse a qual indice si possa riconoscere che un dato popolo sia bene o mal governato, sarebbe una cosa diversa, e la questione di fatto potrebbe essere risolta. Ciò nonostante, non la si risolve, per-

ché ognuno vuol risolverla a suo modo. I sudditi vantano la tranquillità pubbli-

ca, i cittadini la libertà individuale: uno preferisce la sicurezza dei possessi, l'altro quella delle persone; uno vuole che

* Questo non contraddice a ciò che ho detto innanzi (lib. II, cap. IX) sugli inconvenienti dei grandi Stati; perché là si trattava dell'autorità del governo sui suoi membri, e qui si tratta della sua forza contro i sudditi. I suoi membri sparsi gli servono di punto d'appoggio per operare da lontano sul popolo, ma esso non ha nessun punto di appoggio per operare diretta. mente sui membri Stessi. sì, in un caso, la lunghezza della leva ne forma la debolezza, nell'altro caso la forza. #4 Si deve giudicare, sullo stesso principio, quali secoli meritino la preferenza per la prosperità del genere umano. Si sono ammirati

troppo quelli in cui si sian viste fiorire le let-

tere e le arti, senza penetrar l'oggetto segreto della loro cultura, senza considerarne il funcsto effetto: idque apud imperitos humanitas vocabatur, cum pars servitutis esset *. Non vedremo noi mai, nelle massime dei libri, l’interesse grossolano che fa parlar gli autori? No, che che possan dirne, quando, nonostante il suo splendore, un paese si spopoli, non è vero

me

sull'indice, co-

essere d’accordo sulla valutazione? Per mio conto, mi meraviglio sempre che si disconosca un indice così semplice, o che

si abbia

la mala

fede

di non

convenirne. Quale è il fine dell'associazione politica? La conservazione e la prosperità dei suoi membri. E quale è l'indice più sicuro che si conservino e prosperino? Il loro numero e la loro popolazione. Non andate dunque a cercare altrove quest’indice tanto discusso. D'altra parte, a parità di tutte le condizioni, il governo sotto il quale, senza mezzi stranieri, senza naturalizzazioni,

senza colonie, i cittadini popolino e moltiplichino di più, è infallibilmente il migliore. Quello, sotto il quale un popolo diminuisca e deperisca, è il peggiore. Calcolatori, ora è affar vostro, contate, misurate,

paragonate **.

che tutto vada bene; e non basta che un poeta abbia centomila lire di rendita, perché il suo secolo sia il migliore di tutti. Bisogna guardar meno alla quiete apparente e alla tranquillità dei capi, che al benesseree delle nazioni intere, e, soprattutto delle classi più numetose. La grandine devasta qualche cantone, ma raramente produce carestia. Le sommosse,

le guerre

civili,

sgomentan

molto

i capi,

ma

non costituiscono le vere disgrazie dei popoli, che possono anzi avere tregua, mentre si disputa chi sarà il tiranno, Dal loro stato permanente nascono le loro prosperità o le loro calamità reali; quando tutto resta schiacciato sotto il giogo, allora tutto deperisce; allora i capi, distruggendoli a loro agio, ubi solitudinem faciunt, pacem appellant©”. Quando i litigi dei grandi agitavano il regno di Francia, e il coadiutore di Parigi portava al Parlamento un pugnale in tasca, questo non impediva al popolo francese di vivere felice e fiumeroso, in un’agiatezza onesta e libera. In altri tempi la Grecia fioriva in mezzo alle più cruente

DEL CONTRATTO

318

Capitolo X E

Il governo si restringe quando passa dal gran numero al piccolo, cioè dalla

DELL'ABUSO DEL GOVERNO DELLA SUA TENDENZA A DEGENERARE

Come la volontà particolare opera senza tregua contro la volontà generale, così il governo fa uno sforzo continuo contro la sovranità. Più questo sforzo

aumenta, più la costituzione si altera; e, non essendoci qui altra volontà di

corpo che, resistendo a quella del principe, faccia equilibrio ad essa, deve avvenire prima o poi che il principe opprima infine il sovrano e rompa il patto sociale. È questo il vizio intrinseco e inevitabile

che,

fin

dalla

nascita

del

corpo politico, tende senza posa a distruggerlo, come la vecchiaia o la morte distruggono infine il corpo dell'uomo. Vi sono due vie generali per le quali un governo degenera: cioè quando esso si restringa o quando lo Stato si dissolva. guerre; il sangue colava a fiotti, e tutto il paese era coperto di uomini. Sembrava, dice Machiavelli *, che in mezzo agli omicidi, alle proscrizioni, alle guerre civili, la nostra repubblica diventasse più potente; la virtù dei suoi cittadini, i loro costumi, la loro indipendenza avevano più efficacia a rinforzarla, che non ne avessero tutti i suoi dissensi a indebolirla. Un po’ di agitazione dà impulso elle anime, e ciò che fa veramente prosperar la specie non è

tanto la pace quanto

la libertà*

* La formazione lenta, e il progresso della repubblica di Venezia nelle sue lagune, offre un esempio notevole di questa sequela; ed è ben da meravigliarsi che, dopo più di 1200 anni, i Veneziani sembrino non essere ancora che al secondo termine, che incominciò al Serrar di consiglio, nel 1198. Quanto agli antichi duchi, che vengono loro rimproverati, è provato, checché ne dica lo Squittinio della libertà veneta”, che non sono stati loro sovrani, Non si mancherà di obbiettarmi la repubblica romana che seguì, si dirà, un progresso del tutto contrario, passando dalla monarchia all'aristocrazia, e dall'aristocrazia alla democrazia. Io sono ben lontano dal pensarla così. La prima istituzione di Romolo fu un governo misto, che degenerò prontamente in dispotismo. Per cause speciali, lo Stato perì prima del tempo, come si vede morire un neonato, prima di aver raggiunta l'età adulta.

L'espulsione dei Tarquini fu la vera epoca di nascita della repubblica. Ma essa non prese dapprima

una

forma

costante,

SOCIALE

perché

non

si

democrazia

all’aristocrazia,

e dall’aristo-

crazia alla monarchia. È questa la sua inclinazione naturale*. Se retrocedesse dal piccolo numero al grande si potrebbe dire che si rilascia: ma questo progresso inverso è impossibile. Mai infatti il governo cambia di forma,

se

non

quando

la

consumazione

della sua energia lo lasci troppo indebolito per poter conservare la forma propria. Ora, se si rilasciasse ancora estendendosi, assolutamente

trebbe

care

durare.

la sua forza diverrebbe nulla, e ancor meno po-

e stringere

essa ceda: sostiene,

Bisogna la

molla

dunque

a misura

ricariche

altrimenti lo Stato, che essa

cadrebbe

in

rovina.

Il caso della dissoluzione dello Stato può sopraggiungere in due modi. Primo: quando il principe non amministri

ed usurpi

più

lo

Stato

il potere

secondo

sovrano.

le leggi,

Allora

si

fece che la metà dell'opera, non abolendo il patriziato. Perché in questo modo, restando l’aristocrazia ereditaria, che è la peggiore delle amministrazioni legittime, in conflitto con la democrazia, la forma di governo, sempre incerta e fluttuante, non fu fissata, come ha provato Machiavelli 4, che con la istituzione dei tribuni; allora solo vi fu un vero governo e una vera democrazia. Infatti il popolo allora non era sola sovrano, ma anche magistrato e giudice: il Senato non era che un tribunale subalterno, per temperare e concentrare il governo; e gli stessi consoli, benché patrizi, benché primi magistrati, benché generali assoluti in guerra, non erano a Roma che i presidenti del popolo. Da allora si vide anche il governo prendere la sua china naturale e tendere fortemente all'aristocrazia. Abolendosi il patriziato come da se stesso, l'aristocrazia non era più nel corpo dei patrizi, com'è a Venezia e a Genova, ma nel corpo del Senato, composto di patrizi, e di plebei, e persino nel corpo dei tribuni, quando incominciarono a usurpare un potere attivo: ché le parole non cambiano le cose, e quando il popolo ha capi che governino per lui, qualsiasi nome portino questi capi, è pur sempre un'aristocrazia. Dall’abuso dell’aristocrazia nacquero le guer-

re civili e il triunvirato.

Silla, Giulio Cesare,

Augusto, divennero di fatto veri monarchi e infine, sotto il dispotismo di Tiberio, lo Stato fu in dissoluzione. La storia romana non smentisce dunque il mio principio; anzi lo con-

ferma.

LIBRO

TERZO

319

compie un mutamento notevole: non il governo, ma lo Stato si restringe: voglio dire che il grande Stato si dissolve, e se ne forma un altro entro quello,

composto solamente dei membri del governo, che per il resto del popolo non è più altro se non il suo padrone e tiranno.

In

modo

che,

dal

momento

in

cui il governo usurpi la sovranità, il patto sociale è rotto, e tutti i semplici cittadini, rientrati di diritto nella libertà naturale, sono forzati, ma

loro non

obbligati a ubbidire. Lo stesso caso succede quando i membri del governo usurpino separatamente il potere, che non debbono esercitare che in corpo; ciò che non è affatto minor infrazione delle leggi, e produce un disordine ancor più grande. Allora si hanno, per così dire, tanti principi quanti sono

i magistrati,

e lo Stato,

non

meno

diviso del governo, perisce o cambia di forma. Quando lo Stato si dissolva, l’abuso del governo, quale che sia, prende il nome comune di anarchia. Per distinguere, la democrazia degenera in oclocrazia,

l'aristocrazia

in

oligarchia;

ag-

giungerò che il regno degenera in ti rannia, ma quest'ultima parola è equi. voca ed esige spiegazione. Nel senso volgare, un tiranno è un re che governi con violenza, e senza riguardo alla giustizia e alle leggi. Nel senso preciso, un tiranno è un privato che si arroghi l'autorità reale senza averne diritto. Così i Greci intendevano questa parola tiranno: essi la davano indifferentemente ai buoni e ai cattivi principi, la cui autorità non fosse legittima *. Così tiranno e usurpatore son due patole perfettamente sinonime. Per dare diversi

nomi

a cose diverse,

io chiamo tiranno l'usurpatore dell’autorità regale, e despota l’usurpatore del * Omnes enim et habentur et dicuntur tyranni, qui potestate utuntur perpetua în ea civitate quae libertate usa est, Cornelio Nepo-

te,

in Milziade,

cap.

VIII.

Vero

è che

potere sovrano. Il tiranno è s'introduce contro le leggi a secondo le leggi stesse. Così può non essere despota, ma è sempre tiranno.

Ari.

stotele, Erica Nicomachea, lib. VIII, cap. X, distingue il tiranno dal re, nel senso che il primo governi per sua propria utilità e il

quello che governare il tiranno il despota

Capitolo XI DELLA

MORTE

DEL

CORPO

POLITICO

Tale è la tendenza naturale e inevitabile dei governi meglio costituiti. Se Sparta e Roma sono perite, quale Stato può mai sperare di durar sempre? Se vogliamo formare un'istituzione durevole, non pensiamo dunque a renderla eterna. Per riuscire non bisogna tentar l'impossibile, né lusingarsi di dare all'opera degli uomini una solidità che le cose umane non comportano. Il corpo politico, al pari del corpo umano, comincia a morire fin dalla nascita, e porta in se stesso le cause della sua distruzione. Ma l'uno e l’altro possono avere una costituzione più o meno robusta, e adatta a conservarli più o meno a lungo. La costituzione dell’uomo è opera della natura; quella dello Stato è opera dell'arte. Non dipende dagli uomini di prolungare la loro vita, dipende da loro di prolungare quella dello Stato per quanto sia possibile, dandogli la miglior costituzione che possa avere. Il meglio costituito finirà pure,

ma

più

tardi di un

altro,

se nes-

sun accidente imprevisto porti la sua rovina anzi tempo. Il principio della vita politica è nell'autorità sovrana. Il potere legislativo è il cuore dello Stato, il potere esecutivo ne è il cervello, che dà il movi. mento a tutte le sue parti. Può il cervello esser colpito da paralisi e l'individuo vivere ancora. Un uomo resta imsecondo per l'utilità dei sudditi; ma, oltre il fatto che generalmente tutti gli autori greci hanno preso la parola /iranzo in un altro senso, come appare specialmente dal Gerone di

Senofonte,

dalla distinzione

di Aristotele

seguirebbe che, dal principio del mondo, sarebbe ancora esistito un solo re.

connon

DEL

320 becille e vive: abbia

cessato

di

funzionare,

l’animale

è morto. Non per mezzo delle leggi lo Stato sussiste, ma per mezzo del potere lcgislativo. La legge di ieri non obbliga oggi; ma il consenso tacito è presunto dal silenzio, e si suppone che il sovrano confermi continuamente le leggi che non abroga, pur potendolo fare. Tutto ciò che abbia dichiarato una volta di volere, lo vuol sempre,

a meno

che non

lo revochi. Perché dunque si porta tanto rispetto alle antiche leggi? Proprio per questo. Si deve credere che non vi sia che l’eccellenza

delle

volontà

antiche,

che

abbia potuto conservarle così a lungo: se il sovrano non le avesse riconosciute costantemente

salutari,

le avrebbe

revo-

cate mille volte. Ecco perché, invece d’indebolirsi, le leggi acquistano incessantemente forza nuova in ogni Stato ben costituito; il pregiudizio dell'antichità le rende ogni giorno più venerabili; mentre ovunque le leggi s’indeboliscono invecchiando, ciò prova che non v'è più potere legislativo, e che lo Stato non vive più.

sia,

Il

sovrano,

non

sono

le

questo

solo

fatto,

incontestabile,

dall'esimi par

L'AUTORITÀ SOVRANA avendo

altra

forza

che il potere legislativo, non opera che per mezzo di leggi; e non essendo le leggi che atti autentici della volontà generale, il sovrano non saprebbe operare se non quando il popolo sia adunato. Il popolo adunato, si dirà, che chimera! Chimera oggi, ma tale non era duemila anni fa. Gli uomini hanno forse cambiato di natura? I limiti del possibile, nelle cose morali, sono meno ristretti di quanto noi pensiamo;

SOCIALE

risponde a tutte le difficoltà: stente al possibile l’inferenza valida.

Capitolo XII COME SI MANTENGA

CONTRATTO

Da ciò che si è fatto consideriamo ciò che può farsi. Non parlerò delle antiche repubbliche della Grecia; ma la repubblica romana era, mi sembra, un grande Stato, e Roma una grande città. L’ultimo censimento a Roma diede circa quattrocentomila cittadini portanti armi, e l’ultimo censimento dell’impero più di quattro milioni di cittadini, senza contare i sudditi, gli stranieri, le donne, i ragazzi, gli schiavi. Che difficoltà non s'immaginerebbero ad adunare frequentemente il popolo immenso di questa capitale e dei suoi dintorni! Tuttavia poche settimane passavano senza che il popolo romano venisse adunato, e anche parecchie volte. Non solo esso esercitava i diritti della sovranità, ma anche una parte di quelli del governo. Trattava certi affari, giudicava certe cause, e tutto questo popolo era, sulla pubblica piazza, quasi altrettanto spesso magistrato che cittadino. Risalendo ai primi tempi delle nazioni, si troverebbe che la maggior parte -degli antichi governi, anche monarchici, come quelli dei Macedoni e dei Franchi, avevano simili consigli. Checché ne

ma non appena il cuore

nostre

debolezze,

Capitolo XIII SEGUITO

i

nostri vizi, i nostri pregiudizi che li restringono, Le anime basse non credono ai grandi uomini: vili schiavi sorridono con aria canzonatoria a questa parola libertà.

Non basta che il popolo adunato abbia fissata una volta la costituzione dello Stato, dando la sanzione a un corpo di leggi; non basta che abbia stabilito un governo perpetuo, o che abbia provveduto una volta per sempre all’elezione di magistrati: oltre le assemblee straordinarie, che casi imprevisti possano esigere, bisogna che ve ne siano di fisse e periodiche, che nulla possa abolire o prorogare, in modo che, al giorno segnato, il popolo sia legittimamente convocato per legge, senza che vi sia

LIBRO

TERZO

321

bisogno per ciò di alcun’altra convocazione formale. Ma all’infuori di queste assemblee, giuridiche per il solo fatto della loro data, ogni assemblea del popolo, che

Tuttavia, se non si può ridurre lo Stato a giusti limiti, resta ancora un espediente: di non tollerarvi una capitale , di far risiedere il governo alternativamente in ogni città, e di adunar-

preposti a tale ufficio, e secondo le forme prescritte, deve essere tenuta illegittima, e tutto ciò che vi si faccia nullo, perché l'ordine stesso di adunarsi deve emanare dalla legge. Quanto alla ricorrenza, più o meno frequente, delle assemblee legittime, essa dipende da tante considerazioni, che non si saprebbero dare su ciò regole precise. Solo si può dire in generale che, più il governo abbia forza, più il sovrano deve mostrarsi spesso.

paese. Popolate ugualmente il territorio, diffondetevi in ogni parte gli stessi diritti, portatevi dappertutto l'abbondanza e la

non

sia

stata

Questo,

convocata

mi

si dirà,

dal

può

magistrati

andar

bene

per una sola città; ma che fare quando lo Stato ne comprenda parecchie? Si dividerà l'autorità sovrana? Oppure si dovrebbe concentrarla in una sola città e assoggettarle tutto il resto? Rispondo che non si deve fare né l'uno né l’altro. In primo luogo, l'autorità sovrana è semplice e una, e non si può dividerla senza distruggerla. In secondo luogo una città non può, più che una nazione, essere legittimamente soggetta a un'altra, perché l’essenza del corpo politico è nell'accordo dell’obbedienza e della libertà, e queste parole suddito e sovrano sono correlazioni identiche, la cui idea si riunisce sotto l’uni-

ca parola cittadino. Rispondo ancora che è sempre un male unire parecchie città in un solo Stato;

e che,

volendo

fare

questa

unio-

il senso che

si dà

ne, non ci si deve lusingare di evitarne gli inconvenienti naturali. Non bisogna obbiettare l'abuso dei grandi Stati a chi non ne vorrebbe che piccoli. Ma come dare ai piccoli Stati abbastanza forza per resistere ai grandi? A quel modo che anticamente le città greche tresistettero al gran re, e più recentemente l’Olanda e la Svizzera hanno resistito alla casa d'Austria. * Press'a

poco

a questo nome somiglianza di

secondo

nel Parlamento queste cariche

inglese. La rasavrebbe messo

vi

anche,

a

vicenda,

le

assemblee

del

vita; così lo Stato diventerà nello stesso

tempo il più forte e il meglio governato che sia possibile. Ricordatevi che le mura delle città non si costituiscono che con le macerie delle case campestri. Ad ogni palazzo, che vedo elevare nella capitale, mi par di veder mettere in rovine tutto un paese. Capitolo XIV SEGUITO

Dal momento in cui il popolo è legittimamente radunato in corpo sovrano, ogni giurisdizione del governo cessa,

il potere

esecutivo

è sospeso,

e

la

persona dell’ultimo dei cittadini è altrettanto sacra e inviolabile quanto quella del primo magistrato, perché dove si trova il rappresentato, non vi sono più rappresentanti *. La maggior parte dei tumulti che sorsero a Roma nei comizi provennero dall'avere ignorata o negletta questa regola. I consoli allora non erano che i presidenti del popolo; i tribuni semplicemente oratori *: il Senato non era nulla. Questi intervalli di sospensione, nei quali il principe riconosce o deve riconoscere un superiore in atto, sono starti per lui sempre temibili; e queste assemblee del popolo, che sono l'egida del corpo politico e il freno del governo, sono stati in ogni tempo l'orrore dei capi: così essi non risparmiano mai né cure, né obbiezioni, né difficoltà, né promesse, per disgustarne i cittadini. Quanin conflitto i consoli e i tribuni, giurisdizione fosse stata sospesa.

anche

se ogni

DEL

322 do

questi

siano

avari,

vili, pusillanimi,

più amanti della quiete che della libertà, non resistono a lungo contro gli sforzi raddoppiati del governo: così acca-

de che, aumentando continuamente la forza resistente, l'autorità sovrana alla

fine svanisce, e la maggior parte degli Stati cadono e periscono anzi tempo. no

Ma, fra l’autorità sovrana e il goverarbitrario, si introduce talvolta un

potere intermedio, parlare.

del

quale

bisogna

Capitolo XV DEI

DEPUTATI

O

RAPPRESENTANTI

Appena il servizio pubblico cessi di essere la cura principale dei cittadini, ed essi preferiscano servire di loro borsa

che di persona, lo Stato è già vicino alla rovina. Se si deve andare alla battaglia, pagan truppe mercenarie, e restano a casa;

se

si deve

andare

al consiglio,

nominano deputati e restano a casa. A forza di pigrizia e di danaro, essi hanno infine soldati per asservire la patria e rappresentanti per venderla. L’affaccendamento del commercio e delle arti, l'avido interesse del guadagno, la mollezza e l'amore delle comodità cambiano in danaro le prestazioni personali. Si cede una parte del proprio guadagno per aumentarlo a proprio agio. Date danaro e presto avrete catene. La parola finanza è una parola da schiavo; è sconosciuta nel vero Stato. In uno Stato veramente libero, i cittadini fanno tutto con le loro mani, e

nulla col danaro; lungi dal pagare per esentarsi dai loro doveri, essi pagherebbero per adempirli da se stessi. Io son lontano dalle idee comuni; credo le prestazioni obbligatorie meno contrarie alla libertà che le tasse ®9. Quanto meglio costituito sia lo Stato, tanto più gli affari pubblici predominano su quelli privati nello spirito dei cittadini. V'è anche molto minor numero di affari privati; perché, offrendo la somma di felicità comune una porzione più considerevole alla felicità di ciascun

individuo,

CONTRATTO

resta

a costui

SOCIALE

meno

da

cer-

carne nelle cure particolari. In uno Stato ben governato ciascuno vota alle assemblee; sotto un cattivo governo nessuno ha piacere di far un passo per recarvisi, perché nessuno prende interesse a ciò che vi si fa, e perché si prevede che la volontà generale non vi dominerà, e perché infine le cure domestiche assorbono per intiero. Le buone leggi ne fanno far di migliori, le cattive ne portano di peggiori. Appena qualcuno dica degli affari di Stato: « E che me ne importa? », si deve far conto che lo Stato sia perduto. L’intepidimento dell’amor di patria, l’attività dell’interesse privato, l’immensità degli Stati, le conquiste, l’abuso del

governo han fatto imaginare l’espediente dei deputati o rappresentanti del popolo nelle assemblee della nazione. È ciò che in certi paesi si osa chiamare il terzo Stato. Così gli interessi particolari di due ordini sono messi al primo e secondo posto: l'interesse pubblico non occupa il terzo. La sovranità non può essere rappresentata, per la ragione stessa che non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa, ovvero

è un'altra;

non c’è via di

mezzo *. I deputati del popolo non so‘no dunque, né possono essere, suoi rappresentanti; non sono che i suoi commissari: non possono concluder nulla in modo definitivo. Ogni legge, che il popolo in persona non abbia ratificata, è nulla; non è una legge. Il popolo inglese crede bensì di essere libero, ma si sbaglia di grosso; non è tale che durante l'elezione dei membri del Parlamento: appena questi siano eletti, esso è schiavo, non è più niente ®!. Nei brevi momenti della sua libertà, l'uso che

ne fa gli merita bene che la perda. L'idea della rappresentanza è moderna;

ci

viene

dal

governo

feudale,

da

questo iniquo ed assurdo governo, nel quale la specie umana è degradata, il nome di uomo è disonorato. Nelle antiche repubbliche, e anche nelle monarchie, il popolo non ebbe mai rappresen-

LIBRO TERZO

323

tanti, non si conosceva questa parola. È molto singolare che a Roma, dove i tribuni

erano

così

sacri,

nessuno

si sia

neppur imaginato che potessero usurpare le funzioni del popolo, e che, in mezzo a una così grande moltitudine, essi non abbiano mai tentato di omettere di testa loro un solo plebiscito. Si giudichi,

ciò nonostante,

l'imbarazzo

che

ca-

gionava talvolta la folla, da ciò che av-

venne al tempo dei Gracchi, in cui una parte dei cittadini dava il suo suffragio dai tetti. Dove

il diritto e la libertà sian tutto,

gli inconvenienti sono nulla. Presso quel saggio popolo, tutto era messo alla sua giusta misura; esso lasciava fare ai littori ciò che i suoi tribuni non avrebbero

osato fare;

non temeva che i suoi littori

volessero rappresentarlo. Per spiegare come i tribuni, ciò nonostante, lo rappresentassero qualche vol. ta, basta pensare come il governo rappresenti il sovrano. Se la legge non è che la dichiarazione della volontà generale, è chiaro che, nel potere legislativo, il popolo non possa essere rappresentato; ma può e deve esserlo nel potere esecutivo, che non è se non la forza applicata alla legge. Ciò dimostra che, esaminando bene le cose, si troverebbe che ben poche nazioni hanno vere leggi. Checché ne sia, è sicuro che i tribuni, non avendo alcuna parte del potere esecutivo, non poterono mai rappresentare il popolo romano per i diritti della loro carica, ma solo usurpando quelli del Senato. Presso i Greci, tutto ciò che il popolo doveva

fare,

lo

incessantemente

faceva

da

adunato

sé;

sulla

esso

era

piazza.

Abitava in un clima dolce, non eta avido; gli schiavi compivano i suoi lavori;

il suo gran da fare era la sua libertà. Non avendo più gli stessi vantaggi, co* Adottare, nei paesi freddi, il lusso e le mollezze degli Orientali, significa volersi dare le loro catene, sottomettervisi anzi più necessariamente di loro, ** Ciò che mi ero proposto di fare nel segui.

me conservare i medesimi diritti? I vostri climi più aspri vi danno maggiori bisogni *: sei mesi dell’anno non è possibile trattenersi sulla pubblica piazza, le vostre lingue sorde non possono farsi udire all'aria aperta; voi date più al vostro guadagno che alla vostra libertà, e temete molto meno la schiavitù che la miseria. E che! la libertà si mantiene soltanto con l'appoggio della servitù? Può essere. I due estremi si toccano. Tutto ciò che

non

è naturale,

ha i suoi inconvenienti,

e la società civile più che tutto il resto. Vi sono certe condizioni disgraziate, in cui non si può conservare la libertà propria che a scapito di quella altrui, e il cittadino non può essere perfettamente libero, se lo schiavo non sia estremamen-

te schiavo. Tale era la condizione di Sparta. Quanto a voi, popoli moderni, voi non

avete schiavi, ma

siete tali; voi

pagate la loro libertà con la vostra. Avete un bel vantare questa preferenza, io vi trovo più viltà che umanità.

Non intendo affatto, con tutto ciò, che occorra avere schiavi, né che il diritto

di schiavitù sia legittimo, anzi ho provato il contrario; dico solo le ragioni per le quali i popoli moderni, che si credono liberi, hanno rappresentanti, e perché i popoli antichi non ne avevano. Checché ne sia, dal momento che un popolo si dà dei rappresentanti, non è più libero; anzi non esiste più 2. ‘Tutto

bene

esaminato,

io

non

vedo

che ormai sia possibile al sovrano ® di conservare fra noi l'esercizio dei suoi diritti, se lo Stato non sia molto piccolo. Ma se è molto piccolo, non sarà soggiogato? No. Dimostrerò più oltre ** come si possa riunire la potenza estera di un gran popolo con la facile costituzione politica e il buon ordine di un piccolo Stato. to di questo lavoro, quando, nel trattare delle relazioni estere, sarei arrivato alle confederazioni. Materia completamente nuova, dove i principi sono ancora da stabilire 4

DEL

324

Capitolo XVI COME

L'ISTITUZIONE DI UN GOVERNO NON SIA UN CONTRATTO

Una volta bene istituito il potere legi-

slativo,

si tratta di istituire nello stesso

modo il potere esecutivo, perché quest’ultimo, che opera soltanto per atti particolari, non essendo della stessa essenza dell'altro, ne è naturalmente separato. Se fosse possibile che il sovrano considerato come tale, avesse la potestà esecutiva,

il diritto e il fatto

sarebbero

talmente confusi, che non si saprebbe più cosa sia legge e che cosa non sia, e il corpo politico, così snaturato, ben presto sarebbe in preda alla violenza, contro la quale fu istituito. Essendo i cittadini tutti uguali per

SOCIALE

Capitolo XVII

il contratto sociale, ciò che tutti debbono

fare, tutti possono prescriverlo, là dove nessuno ha il diritto di esigere che un altro faccia ciò che egli stesso non fa. Ora proprio questo diritto, indispensabile per far vivere e muovere il corpo politico, il sovrano dà al principe, isti. tuendo il governo. Parecchi hanno preteso che l’atto di questa istituzione fosse un contratto fra il popolo e i capi che esso si dà, contratto, per il quale si stipulerebbero fra le due parti le condizioni sotto le quali una s’obbligherebbe a comandare e l'al.

CONTRATTO

sarebbero fra loro sotto la legge di natuta, e senza alcuna garanzia dei loro reciproci impegni, ciò che ripugna in ogni modo allo stato civile; e poiché colui che ha la forza in mano è sempre padrone dell’esecuzione, tanto varrebbe dare il nome di contratto all’atto di un uomo che dicesse a un altro: « Io vi regalo tutto il mio avere, a condizione che voi me ne rendiate quel tanto che vi piacerà ». Non c’è che un contratto nello Stato: quello dell’associazione: e quello da solo ne esclude ogni altro. Non si potrebbe imaginare alcun contratto pubblico, che non fosse una violazione del primo.

DELL’ISTITUZIONE

DEL

GOVERNO

Sotto che idea si deve dunque concepire l’atto per il quale il governo viene istituito? Osserverò anzi tutto che

quest’atto

è complesso,

o composto

di

due altri, cioè: la istituzione della legge, e l'esecuzione di essa. Col

primo,

il sovrano

stabilisce

che

sicuro, che questa sia una strana maniera di contrattare. Ma vediamo un po’ se questa opinione sia sostenibile. In primo luogo, l’autorità suprema non può modificarsi più che non possa alienarsi: limitarla vuol dire distruggetla. È assurdo e contradittorio che il sovrano si dia un superiore; obbligarsi a obbedire a un padrone, vuol dire rimettersi in piena libertà. Di più, è evidente che questo contratto del popolo con tali o tali altre persone sarebbe un atto particolare; dal che segue che questo contratto non potrebbe essere una legge né un atto di

vi sarà un corpo di governo stabilito sotto tale o tal’altra forma: è chiaro che quest’atto è una legge. Col secondo, il popolo nomina i capi che saranno incaricati dal governo istituito. Ora questa nomina, essendo un atto particolare, non è una seconda legge, ma solo una conseguenza della prima e una funzione del governo. La difficoltà sta nell’intendere come si possa avere un atto di governo prima che il governo esista, e come il popolo, che non è che sovrano o suddito, possa diventare principe o magistrato in certe circostanze. Qui si scopre ancora una di quelle mirabili proprietà del corpo politico, per le quali esso concilia operazioni contradittorie in apparenza; ché questa si genera per una conversione subitanea della sovranità in democrazia, in modo

be illegittimo. Si vede ancora che le parti contraenti

e solo per mezzo di una nuova relazione di tutti a tutti, i cittadini, divenuti ma-

tra

a obbedire.

sovranità,

e che

Si converrà,

per

ne

conseguenza

sono

sareb-

che,

senza

alcun

cambiamento

sensibile,

LIBRO

325

TERZO

gistrati, passano dagli atti generali agli atti particolari, e dalla legge all'esecuzione. Questo

cambiamento

di relazione non

è una sottigliezza speculativa, senza esempio nella pratica; ha luogo tutti i giorni nel Parlamento inglese, dove la Camera

Bassa,

in certe occasioni,

si tra-

sforma in grande comitato, per discutere meglio gli affari, e diventa così semplice commissione, di corte sovrana che era nel momento

anteriore;

essa fa poi rapporto Camera

dei

Comuni,

in modo che

a se stessa, come di

ciò

che

abbia

pur allora regolato in grande comitato,

e delibera

di nuovo,

sotto un

titolo, di

ciò che abbia di già risoluto sotto un altro. Tale è il vantaggio proprio del governo democratico, di poter essere stabilito di fatto per un semplice atto della volontà generale. Dopo il quale, questo

governo provvisorio resta in possesso, se

quella sia la forma adottata, o stabilisce a nome del sovrano il governo prescritto dalla legge; e tutto così si trova in regola. Non è possibile istituire il governo in nessun altro modo legittimo e senza rinunciare ai principi stabiliti qui innanzi.

MEZZI PER PREVENIRE USURPAZIONI DEL GOVERNO

Da questi schiarimenti risulta, a conferma del capitolo XVI, che l'atto che istituisce il governo non è un contratto ma una legge; che i depositari della podestà esecutiva non sono affatto i padroni del popolo, ma i suoi ufficiali ”; che esso può istituirli o destituirli quando gli piaccia; che per essi non è questione di contrattare, ma di obbedire; e che,

incaricandosi

delle

funzioni

una forma provvisoria che dà all’amministrazione, fintanto che non gli piaccia di disporre diversamente. Vero è che questi cambiamenti sono sempre pericolosi, e che non bisogna mai toccare il governo stabilito, se non quando diventi incompatibile col bene pubblico; ma tale circospezione è una massima di politica, non una regola di diritto;

che

lo

Stato impone loro, essi non fanno che compiere il loro dovere di cittadini, senza avere in alcun modo il diritto di discutere sulle condizioni. . Quando dunque accada che il popolo istituisca un governo ereditario, sia mo-

e lo Stato

non

è tenuto a lasciar

l'autorità civile ai suoi capi, più che a lasciare l'autorità militare ai suoi generali. È anche vero che non si saprebbero mai,

in simile

caso, osservare

con

trop-

pa cura tutte le formalità richieste, per distinguere un atto regolare e legittimo da un tumulto

sedizioso, e la volontà di

tutto un popolo dai clamori di una fazione. Qui sopratutto non bisogna attribuire al caso odioso se non ciò che non si possa rifiutargli in tutto il rigore del diritto; e da quest'obbligo pure il principe trae grande vantaggio per conservare il suo potere contro il volere del popolo, senza che si possa dire che l’abbia usurpato; ché facendo le viste di usare solo dei suoi diritti, gli è assai facile

Capitolo XVIII LE

narchico in una famiglia, sia aristocratico in un ordine di cittadini, non è affatto un impegno che esso prende; è

di

estenderli,

e

d’impedire,

col

pretesto della pace pubblica, le assemblee destinate a ristabilire il buon ordine: in modo che egli si prevale di un silenzio che egli stesso impedisce di rompere, o delle irregolarità che fa commettere, per supporre in suo favore il consenso di quelli che la paura fa tacere, e per punire quelli che osino parlare. Così appunto i decemviri, essendo stati prima eletti per un anno, poi confermati per un altro, tentarono di conservarsi in perpetuo il loro potere, non permettendo più ai comizi di adunarsi;

e con que-

sto facile mezzo tutti i governi del mondo, una volta investiti della forza pubblica usurpano prima o poi l'autorità sovrana. Le assemblee periodiche, delle quali ho parlato innanzi, sono atte a prevenire o a differire questa disgrazia, specie quando non abbiano bisogno di con-

326

DEL

vocazione formale; perché allora il principe non potrebbe impedirle, senza dichiararsi apertamente violatore delle leggi e nemico dello Stato. L’apertura di queste assemblee, che hanno per solo oggetto la conservazione del contratto sociale, deve sempre farsi per mezzo di due proposizioni, che non si possano mai sopprimere, e che passino separatamente per i suffragi. La prima: «se piaccia al sovrano di conservare la presente forma di governo ». La seconda: « se piaccia al popolo di lasciarne l'amministrazione a quelli che ne sono incaricati attualmente ». To suppongo qui ciò che credo di aver dimostrato,

cioè

che

non

vi

sia

nello

Stato alcuna legge fondamentale, che non si possa revocare, neanche il patto sociale 9; perché, se tutti i cittadini si adunassero per rompere questo patto di comune accordo, non si potrebbe dubitare che non fosse rotto con piena legittimità. Grozio pensa anche che ciascuno possa rinunciare allo Stato di cui è membro, e riprendere la sua libertà naturale e i suoi beni uscendo dal paese *. Ora sarebbe assurdo che tutti i cittadini riuniti non potessero ciò che potrebbe separatamente ciascuno di essi. FINE

DEL

LIBRO

LIBRO

TERZO

CONTRATTO

SOCIALE

trici dello Stato sono vigorose e semplici, le sue massime chiare e luminose; non vi sono interessi imbrogliati, contradittori;

il

bene

zioni,

si

rendono

comune

si

mostra

da per tutto con evidenza, e non richiede che buon senso per essere scorto. La pace, l'unione, l'uguaglianza sono nemiche delle sottigliezze politiche. Gli uomini retti e semplici sono difficili a ingannare a cagione della loro semplicità; le lusinghe, i pretesti raffinati non hanno presa su di loro; essi non sono neanche abbastanza fini per essete vittime di un inganno. Quando vediamo, presso il più felice popolo del mondo ”°, masse di contadini regolare gli affari di Stato sotto una quercia, e condursi sempre saggiamente, possiam forse impedirci di disprezzare le raffinatezze delle altre nache

illustri

e misere

con tanta arte e tanti misteri? Uno Stato, governato così, ha bisogno di ben poche leggi; a misura che diventi necessario promulgarne di nuove, questa necessità si vede universalmente. Il primo che le proponga, non fa che dire ciò che tutti han già sentito; e non è questione di brighe o di eloquenza per far passare in legge ciò che ciascuno abbia già risoluto di fare, appena sia sicuro che gli altri lo faranno al par di lui. Ciò che inganna i ragionatori è che, non vedendo se non Stati male costituiti sin dalla loro origine, sono colpiti dall’impossibilità di mantenervi una tale

costituzione; essi ridono, imaginando tut-

QUARTO

alla comune conservazione e al benessere generale. Allora tutte le forze mo-

te le sciocchezze con cui un abile briccone, un parlatore insinuante potrebbe persuadere il popolo di Parigi o di Londra. Non sanno che Cromwell sarebbe stato messo alla berlina dal popolo di Berna e il duca di Beaufort alla flagellazione dai Ginevrini. Ma quando il nodo sociale cominci a rilasciarsi e lo Stato a indebolirsi, quando gli interessi particolari comincino a farsi sentire e le piccole società a pesare sopra la grande, l’interesse comune sì altera e trova oppositori; l’unanimità

* Beninteso che non lo si lasci per eludere il proprio dovere e dispensarsi dal servir la patria nel momento che ella abbia bisogno di

noi. La fuga allora sarebbe criminosa e degna di pena, e non sarebbe più ritiro, ma diserzione.

Capitolo I CHE

LA VOLONTÀ GENERALE È INDISTRUTTIBILE

Finché parecchi uomini riuniti si considerano come un solo corpo, non hanno

che

una

sola

volontà,

che

si

riferisce

LIBRO QUARTO

327

non regna più nei voti; la volontà generale non è più volontà di tutti; si solle-

vano

contradizioni, contese;

e il miglior

consiglio non passa senza dispute. Infine quando lo Stato, prossimo alla sua rovina, non sussista più che qual forma illusoria e vana, quando il vincolo sociale sia spezzato in tutti i cuori, quando il più vile interesse si adorni spontaneamente del nome sacro del bene pubblico; allora la volontà generale diventa muta; tutti, guidati da motivi segreti, non pensano in qualità di cittadini, più che se lo Stato neppur fosse mai esisti. to; e si fan passare falsamente, sotto il nome di leggi, decreti iniqui, che non hanno per fine se non l'interesse particolare. Deriva forse da ciò che la volontà generale sia annientata o corrotta? No: essa è sempre costante, inalterabile e pura; ma è subordinata ad altre, che la soverchiano.

Ciascuno,

distaccando

il

fortemente

di

proprio interesse dall’interesse comune, vede bene che non può separarnelo del tutto; ma la sua parte di male pubblico gli sembra nulla, in confronto del bene esclusivo che pretende appropriarsi. Tolto di mezzo questo bene particolare, egli pure vuole il bene generale per suo proprio interesse,

non

meno

qualsiasi altro. Anche vendendo il suo soffragio a prezzo di danaro, egli non spegne in sé la volontà generale; solo l’elude. L’errore che commette sta nel cambiare la posizione della domanda e nel rispondere una cosa diversa da ciò che

gli si chiede:

in

modo

che,

invece

di dire, col suo suffragio: « È vantaggioso per lo Stato », egli dice: « È vantaggioso per quel tale individuo o per quel tal partito, che tale o tal altra decisione passi » Così la legge dell’ordine pubblico nelle assemblee non è tanto di mantenervi la volontà generale, quanto di fare che sia sempre interrogata e che risponda sempre. Avrei da fare qui molte riflessioni sul semplice diritto di votare in ogni atto di sovranità, diritto che nulla può togliere ai cittadini; e su quelli di opinare, di proporre, di distinguere, di discutere che il governo ha sempre gran

cura di non lasciare che ai propri membri: ma questo importante argomento esigerebbe un trattato a parte, ed io non posso dir tutto in questo. Capitolo II DEI

SUFFRAGI

Si vede, dal capitolo precedente, che il modo in cui si trattano gli affari generali può dare un indizio abbastanza sicuro dello stato attuale dei costumi e della salute del corpo politico. Più l'armonia regna nelle assemblee, cioè più i pareri si avvicinano all’unanimità, più anche la volontà generale è dominante; ma

le lunghe

contese,

i dissensi,

il tu-

multo annunziano la preponderanza degli interessi particolari e la decadenza dello Stato. Questo appare con minore evidenza quando due o più ordini entrino nella sua costituzione, come a Roma i patrizi e i plebei, le cui contese turbarono spesso i comizi, anche nei più bei tempi della repubblica: ma questa eccezione è più apparente che reale; perché allora, per il vizio inerente al corpo politico, si hanno, per così

dire, due

Stati

in uno;

ciò

che non è vero dei due presi insieme, è vero di ciascuno separatamente. E infatti, anche nei tempi più tempestosi, i plebisciti del popolo, quando il Senato non se ne immischiava, si compivano sempre tranquillamente, e a grandi maggioranze di suffragi; poiché i cittadini non avevano che un interesse, il popolo non aveva che una volontà. All'altra estremità del circolo ritorna

l’unanimità:

cioè quando i cittadini,

caduti nella servitù, non hanno più né libertà né volontà. Allora il timore e l’adulazione cambiano i suffragi in acclamazioni; non si delibera più, si adora o si maledice. Tale era la maniera vile di manifestar le opinioni tenuta dal Senato, sotto gli imperatori. Talvolta ciò si faceva con ridicole precauzioni. Tacito

osserva ?! che,

sotto

Ortone,

i senatori,

nel coprir Vitellio di esecrazioni, nello stesso tempo cercavano di fare un bac-

328 cano

DEL spaventevolè,

affinché,

se per caso

fosse divenuto lui padrone, non avesse potuto sapere ciò che ciascuno di loro aveva detto. Da queste diverse considerazioni nascono le norme sulle quali si deve regolare la maniera di contare i voti e di confrontar le opinioni, secondo che la volontà generale sia più o meno facilmente conoscibile, e lo Stato più o meno

sul declinare.

°

Non vi è che una sola legge che, per sua natura, esiga un consenso unanime; ed è il patto sociale; ché l’associazione civile è l’atto più volontario del mondo:

essendo ogni uomo nato libero e padrone di se stesso, nessuno può, sotto qualsiasi pretesto, assoggettarlo senza il suo consenso ?2. Decidere che il figlio di una schiava

nasca

schiavo,

vuol

dere che non nasca uomo.

Se, dunque, al momento

dire

deci-

del patto so-

ciale, si trovino oppositori, la loro opposizione non invalida il contratto; impedisce solo che essi vi siano compresi; sono

stranieri

fra

i cittadini.

Quando

poi lo Stato sia istituito, il consenso consiste nella residenza: abitare il territorio vuol dire sottomettersi alla sovranità #. All’infuori di questo contratto primitivo, la decisione della maggioranza obbliga sempre gli altri; è una conseguenza del contratto stesso. Ma si domanda come possa un uomo essere libero e costretto a conformarsi a volontà che non siano le sue. Come sarebbero gli oppositori liberi e sottomessi a leggi, alle quali non abbian consentito? Rispondo che la questione è posta male, Il cittadino consente a tutte le leggi, anche a quelle che sian passate contro il suo volere, e anche a quelle che lo puniscono quando osi violarne qualcuna. La volontà costante di tutti i membri dello Stato è la volontà generale; * Questo deve sempre intendersi di uno Stato libero, perché del resto la famiglia, gli averi, la mancanza di asilo, la necessità, la violenza possono trattenere un abitante nel paese suo malgrado; e allora il suo soggiorno da solo non implica più il suo consenso al contratto o alla violazione del contratto.

CONTRATTO

SOCIALE

per mezzo di questa essi sono cittadini e liberi **. Quando si propone una legpe nell'assemblea del popolo, ciò che si domanda loro non è precisamente se approvino la proposta o se la respingano, ma se essa sia conforme o no alla volontà generale, che è la loro: ciascuno, dando il suo suffragio, esprime la sua opinione su tale questione, e dal calcolo dei voti si trac la dichiarazione della volontà generale. Quando dunque l'opinione contraria alla mia risulti prevalente, ciò non prova altro se non che io mi ero sbagliato, e che ciò che stimavo fosse la volontà generale, non era tale. Se la mia opinione particolare avesse prevalso, io avrei fatto qualcosa di diverso da ciò

che

avrei

rale,

ho

voluto;

allora,

sì,

non

sarei

stato libero. Ciò suppone pure, è vero, che tutti i caratteri della volontà generale siano ancora presenti nella maggioranza: quando cessino di esservi, qualsiasi partito si prenda, non vi è più libertà ?3. Nel mostrare innanzi come potessero nelle deliberazioni pubbliche sostituirsi volontà particolari alla volontà geneindicato

a

sufficienza

i mezzi

utili a prevenire tale abuso; e ne parlerò ancora più avanti. Riguardo al numero proporzionale di suffragi, necessario per dichiarare questa volontà, ho pure esposto i principi, in base ai quali si può determinarlo. La differenza anche di un solo voto rompe l'uguaglianza: un solo oppositore spezza l'unanimità; ma fra l’unanimità e l'uguaglianza vi sono parecchie ripartizioni numeriche disuguali, a ciascuna delle quali si può fissare questo numero, a seconda delle condizioni e dei bisogni del corpo politico. Due massime generali possono servire a regolare questi rapporti: una, che più le deliberazioni siano importanti e gravi, più l'opinione preponderante deve

accostarsi

** A Genova

all'unanimità:

l’altra, che,

si legge davanti alle prigioni

e sui ferri dei galeotti la parola Libertas. Questa applicazione del motto è bella e giusta. Infatti, non vi sono che i malfattori di tutti gli Stati che impediscano al cittadino di essere libero. In un paese dove tutta quella gente fosse

in galera, si godrebbe della più perfetta libertà.

LIBRO QUARTO

329

più l'affare dibattuto esiga rapidità, più si deve restringere la differenza prescritta nella ripartizione delle opinioni: nelle deliberazioni che bisogna conchiuder sull’istante deve bastare l'eccedenza di un sol voto. La prima di queste massime sembra convenir meglio alle leggi, e la seconda agli affari. Checché ne sia, sulla loro combinazione appunto si stabiliscono le più giuste proporzioni numeriche, da attribuirsi alla maggioranza perché possa decretare.

tura, vano

Capitolo III DELLE

dei

Riguardo

ELEZIONI

alle elezioni del principe e

magistrati,

che

sono,

come

ho

det-

to *, atti complessi, vi sono due vie per procedervi, cioè la scelta e la sorte. L'una e l’altra sono state adoperate in diverse repubbliche, e si vede ancora attualmente un miscuglio molto complicato delle due nell’elezione del doge di Venezia. « L’elezione per via della sorte, dice Montesquieu 5, è nella natura della democrazia ». Ne convengo, ma come? « La sorte, egli prosegue, è un modo di eleggere che non affligge nessuno; lascia a ogni cittadino una ragionevole speranza di servir la patria ». Queste non sono ragioni.

Se si pon mente a ciò, che l'elezione dei capi è una funzione del governo, e non

della

sovranità,

si vedrà

perché

la

l’amministrazione

è

via della sorte sia più nella natura della democrazia,

dove

tanto migliore, quanto meno gli atti ne siano moltiplicati. In ogni vera democrazia la magistratura non è un vantaggio, ma un carico oneroso, che non si può giustamente imporre a un individuo piuttosto che a un altro. La legge sola può imporre questo carico a colui sul quale cadrà la sorte.

Perché

guale

allora,

per

scelta da

essendo

tutti,

alcuna

e non

volontà

Nell'aristocrazia il principe sceglie il principe, il governo si conserva da sé, ed ivi i suffragi sono bene collocati. L'esempio dell'elezione del doge di Venezia conferma questa distinzione, lungi dal distruggerla: questa forma mista conviene a un governo misto. Perché è un errore prendere il governo di Venezia pet un vera aristocrazia. Se il popolo non vi ha parte alcuna nel governo, la nobiltà vi è essa stessa popolo. Una moltitudine di poveri Barnabotti non si accostò mai a nessuna magistra-

la condizione

dipendendo

umana,

non

u-

la

vi

è applicazione particolare che alteri l’universalità della legge.

e non titolo

ha della sua nobiltà che il di Eccellenza, e il diritto

di assistere al Gran Consiglio. Essendo questo Gran Consiglio tanto numeroso, quanto il nostro Consiglio Generale a Ginevra, i suoi illustri membri

non han-

no maggiori privilegi che i nostri semplici cittadini. È certo che, prescindendo dall'estrema disparità delle due repubbliche, la borghesia di Ginevra rappresenta esattamente il patriziato veneziano;

i nostri nativi

e i nostri

abitanti

rappresentano i cittadini e il popolo di Venezia; i nostri contadini rappresentano i sudditi

di terra ferma;

inconvenienti

in

Eine,

in

qualsiasi modo si consideri questa repubblica, fatta astrazione dalla sua grandezza, il suo governo non è più aristocratico del nostro. Tutta la differenza è che, non avendo alcun capo eletto a vita, noi non abbiamo lo stesso bisogno della sorte. Le elezioni a sorte avrebbero pochi una

vera

democrazia,

dove, essendo tutto uguale, sia quanto ai costumi e alle capacità, sia quanto alle massime

e alla

fortuna,

la scelta

di-

venterebbe quasi indifferente. Ma ho già detto * che non esistono vere democrazie. Quando

la scelta e la sorte si trovino

frammiste, la prima deve coprire posti che esigano capacità particolari, come gli uffici militari: l’altra conviene a quelli dove

bastino

il buon

senso,

la giusti-

ben

costituito,

zia, l'integrità, come gli uffici di giudi-

ci;

perché,

in uno

Stato

queste qualità sono comuni a tutti i cittadini. Né la sorte né i suffragi hanno alcun

DEL

330 posto nel governo monarchico. Essendo il monarca, di diritto, solo principe e magistrato unico, la scelta dei suoi luogotenenti appartiene solo a lui. Quando l'abate di Saint-Pierre” proponeva di moltiplicare i consigli del re di Francia e di eleggerne i membri per via di scrutinio, non vedeva che proponeva di cambiar la forma di governo. Mi resterebbe a parlare del modo di dare e di raccogliere i voti nell’assemblea del popolo; ma forse la storia della costituzione politica romana a questo riguardo spiegherà con maggior evidenza tutte le massime che io potrei stabilire. Non è indegno di un lettore giudizioso vedere un po’ in particolare come si trattassero gli affari pubblici e privati in un consiglio di duecentomila uomini. Capitolo IV DEI COMIZI

ROMANI 7

Noi non abbiamo nessun documento ben sicuro dei primi tempi di Roma; vi è anzi grande probabilità che la maggior

parte delle cose, che se ne raccontano, sian favole*; e, in generale, la parte

più istruttiva degli annali dei popoli, che è la storia del loro costituirsi, è quella che più ci manca. L'esperienza c’insegna ogni giorno da quali cause nascono le rivoluzioni degli impeti; ma, poiché ora non si forma più nessun popolo, noi non possiamo fare che ipotesi, per spiegarci come si siano formati. Le usanze che si trovano stabilite attestano almeno che vi fu un'origine di questi usi. Delle tradizioni che risalgono a queste origini quelle cui più grandi autorità diano appoggio e più forti ragioni diano conferma devono esser ritenute più certe, Ecco le massime che mi son studiato di seguire nel ricercare come il più libero e il più potente popolo della terra esercitasse il suo potere supremo. * Il nome

Roma,

che

si pretende

venga

da

Romulus, è greco e significa forza; il nome Numa

è anche

greco

e significa

/egge.

Che

verisi-

miglianza c'è che i due primi re di questa città abbiano portato già da prima nomi così bene in

CONTRATTO

SOCIALE

Dopo la fondazione di Roma, la repubblica nascente, cioè l'esercito del fondatore, composto

di Albani,

di Sabini e

di stranieri, fu diviso in tre classi, che da questa divisione presero il nome di tribù, Ciascuna di queste tribù fu sud. divisa in dieci curie e ogni curia in decurie, alla testa delle quali si misero capi, chiamati curioni e decurioni. Oltre a ciò, da ciascuna tribù si trasse

un corpo di cento cavalieri o cavalleggeri, chiamato

centuria;

dal che si vede

che tali divisioni, poco necessarie in una borgata, non erano dapprima che militari. Ma sembra che un istinto di grandezza portasse la piccola città di Roma a darsi in anticipo una costituzione conveniente alla capitale del mondo. Da questa prima divisione risultò ben presto un inconveniente; cioè, restando a tribù degli Albani ** e quella dei Sabini *** sempre nel medesimo stato, mentre quella degli stranieri **** cresceva senza posa per la continua affluenza di costoro, quest’ultima non tardò a sorpassare le altre due. Il rimedio che Servio trovò a questo abuso pericoloso fu di cambiare la divisione; e a quella delle razze, che egli abolì, sostituirne un'al. tra, tratta dai luoghi della città, occupati

da ciascuna tribù. Invece di tre tribù ne fece quattro, ciascuna delle quali occupava una delle colline di Roma e ne portava il nome. Così, rimediando alla disuguaglianza presente, la prevenne anche per l'avvenire; e affinché questa divisione non fosse solo di luoghi, ma d’uomini, egli proibì agli abitanti di un quartiere di passare in un altro, ciò che impedì alle razze di confondersi. Egli raddoppiò anche le tre antiche centurie di cavalleria, e ve ne aggiunse altre dodici, ma sempre sotto gli antichi nomi;

mezzo

semplice

e

giudizioso,

col

quale finì di distinguere il corpo dei cavalieri da quello del popolo, senza far mormorare quest'ultimo. relazione con ciò che poi hanno fatto? ** Rantnenses. we* Tatienses. wuwk Luceres.

LIBRO

QUARTO

A queste

quattro

331 tribù

vio ne aggiunse quindici

urbane,

Ser-

altre, chiamate

v'è, durante tutta la repubblica, un solo esempio di alcuno di questi affrancati pervenuto ad alcuna magistratura, benché divenuto cittadino.

tribù rustiche, perché erano formate dagli abitanti della campagna, divisi in altrettanti cantoni. In seguito se ne fecero altrettante di nuove; e il popolo romano si trovò infine diviso in trentacinque tribù, nel quale numero esse restarono fissate sino alla fine della repubblica. Da questa distinzione di tribù di città e tribù di campagna, risultò un effetto degno di nota, perché non ve n'è altro esempio, e perché Roma le dovette a un tempo la conservazione dei suoi costumi e l'accrescimento del suo impero. Si potrebbe credere che le tribù urbane si arrogassero la potenza e gli onori, e non tardassero ad avvilire le tribù rustiche: avvenne invece tutto il contrario. È nota la inclinazione dei primi Romani alla vita campestre. Questa inclinazione veniva loro dal saggio istitutore, che unì

so nella costituzione politica. In primo luogo i censori, dopo essersi arrogato per lungo tempo il diritto di trasferire arbitrariamente i cittadini da una tribù all’altra, permisero alla maggior parte di essi di farsi iscrivere in quella che piacesse loro; permesso che certamente non era buono a nulla e toglieva una delle più grandi forze alla censura. Di più, siccome i grandi e i potenti si facevano iscrivere tutti nelle tribù di campagna, e gli affrancati diventati cittadini restavano con la plebaglia in quelle di città, le tribù in generale non ebbero più né luogo né

legò, per così dire, in città le arti, i mestieri, l’intrigo, la fortuna e la schiavitù. Così, poiché quanto Roma aveva d’illustre viveva nei campi e coltivava le

mente frammiste, che non si potevano più discernere i membri di ciascuna che dai registri; in modo che il significato della parola tribù passò così dalle cose

che là i sostegni della repubblica. Questo stato, essendo quello dei più degni patrizi, fu onorato da tutti; la vita semplice e laboriosa dei villici fu preferita alla vita oziosa e molle dei borghesi di

una chimera. Avvenne ancora che le tribù della città, essendo più a portata di mano, si trovarono spesso a essere le più forti nei comizi, e vendettero lo Stato a quelli che si degnavano di comprare i suffragi della canaglia che le componeva. Riguardo alle curie, poiché colui che le istituì ne aveva fatte dieci in ogni tri-

alla libertà i lavori rustici e militari, e re-

terre, si formò

Roma;

l'abitudine a non cercare

e colui che non sarebbe stato che

un disgraziato proletario in città, divenne agricoltore nei campi, un cittadino rispettato. Non senza ragione, diceva Varrone ”, i nostri magnanimi antenati stabilirono nel villaggio il vivaio di quegli uomini robusti e valenti, che li difendevano in tempo di guerra.e li nutrivano in tempo di pace. Plinio® dice positivamente che le tribù dei campi erano onorate a cagion degli uomini che le componevano; là dove si trasferivano per ignominia in quelle della città i codardi che si volevano avvilire. Il Sabino Appio Claudio, venuto a stabilirsi a Roma,

vi fu colmato

di onori e iscrit-

to in una tribù rustica, che prese in seguito il nome della sua famiglia. Infine gli affrancati entravano tutti nelle tribù urbane, mai nelle rurali; e non

Questa

massima

era eccellente;

ma fu

spinta tanto lungi, che ne risultò infine un

cambiamento,

territorio,

ma

e certamente

si

trovarono

un

abu-

tutte

tal-

alle persone, o, piuttosto, divenne quasi

bù,

tutto

il popolo

romano,

allora

rin-

chiuso entro le mura della città, si trovò composto di trenta curie, di cui ciascuna aveva i suoi templi, i suoi dei, i suoi ufficiali, i suoi sacerdoti e le sue feste,

chiamate compitalia, simili ai paganalia, che ebbero in seguito le tribù rustiche. Alla

nuova

divisione

di

Servio,

non

potendo questo numero di trenta esser ripartito ugualmente nelle sue quattro tribù, egli non volle toccarlo;

e le curie

indipendenti dalle tribù divennero un’altra ‘divisione degli abitanti di Roma: ma non si parlò di curie né nelle tribù rustiche né nel popolo che le componeva, perché, essendo le tribù diventate

332

DEL

un'istituzione puramente civile, ed essendo stato introdotto un altro ordinamento per la leva delle truppe, le divisioni militari di Romolo si trovarono superflue, così, benché ogni cittadino fosse

iscritto

in

una

tribù,

si

era

ben

lontani da che ciascuno lo fosse in una curia. Servio fece ancora una terza divisione, che non aveva alcun rapporto con le

CONTRATTO

SOCIALE

divisione di giovani e di vecchi, fu che non si accordava alla plebaglia, di cuì essa

era

composta,

armi per la colari, per derli; e, di di pezzenti,

l’onore

di portar

le

patria; occorreva avere foottenere il diritto di difenquelle innumerevoli truppe di cui brillano oggi gli eser-

citi dei re, non ve n'è forse neanche uno, che non sarebbe stato cacciato con

effetti, la più importante di tutte. Egli distribuì tutto il popolo romano in sei classi, che non distinse né dal luogo né

disdegno da una coorte romana, quando i soldati erano i difensori della libertà. Si distinsero pertanto ancora, nell’ultima classe, i proletari da quelli che si chiamavano capite censi. Ì primi, non

le ultime dai poveri, e le medie da quelli che godevano di una mediocre fortuna.

soldati, nell’urgenza del bisogno. Quanto a quelli che non avevano nulla af-

due

precedenti,

e divenne,

per

i suoi

dagli uomini, ma dai beni; in modo che le prime classi erano formate dai ricchi, Queste sei classi erano suddivise in cen-

ridotti a nulla del tutto, davano almeno cittadini allo Stato, qualche volta anche fatto,

e che

non

potevano

venir

censiti

tonovantatré altri corpi, chiamati centurie; e questi corpi erano distribuiti in modo che la prima classe da sola ne comprendesse più della metà, e l'ultima non ne formasse che una sola. Avvenne così che la classe meno numerosa di uomini era più numerosa di centurie, e che l'ultima classe intera non era contata che per una suddivisione, per quan! » contenesse da sola più della metà degli abitanti di Roma. Affinché il popolo penetrasse meno le conseguenze di quest'ultima forma, Servio affettò di darle un'aria militare: inserì nella seconda classe due centurie di armaiuoli, e due di istrumenti di guer-

che per teste, erano considerati come nulla addirittura, e Mario fu il primo che degnasse di arruolarli. Senza decider qui se questo terzo censimento fosse buono o cattivo per se stesso, credo di poter affermare che non vi fossero se non i costumi semplici dei primi Romani, il loro disinteresse, la loro inclinazione verso l'agricoltura, il loro disprezzo per il commercio e per l’ardore del guadagno, che potessero renderlo praticabile. Dove è il popolo moderno, presso il quale la divorante avidità, lo spirito inquieto, l’intrigo, i continui spostamenti, gli incessanti rivolgimenti di fortuna possano lasciar

tuata l'ultima, distinse i giovani e i vecchi, cioè quelli che erano obbligati a portare le armi, e quelli he, per la loro età, ne erano esentati dalle leggi; distinzione che, più che quella dei beni, produsse la necessità di ricominciare

senza sconvolgere tutto lo Stato? Bisogna anche metter bene in luce che i costumi e la censura, più forti di questa

ra nella quarta;

spesso

in ciascuna classe, eccet-

il censimento

o numerazione;

in-

fine volle che l'assemblea si tenesse al campo di Marte, e che tutti quelli che fossero in età di prestare servizio vi venissero con le armi. La ragione per la quale egli non seguì nell'ultima classe questa medesima * Dico adunavano

al Campo i comizi

di per

Marte, perché là si centurie: nelle altre

due forme il popolo si adunava al forum o al-

durare

vent'anni

una

tale

istituzione,

istituzione, ne corressero il vizio a Roma, e che qualche ricco si vide relegato

nella classe dei poveri, per aver messo troppo in mostra la sua ricchezza. Da tutto ciò si può capir facilmente perché non si faccia quasi mai menzione che di cinque classi, per quanto in realtà ve ne

fossero

sei, La

sesta, che

non

forniva né soldati all'esercito né votanti al campo di Marte* e che non aveva

trove; e allora i capite censi avevano altrettanta influenza e autorità dei primi cittadini.

LIBRO

333

QUARTO

quasi mai funzione alcuna nella repubblica, era raramente contata per qualche cosa. Tali furono le diverse divisioni del popolo romano. Vediamo ora l’effetto che producevano nelle assemblee. Queste assemblee, legittimamente convoca-

l'Europa era regolata nelle sue assemblee. Tale varietà di oggetti dava luogo alle diverse forme che assumevano queste assemblee, secondo gli argomenti sui quali il popolo dovesse pronunciarsi. Per giudicare di queste diverse forme, basta paragonarle. Romolo, istituen-

dinariamente nella piazza di Roma o al campo di Marte, e si distinguevano in comizi per curie, comizi per centurie e comizi per tribù, secondo che fossero ordinati nell’una o nell’altra di queste tre forme.I comizi curiati erano istituzioni di Romolo, quelli centuriati di Servio, quelli tributi dei tribuni del popolo. Nessuna legge riceveva sanzione, nessun magistrato era eletto se non nei

il Senato per mezzo del popolo e il popolo per mezzo del Senato, dominando ugualmente su tutti. Diede dunque al popolo, con questa forma, tutta l’autorità del numero, per bilanciare quella della potenza e delle ricchezze, che la-

te, si chiamavano comizi;

si tenevano or-

comizi; e come non c’era alcun cittadino che non fosse iscritto in una curia, in una centuria o in una tribù, ne conse-

gue che nessun cittadino era escluso dal diritto di suffragio, e che il popolo romano era veramente sovrano di diritto e di fatto. Perché i comizi fossero legittimamente adunati e ciò che vi si faceva avesse forma di legge, occorrevano tre condizioni: la prima, che il corpo o il magistrato che li convocava fosse rivestito dell'autorità a ciò necessaria; seconda, che l'assemblea si facesse

la in

uno dei giorni permessi dalla legge; la terza, che gli auguri fossero favorevoli. La ragione della prima regola non ha bisogno di essere spiegata; la seconda è un affare di costituzione politica; così non era permesso di tenere i comizi in giorni di festa o di mercato, in cui la gente di campagna, che veniva a Roma per i suoi affari, non aveva il tempo di passar la giornata sulla pubblica piazza. Per

mezzo

della

terza,

il Senato

te-

neva in freno un popolo fiero e irrequieto, e temperava a proposito l’ardore dei

tribuni

sediziosi;

ma

questi

trova-

rono più di un mezzo per liberarsi da simile impaccio. Le leggi e la elezione dei capi non erano i soli punti sottoposti al giudizio dei comizi: avendo il popolo romano usurpato le più importanti funzioni del governo, si può dire che la sorte del-

do

le curie,

aveva

sciava ai patrizi.

in mira

Ma,

di infrenare

secondo

lo spirito

della monarchia, egli lasciò tuttavia più vantaggi ai patrizi, per mezzo dell’influsso dei loro clienti sulla pluralità dei suffragi. Questa mirabile istituzione dei patroni e dei clienti fu un capolavoro di politica e d’umanità, senza il quale il patriziato, così contrario allo spirito della repubblica, non avrebbe potuto sussistere. Roma sola ha avuto l’onore di dare al mondo questo bell'esempio, dal quale non risultarono mai abusi, e che tuttavia non è mai stato seguito. ma

Essendo rimasta questa medesima fordelle curie

sotto

i re fino a Servio,

e non essendo contato come legittimo il regno dell’ultimo Tarquinio, ciò fece distinguere generalmente le leggi regie col nome di /eges curiatae. Sotto la repubblica, le curie, sempre limitate alle quattro tribù urbane, e non contenenti più che la plebaglia di Roma, non potevano convenire né al Senato, che era a capo dei patrizi, né ai tri-

buni, i quali, per quanto plebei, erano a capo dei cittadini agiati. Caddero dun-

que in discredito; e il loro svilimento fu tale, che trenta littori adunati facevano

ciò che i comizi curiati avrebbero dovuto fare. La divisione in centurie era così favorevole all’aristocrazia, che non si intende

a prima

vista come

la vincesse sempre

mai il Senato non

nei comizi che porta-

vano questo nome, per mezzo dei quali erano eletti i consoli, i censori, e gli altri magistrati curuli. Infatti, poiché delle

centonovantatré

mavano

centurie,

che

for-

le sei classi di tutto il popolo

DEL

334 romano, la prima classe ne comprendeva

novantotto, e i voti centuria, questa sola

eran contati per prima classe pre-

ponderava in numero di voti su tutte le altre. Quando tutte queste centurie

erano d'accordo, non si continuava nean-

che a raccogliere i suffragi; ciò che aveva deciso la minoranza passava per una decisione della moltitudine: e si può ben dire che nei comizi centuriati gli affari si regolavano sulla pluralità degli scudi più che su quella dei voti. Ma questa estrema autorità si temperava

con

due

mezzi;

primo,

essendo

ordinariamente i tribuni, e sempre un gran numero di plebei, nella classe dei ricchi, essi bilanciavano l’autorità dei patrizi in questa

prima

classe.

Il secondo mezzo consisteva in questo: invece di far votare prima le centurie

secondo

avrebbe prima,

il

fatto

loro

ordine,

sempre

se ne tirava una

ciò

cominciar

che

dalla

a sorte, e quel.

la * procedeva da sola all'elezione; dopo

di che tutte le centurie, chiamate

tro giorno secondo

tevano

la

stessa

un al-

il loro ordine, ripe-

elezione,

e

ordinaria-

CONTRATTO

SOCIALE

to questo rispetto, erano meno liberi che gli ultimi cittadini. Questa ingiustizia era del tutto malintesa, e bastava da

sola a rendere nulli i decreti di un corpo nel quale non erano ammessi tutti i suoi membri. Quando anche tutti i patrizi avessero assistito a questi comizi, secondo il diritto che avevano come cittadini, diventati allora. semplici privati, non avrebbero affatto influito sopra una forma di suffragio che si raccoglieva per testa, e dove il minimo proletario poteva altrettanto che il principe del Senato. Si vede dunque che, oltre l’ordine risultante da queste diverse distribuzioni per la raccolta dei suffragi di un così grande popolo, queste distribuzioni non si riducevano a forme indifferenti in se stesse, ma

che ciascuna

aveva

effetti re-

lativi alle vedute, che la facevano preferire. Senza entrare su questo punto in maggiori particolari, risulta, dai chiarimenti precedenti, che i comizi tributi erano più favorevoli al governo popo-

lare, e i comizi centurtiati all’aristocrazia. Riguardo ai comizi curiati, dove la

mente la confermavano. Si toglieva così l’autorità dell'esempio all'ordine di collocazione per darla alla sorte, secondo il principio della democrazia. Risultava da quest'usanza anche un altro vantaggio: che i cittadini di campagna avevano il tempo, fra le due ele-

sola plebaglia di Roma formava la maggioranza, siccome non erano buoni che a favorire la tirannia e i cattivi disegni,

didato nominato provvisoriamente, per non dare il loro voto se non con conoscenza di causa. Ma, col pretesto della rapidità, si finì per abolire quest’usan-

comizi

zioni,

d’informarsi

za, e le due

dei

elezioni

meriti

del

can-

si fecero lo stesso

giorno. I comizi tributi erano propriamente il consiglio del popolo romano. Essi non erano

convocati

che

dai

tribuni;

i tri-

buni vi erano eletti e vi passavano le loro prove dei plebisciti. Non solo il Senato non vi aveva alcun grado, ma non aveva

neanche

il diritto di assistervi;

e,

forzati a obbedire a leggi sulle quali non avevano potuto dar voto, i senatori, sot-

* Questa centuria, chiamava praerogativa

tirata così a sorte, per il fatto che era

si la

dovettero

cadere

in discredito,

astenen-

dosi gli stessi sediziosi da un mezzo che metteva troppo allo scoperto i loro progetti. È certo che tutta la maestà del popolo romano non si trovava che nei centuriati,

che

soli

erano

com-

pleti; atteso che nei comizi curiati mancavano le tribù rustiche, e nei comizi tributi il Senato e i patrizi. Quanto al modo di raccogliere i suffragi, presso i primi Romani era tanto semplice quanto i loro costumi, benché ancora meno semplice che a Sparta. Ciascuno dava il suo suffragio ad alta voce; un cancelliere li scriveva man

mano;

la maggioranza di voti in ogni tribù determinava il suffragio della tribù; la maggioranza di voti fra tribù determinava il suffragio del popolo; e così per le curie e le centurie.

prima cui venuta la

Quest’usanza

si domandasse il suffragio, parola prerogativa.

era buo-

e di là è

LIBRO

QUARTO

335

na, finché l'onestà regnasse fra i cittadini e ciascuno avesse vergogna di dare pubblicamente il suo suffragio a un’opinione ingiusta, o a un proposito indegno; ma quando il popolo si corruppe e. si comprarono i voti, convenne che si dessero in segreto, per infrenare i compratori con la diffidenza, e fornire ai «bricconi il mezzo di non essere traditori. So bene che Cicerone biasima questo cambiamento,

e

attribuisce

ad

esso

in

parte la rovina della repubblica 8. Ma, benché io senta il peso che deve aver qui l'autorità di Cicerone, non posso essere della sua opinione: penso, al contrario, che, per non aver fatto abbastanza

di

simili

cambiamenti,

si

acce-

lerò la perdita dello Stato. Come il regime delle persone sane non è adatto ai malati, così non bisogna voler governare un popolo corrotto con le stesse leggi che convengono a un buon popolo. Niente prova meglio questa massima che la durata della repubblica di Venezia,

il cui

simulacro

esiste

ancora

unicamente perché le sue leggi non convengono che ad uomini perversi. Si distribuirono dunque ai cittadini tavolette, per mezzo delle quali ciascuno poteva votare senza che si sapesse quale fosse la sua opinione; si stabilirono anche nuove formalità per la raccolta delle tavolette, il computo dei voti, il paragone dei numeri, ecc.; ciò che non impedì che la fedeltà degli ufficiali, incaricati di queste funzioni *,: fosse spesso sospettata. Si fecero infine, per impedire il broglio e il traffico dei suffragi, editti la cui moltitudine ne dimostra l'inutilità, Verso gli ultimi tempi si era spesso costretti a ricorrere a espedienti straordinari, per supplire all'insufficienza delle leggi; talvolta si supponevano prodigi; ma questo mezzo, che poteva incutere rispetto al popolo, non ne incuteva a quelli che lo governavano: talvolta si convocava

bruscamente

un'assemblea,

prima che i candidati avessero avuto il tempo di brigare; talvolta si consumava * Custodes, diribitores, rogatores suffragiorum.

tutta una seduta a parlare, quando si vedeva il popolo, conquistato, pronto a prendere una cattiva risoluzione. Ma infine

l’ambizione

eluse

tutto;

e ciò

che

v'è d’incredibile si è che, in mezzo a tanti abusi, questo popolo immenso, favorito dai suoi antichi regolamenti, non tralasciasse di eleggere i magistrati, approvare le leggi, giudicare le cause, sbrigare gli affari privati e pubblici, quasi con altrettanta facilità, di quanto avrebbe potuto fare il Senato stesso. Capitolo V DEL

TRIBUNATO

Quando non si possa stabilire un'esatta proporzione fra le parti costitutive dello Stato, o quando cause indistruttibili ne alterino continuamente i rapporti, allora si istituisce una magistratura speciale, che non fa corpo con le altre, che ripone ogni termine nel suo vero rapporto, e fa da legame o da termine medio sia fra il principe e il popolo, sia fra il principe e il sovrano, sia contemporaneamente fra entrambe le parti, se sia necessario. Questo

corpo,

che

chiamerò

tribura-

to, è il conservatore delle leggi e del potere legislativo. Serve qualche volta a proteggere il sovrano contro il governo, come facevano a Roma i tribuni del popolo; qualche volta a sostenere il governo contro il popolo, come fa adesso a Venezia il Consiglio dei Dieci; e qual che volta a -mantenere l’equilibrio da una parte e dall'altra, come facevano gli efori a Sparta. Il tribunato non è una parte costitutiva dello Stato e non deve avere alcuna parte della potestà legislativa né dell’esecutiva: ma in ciò appunto la sua parte è più grande; perché, non potendo far nulla, può impedire tutto. È più sacro e più riverito, come difensore delle leggi, che non il principe che le eseguisce e il sovrano che le dà. Ciò si vide ben

336

DEL

chiaro a Roma, quando quei fieri patrizi, che disprezzarono sempre il popolo intero, furono costretti a piegare dinanzi a un semplice ufficiale del popolo, che non aveva né auspici né giurisdizione. Il tribunato, saggiamente temperato, è il più fermo appoggio di una buona costituzione; ma, per poco che abbia in eccesso di forza, rovescia tutto: quanto poi alla debolezza, questa non è nella sua natura; e purché sia qualche cosa, non è mai meno di quello che occorre. Esso degenera in tirannia, quando usurpi il potere ‘esecutivo, del quale non

è che

il moderatore,

e quando

vo-

il tribunato, non facendo parte della costituzione, può essere tolto senza che essa ne soffra; e mi sembra efficace, perché un magistrato, nuovamente ristabi-

lito, non parte dal potere che aveva il suo predecessore, ma da quello che la legge gli dà. Capitolo VI

ta conservò i suoi costumi, cominciatane

cessivo dei tribuni, usurpato man

mano,

servì infine, con l'aiuto di leggi fatte per la libertà, di salvaguardia agli imperatori che la distrussero. Quanto al Consiglio dei Dieci, a Venezia, è un tribu-

nale di sangue, orribile ugualmente per i patrizi e per il popolo; che, lungi dal proteggere altamente le leggi, non serve più, dopo lo svilimento di queste, che a portar nelle tenebre colpi, dei quali non si ha il coraggio di accorgersi. Il tribunato s’indebolì al pari del governo, per la moltiplicazione dei suoi membri. Quando i tribuni del popolo romano, in principio in numero di due, poi di cinque, vollero raddoppiare questo numero,

il senato

li lasciò fare, ben

sicuro di infrenar gli uni per mezzo degli

altri;

ciò che

non

mancò

di avvenire.

Il miglior mezzo per prevenire le usurpazioni in un corpo così temibile, mezzo al quale nessun governo ha pensato finora, sarebbe di non rendere questo corpo permanente, ma di stabilire intervalli, durante i quali restasse soppresso.

bono

Questi

intervalli,

essere tanto grandi

che

non

deb-

da lasciare il

SOCIALE

Questo mezzo mi sembra senza inconvenienti, perché, come ho già detto,

glia dispensar le leggi, che non deve se non proteggere. L’enorme potere degli efori, che fu senza pericolo finché Sparla corruzione fa accelerò. Il sangue di Agide, sgozzato da quei tiranni, fu vendicato dal suo successore: il delitto e la punizione degli efori affrettarono del pari la perdita della repubblica; e, dopo Cleomene, Sparta non fu più nulla. Roma perì per la stessa via, e il potere ec-

CONTRATTO

tempo agli abusi di consolidarsi, possono essere fissati dalla legge, di modo che sia facile di abbreviarli all’occorrenza per mezzo di commissioni straordinarie.

DELLA

DITTATURA

. L'inflessibilità delle leggi, che impedisca loro di piegarsi agli eventi, può,

in

certi

casi,

renderle

perniciose

e ca-

gionare per loro mezzo la perdita dello Stato nella sua crisi. L'ordine e la lentezza delle forme esigono un lasso di tempo, che le circostanze talvolta rifiutano. Possono presentarsi mille casi, ai quali il legislatore non abbia provvisto; ed è previdenza ben necessaria aver coscienza che non si può preveder tutto. Non bisogna dunque voler consolidare le istituzioni politiche fino a togliersi il potere di sospenderne l’effetto. Sparta stessa ha lasciato dormire le sue leggi. Ma non vi sono che i pericoli più gravi, che possano bilanciar quello di alterare l'ordinamento pubblico; e non si deve mai arrestare il sacro potere delle leggi, se non quando si tratti della salvezza della patria. In questi casi, rari e manifesti, si provvede alla sicurezza pubblica con un atto speciale, che ne rimetta l'ufficio al più degno. Questo incarico può darsi in due modi, a seconda della specie del pericolo. Se, per rimediarvi, l'attività del governo,

basti aumentare lo si concentra

in uno o due dei suoi membri: così non l’autorità delle leggi si altera, ma soltanto la forma della loro amministra-

zione. Ché

se, invece, il pericolo

sia ta-

LIBRO

337

QUARTO

le, che il meccanismo delle leggi sia un

ostacolo a difendersene, allora si nomina un capo supremo, che faccia tacere tut-

te le leggi e sospenda momentaneamente

l'autorità sovrana.

In simile cosa, la vo-

lontà generale non è dubbia, ed è evidente che la prima intenzione del popolo è che lo Stato non perisca. In questo modo la sospensione dell’autorità legislativa non l’abolisce affatto: il magistrato che la fa tacere non può farla parlare; egli la domina senza poterla rappresentare;

può far tutto, eccetto che

Verso

mani,

la fine della repubblica, i Ro-

divenuti

più

circospetti,

furono

avari di dittatura con altrettanto scarsa ragione, di quanto prima ne eran stati prodighi. Era facile vedere che il loro timore

era

infondato;

che

la debolezza

della capitale formava allora la sua sicurezza contro i magistrati che aveva nel suo

seno;

cate

in

che

un

dittatore

poteva,

in

certi casi, difendere la libertà pubblica senza mai potervi attentare; e che le catene di Roma non sarebbero fabbriRoma

stessa,

ma

nei

suoi

eser-

leggi. Il primo mezzo si adoperava dal Senato romano, quando incaricava i con-

citi. La poca resistenza, che fecero Mario

vedere alla salvezza della repubblica. Il secondo aveva luogo quando uno dei consoli nominava un dittatore *; uso, di cui Alba aveva dato l'esempio a Roma. Agli inizi della repubblica si ebbe spesso a ricorrere alla dittatura, perché lo Stato non aveva ancora un assetto così saldo da potersi sostenere con la sola forza della sua costituzione. Rendendo allora i costumi superflue molte precauzioni, che sarebbero state necessarie in altri tempi, non si temeva né che un dittatore abusasse della sua autorità, né che tentasse di conservarla al

na.

soli, con una formula consacrata, di prov-

di là del termine. Sembrava, al contrario, che un sì grande potere fosse di

peso a colui che n’era rivestito, tanto si

affrettava a disfarsene, come se fosse stato un incarico troppo penoso e trop-

po pericoloso tenere il posto delle leggi. Così

non

il pericolo

era a temere

* Questa

come

nomina se

metter un uomo ** Di

questo

si

si

nel conflitto

con

dall'autorità

la forza ester-

Questo errore fece far loro grandi sbagli; tale, per esempio, fu il non aver nominato un dittatore nell’affare di Catilina; perché, non trattandosi che dell'interno della città e, tutt'al più, di qualche provincia d’Italia, con l’autorità senza limiti, che le leggi conferivano al dittatore, questi avrebbe facilmente dispersa la congiura, che non fu soffocata se mon per un felice concorso di casi, che la prudenza umana non doveva mai aspettarsi. In

tentò

ai

cambio

di

consoli;

di

ciò,

rimettere onde

il Senato

tutto

venne

il suo

che

si con-

potere

Cicerone,

per operare efficacemente, fu costretto a oltrepassare questo potere in un punto capitale; e se il primo impeto di gioia fece approvare la sua condotta, con giustizia in seguito gli si chiese conto del sangue dei cittadini versato contro le leggi: rimprovero che non si sarebbe potuto fare a un dittatore, Ma l’eloquenza del console trascinò tutti; ed egli stes-

che diventasse

me-

gloria che la sua patria, non cercava tanto il mezzo più legittimo e più sicuro di salvar lo Stato, quanto quello di aver tutto l’onore di questa faccenda **. Così fu giustamente onorato come liberatore

faceva

e in

nendo un dittatore, non sé, e non potendo essere lega nominasse lui.

fosse

di

sentita

notte

vergogna

al di sopra delle leggi. non

a Cesare, mostrò bene

aspettarsi

ma

no formidabile in casi di bisogno, e che si facesse l'abitudine a considerare come un vano titolo quello che veniva adoperato solo in vane cerimonie.

segreto,

interna,

potesse

dell'abuso,

quello della svalutazione mi fa biasimare l’uso indiscreto di questa suprema magistratura nei primi tempi; perché, mentre la si prodigava per elezioni, per consacrazioni, per cose di pura formalità,

a Silla, e Pompeo

ciò che

poteva

garantirsi

di

propo-

so, benché

Romano,

amando

più la sua

osando nominarsi da sicuro che il suo col-

338

DEL

di Roma e giustamente punito come violatore delle leggi. Per quanto splendido sia stato il suo richiamo,

è certo che fu

una grazia. Del resto, in qualsiasi modo questo importante incarico sia conferito, importa fissarne la durata ad un termine molto molto breve, che non possa mai esser prolungato. Nelle crisi che lo fanno istituire, lo Stato è presto o distrutto, o salvo; e, passato il bisogno urgente, la dittatura diventa tirannica o vana. A Roma i dittatori, non essendo tali che per sei mesi, abdicarono per la maggior parte prima di questo termine. Se il termine fosse stato più lungo, forse sarebbero stati tentati di prolungarlo ancora come fecero i decemviri per quello di un anno. Il dittatore non aveva che il tempo di provvedere al bisogno che lo aveva fatto eleggere; non aveva tempo di pensare ad altri disegni. Capitolo VII DELLA

CENSURA

Come la dichiarazione della volontà generale si fa per mezzo della legge, così la dichiarazione del giudizio pubblico si fa per mezzo della censura. L'opinione pubblica è quella specie di legge, della quale il censore è il ministro, ed egli non fa che applicarla ai casi particolari, a somiglianza del principe. Lungi dunque dall'essere il tribunale censoriale l'arbitro dell'opinione del popolo,

non

ne è che l'espressione,

e non

appena se ne scosti, le sue decisioni sono vane e senza effetto. È inutile distinguere i costumi di una nazione dagli oggetti della sua stima, perché tutto ciò deriva dallo stesso principio, e si confonde necessariamente. Presso tutti i popoli del mondo non la natura, ma l'opinione decide della scelta di ciò che piaccia. Correggete le opinioni degli uomini, e i loro costumi si purificheranno da sé. Si ama sempre ciò * In questo capitolo non nare quanto ho già trattato

faccio che accenpiù diffusamente

CONTRATTO

SOCIALE

che è bello o si trova tale; ma su questo giudizio accade di ingannarsi; questo giudizio dunque si tratta di regolare. Chi giudica dei costumi giudica dell’onore; e chi giudica dell'onore prende la sua legge dall'opinione. Le opinioni di un popolo nascono dalla sua costituzione. Benché la legge non regoli i costumi, la legislazione li fa nascere: quando la legislazione s’indebolisca, i costumi

degenerano;

ma

allora il

giudizio dei censori non farà ciò che la forza delle leggi non avrà fatto. Da ciò deriva che la censura può essere bensì utile per conservare i costumi, mai per ristabilirli. Istituite censori durante il vigore delle leggi; non appena esse l’abbiano perduto, tutto è disperato; niente di legittimo ha più forza, quando le leggi non ne abbiano più. La

censura

mantiene

i costumi,

im-

pedendo alle opinioni di corrompersi, conservando la loro rettitudine con savie applicazioni, talvolta anche fissandole quando siano ancora incerte. L’uso dei padrini nei duelli, portato fino alla follia nel regno di Francia, vi fu abolito da queste sole parole di un editto del re: «Quanto a quelli che hanno la vi. gliaccheria di chiamare dei secondi ». Questo giudizio, prevenendo quello del pubblico,

lo determinò

d’un

tratto. Ma,

quando gli stessi editti vollero sentenziare che fosse anche una vigliaccheria il battersi in duello, ciò che è molto vero, ma contrario all'opinione comune,

il pubblico si burlò di questa decisione, sulla quale il suo giudizio era già portato. Ho detto altrove * che, non essendo l'opinione pubblica assoggettabile a costrizione,

non

ne

occorreva

alcuna

trac-

cia nel tribunale istituito per rappresentarla. Non si ammirerà mai abbastanza con quale arte questa molla, interamente perduta per i moderni, fosse messa in opera presso i Romani, e ancor meglio presso i Lacederoni. Avendo un uomo di cattivi costumi espresso un giusto avviso nel consiglio nella Lettera al signor d'Alembert®.

LIBRO

339

QUARTO

di Sparta, gli efori, senza tenerne conto, fecero proporre lo stesso avviso da un cittadino virtuoso. Che onore per

rali di quei popoli. Ma, ai nostri giorni, è un'erudizione ben ridicola quella che si aggira sull’identità degli dei delle di-

dato né lode né biasimo ad alcuno dei due! Certi ubriaconi a Samo* lordarono il tribunale degli efori: l'indomani, per editto pubblico, fu permesso agli abitanti di Samo di far sudicerie. Una vera punizione sarebbe stata meno severa che una simile impunità. Quando Sparta ha sentenziato su ciò che sia o non sia l’onesto, la Grecia non si appella contro le sue sentenze.

e Chronos potessero essere lo stesso dio; come se il Baal dei Fenici, lo Zeus dei Greci e il Giove dei Latini potessero essere lo stesso; come se potesse restare qualcosa di comune a esseri chimerici, portanti nomi differenti! Che se si domanda come mai, nel paganesimo, quando ogni Stato aveva il

l'uno, che biasimo per l'altro, senza aver

Capitolo VIII DELLA

RELIGIONE

CIVILE %

Gli uomini non ebbero dapprima altri re che gli dei, né altro governo che il teocratico. Essi fecero il ragionamento

di

Caligola;

e

allora -ragionavano

giustamente. Occorre una lunga alterazione di sentimenti e d'idee perché si possa risolversi a prendere il proprio simile per padrone e lusingarsi di trovarsene bene. Dal solo fatto che si mettesse dio alla testa di ogni società politica conseguì che vi furono tanti dei quanti popoli. Due popoli stranieri l'uno all’altro,

e quasi

sempre

nemici,

non

pote-

rono per lungo tempo riconoscere uno stesso padrone: due eserciti, che ingapgino battaglia, non potrebbero obbedire allo stesso capo. Così, dalle divisioni nazionali risultò il politeismo, e da ciò l'intolleranza teologica e civile che, naturalmente, son la stessa cosa, come

sarà detto più avanti.

Il capriccio che ebbero i Greci, di ritrovare i loro dei presso i popoli barbari, venne da quello, che pure avevano, di considerarsi

come

i sovrani

natu-

* Erano di un'altra isola che la delicatezza della nostra lingua ci vieta di nominare in questa occasione ”. *© Nonne ea quac possidet Chamos, deus tuus, tibi jure debentur? * Tale è il testo della Volgata. Il padre De Carrières ha tradotto: « Non credete voi di aver diritto di possedere

verse nazioni:

suo

culto

che

il

come

se Moloch,

ed i suoi

dei, non

Saturno

vi fossero

guerre di religioni, io rispondo che ciò avveniva per il fatto stesso che ogni Stato, avendo il suo culto proprio del pari suo

governo,

non

distingueva

suoi dei dalle sue leggi. La guerra politica era anche teologica: i dipartimenti degli dei erano, per così dire, fissati dai confini delle nazioni. Il dio di un popolo non aveva alcun diritto sugli altri popoli. Gli dei dei pagani non erano affatto dei gelosi, si dividevano fra loro l'impero del mondo: Mosè stesso e il popolo ebreo si prestavano talvolta a questa idea, parlando del dio d’Israele.

Essi

proscritti,

votati

alla

distruzione,

dei

state » **.

Questa

era,

mi

una

come

consideravano,

nulli gli dei dei Cananei,

è

i

vero,

popoli

quali essi dovevano occupare il posto. Ma vedete come parlavano delle divinità dei popoli vicini, che era loro proibito di attaccare: «Il possesso di ciò che appartiene a Camos, vostro dio, diceva Jèfte agli Ammoniti, non vi è forse dovuto legittimamente? Noi possediamo per lo stesso diritto le terre che il nostro Dio vincitore si è acquisembra,

parità ben riconosciuta fra i diritti di Camos e quelli del Dio d'Israele. Ma quando gli ebrei, sottomessi ai re di Babilonia e, in seguito, ai re di Siria, vollero ostinarsi a non riconosce-

re alcun

altro

dio che

il loro, questo

ciò che appartiene a Camos vostro dio? ». Igno-

ro il valore del testo ebraico; ma vedo che, Volgata, Jèfte riconosce positivamente nella il diritto del dio Camos e che il tradutiore francese indebolisce questo riconoscimento con un «secondo voi » che non è nel testo latino.

DEL

340 rifiuto,

considerato

come

una

ribellione

contro il vincitore, attirò loro le persecuzioni che si leggono nella loro storia, delle quali non si vede alcun altro esempio prima del cristianesimo *. Essendo dunque ogni religione unicamente in dipendenza dalle leggi dello Stato che la prescriveva, non vi era altro modo di convertire un popolo che asservirlo, né v’eran altri missionari che

i conquistatori; ed essendo l'obbligo di cambiar culto la legge dei vinti, bisognava cominciar dal vincere prima di parlarne. Lungi dal combattere gli uomini per

gli

dei,

erano,

come

in Omero,

gli

dei che combattevano per gli uomini; ciascuno domandava al suo dio la vittoria e la pagava con nuovi altari. I Romani, prima di prendere una piazzaforte,

intimavano

si

ai

ai suoi

dei

costretti

a

di

abbando-

narla, e quando lasciavano ai Tarantini i loro dei irritati, si era perché consideravano allora quegli dei come sottomesloro,

e

rendere

loro

omaggio. Lasciavano ai vinti i loro dei come lasciavan loro le loro leggi. Una corona a Giove Capitolino era spesso il solo tributo che imponevano.

Infine i Romani, avendo esteso, col loro impero, il loro culto ed i loro dei,

e avendo spesso adottato essi stessi quelli dei vinti, accordando agli uni e agli altri il diritto di cittadinanza, avvenne che i popoli di questo vasto impero si trovarono a poco a poco ad avere una quantità di dei e di culti, press’a poco gli stessi ovunque; ed ecco come il paganesimo non fu infine nel mondo conosciuto che una sola e medesima religione. In queste condizioni Gesù venne a stabilire sulla terra un regno spirituale:

ciò che,

separando

il sistema

teolo-

gico dal sistema politico, fece che lo Stato cessò di essere uno, e cagionò le di-

visioni

intestine,

che

non

hanno

mai

cessato di agitare i popoli cristiani. Ora, non avendo questa nuova idea, di un regno dell’altro mondo, mai potuto en« È della massima evidenza che la guerra dei Focesi, chiamata guerra sacra, non era una guerra di religione. Aveva per oggetto la pu-

CONTRATTO

SOCIALE

trare nella testa dei pagani, questi considerarono sempre i cristiani come veri ribelli, che, sotto una ipocrita sottomissione,

non

cercassero

che

il

momento

di rendersi indipendenti e padroni, e di usurpare destramente l'autorità, che fingevano di rispettare nella loro debolezza. Questa fu la causa delle persecuzioni. Ciò che i pagani avevano temuto è accaduto, Allora tutto ha mutato aspetto; gli umili cristiani hanno mutato linguaggio, e ben presto si è veduto questo preteso regno dell’altro mondo diventare, sotto un capo visibile, il più violento dispotismo di questo mondo. Ciò

nonostante,

siccome

vi sono

sem-

pre stati un principe e leggi civili, da questa doppia potenza è risultato un perpetuo conflitto di giurisdizioni, che ha reso impossibile ogni buon ordinamento negli Stati cristiani; e non si è mai chi,

potuto venire a capo di sapere a fra il padrone e il prete, si fosse

in obbligo di obbedire. Parecchi popoli, tuttavia, anche in Europa o nelle sue vicinanze, hanno voluto conservare o ristabilire l’antico si-

stema,

ma

senza successo;

lo spirito del

cristianesimo ha conquistato tutto. Il culto sacro è sempre rimasto o divenuto indipendente dal sovrano, senza legame necessario col corpo dello Stato. Maometto ebbe vedute molto savie; collegò bene

il

suo

sistema

politico;

e,

finché

e

buono

la forma del suo governo rimase in vigore sotto i califfi suoi successori, questo

governo

fu

veramente

ti,

letterati,

civili,

uno

in questo. Ma gli Arabi, divenuti fiorenfiacchi

e vili, furon

soggiogati da barbari; allora la divisione fra le due potenze ricominciò. Benché sia meno visibile presso i maomet-

tani che pressa i cristiani, essa vi è tuttavia, specie nella setta di Alì; e vi sono Stati, come la Persia, in cui non

cessa di farsi sentire. Fra di noi, i re d'Inghilterra si sono istituiti capi della chiesa; altrettanto nizione di sacrileghi, miscredenti.

non

la

sottomissione

di

LIBRO

QUARTO

341

hanno fatto gli zar; ma, con questo titolo, se ne sono resi non tanto padroni quanto ministri, hanno acquistato non tanto il diritto di cambiarla, quanto il potere di salvaguardarla: non sono in essa legislatori, non sono che principi. Dovunque il clero costituisca un corpo *, è padrone e legislatore nella sua patria. Vi sono dunque due poteri, due sovrani; in Inghilterra e in Russia, proprio come altrove. Di tutti gli autori cristiani, il filosofo Hobbes è il solo che abbia visto bene il male e il rimedio, e che abbia osato proporre di riunir le due teste dell’aquila, e di

ricondurre

tutto

all’unità

poli-

tica, senza la quale mai Stato o governo saranno ben costituiti ®. Ma ha dovuto pur vedere che lo spirito dominatore del cristianesimo era incompatibile col suo

sistema,

e che

l'interesse

del

prete

sarebbe sempre più forte di quello dello Stato. E ciò che ha resa odiosa la politica di Hobbes non è tanto ciò che vi è di orribile e di falso, quanto ciò che vi è di giusto e di vero in essa **. Credo che, sviluppando da quest’angolo visuale i fatti storici, si confuterebbero facilmente i sentimenti opposti di Bayle e di Warburton,

dei quali uno

pretende che nessuna religione sia utile al corpo politico, e l’altro sostiene, al

contrario,

che

il cristianesimo

ne

sia

il

più fermo appoggio. Si proverebbe al primo che mai Stato fu fondato senza che la religione gli servisse di base; e al secondo che la legge cristiana è, in fondo, più dannosa che utile alla forte costituzione dello Stato. Per farmi intendere più completamente, non occorre che dare un po’ più di precisione alle idee troppo vaghe di religione, relative al mio argomento.

* Bisogna osservare bene che non tanto le assemblee formali, come quelle di Francia, legano il clero in un corpo, quanto la comunione delle chiese. La comunione e la scomunica sono il patto sociale del cielo, patto col Quale esso sarà sempre il padrone dei popoli

e dei

re. Tutti

i sacerdoti,

che

comunichino

insieme, sono cittadini (di questo corpo), fossero pure dai due capi del mondo. Tale invenzione è un capolavoro di politica. Non vi era

La religione, considerata rispetto alla società, che è o generale o particolare, può anch’essa distinguersi in due specie, cioè: la religione dell'uomo e quella del cittadino. La prima, senza templi,

senza

altari,

senza

riti, limitata

al culto puramente interiore del Dio supremo e ai doveri eterni della morale, è la pura e semplice religione del Van-

gelo,

il vero

teismo,

e ciò

che

si può

chiamare il diritto divino naturale. L'altra, iscritta in un solo paese, gli dà i suoi dei, i suoi propri patroni e numi tutelari. Essa ha i suoi dogmi, i suoi riti, il suo culto esteriore prescritto da leggi: all'infuori della sola nazione che la segue, tutto il resto per essa è infedele, straniero, barbaro;

essa non esten-

de i doveri e i diritti degli uomini più in là dei suoi altari. Tali furono tutte le religioni dei primi popoli, alle quali si può dare il nome di diritto divino civile o positivo. Vi è una terza specie di religione, più bizzarra, che, dando agli uomini due legislazioni, due capi, due patrie, li sottomette a doveri contradittori, e impedisce loro di essere contemporaneamente devoti e cittadini. Tale è la religione dei Lama, tale è quella dei Giapponesi, tale è il cristianesimo romano. Si può chiamare questa la religione del prete. Ne risulta una specie di diritto misto e insocievole,

che

nulla;

le

A

non

ha

nome.

considerare politicamente queste tre specie di religioni, hanno tutte i loro difetti. La terza è così evidentemente cattiva, che sarebbe proprio perdere il tempo divertirsi a dimostrarlo. Tutto ciò che rompe l'unità sociale non val tutte

istituzioni

l’uomo in contradizione non valgono nulla.

che

con

mettono

se stesso

nulla di simile fra i sacerdoti pagani: e infatti non hanno mai formato un corpo di clero. ** Vedete, fra altri scritti, in una lettera di Grozio a suo fratello, dell'11 aprile 1643, ciò che quest'uomo sapiente approva e ciò che biasima nel libro De Cive. È vero che, incline all'indulgenza, egli sembra perdonare all'autore il bene in grazia del male; ma non tutti son così clementi.

DEL

342 La seconda è buona, in quanto riunisce il culto divino e l'amore delle leggi, e, nel fare della patria l'oggetto dell'adorazione dei cittadini, insegna loro che servire lo Stato vuol dire servirne il dio tutelare. È una specie di teocrazia, nella quale

non

si deve

avere

altro

pontefice che il principe, né altri sacerdoti che i magistrati. Allora morire per il proprio paese è andare al martirio; violare le leggi vale esser empio, e sottomettere un colpevole all’esecrazione pubblica è votarlo al corruccio degli dei: Sacer esto. Ma tale religione è cattiva in quanto,

essendo

fondata

sull’errore

e

sulla

menzogna, inganna gli uomini, li rende creduli, superstiziosi; e annega il vero culto della divinità in un vano cerimoniale. È cattiva anche quando, diventando

esclusiva

e

tirannica,

renda

un

popolo sanguinario e intollerante; in modo che non respira che uccisioni e massacri,

e crede

di fare un'azione

san-

ta uccidendo chiunque non ammetta i suoi dei. Ciò mette un tal popolo in uno stato naturale di guerra con tutti gli altri, oltremodo dannoso alla sua propria sicurezza. Resta dunque la religione dell’uomo o il cristianesimo, non quello d'oggi, ma quello del Vangelo, che ne differisce del tutto. Per questa religione santa, sublime, vera, gli uomini, figli dello stesso Dio, si riconoscono tutti come fratelli, e la società che li unisce non si

dissolve neanche con la morte. Ma questa religione, non avendo alcuna relazione speciale col corpo politico, lascia alle leggi la sola forza che traggono da se stesse, senza aggiungerne loro alcun'altra; e perciò uno dei grandi vincoli della società particolare resta senza affetto. Anzi, lungi dall’affezionare

i cuori

dei

cittadini

allo

Stato,

essa

ne li distacca come da tutte le altre cose terrene. Non conosco nulla di più contrario allo spirito sociale* Ci si dice che un popolo di veri cristiani formerebbe la più perfetta società che si possa immaginare. Non vedo in questa supposizione che una grande difficoltà: che una società di veri cri-

CONTRATTO

SOCIALE

stiani non sarebbe più una società di uomini. Dico anzi che questa supposta società non sarebbe, con tutta la sua perfezione, né la più forte, né la più durevole: a forza d'esser perfetta, mancherebbe di legame; il suo vizio distruttore sarebbe nella sua stessa perfezione. Ciascuno compirebbe il proprio dovere; il popolo sarebbe sottomesso alle leggi, i capi sarebbero giusti e modera: ti, i magistrati integri, incorruttibili, soldati disprezzerebbero la morte, non ci sarebbe né vanità né lusso: tuttociò va molto bene; ma guardiamo un po’ più in là. Il cristianesimo è una religione tutta spirituale, occupata unicamente delle cose del cielo; la patria del cristiano non è di questo mondo. Egli fa il suo dovere, è vero;

ma lo fa con una profonda

indifferenza riguardo al buono o cattivo esito dei suoi sforzi. Purché non abbia nulla a rimproverarsi, poco gli importa che tutto vada bene o male quaggiù. Se lo Stato è fiorente, egli osa appena godere della felicità pubblica; teme d'inorgoglirsi della gloria del suo paese;

se

lo

Stato

deperisce,

benedice

la

mano di Dio che si aggrava sul suo popolo. Perché la società fosse pacifica e l’armonia si mantenesse, bisognerebbe che tutti i cittadini, senza eccezione, fossero ugualmente buoni cristiani; ma se disgraziatamente vi si trovi un solo ambizioso,

un

solo

ipocrita,

un

Catilina,

per esempio, un Cromwell, quegli certo avrà facilmente ragione dei suoi pii compatrioti. La carità cristiana non permette facilmente di pensar male del prossimo. Appena questi avrà trovato, con qualche astuzia, l’arte d’incuter loro rispetto e d’impadronirsi di una parte del. l'autorità pubblica, ecco un uomo già costituito in dignità; Dio vuole che lo sì rispetti: ecco ben presto una potenza; Dio vuole che le si obbedisca. Se il depositario di questa potenza ne abusi, è la verga con la quale Dio punisce i suoi figliuoli. Si farà un caso di coscienza di scacciar l’usurpatore; bisognerebbe turbare la quiete pubblica,

LIBRO

QUARTO

343

usar violenza, versar sangue; tutto ciò male si accorda con la dolcezza del cristiano;

e, dopo

tutto, che importa

d’es-

ser libero o schiavo in questa valle di miserie? L'essenziale è di andare in paradiso, e la rassegnazione non è che un mezzo di più per ciò. Se sopravvenga qualche guerra con lo straniero, i cittadini vanno senza pena alla battaglia; nessuno fra loro pensa a

fuggire;

fanno

il loro dovere;

ma

senza

passione per la vittoria; sanno piuttosto morire che vincere. Che siano vincitori o vinti che importa? La Provvidenza non sa meglio di loro quel che loro occorra? S'immagini che vantaggio potrebbe trarre dal loro stoicismo un nemico fiero, impetuoso, appassionato! Mettete di fronte a costoro quei popoli generosi, divorati dall'ardente amor di gloria e di patria; supponete la vostra repubblica cristiana contro Sparta o Roma: i pii cristiani saranno

battuti, schiacciati, distrutti, prima di aver avuto il tempo di orizzontarsi, o

dovranno la loro salvezza solo al disprezzo che il nemico concepirà per essi. Era

un

bel

giuramento,

a

mio

parere,

e tennero

il loro

quello dei soldati di Fabio; non giurarono di morire o di vincere: giurarono

di

ritornare

vincitori,

giuramento. Mai i soldati cristiani ne avrebbero fatto uno simile; avrebbero creduto di tentar Iddio. Ma io sbaglio nel dire una repubblica cristiana; ciascuna di queste due parole esclude l'altra. Il cristianesimo non predica che servitù e dipendenza. Il suo spirito è troppo favorevole alla tirannia, perché questa non ne profitti sempre. I veri cristiani son fatti per essere schiavi; lo sanno e non se ne commuovono punto; questa breve vita ha troppo poco valore ai loro occhi ®. Gli

eserciti

cristiani

sono

eccellenti,

* «Nella repubblica, dice il marchese D'Arsenson, ciascuno è perfettamente libero in ciò che non nuoce agli altri ». Ecco il limite invatiabile; non lo si può porre più esattamente. Non ho saputo sottrarmi al piacere di citar tal-

volta

questo

manoscritto,

per

quanto

non

co-

ci si dice. Lo nego: che me ne mostrino di tali. Quanto a me, non conosco truppe cristiane. Mi si citeranno le crociate. Senza discutere sul valore dei crociati, osserverò che, ben lungi dall'essere cri-

stiani, erano soldati del prete, erano cittadini della Chiesa; si battevano per il

suo paese spirituale, che essa aveva reso temporale, non si sa come. A intenderla bene, questo rientra nel paganesimo; poiché il Vangelo non istituisce una religione nazionale, ogni guerra sacra è impossibile fra i cristiani. Sotto gli imperatori pagani, i soldati cristiani erano valorosi; tutti gli autori cristiani

lo

assicurano,

ed

io

lo credo:

era una gara d'onore contro le truppe pagane. Ma appena gli imperatori furono cristiani, questa emulazione non poté più sussistere; e quando la croce ebbe cacciata l'aquila, tutto il valore romano scomparve. Ma, lasciando da parte le considerazioni

politiche,

ritorniamo

al diritto,

e

fissiamo i principi su questo punto importante. Il diritto, che il patto sociale

dà al sovrano sui sudditi, non passa affatto, come ho già detto %, i limiti del-

l'utilità pubblica *. I sudditi non debbono dunque render conto al sovrano delle loro opinioni, che in quanto queste opinioni importino alla comunità. Ora importa bensì allo Stato che ogni cittadino abbia una religione che gli faccia amare i suoi doveri; ma i dogmi di questa religione non interessano né lo

Stato



i suoi

membri,

se

non

in

quanto questi dogmi si riferiscano alla morale e ai doveri che colui che la professi sia tenuto a compiere verso gli altri. Ciascuno può avere, in più, quelle opinioni che meglio gli piacciano, senza che spetti al sovrano di conoscerle; poiché, non avendo la competenza di sorta nell’altro mondo, quale che abbia ad

nosciuto dal alla memoria

pubblico, per rendere omaggio di un uomo illustre € rispetta-

bile, che aveva conservato persino nel ministero il cuore di un vero cittadino, e vedute e sane sul governo del suo paese,

rette

344

DEL

essere la sorte dei sudditi nella vita futura non è fatto suo, purché essi siano buoni cittadini in questa vita. Vi è dunque una professione di fede puramente civile, della quale spetta al sovrano fissar gli articoli, non precisamente come dogmi di religione, ma co-

me sentimenti di socievolezza, senza i quali è impossibile essere buon cittadi-

no o suddito fedele *. Senza poter obbligare nessuno a crederli, può bandir dallo Stato chiunque non li creda; può esiliarlo, non in quanto empio, ma in quanto insocievole e incapace di armare sinceramente le leggi, la giustizia, e d’immolare,

in caso

di bisogno,

la sua

vita

al suo dovere. Che se qualcuno, dopo aver riconosciuto pubblicamente questi stessi dogmi, si conduca come se non vi

credesse,

sia

punito

con

la

morte;

egli ha commesso il maggiore dei delitti, ha mentito dinanzi alle leggi. I dogmi della religione civile devono essere

semplici,

di

numero

ristretto,

enunciati con precisione, senza spiegazioni né commenti. L'esistenza della divinità possente, intelligente, benefica, previdente

e provvida, la vita futura, la

felicità dei giusti, il castigo dei malvagi, la santità del contratto sociale e delle leggi, ecco i dogmi positivi. Quanto ai dogmi negativi, li limito a uno solo, l’intolleranza: essa tientra nei culti che noi abbiam escluso.

* Cesare,

perorando

per

Catilina,

cercava

di

stabilire il dogma della mortalità dell'anima: Catone e Cicerone per confutarlo non si diver.

tirono affatto a filosofare; si contentarono di dimostrare che Cesare parlava da cattivo cittadino e proponeva una dottrina perniciosa allo Stato. Infatti ecco di che doveva giudicare il senato di Roma, e non di una questione teologica. ** Il matrimonio, per esempio, essendo un contratto civile, ha effetti civili, senza i quali è fino impossibile che la società sussista. Supponiamo dunque che un clero riesca ad accaparrarsi da solo il diritto di approvare quest’atto, diritto che deve necessariamente usurpare in ogni religione intollerante; allora non è forse chiaro che, facendo valere a proposito l’autorità della Chiesa, renderà vana quella del principe che non avrà più sudditi se non quelli che il clero vorrà accordargli? Padrone

CONTRATTO

SOCIALE

Quelli che distinguono l'intolleranza civile e l’intolleranza teologica s’ingannano,

a mio

parere.

Queste

due

intolle-

ranze sono inseparabili. È impossibile vivere in pace con persone che crediamo dannate; amarle sarebbe odiare Dio che le punisce; bisogna assolutamente ricondurle a salvazione o tormentarle. Ovunque l'intolleranza teologica sia ammessa, è impossibile che non abbia qualche effetto civile **; e non appena ne abbia,

il

sovrano

non

è

più

sovrano,

neanche temporalmente; da quel momento i preti sono i veri padroni, i re non sono più che i loro ufficiali. Ora che non v'è più e che non vi può essere una religione nazionale esclusiva, si debbono tollerare tutte quelle che tollerino

le

altre,

fin

tanto

che

i loro

dogmi non abbiano niente di contrario ai doveri del cittadino. Ma chiunque osi dire: « Fuori della Chiesa non vi è salvezza », deve essere scacciato dallo Stato, a meno che lo Stato non sia la Chie-

sa, il principe non sia pontefice. Un tal dogma non è buono che in un governo teocratico; in qualsiasi altro è pernicioso. La ragione per la quale si dice che Enrico IV abbracciasse la religione romana,

dovrebbe

farla abbandonare

da

qualsiasi galantuomo, e specialmente da ogni principe che sapesse ragionare.

di

sposare

condo altra

o

che

spingano

di

non

sposare

secondo

che

abbiano

dottrina,

tale o

o non

tal altro

le

abbiano

persone,

formulario,

se-

tale o tal

ammettano

o

re-

secondo

che gli siano più o meno devote, conducendosi prudentemente e tenendo fermo, non è chiaro che esso solo disporrà delle eredità, degli uffici, dei cittadini, dello Stato stesso, che non potrebbe sussistere, non essendo più composto che di bastardi? Ma, si dirà, lo si chiamerà in giudizio per abuso, si citerà, si decreterà, si afferrerà il potere temporale. Che pietose illusioni! Il clero, per poco che abbia, non dico coraggio, ma buon senso, lascerà fare e andrà per la sua strada; lascerà tranquillamente chiamare in giudizio, citare, decretare, afferrare, e finirà per restare il padrone. Non è, mi sembra, un grande sacrificio, abbandonare una parte quando si è sicuri d’impadronirsi

del tutto ”!.

LIBRO QUARTO

345

Capitolo IX

esterne;

ritto delle genti, il commercio,

Dopo aver posti i veri principi del diritto politico, e tentato di fondare lo Stato

sulla

per

sua

base,

mezzo

resterebbe

delle

il di-

il diritto

di guerra e le conquiste, il diritto pub-

CONCLUSIONE °

forzarlo

ciò che comprenderebbe

sue

da

raf-

relazioni

blico,

le

leghe,

i negoziati,

i

trattati,

ecc. Ma tutto ciò costituisce un nuovo argomento, troppo vasto per la mia vista corta; avrei dovuto sempre guardare più vicino a me. FINE

EMILIO

o dell’educazione

TRADUZIONE

DI

Sanabilibus aegrotamus

ipsaque

nos

LUIGI

DE

in

rectum

genitos

malis;

natura,

si emendari velimus, juvat ?.

ANNA

PREFAZIONE Questa raccolta di riflessioni e di os-

servazioni,

senz'ordine

e

quasi

senza

seguito, fu cominciata per compiacere a una buona madre che sa pensare ?. Dapprima avevo pensato di scrivere una memoria di poche pagine; ma incalzandomi mio malgrado il soggetto, questa memoria divenne insensibilmente una specie di lavoro troppo voluminoso,

senza

dubbio,

per ciò che contie-

ne e troppo piccolo per la materia che tratta. Ho esitato a lungo prima di pubblicarlo; e spesso esso mi ha fatto sentire,

lavorandovi,

che

non

basta

avere

scritto qualche opuscolo per saper comporre un libro. Dopo vani sforzi per far

meglio, credo di doverlo dare alla Iuce così com'è, giudicando che occorra at-

tirare l’attenzione pubblica da codesto lato; e che, quand’anche le mie idee fossero

cattive,

duto il mio

non

avrò

tempo,

del

tutto per-

se ne farò nascere

delle buone

in altri. Un

blico,

lodatori,

uomo

che,

dal

partito

che

suo ritiro?, getta le sue pagine al pubsenza

senza

le difenda, senza neppure sapere ciò che

se ne pensi o ciò che se ne dica, non deve temere che, se s'inganna, si am-

mettano i suoi errori senza esame.

Parlerò poco dell'importanza di una

buona educazione;

non mi fermerò nem-

meno a provare che quella in uso sia cattiva; tanti altri lo hanno fatto prima di me, e non mi piace di riempire un libro di cose che tutti conoscono. Noterò solamente che, da tempo indefinito, non

c'è che una voce contro la pratica costituita, senza che qualcuno immagini di proporne una migliore. La letteratura e la dottrina del nostro secolo propendono assai più a demolire che a edificate.

Si

censura

con

tono

da

maestro;

per fare delle proposte bisogna prendere un altro tono, del quale l’elevatezza filosofica si compiace meno. Nonostante tanti scritti che hanno per iscopo,

si dice, solamente la utilità pubblica, la prima fra tutte le utilità, che è l’arte di

formare gli uomini, è ancora dimenticata. Il mio soggetto era affatto nuovo dopo il libro del Locke ‘, e temo molto che lo sia ancora dopo il mio. L'infanzia non è punto conosciuta: sulle

false idee

che

se ne hanno,

sono

dedicato

di

corra

fare;

credo

quan-

to più si va innanzi, tanto più ci si smarrisce. I più saggi si applicano a quello che importa agli uomini di sapere, senza considerare ciò che i fanciulli sono in grado d’imparare. Essi cercano sempre l’uomo nel fanciullo, senza pensare a quello che egli è prima di essere uomo, Ecco lo studio al quale mi più,

affinché,

ancor

quando tutto il mio metodo fosse chimerico e falso, si potesse sempre approfittare delle mie osservazioni. Posso aver veduto molto male quello che ocma

di aver

ben

visto

il soggetto sul quale si deve operare. Cominciate dunque con lo studiare meglio i vostri allievi, poiché certissimamente non

li conoscete

affatto:

ora,

se voi

leggete questo libro con codesta intenzione, non lo credo senza utilità per voi.

EMILIO

350 In quanto a quello che si chiamerà la parte sistematica, che qui altro non è se non il cammino della natura, è proprio questo che disvierà maggiormente

il lettore; ed è anche per questo che mi si attaccherà senza dubbio, e forse non

si avrà torto. Si crederà di leggere meno un trattato di educazione che le fantasticherie di un visionario sull’educazione. Che farci? Non è sulle idee degli altri che scrivo; è sulle mie. Io non vedo come gli altri uomini; è tanto tempo che ne sono stato rimproverato. Ma dipende forse da me darmi altri occhi e attribuirmi altre idee? No. Dipende da me di non abbondare nel mio criterio, di non credermi io solo più saggio di tutti; dipende da me non di cambiar di sentimento, ma di diffidare del mio: ecco quello che posso fare e che fo. Che se assumo talvolta il tono affermativo,

non

è per

ingannare

il lettore;

ma è per parlargli come penso. Perché proporrei in forma di dubbio ciò di cui, in quanto a me, non dubito punto? Io dico esattamente quello che accade nel mio spirito. Esponendo con libertà il mio sentimento, pretendo così poco che esso faccia autorità, che vi aggiungo sempre le mie ragioni, affinché esse siano ponderate e io giudicato: ma, benché non voglia ostinarmi a difendere le mie idee, non mi credo meno obbligato a proporle; poiché le massime, sulle quali sono di un'opinione contraria a quella degli altri, non sono punto indifferenti. Sono di quelle la cui verità o falsità occorre conoscere, e che formano

la felicità o la

infelicità del genere umano. Proponete quello che è fattibile, non si cessa dal ripetermi. È come se mi si dicesse: proponete di fare ciò che si fa; o almeno proponete qualche bene che possa allearsi col male esistente. Un tale progetto, in certe materie, è molto più chimerico dei miei; poiché, in questa alleanza, il bene si guasta e il male non si guarisce. Preferirei seguire in tutto la pratica costituita, anziché adot-

tarne una buona soltanto a metà; vi sarebbe minor contradizione nell'uomo;

egli non può mirare a un tempo a due

mete opposte. Padri e madri, quello che è fattibile è ciò che voi volete fare. Devo io rispondere della vostra volontà? In ogni specie di progetto, vi sono due cose da considerare: in primo luogo, la bontà assoluta di esso; secondariamente,

la facilità

dell'esecuzione.

Per quello che riguarda la prima considerazione, basta, perché il progetto sia ammissibile e praticabile in se stesso, che quello ch'esso ha di buono sia nella natura della cosa; qui, per esempio, che l'educazione proposta sia conveniente all'uomo e bene adattata al cuore umano. La seconda considerazione dipende da rapporti inerenti a certe situazioni; rapporti accidentali alla cosa, i quali, per conseguenza, non sono affatto necessari,

e possono

variare

all'infinito.

Per

cui una data educazione può essere praticata

nella

Svizzera

e non

in

Francia;

tal altra può esserlo nella borghesia e tal altra ancora nel ceto più elevato. La facilità più o meno grande dell'esecuzione dipende da mille circostanze che è impossibile determinare se non nel caso di una particolare applicazione del metodo in un dato paese, in una data condizione. Ora, tutte queste applicazioni

particolari,

non

essendo

essenziali

al mio oggetto, non entrano affatto nel mio piano. Altri potranno occuparsene, se lo vorranno, ciascuno per il paese o lo Stato che avrà in vista. Mi basta che,

ovunque nascano degli uomini, se ne possa fare quello che propongo; e che, avendo fatto di essi ciò che propongo, si sia fatto quanto c'è di meglio per essi e per gli altri. Se io non adempio a questo impegno, ho senza dubbio torto; ma se lo osservo, si avrebbe torto lo stesso di esigere da me di più; poiché io non prometto che questo. LIBRO

PRIMO

Tutto è bene uscendo dalle mani l'Autore delle cose, tutto degenera le mani dell’uomo 5. Egli sforza un reno a nutrire i prodotti propri altro, un albero a portare î frutti

delfra terd'un d’un

LIBRO

351

PRIMO

altro; mescola e confonde i climi, gli elementi, le stagioni; mutila il suo cane, il suo cavallo, il suo schiavo; scon-

volge tutto, altera tutto, ama mità,

i

mostri;

non

vuol

le defor-

nulla

come

l’ha fatto natura, neppure l’uomo; bisogna addestrarlo per sé, come un cavallo da maneggio;

bisogna

sformarlo a modo

suo, come un albero del suo giardino. Senza di ciò, tutto andrebbe peggio ancora, e la nostra specie non vuol essere formata a mezzo. Nello stato in cui oramai le cose si trovano, un uomo, abbandonato a se stesso fin dalla nascita,

sarebbe fra gli altri il più alterato di tutti, I pregiudizi, l'autorità, la neces-

sità,

l'esempio,

tutte

ciali nelle quali ci soffocherebbero in metterebbero nulla si troverebbe come caso fa nascere

le

istituzioni

so-

troviamo sommersi, lui la natura e non al suo posto. Essa un arboscello che il

in mezzo

ad una

strada,

e che i passanti fanno perire presto, urtandolo da ogni parte e piegandolo in tutti i sensi. Mi rivolgo a te, madre tenera e previdente *, che ti sapesti allontanare dalla via maestra, e sapesti garantire l’arboscello nascente dall'urto delle opinio* La prima

educazione

è quella

che

più

im-

della

na-

porta, e questa prima educazione spetta incontestabilmente

tura

avesse

alle

voluto

donne:

che

se

l'Autore

spettasse

agli uomini,

avrebbe loro dato del latte per nutrire i bambini. Parlate dunque sempre alla donna, di preferenza, nei vostri trattati di educazione; poiché non solo esse sono in grado di occuparsene più direttamente degli uomini e d'influirvi sempre più, ma il successo le interessa anche moltissimo, perché la maggior parte delle vedove si trovano quasi alla mercé dei loro figli, i quali poi fan loro vivamente sentire o in bene o in male l’effetto del modo col quale esse li hanno allevati. Le leggi, sempre così preoccupate dei beni e così poco delle persone, poiché esse hanno per oggetto la pace e non la virtù, non dan-

no abbastanza autorità alle madri. Però il loro

stato è più sicuro di quello dei padri; i loro doveri sono i più penosi; le loro cure occorrono maggiormente per il buon ordine della famiglia; generalmente esse hanno maggior affetto per i figli. Vi sono delle occasioni in cui un figlio che manchi di rispetto a suo padre può, in qualche modo, esserne scusato; ma se, in qualunque circostanza, un figlio fosse tanto snaturato da mancarvi verso sua madre, verso quella che l’ha portato nel suo seno, che l'ha nutrito

ni umane. Coltiva, annaffia la giovine pianta prima che muoia; i suoi frutti faranno un giorno la tua delizia. Innalza per tempo un recinto intorno all’anima del tuo figliuolo; un altro potrà tracciarne il circuito,

ma

tu sola devi collo-

carne la barriera **. Si migliorano le piante con la coltivazione e gli uomini con l'educazione. Se l'uomo nascesse grande e forte, la sua statura e la sua forza gli sarebbero inutili fino a che non avesse imparato a servirsene; esse gli sarebbero dannose, impedendo agli altri di pensare ad assisterlo ***; e, abbandonato a se stesso, morrebbe di miseria prima di aver conosciuto i suoi bisogni. Ci si lamenta dello stato d'infanzia; non si comprende che la razza umana sarebbe perita se l'uomo non avesse cominciato dall'essere fanciullo. Noi nasciamo deboli e abbiamo bisogno di forze; nasciamo sprovvisti di tutto e abbiamo bisogno di assistenza; nasciamo stupidi e abbiamo bisogno di giudizio. Tutto quello che non abbiamo dalla nascita e di cui abbisogniamo da grandi, ci è dato dall’educazione. Questa educazione ci viene o dalla col suo latte, che, per anni interi, ha dimenticato se stessa per non occuparsi che di lui, ci si dovrebbe atfrettare a soffocare questo miserabile come un mostro indegno di vivere. Si dice che le madri guastino i loro figli. In ciò esse hanno senza dubbio torto, ma meno torto di voi forse

che li depravate. La madre vuole che suo figlio sia felice e che lo sia fin da ora. In ciò ella ha

ragione: quando s'inganna sui mezzi, bisogna illuminarla. L’ambizione, l'avarizia, la tirannia, la falsa previdenza dei padri, la loro negligenza, la loro dura insensibilità, sono cento volte

più funeste ai figli che la cieca tenerezza delle

madri. Del resto, bisogna spiegare il senso che dò a questo nome di madre; e ciò sarà fatto in seguito. ** Mi s'informa che il signor Formey® ha creduto ch'io volessi qui parlare di mia madre e

ch'egli lo ha anche scritto in qualche libro. È

burlarsi crudelmente del signor Formey o di me. +** Simile ad essi nell'esteriore, e privato del. la parola come anche delle idee che essa esprime, non sarebbe in grado di far loro comprendere il bisogno che avrebbe dei loro soccorsi, e niente in lui manifesterebbe loro questo bi-

sogno.

EMILIO

352 natura, o dagli uomini, o dalle cose. Lo sviluppo interiore delle nostre facoltà e dei nostri organi è l'educazione della natura; l’uso che ci s’insegna a fare di questo sviluppo è l’educazione degli uomini; e l’acquisto della nostra esperienza sugli oggetti che ci commuovono è l’educazione delle cose. Ciascuno di noi è dunque educato da tre specie di maestri. Il discepolo, nel quale le loro diverse lezioni si contradicono,

è male

educato

e non

si troverà

mai d'accordo con se stesso: colui invece nel quale tali insegnamenti cadono tutti sugli stessi punti e tendono ai medesimi fini, è il solo che proceda verso il suo scopo e viva coerente a se stesso. Quegli solo è educato bene. Ora, di queste tre differenti educazioni, quella della natura non dipende da noi, e quella delle cose ne dipende solo sotto certi rispetti. Quella degli uomini è la sola di cui noi siamo veramente i padroni, benché non lo siamo che per supposizione; poiché chi può sperare di dirigere interamente i discorsi e le azioni di tutti coloro che circondano un fanciullo? Se dunque l’educazione è un'arte, è quasi impossibile che essa riesca, poiché il concorso necessario al suo buon successo non dipende da nessuno. Ciò che si può fare a forza di cure è di avvicinarsi più o meno alla meta; ma occorre una certa fortuna per raggiunperla. Qual è questo scopo? è quello stesso della natura, come è stato già provato. Poiché il concorso delle tre educazioni è necessario alla loro perfezione, occorre dirigere, su quella sulla quale non abbiamo alcun potere, gli sforzi delle altre due. Ma forse questa parola matura ha un senso troppo vago, e noi cercheremo di ben determinarlo. La natura, ci si dice, non

è che l’abi-

tudine *. Cosa significa cid? Non vi so* Il signor Formey ci assicura che non si dice propriamente così. Pertanto mi sembra che ciò sia molto bene espresso in questo verso, al quale mi proponevo di rispondere: « La natura, credimi, non è altro che l’abitudine ».

no za le te

abitudini che si contraggono per fore che non vincono mai la natura? Taè, per esempio, l’abitudine delle piandi cui si disturba la direzione vertica-

le. La pianta, messa in libertà, conserva l’inclinazione che fu forzata a prendere;

ma la linfa non ha cambiato per questo la sua direzione primitiva, e se la pianta continua a vegetare, il suo prolungamento ridiventa verticale. Lo stesso avviene per le inclinazioni degli uomini. Fino a quando si rimane nel medesimo stato, si possono conservare quelle che risultano dall’abitudine e che ci sono meno naturali; ma, appena la situazione cambia, l’abitudine si logota e ritorna lo

stato naturale.

L'educazione

che

perdono

la loro educazione, ed altre che

sono

delle

un'abitudine.

non è cer-

tamente

persone

che

Ora,

non

dimenticano

vi

e

la conservano? Donde nasce questa differenza? Se dobbiamo circoscrivere la parola natura alle abitudini conformi alla natura, ci si potrebbe anche risparmiare questo discorso sconclusionato. Noi

nasciamo

sensibili, e fin dalla na-

scita siamo colpiti in diversi modi dagli oggetti che ci circondano. Appena abbiamo,

per

così

dire,

la coscienza

delle

nostre sensazioni, siamo disposti a ricercare o a fuggire gli oggetti che le producono; dapprima secondo che ci sono piacevoli o dispiacevoli, poi secondo la convenienza o la sconvenienza che troviamo fra noi e questi oggetti, e infine secondo i giudizi che portiamo su di essi in base all'idea di felicità o di perfezione che ci dà la ragione. Queste disposizioni si estendono e si consolidano a mano a mano che diventiamo più sensibili e più illuminati; ma, costrette dalle nostre abitudini, esse si alterano più o meno per causa delle nostre opinioni. Prima di questa alterazione, esse sono ciò ch'io chiamo in noi la natura. È quindi a queste disposizioni primitive che bisognerebbe riferire ogni coIl signor Formey, che non vuole insuperbire i suoi simili, ci dà modestamente la misura del suo cervello per quella del senno umano.

LIBRO

PRIMO

353

sa; € ciò potrebbe farsi, ove le nostre tre

educazioni fossero solo differenti: ma che fare quando esse sono opposte, quando invece di educare un uomo per se stesso lo si vuole educare per gli altri? L'accordo, in tal caso, è impossibile. Obbligato a combattere la natura o le istituzioni sociali, bisogna decidersi a fare o un uomo o un cittadino; poiché non si può fare l’uno e l’altro nello stesso tempo. Ogni società parziale, quando è intimamente unita, si aliena dalla grande. Ogni patriotta è rigido cogli stranieri: essi non sono che uomini e non sono niente agli occhi suoi *. Questo inconveniente è inevitabile, ma è debole. L'es-

senziale è di essere buoni verso quelli coi quali viviamo. Lo Spartano all’esterno era ambizioso, avaro, iniquo, ma nelle sue mura regnavano il disinteresse, l'equità, la concordia. Diffidate di quei

cosmopoliti che vanno a cercare, lontano, nei loro libri, dei doveri che sde-

gnano di compiere intorno a loro. Sono come quel filosofo che ama i Tartari, per essere dispensato dall’amare i suoi vicini. L'uomo naturale è tutto per sé; è l'unità

numerica,

l’intero

assoluto

che

non ha altro rapporto che con se stesso o col suo simile. L'uomo civile non è che un'unità frazionaria dipendente dal denominatore, e il cui valore è in rapporto con l’intero, che è il corpo sociale. Le buone istituzioni sociali sono quelle che sanno meglio snaturare l’uomo, togliendogli la sua esistenza assoluta per dargliene una relativa e per trasportare l’io nell'unità comune; in modo che ogni particolare non si creda più uno, ma parte dell’unità, e non sia più sensibile se non nel tutto. Un cittadino di Roma

non era né Caio né Lucio;

Romano; egli amava, come esclusivamente chiarava Cartaginese to proprietà dei suoi qualità di straniero * Così

crudeli guerra

di

dei

le guerre

quelle

delle

delle

re è attenuata,

era un

perfino, la patria sua. Regolo si diper essere diventapadroni. Nella sua rifiutava di sedere repubbliche

monarchie. la loro

sono

Ma

pace

se

più

la

è terri-

nel Senato di Roma; bisognò che un Cartaginese glielo ordinasse. Egli s’indignava che si volesse salvargli la vita. E

vinse,

e

se

ne

ritornò

trionfante

a

morire fra i supplizi. Ciò non ha una grande relazione, mi pare, con gli uomini che noi conosciamo. Il Lacedemone Pedarete si presenta per essere ammesso al Consiglio dei trecento e ne è respinto: egli se ne ritorna tutto contento, poiché ha trovato a Sparta trecento uomini che valgono più di lui ?. Io suppongo questa sua manifestazione sincera;

e c'è motivo

di creder-

la tale: ecco il cittadino. Una donna di Sparta aveva cinque figli sotto le armi e aspettava notizie della battaglia. Arriva un Ilota ed ella gliene chiede tremando. « I vostri cinque figliuoli sono stati uccisi ». « Vile schiavo,

t'ho

forse

domandato

ciò? ». « Noi

abbiamo riportato la vittoria! ». La madre corre al tempio a rendere grazie agli Dei #. Ecco la cittadina. Colui che nell'ordine civile vuol con. servare la prevalenza ai sentimenti della natura non sa quello che vuole. Sempre in contradizione

con se stesso, sem-

pre titubante fra le sue inclinazioni e i suoi doveri, egli non sarà mai né uomo né cittadino; egli non sarà buono né per

sé né per gli altri. Sarà uno di quegli

uomini

dei

nostri

giorni,

un

Francese,

un Inglese, un borghese, cioè nulla. Per essere qualche cosa, per essere se

stesso

e sempre

uno,

bisogna

agire

co-

me si parla; bisogna essere sempre de-

ciso

sul

partito

che

si

deve

prendere,

prenderlo arditamente e seguirlo sempre. Aspetto che mi si mostri questo prodigio per sapere se è uomo o cittadino, o come si comporta per essere al tempo stesso l’uno e l’altro. Da questi oggetti, necessariamente opposti, derivano due forme contrarie di istituzione: una pubblica e comune, l’altra particolare e domestica. Se volete avere un'idea dell’educazione pubblica, leggete la Repubblica di bile: è meglio dito.

essere loro nemico

che loro sud-

EMILIO

354 Platone. Non è un lavoro di politica, come pensano coloro che giudicano i libri solo dai titoli; è il miglior trattato di educazione che si sia mai scritto. Quando ci si vuol mandare al paese delle

chimere,

si nomina

la istituzione

di Platone: se Licurgo non avesse messo la sua che per iscritto, io la troverei assai più chimerica. Platone non ha fatto che epurare il cuore dell’uomo; Licurgo l’ha snaturato. L'istituzione pubblica non esiste più e non può più esistere, poiché là ove non c’è più patria non vi possono essere più cittadini”. Queste due parole patria e cittadino devono essere cancellate dalle lingue moderne. Io ne conosco ben

la ragione, ma non voglio dirla,

in quanto che essa non ha a che fare col mio soggetto. Non considero come una istituzione pubblica quegli stabilimenti ridicoli chiamati collegi *. Non conto neppure l'educazione del mondo, perché tendendo questa educazione a due fini contrari, contravviene a tutti e due: non serve che

a fare

degli

uomini

doppi,

i quali

sembrano riferire sempre tutto agli altri e invece non riferiscono altro che a se stessi. Ora queste dimostrazioni, essendo

comuni

a

tutti,

non

ingannano

nessuno. Sono tante premure sprecate. Da queste contradizioni nasce quella che continuamente proviamo in noi stesTrascinati dalla natura e dagli uomini per vie contrarie, obbligati a dividerci fra questi diversi impulsi, ne seguiamo uno composto che non ci mena né all'uno, né all’altro scopo. Così combattuti e incerti durante tutto il cotso della nostra vita, la terminiamo senza aver potuto metterci d’accordo con nol stessi, e senza essere stati utili né a

noi né agli altri. Resta infine l'educazione domestica o quella della natura; ma cosa diventerà per gli altri un uomo educato unicamente per sé? Se forse il duplice scopo

* Vi sono in parecchie scuole e specialmente nell'Università di Parigi !° dei professori che amo e stimo molto e che crederei assai capaci d’'istruire bene la gioventù, se non fossero obbligati a

che ci si propone potesse riunirsi in uno solo,

eliminando

le

contradizioni

del-

l'uomo, si toglierebbe un grande ostacolo alla sua felicità. Bisognerebbe, per giudicarne,

vederlo

tutto

formato;

bi-

parola,

co-

sognerebbe averne osservate le inclinazioni, veduti i progressi, seguito il cammino;

bisognerebbe,

in

una

biamo

fare?

senza

tratta

di

noscere l’uomo della natura. Credo che si sarà fatto qualche passo in queste ricerche dopo aver letto questo scritto. Per formare quest'uomo raro che dobpedire

che

Molto,

nulla

andar

sia fatto.

solo

dubbio:

contro

bordeggia; ma se il mare vuole star fermi, bisogna E bada, o giovine pilota, re la gòmena; bada che non

strisci

sul

fondo,

caso

nuoce

all'allievo,

rato;

ma

e

Quando

im-

si

vento,

si

è agitato e si gettar l'àncora. di non mollala tua àncora che

la

nave

fosse

altro

non vada alla deriva prima che tu te ne sia accorto. Nell’ordine sociale, in cui tutti i posti sono precisati, ciascuno deve essere allevato per il proprio. Se un individuo fatto per un dato posto ne esce, non è più adatto a nulla. L'educazione è utile solo in quanto la fortuna s'accorda con la vocazione dei genitori; in ogni altro non

che per i pregiudizi che gli ha dati. In Egitto, dove il figlio era obbligato a scegliere lo stato di suo padre, l'educazione aveva, almeno, uno scopo assicufra noi,

ove i

ceti sociali

soli

permangono e gli uomini mutano conti. nuamente,

nessuno

sa

se,

educando

il

proprio figlio per il suo ceto, egli non operi contro di lui. Nell’ordine

naturale,

essendo

gli

uo-

mini tutti eguali, la loro vocazione comune è lo stato di uomo; e chiunque sia bene educato per tale stato non può adempiere male quelli che vi si riferiscono. Che il mio allievo sia destinato alle armi, alla Chiesa, o alla toga, poco importa. Prima della vocazione dei genitori la natura lo chiama alla vita umaseguire

l'uso

prevalente,

voler pubblicare

Esorto

uno

di

essi

il progetto di riforma che

a

ha

concepito. Forse si sarà indotti infine a guarire il male, vedendo che non è senza rimedio.

LIBRO

355

PRIMO

na. Vivere è il mestiere che gli voglio insegnare. Uscendo dalle mie mani, egli non sarà, ne convengo, né magistrato, né soldato, né prete;

sarà prima

di tut-

to uomo: tutto quello che un uomo dev'essere, egli saprà esserlo, all’occorrenza, al pari di chiunque; e per quanto la fortuna possa fargli cambiar condizione, egli si troverà sempre nella sua. Occw-

pavi

te, fortuna,

atque

cepi;

omnesque

aditus tuos interclusi, ut ad me aspirare non posses?!. Il nostro vero studio è quello della condizione umana. Quegli fra noi che sa meglio sopportare i beni e i mali di questa vita è, a parer mio, meglio allevato; donde consegue che la vera educazione consiste meno in precetti che in esercizi. Noi cominciamo a istruirci cominciando

a vivere;

la nostra

educazio-

ne comincia con noi; il nostro primo precettore è la nutrice. Infatti questa parola educazione aveva presso gli antichi un senso che noi non le diamo più: significava nutrimento. Educi! obstetrix, dice

Varrone;

educat

nutrix,

instituit

pedagogus, docet magister. Perciò l'edu-

cazione,

il precettorato,

l'istruzione,

so-

no tre cose tanto diverse nel loro oggetto quanto la governante, il precettore e il maestro. Ma queste distinzioni sono

male intese;

e, per essere bene

allevato,

il fanciullo non deve seguire che una sola guida. Bisogna dunque generalizzare le nostre vedute, e considerare

nel nostro

al-

lievo l'uomo astratto, l'uomo esposto a tutti gli accidenti della vita umana. Se gli uomini nascessero coll’attaccamento al suolo di un paese, se la stessa stagione durasse

tutto

l'anno,

se ciascuno

te-

nesse alla sua fortuna in modo da non poterla cambiar mai, la pratica costituita sarebbe buona sotto certi riguardi; il fanciullo allevato per il suo stato, non uscendone mai, non potrebbe essere esposto agl’inconvenienti di un altro. Ma,

vista la mobilità

delle cose umane,

visto lo spirito inquieto e volubile di questo secolo che sconvolge tutto ad ogni generazione, si può concepire un metodo più insensato di quello di educare un fanciullo come se non avesse

da uscir mai dalla sua camera, come se dovesse essere incessantemente circondato dai suoi? Se il disgraziato muove un solo passo sulla terra, se discende di un solo gradino, è perduto. Non è insegnargli a resistere alla fatica; è esercitarlo a sentirla. Non si pensa che a conservare il proprio fanciullo; non è abbastanza: gli si deve insegnare a conservarsi quando sarà uomo, a sopportare i colpi del destino, ad affrontare l’opulenza e la miseria,

a

vivere,

non

fosse l’opera delle vostre cure, que-

dell'Islanda Malta. Per te perch'egli che muoia:

se

occorre,

tra

i ghiacci

o sulle rocce ardenti di quante precauzioni prendianon muoia, bisognerà pure e quand’anche la sua morte

ste sarebbero sempre mal intese. Si tratta meno d’impedirgli di morire che di farlo

agire;

nostri

vivere.

Vivere

non

è respirare,

è

è fare uso dei nostri organi, dei

sensi, delle nostre

facoltà, di tut-

te le parti di noi medesimi che ci danno il sentimento della nostra esistenza. L’uomo che ha vissuto di più non è quegli che ha contato il maggior numero di anni, ma colui che ha più sentito la vita. Taluno s'è fatto sotterrarè a cent'anni, ed era già morto dalla nascita. Egli avrebbe guadagnato a scendere nella fossa in gioventù, se fosse almeno vissuto fino a quel tempo. Tutta la nostra saggezza consiste in pregiudizi servili; tutti i nostri usi non sono che soggezione, fastidio e imbaraz-

zo.

L'uomo

civile

nella schiavitù:

nasce,

vive

e muore

alla nascita lo si impri-

giona nelle fasce; alla morte, lo si inchioda in una bara; e fino a che serba

un'effigie umana, è incatenato dalle nostre istituzioni. Si dice che parecchie levatrici pretendano,

acconciando

la testa

dei

neonati,

di darle una forma più conveniente: e lo si tollera! Le nostre teste starebbero male nella forma data loro dall’Autore del nostro essere: bisogna che esse siano foggiate al di fuori dalle levatrici, e al di dentro dai filosofi. I Caraibi sono di una metà più felici di noi.

« Appena il fanciullo è uscito dal se-

no della madre, e appena gode della li-

EMILIO

356 bertà di muovere e di distendere le sue membra, gli si mettono nuovi legami.

Lo si fascia, lo si corica con la testa fis-

sa, le gambe allungate e con le braccia pendenti lungo i lati del corpo; è involto nei panni e nelle bende di ogni specie, che non gli consentono di cambiar posizione. Fortunato se non lo si è stretto al punto da impedirgli di respirare, e se si è avuto la precauzione di coricarlo su di un fianco, affinché le ac-

que che deve rendere dalla bocca possano defluire da se stesse! Poiché egli non avrebbe la libertà di girare la testa da una parte per facilitarne il flusso» *.

Il neonato ha bisogno di distendere e di muovere le sue membra, per sottrarle all’intirizzimento nel quale, avvoltolate come un gomitolo, sono rimaste per così lungo tempo. Le si distendono, è vero, ma si impedisce loro di-muoversi; e anche la testa è stretta in un cuffiotto: pare si abbia paura ch'egli mostri di essere in vita. Così l'impulso delle parti interne d'un corpo che tende al suo incremento, trova un ostacolo insormontabile nei movimenti ch'esso gli chiede. Il fanciullo fa continuamente degli sforzi inutili che esauriscono le sue forze o ne ritardano lo sviluppo. Egli era meno stretto, meno

impacciato,

meno

compresso

nel-

l'amnio che non nelle fasce: non vedo quello ch'egli abbia guadagnato nel nascere. L'inazione,

la costrizione

a cui

sono

condannate le membra di un fanciullo, non possono che disturbare la circolazione del sangue e degli umori, impedendogli di rafforzarsi, di crescere, e alterando la sua costituzione. Nei luoghi in cui non ci sono affatto queste precauzioni stravaganti, gli uomini sono tutti grandi, forti, ben proporzionati **. I paesi nei quali si fasciano i bambini sono quelli che formicolano di gobbi, di zop-

ci si affretta a deformarli comprimendoli. Si renderebbero volentieri rattrappiti per impedir loro di storpiarsi. Una costrizione così crudele non potrebbe influire tanto sul loro umore quanto sul loro temperamento? Il loro primo sentimento è un sentimento di dolore e di pena: essi non trovano che ostacoli a tutti i movimenti di cui hanno bisogno; più sventurati di un crimi-

nale stretto in catene, fanno vani sforzi,

s'irritano, gridano. Le loro prime voci, dite voi, sono dei pianti? Lo credo bene:

li contrariate fin dalla nascita;

i pri-

mi doni che ricevono da voi sono catene, i primi trattamenti che subiscono sono torture. Non avendo di libero che la voce, come non se ne servirebbero per lamentarsi? Essi strillano pel male che fate loro: legati strettamente come loro, voi gridereste più forte ancora. Donde proviene questa usanza irragionevole? Da un'usanza disumana. Dacché le madri, trasgredendo al loro primo dovere, non hanno più voluto nutrire i loro figliuoli, si è dovuto affidarli a donne

mercenarie

che,

trovandosi

in tal

accada,

la nutrice

è im-

modo madri di fanciulli estranei, per i quali la natura non diceva loro nulla, non hanno cercato altro che di risparmiarsi ogni pena. Sarebbe stato necessario vegliare senza tregua su di un fanciullo in libertà: ma quando è ben legato, lo si getta in un canto senza preoccuparsi dei suoi strilli. Purché non ci siano prove della negligenza della nutrice, purché il poppante non si rompa né braccia né gambe, cosa importa, d’altronde, s'egli perisce o se rimane infermo per il resto dei suoi giorni? Si conservano le sue membra a spese del corpo;

mune

e, checché

da colpe.

Quelle dolci madri che, sbarazzate dei

loro

mente

figliuoli,

si

abbandonano

ai divertimenti

allegra-

della città, sanno

pi, di storti, di rachitici, e di deformi di

però qual trattamento viene fatto in campagna al loro figlio in fasce? AI mi-

si

sospende a un chiodo come un involto

ogni specie. Per paura che i loro corpi sformino

* Hist.

nat.,

con

t. IV,

dei

p.

movimenti

190,

in-12”,

liberi,

nimo

inconveniente

che

avviene,

*s Si veda la nota *** di p. 370.

lo

si

LIBRO

357

PRIMO

di cenci;

e mentre,

senza

fretta, la nu-

trice attende alle sue faccende, il disgraziato resta così crocifisso. Tutti quelli trovati in tale posizione avevano il viso violetto; il petto fortemente compresso non lasciava circolare il sangue, che risaliva alla testa; e si credeva il paziente molto tranquillo, perché non aveva la forza di gridare. Ignoro quante ore un fanciullo possa restare in tale posizione senza perdere la vita, ma dubito ch'egli possa durare a lungo. Ecco, io penso, una delle più grandi comodità delle fasce. Si pretende che i bambini in libertà potrebbero prendere degli atteggiamenti pericolosi, e dar motivo a movimenti capaci di nuocere alla buona conformazione delle loro membra. È questo uno di quei vani ragionamenti della nostra falsa saggezza, non confermati mai da alcuna esperienza. Di questa moltitudine di fanciulli che, presso i popoli più assennati di noi, sono allevati nella piena libertà

delle

loro

membra,

non

se

ne

un lavoro inutile, per ricominciarlo sempre,

e si cambia,

a danno

dato

spopolamento,

ci annunzia

Quest’uso,

per

della

l'allettamento

aggiunto

alle

specie,

moltiplicarla.

altre

cause

di

la prossima

sorte dell'Europa.

Le

scienze, le arti, la

i mariti,

soprattutto

filosofia e i costumi da essa generati, non tarderanno a farne un deserto”. Essa sarà popolata di bestie feroci, e non avrà molto mutato gli abitanti. Ho visto qualche volta il piccolo maneggio delle giovani spose che fingono di voler nutrire i loro figliuoli. Sanno farsi pregare di rinunciare a questo capriccio e fanno destramente intervenire i medici,

le madri.

Un marito che osasse acconsentire all’allattamento del figlio da parte di sua moglie sarebbe un uomo perduto; se ne farebbe un assassino che vuole disfarsi di lei. O mariti prudenti, bisogna immolare alla pace domestica l’amore paterno! Fortunati che sì trovino in campagna delle donne più caste

delle

vostre!

Più

fortunati,

se

il

zo di liberarsene del tutto: si vuol fare

tempo che queste guadagnano non è destinato per altri che per voi. Il dovere delle mogli non è dubbio: ma si discute se, dato il disprezzo che ne hanno, sia uguale per i fanciulli l'essere nutriti col loro latte o con un altro. Considero questa questione, della quale i medici sono i giudici, già decisa in favore delle mogli*; e in quanto a me, penserei anche che è meglio che il fanciullo poppi il latte di una nutrice sana che di una madre malaticcia, se egli avesse da temere qualche nuovo male insito nel sangue stesso che lo ha generato. Ma la questione si deve considerare soltanto dal lato fisico? E il fanciullo ha meno bisogno delle cure di una madre che della sua mammella? Altre donne e perfino delle bestie potranno dargli il latte ch'ella gli nega: ma la sollecitudine d’una madre non si sostituisce. Colei che nutre il figlio di

* La lega delle donne e dei medici mi è sempre parsa una delle più piacevoli singolarità di Parigi. È per mezzo delle donne che i medici acquistano la loro riputazione ed è per mezzo

gliono. Ci si immagina bene quindi quale abilità occorra a un medico di Parigi per diventare celebre.

vede uno solo che si ferisca o si storpi; essi non possono imprimere ai loro movimenti la forza che li renda pericolosi; e quando prendono una posizione violenta, il dolore li avverte subito di cam-

biarla. Noi non ci siamo mai sognati di mettere in fasce i piccoli dei cani e dei gatti; ne risulta forse qualche

inconvenien-

te da questa trascuranza? I bambini sono più pesanti; d'accordo: ma in proporzione sono anche più deboli. Possono appena muoversi; come potrebbero storpiarsi? Se si distendessero supini, morirebbero in questa posizione, come la tartaruga, senza potersi mai rivoltare. Non contente di aver cessato di allattare i loro figliuoli, le donne si rifiutano di volerne mettere al mondo: la conseguenza è naturale. Appena lo stato di madre

è oneroso, si trova subito il mez-

dei medici

che le donne

fanno quello che vo-

EMILIO

358 un'altra invece del proprio è una cattiva madre; come potrà essere una buona

nutrice?

Potrà

forse

diventarlo,

ma lentamente; bisognerà che l’abitudine sostituisca la natura: e il bambino mal curato avrà il tempo di perire cento volte prima che la sua nutrice abbia contratto per lui una tenerezza di madre. Anche da questo vantaggio risulta un inconveniente che da sé solo dovrebbe togliere a ogni donna sensibile il coraggio di far nutrire il figlio suo da un'altra donna, cioè quello di dividere il diritto di madre o piuttosto di alienarselo; di. vedere suo figlio amare un'altra donna altrettanto e più di lei; di sentire che la tenerezza ch'egli serba per la sua propria madre è una grazia, mentre quella ch'egli prova per la sua madre adottiva è un dovere: poiché, ove ho trovato le premure di una madre,

non

devo

trovarvi

l’affezione

viva del figlio? Il modo con cui si rimedia a questo inconveniente è d’ispirare nei fanciulli un certo disprezzo per le loro nutrici, trattandole da vere serve. Quando il

loro ufficio è terminato, si ritira il bambino o si licenzia la nutrice; poi, a

forza di accoglierla male, le si impedisce di andare a vedere il suo piccolo poppante. In capo ad alcuni anni egli

non la vede più, non la conosce più; e la madre, che crede di sostituirsi a lei

e di riparare con un atto di crudeltà la sua trascuratezza, s'inganna. Invece di fare un tenero figlio di un lattante snaturato,

ella

lo

avvezza

all’ingratitu-

dine; ella gl’insegna a disprezzare un giorno tanto colei che gli ha dato la vita, quanto quella che l’ha nutrito col suo latte. Quanto insisterei su questo punto se fosse meno scoraggiante ripetere invano degli argomenti utili! Ciò importa cose più grandi di quello che pensiamo. Volete condurre ciascuno ai suoi primi doveri? Cominciate dalle madri, e resterete stupiti dei cambiamenti che produrrete. Tutto procede successivamente da questa prima depravazione: tutto

l'ordine

morale

si altera;

il carat-

tere si estingue in tutti i cuori; l’interno delle case prende un aspetto meno vivo; lo spettacolo commovente di una famiglia nascente non affeziona più i mariti, non impone più riguardi agli estranei; si rispetta meno la madre i cui figliuoli non si vedono; non c’è stabilità nelle famiglie; l'abitudine non

rafforza

più

i vincoli

del sangue;

non

vi sono né padri, né madri, né figliuoli, né fratelli, né sorelle; se tutti si cono-

scono appena, come si amerebbero essi? Ciascuno non pensa più che a sé. Quando la casa offre solo una litudine, bisogna ben andare

triste soa diver-

tirsi altrove. Ma che le madri si degnino di nutrire i loro figliuoli, e i costumi si ri-

formeranno

della

cuori;

natura lo

da

se

stessi,

i

si sveglieranno

Stato

si ripopolerà,

sentimenti

in tutti

e questo

i

primo punto, questo punto solo riunirà tutto. L'attrattiva della vita domestica è il migliore contravveleno dei cattivi costumi. Il chiasso dei fanciulli, che si crede importuno, diventa piacevole; rende il padre e la madre più necessari, più cari l’uno all’altra; stringe fra loro il vincolo coniugale. Quando la famiglia è viva e animata, le cure domestiche fanno la più cara occupazione della moglie e il più dolce divertimento del marito. Così da questo solo abuso corretto sorgerebbe ben presto una riforma generale, ben presto la natura avrebbe ripreso tutti i suoi diritti. Che una buona volta le donne ridiventino

madri,

e

subito

gli

uomini

ridiventeranno padri e mariti. Discorsi superflui! La noia stessa dei piaceri del mondo non ci riconduce mai a quelli. Le mogli hanno cessato di essere

madri;

esse

non

lo

saranno

più,

non vogliono più esserlo. Quand’anche lo volessero, lo potrebbero appena; oggi che

l'uso contrario

è in voga, ciascu-

na dovrebbe combattere l'opposizione di tutte quelle che l’avvicinano, consociate contro un esempio che le une non hanno dato e che le altre non vogliono seguire. Talvolta però si trovano ancora delle giovani donne di indole buona che,

LIBRO

359

PRIMO

osando su questo punto affrontare la tirannia della moda e i clamori del loro sesso,

compiono

con

virtuosa

intrepi-

dezza questo dovere tanto dolce che la natura impone loro. Possa il loro numero aumentare coll’attrattiva dei beni destinati a quelle che vi si dedicano! Fondandori sulle conseguenze che dà il più semplice ragionamento e sulle osservazioni che non ho mai viste smentite, oso promettere a queste degne madri un’affezione solida e costante da parte dei

loro

mariti,

una

tenerezza

vera-

mente filiale da parte dei loro figli, la stima e il rispetto del pubblico, dei parti felici senza accidenti e senza conseguenze, una salute forte e vigorosa, infine il piacere di vedersi un giorno imitate dalle loro figlie e citate come esempio a quelle di altri. Senza madre, non vi sono figliuoli. Fra loro i doveri sono reciproci; e se da una parte essi saranno mal compiuti, saranno altresì trascurati dall'altra. Il figlio deve amare sua madre prima di sapere che ne ha il dovere. Se la voce del sangue non è rafforzata dall'abitudine e dalle cure, si spegne nei primi anni, e il cuore

muore,

per

così

dire,

prima

di nascere. Eccoci, fin dai primi passi, fuori della natura. E la donna ne esce ancora per una via opposta quando, invece di trascurare le cure di madre, le porta all’eccesso; quando di suo figlio se ne fa un idolo; quando aumenta e alimenta la sua debolezza per impedirgli di sentirla; € quando, colla speranza di sottrarlo alle leggi della natura, allontana da lui ogni attacco penoso, senza pensare a quanti accidenti e pericoli ella accumula sul suo capo, per preservarlo un momento da alcuni incomodi, e senza pen sare che è una barbara precauzione il prolungare la debolezza dell'infanzia attraverso le fatiche degli uomini fatti. Teti, per rendere suo figlio invulnerabile, lo tuffò, dice la leggenda, nelle acque dello Stige. Questa allegoria è bella e chiara. Le madri crudeli di cui parlo,

fanno

altrimenti;

a forza

di

tuffare

i loro figli nella mollezza, Ii preparano

alla sofferenza; aprono i loro pori ai mali di ogni specie, di cui non mancheranno di essere preda nell’età matura !4. Osservate la natura e seguite la via ch'essa vi traccia. Essa esercita continuamente i fanciulli, tempra il loro carattere con prove di ogni specie, insegna loro per tempo a conoscere e pene e dolori. I denti che spuntano danno loro la febbre; coliche acute danno loro le convulsioni; tossi ostinate li soffocano; i vermi li tormentano; la pletora

corrompe il loro sangue; lieviti diversi vi fermentano e cagionano eruzioni pericolose. Quasi tutta la prima età è malattia e pericolo: la metà dei fanciulli che nascono perisce prima dell'ottavo anno. Superate le prove, il fanciullo ha guadagnato in forze; e appena può usufruire della vita, il principio ne diviene più fermo. Ecco la regola della natura. Perché la contrariate voi? Non vi accorgete che, pensando di corregperla, voi distruggete l'opera sua, voi impedite l'effetto delle sue cure? Fare dal di fuori ciò che essa fa dal di dentro, è, secondo voi, raddop-

piare il pericolo; mentre invece è fare una diversione, è mitigare quel pericolo. L'esperienza ci fa sapere che i fanciulli allevati delicatamente muoiono in maggior quantità che gli altri. Purché non si oltrepassi la misura delle loro forze, si rischia meno a impiegarle che a risparmiarle. Addestrateli dunque agli attacchi che essi avranno da affrontare un giorno. Abituate i loro corpi alle intemperie delle stagioni, dei climi, degli elementi,

alla

fame,

alla

sete,

alla

fati-

ca; temprateli nell'acqua dello Stige. Prima che l'abitudine del corpo sia radicata, gli si dà quella che si vuole senza pericolo; ma, una volta ch’esso sia nella sua consistenza, ogni alterazione gli diventa pericolosa. Un fanciullo può sopportare dei cambiamenti che un uomo non sarebbe in grado di tollerare; le fibre del primo, molli e flessibili, prendono senza sforzo la piega che loro si dà; quelle dell’uomo, più indurite, non cambiano più che con violenza la piega che hanno ricevuta. Si può dunque rendere

EMILIO

360 la

castiga prima che possa conoscere le sue

qualche rischio, non bisognerebbe per questo esitare. Poiché sono dei rischi inseparabili dalla vita umana, si può far meglio che farli cadere in quel periodo della sua durata nel quale sono meno pregiudizievoli? Un fanciullo diventa più prezioso col crescere dell’età, Al prezzo della sua persona si aggiunge quello delle cure che è costato; alla perdita della sua vita si aggiunge in lui il sentimento della morte. È dunque specialmente all’avvenire che bisogna pensare vegliando

così che si istillano presto nel suo giovane cuore le passioni che vengono poi imputate alla natura, e che dopo aver

un

fanciullo

robusto,

vita e la salute;

alla sua

senza

esporne

e quand’anche

conservazione;

colpe

vi fosse

è contro

i mali

maestro?

Il destino dell’uomo è di soffrire in tutti i tempi. La stessa cura della sua conservazione è legata alla sofferenza. Ben fortunato di conoscere nella sua infanzia soltanto i mali fisici! I quali, assai meno crudeli, assai meno dolorosi degli altri, ci fanno ben più raramente rinunziare alla vita. Non ci si uccide per i doloti

della

gotta;

non

ci sono

che

l’infanzia,

mentre

è

la

nostra

che

si

minaccia,

i

do-

vremmo compiangere. I maggiori nostri mali ci vengono da noi stessi. Nascendo, un fanciullo grida; egli passa la sua prima infanzia a piangere. Ora lo si dondola, lo si accarezza per acquietarlo,

ora

lo

lo

si

batte per farlo tacere. O noi facciamo ciò che gli piace, o noi esigiamo ch'egli faccia quel che piace a noi; o ci sottomettiamo ai suoi capricci o lo sottomettiamo

ai nostri:

non

c'è via di

mezzo,

piuttosto,

contribuito

della gioventù che bisogna armarlo prima che vi sia pervenuto: poiché, se il valore della vita aumenta fino all'età di renderla utile, quale follia non sarebbe risparmiare alcuni mali all'infanzia per moltiplicarli poi nell’età della ragione? Sono forse queste le lezioni del

dolori dell'anima che generano la disperazione. Noi compiangiamo la sorte del-

0,

bisogna ch'egli dia degli ordini o che ne riceva. Così le sue prime idee sono © di comando o di servitù. Prima di saper parlare egli comanda; prima di poter agire ubbidisce; e talvolta lo si

commetterne.

a renderlo

cattivo,

Ed

è

ci si la-

menta di trovarlo tale. Un fanciullo passa in questo modo sei o sette anni fra le mani delle donne, vittima o del loro capriccio o del suo; e dopo avergli fatto imparare questo e quello, cioè dopo aver sovraccaricata la sua memoria o di parole ch'egli non può capire, o di cose che non gli servono a nulla; dopo avergli soffocato il carattere con le passioni che si son fatte nascere, si affida questo essere non naturale alle mani d'un precettore, il quale finisce di sviluppare i germi artificiali che trova già bell'e formati, e gl'insegna tutto, fuorché a conoscere se stesso, a trar profitto

da se stesso,

a saper

vivere e a rendersi felice. Infine, quando

questo

fanciullo

schiavo

e

tiranno,

pieno di scienza e sprovvisto di buon senso, debole tanto di corpo quanto di

anima, vien lanciato nel mondo, facendo mostra della sua inettitudine, del

suo orgoglio e di tutti i suoi vizi, fa deplorare la miseria e la perversità umane. C'inganniamo; costui è l’uomo dei nostri capricci: quello della natura è fatto diversamente. Volete dunque ch'egli mantenga la sua forma originale? Conservatela fin dal momento che viene al mondo. Appena nasce, impadronitevi di lui e non lo lasciate più, finché non sia divenuto uomo: senza di ciò non riuscirete mai. Allo stesso modo che la vera nutrice è la madre, il vero precettore è il padre. Ch’essi si mettano d'accordo così nell’ordine delle loro funzioni come nel loro sistema; che dalle mani dell'una il fanciullo passi in quelle dell'altro. Egli sarà meglio educato da un padre giudizioso e corto di mente che dal più abile maestro del mondo; poiché lo zelo supplirà meglio al talento che il talento allo zelo. Ma gli affari, le funzioni, i doveri... Ah! i doveri! Senza dubbio l’ultimo è

LIBRO

361

PRIMO

quello di padre *. Non ci meravigliamo che un uomo, la cui moglie ha sdegnato di allattare il frutto della loro unione, sdegni di allevarlo. Non c'è quadro più seducente di quello della famiglia; ma una sola linea che manchi altera tutte le altre. Se la madre ha troppo poca salute per essere nutrice, il padre avrà troppi affari per essere precettore. I fanciulli allontanati, dispersi nei convitti, nei conventi, nei collegi, porte-

ranno

altrove l’amore della casa pater-

na, o, per

meglio

dire,

vi contrarranno

l'abitudine di non essere affezionati a niente. I fratelli e le sorelle si conosceranno appena. Quando saranno tutti raccolti per qualche ricorrenza, potranno essere molto gentili fra loro, ma si tratteranno come estranei. Appena non c'è più intimità fra i genitori, appena la comunanza della famiglia non fa più la dolcezza della vita, bisogna ben ricorrere ai cattivi costumi per supplirvi. Dov'è l’uomo abbastanza stupido da non vedere la connessione di tutto ciò? Un padre, quando genera ed alimenta dei figli, non fa con ciò che una terza parte del suo compito. Egli deve dare uomini

alla sua specie,

uomini

socievoli

alla società, cittadini allo Stato. Ogni uomo che, potendo pagare questo triplice debito,

non

lo fa, è colpevole,

e più

colpevole forse quando lo paga soltanto a metà. Colui che non può adempiere i doveri di padre, non ha il diritto di divenirlo. Non c’è né povertà, né lavoro, né rispetto umano, che lo dispensino dal nutrire i suoi figliuoli e dall’educarli da sé. O lettori, voi potete prestarmi fede. Io predico a chiunque abbia viscere e trascuri doveri così santi, che verserà a lungo lacrime amare sulla sua colpa e non ne sarà mai consolato !7, Ma che fa quest'uomo ricco, que. * Quando si legge in Plutarco! che Catone il Censore, il quale governò Roma con tanta gloria, educò da sé suo figlio fin dalla culla e con

tanta cura, che lasciava tutto per essere presen-

te quando la nutrice, cioè la madre, gli cambiava le fasce e lo lavava; quando si legge in Svetonio !9 che Augusto, parirone del mondo che aveva conquistato e che governava da sé, inse-

sto padre di famiglia così affaccendato e

costretto,

secondo

lui,

a lasciare

i suoi

figliuoli in abbandono? Egli paga un al. tro uomo, perché compia quei doveri che gli sono d’impaccio. Anima venale! Credi tu forse di dare a tuo figlio un altro padre per denaro? Non t'illudere; non è neppure un maestro che gli dai, ma un servo. Quegli ne formerà ben presto un secondo. Si discorre molto sulle qualità di un buon precettore. La prima ch'io ne esi. gerei, e questa sola ne suppone molte altre, è di non essere un uomo venale. Vi sono dei mestieri così nobili, che non si possono esercitare per denaro,

senza mostrarsi indegni di farli: tale è quello dell'uomo di guerra; tale è quello dell’istitutore. Chi dunque alleverà il mio figliuolo? Te l'ho già detto, tu stesso. Non lo posso. Non lo puoi!... fatti dunque un amico. Non vedo altro mezzo. Un precettore! O quale anima sublime!...

in verità,

per

fare un

uomo,

bi-

che

avvicinano

sogna essere padre o essere se stesso più che uomo. Ecco la funzione che voi tranquillamente affidate a dei mercenari. Quanto più ci si pensa, tanto più si scorgono nuove difficoltà. Bisognerebbe che il precettore fosse stato educato per il suo allievo, che i suoi domestici fossero stati educati per il loro padrone,

che

tutti

quelli

lo

avessero ricevuto le impressioni che devono comunicargli; bisognerebbe, di educazione

in

educazione,

risalire

fino

a

non si sa dove. Com'è possibile che un fanciullo sia allevato bene da chi non è stato bene allevato egli stesso? Questo

raro

mortale

è forse

introva-

ancora un'anima

umana?

bile? Lo ignoro. In questi tempi di avvilimento, chi sa a qual grado di virtù possa giungere

Ma

supponiamo

che questo prodigio si

gnava in persona ai suoi nipotini, che aveva continuamente sotto i suoi occhi, a scrivere, a nuotare, e gli elementi delle scienze; non si può fare a meno di ridere della piccola buona gente di quel tempo, che si divertiva a simili grullerie; troppo corta di mente, senza dubbio, per sapere accudire ai grandi affari dei grandi uomini dei nostri tempi.

EMILIO

362 sia trovato. È considerando quello che deve fare che noi vedremo ciò ch'egli deve essere. Quello ch'io credo di vedere anticipatamente è che un padre, il quale sentisse tutto il valore di un buon precettore, prendesse il partito di farne a meno; poiché allora durerebbe più fatica ad acquistarlo che a divenirlo egli stesso. Vuole egli dunque farsi un amico? Educhi suo figlio perché lo divenga; ed eccolo dispensato dal’ cercarlo altrove, e la natura avrà di già compiuto la metà dell’opera. Qualcuno di cui conosco soltanto la posizione sociale, mi ha fatto proporre di educare suo figlio. Senza dubbio egli mi ha fatto molto onore; ma, lungi dal lamentarsi del mio rifiuto, egli deve essere contento della mia discrezione. Se io avessi accettato la sua offerta e avessi errato nel metodo, sarebbe stata una

sta, l'autore, sempre a suo agio nei sistemi che è dispensato di mettere in pratica, dà senza fatica molti bei precetti impossibili a seguire, e che, per mancanza di particolari e di esempi, anche ciò ch'egli annunzia come applicabile, resta inutilizzato quando non ne abbia mostrata l'applicazione. Ho preso quindi la decisione di crearmi un allievo immaginario, di suppormi l’età, la salute, le cognizioni e il talento conveniente per accudire alla sua educazione e condurla dal momento della sua nascita a quello in cui, divenuto uomo fatto, non avrà più bisogno di altra guida che se stesso. Questo metodo mi sembra utile per impedire a un autore che diffida di sé di smarrirsi nelle stravaganze; poiché, appena si allontana dalla pratica ordinaria, non ha da fare altro che esperimentare la pro-

sarebbe stato peggio ancora; suo figlio avrebbe rinnegato il proprio titolo e non avrebbe più voluto essere principe. Sono troppo compreso della grandezza dei doveri di un precettore, e sento troppo la mia incapacità per accettare un simile incarico da qualunque parte mi venga offerto; e l'interesse stesso dell'amicizia non sarebbe per me che

il lettore sentirà per lui, se egli segue il progresso dell’infanzia e il cammino naturale al cuore umano. Ecco quanto ho cercato di fare ‘in tutte le difficoltà che si sono a me presentate. Per non ingrossare inutilmente

educazione

un

nuovo

mancata:

motivo

se

fossi

riuscito,

di rifiuto, Credo

che,

dopo aver letto questo libro, pochissimi saranno invogliati a farmi una simile offerta; e prego quelli che ne avessero desiderio, di non prendersi più questo inutile fastidio. Tempo fa ho già fatto un esperimento sufficiente di questo meStiere per essere ben certo che non ci sono

adatto !*; e il mio

stato me

tanti

altri, non

mano

ne di-

spenserebbe, ancorché i miei talenti me ne rendessero capace. Ho creduto di dover fare questa pubblica dichiarazione a coloro che sembrano non accordarmi abbastanza stima pet credermi sincero e fermo nelle mie risoluzioni. Non essendo in grado di adempiere al compito più utile, oserò almeno tentare quello più facile: a somiglianza di metterò

all’opera,

ma alla penna; e invece di fare quello che occorre, mi sforzerò di dirlo. So che, nelle imprese simili a que-

pria

sul suo

il volume

allievo, e sentirà

del libro, mi

sono

subito,

o

contentato

di enunciare i principi di cui ciascuno dovrebbe sentire la verità. Ma in quanto alle regole che potevano aver bisogno di prove, le ho tutte applicate al mio Emilio o ad altri esempi, e ho fatto vedere,

con

to

modo

particolari

molto

diffusi,

in

qual modo quello che proponevo poteva essere praticato: tale è almeno il piano che mi sono proposto di seguire. Sta al lettore ora giudicare se vi sono riuscito. Quindi è accaduto che ho dapprima parlato poco di Emilio, poiché le mie prime massime di educazione, benché contrarie a quelle che sono praticate, sono di un'evidenza tale, che ogni uomo ragionevole può difficilmente rifiutar loro il suo consenso. Ma a mano a mano che vado avanti, il mio allievo, condotin

diverso

dai

vostri,

non

è

più un fanciullo ordinario; gli occorre un regime apposta per lui. Allora egli appare più frequentemente sulla scena; e verso gli ultimi tempi, non lo perdo

LIBRO

PRIMO

363

più un momento di vista, fin quando, checché egli ne dica, non abbia il più piccolo bisogno di me. Non parlo punto qui delle qualità di un buon precettore; io le suppongo, e suppongo me pure dotato di tutte queste qualità. Leggendo questo lavoro si vedrà di quale liberalità faccio uso verso di me. Noterò soltanto, contro l'opinione comune, che il precettore di un fanciullo deve essere giovane e anche tanto giovane quanto può esserlo un uomo saggio. Vorrei, se fosse possibile, ch'egli stesso fosse fanciullo; ch’egli potesse diventare il compagno del suo allievo, e attirarsi la sua fiducia, prendendo parte ai suoi divertimenti. Non vi sono abbastanza cose comuni

fra l’infanzia e l’età

matura, perché possa prodursi un'affezione molto solida a questa distanza. I fanciulli lusingano talvolta i vecchi, ma non li amano mai. Si vorrebbe che il precettore avesse già fatta un’educazione. Questo è troppo; un medesimo uomo non può farne che una: se ne occorressero due per riuscire, con qual diritto si intraprenderebbe la prima? Con un'esperienza maggiore si saprebbe far meglio, ma non lo si potrebbe più. Chiunque abbia una volta adempiuto a questa condizione abbastanza bene per sentirne tutte le pene, non tenta affatto di impegnarvisi di nuovo; e se la prima volta l’ha compiuta male, è un cattivo precedente per la seconda. È

molto

diverso,

ne

convengo,

se-

guire un giovane per quattro anni o condurlo per venticinque. Voi date un precettore a vostro figlio già tutto formato; io voglio ch'egli ne abbia uno prima di nascere. Il vostro uomo può, ad ogni lustro, cambiare allievo; il mio non ne avrà che uno. Voi fate distinzione fra l’educatore e il precettore: altra pazzia! Fate forse differenza fra il discepolo e l'allievo? Non c'è che una scienza da insegnare ai fanciulli: è quella dei doveri dell’uomo, Questa scienza è una; e checché fonte dell'educazione

non

si divide.

Del

abbia detto Senodei Persiani, essa

resto, chiamo

piut-

tosto precettore che educatore il maestro di questa scienza, perché per lui si tratta meno d’istruire che di educare. Egli non deve dare precetti: deve farli trovare. Se importa scegliere con tanta cura il precettore, gli è ben permesso a sua volta di scegliersi l’allievo, specialmente quando si tratti di un modello da presentare. Questa scelta non può cadere né sul genio né sul carattere del fanciullo, che non si conosce

se non al ter-

mine del lavoro, e ch’io adotto prima che sia nato. Ove potessi scegliere, non prenderei che uno spirito comune, così come suppongo il mio allievo. Non si ha bisogno di allevare che gli uomini volgari; la loro educazione deve solo servite di esempio a quella dei loro simili. Gli altri si educano a loro dispetto. Il paese non è indifferente alla cultura degli uomini; essi sono tutto quello che possono essere soltanto nei climi temperati. Nei climi estremi lo svantaggio è visibile. Un uomo non è piantato come un albero in un paese per restarvi sempre; e colui che parte da uno degli estremi per arrivare all’altro è forzato a fare il doppio del cammino che fa, per arrivare allo stesso termine, colui che parta da un termine medio. Se pure l’abitante di un paese temperato percorra successivamente i due estremi, il suo vantaggio è ancora evidente; poiché, quantunque sia modificato quanto chi va da un estremo all’altro, si allontana però della metà meno dalla sua costituzione naturale. Un Francese vive nella Guinea e nella Lapponia; ma un Negro non vivrà egualmente a Tornea, né un Samoiedo a Benin. Sembra anche che l’organizzazione del cervello sia meno perfetta ai due estremi. Né i Negri né i Lapponi hanno l’intelligenza degli Europei. Se dunque io voglio che il mio allievo possa essere abitante della terra, lo prenderò in una zona

temperata;

in

Francia,

per

esem-

pio, piuttosto che altrove. Nel Nord gli uomini consumano molto sopra un suolo sterile; nel Mezzogiorno consumano poco sopra un suolo

EMILIO

364 fertile. Da questo deriva una nuova diffe renza che rende gli uni laboriosi e gli altri contemplativi. La società ci offre in un medesimo luogo l’immagine di queste differenze fra i poveri e i ricchi. I primi abitano il suolo sterile, e gli altri il paese fertile. Il povero non ha bisogno di educazione;

quella

del

egli non potrebbe l'educazione che il stato è quella che per se stesso e per de,

l'educazione

suo

stato

è

forzata;

deve

rendere

averne altra: invece, ricco riceve dal suo meno gli conviene e la società. D'altron-

naturale

un uomo adatto a tutte le condizioni umane: ora, è meno ragionevole allevare un povero per essere ricco che un ricco per essere povero; poiché, in proporzione

del

numero

dei

due

stati,

vi

sono più rovinati che arricchiti. Scegliamo dunque un ricco; saremo sicuri almeno d’aver fatto un uomo di più, mentre un povero può divenire uomo da se stesso. Per la medesima ragione non mi rincrescerà che Emilio sia nobile. Sarà sempre una vittima strappata al pregiudizio. Emilio è orfano. Non importa che abbia padre e madre. Incaricato dei loro doveri,

io succedo

in tutti i loro diritti,

Egli deve onorare i suoi genitori, ma non deve obbedire che a me. Questa è la mia prima o piuttosto la mia sola condizione. E vi devo aggiungere questa, la quale non ne è che una conseguenza: che non ci si strapperà mai l’uno dall'altro senza il nostro consenso. Questa clausola è essenziale, e io vorrei anche che

l’allievo e il precettore si ritenessero talmente come inseparabili, che la sorte dei loro giorni fossè comune fra loro. Appena considerano da lontano la loro separazione e prevedono il momento che deve renderli estranei l'uno all’altro,

essi

lo sono

di già;

ciascuno

si fa

il suo piccolo sistema a parte; e tutti e due, preoccupati del tempo in cui non saranno più insieme, non vi restano che a malincuore. Il discepolo considera il maestro soltanto come il vessillo e il flagello dell'infanzia: il maestro considera il discepolo solo come un pesante far-

dello di cui si strugge d'essere alleggerito; essi aspirano d'accordo al momento di vedersi liberati l'uno dall'altro; e siccome non c'è mai fra loro una vera affezione, l'uno deve avere poca vigilanza, l'altro poca docilità. Ma quando considerano di dover passare i loro giorni insieme, importa loro di farsi amare l’uno dall’altro, e per questo diventano reciprocamente cari. L'allievo non arrossisce di seguire nella sua infanzia l’amico che dovrà avere quando sarà grande; il precettore prende interesse a quelle cure di cui dovrà raccogliere il frutto, e tutto il merito che dà al suo allievo è un capitale messo a profitto per i suoi vecchi giorni. Questa intesa in precedenza presuppone un parto felice, un fanciullo ben formato, vigoroso e sano. Un padre non ha scelta e non deve aver preferenze nella famiglia che Dio gli manda: tutti i suoi figli sono egualmente suoi figli; egli deve a tutti le medesime cure e la medesima tenerezza. Siano essi storpi o no, siano gracili o robusti, ognuno

di

essi è un deposito del quale deve render

conto

alla

mano

da

cui

lo

riceve;

e il matrimonio è un contratto conchiuso tanto con la natura quanto coi congiunti. Ma chiunque s'impone un dovere che la natura

non gli ha assegnato, deve

as-

sicurarsi prima dei mezzi per compierlo; altrimenti si rende responsabile anche di ciò che non avrà potuto fare. Colui che s’incarica d’un allievo infermo e malaticcio cambia la sua funzione di precettore in quella di infermiere; egli perde a curare una vita inutile quel tempo che destinava ad aumentarne il valore: e si espone a vedere una madre in lacrime rinfacciargli un giorno la morte di un figlio che le avrà lungo tempo conservato. Io non m'incaricherei di un fanciullo malatiecio e cacochimo, dovesse pur vivere ottanta anni, Non voglio saperne di un allievo sempre inutile a se stesso e agli altri, che si occupi unicamente della propria conservazione, e il cui corpo nuoccia all'educazione dell’anima. Che farei prodigandogli invano le mie

LIBRO

PRIMO

365

cure, se non raddoppiare la perdita della società e toglierle due uomini anziché uno? Che altri in vece mia s’incarichi di questo infermo, acconsento, e approvo la sua carità; ma io non sono capace

di fare ciò; non so insegnare a vivere a chi non pensa che a fare a meno di morire. Bisogna che il corpo abbia del vigore per obbedire all'anima: un buon servitore dev'essere robusto. So che l’intemperanza eccita le passioni; a lungo andare

essa

estenua

anche

il corpo;

le

macerazioni, i digiuni, producono spesso il medesimo effetto per una causa opposta. Più il corpo è debole e più comanda; più è forte e più obbedisce. Tutte le passioni sensuali albergano in corpi effeminati; e tanto più questi se ne irritano, quanto meno possono soddisfarle. Un corpo debole indebolisce l’anima. Di qui l'impero della medicina, arte più perniciosa agli uomini di tutti i mali che pretende guarire. Per conto mio non so di quale malattia ci guariscano

i medici,

ma

mità,

la credulità,

di molto funeste:

so che ce ne danno

la viltà, la pusillaniil terrore

della

mor-

te: se ne guariscono il corpo, uccidono il coraggio. Cosa c’importa ch'essi facciano camminare dei cadaveri? Sono degli uomini che ci occorrono, e non se ne vedono uscire dalle loro mani. La medicina è di moda fra noi, e deve esserlo. È il divertimento delle persone oziose e scioperate, le quali, non sapendo cosa fare del proprio tempo, lo passano a conservarsi. Se avessero avuto la disgrazia di nascere immortali, sarebbero gli esseri più miserabili: una vita che non avessero mai paura di perdere non sarebbe per loro di alcun valore. Occorrono a queste persone dei medici che le minaccino per lusingarle, e che diano loro ogni giorno il solo piacere di cui siano suscettibili, cioè quello di non essere morte. Non ho alcuna intenzione di dilun-

garmi

qui

sulla

vanità

della

medicina.

Il mio scopo è solo quello di considerarla dal lato morale. Non posso però fare a meno di osservare che gli uomini

fanno sul suo impiego i medesimi sofismi che sulla ricerca della verità. Essi suppongono sempre che curando un malato lo si guarisca, e che cercando una verità la si trovi. Non vedono che bisogna bilanciare il vantaggio di una guarigione che il medico ha ottenuta con la morte di cento ammalati che ha uccisi, e l'utilità di una verità scoperta con il danno che fanno gli errori che pas sano nel medesimo tempo. La scienza che istruisce e la medicina che guarisce sono

ottime

senza

dubbio;

ma

la scien-

za che inganna e la medicina che ammazza sono cattive. Insegnateci dunque a distinguerle. Ecco il nodo della questione. Se noi sapessimo ignorare la verità, non

saremmo

la menzogna; ler

guarire

mai

lo zimbello

del-

la

non

se noi sapessimo non vo-

nonostante

natura,

morremmo mai per mano del medico: queste due astinenze sarebbero sagge; ci si guadagnerebbe certo a sottomettervisi. Non contesto dunque che la medi-

cina sia utile ad alcuni uomini,

ma dico

ch'essa è funesta al genere umano 9. Mi

si

dirà,

come

continuamente

si

fa, che gli errori sono del medico, ma che la medicina è per se stessa infallibile. Alla buon'ora: ma che essa venga dunque senza il medico; poiché, fino a tanto

che

verranno

insieme,

ci sarà

da

temere cento volte più dagli errori dell’artista, che da sperare dal soccorso dell’arte. Quest'arte menzognera, fatta più per i mali dello spirito che per quelli del corpo, non è più utile agli uni che agli altri: ci guarisce delle nostre malattie meno di quello che ce ne incuta lo spavento; allontana la morte meno che non

ce la faccia sentire in antecedenza;

consuma la vita invece di prolungarla; e quand’anche la prolungasse, sarebbe ancora a danno della specie, poiché ci rapisce alla società per le cure che ci impone, e ai nostri doveri per gli spaventi che ci dà. È la conoscenza dei pericoli che ce li fa temere: chi si credesse invulnerabile non avrebbe paura di nulla. A forza di armare Achille contro il pericolo, il poeta gli toglie il merito del valore; chiunque altro al suo po-

366

EMILIO

sto sarebbe un Achille di egual pregio. Se voi volete trovare degli uomini di vero coraggio, cercateli nei luoghi ove non ci sono medici; ove si ignorano le conseguenze delle malattie, e ove non si pensa affatto alla morte. Naturalmente l'uomo sa soffrire con costanza e muore in pace. Sono i medici con le loro ricette, i filosofi con i loro precetti, i preti con le loro esortazioni, che gli avviliscono il cuore e gli fanno disimparare a morire. Che mi si dia dunque un allievo che non abbia bisogno di tutta codesta gente, o io lo rifiuto. Non voglio che gli altri sciupino l'opera mia; voglio edu-

carlo

da

solo,

o

non

immischiarmene

affatto. Il saggio Locke, che aveva passato una parte della sua vita a studiar medicina,

raccomanda

vivamente

di non

dar troppe medicine ai fanciulli, né per precauzione, né per leggeri incomodi. Io andrò anche più lontano, e dichiaro che, non chiamando mai medico per me,

non ne chiamerò mai per il mio Emilio, a meno che la sua vita non sia în pericolo evidente; poiché allora null'altro di peggio gli potrà fare che ucciderlo. so bene che il medico non mancherà di trar profitto da questo indugio. Se il fanciullo

muore,

lo si sarà

chiamato

troppo tardi; se la scampa, sarà stato lui che l'avrà salvato. E sia: trionfi pure il medico; ma soprattutto ch’egli sia chiamato soltanto nel momento estremo. Nel caso in cui non si sapesse guarire, il fanciullo sappia di essere ammalato: quest’arte sostituisce l’altra e riesce spesso molto meglio è l'arte della

natura.

Quando

l’animale

è

amma-

lato, soffre in silenzio e sta tranquillo: ora non si vedono più animali languenti che uomini. Quanta gente hanno ammazzata l’impazienza, il timore, l’inquietudine e specialmente i rimedi, che la malattia avrebbe risparmiata e che il tempo solo avrebbe guarita! Mi si dirà che gli animali, vivendo in modo più * Ecco un esempio tratto da alcuni documenti inglesi, e ch'io non posso fare a meno di riportare, offrendo esso molte riflessioni da fare relative al mio soggetto: « Un tale per nome Pa-

conforme

alla

matura,

debbono

essere

le alla vita e alla salute, occorre

sapere

no

e che

soggetti a minori mali di noi. Ebbene! Questa maniera di vivere è precisamente quella ch'io voglio imporre al mio allievo; egli ne deve dunque trarre il medesimo profitto. La sola parte utile della medicina è l'igiene; e inoltre l'igiene è meno una scienza che una virtù. La temperanza e il lavoro sono i due veri medici dell’uomo: il lavoro stuzzica il suo appetito, e la temperanza gl’impedisce di abusarne. Per conoscere qual regime sia più utiqual regime osservano i popoli che stanmeglio,

che

sono

più

robusti

vivono più a lungo. Se con le osservazioni generali non si riscontra che l’uso della medicina dia agli uomini una salute più stabile e una più lunga vita; per il fatto stesso che quest'arte non è utile, essa è nociva, poiché impiega il tempo, gli uomini e le cose in pura perdita. Non solo il tempo che si passa a conservare la vita, essendo perduto per poterne usare, va sottratto; ma quando

questo tempo è impiegato a tormentarci, esso è peggio che nullo, è negativo; e,

per calcolare equamente, bisogna levarne altrettanto da quello che ci resta. Un uomo che viva dieci anni senza medici vive per se stesso e per gli altri più di colui che sia per trenta anni la loro vittima. Avendo fatto l'una e l’altra prova, mi credo

in diritto più di chiunque

to un

robusto

altro di trarne la conclusione. Ecco le mie ragioni per volere soltanallievo

e sano,

ed ecco

miei principi per mantenerlo tale. Non mi fermerò a lungo a provare l'utilità dei lavori manuali e degli esercizi del corpo, per rinforzare il temperamento e la salute; di questo nessuno discute più: gli esempi di longevità si hanno quasi tutti negli uomini che hanno fatto maggiori esercizi, che hanno sopportato le maggiori fatiche e che hanno lavorato di più *. Non entrerò neppure in

i

trizio Oneil, nato nel 1647, si è ammogliato nel 1760 per la settima volta. Ha servito nei drago-

ni durante il diciassettesimo anno del regno di

Carlo

II

e in diversi

altri corpi

fino

al

1740,

LIBRO

PRIMO

367

lunghi particolari sulle cure che prenderò per questo solo oggetto; si vedrà che esse entrano così necessariamente nella mia pratica, che basterà afferrarne lo spirito per non aver bisogno di altra spiegazione. Con la vita cominciano i bisogni. Al neonato occorre una nutrice. Se la madre acconsente a compiere il suo dovere, tanto meglio: le si daranno delle istruzioni per iscritto; poiché questo vantaggio ha il suo contrappeso, e tiene il precettore un po’ più lontano dal suo al. lievo. Ma è da credere che l'interesse del fanciullo e la stima per colui al quale ella acconsente ad affidare un deposito così caro, renderanno la madre attenta ai suggerimenti del maestro; e tutto ciò ch'ella vorrà fare, si è sicuri che lo farà meglio di un'altra. Se poi ci occorre

mo

una

nutrice

estranea,

comincia-

a sceglierla bene. Uno dei fastidi dei ricchi è quello di essere ingannati in tutto. Se giudicano male degli uomini, dovremmo per questo stupircene? Sono le ricchezze che li corrompono; e, per un giusto contraccambio, sentono per i primi il difetto del solo strumento che sia loro conosciuto. Tutto è mal fatto in casa loro, eccetto

quello

che

fanno

essi stessi;

e non vi fanno quasi nulla. Si tratta di cercare una nutrice? La fanno scegliere dall’ostetrico. Cosa avviene? Che la migliore è sempre quella ch'egli avrà pagata meglio. Non andrò dunque a consultare un ostetrico per quella di Emi. lio; avrò cura di sceglierla da me. Forse non ragionerò su questo argomento con tanta facondia quanto un chirurgo, ma

certamente

mio zelo avarizia.

Questa

agirò

con

miglior

non

è affatto

m'ingannerà scelta

meno

fede,

e il

un

così

della

sua

gran mistero; le regole ne sono note: ma non so se si debba prestare un po’ anno in cui ottenne il congedo. Ha fatto tutte le campagne di re Guglielmo e del duca di Marlborough. Quest'uomo non ha bevuto che birra ordinaria; si è sempre nutrito di vegetali, e non

ha mangiato

la carne

pranzi che dava

che solo durante

alla sua famiglia.

alcuni

La sua abitu-

dine è stata sempre di alzarsi e di coricarsi col

più di attenzione tanto all’età del latte quanto alla sua qualità. Il latte nuovo è interamente

sieroso;

esso

deve

essere

quasi aperitivo per purgare il resto del meconium condensato negl’intestini del fanciullo allora nato. A poco a poco il latte prende consistenza, e fornisce un nutrimento

più

solido

al

fanciullo,

di-

venuto più forte per digerirlo. Certamente non è per nulla che nelle femmine di ogni specie la natura cambia la consistenza del latte secondo l'età del poppante. Occorrerebbe dunque una nutrice sgravata di fresco per un fanciullo nato da poco. Ciò non è senza impaccio, lo so; ma appena si esce dall'ordine naturale, ogni cosa che voglia essere fatta bene, ha le sue difficoltà. Il solo espediente comodo è quello di far male; ed è anche quello che si sceglie. Occorrerebbe una nutrice tanto sana di cuore quanto di corpo: la violenza delle passioni come il turbamento degli umori può alterare il suo latte; per di più, attenersi unicamente al fisico, è vedere soltanto la metà dell'oggetto. Il latte può essere buono e la nutrice cattiva;

un

buon

carattere

è tanto

essen-

contrarrà

i vizi,

ziale quanto un buon temperamento. Se si prende una donna viziosa, non dico che

il suo

lattante

che

richiedono

ne

ma dico ch'egli ne soffrirà. Non gli deve essa, insieme col suo latte, delle cure zelo,

pazienza,

dolcezza,

pulizia? Se sarà ghiotta e intemperante, ella avrà ben presto guastato il suo latte; se sarà trascurata o collerica, che cosa diventerà in sua balìa un povero disgraziato che non può né difendersi né lamentarsi? Mai, checché possa accadere, i cattivi sono buoni a qualche cosa. La scelta della nutrice è tanto più importante in quanto il suo poppante non deve

avere

altra governante

che lei, co-

me non deve avere altro precettore che

sole, a meno che i suoi doveri non glielo abbiano impedito. Egli ha ora centotredici anni e sente bene, sta bene e cammina senza bastone. No-

nostante la sua età avanzata, non rimane un so-

lo momento inoperoso; e tutte le domeniche va alla parrocchia, accompagnato dai suoi figliuoli, nipoti e pronipoti ».

368

EMILIO

il suo istitutore. Questo era l’uso degli antichi, meno ragionatori e più saggi di noi. Dopo aver allevato dei fanciulli del loro

sesso,

le nutrici

non .li

lasciavano

più. Ecco perché, nelle loro produzioni teatrali, la maggior parte delle confidenti sono nutrici. È impossibile che un fanciullo, il quale passa successivamente per tante mani diverse, venga mai allevato bene. Ad ogni cambiamento egli fa dei confronti segreti che tendono sempre a diminuire la sua stima per quelli che lo governano, e conseguentemente la loro autorità sopra di lui. Se per una volta egli arriva a pensare che vi sono persone adulte che non hanno più ragione dei fanciulli, tutta l'autorità degli anni è perduta e l’educazione è mancata. Un fanciullo non deve conoscere altri superiori che suo padre e sua madre, o, in loro mancanza, la sua nutrice e il suo precettore; e inoltre è già

troppo

sione

uno

dei

due:

è inevitabile;

ma

e tutto

questa ciò

divi-

che

si

può fare per rimediarvi è che le persone dei due sessi che lo dirigono siano così bene

di accordo

sul suo

conto,

che

per

lui quei due non siano che uno solo. Occorre che la nutrice viva un po’ più comodamente, che prenda degli alimenti un po’ più sostanziosi, ma non deve cambiare interamente la sua maniera di vivere; poiché un cambiamento repentino e totale, anche se di male in meglio, è sempre pericoloso per la salute; e poiché il suo regime ordinario l’ha lasciata o resa sana e ben costituita,

rere; e ho per me l’esperienza, la quale c’insegna che i fanciulli così nutriti sono più soggetti alle coliche e ai vermi che gli altri. Ciò non deve recar meraviglia, poiché la sostanza animale in putrefazione formicola

di vermi;

il che

non

avviene

egualmente per le sostanze vegetali. Il latte, benché elaborato nel corpo dell'animale, è una sostanza vegetale *; la sua analisi lo dimostra; esso diventa facilmente acido; e, lungi dal lasciare alcuna traccia di ammoniaca, come fanno le sostanze animali, dà, come le

piante, un sale neutro essenziale. Il latte delle femmine erbivore è più dolce e più salutare di quello delle carnivore. Formato di una sostanza omogenea alla sua, ne conserva meglio la natura, e diventa meno soggetto alla putrefazione. Se poi si guarda alla quantità,

ciascuno

sa

che

i farinacei

fanno

più sangue della carne; e perciò devono fare anche più latte. Non posso credere che un fanciullo, il quale non fosse divezzato troppo presto o che fosse divezzato con nutrimenti vegetali e la cui nutrice vivesse anche soltanto di vegetali, andrebbe

mai

soggetto

ai vermi.

Può darsi che i cibi vegetali diano un latte più facile ad inacidirsi; ma io sono ben lontano dal considerare il latte acido come un cibo malsano: popoli interi che

non

ne

hanno

altro,

se ne

trovano

molto bene, e tutto questo apparato di assorbenti mi sembra una pura ciarlataneria. Vi sono dei temperamenti ai

a che pro farglielo cambiare? Le contadine mangiano meno carne e più legumi delle donne di città; e questo regime vegetale sembra più favorevole che contrario a loro e ai loro figliuoli. Quando hanno dei poppanti borghesi, si dà loro della zuppa e del lesso, persuasi che la minestra e il brodo di carne agevolino la loro digestione e forniscano maggior abbondanza di latte. Io non sono affatto di questo pa-

tal caso nessun assorbente potrebbe renderlo sopportabile; gli altri lo tollerano senza assorbenti. Si teme il latte scelto o accagliato: è una follia, poiché si sa che il latte si accaglia sempre nello stomaco. Ed è così ch’esso diventa un alimento abbastanza solido per nutrire i fanciulli e i nati degli animali: se non si accagliasse, sarebbe solo digerito e non li nutrirebbe affatto **, Si ha un bel

* Le donne mangiano pane, legumi, latticini; le femmine dei cani e dei gatti ne mangiano anche; perfino le lupe pascolano. Ecco dei succhi vegetali per il loro latte. Resta da esaminare

quello delle specie che non possono assolutamente nutrirsi che di carne, dato che di tali ve ne siano; di che io dubito. #* Benché i succhi che ci nutriscono siano li-

quali

il latte non

conviene

affatto, e in

LIBRO

369

PRIMO

mescolare il latte in mille modi, adoperare mille assorbenti; chiunque prenda latte digerisce formaggio; ciò è senza eccezione. Lo stomaco è così ben conformato per accagliare il latte, che è appunto con lo stomaco del vitello che si fa il caglio. Penso dunque che invece di cambiare il nutrimento

ordinario

delle nutrici,

basta darne loro in più abbondanza e meglio scelto nella sua qualità. Non è per la natura degli alimenti che il cibo di magro

riscalda,

è il condimento

solo

che li rende malsani. Riformate le regole della vostra cucina, non abbiate né salse, né fritture;

che il burro,

il sa-

le e i latticini non passino affatto sul fuoco; che i vostri legumi cotti nell’acqua siano conditi solo quando arrivano caldi caldi in ché riscaldare

tavola; e il magro, anzila nutrice, le fornirà del

latte in abbondanza e della migliore qualità *. Potrebbe accadere che, essendo il regime vegetale riconosciuto il migliore per il fanciullo, fosse poi il regime animale migliore per la nutrice? Vi è contradizione in ciò. È soprattutto nei primi anni della vita che l’aria agisce sulla costituzione dei fanciulli. In una pelle delicata e molle essa penetra per tutti i pori, modifica potentemente questi corpi appena nati, lasciandovi delle impressioni che non si cancellano affatto. Non sarei perciò di avviso che si levasse una contadina dal suo villaggio per rinchiuderla in città in una camera e per far nutrire il fanciullo in casa; preferisco ch'egli vada a respirare l'aria pura della campagna piuttosto che l’aria viziata della città. Egli prenderà

lo

stato

della

sua

nuova

madre,

te di tutto quello che consigliate è fatti-

bile, cosa si dovrà fare? mi si dirà... Ve

l'ho già detto, quello che fate; non c'è bisogno di consigli per ciò. Gli uomini non sono fatti per essere ammucchiati come formicai, ma sparsi sulla terra ch’essi devono coltivare. Quanto più si riuniscono, tanto più si corrompono. Le infermità del corpo, come

i vizi

dell'anima,

sono

l'infallibile

effetto di questa affluenza troppo numerosa.

L'uomo,

fra

tutti

gli

animali,

quegli che meno può vivere in branchi. Uomini ammassati come montoni perirebbero tutti in pochissimo tempo. L'alito dell'uomo è mortale ai suoi simili: ciò non è men vero in senso proprio che in senso figurato. Le città sono l'abisso della specie umana. In capo ad alcune generazioni le razze periscono o degenerano; bisogna rinnovarle, ed è sempre la campagna che contribuisce a tale rinnovamento. Mandate dunque i vostri figliuoli a ravvivare,

per

così

dire,

se

stessi

e

a

riprendere, in mezzo ai campi, il vigore che si perde nell’aria malsana dei luoghi troppo popolati. Le donne incinte che sono in campagna si affrettano a tornare a partorire in città; esse dovreb-

bero fare tutto il contrario, specialmente quelle che vogliono allattare i loro figliuoli. Avrebbero meno rimpianti di quello che pensano; e, in un soggiorno più naturale alla specie, i piaceri congiunti ai doveri della natura leverebbero loro ben presto il gusto di quelli che non vi si riferiscono. Dopo il patto, si lava dapprima il bambino con un po' d’acqua tiepida, a cui si mischia ordinariamente del vino. Que-

abiterà la sua casa rustica, e il suo precettore ve lo seguirà. Il lettore si ricorderà bene che questo precettore non è un uomo prezzolato, ma l'amico del padre. Se poi questo amico non si trova,

st'aggiunta del vino mi pare poco necessaria. Siccome la natura non produce

quidi, devono essere spremuti da alimenti solidi. Un uomo che lavora, il quale non vivesse che di brodo, perirebbe molto presto. Egli si sosterrebbe assai meglio col latte, poiché si accaglia.

* Coloro che vorranno discutere più a lungo i vantaggi e gl’inconvenienti del regime pitagorico, potranno consultare i trattati che i dottori Cocchi e Bianchi, suo avversario, hanno

se questo trasporto non è facile, se nien-

nulla

di

fermentato,

non

è da

credere

che l'uso di un liquore artificiale occorra alla vita delle sue creature. Per la medesima ragione, questa pre-

seritto su questo importante soggetto ?°

EMILIO

370 cauzione di fare intiepidire l’acqua non è neppure indispensabile; e infatti moltitudini di popoli lavano i neonati nei

dere più flessibile la tessitura delle fi-

ma i nostri, indeboliti già prima di nascere per la mollezza dei padri e delle

si abituasse a poco a poco a bagnarsi talvolta nelle. acque calde a tutti i gradi sopportabili, e spesso nelle acque fredde a tutti i gradi possibili. Così, dopo essersi abituati a tollerare le diverse temperature dell’acqua che, essendo un fluido più denso, ci investe da più punti € ci colpisce di più, si diventerebbe quasi insensibili a quelle dell’aria. Nel momento che il fanciullo respira

fiumi

o nel

mare,

madri, portano

senza

tanti

seco, venendo

riguardi:

al mondo,

un temperamento già guasto, che non bisogna esporre sin dal primo momento a tutte le prove che debbono ritemprarlo. Non è che gradatamente che si può ricondurli al loro vigore primitivo. Cominciate dunque dapprima col seguire l'uso, e non ve ne allontanate che a poco a poco. Lavate spesso i fanciulli; la loro sudiceria ne mostra il bisogno. Quando ci si prova appena ad asciugarli,

si straziano;

ma

di

mano

in ma-

no che essi si rinforzano, diminuite per gradi la tiepidezza dell’acqua, fino a che infine li laviate, estate e inverno, con

l'acqua fredda e anche ghiacciata. E siccome è necessario, per non esporli troppo, che questa diminuzione sia lenta, successiva e insensibile, ci si potrà servire del termometro per misurarla con esattezza.

Quest’uso del bagno, una volta stabilito, non deve più essere interrotto, e

bisogna continuarlo per tutta la sua vita. Io lo considero non solo dal lato della pulizia e della salute attuale, ma anche come una precauzione salutare per ren-

di

* Si soffocano i fanciulli nelle città a forza tenerli

rinchiusi

e vestiti.

Quelli

che

atten-

dono alle loro cure dovrebbero anche sapere che

l'aria fredda, lungi dal far loro male, li rinforza, mentre l'aria calda li indebolisce, dà loro la febbre e li uccide.

** Dico una culla per adoperare una parola

dell'uso, in mancanza di altre; poiché d'altronde sono persuaso che non è mai necessario cul. lare i fanciulli, e quest'abitudine è spesso per loro perniciosa. *** «Gli antichi Peruviani lasciavano le braccia libere ai fanciulli in fasce molto larghe; e quando li toglievano, li mettevano in libertà in un buco praticato per terra e pieno di panni-

lini, nel quale li calavano fino alla metà del cor-

po; in tal modo essi avevano le braccia libere e potevano muovere la testa e piegare il corpo a loro volontà, senza cadere e senza farsi male;

appena

potevano

fare un

passo,

si presentava

loro la mammella un po’ lontano, come un'esca, per costringerli a camminare. I piccoli negri sono talvolta in una posizione molto più penosa

bre, e farle cedere

rischio

freddo.

ai diversi Perciò

senza

gradi

vorrei

sforzo e senza

di calore

e di

che, crescendo,

ci

uscendo dai suoi involucri, non tollerate

che gli se ne diano degli altri che lo tengano ancora più stretto. Non cuffiotti, non fasce, non pannicelli; ma delle pezze ondeggianti e larghe, che gli lascino

tutte le membra

in libertà, e non

siano né troppo pesanti da impacciare i movimenti, né troppo calde da impedirgli di sentire le impressioni dell’aria *. Ponetelo in una gran culla ** bene imbottita, ove egli possa muoversi a suo agio e senza pericolo. Quando comincia a fortificarsi, lasciatelo strisciare per la camera; lasciategli sviluppare, stendere le piccole membra; voi le vedrete rinforzarsi di giorno in giorno. Confrontatelo con un fanciullo ben fasciato della stessa età, e rimarrete meravigliati della differenza dei loro progressi ***. per poppare; essi abbracciano una delle anche della madre con i loro ginocchi e i loro piedi, e la stringono tanto bene da potercisi sostenere

senza l'aiuto delle braccia della madre. Si attaccano alla mammella con le mani e la succhiano

costantemente senza disturbarsi e senza cadere, nonostante i diversi movimenti della madre la quale, durante questo tempo, lavora secondo il suo solito. Questi fanciulli cominciano a cammi-

nare fin dal secondo mese, o piuttosto a trasci-

narsi sui ginocchi e sulle mani. Questo esercizio dà loro la facilità, in seguito, di correre, in tale posizione, quasi così presto come se fossero sui loro piedi ». Hist. Nas., t. IV, p. 192. A questi esempi il signor Buffon avrebbe potuto aggiungere quello dell'Inghilterra, ove la stravagante e barbara abitudine delle fasce si abolisce di giorno in giorno. Si vegga anche La Loubère, viaggio nel Siam; il signor Le Beau, viaggio nel Canada ?!, ecc. Riempirei venti pagine di citazioni, se avessi bisogno di confermare ciò con dei fatti.

LIBRO

371

PRIMO

Dobbiamo aspettarci grandi opposizioni da parte delle nutrici, alle quali il fanciullo legato strettamente dà meno fastidi di quello che bisogna sorvegliare incessantemente. D'altronde la sua sudiceria diventa più sensibile in un abito aperto e occorre perciò pulirlo più spesso. Infine l'usanza è un argomento che non si confuterà mai in certi paesi, secondo la volontà del popolo di tutti i ceti. Non ragionate punto con le nutrici; ordinate,

vedete

fare,

e non

risparmia-

te nulla per rendere agevoli nella pratica le cure che avrete prescritte. Perché non le dividereste? Negli allattamenti ordinari

in cui non si bada che al fisico,

vita, il scepolo,

fanciullo, non del

debole

intelletto,

purché il fanciullo viva e non deperisca, il resto non importa affatto: ma qui, dove l'educazione comincia colla nascendo, precettore,

è

ma

già

didella

natura. Il precettore non fa che studiare sotto questo primo maestro e impedire che le sue cure siano contrariate. Egli vigila il lattante, l’osserva, lo segue, spia con cura la prima luce del suo come

all’avvicinarsi

del primo quarto i mussulmani spiano l'istante del levarsi della luna. Noi nasciamo capaci d’imparare, ma non sapendo

nulla, non conoscendo

nul-

la. L'anima, incatenata in organi imperfetti e semi-formati, non ha neppure il sentimento della sua esistenza. I movimenti, le grida del fanciullo appena nato, sono effetti puramente meccanici, sprovvisti di conoscenza e di volontà. Supponiamo che un fanciullo avesse,

al suo nascere, la statura e la forza d’un uomo maturo, che uscisse, per così dire, tutto armato dal seno di sua madre, come Pallade uscì dal cervello di Giove;

quest'uomo fetto

fanciullo

imbecille,

un

sarebbe

automa,

una

un

per-

statua

immobile e quasi insensibile: egli non vedrebbe niente, non intenderebbe nulla,

non

conoscerebbe

nessuno,

non

sa-

prebbe girare gli occhi verso ciò che avesse bisogno di vedere: non soltanto non percepirebbe alcun oggetto fuori di lui, ma non ne riferirebbe neppure alcuno all'organo del senso che glielo

avesse fatto percepire; rebbero

nei

i colori non

suoi occhi,

i suoni

sa-

non

re-

sterebbero nelle sue orecchie, i corpi che toccasse non sarebbero punto sul suo, egli non saprebbe neppure che ha un corpo: il contatto delle sue mani sarebbe nel suo cervello;

tutte le sue sen-

sazioni si riunirebbero in un solo punto; egli non esisterebbe che nel comune

sensoriut:;

non

avrebbe

che

una

sola

idea, cioè quella dell'io, alla quale rifetirebbe tutte le sue sensazioni; e questa idea, o piuttosto

questo

sentimento,

sarebbe la sola cosa ch'egli avrebbe in più rispetto a un fanciullo ordinario. Quest'uomo,

formato

d’un colpo, non

saprebbe neppure rizzarsi sui propri piedi; gli occorrerebbe molto tempo per imparare a sostenersi in equilibrio; forse non ne farebbe neppure il tentativo, e voi vedreste questo gran corpo forte e robusto star tranquillo come una pietra, o strisciare e trascinarsi come un cagnolino. Egli sentirebbe l’angustia dei bisogni senza conoscerli, e senza immaginare alcun mezzo di provvedetvi. Non vi è alcuna immediata comunicazione fra i muscoli dello stomaco e quelli delle braccia e delle gambe; e quindi, anche se

circondato

da

cibi,

non

farebbe

un

passo per avvicinarsi a quei cibi, né stenderebbe la mano per prenderli; e siccome il suo corpo avrebbe raggiunto il suo

aumento,

le sue

membra

sareb-

bero tutte sviluppate, ed egli non avrebbe perciò né le inquietudini, né i movimenti continui dei fanciulli, potrebbe morir di fame prima d’essersi mosso per cercare la propria sussistenza. Per poco che si sia riflettuto sull’ordine e il progresso delle nostre cognizioni, non si può negare che tale sarebbe press’a poco lo stato primitivo d’ignoranza e di stupidità naturale all'uomo, prima ch’egli avesse imparato qualche cosa dall'esperienza o dai suoi simili. Si conosce dunque o si può conoscere il primo punto da cui parte ciascuno di noi per arrivare al grado comune dell’intendimento;

estremità? meno

ma

Ciascuno

chi

conosce

progredisce

l’altra

più

o

secondo il suo genio, il suo gusto,

EMILIO

372 i suoi bisogni, il suo talento, il suo zelo

e le occasioni che ha di abbandonarvisi. Io non so se vi sia stato qualche filosofo abbastanza ardito da dire: ecco il termine cui l’uomo può pervenire, e che non potrebbe sorpassare. Noi ignoriamo quello che la nostra natura ci permette

surato

di essere;

la distanza

un uomo

nessuno

che

di noi

può

e un altro uomo.

ha

esserci

Qual

mi-

fra

è l’ani-

ma bassa che questa idea non riscaldò mai e che non disse talvolta fra sé nel suo orgoglio: quanto cammino ho già fatto! Quanto ne posso ancora compiere! Perché il mio eguale andrebbe più lontano di me? Lo ripeto, l'educazione dell’uomo comincia alla sua nascita; prima di parlare, prima ancora d’intendere, egli si istruisce già. L'esperienza previene le lezioni; dal momento

che conosce la sua

nutrice, ha già acquistato molto. Saremmo sorpresi delle cognizioni dell’uomo più grossolano, se seguissimo il suo progresso dal momento in cui è nato a quello a cui è pervenuto. Se dividessimo tutta la scienza umana in due parti, una comune a tutti gli uomini e l’altra particolare ai dotti, questa sarebbe minima in confronto dell’altra. Ma noi non pensiamo punto alle cognizioni generali, poiché queste si fanno senza che

ci si pensi,

e anche

prima

dell'età

della ragione; e d'altronde il sapere si fa notare soltanto per le sue differenze e, come nelle equazioni di algebra, le quantità comuni si contano per nulla. Anche gli animali acquistano molto. Hanno dei sensi ed occorre ch’essi apprendano a farne uso; hanno dei bisogni ed occorre ch'essi imparino a provvedervi; bisogna infine ch’essi imparino a

mangiare,

a

camminare,

a

volare.

I

quadrupedi che si tengono ritti sui loro piedi fin dalla nascita, non sanno camminare per ciò; si vede ai loro primi passi che sono dei tentativi mal sicuri. I canarini scappati dalle loro gabbie non sanno volare, perché non hanno mai volato. Tutto è istruzione per gli esseri animati e sensibili. Se le piante avessero un movimento progressivo,

bisognerebbe che avessero dei sensi e acquistassero delle cognizioni; altrimenti le specie perirebbero subito. Le prime sensazioni dei fanciulli sono puramente affettive; essi non percepiscono che il piacere e il dolore. Non potendo né camminare né afferrare, hanno bisogno di molio tempo per formarsi a poco a poco le sensazioni rappresentative che mostrino loro gli oggetti fuori di loro stessi; ma in attesa che questi oggetti si estendano, si allontanino per così dire dai loro occhi, e prendano per essi dimensioni e figure, il ritorno delle

sensazioni affettive comincia a sottometterli all'impero dell'abitudine; si vedono i loro occhi volgersi senza tregua

verso

la luce,

e, se questa

viene

da

un

per

te-

lato, prendere appunto questa direzione; di modo che si deve aver cura di tener voltata

la loro

faccia

alla

luce,

ma che non diventino guerci o non si abituino a guardare di traverso. Devono anche assuefarsi per tempo alle tenebre; altrimenti piangono e strillano appena si trovano nell'oscurità. Il nutrimento e il sonno, troppo esattamente misurati,

diventano

loro

necessari

alla

fine dei medesimi intervalli; e ben presto il desiderio non viene più dal biso-

gno, ma dall'abitudine, o piuttosto l’abi-

tudine aggiunge un nuovo bisogno a quello della natura: ecco ciò che bisogna prevenire. La sola abitudine che si deve lasciar prendere al fanciullo è di non contrarne alcuna; non lo si porti quindi più sopra un braccio che sopra l’altro; non lo si avvezzi a presentare piuttosto una mano che l’altra, a servirsene più spesso, a voler

mangiate,

dormire,

agire

al.

le medesime ore, a non poter restar solo né notte né giorno. Preparate da lontano il regno della sua libertà e l’uso delle sue forze, lasciando al suo corpo l'abitudine naturale, mettendolo in grado di essere sempre padrone di sé, e di fare in ogni cosa la sua volontà, tosto che ne avrà una. Appena il fanciullo comincia a distinguere gli oggetti, è necessario sapere scegliere quelli che gli si mostrano. Naturalmente tutti i nuovi oggetti interes-

LIBRO

PRIMO

373

sano l’uomo. Egli si sente tanto debole che teme ciò che non conosce: l’abitudine di vedere nuovi oggetti senza esserne colpito distrugge tale timore. I fanciulli allevati in case pulite, ove non si tollerano punto i ragni, hanno paura dei ragni, e questa paura continua in loro anche da grandi. Non ho mai visto contadini,

siano

uomini,

donne

o

fan-

ciulli, aver paura dei ragni. Perché dunque l'educazione di un fanciullo non comincerebbe prima ch'egli parli e comprenda, una volta che la sola scelta degli oggetti che gli si presentano è atta a renderlo timido o coraggioso? Io voglio che lo si abitui a vedere oggetti nuovi, animali brutti, ributtanti, strani, ma a poco a poco, da lontano, fino a che si sia abituato, e che,

a forza di vederli toccati dagli altri, li tocchi infine egli pure. Se durante la sua infanzia avrà veduto, senza spaventarsi, dei rospi, dei serpenti, dei gamberi, vedrà senza orrore, quando sarà grande, qualsiasi animale. Non vi sono più oggetti spaventosi per chi ne veda ogni giorno. Tutti i fanciulli hanno paura delle maschere. Comincio col mostrare a Emilio una maschera d'un aspetto piacevole; poi qualcuno si applica davanti a lui questa maschera sul viso: io mi metto

a ridere,

tutti

ridono

e il fanciullo

ride come gli altri. A poco a poco lo abituo a maschere meno gradevoli, e infine a figure orrende. Se avrò ben praticate le mie gradazioni, anziché spa-

ventarsi

all'ultima

maschera,

ne

riderà

come alla prima. Dopo ciò non temerò più che lo si spaventi con delle maschere. Quando, negli addii di Andromaca e di Ettore 2, il piccolo Astianatte, spaventato dal pennacchio che sventola sull'elmo di suo padre, non lo riconosce, si getta strillando sul seno della nutrice e strappa a sua madre un sorriso pieno di lacrime, che bisogna fare per guarire quello spavento? Precisamente quello che fa Ettore, posare l'elmo a terra e poi accarezzare il fanciullo. In un momento più tranquillo, non ci si limite-

rebbe a questo; ci si avvicinerebbe all’el-

mo, si giocherebbe con le piume, le si farebbero toccare al bambino; finalmen-

te la mutrice prenderebbe l'elmo e lo poserebbe ridendo sulla propria testa, se tuttavia la mano di una donna osasse toccare le armi di Ettore. Se si tratta di esercitare Emilio al rumore di un'arma da fuoco, brucio dapprima un po' di polvere in una pistola. Questa fiamma improvvisa e passeggera, questa specie di lampo lo rallegra: ripeto la stessa cosa con un po' più di polvere; a poco a poco aggiungo alla pistola una piccola carica senza stoppaccio, poi una più grande: finalmente l’avvezzo ai colpi di fucile, ai mortaretti,

ai

cannoni, alle più terribili detonazioni. Ho notato che i fanciulli hanno rara-

mente paura del tuono, a meno che gli scoppi non siano spaventosi e non feri-

scano realmente l’organo dell'udito; altrimenti questa paura vien loro soltanto quando hanno imparato che il tuono ferisce o qualche volta uccide. Quando la ragione comincia a spaventarli, fate che l’abitudine li rassicuri. Con una gradazione lenta e ben condotta si rendono l’uomo ed il fanciullo intrepidi a tutto. Nel principio della vita, quando la memoria e l'immaginazione sono ancora inattive,

il fanciullo

è attento

solo a

mollezza,

la

ciò che colpisce sul momento i suoi sensi; ed essendo le sensazioni i primi materiali delle sue conoscenze, offrirgliele in un ordine conveniente è preparare la sua memoria a fornirle un giorno nel medesimo ordine al suo intelletto; ma siccome egli è attento solo alle sue sensazioni, basta dapprima mostrargli molto distintamente il legame di queste medesime sensazioni con gli oggetti che le cagionano. Egli vuole toccare tutto, maneggiare tutto: non vi opponete a questa irrequietezza; essa gli suggerisce un tirocinio assai necessario. È così ch’egli impara a sentire il calore, il freddo,

la

durezza,

la

pe-

santezza, la leggerezza dei corpi; a giudicare della loro grandezza, della loro figura e di tutte le qualità sensibili, guar-

374

EMILIO

dando, palpando *, ascoltando, specialmente paragonando la vista al tatto, percependo coll’occhio la sensazione che detti corpi gli cagionerebbero sotto le dita. Solo col movimento noi impariamo che vi sono delle cose dissimili da noi; e solo col nostro proprio movimento acquistiamo l’idea dell’estensione. Ed è perché il fanciullo non ha questa idea, che stende indifferentemente la mano per afferrare l'oggetto che lo commuove, o quello che è a cento passi da lui. Questo sforzo che fa vi pare un segno di comando, un ordine ch'egli dà al l'oggetto di avvicinarsi, o a voi di portarglielo; ma non è così; è soltanto che i medesimi oggetti ch'egli vedeva dapprima nel suo cervello e poi sotto gli occhi,

li vede

ora a portata

di mano,

e

non immagina altra estensione che quella a cui può giungere. Abbiate dunque

cura di farlo camminare

spesso, di por-

tarlo da un posto a un altro, di fargli sentire il cambiamento di luogo, per insegnarli a giudicare le distanze. Quando comincerà a conoscerle, bisognerà allora cambiar metodo, e portarlo solo come piace a voi, non come piace a lui; poiché, appena egli non sarà più ingannato dal senso, il suo sforzo cambierà di

causa.

Questo

cambiamento

è notevole,

to;

così

dev'essere.

Poiché

silenzio;

e quando

sono

e richiede spiegazione. Il disagio dei bisogni si esprime con dei segni, quando il soccorso altrui è necessario per provvedervi. Donde le grida dei fanciulli: essi piangono mol-

n'è una; ed è quella che i fanciulli parlano prima di saper parlare. Questa lingua non è articolata, ma è accentata, so-

nora, intelligibile. L'uso delle nostre ce l'ha fatta trascurare al punto da dimenti-

carla

interamente.

Studiamo

i fanciulli,

stri in questa lingua; esse tutto ciò che dicono i loro

intendono lattanti, e

e ben presto la impareremo di nuovo vicino ad essi. Le nutrici sono nostri maerispondono loro e hanno con essi dei dialoghi assai ben ordinati; e benché esse pronuncino delle parole, queste parole sono perfettamente inutili, poiché non è il senso della parola che essi intendono, ma l'accento col quale viene pronunziata. Al linguaggio della voce si unisce quello del gesto, non meno energico. Questo gesto non è nelle deboli mani dei

fanciulli,

ma

sul

loro

volto.

È

me-

raviglioso vedere quanta espressione hanno già quelle fisonomie mal formate: i loro lineamenti cambiano da un momento all'altro con incredibile rapidità:

voi

vi

vedete

il sorriso,

il desi-

derio, lo spavento nascere e passare come tanti lampi: ed ogni volta vi par di vedere un altro viso. Essi hanno certamente i muscoli della faccia più mobili di noi, Per contrario, i loro occhi smor-

non possono quasi restare in uno stato d’indifferenza: o dormono o sono in balia di sensazioni. Tutte le nostre lingue sono delle opere d’arte. Si è per lungo tempo cercato se vi fosse una lingua naturale e comune a tutti gli uomini: senza dubbio ce

ti non dicono quasi nulla. Tale dev'essere il genere dei loro segni in un'età in cui non si hanno che bisogni corpo rali; l’espressione delle sensazioni sta nelle smorfie, l’espressione dei sentimenti sta negli sguardi. Siccome il primo stato dell'uomo è la miseria e la debolezza, così le sue prime voci sono il lamento e le lacrime. Il fanciullo sente i suoi bisogni e, non potendoli soddisfare, implora il soccorso altrui con grida; se ha fame o sete, piange; se ha troppo freddo o troppo caldo, piange; se ha bisogno di movimento e lo si mantiene in riposo, piange; se vuole dormire e lo si agita, piange. Quanto meno la sua maniera di essere è a sua disposizione e tanto più

* L'odorato è, di tutti i sensi, quello che si sviluppa più tardi nei fanciulli; fino all’età di due o tre anni non sembra che essi siano sensi.

bili né ai buoni né ai cattivi odori; hanno a questo riguardo l'indifferenza o piuttosto l'insensibilità che si nota in parecchi animali.

e

tutte

le

penose,

lo

loro sensazioni sono affettive, quando queste sono piacevoli, essi ne godono in

dicono nel loro linguaggio e ne chiedono sollievo. Ora, fino a che sono

svegli,

LIBRO

PRIMO

375

domanda frequentemente che la si cambi. Non ha che un linguaggio, poiché non ha, per così dire, che una

specie di

malessere: nell’imperfezione dei suoi organi egli non distingue punto le loro diverse impressioni; tutti i mali non formano per lui che una sensazione di dolore. Da

queste

lacrime, che si crederebbe-

ro tanto poco degne di attenzione, nasce il primo rapporto dell’uomo con tutto ciò che lo circonda: qui si forma il primo anello di quella lunga catena di cui è formato l’ordine sociale. Quando il fanciullo piange, non è a suo agio, ha qualche bisogno che non può soddisfare: si esamina, si cerca questo bisogno, lo si trova, vi si provve. de. Quando non lo si trova o quando non vi si può provvedere, i pianti continuano e ne siamo importunati: si accarezza il fanciullo per farlo tacere, lo si culla, gli si canta per addormentarlo:

s'egli si ostina,

ci si impazienta,

lo si

minaccia; delle nutrici brutali talvolta lo

picchiano, Ecco delle strane lezioni per la sua entrata nella vita. . Non dimenticherò mai d’aver veduto uno di questi incomodi piagnucoloni in tal modo picchiato dalla sua nutrice. Egli si chetò subito: io lo credetti intimidito. Io dicevo fra me: sarà un'anima servile, da cui non si otterrà nulla se non con la severità. M'ingannavo; il disgraziato soffocava dalla collera, aveva

perduto il respiro; lo vidi diventar violetto. Un momento dopo vennero le grida acute; tutti i segni del risentimento, del furore, della disperazione di quell’età, erano nei suoi accenti. Temetti che spirasse in quell’agitazione. Quand'anche avessi dubitato che il sentimento del giusto e dell'ingiusto fosse innato nel cuore dell’uomo, questo solo esempio mi avrebbe convinto. Son sicuro che un tizzone ardente caduto per caso sulla mano di questo fanciullo gli sarebbe stato meno sensibile di quel colpo abbastanza leggero, ma dato con l'intenzione manifesta di offenderlo. Questa disposizione dei fanciulli alla collera,

al

dispetto,

all’ira,

richiede

ri-

guardi eccessivi. Boerhaave? pensa che

le loro malattie siano, per la maggior parte, della specie convulsiva, perché essendo la testa in proporzione più grossa e il sistema nervoso più esteso che non negli adulti, il genere nervoso è più suscettibile d’irritazione. Allontanate da essi con la più gran cura i domestici

che

li provocano,

li irritano,

li

diventeranno



ribelli



più

robusti

di

impazientano; costoro sono cento volte più pericolosi e più funesti che le ingiurie dell’aria e delle stagioni. Fintantoché i fanciulli non troveranno resistenza che nelle cose e mai nelle volontà,

non

collerici, e si conserveranno meglio in salute. È questa una delle ragioni per cui i fanciulli del popolo, più liberi, più indipendenti, sono generalmente meno infermi,

meno

delicati,

quelli che pretendiamo allevare meglio contrariandoli di continuo: ma bisogna sempre pensare che vi è molta differenza fra l'obbedir loro e il non contrariarli. I primi pianti dei fanciulli sono delle preghiere: se non ci si bada, diventano presto degli ordini; cominciano col farsi assistere e finiscono col farsi servire.

Così

dalla

loro

debolezza,

da

cui

deriva dapprima il sentimento della loro dipendenza, nasce poi l’idea del comando e del dominio: ma, essendo questa idea eccitata meno dai loro bisogni che

dai

nostri

servizi,

di qui

comincia-

no a farsi sentire gli effetti morali, la cui causa immediata non è nella natura; e si vede già perché, fin da questa prima età, occotra chiarire l'intenzione segreta che detta il gesto o il grido. Quando il bambino stende la mano con sforzo senza dir nulla, crede di raggiungere l’oggetto, poiché non ne valuta

la distanza;

egli

è in

errore:

ma,

quando si lamenta e grida nello stendere la mano, allora non s’inganna più sulla distanza, comanda all'oggetto di

avvicinarsi o a voi di portarglielo. Nel

primo caso, portatelo all'oggetto lentamente e a piccoli passi; nel secondo, non fate neppure finta d’intenderlo:

quanto più griderà tanto meno dovete

ascoltarlo. Occorre abituarlo per tempo a non comandare né agli uomini, per-

376 ché

EMILIO non

ne

è il padrone,



alle cose,

perché queste non lo intendono. Cosicché, quando un fanciullo desidera qualche cosa che vede e che gli si vuol dare, è meglio portare il fanciullo all’oggetto che l'oggetto al fanciullo; egli trae da questa usanza una conclusio-

ne che è propria c'è proprio altro

della sua età, e non mezzo per suggerir-

gliela. L’'abate di Saint-Pierre 2* chiamava gli uomini dei grandi fanciulli; e reciprocamente si potrebbero chiamare i fanciulli dei piccoli uomini. Queste proposizioni hanno la loro verità come sentenze; come principi hanno bisogno di schiarimento. Ma quando Hobbes chiamava

il cattivo un fanciullo robusto, di-

ceva una cosa assolutamente contradittoria, Ogni cattiveria procede da debolezza; il fanciullo è cattivo solo perché è debole; rendetelo forte e sarà buo-

no: colui che potesse tutto non farebbe mai male. Di tutti gli attributi della Divinità onnipotente, la bontà è quello senza il quale la si potrebbe meno concepire. Tutti i popoli che hanno riconosciuto due principi hanno sempre considerato il cattivo come inferiore al buono;

senza

di che essi avrebbero

amare

l’uno

e

fat-

ta una supposizione assurda. Vedete qui appresso la «professione di fede del vicario savoiardo ». La sola ragione c’insegna a conoscere il bene e il male. La coscienza che ci fa odiare

l’altro,

sebbene

indipendente dalla ragione, non può dunque svilupparsi senza di quella. Prima dell'età della ragione, noi facciamo il bene

e il male

c'è moralità que ce ne delle azioni con noi. Un disordine in pe,

fracassa

senza

conoscerli;

e non

nelle nostre azioni, quantunsia talvolta nel sentimento altrui che hanno rapporto fanciullo vuole mettere il tutto quello che vede: romtutto

ciò che

può

toccare;

agguanta un uccello come farebbe di una pietra, e lo soffoca senza sapere quello che fa. Perché ciò? Dapprima la filosofia ce ne renderà ragione per mezzo dei vizi naturali: l'orgoglio, lo spirito di dominazione, l'amor proprio, la cattiveria del-

l’uomo;

il

sentimento

della

sua

debo-

lezza, potrà essa aggiungere, rende il fanciullo avido di compiere atti di forza e di esperimentare da sé il proprio potere. Ma vedete quel vecchio infermo e malandato,

ricondotto

dal circolo del-

la vita umana alla debolezza dell’infanzia; non soltanto egli resta immobile e tranquillo, ma vuole anche che così resti quanto è attorno a lui; il minimo cambiamento lo turba e l'inquieta; vorrebbe veder regnare una calma universale. Come mai la medesima impotenza aggiunta alle medesime passioni produrrebbe nelle due età effetti così diversi, se la causa primitiva non fosse

cambiata? E' dove si può cercare questa diversità

di cause,

se non

nello sta-

to fisico dei due individui? Il principio attivo,

comune

a

tutti

e

due,

si

svi-

del

fan-

luppa nell’uno e si spegne nell'altro; l'uno si forma e l’altro si distrugge; l'uno tende alla vita e l'altro alla morte. L'attività che vien meno si concentra nel cuore

del

vecchio;

in

quello

ciullo essa è sovrabbondante e si esten-

de al di fuori; egli si sente, per dir così,

abbastanza vitalità per animare tutto ciò che lo circonda. Che faccia o disfaccia, non importa: basta che muti lo stato delle cose, e ogni cambiamento è una azione. Che, se sembra ch’egli abbia maggiore inclinazione a distruggere, non è per cattiveria; è che l'azione che forma è sempre lenta e quella che distrugge, essendo più rapida, conviene meglio alla sua vivacità. Nel tempo stesso che l'Autore della natura dà ai fanciulli questo principio attivo, si dà cura che esso sia poco nocivo, lasciando loro poca forza per abbandonarvisi. Ma appena essi possono considerare le persone che li circondano come strumenti che è in loro facoltà di far agire, se ne servono per seguire la propria inclinazione e per supplire alla loro debolezza. Ecco in qual modo diventano importuni, tiranni, imperiosi, cattivi, indomabili; progresso che non

deriva da uno spirito naturale di dominio, ma che lo conferisce loro; poiché non occorre una lunga esperienza per sentire quanto sia piacevole l'agire per

LIBRO

377

PRIMO

le mani altrui, e il non aver bisogno che di agitare la lingua per far muovere l’universo. Crescendo,

si acquistano

le

forze,

si

diventa meno inquieti, meno turbolenti, ci si rinchiude di più in noi stessi. L'anima così, in

e il corpo equilibrio,

si mettono, per dir e la natura non ci

domanda più che il movimento necessario alla nostra conservazione. Ma il desiderio di comandare non si spegne col bisogno che lo ha fatto nascere; l'im-

perare sveglia e lusinga l'amor proprio, e l'abitudine lo fortifica: così succede il capriccio al bisogno, e così mettono le loro prime radici i pregiudizi e l’opinione.

Una volta conosciuto il principio, vediamo chiaramente il punto ove si abbandona la strada della natura: vediamo quello che occorra fare per mantenervisi. Invece di avere forze superflue, i fanciulli non ne hanno nemmeno a sufficienza per tutto ciò che da loro domanda natura; bisogna dunque lasciar loro l'uso di tutte quelle ch'essa dà loro, e di cui non possono abusare. Prima massima.

Bisogna aiutarli e supplire a ciò che manca loro, sia in intelligenza che in forza, in tutto quello che è bisogno

fisi-

co. Seconda massima. Bisogna, nei soccorsi che si danno loro,

limitarsi

do

non

unicamente

all’utile

reale,

nascere,

atteso

senza accordar nulla al capriccio o al desiderio irragionevole; poiché il capriccio non li tormenterà affatto quanlo si sarà

fatto

che esso non viene dalla natura. Terza massima.

Bisogna studiare con cura il loro lin-

guaggio e i loro segni, affinché, in un’età in cui essi non sanno dissimulare, si

possa distinguere nei loro desideri ciò che viene immediatamente dalla natura e ciò che viene dall'opinione. Quarta massima. Lo spirito di queste regole è di accordare ai fanciulli maggiore libertà vera e minor imperio, di lasciar loro fare più per se stessi e di esigere meno da al. tri. Così, abituandosi per tempo a su-

bordinare forze,

i propri

sentiranno

desideri

poco

alle

la privazione

loro

di

ciò che non sarà in loro potere. Ecco dunque una nuova e importantissima ragione per lasciare i corpi e le membra dei fanciulli assolutamente li beri, con la sola precauzione

di allonta-

narli dal pericolo delle cadute, e di scostare dalle loro mani tutto ciò che può ferirli. Infallibilmente un fanciullo che avrà corpo e mani libere piangerà meno di un fanciullo legato nelle fasce. Chi conosce soltanto i bisogni fisici non piange che quando soffre, ed è un grandissimo vantaggio; poiché allora si sa a puntino quando egli ha bisogno di soccorso,

e

non

bisogna

tardare

un

solo

istante a darglielo, se è possibile. Ma se non potete dargli alcun sollievo, restate tranquillo senza accarezzarlo per acquietarlo; le vostre carezze non guariranno la sua colica: però egli si ricorderà di quello che occorre fare per essere accarezzato; e s’egli riuscirà una volta a farvi interessare di lui a suo piacimento, eccolo divenuto vostro padrone; tutto è perduto. Meno

contrariati

nei loro movimenti,

i fanciulli piangeranno meno; meno seccati dai loro pianti, ci tormenteremo meno per farli tacere; minacciati o accarezzati meno spesso, saranno meno timidi

o meno

ostinati, e resteranno

me-

glio nel loro stato naturale. Lasciando piangete i fanciulli anziché affrettarsi a calmarli, si esporranno meno al pericolo dell’ernia; e la mia prova è che i fanciulli più trascurati vi sono assai meno soggetti degli altri. Non intendo dire con ciò che si debba trascurarli; occorre, invece, che si prevengano, e che non

ci si lasci avvertire dei loro bisogni dagli strilli. E neppure voglio che le cure che si prestano loro siano malintese. Perché si asterrebbero dal piangere, dal momento ch’essi vedono che le loro lacrime sono buone a tante cose? Ammaestrati dal valore che si annette al loro silenzio, si guardano bene dal prodigarlo. Essi lo fanno infine talmente valere, che non si può più pagarlo; ed è allora che, a forza di piangere senza

378

EMILIO

alcun

successo,

si

sforzano,

si

esauri-

scono e si uccidono. I lunghi pianti di un fanciullo, che non è né legato né ammalato e al quale nulla

si

lascia

mancare,

non

sono

che

pianti di abitudine e di ostinazione. Non sono l’opera della natura, ma della nutrice, la quale, per non saperne tollerare la molestia, la moltiplica, senza pensare che, facendo tacere il fanciullo oggi, lo si eccita a piangere di più domani. Il solo mezzo di guarire o di prevenire quest’abitudine è di non farvi alcuna attenzione. Nessuno cerca di darsi una pena inutile, nemmeno i fanciulli. Essi sono ostinati nei loro tentativi; ma se voi avete maggior costanza della loro

ostinazione,

essi

si

scoraggiano

e

non ci si provano più. È così che si risparmiano loro delle lacrime, e che si avvezzano a non versarne, se non quando il dolore ve li forza. Del resto, quando piangono per capriccio o per ostinazione, un mezzo sicuro per impedirli di continuare è di distrarli con qualche oggetto piacevole e sorprendente, che faccia loro dimenticare che volevano piangere. La maggior parte delle nutrici eccelle in questa arte la quale, bene usata, è utilissima;

ma

è importantissimo anche che il fanciullo non si accorga dell'intenzione di distrarlo,

e che

si

diverta

senza

credere

che si pensi a lui: orbene, ecco su che cosa tutte le nutrici sono malaccorte. Si divezzano troppo presto tutti i bambini. Il tempo in cui occorre divezzarli è indicato dallo spuntar dei denti, e questa dentizione è comunemente penosa

nale,

e dolorosa.

il fanciullo

temente

Per un

porta

istinto macchi-

allora

frequen-

alla bocca tutto ciò che ha, per

masticarlo. Si pensa di facilitarne l’operazione dandogli per dentaròlo qualche oggetto duro, come l’avorio o il dente di lupo. Credo che ci si inganni. I corpi duri, applicati sulle gengive, invece di rammollirle, le rendono callose, le induriscono, preparano uno strazio più penoso e più doloroso. Prendiamo sempre l’istinto per esempio. Noi non vediamo affatto i cuccioli esercitare i loro

denti nascenti sui ciottoli, sul ferro, sulle ossa, ma sul legno, sul cuoio, sui

cenci, su delle materie molli che cedono, e su cui i denti lasciano l'impronta. Non si sa più essere semplici in nulla, nemmeno riguardo ai fanciulli. Sonagli

d'argento,

d'oro,

di

corallo,

cri-

stalli a faccette, ninnoli d'ogni prezzo e d'ogni specie: quanti apparecchi inutili e perniciosi! Niente di tutto ciò.

Non

sonagli,

non

ninnoli;

piccoli

rami

d'albero coi loro frutti e con le loro foglie, una testa di papavero nella quale si

sentono

suonare

i

grani,

un

can-

nello di liquirizia ch'egli possa succhiare e masticare, lo divertiranno quanto quei magnifici gingilli, e non avranno l'inconveniente di avvezzarlo al lusso fin dalla sua nascita. È stato riconosciuto che la farinata non è un nutrimento molto sano. Il latte cotto e la farina cruda fanno molta saburra e si confanno poco al nostro stomaco. Nella farinata la farina è meno cotta che nel pane, e inoltre non ha fermentato; il pancotto, la crema di riso mi sembrano preferibili. Se si vuole poi assolutamente fare la farinata, conviene prima abbrustolire un po’ la farina.

Con

la farina

così

abbrustolita,

si

fa, nel mio paese, una zuppa molto gradevole e sana. Il brodo di carne e la minestra sono pure un mediocre alimento,

di cui bisogna

fare uso

il meno

possibile. Occorre che i fanciulli si avvezzino prima a masticare; è il vero mezzo per facilitare l'uscita dei denti: e

quando

cominciano

a

inghiottire,

i

succhi salivari mischiati cogli alimenti ne facilitano la digestione. Io farei loro dunque masticare dapprima delle frutta secche, delle croste. Darei loro per giocattoli dei bastoncelli di pane duro o dei biscotti simili al pane di Piemonte, chiamati nel paese grissini. A furia di rammollire quel pane in bocca, essi ne inghiottirebbero alla fine un poco: i denti si troverebbero spuntati ed essi sarebbero divezzati quasi prima che ce ne fossimo accorti. I contadini hanno di solito lo stomaco molto forte, e non sono divezzati con maggiori riguardi di questo.

LIBRO

379

PRIMO

I fanciulli sentono parlare fin dalla loro nascita; si parla loro non soltanto prima ch’essi comprendano ciò che si dice loro, ma anche prima che possano riprodurre le voci che odono. Il loro organo ancora insensibile non si presta che a poco a poco alle imitazioni dei

questo fanciullo seguiva l'analogia meglio dei nostri grammatici; infatti poiché gli si diceva: « vacci » (vas-y), perché non avrebbe egli detto « androcci? » (irai-je-t-y). Notate inoltre con quale giustezza egli evitava l’iato di frai-je-y o y irai-je? È colpa del povero fanciullo se noi abbiamo levato male a proposito dal-

pervengano dapprima al loro orecchio così distintamente come al nostro. Non disapprovo che la nutrice diverta il fanciullo con canti e con accenti assai piacevoli e variati; ma disapprovo ch’essa lo stordisca incessantemente con una moltitudine di parole inutili, delle quali non capisce che il tono onde sono pronunziate. Vorrei che le prime articola-

y, perché non sapevamo che farne? È una pedanteria insopportabile e una sollecitudine superflua lo sforzarsi di correggere nei fanciulli tutti questi piccoli sbagli contro l’uso, dei quali poi non mancano mai di correggersi da sé, col tempo. Parlate sempre correttamente da-

suoni che si fanno loro sentire, e non è neppure accertato che questi suoni

zioni che gli si fanno udire fossero rare, facili, distinte, spesso ripetute, e che le

parole che esse esprimono non°si riferissero che a oggetti sensibili i quali si potessero prima mostrare al fanciullo. La disgraziata facilità che abbiamo a contentarci di parole che non intendiamo punto comincia più presto di quello che si pensi. Lo scolaro ascolta in classe la verbosità del suo pedagogo, come ascoltava in fasce la ciarla della sua nutrice. Mi pare che sarebbe un istruirlo molto utilmente allevandolo a non capir niente. Le riflessioni nascono in folla, quando vogliamo occuparci della formazione del linguaggio e dei primi discorsi dei fanciulli. Checché si faccia, essi impareranno sempre a parlare nella stessa maniera, e tutte le speculazioni filosofiche sono a questo riguardo della più grande inutilità. Dapprima essi hanno, per così dire, una grammatica della loro età, la cui sintassi ha delle regole più generali della nostra; zione, si

l'esattezza

analogie,

e se vi si facesse bene attenrimarrebbe meravigliati del-

con

molto

la quale viziose,

seguono

se si vuole,

certe ma

regolarissime, e che sono urtanti solo per la loro durezza o perché l’uso non le ammette. Ho testé inteso un povero bambino sgridato molto da suo padre per avergli detto: « Padre mio, androcci? » (irai-je-t-y). Ora si vede bene che

la

frase

questo

avverbio

vanti a loro, fate in modo

più

que

volentieri altro,

con

e siate

determinante,

voi che

sicuri

ch'essi stiano

che

con

chiun-

insensibil-

mente il loro linguaggio si purificherà sul vostro, senza che li abbiate mai ripresi. Ma un abuso di ben altra importanza e non meno facile a prevenire consiste nell’affrettarsi troppo a farli parlare, come se si avesse paura ch’essi non imparassero a parlare da se stessi. Questa sollecitudine indiscreta produce un effetto direttamente contrario a quello che si cerca. Essi parlano più tardi e più confusamente: l’estrema attenzione che si fa a tutto ciò che dicono li dispensa

dall'articolar

bene;

e

siccome

si degnano appena di aprir la bocca, parecchi di essi conservano per tutta la vita un vizio di pronunzia e un parlar confuso che li rende quasi inintelligibili. Ho vissuto molto fra i contadini e non ho mai udito alcuno pronunziar l’r in gola, né uomo

né donna,

diversamente

nostri?

né ragazza

né ragazzo. Da che proviene ciò? Gli organi dei contadini son forse costruiti dai

esercitati in altro modo. la mia

finestra vi è una

No,

ma

sono

Dirimpetto al-

collinetta, sulla

quale si radunano, per giocare, i fanciulli del paese. Benché essi siano abbastanza lontani da me, distinguo perfettamente tutto ciò che dicono, e spesso ne traggo buone notizie per questo mio scritto. Tutti i giorni il mio orecchio m’inganna sulla loro età; intendo voci

di

fanciulli

di dieci

anni;

guardo,

EMILIO

380 vedo la statura e i lineamenti di fanciulli di tre o quattro -anni. E non limito a me solo questa esperienza; i cittadini che vengono a trovarmi e che consulto a questo proposito, cadono tutti nel medesimo errore. Ciò che genera questo errore è che

i fanciulli delle città, allevati fino a cin-

que o sei anni in una camera e sotto la guardia di una governante, non hanno bisogno che di borbottare per farsi intendere; appena che essi muovono le labbra,

ci

suggeriscono

si



loro

cura

delle

di

ascoltarli;

parole

si

ch’essi

pronunziano male, e, a forza di farvi attenzione, essendo continuamente presso

di essi le medesime persone, queste indovinano ciò ch'essi hanno voluto dire piuttosto che quello che hanno detto. In campagna è tutt'altra cosa. Una contadina non se ne sta continuamente presso il suo figliuolo: egli è obbligato ad

imparare

a dire molto

nettamente

e

ad alta voce ciò che gli occorre di farle intendere. Nei campi, i fanciulli dispersi, lontani

dal padre,

gli altri fanciulli, udire

a distanza,

dalla madre

si esercitano

e a misurare

e da-

a farsi

la forza

della voce sull’intervallo che li separa da coloro dai quali vogliono essere intesi. Ecco come s'impara veramente a pronunziare, e non balbettando alcune vocali all'orecchio di una governante attenta. Perciò, quando s'interroga il figliuolo di un contadino, la vergogna può trattenerlo dal rispondere; ma ciò ch'egli

sempre allevati nella casa paterna. ciò che impedisce loro di acquistare pronunzia chiara come quella dei tadini, è la necessità d’imparare a

Ma una conme-

moria molte cose, e di recitare ad alta voce quello che hanno imparato; poiché, studiando, essi si abituano a scilinguare,

a pronunziare male e con recitando, è peggio ancora: parole con fatica, trascinano no le sillabe: non è possibile do

la

memoria

negligenza: cercano le e allungache quan-

vacilla,

la

lingua

non

li avrà

non

balbetti anche. Così si contraggono o si conservano i difetti di pronunzia. Si vedrà in appresso che il mio Emilio non li avrà,

o almeno

per le medesime cause. Convengo che il popolo ni cadono

in un

contratti

e i contadi-

altro eccesso,

che

cioè

parlano quasi sempre con voce più alta

di quello

che

colazioni

forti

do

troppo

troppo,

mini,

che

ecc.

occorra,

esattamente, e aspre,

scelgono

che,

pronunzian-

hanno

che

male

le arti-

accentuano

i loro

ter-

Ma, in primo luogo, questo eccesso mi sembra assai meno scorretto dell’altro,

in

quanto

che,

essendo

la

prima

legge del discorso di farsi intendere, il più grande errore che si possa fare è di parlare senza essere intesi. Piccarsi di

non

aver

alcun

accento,

è come

to-

interprete

gliere alle frasi la loro grazia e la loro energia. L'accento è l'anima del discorso, esso gli dà il sentimento e la verità. L’accento mentisce meno della parola; è forse per questo che le persone bene educate lo temono tanto. È dall'uso di

s'intende nulla di ciò ch'egli borbotta fra i denti *. Crescendo, i ragazzi dovrebbero correggersi di questo difetto nei collegi e le ragazze nei conventi: infatti, gli uni e le altre parlano in generale più distintamente di quelli che sono stati

quello di canzonare le persone senza che se ne accorgano. All’accento proscritto succedono delle maniere di pronunziare ridicole, affettate, e soggette alla moda, come si notano per lo più fra i giovani di corte. Questa affettazione di parola e di contegno è ciò che rende gene-

* Ciò non è senza eccezioni; e spesso i fanciulli, che dapprima si fanno intendere meno, diventano poi i più assordanti quando hanno cominciato ad alzar Ia voce. Ma se occorresse entrare in tutte queste minuzie, non la finirei più; ogni lettore giudizioso deve vedere che

l'eccesso e il difetto, derivati dal medesimo abuso, sono egualmente corretti dal mio metodo. Io considero come inseparabili queste due massime: Sempre abbastanza, e mai troppo. Dalla prima bene applicata, l’altra deriva necessaria-

dice, lo dice nettamente;

che

la governante

faccia

invece occorre

da

al fanciullo della città; senza di che non

dir tutto sullo stesso tono, che è venuto

mente,

LIBRO

PRIMO

381

ralmente l’incontro del francese ributtante e dispiacevole alle altre nazioni. Invece di mettere dell'espressione nel suo parlare, vi mette dell’aria. Non è certo questo il mezzo di accattivarsi il favore altrui. Tutti questi piccoli difetti di linguaggio che si teme tanto di far contrarre

ai

fanciulli

non

sono

nulla;

si

prevengono o si correggono con la più grande facilità: ma quelli che si fanno loro contrarre, rendendo il loro parla-

re sordo, confuso, timido, criticandone continuamente il tono, e esaminando mi-

nuziosamente tutte le loro parole, non si correggono mai. Un uomo il quale non imparò a parlare che nei salotti si farà intender male alla testa di un battaglione e non incuterà rispetto al popolo durante una sommossa. Insegnate dapprima ai fanciulli a parlare agli uomini; essi sapranno ben parlare alle donne quando occorrerà. Nutriti in campagna in tutta la rusticità campestre, i vostri figliuoli vi acquisteranno una voce più sonora; essi non vi contrarranno il confuso balbettamento dei fanciulli della città; e neppure vi contrarranno le espressioni e il tono del villaggio, o almeno li perderanno facilmente quando il maestro, vivendo

con

essi

fin

dalla

nascita,

e vi-

vendovi di giorno in giorno più esclusivamente, preverrà o cancellerà, con la castigatezza del suo linguaggio, l’impressione del linguaggio dei contadini. Emilio parlerà un francese puro quanto posso conoscerlo io, ma lo parlerà più distintamente,

e lo

articolerà

molto

me-

glio di me. Il fanciullo che vuol parlare non deve ascoltare se non le parole che può intendere, e non dire che quelle che può articolare. Gli sforzi che fa per questo lo portano a raddoppiare la medesima sillaba, come per esercitarsi a pronunziarla più distintamente. Quando comincia

a balbettare,

non

vi

tormentate

molto a indovinare quello che dice. Pretendere di essere sempre ascoltato è pure una specie di comando;

e il fanciullo

non ne deve esercitare alcuno. Vi basti di provvedere molto attentamente al

necessario; sta a lui a ingegnarsi di farvi comprendere quello che non capite. E molto meno bisogna affrettarsi ad esigere che parli: saprà ben parlare da sé via via che ne sentirà l'utilità. Si nota, è vero, che quelli che cominciano a parlare molto tardi non parlano mai tanto distintamente quanto gli altri; rma non è perché essi abbiano parlato tardi che l'organo resta impacciato, è invece perché son nati con un organo impacciato, che cominciano a parlare

tardi;

bene

ciò

poiché,

se

così

non

fosse,

perché parlerebbero più tardi degli altri? Hanno essi forse meno occasioni di parlare, o ne sono meno stimolati? Anzi, l'inquietudine che dà questo ritardo appena ce ne accorgiamo, fa sì che ci affanniamo a farli balbettare assai più di quelli che hanno sciolto più presto lo scilinguagnolo; e questa fretta male intesa può contribuire ‘molto a rendere confuso il loro linguaggio, che con minor precipitazione avrebbero avuto il tempo di perfezionare di più. I fanciulli che si sollecitano troppo a parlare non hanno il tempo né d’imparare a pronunziar bene, né di concepir che

si

fa

loro

dire;

invece,

quando si abbandonano a loro stessi, essi si esercitano prima colle sillabe più facili a pronunziarsi; e, aggiungendovi a poco a poco qualche significato che ‘si capisce dai loro gesti, vi danno le loro parole prima di ricevere le vostre: ciò fa in modo che non ricevano queste che dopo averle capite. Non avendo

fretta

a

servirsene,

cominciano

dall'osservare bene qual senso voi attribuite ad esse; e quando se ne sono assi-

curati, le adottano.

Il più gran male della precipitazione con la quale si fanno parlare i fanciulli innanzi l’età non è che i primi discorsi che si tengono loro e le prime parole ch’essi dicono non abbiano alcun senso per loro, ma che queste parole abbiano un senso diverso da quello che loro diamo, senza che ce ne sappiamo accorgere; di modo che, pur sembrandoci che ci rispondano molto esattamente, essi ci parlano senza capirci e senza che noi li comprendiamo. È a simili equivoci

EMILIO

382 che è ordinariamente dovuta la sorpresa in cui ci gettano talvolta le loro domande, alle quali noi attribuiamo idee che essi non vi hanno affatto aggiunte. Questa disattenzione da parte nostra al vero senso che le parole hanno per i fanciulli, mi pare sia la causa dei loro primi errori; e questi errori, anche quan-

questa parola secondo l'uso della nostra lingua, fino all’età per la quale essa possiede altri nomi. Quando i fanciulli cominciano a parlare, piangono meno. Questo progresso è naturale; un linguaggio è sostituito all’altro. Appena essi possono dire, con

spirito per il resto della loro vita. Avrò più di un'occasione, in seguito, di chiarire questo punto con degli esempi. Restringete dunque più che potete il vocabolario del fanciullo. È un grandissimo inconveniente ch'egli abbia più parole che idee, e che sappia dire più cose di quello che possa pensarne. Io credo che una delle ragioni per cui i contadini hanno generalmente lo spirito più giusto che le persone della città, è che il loro dizionario è meno esteso. Essi hanno poche idee, ma le paragonano benissimo. I primi sviluppi dell’infanzia si operano quasi tutti insieme. Il fanciullo impara a parlare, a mangiare, a camminare, quasi nel medesimo tempo. È questa veramente la prima epoca della sua vita. Dapprima egli non è niente più di quello che era nel seno di sua madre;

dolore è troppo vivo perché la parola possa esprimerlo? Se allora essi contimuano a piangere, è colpa di quelli che stanno intorno a loro. Appena che una volta Emilio avrà detto: « Ho male », bisognerà che abbia dei dolori molto vivi per costringerlo a piangere.

do ne siano guariti, influiscono

sul loro

non ha nessun sentimento, nessuna idea;

ha appena delle sensazioni; non neppure la sua propria esistenza: Vivit, FINE

et DEL

LIBRO Eccoci

est

vitae

LIBRO

nescius

sente ipse

[suae 6,

PRIMO

SECONDO

al secondo

termine

della vita,

a quello col quale finisce propriamente l'infanzia; poiché le parole infans e puer non sono sinonimi. La prima è compresa nell’altra, e significa che mon può parlare; donde viene che in Valerio Massimo si trova puerum infantem!. Ma io continuo a servirmi di

parole, che soffrono, bero dire con grida,

Se

il

fanciullo

è

perché lo dovrebse non quando il

delicato,

sensibile,

se si mette naturalmente a piangere per nulla, rendendo le sue grida inutili e senza effetto, io ne inaridisco ben presto la fonte. Fino a che piange, non vado a lui; ci corro appena si è chetato. Subito la sua maniera di chiamarmi sarà di tacere o tutt'al più di gettare un solo grido. È per l'effetto sensibile dei segni che i fanciulli giudicano del loro senso; non c'è altra convenzione per loro: per quanto male un fanciullo si faccia, è rarissimo che pianga quando è solo, a meno che non abbia la speranza di essere inteso. Se cade, se si fa un gonfio alla testa, se gli esce il sangue dal naso, se si taglia le dita, anziché affaccendarmi intorno

a lui

con

aria

allarmata,

resterò

tranquillo, almeno per un po' di tem. po. Il male è fatto, è una necessità ch'egli lo sopporti; tutta la mia premura non servirebbe che a spaventarlo di più e ad accrescere la sua sensibilità. In fondo, quando si è feriti, è meno il colpo che la paura quello che affligge. Io gli risparmierò almeno quest'ultima anposcia; poiché certamente egli giudicherà del suo male come vedrà ch'io ne giudico: se mi vedrà accorrere con inquietudine per consolarlo e compiangerlo, si crederà perduto: se mi vedrà invece conservare il mio sangue freddo, riprenderà ben presto il suo e crederà il male guarito quando non lo sentirà più. È a quest'età che si prendono le prime lezioni di coraggio e che, sopportando sen-

LIBRO

383

SECONDO

za spavento dei dolori leggeri, s'impara gradatamente a tollerare i grandi. Anziché stare attento per evitare che Emilio

si ferisca, mi dispiacerebbe

mol-

to ch'egli non si ferisse mai e che crescesse senza conoscere il dolore. Soffrire è la prima cosa ch'egli deve imparare, e quella che avrà il maggior bisogno di sapere. Sembra che i fanciulli non siano piccoli e deboli se non per prendere senza pericolo queste importanti lezioni. Se il fanciullo cadrà dall’alto, non si romperà le gambe; se si picchierà con un bastone, non si spezzerà le braccia; se prenderà un ferro tagliente, non lo stringerà e non si taglierà molto. Non so che si siano mai visti fanciulli in libertà uccidersi, storpiarsi, né farsi un male considerevole, a meno

che non si siano imprudentemente esposti sopra luoghi elevati, o soli attorno al fuoco,

o che

si siano

lasciati

loro,

a

portata di mano, degli strumenti pericolosi, Che dire di quel cumulo di macchine che si radunano intorno a un fanciullo per armarlo di tutto punto contro il dolore,

fino a che, divenuto

gran-

de, egli resta in sua balìa, senza coraggio e senza esperienza, credendosi morto alla prima puntura e svenendosi alla vista della prima goccia del suo sangue?

La nostra manìa didascalica e pedantesca è sempre quella d'insegnare ai fanciulli ciò che imparerebbero molto meglio da se stessi, e di dimenticare quello che noi soli avremmo potuto insegnar loro. Vi è niente di più sciocco della pena che ci si dà per insegnar loro a

camminare,

come

se

si

fosse

visto

qualcuno che, per la trascuratezza della sua nutrice, non avesse saputo camminare da grande? Invece quante persone si vedono camminar male per tutta la vita, perché si è loro insegnato male a camminare!

Emilio non avrà né cèrcini, né panieri mobili, né carretti, né dande; o al-

meno, dacché comincerà a saper mette-

. * Non c'è nulla di più ridicolo e di più mal. sicuro che l'andatura di coloro che, da piccoli, sono stati troppo retti con le dande; codesta è

re un piede sosterrà che si farà che di lasciarlo una camera,

avanti all’altro, non lo si sui luoghi lastricati, e non passarvi in fretta *. Invece marcire nell’aria viziata di lo si meni ogni giorno in

mezzo a un prato. Là, che ruzzi, che cada cento volte

corra, che al giorno,

tanto meglio: imparerà più presto a rialzarsi. Sl benessere della libertà compensa molte ferite. Il mio allievo avrà spesso

delle

contusioni;

sarà sempre allegro: no meno,

sono

in

ricambio,

se i vostri ne han-

sempre

contrariati,

sem-

pre incatenati, sempre tristi. Dubito che il vantaggio stia dalla parte loro. Un altro progresso rende nei fanciulli il lamento meno necessario: quello delle loro forze. Potendo più da se stesi, hanno un bisogno meno frequente di ricorrere agli altri. Con la loro forza si sviluppa la conoscenza che li mette in grado di servirsene, È a questo secondo stadio che comincia propriamente la vita dell'individuo, è allora ch’egli acquista la coscienza di se stesso. La memoria estende il sentimento dell'identità su tutti i momenti della sua esistenza;

egli

diventa

veramente

uno,

il me-

desimo, e perciò già capace di felicità o di miseria. Importa dunque cominciare a considerarlo qui come un essere morale2 Quantunque si fissi press’a poco il più lungo termine della vita umana e si determinino le probabilità che si hanno di avvicinarsi a questo termine in ogni età, niente è più incerto della durata della vita di ogni uomo in particolare; pochissimi pervengono a questo più lungo termine. I più grandi rischi della vita sono al suo inizio; quanto meno si è vissuto e tanto meno si deve sperar di vivere. Dei fanciulli che nascono,

la

metà,

tutt'al

più,

perviene

all'adolescenza, ed è probabile che il vostro allievo non raggiungerà l’età adulta. Che si deve dunque pensare di que. sta educazione barbara che sacrifica il presente a un avvenire incerto, che caancora una di quelle osservazioni triviali a forza di essere giuste, e che sono giuste in più d'un senso,

EMILIO

384

me! Odo da lontano i clamori di quella falsa saggezza che ci getta incessantemente fuori di noi, che sempre conta il presente per nulla, e, inseguendo senza posa un avvenire che fugge via via che ci si avanza, a forza di trasportarci dove non siamo, ci trasporta dove non saremo mai. È questo il tempo, mi risponderete voi, di correggere le cattive inclinazio-

rica un fanciullo di catene di ogni spe-

cie, e comincia

col

renderlo

miserabile,

per preparargli, in un lontano avvenire, non so qual pretesa felicità, di cui, com'è a credere, non godrà mai? Quand’anche supponessi ragionevole questa educazione nel suo oggetto, come vedere, senza indignazione, dei poveri disgraziati sottomessi a un giogo insopportabile, e condannati a lavori continui,

come tanti galeotti, senza essere sicuri che tutte queste cure saranno loro mai utili? L'età della gaiezza passa in mezzo

ai

pianti,

ai

castighi,

alle

minacce,

alla schiavitù. Si tormenta lo sventurato per il suo bene; e non si vede la morte che si chiama, e che sta per afferrarlo in mezzo a questo triste apparato. Chi sa quanti bambini periscono vittime della stravagante saggezza d'un padre o d'un maestro? Felici di sfuggire alla sua crudeltà, il solo vantaggio che ricavano dai mali che ha fatto loro soffrire, è quello di morire senza rimpiangere la vita, di cui non hanno conosciuto che le tribolazioni. Uomini, siate umani, è il vostro primo dovere: siatelo per tutte le condizioni, per tutte le età, per tutto ciò che non è estraneo all'uomo. Quale saggezza c'è per voi fuori dell'umanità? Amate

l'infanzia;

favorite

i suoi

ni dell’uomo;

giuochi,

i

suoi piaceri, il suo amabile istinto. Chi di voi non ha rimpianto talvolta questa età in cui il riso è sempre sulle labbra e in cui l'anima è sempre in pace? Perché volete togliere a questi piccoli innocenti il godimento d’un tempo così corto che loro sfugge, e di un bene così prezioso di cui non possono abusare? Perché volete riempire di amarezza e di dolori questi primi anni così rapidi, che non ritorneranno per essi più di quel. lo che possano ritornare per voi? Padri, sapete voi il momento in cui la morte attende i vostri figli? Non vi preparate dei rimpianti, togliendo loro i pochi istanti che la natura dà loro: appena essi possono sentire il piacere di esistere, fate in modo

che,

in

qualunque

che ne godano;

ora

Dio

fate

li chiami,

è nell'età dell’infanzia,

in

cui le pene sono meno sensibili, che bisogna moltiplicarle, per risparmiarle poi nell'età della ragione. Ma chi vi dice che tutto questo accomodamento sia a vostra disposizione, e che tutte queste belle istruzioni di cui aggravate il debole spirito di un fanciullo non gli saranno un giorno più perniciose che utili? Chi vi assicura che risparmiate qualche cosa con i dispiaceri che gli procurate? Perché gli addossate più mali che non comporti il suo stato, senza essere sicuro che questi mali presenti siano a scarico dell'avvenire? E come mi proverete voi che queste cattive inclinazioni, di cui pretendete guarirlo, non gli vengano dalle vostre cure mal comprese, anziché dalla natura? Disgraziata previ-

non muoiano senza aver gustata la vita. Quante voci si leveranno contro di

denza,

che

rende

no

la

licenza

re,

non

un

essere

attualmente

miserabile, con la speranza bene o mal fondata di renderlo un giorno felice! Che se questi ragionatori volgari confondocon

la

libertà,

e

il fan-

ciullo che si rende felice con quello che si guasta, insegniamo loro a distinguerli. Per non correre dietro a delle chimedimentichiamo

ciò

che

convie-

ne alla nostra condizione. L'umanità ha il suo

posto

nell'ordine delle cose;

l'in-

fanzia ha il suo nell’ordine della vita umana: bisogna considerare l'uomo nell'uomo, e il fanciullo nel fanciullo. AsseEnare a ciascuno il suo posto e fissarvelo, ordinare le passioni umane secondo la costituzione

dell'uomo,

è

tutto

quanto

noi possiamo fare per il suo benessere. Il resto dipende

da cause

estranee,

che

non sono punto in nostro potere. Noi non sappiamo cosa sia Ja felicità o l'infelicità assoluta. Tutto è miscuglio in questa vita; non vi si gusta alcun sentimento puro, non si rimane due mo-

LIBRO

SECONDO

menti nello stesso stato. Le affezioni delle nostre anime con le modificazioni dei nostri corpi, sono in un flusso continuo, Il bene e il male sono comuni a noi tutti, ma in diversa misura. Il più felice è quegli che soffre meno dolori; il più misero è quello che sente meno piaceri. Sempre più sofferenze che gioie: ecco la differenza comune a tutti. La felicità dell'uomo quaggiù non è dunque che uno stato negativo; la si deve misurare dalla minore quantità di mali ch'egli soffre!. Ogni sentimento di dolore è inseparabile dal desiderio di liberarsene; ogni idea di piacere è inseparabile dal desiderio di goderne: ogni desiderio suppone una privazione, e tutte le privazioni che si provano sono penose; è dunque nella sproporzione dei nostri desideri e delle nostre facoltà che consiste la nostra miseria. Un essere sensibile le cui facoltà eguagliassero i desideri sarebbe un essere assolutamente felice. In che consiste dunque la saggezza umana o la via della vera felicità? Non precisamente nel diminuire i nostri desideri; poiché se fossero superiori alla nostra potenza, una parte delle nostre facoltà resterebbe inoperosa, e noi non godremmo di tutto il nostro essere: e neppure nell'estendere le nostre facoltà; poiché se i nostri desideri si estendessero tutt’insieme in rapporti più vasti, non ne diventeremmo che più miseri: ma nel diminuire l’eccesso dei desideri sulle facoltà, e nel mettere in eguaglianza perfetta la potenza e la volontà. È allora solamente che, essendo tutte le forze in attività, l'anima resterà frat-

tanto tranquilla e l’uomo si troverà ben disposto. È così che la natura, che fa tutto pel meglio, l’ha dapprima istituito. Essa non gli dà immediatamente se non i desideri necessari alla sua conservazione, e le facoltà sufficienti per soddisfarli. Essa ha messo tutte le altre come in riserva in fondo alla sua anima, perché si sviluppino quando sia necessario ‘. È in questo stato primitivo che s’incontra l'equilibrio del potere e del deside-

385 rio e che l’uomo non è infelice. Appena le sue facoltà virtuali si mettono in azione, l'immaginazione, la più attiva di tutte, si sveglia e le sorpassa. È l’immaginazione che estende per noi la misura delle cose possibili, sia in bene che in male, e che, per conseguenza, ec-

cita ed alimenta i desideri con la speranza di soddisfarli. Ma l'oggetto che pareva dapprima a portata di mano fugge più presto che non si possa perseguirlo; e quando si crede di raggiungerlo, si trasforma

e si mostra

lontano

da-

vanti a noi. Non vedendo più lo spazio già percorso, lo calcoliamo per nulla; quello che ancora resta da percorre. re ingrandisce e si estende incessante. mente. In tal modo ci si esaurisce senza raggiungere la meta; e quanto più guadagniamo sul godimento, tanto più la felicità si allontana da noi. Invece,

più

l'uomo

è

rimasto

nella

sua condizione naturale, e più la differenza fra le sue facoltà e i suoi desideri è piccola, e meno, per conseguenza, egli è lungi dall’essere felice. Egli non è mai meno misero di quando pare sprovvisto di tutto; poiché la miseria non consiste nella privazione delle cose, ma nel bisogno che di esse si fa sentire. Il

mondo

reale

ha

i suoi

limiti,

il

mondo immaginario è infinito: non potendo allargare l’uno, restringiamo l’altro; poiché è dalla loro sola differenza che nascono tutte le pene che ci rendo

no veramente infelici. Togliete la forza, la salute, la buona coscienza di sé, e

tutti i beni di questa vita sono nell’opinione; togliete i dolori del corpo e i rimorsi

della

coscienza,

e

tutti

i nostri

mali sono immaginari. Questo principio

è

comune,

si

dirà;

ne

convengo:

ma

l'applicazione pratica non è comune; e qui si tratta unicamente della pratica. Quando

si dice che

l'uomo

è debole,

che cosa si vuol dire? Questa parola di debolezza indica un rapporto, un rapporto dell'essere al quale si applica. Colui la cui forza sorpassa i bisogni, fosse anche un insetto, un verme, è un essere forte; colui i cui bisogni superano la

forza,

ne;

fosse anche

un elefante o un leo-

fosse anche un conquistatore

o un

EMILIO

386 eroe;

fosse un

Dio, è un essere debole.

L’angelo ribelle che disconobbe la propria natura era più debole del felice mortale che vive in pace secondo la sua. L'uomo è molto forte quando si contenta' di essere quello che è; è molto debole quando vuole innalzarsi al di sopra dell'umanità. Non andate dunque a immaginare che estendendo le vostre

facoltà voi estendiate le vostre forze; invece voi le diminuite, se il vostro or-

goglio si estende più di esse. il raggio della nostra sfera, nel centro come l'insetto in sua tela: basteremo sempre si,

e

non

avremo

da

Misuriamo e restiamo mezzo alla a noi stes-

lamentarci

della

nostra debolezza, poiché non la sentiremo mai. Tutti gli animali hanno esattamente le facoltà necessarie alla loro consetvazione: l’uomo soltanto ne ha di superflue. Non è molto strano che questo super. fluo sia lo strumento della sua miseria? In ogni paese le braccia di un uomo valgono più della sua sussistenza. Se egli fosse abbastanza saggio da considerare questo superfluo per nulla, avrebbe sempre il necessario, perché non avrebbe mai niente di troppo. I grandi bisogni, diceva Favorino *, nascono dai grandi beni; e spesso il miglior mezzo per concedersi le cose di cui si manca è di togliersi quelle che si hanno. È a forza di affaticarci per accrescere la nostra felicità che noi la cambiamo in miseria. Ogni uomo che non volesse se non vivere, vivrebbe felice; perciò egli vivrebbe bene; poiché che vantaggio avrebbe ad essere cattivo? Se noi fossimo immortali, saremmo de-

gli esseri molto miseri. rire,

senza

dubbio;

È duro

il mo-

ma

è dolce

lo spe-

terra,

chi **

vorreb-

rare che non si vivrà sempre, e che una vita migliore metterà termine alle pene di questa nostra vita. Se ci si offrisse l'immortalità

sulla

be accettare questo triste fardello? Quale risorsa, quale speranza, quale consolazione ci resterebbe contro i rigori del * Noct. attic., 1. IX, c. 85. ** S'intende ch'io parlo qui degli uomini che

destino e le ingiustizie degli uomini? L'ignorante, che non prevede nulla, sente poco il valore della vita, e teme poco

di perderla; l’uomo istruito vi vede dei beni di maggior prezzo, e li preferisce. Non vi sono che la mezza sapienza e la falsa saggezza che, prolungando le nostre vedute

fino alla morte,

e non

al di

là, ne fanno per noi il peggiore dei mali. La necessità di morire non è per l’uomo saggio che una ragione per sopportare le pene della vita. Se non si fosse sicuri di perderla una volta, costerebbe troppo a conservarla. I nostri mali morali sono tutti nel nostro modo

di vedere,

tranne uno, che

è il delitto; e quello dipende da noi: i nostri mali fisici si distruggono o ci distruggono. Il tempo o la morte sono i nostri rimedi: ma noi soffriamo tanto più quanto meno sappiamo soffrire; e noi

ci

diamo

maggior

tormento

per

guarire le nostre malattie, di quel che avremmo a sopportarle. Vivi secondo

natura, sii paziente, e scaccia i medici; tu non eviterai la morte, ma non la sentirai che una volta sola; mentre essi la

portano nazione

ogni

giorno

turbata,

e la

nella

loro

tua immagiarte

menzo-

morirebbero,

è vero;

gnera, invece di prolungare i tuoi giorni, te ne toglie il godimento. Io domanderò sempre qual bene reale abbia fatto quest'arte agli uomini. Alcuni di quelli ch'essa

guarisce

ma dei milioni che ne uccide resterebbero in vita. O uomo assennato, non giocare a questo giuoco, ove troppe probabilità sono contro di te. Soffri, muori

o

guarisci: ma soprattutto vivi fino alla tua ultima ora. Non vi è che follia e contradizione nelle istituzioni umane. Noi ci preoccupiamo di più della nostra vita di mano in mano ch’essa perde di valore. I vecchi la rimpiangono più dei giovani; essi non vogliono perdere i preparativi che hanno fatto per godersela; a sessant'anni, è molto crudele morire prima di aver cominciato a vivere. Si crede che riflettono

e non

di

tutti gli uomini.

LIBRO

SECONDO

387

l'uomo abbia un vivo amore per la pro-

senza averne mai saputo nulla? Io vedo

non si vede quanto questo amore, così come lo sentiamo, sia in gran parte opera degli uomini. Naturalmente l’uomo non si dà pensiero di conservarsi che per quanto i mezzi sono in suo potere; appena questi mezzi gli sfuggono, egli si tranquillizza e muore senza inquietarsi inutilmente. La prima legge della rassegnazione ci viene dalla natura. I selvaggi, come le bestie, si agitano pochissimo contro la morte, e la sopportano quasi senza lamentarsi. Distrutta questa legge, se ne forma un’altra che viene dalla ragione; ma pochi sanno cavarnela, e questa rassegnazione fittizia non è mai tanto piena e intera quanto la prima. La previdenza! La previdenza che ci porta senza tregua al di là di noi e spesso ci pone dove non arriveremo pun-

sta bene di salute; la sua presenza ispira la gioia; i suoi occhi annunziano la

pria

conservazione,

e

ciò

è

vero;

ma

to, ecco la vera sorgente di tutte le nostre miserie. Quale mania, per un es-

sere così passeggero come l'uomo, il guardar sempre lontano in un avvenire che

viene

così

raramente,

e trascurare

il presente di cui è sicuro! Mania tanto più funesta in quanto aumenta continuamente

con

l'età,

per cui

i vecchi,

sem-

pre diffidenti, previdenti, avari, preferiscono privarsi oggi del necessario anziché mancare del superfluo fra cento anni. Così noi teniamo a tutto, ci attacchia-

mo a tutto; i tempi, i luoghi, gli uomi-

ni, le cose, tutto ciò che è, tutto ciò che

sarà, preme a ciascuno di noi: il nostro individuo non è più che la minima parte di noi stessi. Ciascuno si estende, per così dire, sulla terra intera, e diventa sensibile su tutta questa grande superficie. È forse meraviglioso che i nostri mali si moltiplichino in tutti i punti per dove ci si possa ferire? Quanti principi si affliggono per la perdita di un paese che non hanno mai visto! A quanti mercanti basta approdare alle Indie per farli gridare a Parigi! È forse la natura che porta in tal modo gli uomini tanto lontani da se stessi? Vuole essa che ciascuno apprenda il proprio destino dagli altri, o talvolta lo apprenda per ultimo; di modo che taluno è morto felice o disgraziato,

un

uomo

fresco,

contentezza,

il

allegro,

vigoroso,

benessere;

egli

che

porta

con sé l’immagine della felicità. Arriva una lettera dalla posta; l'uomo felice la guarda; essa è indirizzata a lui, l'apre, la legge. A un tratto il suo aspetto cambia; impallidisce, cade in deliquio. Ritornato in sé, piange, si agita, geme, si strappa i capelli, fa risuonare l'aria delle sue grida, sembra attaccato da convulsioni spaventose. Insensato! Che male ti ha dunque fatto questo foglio di carta? Che membro ti ha strappato? Qual delitto ti ha fatto commettere? Infine cosa ha cambiato in te per metterti nello stato in cui ti vedo? Supposto che la lettera si fosse smarrita, che una mano caritatevole l'avesse gettata nel fuoco, la sorte di questo mortale, felice e infelice a un tempo, sarebbe stata, mi sembra, uno strano problema. La sua sventura, direte voi, era reale. Benissimo, ma non la sentiva. Do-

v'era egli dunque? La sua felicità era immaginaria. Capisco; la salute, l'allegria, il- benessere, la contentezza dello spirito, non sono più che delle visioni. Noi

non

esistiamo

più

ove

siamo,

non

esistiamo che ove non siamo. E val la pena d’avere una così grande paura della morte, purché resti ciò in cui viviamo? O uomo! Rinchiudi la tua esistenza dentro di te e non sarai più infelice. Resta al posto che la natura ti assegna nella catena degli esseri, niente potrà fartene

uscire;

non

ricalcitrare

contro

sumare,

per volerle resistere, quelle for-

la dura legge della necessità, e non con-

ze che il cielo ti ha date non per estendere o prolungare la tua esistenza, ma per conservarla come e quanto piace a lui #. La tua libertà, la tua potenza si estendono solo tanto quanto le tue forze naturali, e non al di là; tutto il resto non è che schiavitù, illusione, pre-

stigio. Il dominio stesso è servile, quando dipende dall'opinione; poiché tu dipendi dai pregiudizi di coloro che tu governi coi pregiudizi. Per guidarli come ti piace, bisogna guidarti come pia-

388

EMILIO

ce a loro. Appena essi avranno cambiato maniera di pensate, bisognerà per forza che tu cambi maniera di agire. Quelli che ti avvicinano non devono che

saper governare le opinioni del popolo che tu credi di governate o dei favoriti che ti governano, o le opinioni della tua famiglia o le tue stesse: questi visir, questi cortigiani, questi preti, questi soldati, questi camerieri, questi pettegoli, e perfino i fanciulli, quand’anche tu fossi un Temistocle * per genio, ti condurranno come un fanciullo in mezzo alle tue legioni. Avrai un bel fare: mai la tua autorità reale andrà più lontano delle tue facoltà reali. Tosto che occorra vedere con gli occhi degli altri, bisogna volere con la loro volontà. I miei popoli sono i miei sudditi, dici tu fieramente.

suddito

E

sia.

Ma

tu,

che

sei?

Il

dei tuoi ministri. E i tuoi mi-

nistri, a loro volta, cosa sono? I sudditi dei loro commessi, delle loro amanti, i servi dei loro servi. Prendete tutto,

usurpate tutto, e poi versate il danaro a piene mani; piantate batterie di cannoni; innalzate forche e ruote; date leggi ed editti; moltiplicate gli spioni, i soldati,

i carnefici,

le prigioni,

le- catene:

le, non solo togliendogli il diritto che aveva sulle sue forze, ma soprattutto rendendogliele insufficienti. Ecco perché i suoi desideri si moltiplicano insieme

con

la

un

essere

sua

debolezza;

ed

ecco

ciò

che fa la debolezza dell’infanzia, paragonata all’età dell'uomo. Se l’uomo è forte,

e se

il fanciullo

è un

essere debole, non è perché il primo ha maggior forza assoluta del secondo; ma è perché il primo può naturalmente bastare

a se stesso,

mentre

l’altro

non

lo può. L'uomo deve dunque avere più volontà, e il fanciullo più fantasie; parola con la quale intendo tutti i desideri che non sono veri bisogni, e che non si possono soddisfare se non col concorso altrui. Ho già detto la ragione di questo stato di debolezza. La natura vi provvede con la viva affezione dei padri e delle madri: ma questa affezione può avere il suo eccesso, il suo difetto, i suoi abu-

Dei genitori che vivano nello stato civile vi trasportano il loro figliuolo prima dell’età. Dandogli maggiori bisogni di quelli che abbia, essi non alleviano

la sua debolezza, ma l'aumentano. E l’ac-

crescono ancora esigendo da lui ciò che la natura non esigeva, sottomettendo alle loro volontà la poca forza ch'egli

poveri piccoli uomini, a che cosa vi servirà tutto ciò? Non ne sarete né meglio serviti, né meno rubati, né meno ingannati, né più indipendenti. Voi direte sempre: noi vogliamo; e farete sempre ciò che gli altri vorranno. Il solo che faccia la sua volontà è colui che non ha bisogno, per farla, di mettere le braccia di un altro all'estremità delle sue: da ciò risulta che il primo di tutti i beni non è l'autorità, ma la libertà. L'uomo veramente libero non vuole che quello che può, e fa ciò che gli piace. Ecco la mia massima fondamentale. Non si tratta che di appli

ciullo;

le regole dell'educazione. La società ha fatto l'uomo più debo-

ch’egli dipenda, e non che obbedisca; bisogna ch'egli domandi, e non che co-

carla all'infanzia, e ne deriveranno

tutte

* Questo ragazzo che vedete là, diceva Temistocle ai suoi amici, è l’arbitro della Grecia; poiché egli governa sua madre, sua madre governa me, io governo gli Ateniesi, e gli Ate-

niesi governano i Greci. Oh! quali piccoli con-

ha

per

servire

alle

sue,

cambiando

da

una parte o dall'altra in schiavitù la dipendenza reciproca in cui lo tiene la sua

debolezza,

e in cui

li tiene

il loro

ma

il fanciullo, che non

conosce

il suo,

affetto. L’uomo saggio sa stare al suo posto;

non può mantenervisi. Egli ha fra noi mille espedienti per uscirne; sta a quelli che lo governano a trattenerlo, e questo compito -non è facile. Egli non de-

v'essere

bolezza,



bestia



uomo,

ma

fan-

bisogna ch'egli senta la sua dee

non

che

ne

soffra;

bisogna

duttori si troverebbero spesso nei più grandi imperi, se dal principe si discendesse gradatamente fino alla prima mano che dà la spinta segretamente!”

LIBRO

389

SECONDO

mandi. Non è sottoposto agli altri se non a causa dei suoi bisogni, e perché essi vedano meglio di lui ciò che gli è utile; e questo può contribuire o nuocere alla sua conservazione. Nessuno ha il diritto, neppure il padre, di comandare al fanciullo ciò che non gli giova affatto. Prima che i pregiudizi e le istituzioni umane abbiano alterato le nostre inclinazioni naturali, la felicità dei fanciulli, come quella degli uomini, consiste nell’uso della loro libertà; ma questa libertà nei primi è limitata dalla loro debolezza. Chiunque fa ciò che vuole è felice, se basta a se stesso; è il caso del-

l'uomo che vive nello stato di natura. Chiunque fa ciò che vuole non è felice, se i suoi bisogni sorpassano le sue forze; è il caso del fanciullo nel medesimo stato. I fanciulli non godono, anche nello stato

di natura,

che

di

una

libertà

im-

perfetta, simile a quella di cui godono gli uomini nello stato di civiltà. Ciascuno di noi, non potendo più fare a meno degli altri, ridiventa, sotto questo aspetto, debole e misero. Noi eravamo fatti per essere uomini; le leggi e la società ci hanno rituffati nell'infanzia. I ricchi, i grandi,

i re, sono

tutti fanciul-

li i quali, nel vedere che ci si affretta a sollevare la loro miseria, traggono da questo

fatto una

vanità

puerile,

e sono

assai fieri delle cure che non si avrebbero per loro se fossero uomini fatti. Queste considerazioni sono importanti,

e

servono

a risolvere

tutte

le

con-

tradizioni del sistema sociale. Vi sono due specie di dipendenze: quella dalle cose,

che

è

della

natura;

quella

dagli

uomini, che è della società. La dipendenza dalle cose, non avendo alcuna legge morale, non nuoce affatto alla libertà, e non

genera

alcun

vizio;

la dipen-

denza dagli uomini, essendo disordinata *, li genera tutti, ed è per essa che il padrone e lo schiavo si depravano scambievolmente. Se vi è qualche mezzo per rimediare a questo male nella società, è di sostituire la legge all'uomo * Nei mostrato

miei Principi che nessuna

del diritto politico è divolontà particolare può

e di armare le volontà generali di una forza reale, superiore all'azione di ogni volontà particolare. Se le leggi delle nazioni potessero avere, come quelle della natura,

una

inflessibilità

che

mai

al-

cuna forza umana potesse vincere, la dipendenza dagli uomini ridiventerebbe allora dipendenza dalle cose; si riunirebbero nella repubblica tutti i vantaggi dello stato naturale con quelli dello stato civile; si aggiungerebbe alla libertà che mantiene l'uomo esente da vizi, la moralità che lo eleva alla virtù. Mantenete il fanciullo nella sola dipendenza dalle cose ed avrete seguito l'ordine della natura nel progresso della sua educazione. Non offrite alle sue volontà indiscrete che ostacoli fisici o punizioni che nascano dalle azioni stesse e di cui egli si ricordi, al bisogno: senza proibirgli di far male, basta impedirglielo. L'esperienza o l’impotenza devono solo tener per lui luogo di legge. Non concedete niente ai suoi desideri, perché lo domanda,

ma

perché

ne ha

bisogno.

Ch’egli non sappia quello che è l'obbedienza quando agisce, né quello che è il comando quando si agisce per lui. Ch'egli senta egualmente la sua libertà nelle sue azioni e nelle vostre. Supplite alla forza che gli manca, precisamente per quel tanto di cui ha bisogno per essere libero e non arrogante: e che ricevendo i vostri servizi con una specie di umiliazione, egli aspiri al momento in cui potrà farne a meno, e in cui avrà l’onore di servirsi da se stesso. La natura, per fortificare il corpo e farlo crescere,

ha dei

mezzi

che

non

si

devono mai contrariare. Non bisogna costringere un fanciullo a restare quando vuole andare e ad andare quando vuole star fermo. Quando la volontà dei fanciulli non è guastata per colpa nostra, essi non vogliono niente inutilmente. Bisogna che essi saltino, che corrano, che gridino, quando ne hanno voglia. Tutti i loro movimenti sono dei bisogni della loro costituzione, la quale cerca di fortificarsi;

ma si deve diffidare

essere ordinata nel sistema sociale.

EMILIO

390 di quello che desiderano senza poterlo fare da sé e che gli altri sono obbligati a fare per loro. Allora occorre distinguere accuratamente il vero bisogno, il bisogno naturale, dal bisogno del capriccio che comincia a nascere, o da quello che proviene solo dalla sovrabbondanza di vita, di cui ho parlato. Ho già detto quello che bisogna fare quando un fanciullo piange per avere questa o quella cosa. Aggiungerò soltanto che, appena egli può domandare parlando quello che desidera e, per ottenerlo più presto o per vincere un rifiuto, egli accompagna col pianto la sua richiesta, a questa si deve opporre irrevocabilmente un rifiuto. Se il bisogno l'ha fatto parlare, voi dovete saperlo e fare subito ciò che chiede; ma concedere qualche cosa alle sue lacrime, è lo stesso che eccitarlo a versarne, è insegnargli a dubitare della vostra buona volontà e fargli credere che la molestia possa su voi più che la benevolenza. Se non vi crederà buono,

subito diventerà cattivo;

se vi crederà debole, sarà presto ostinato: occorre perciò concedere sempre al primo indizio ciò che non si vuol rifiutare. Non siate prodighi in rifiuti, ma non li revocate mai. Guardatevi soprattutto dal dare al

fanciullo

vane

formule

di cortesia,

che

gli servano all'occorrenza come parole magiche per sottomettere alle sue volontà tutto ciò che lo circonda ed ottenere sul momento quello che gli piace. Nel. l'educazione cerimoniosa dei ricchi non si manca mai di rendere i fanciulli gentilmente imperiosi, prescrivendo loro i termini di cui devono servirsi, perché nessuno osi resistere loro: i loro fanciulli non hanno né tono né maniere supplichevoli; sono anche arroganti e più quando pregano che quando comandano, come se fossero assai più sicuri di essere ubbiditi. Si vede dapprima che « per piacere » significa nella loro bocca « ciò mi piace », e che «vi prego » significa « vi ordino ». Ammirabile cortesia che non mira per essi che a cambiare il senso delle parole, e a non poter mai altri menti parlare che con autorità! In quanto a me, che temo meno la grossolanità di

Emilio che la sua arroganza, amo molto di più ch'egli dica pregando « fate ciò », piuttosto che comandando « vi prego ». Non il termine di cui si serve m'importa,

ma

il significato che vi annette. Vi è un eccesso di rigore e un eccesso d’indulgenza, tutti e due egualmente da evitare. Se lasciate soffrire i fanciulli, esponete la loro salute e la loro vita;

li rendete

attualmente

infelici:

se

risparmiate loro con troppe cure ogni specie di malessere, preparate loro grandi miserie,

li rendete

delicati, sensibili;

li fate uscire dal loro stato di uomini, nel quale rientreranno un giorno vostro malgrado. Per non esporli ad alcuni mali della natura, vi fate artefice di quelli ch’essa non ha dato loro. Mi direte che cado nel caso di quei cattivi padri, ai quali rimproveravo di sacrificare la felicità dei figli alla considerazione di un tempo remoto che può non venire mai. No:

poiché la libertà ch'io concedo al

mio allievo lo indennizza ampiamente dei leggeri incomodi ai quali lo lascio esposto. Vedo dei piccoli birichini gio care

sulla

neve,

violetti,

intirizziti,

che

possono muovere appena le dita. Dipende da loro andarsi a riscaldare, e non ne fanno niente;

se qualcuno li forzasse,

mento

attuale,

lasciandolo

Il mali;

tale è la sua natura. Se il fisico

sentirebbero cento volte più i rigori della coercizione che non sentano quelli del freddo. Di che dunque vi lagnate? Renderò il vostro figliuolo infelice esponendolo solo ai disturbi che egli vuol ben soffrire? Io faccio il suo bene nel molibero;

io

faccio il suo bene nell’avvenire, armandolo contro i mali che deve sopportare. S'egli avesse la scelta di essere il mio o il vostro allievo, pensate voi che egli esiterebbe un momento? Concepite voi qualche possibile vera felicità per un essere umano fuori della sua costituzione? E non è trarre l’uomo dalla sua costituzione, il volerlo egual. mente sottrarre a tutti i mali della sua specie? Sì, lo sostengo: per sentire i grandi beni, bisogna che conosca i piccova troppo bene, il morale si corrompe. L'uomo che non conoscesse il dolore non conoscerebbe né la tenerezza del-

LIBRO

391

SECONDO

verebbe per nulla, egli non sarebbe so-

nile, che si fermasse un reggimento in marcia per udire più a lungo i tamburi; e che riempivano l’aria delle loro gri-

simili. Sapete quale è il più sicuro mezzo per rendere infelice il vostro figliuolo?

appena si tardava ad obbedir loro. Tutti si affaccendavano invano per compiacerli; irritandosi i loro desideri per la

l'umanità, serazione;

cievole,

né la dolcezza

il suo cuore

e sarebbe

un

non

della commi. si commuo-

mostro

fra i suoi

È di abituarlo ad ottenere tutto; poiché,

da,

senza

facilità

voler

di

ascoltare

nessuno,

ottenere,

essi

si

sempre

furiosi,

non

ostinavano

crescendo i suoi desideri incessantemente per la facilità di soddisfarli, tosto o tardi l'impotenza vi forzerà vostro malgrado ad arrivare a un rifiuto; e questo rifiuto insolito gli darà maggior tormento che la privazione stessa di quello che desidera. Dapprima egli vorrà il bastone che tenete; poi subito vorrà l'orologio;

nelle cose impossibili, e non trovavano dappertutto che contradizioni, ostacoli, pene e dolori. Sempre brontolanti, sem-

stella che vede brillare, tutto quello infine che vedrà: a meno che non siate

la tavola e l'altro fa frustare il mare: essi avranno un bel frustare e battere prima di vivere contenti. Se queste idee di comando e di tirannia li rendono miseri fin dalla loro infanzia, che succederà quando diventeranno grandi e le loro relazioni con gli altri uomini cominceranno ad allargarsi e a moltiplicarsi? Abituati a vedere piegare ogni cosa davanti a loro, quale sorpresa, entrando nel mondo, nel sentire che tutto resiste loro e nel trovarsi schiacciati dal peso di questo universo ch’essi pensavano di muovere a loro

in

seguito

Iddio,

vorrà

come

l'uccello

farete

che

vola,

la

a contentarlo?

una disposizione naturale dell'uomo il considerare come suo tutto ciò che è in suo potere. In tal senso, il principio dell'Hobbes è vero fino a un certo punto: moltiplicate coi nostri desideri i mezzi per soddisfarli, ognuno si farà il padrone di tutto. Il fanciullo dunque che non ha che da volere per ottenere, si crede il padrone dell'universo;

considera tutti gli uomini come suoi schiavi: e quando infine si è costretti a rifiutargli qualche cosa, egli, credendo tutto possibile quando lo voglia, pren. de questo rifiuto per un atto di ribellione; tutte le ragioni che gli si danno in un'età incapace di ragionamento non sono,

secondo

lui,

che

dei

pretesti;

egli

vede dappertutto della cattiva volontà: il sentimento d'una pretesa ingiustizia inasprendo il suo carattere, egli prende tutti

in odio,

e, senza

essere

mai

grato

e divorato

dalle

della compiacenza, si indigna di ogni opposizione. Come concepirei che un fanciullo così dominato

dalla collera,

passioni più irascibili, potesse mai essere felice? Felice, lui! È un despota; è a un tempo il più vile degli schiavi e la più

miserabile

delle creature.

Ho

vedu-

to dei fanciulli allevati in questo modo, î quali

volevano

che

si

rovesciasse

la

casa con una spallata, che si desse loro il gallo che vedevano su di un campa-

pre

ribelli,

essi

trascor-

revano i loro giorni a gridare, a lamentarsi: erano quelli degli esseri molto fortunati? La debolezza e la dominazione riunite non generano che follia e miseria. Di due

piacere!

Le

fanciulli viziati, uno batte

loro

arie

insolenti,

la loro

puerile vanità non attirano su di loto che mortificazioni, sdegni, motteggi; essi bevono gli affronti come l'acqua: crudeli prove fanno loro presto capire ch’es-

si non conoscono né il loro stato, né le loro forze; non potendo tutto, credono

di non poter nulla. Tanti ostacoli insoliti li disgustano, tanti disprezzi li avviliscono:

essi diventano

fiacchi,

timidi,

servili, e ricadono al disotto di se stessi tanto quanto si erano prima elevati, Torniamo alla regola primitiva. La natura ha fatto i fanciulli, perché siano amati e soccorsi; ma li ha forse fatti per essere ubbiditi e temuti? Ha loro dato un aspetto imponente, un occhio severo,

una voce rude e minacciosa, perché si rendano temibili? Io comprendo che il ruggito di un leone spaventi gli animali, e ch'essi tremino

vedendo

la sua ter-

ribile testa; ma mai si è visto uno spet-

392

EMILIO

tacolo più indecente, più odioso, più ridicolo di quello di un corpo di magistrati, col loro duce

alla testa,

in abito

da cerimonia, prosternati davanti a un fanciullo in fasce, che essi arringano in termini pomposi, mentre questi strilla e sbava per tutta risposta. A considerare l'infanzia in se stessa, vi è al mondo un essere più debole, più misero, più alla mercé di tutto quello che lo circonda, che abbia un così gran

bisogno di pietà, di cure, di protezione quanto un fanciullo? Non sembra forse ch’egli mostri un aspetto così dolce e un'aria così commovente soltanto perché tutto quello che lo avvicina s’interessi alla sua debolezza e si affretti a soccorrerlo? Cosa c'è dunque di più spiacevole,

di

più

contrario

all'ordine,

che il vedere un fanciullo imperioso e ribelle comandare su tutto ciò che lo circonda,

e

prendere

spudoratamente

il tono di padrone con coloro i quali non hanno che da abbandonarlo per farlo perire? D'altra parte, chi non vede che la debolezza della prima età incatena i fanciulli in tanti modi, che è barbaro aggiungere a questa soggezione quella delle nostre fantasie, togliendo loro una libertà così limitata, della quale essi possono

abusare

tanto

poco,

e di cui è

così poco utile per essi e per noi che ne siano privati? Se non vi è oggetto tanto degno di scherno quanto un fanciullo altezzoso, non vi è oggetto così degno di pietà come un fanciullo timido. Giacché con l'età della ragione comincia la servitù civile, perché prevenirla con la servitù privata? Tolleriamo che un istante della vita sia esente da questo giogo che la natura non ci ha imposto, e lasciamo all'infanzia l'esercizio della libertà naturale, che lo tiene lonta-

no almeno per un certo tempo dai vizi che si contraggono nella schiavitù. Che * Si deve sentire che, come la pena è spesso una necessità, il piacere è talvolta un bisogno. Non vi è dunque che un solo desiderio dei fanciulli, che non si deve mai soddisfare, ed è di farsi ubbidire, Donde segue che, in tutto quello ch'essi domandano, soprattutto al motivo che

questi istitutori severi, che questi padri asserviti ai loro figliuoli, vengano dunque gli uni e gli altri con le loro frivole obiezioni, e prima di vantare i loro metodi, imparino una volta quello della natura. E ritorno alla pratica. Ho già detto che il vostro fanciullo non deve ottenere nulla perché lo chiede, ma solo perché ne ha bisogno *, ch'egli non deve far nulla per obbedienza, ma solo per necessità: così le parole di obbedire e di comandare saranno proscritte dal suo dizionario, e ancora più quelle di dovere e di obbligo; ma quelle di forza, di necessità, d'impotenza e di soggezione vi devono tenere un gran posto. Prima dell'età della ragione non si può avere alcuna idea degli esseri morali né delle relazioni sociali; bisogna dunque evitare, per quanto è possibile, di adoperare delle parole che le esprimano, per paura che il fanciullo attribuisca dapprima a queste parole delle idee false che poi non si saprà o non si potrà più distruggere. La prima falsa idea che entra nella sua testa rappresenta per lui il germe dell'errore e del vizio; è a questo primo passo che occorre soprattutto fare attenzione. Fate in modo che, fino a tanto ch'egli non è colpito che dalle

cose

sensibili,

tutte

le sue

idee

si fer-

riuscirete

a can-

mino alle sensazioni; cercate che egli non scorga attorno a sé da ogni parte se non il mondo fisico: senza di che siate sicuro ch'egli non vi ascolterà affatto, oppure egli si farà del mondo morale, di cui gli parlate, delle nozioni fantastiche,

che

voi

non

cellare dalla sua vita, Ragionare con i fanciulli era la grande massima del Locke; ed è la più in voga oggi: il suo successo non mi sembra pertanto tale da accreditarla; in quanto a me, non vedo nulla di più sciocco di quei fanciulli coi quali si è li spinge a chiedere, occorre fare attenzione. Accordate loro, per quanto è possibile, ciò che può far loro un piacere reale; rifiutate loro sempre ciò che chiedono solo per capriccio o per compiere un atto di autorità.

LIBRO

393

SECONDO

ragionato tanto. Di tutte le facoltà dell’uomo, la ragione, la quale non è, per così dire, che un composto di tutte le altre, è quella che si sviluppa più difficilmente e più tardi; ed è di quella che ci si vuol servire per sviluppare le prime! Il capolavoro di una buona educazione è di fare un uomo ragionevole: e si pretende di educare un fanciullo con la ragione! È cominciare dalla fine, è voler mutare l'opera in strumento di essa. Se i fanciulli fossero ragionevoli, non avrebbero bisogno di essere educati; ma parlando loro fin dai primi anni una lingua che non capiscono affatto, li si avvezza ad appagarsi di parole, a. controllare

tutto

ciò che

IL MAESTRO Vi si punisce

IL FANCIULLO Farò Niente.

essi con

dei

motivi

in modo

IL

ragionevoli,

IL

che

IL FANCIULLO

si è sem-

Mentirò. IL

Non

IL

Fatto

male!

FANCIULLO

Che IL

cosa è fatto male?

MAESTRO

Ciò che vi si proibisce. IL

FANCIULLO

Che male c'è a fare ciò che mi viene proibito?

MAESTRO

Perché è mal fatto, ecc.

non bisogna fare ciò?

IL

FANCIULLO

IL

FANCIULLO

Perché è fatto male.

mentire.

Perché non bisogna mentire?

Non bisogna fare questa cosa.

MAESTRO

MAESTRO

bisogna

IL MAESTRO

IL

MAESTRO

Sarete interrogato.

non

pre obbligati ad aggiungere. Ecco la formula alla quale possono ridursi press'a poco tutte le lezioni di morale che si fanno e che si possono fare ai fanciulli.

E perché

FANCIULLO

Mi nasconderò.

si dice loro, a

o di vanità,

IL

MAESTRO

Sarete spiato.

lo si ottiene che con motivi di cupidigia,

o di timore,

che non se ne sappia

IL

credersi tanto saggi quanto i loro maestri, a diventare questionatori e testardi; e tutto ciò che si pensa di ottenere da

per avere disubbidito.

Ecco

il circolo

inevitabile.

Uscitene,

e il fanciullo non v'intende più. Non sono codeste delle istruzioni molto utili? Sarei assai curioso di sapere quello che si potrebbe mettere al posto di questo dialogo. Locke stesso sarebbe stato certamente molto imbarazzato. Conoscere il bene e il male, sentir la ragione dei

doveri

dell’uomo,

non

è l'affare

di

un fanciullo. La natura vuole che i fanciulli siano fanciulli prima di essere uomini. Se vorremo pervertire quest'ordine, produrremo dei frutti precoci, che non avranno né maturità né sapore, e non tarderanno a corrompersi: avremo dei giovani

394

EMILIO

dottori e dei vecchi fanciulli. L'infanzia ha delle

maniere

di vedere,

di pensare,

di sentire che le sono proprie; niente è meno assennato che il volervi sostituire le nostre; e a me piacerebbe esigere che a dieci anni un fanciullo avesse piuttosto cinque piedi di altezza che del giudizio. Infatti, a che gli servirebbe la ragione a questa età? Essa è il freno della forza, ed il fanciullo non ha bisogno di questo freno. Tentando di persuadere i vostri allievi

al dovere

dell'obbedienza,

voi

unite

a questa pretesa persuasione la forza e le minacce, o, ciò che è peggio, la lusinga e le promesse. Così dunque, allettati dall’interesse o costretti dalla forza, essi fanno finta di essere convinti dalla ragione. Vedono benissimo che l'obbedienza è vantaggiosa per loro e che la ribellione è nociva appena che voi vi accorgete dell'una o dell'altra. Ma siccome non esigete nulla da essi che non sia loro dispiacevole, ed essendo sempre penoso fare la volontà altrui, essi si nascondono per fare la loro, persuasi che fanno bene se si ignora la loro disubbidienza; ma pronti a convenire che fanno male, se sono scoperti, per tema di un male maggiore. Non essendo la ragione del dovere cosa della loro età, non vi è uomo al mondo che possa riuscire a renderla loro veramente sensibile;

ma

gono;

si

il

timore

del

castigo,

la

speranza del perdono, l’importunità, l'imbarazzo di rispondere, strappano loro tutte le confessioni che si esie

crede

di

averli

convinti,

quando non si sono che annoiati o intimiditi. Cosa accade quindi? In primo luogo, imponendo loro un dovere ch'essi non sentono, voi li indisponete contro la vostra tirannia, e li alienate dall'amar-

vi; insegnate loro a diventare simulatori, falsi, bugiardi, per scroccare delle ricompense o evitare i castighi; infine, avvezzandoli a coprire sempre con un motivo apparente un motivo segreto, * Si deve essere sicuri che il fanciullo con-

sidererà

come

un capriccio

ogni

volontà

contra-

ria alla sua, e di cui non sentirà la ragione. Ora,

date loro il mezzo d'ingannarvi continuamente, di togliervi la conoscenza del loro vero carattere, e di pagar voi e gli altri,

occorrendo,

con

vane

parole.

Le

leggi, mi direte, sebbene obbligatorie per la coscienza, usano anche la coercizione con gli uomini fatti. Ne convengo. Ma cosa sono questi uomini, se non dei fanciulli corrotti dall’educazione? Ecco precisamente quello che bisogna prevenire. Adoperate la forza con i fanciulli e la ragione con gli uomini; questo è l'ordine naturale: il saggio non ha bisogno di leggi. Trattate il vostro allievo secondo la sua età. Mettetelo dapprima al suo posto, e tenetevelo così bene che non ten-

ti più di uscirne. Allora, prima di sa. pere cos'è la saggezza, egli ne praticherà la più importante lezione. Non gli comandate mai nulla, qualunque cosa sia al mondo,

assolutamente

nulla. Non

gli

lasciate neppure immaginare che voi pretendete di avere qualche autorità sopra di lui. Che egli sappia soltanto che egli è debole e che voi siete forte; che, per il suo e il vostro stato, egli è necessariamente alla vostra mercé; ch'egli lo sappia, che lo apprenda, che lo senta; ch'egli senta per tempo sulla sua testa altera il duro giogo che la natura impone all'uomo, il pesante giogo della necessità, sotto il quale bisogna che ogni essere finito si pieghi; che veda questa necessità nelle cose, mai nel capriccio * degli uomini; che il freno che lo trattiene sia la forza e non l'autorità. Ciò da cui deve astenersi, non glielo vietate; impeditegli di farlo senza spiegazioni, senza ragionamenti; ciò che gli accordate, accordatelo alla sua prima parola, senza sollecitazioni, senza pre-

ghiere, soprattutto senza condizioni. Accordate con piacere, non rifiutate che con ripugnanza; ma che tutti i vostri rifiuti

siano

irrevocabili;

sia un

muro

di bronzo

che

nessuna

molestia vi scuota; che il xo pronunziato che

il fanciullo,

quando vi avrà esaurito contro, per cinun

fanciullo

non

sente

la ragione

di

tutto quello che urta la sua fantasia.

niente

in

LIBRO

SECONDO

395

que o sei volte, le sue forze, non si proverà più ad abbattere. È così che lo renderete paziente, eguale, rassegnato, tranquillo, anche quando non avrà quello che avrebbe voluto; poiché è nella natura dell’uomo di sopportare pazientemente la necessità delle cose, ma non la cattiva volontà altrui. Queste parole, « non ce n'è più », sono una

risposta contro la quale il fanciullo non si è mai

intestato,

a meno

che non cre-

desse trattarsi di una menzogna. Del resto, non c'è qui alcun mezzo

termine;

o

non bisogna esigere assolutamente nulla, o bisogna dapprima piegarlo all’obbedienza più perfetta. La peggiore educazione è di lasciarlo ondeggiante fra la sua e la vostra volontà, e di disputare incessantemente, fra voi e lui, a chi

dei due sarà il padrone; amerei cento volte di più che fosse sempre lui. È molto strano che, da quando ci si occupa

di

allevare

dei

fanciulli,

non

si

sia immaginato altro strumento per gui-

darli che l'emulazione, la gelosia, l'invidia, la vanità, l'avidità, la vile paura,

tutte le passioni più pericolose, più pronte a fermentare, e più adatte a corrompere l’anima, anche prima che il corpo sia formato. A ogni istruzione precoce che si voglia far entrare nella loro testa, si pianta un vizio in fondo al loro cuore; degli insensati istitutori pensano di fare delle meraviglie rendendoli cattivi per insegnar loro cos'è la bontà; e poi ci dicono con gravità: questo è l’uomo. Sì, questo è l’uomo che voi avete fatto, Si sono provati tutti gli strumenti, all'infuori di uno, il solo precisamente che possa riuscire: la libertà ben regolata. Non bisogna occuparsi di allevare un fanciullo, quando non si sa guidarlo ove si vuole con le sole leggi del possibile e dell'impossibile. Essendogli la sfera dell'uno e dell'altro ugualmente sconosciuta,

la si estende e la si ristrin-

ge intorno a lui come si vuole. Lo si incatena, lo si spinge, lo si trattiene col solo vincolo della necessità, senza ch'egli mormori: lo si rende agile e docile per la sola forza delle cose, senza che alcun

vizio abbia

l'occasione di germinare

in

lui; poiché mai le passioni si animano finché sono di nessun effetto. Non date al vostro allievo alcuna specie di lezione verbale;

non deve ricever-

i vostri

la

ne che dall'esperienza: non gl'infliggete alcuna specie di castigo, poiché egli non sa cos'è essere in colpa: non gli fate mai chiedere perdono, perché egli non può offendervi. Sprovvisto di ogni moralità nelle sue azioni, non può far nulla che sia moralmente male e che meriti o castigo o rimprovero. Vedo già il lettore spaventato giudicare questo fanciullo dai nostri: s'inganna. Il disagio perpetuo in cui tenete allievi

irrita

loro

vivacità;

più essi sono contenuti sotto i vostri occhi e più sono turbolenti nel momento che se ne sottraggono: bisogna ben che si compensino, quando lo possono, della dura soggezione in cui li tenete. Due scolari di città faranno più guasti in un paese che la gioventù di tutto un villaggio. Chiudete in una camera un signorino e un contadinello; il primo avrà tutto rovesciato e spezzato prima che il secondo si sia mosso dal suo posto. Perché ciò, se non perché uno si affretta ad approfittare di un momento di licenza,

mentre

l’altro, sempre

si-

curo della sua libertà, non si dà premura di usarne? E però i fanciulli dei contadini, spesso accarezzati o contrariati, sono

ancora

molto

lontano dallo sta-

to in cui voglio che siano tenuti. Mettiamo come massima incontestabile che i primi movimenti della natura siano sempre diritti: non c’è affatto perversità originale nel cuore umano; non vi si trova un sol vizio di cui non si possa dire come e perché si è contratto. La sola passione naturale dell’uomo è l’amore di se stesso, o l'amor proprio preso in senso esteso. Questo amor proprio in sé o relativamente a noi, è buono

e utile;

rapporto sto

e, siccome

non

ha alcun

necessario con altri, è, a que-

riguardo,

naturalmente

indifferente;

non diventa buono o cattivo se non per l'applicazione che se ne fa e le relazioni che gli si danno. Fino a che la guida dell'amor proprio, che è la ra-

EMILIO

396 gione, può nascere, conviene che un fanciullo non faccia niente perché è visto o inteso, niente in una parola per rapporto agli altri, ma soltanto ciò che la natura gli domanda; e allora non farà altro che bene. Non voglio dire ch'egli non farà mai

paradossi che un uomo da pregiudizi. Il più pericoloso intervallo della vita umana è quello che va dalla nascita all’età di dodici anni. È il tempo in cui germogliano gli errori e i vizi, senza che si abbia ancora alcuno strumento per distruggerli; e quando lo strumento vie-

romperà forse un mobile di valore se lo troverà a portata di mano. Egli po-

non vi è più tempo per strapparle. Se i fanciulli passassero ad un tratto dall'età di poppanti a quella della ragione, l'educazione che si dà loro potrebbe convenire; ma, secondo il progresso naturale, ne occorre loro una affatto opposta. Bisognerebbe ch’essi non facessero nulla della loro anima fino a che questa avesse tutte le sue facoltà; poiché è impossibile ch'essa scorga la fiaccola

guasti, che non si ferirà affatto, che non trebbe

fare

molto

male

senza

far male,

già

perduto;

poiché la cattiva azione dipende dall'intenzione di nuocere, ed egli non avrà mai questa intenzione. Se l'avesse una

volta

sola,

tutto

sarebbe

sarebbe cattivo quasi senza rimedio. Una data cosa è un male agli occhi dell'avarizia, mentre non lo è a quelli della ragione. Lasciando i fanciulli in piena libertà di mettere in pratica la loro storditaggine, bisogna allontanare da essi tutto ciò che potrebbe renderla costosa, e non lasciare a portata di mano nulla di fragile e di prezioso. Che il loro appartamento sia ammobiliato di mobili

rozzi e solidi;

niente

specchi,

niente porcellane, niente oggetti di lusso. In quanto al mio Emilio che allevo in campagna, la sua camera non avrà nulla che la distingua da quella di un contadino. A che serve abbellirla con tanta cura, una volta che ci deve rimanere per così poco? Ma io m'’inganno;

egli l’abbellirà da sé, e vedremo subito con che cosa. Che se, nonostante le vostre precauzioni,

il fanciullo commette

qualche

di-

sordine, rompe qualche oggetto utile, non lo punite per la vostra negligenza, non lo rimproverate; ch'egli non senta una sola parola di rimprovero; non gli lasciate neppure intravvedere ch'egli vi ha procurato un dispiacere; agite esattamente come se il mobile si fosse rotto

da sé; infine crediate di aver fatto mol.

to se potrete non dir nulla. Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l'educazione? Non è guadagnare del tempo, ma perderne. Lettori volgari, perdonate i miei paradossi: bisogna farne quando si riflette; e, checché possiate dire, preferisco essere un uomo da

ne,

le

radici

sono

così

profonde,

che

che le presentate mentre è cieca, e segua, nell'immensa estensione delle idee,

una strada che la ragione traccia ancora così leggermente per gli occhi migliori. La prima educazione deve essere dunque puramente negativa. Essa consiste, non già nell’insegnare la virtù e la verità,

ma

sano

e

nel

garantire

il cuore

dal

vi-

zio e la mente dall’errore. Se voi poteste non far nulla e non lasciar far nulla; se poteste condurre il vostro allievo robusto

all’età

di

dodici

anni,

senza ch'egli sapesse distinguere la mano destra dalla sinistra, fin dalle prime vostre lezioni, gli occhi del suo intelletto si aprirebbero alla ragione; senza pregiudizi, senza abitudini, egli non avrebbe nulla in sé che potesse contrastare l’effetto delle vostre cure. Ben presto diverrebbe fra le vostre mani il più saggio degli uomini; e, cominciando col non far nulla, voi avreste fatto un prodigio di educazione !9. Prendete pure il contrario dell'uso e farete quasi sempre bene. Siccome non si vuol fare di un fanciullo un fanciullo,

non

ma

un

hanno

dottore,

mai

dato, corretto, to, minacciato,

i padri

abbastanza

e i maestri

presto sgri-

rimproverato, accarezzapromesso, istruito, par-

lato in modo ragionevole. Fate meglio: siate ragionevole, e non discutete punto col vostro allievo, soprattutto per fargli approvare ciò che gli dispiace; poiché il portare così sempre la ragione

LIBRO

397

SECONDO

nelle cose dispiacevoli, non è che rendergliela noiosa, e screditarla presto in uno spirito che non è ancora in istato di intenderla. Esercitate il corpo, gli or-

scrive storditamente delle ricette a prima vista, ma studia in primo luogo il temperamento dell’ammalato avanti di ordinargli qualche cosa; comincia tardi

tenete inoperosa la sua anima il più a lungo che potrete. Temete tutti i sentimenti anteriori al giudizio che li avvalori. Trattenete, arrestate le impressioni

dico troppo frettoloso lo uccide. Ma dove metteremo noi questo fanciullo per allevarlo in tal modo come

gani,

i sensi,

le forze

del

fanciullo,

ma

estranee: e, per impedire al male di nascere, non vi affrettate punto a fare il

bene; poiché esso non è tale che solo quando la ragione lo illumina. Considerate tutte le dilazioni come vantaggi: è guadagnar molto l'avanzare verso il termine senza perder nulla; lasciate maturare

l'infanzia

nei

fanciulli.

Infine,

se

qualche lezione diventa loro necessaria, guardatevi dall'impartirla oggi, se potete differirla fino a domani senza pericolo. Un'altra considerazione che conferma l'utilità di questo metodo è quella del genio particolare del fanciullo, che bisogna ben conoscere per sapere quale regime morale gli convenga. Ogni spirito ha la sua forma propria, secondo la quale ha bisogno di essere governato; ed è necessario al risultato delle cure che si hanno, che sia governato da questa forma e non da un’altra. Uomo prudente, spiate a lungo la natura, osservate bene il vostro allievo, avanti di dir-

gli la prima parola; lasciate dapprima il germe del suo carattere manifestarsi in piena libertà, non lo costringete in nessuna maniera, per vederlo meglio tutto intero. Pensate voi che questo tempo di libertà sia perduto per lui? Al contrario, esso sarà impiegato meglio; poiché è così che imparerete a non perdere un solo momento in un tempo più prezioso; invece, se cominciate ad agire prima di sapere quello che occorre fare, agirete a caso; soggetto a ingannarvi, bisognerà ritornare sui vostri passi; voi sarete più lontano dalla meta che se foste stato meno premuroso di raggiungerla. Non fate dunque come l’avaro che perde molto per non voler perdere nulla. Sacrificate nei primi anni un tempo che riguadagnerete ad usura in un'età più matura. Il saggio medico non pre-

a curarlo, ma

un essere

lo guarisce;

mentre

insensibile, come

il me-

un automa?

Lo terremo noi forse nel mondo della luna, in un'isola deserta? Lo allontaneremo noi da tutti gli esseri umani? Non avrà egli continuamente nel mondo lo spettacolo e l'esempio delle passioni altrui? Non vedrà egli mai altri fanciulli della sua stessa età? Non vedrà egli i suoi genitori, i vicini, la balia, la governante, il cameriere, lo stesso suo istitutore, il quale, dopo tutto, non sarà un

angelo?

Questa obiezione

è forte e solida. Ma

vi ho io forse detto che sarebbe una impresa facile quella di una educazione naturale? O uomini! È colpa mia se avete reso difficile tutto quello che è bene? Sento queste difficoltà, ne convengo: forse sono insormontabili; ma studiandosi

in ogni

modo

di prevenirle,

le

si prevengono fino a un certo punto. Io mostro lo scopo che occorre di proporsi: non dico che si possa raggiungerlo; ma dico che colui il quale si avvicinerà di più, riuscirà meglio. Ricordatevi che prima di osare l’intrapresa di formare un uomo, bisogna che noi stessi ci si sia fatti uomini;

oc-

corre trovare in sé l'esempio ch'egli deve proporsi. Mentre il fanciullo è ancora senza cognizioni, si ha il tempo di preparare tutto quello che gli sta vicino a non colpire i suoi primi sguardi se non cogli oggetti che gli convenga di vedere. Guadagnatevi il rispetto di tutti, cominciate. col farvi

ognuno sarete

amare,

affinché

cerchi di compiacervi. Voi non

affatto

padrone

del

fanciullo,

se

non lo sarete anche di tutto quello che lo circonda; e questa autorità non sarà mai

sufficiente, se non

sarà fondata

sul-

la stima della virtù. Non si tratta di esaurire la propria borsa e di versare il danaro a piene mani; non ho mai visto che il danaro abbia fatto amare qualcu-

EMILIO

398 no. Non bisogna essere avari e duri, né compiangere la miseria che si può sollevare; ma voi avrete un bell'aprire i vostri scrigni: se voi non aprite anche il vostro cuore, quello degli altri resterà sempre chiuso per voi. È il vostro tempo, sono le vostre cure, le vostre affezioni, siete voi stesso che bisogna dare;

poiché,

qualunque

cosa

voi

possiate

fare, si sente sempre che il vostro danaro non è voi. Vi sono delle testimonianze d'interessamento e di benevolenza che producono maggiore effetto, e che sono realmente più utili di tutti i doni: quanti infelici, quanti ammalati hanno più bisogno di consolazioni che di elemosine! Quanti oppressi ai quali la protezione giova più del danaro! Riconciliate le persone che si bisticciano, prevenite le liti; portate i figliuoli al dovere, i padri all'indulgenza; favorite i matrimoni

felici;

impedite

le

angherie;

im-

piegate, prodigate il credito dei genitori del vostro allievo in favore del debole, al quale è rifiutata la giustizia, e che il potente opprime. Dichiaratevi altamente protettore degli infelici. Siate giusto, umano, benefico. Non

fate soltanto l’ele-

musina, fate la carità; le opere di misericordia alleviano più mali che il dana-

ro: amate gli altri, ed essi vi ameranno; serviteli, ed essi vi serviranno; siate loro fratello, ed essi saranno vostri fi-

gliuoli. Ecco un'altra ragione perché io voglio allevare Emilio in campagna, lontano dalla canaglia dei servitori, gli ultimi degli uomini dopo i loro padroni; lontano dai perfidi costumi delle città, che la vernice di cui si coprono rende seducenti e contagiosi per i fanciulli; invece

i vizi

dei

contadini,

senza

ricer-

catezza e in tutta la loro grossolanità, sono più adatti a disgustare che a sedurre, quando non si ha alcun interesse ad imitarli. Nel villaggio, un precettore sarà assai più padrone degli oggetti che vorrà presentare al fanciullo; la sua riputazione, i suoi discorsi, il suo esempio, avran-

no un'autorità che non possono avere in città: poiché egli sarà utile a tutti, ciascuno si affretterà a renderselo obbli.

gato, ad essere stimato da lui, a mostrarsi al discepolo così come il maestro

vorrebbe che si fosse in realtà; e se non ci si correggerà dal vizio, ci si asterrà dallo scandalo; è tutto ciò di cui abbia-

mo bisogno per il nostro scopo. Cessate di pigliarvela con gli altri per le vostre proprie colpe: il male che i fanciulli vedono li corrompe meno di quello che insegnate loro. Sempre predicatori, sempre moralisti, sempre pe-

danti, per un’idea che voi date loro cre-

dendola buona, ne date a un tempo venti altre che non valgono nulla: pieni di quello che passa nella vostra testa,

non

vedete

l'effetto

che

producete

nella loro. Fra questo prolisso flusso di parole, con cui continuamente li stan-

cate, pensate

voi che non ce ne sia una

ch’essi intendano a torto? Pensate voi ch’essi non commentino a modo loro le vostre spiegazioni diffuse e che non vi trovino di che farsi un sistema a loro portata, che sapranno opporvi al bisogno?

Ascoltate un ragazzetto cui si è appena fatta la lezione; lasciatelo chiac-

chierare,

piacere, e piega che menti nel capovolge

interrogare,

farneticare

a

suo

sarete sorpreso della strana hanno preso i vostri ragionasuo spirito: confonde tutto, tutto, vi fa perdere la pa-

zienza, vi affligge talvolta con delle obie-

zioni impreviste; vi riduce a tacere o a farlo tacere: e cosa può egli pensare di questo silenzio per parte di un uomo, cui piace tanto parlare? Se mai egli ottiene questo vantaggio e se ne accorge, addio educazione; tutto è finito fin da questo momento, egli non cerca più di istruirsi, cerca di confutarvi. Maestri zelanti, siate semplici, discreti, riservati: non vi affrettate mai ad

agire se non per impedire agli altri di agire: lo ripeterò senza tregua, differite, se è possibile, una buona

istruzione, per

paura di impartirne una cattiva. Su questa terra, la cui natura avrebbe fatto il primo paradiso dell'uomo, temete di sostenere la parte del tentatore, volendo dare all’innocenza la conoscenza del bene e del male: non potendo impedire che il fanciullo s'’istruisca all'esterno

LIBRO

399

SECONDO

con degli esempi, limitate tutta la vostra vigilanza ad imprimere questi esempi nel suo spirito sotto l’immagine che gli conviene. Le passioni impetuose producono un grande effetto sul fanciullo che ne è testimonio, poiché hanno dei segni molto sensibili che lo colpiscono e lo forzano a prestarvi attenzione. La collera soprattutto è così rumorosa nei suoi impeti, che è impossibile non accorgersene quand'è a nostra portata. Non bisogna domandare se è questa, per un pedagogo, l'occasione d’intavolare un bel discorso.

Eh!

niente bei discorsi, nient’af-

fatto, neppure una parola. Lasciate venire il fanciullo: meravigliato dello spettacolo, non mancherà di interrogarvi. La risposta è semplice; si trae dagli oggetti stessi che colpiscono i suoi sensi. Vede un viso infiammato, degli occhi scintillanti,

un

gesto

minaccioso,

sente

delle

grida; tutti sintomi codesti che il corpo non è nel suo stato normale. Ditegli con

calma, senza affettazione, senza mistero: questo povero diavolo è ammalato, è in

un accesso di febbre. Potete quindi cogliere l'occasione per dargli, ma in poche parole, un'idea delle malattie e dei loro effetti; poiché anche ciò appartiene alla natura, ed è uno dei vincoli del-

la necessità, ai quali egli deve sentirsi sottomesso. È possibile che, partendo da questa idea, che non è falsa, egli non contragga per tempo una certa ripugnanza ad abbandonarsi agli eccessi delle passioni, che considererà come tante malattie? E credete voi che una

simile nozione,

data a

proposito, non produrrà un effetto tanto salutare quanto la più noiosa predica di morale? Ma osservate nell'avvenire le conseguenze di questa nozione: eccovi autorizzati, se mai vi siate costretti,

a trattare un fanciullo ribelle come un fanciullo ammalato; a chiuderlo nella sua camera, nel suo letto, se occorre, a tenerlo a dieta, a fargli aver paura degli stessi suoi vizi nascenti, a renderglieli odiosi e temibili, senza che possa mai ritenere come un castigo la severità che voi sarete forse costretto ad usare per guarirnelo. Che se poi accade a voi

stesso,

in qualche

momento

di vivacità,

di perdere il vostro sangue freddo e la moderazione di cui dovete far vostro studio, non cercate affatto di dissimulargli il vostro errore; ma ditegli francamente, con un tenero rimprovero: ami. co

mio,

mi

avete

fatto

male.

Del resto, occorre che tutte le ingenuità che può produrre in un fanciullo la semplicità delle idee di cui è nutrito, non siano mai rilevate in sua presenza, né citate in modo che egli possa saperlo. Uno scoppio indiscreto di risa può sciupare il lavoro di sei mesi, e produrre un danno irreparabile per tutta la vita. Io non posso ripetere abbastanza che, per essere maestro del fanciullo,

occorra essere maestro di se stesso. Mi rappresento il mio piccolo Emilio, che, nel più folto di una rissa fra due vicine, si avanza verso la più furiosa e le dice con aria di commiserazione:

« Cara mia,

ridere, senza rimproverarlo,

senza lodar-

voi siete ammalata, me ne dispiace tanto ». Certamente questa spiritosaggine non rimarrà senza effetto sugli spettatori, e forse neppure sulle attrici. Senza lo, io lo porto via per amore o per forza prima che possa accorgersi dell’effetto, o almeno prima che vi pensi; e mi affretto a distrarlo con altri oggetti che glielo facciano ben presto dimenticare. II mio scopo non è di entrare in tutti i particolari, ma solo di enunciare le massime generali, e di dare degli esempi nelle occasioni difficili. Ritengo impossibile che,

in seno

alla società,

si possa

condurre un fanciullo fino all’età di dodici anni senza dargli qualche idea dei rapporti da uomo a uomo, e della moralità delle azioni umane. Basta che ci si adoperi a rendergli queste nozioni necessarie il più tardi possibile, e che, quando queste diventeranno inevitabili, siano limitate alla utilità presente, solo perché egli non si creda padrone di tutto, e non faccia del male agli altri senza scrupolo e senza saperlo. Ci sono caratteri dolci e tranquilli che si possono condurre lontano senza pericolo per la loro primitiva innocenza; ma vi sono anche dei

caratteri

violenti,

la

cui

ferocia

si

sviluppa per tempo, e che bisogna affret-

EMILIO

400 tarsi

a fare

uomini,

per

non

essere

co-

stretti ad incatenarli. I nostri primi doveri sono verso di noi; i nostri sentimenti primitivi si concentrano

in noi stessi;

tutti i nostri mo-

vimenti naturali si riferiscono dapprima alla nostra conservazione e al nostro benessere. Cosicché il primo sentimento della giustizia non ci viene da quella che noi dobbiamo, ma da quella che ci è dovuta;

ed

è ancora

uno

dei

contro-

sensi dell'educazione comune che, parlando dapprima ai fanciulli dei loro doveri, e mai

dei loro diritti, si comincia

col dir loro il contrario di quello che occorre, cosa che essi non possono capire, e che non può interessarli. Se dovessi dunque dirigere uno di quelli che ho or ora supposti, io direi fra me: un fanciullo non si affeziona alle persone * ma alle cose; e ben presto egli impara dall'esperienza a rispettare chiunque lo superi in età e in forza: ma le cose non si difendono da sé. La prima idea che bisogna dargli non è dunque tanto quella della libertà quanto quella della proprietà !!;'e, affinché egli possa avere questa idea, bisogna che possegga qualche cosa di suo. Citargli i suoi abiti, i suoi mobili, i suoi giocat-

toli è non dirgli niente; poiché quantunque egli disponga di queste cose, non sa né perché né come le abbia. Dirgli che

le ha, perché

gli sono

state date, è

non farne di niente; poiché, per dare, bisogna avere: ecco dunque una proprietà anteriore alla sua; ed è il princi pio della proprietà che gli si vuole spiegare; senza contare che il dono è una convenzione, e che il fanciullo non può sapere ancora cosa sia la convenzione **. Lettori, notate, vi prego, in questo esempio e in altri centomila, come, rimpin-

* Non si deve mai tollerare che un fanciullo si prenda giuoco delle persone attempate, come se fossero suoi inferiori o suoi eguali. Se egli osasse picchiare seriamente qualcuno, fosse anche il suo servitore, fosse anche il carnefice, cercate che gli si restituiscano subito le botte ad usura, e in modo da levargli la voglia di ricominciare. Ho visto governanti imprudenti incoraggiare la caparbietà di un fanciullo, eccitarlo a picchiare, lasciarsi picchiare esse stesse e

zando la mente dei fanciulli di parole che non hanno alcun senso a loro portata, si crede non pertanto di averneli molto bene informati. Si tratta dunque di risalire all’origine della proprietà; perché è di là che deve nascere la prima idea. Il fanciullo, vivendo in campagna, avrà preso qualche nozione dei lavori campestri; non occorrono per ciò che occhi e tempo disponibile, ed egli avrà gli uni e l'altro. È di ogni età, e specialmente del. la sua, il voler creare, imitare, produr-

re, dare segni di potenza e di attività. Egli non avrà visto due volte coltivare

un

giardino,

seminare,

spuntare

e cre-

lo favorisco,

condivido

il suo

scere i legumi, che vorrà fare a sua volta da giardiniere. Per i principi innanzi fissati, io non mi oppongo affatto a questo suo desiderio;

anzi,

gusto, lavoro con lui, non per il piacere suo, ma per il mio; almeno egli così crede: io divento il suo garzone giardiniere; in attesa che egli abbia del. le braccia, coltivo io la terra per lui: egli ne prende possesso piantandovi una fava; e certamente questo possesso è più sacro e più rispettabile di quello che prendeva Nufiès Balboa dell'America Meridionale

in nome

del

re di Spagna,

piantando la sua bandiera sulle coste del mare del Sud". Si va tutti i giorni ad annaffiare le fave, le si vedono spuntare con degli impeti di gioia. Accresco questa gioia dicendogli: ciò vi appartiene; e, spiegandogli allora questo termine di appartenere, gli fo sentire che egli vi ha messo il tempo,

il lavoro,

la

fatica,

infine

la

sua persona; che c’è in questa terra qualche cosa di se stesso che può reclamare contro chiunque, come potrebridere dei suoi deboli colpi, senza pensare che essi erano altrettanti misfatti nell'intenzione del piccolo furioso e che quegli che vuol battere da giovane vorrà ammazzare da grande. ** Ecco perché la maggior parte dei fanciulli vogliono riavere ciò che hanno dato e pian-

gono quando non lo si vuol restituir loro. Ciò

non accade più quando hanno ben capito cosa sia il dono; solamente, essi sono allora più circospetti nel dare.

LIBRO

SECONDO

401

be ritirare il suo braccio dalla mano di un altro uomo che volesse trattenerlo» suo malgrado !, Un bel giorno egli arriva tutto affaccendato con l’'innaffiatoio in mano. O spettacolo! o dolore! Tutte le fave so-

incolta. Io lavoro quella che mio padre ha honificata; ognuno fa altrettanto per parte sua, e tutte le terre che vedete sono occupate da molto tempo.

il luogo stesso non si riconosce più. Ah! cos'è divenuto il mio lavoro, l'opera

Signor Roberto, vi è dunque spesso del seme di popone che vada perduto?

no

divelte,

il terreno

è tutto

sossopra,

mia, il dolce frutto delle mie cure e dei

miei sudori? Chi mi ha rapito il mio bene? Chi ha preso le mie fave? Questo giovane cuore si gonfia, il primo sentimento dell’ingiustizia viene a versarvi la sua triste amarezza; le lacrime scorrono come ruscelli; il fanciullo desolato

riempie

l’aria di gemiti

prende parte indignazione;

e di grida.

Si

al suo tormento, alla sua si cerca, ci s’informa, si

fanno delle perquisizioni. Infine si scopre che il giardiniere ha fatto il colpo: lo si fa venire. Ma eccoci molto lungi dalla realtà. Il giardiniere, venendo a sapere di che ci si lamenta, comincia a lagnarsi più forte di noi. Che! signori, siete voi che mi avete sciupato così il mio lavoro! Io avevo seminato là dei poponi di Malta, il cui seme mi era stato dato come un tesoro, e dei quali speravo farvi un presente appena fossero stati maturi; ma ecco che, per piantarvi le vostre miserabili fave, voi mi avete distrutto i miei

poponi già ben alti, che non potrò mai sostituire. Mi avete fatto un danno irreparabile, e vi siete privati voi stessi del piacere di mangiare dei poponi squisiti.

EMILIO

ROBERTO

Scusatemi,

mio

Scusateci,

mio

povero

cadetto;

poi-

EMILIO

Ma

io non ho giardino. ROBERTO

Che m'importa? Se voi sciuperete il mio, io non vi lascerò più passeggiare; poiché,

vedete,

io

così la mia fatica.

non

voglio

perdere

GIAN-GIACOMO

Non si potrebbe proporre un accomo-

damento

al buon Roberto?

Che egli dia,

a me e al mio piccolo amico, un angolo del suo giardino per coltivarlo, a patto che avrà la metà del prodotto. ROBERTÒ

GIAN-GIACOMO

ci avevate messo

giovane

ché non ci capitano spesso dei signorini tanto sventati quanto voi. Nessuno tocca il giardino del suo vicino; ciascuno rispetta il lavoro degli altri, affinché anche il suo sia al sicuro.

Roberto.

Voi

il vostro lavoro, la vo-

stra fatica. Vedo bene che abbiamo avuto torto di sciupare la vostra opera; ma noi vi faremo venire dell'altro seme da Malta, e non lavoreremo più la terra prima di sapere se qualcuno non vi abbia muso mano prima di noi. ROBERTO

Ebbene, signori, potete dunque riposarvi, poiché non vi è più affatto tetra

Ve lo concedo senza alcuna condizione. Ma ricordatevi che io verrò ad arare le vostre fave, se voi toccherete i miei poponi. In questo saggio circa culcare nei fanciulli le ve, si vede come l’idea risalga naturalmente al mo occupante per mezzo è chiaro,

netto,

semplice

la maniera d’innozioni primitidella proprietà diritto del pridel lavoro. Ciò e sempre

alla

portata del fanciullo. Di là fino al diritto di proprietà e agli scambi non c'è

EMILIO

402 più che un passo, dopo il quale bisogna fermarsi subito. Si vede ancora che una spiegazione che io contengo qui in due pagine di scritto sarà forse, per la pratica, l’affare di un anno; poiché, nel cammino delle idee morali, non si può procedere troppo lentamente, né consolidarsi troppo bene a ogni passo. Giovani maestri, pensate, vi prego, a questo esempio, e ricordatevi che in ogni cosa le vostre lezioni devono essere date più colle azioni che coi discorsi; poiché i fanciulli dimenticano facilmente ciò che hanno detto e quello che è stato loro detto, ma non mai ciò che hanno fatto e quello che si è loro fatto. Simili istruzioni si devono impartire, come ho detto, più presto o più tardi, secondo che l'indole tranquilla o turbolenta dell’allievo ne acceleri o ne ritardi il bisogno;

il loro

uso

è di una

difficili, diamo

ancora

un esempio.

evi.

denza che salta agli occhi: ma, per non omettere nulla d'importante nelle cose

Il vostro fanciullo insopportabile sciupa tutto quello che tocca: non andate in collera;

mettete

tata ciò che può mobili

fuori

dalla

guastare.

di cui si serve,

sua

por-

Se rompe

non

vi affrettate

i

a dargliene degli altri: lasciategli sentire il danno della privazione. Se spezza le finestre

della sua camera,

lasciate soffia-

re il vento su di lui notte e giorno, senza preoccuparvi dei raffreddori; poiché è meglio che sia infreddato che pazzo. Non vi lamentate mai degli incomodi che vi cagiona, ma fate in modo che li senta egli per il primo. Infine, voi fate aggiustare i vetri, sempre senza dir nulla. Li rompe ancora? Allora cambiate metodo;

ditegli

seccamente,

ma

senza

* Del resto, quand'anche questo dovere di mantenere i propri impegni non fosse impresso nella mente del fanciullo dal peso della sua utilità, ben presto il sentimento interiore, cominciando a spuntare, glielo imporrebbe come una legge della coscienza, come un principio innato che non aspetta per svilupparsi che le cognizioni alle quali si applica. Questo primo tratto non è segnato dalla mano degli uomini, ma scolpito nei nostri cuori dall'Autore di ogni giustizia. Togliete la legge primitiva delle convenzioni e l'obbligo che essa impone, tutto è illusorio e

collera: le finestre sono state messe là per mia

mie, esse sono cura, e voglio

preservarle. Poi lo chiuderete all’oscuro in un luogo senza finestre. A questo procedimento così nuovo egli comincia a gridare, a tempestare; nessuno lo ascolta.

Subito

si

stanca

e cambia

tono;

si

lamenta, geme: un domestico si presenta, il ribelle lo prega di liberarlo. Senza cercar pretesti per non farne nulla, il servo risponde: « Ho anch'io dei vetri da conservare », e se ne va. Final-

mente, dopo che il fanciullo sarà rimasto

là parecchie

ore,

abbastanza

a lun-

go per annoiarsi e ricordarsene, qualcuno gli suggerirà di proporvi un accordo, per mezzo del quale voi gli rendereste la libertà ed egli non romperebbe più vetri. Egli non chiederà di meglio. Vi farà pregare di andarlo a vedere: voi andrete; egli vi farà la sua proposta, e voi l'accetterete subito, dicendogli: è molto ben pensato; ci guadagneremo tutti e due: perché non avete avuto prima questa buona idea! E poi, senza chiedergli né assicurazione né conferma della sua promessa, lo abbraccerete con gioia e lo condurrete subito nella sua camera, con-

siderando questo accordo sacro e inviolabile, come se ci fosse stato un giuramento. Quale idea pensate voi ch'egli si farà,

in

base

a

questo

procedimento,

della fede degli impegni e della loro utilità? O io ho errato o non vi è sulla terra un solo fanciullo, che non sia già del

tutto

corrotto,

il quale,

messo

alla

prova di tale condotta, immagini di rompere una finestra a bella posta *. Seguite la connessione logica di tutto ciò. Il piccolo cattivo non pensava affatto, fa-

cendo un buco per piantarvi la sua fava,

che si scavava una prigione, ove la sua

vano nella società umana. Chi mantiene la sua promessa soltanto per suo profitto, non è più vincolato che se non avesse promesso nulla; o tutt'al più egli avrà il potere di violarla come il vantaggio dei 15 punti dei giocatori, i quali non tardano a prevalersene che per aspettare il momento di approfittarsene con più vantaggio. Questo principio è della più grande importanza, e merita di essere approfondito; poiché è qui che l'uoma comincia a mettersi in contradizione

con se stesso.

LIBRO

SECONDO

403

scienza non avrebbe tardato a farlo rinchiudere. Eccoci nel mondo morale, ecco la porta aperta al vizio. Con le convenzioni e i doveri nascono la frode e la menzogna. Appena si può fare quello che non si deve, si vuol nascondere ciò che non si è dovuto fare. Appena un interesse fa promettere, un interesse maggiore può far violare la promessa; non si tratta più che di violarla impunemente: la risorsa

è naturale;

ci

si nasconde

e si

mente. Non avendo potuto prevenire il vizio, eccoci già nel caso di punirlo. Ed ecco le miserie della vita umana che cominciano con i suoi errori. Ho già detto abbastanza per far comprendere che non bisogna mai infliggere ai fanciulli il castigo come castigo, ma che questo deve sempre capitar loro come una conseguenza naturale della loro cattiva azione. Così non declamerete contro la menzogna, non li punirete precisamente perché hanno mentito; ma farete in modo che tutti i cattivi effetti della menzogna, come anche il non essere creduti quando diciamo la verità e l'essere accusati del male che non abbiamo fatto, quantunque ce ne difendiamo,

si

riuniscano

sulla

loro

testa

quando essi hanno mentito. Ma spieghiamo cosa sia il mentire per i fanciulli. Vi sono due specie di menzogne: quella di fatto, che riguarda il passato, quella di diritto, che riguarda l’avvenire. La prima ha luogo quando si nega di aver fatto quello che si è fatto, oppure quando si afferma di aver fatto ciò che non si è fatto, e in generale quando si parla scientemente contro la verità delle cose. L'altra ha luogo quando si promette ciò che non si è progettato di mantenere, e in generale quando si mostra una intenzione contraria a quella che si ha. Queste due menzogne possono talvolta riunirsi

nella

stessa*; ma

io le considero

qui per quello che hanno di diverso. Colui che sente il bisogno che ha del soccorso degli altri, e che non cessa di ne,

* Come quando, accusato di una cattiva azioil colpevole se ne difende proclamandosi

provare la loro benevolenza, non ha alcun interesse a ingannarli;

invece, ha un

interesse sensibile che essi vedano le cose come sono, per paura che non s'’ingannino a suo danno. È dunque chiaro che la menzogna di fatto non è naturale nei fanciulli; ma è la legge dell’obbedienza che produce la necessità di mentire, poiché essendo l'obbedienza penosa, ce ne dispensiamo segretamente il più che possiamo, e l'interesse presente di evitare il castigo o il rimprovero la vince sull'interesse remoto di esporre la verità. Nell’educazione naturale e libera, perché dunque il vostro fanciullo vi mentirebbe? Che ha egli da nascondervi?

Voi

non

lo

riprendete

affatto,

non lo punite per niente, non esigete nulla da lui. Perché non direbbe egli a voi quello che ha fatto con quella medesima ingenuità colla quale lo direbbe a un suo piccolo compagno? Egli non può vedere in questa confessione maggior pericolo da una parte che dall'altra. La menzogna di diritto è ancora meno naturale, poiché le promesse di fare o di astenersi sono atti convenzionali i quali escono dallo stato di natura e contravvengono alla libertà. Ma c’è di più; tutti gl’impegni dei fanciulli sono nulli per se stessi, atteso

che,

non

potendosi

la loro vista limitata estendere al di là del presente, nell'impegnarsi non sanno quello che fanno. Il fanciullo può appena mentire quando s'impegna; poiché, non pensando che a cavarsi dall’impiccio nel momento attuale, ogni mezzo che non abbia un effetto presente gli diventa uguale: promettendo per un tempo futuro, non promette nulla, e la sua im-

maginazione ancora addormentata non sa estendere il suo essere su due tempi differenti. Se egli potesse evitare la frusta od ottenere un cartoccio di dolciumi, promettendo di buttarsi domani dalla finestra, lo prometterebbe subito. Ecco perché le leggi non tengono alcun conto degli impegni dei fanciulli; e quando i padri e i maestri più severi esigono che li adempiano, è soltanto per quello

uomo onesto. Egli mente allora nel fatto e nel

diritto.

404

EMILIO

che il fanciullo dovrebbe fare, quand'anche non l'avesse promesso. Il fanciullo, non sapendo quello che fa quando s'impegna, non può dunque mentire impegnandosi. Non è la stessa cosa quando manca alla sua promessa, il che è ancora una specie di menzogna retroattiva: poiché si ricorda benissimo di aver fatto questa promessa; ma quello che non vede, è l’importanza di mantenerla. Non essendo in grado di leggere nell’avvenire, non può prevedere le conseguenze delle cose; e quando viola i suoi impegni, non fa nulla contro la ragione della sua età. . Risulta quindi che le menzogne dei fanciulli sono tutte opera dei maestri; e che il voler insegnar loro a dire la verità, non è altro che insegnar loro a mentire. Nella premura che si ha di regolarli, di guidarli, d'istruirli, non si trovano mai abbastanza argomenti per venirne a capo. Ci si vuole aprir nuove vie per penetrare nell'anima loro con massime senza fondamento, con precetti senza ragione; e si preferisce che essi sappiano le loro lezioni e mentiscano, anziché restino ignoranti e veritieri. Per

noi, che

non

diamo

ai nostri

al.

lievi se non lezioni di pratica, e che preferiamo che siano buoni piuttosto che dotti, non esigiamo da essi affatto la verità, per paura che la svisino, e non facciamo prometter loro nulla che siano poi tentati di non mantenere. Se nella mia assenza si è prodotto qualche male di cui ignoro l’autore, mi guarderò bene dall’accusare Emilio, o di dirgli: « Siete voi? » *. Poiché, in tal modo, co-

s'altro farei se non insegnargli a negare? Ché se la sua indole difficile mi obbliga a far con lui qualche convenzione, prenderò così bene le mie misure che la proposta venga sempre da lui, mai da me; affinché, quando si è impegnato, abbia sempre un interesse presente e sensibile a soddisfare al suo impegno e, se * Niente

è più

sconveniente

di una

simile

domanda, soprattutto quando il fanciullo è colpevole: allora, se crederà che voi sapete quello che ha fatto, vedrà che gli tendete un tranello, € questa opinione non può mancare di indispor-

mai vi manca, questa menzogna attiri su di lui dei mali che veda uscire dall'ordine

stesso

delle

cose,

e non

dalla

vendetta del suo istitutore. Ma, lungi dall’aver bisogno di ricorrere a così crudeli espedienti, sono quasi sicuro che Emilio imparerà molto tardi che cosa vuol

dire

mentire,

e che,

imparandolo,

ne sarà molto meravigliato, non potendo concepire a che cosa possa giovare la menzogna. È molto chiaro che, quanto più rendo il suo benessere indipendente, sia dalle volontà, che dai giudizi degli altri, tanto più tronco in lui ogni interesse a mentire. Quando non si ha fretta d’istruire, non si ha nemmeno fretta di esigere, e si sceglie il momento opportuno per non esigere che a proposito. Allora il fanciullo

si

forma,

in

quanto

non

si gua-

sta. Ma, quando uno stordito di precettore, non sapendo come contenersi, gli fa promettere a ogni momento questa

o quella cosa, senza scelta, senza misura, il to, sopraccaricato di messe, le trascura, le

distinzione, senza fanciullo, annoiatutte queste prodimentica, infine

le ripudia e, considerandole come altrettante formule vane, si fa un giuoco di farle e di violarle. Volete dunque ch'egli sia fedele a mantenere la sua parola? Siate discreto nell'esigerla. I particolari nei quali sono testé entrato riguardo alla menzogna possono, per molti riguardi, applicarsi a tutti gli altri

doveri,

che

non

si

prescrivono

ai

fanciulli senza renderli loro non solo odiosi, ma anche impraticabili. Per aver l’aria di predicar loro la virtù, si fanno amar loro tutti i vizi: si danno loro col vietar poi ad essi di averli. Se si vuol renderli pii, si conducono ad annoiarsi in chiesa; facendo loro continuamente

borbottare delle preghiere, si forzano ad aspirare alla felicità di non pregare più Dio. Per ispirar loro la carità, si fa dar loro l'elemosina,

come

se si avesse

sde-

lo contro di voi. Se non lo crederà, dirà fra sé: perché scoprirei la mia colpa? Ed ecco la prima tentazione della menzogna, divenuta l’effetto della vostra domanda imprudente.

LIBRO

SECONDO

405

gno a darla da sé. Eh! non è il fanciullo che deve dare, ma il maestro: per quanta affezione egli abbia per il suo allievo, gli deve disputare questo onore; gli deve far giudicare che alla sua età non se n'è ancora degni. L'elermosina è un’azione d’un uomo che conosce il valore di quello che dona e il bisogno che n'ha il suo simile. Il fanciullo che non conosce niente di ciò, non può avere alcun merito nel dare;

dì senza carità, senza

be-

neficenza; è quasi vergognoso di dare, quando, fondandosi sul suo e sul vostro esempio, crede che non ci siano che i fanciulli che danno,

e che

non

si faccia

più l'elemosina una volta grandi. Notate che non si fanno mai dare dal fanciullo se non delle cose di cui egli ignora il valore, delle monete di metallo ch'egli ha in tasca, e che gli servono soltanto a ciò. Un fanciullo darebbe piuttosto cento luigi che una focaccia. Ma obbligate questo prodigo distributore a

dare le cose che gli sono care, dei giocattoli, dei dolci, Ja sua merenda, e sa-

premo presto se l'avrete reso veramente liberale. Si

trova

ancora

un

espediente

a ciò,

ed è di restituire ben presto al fanciullo quello che ha dato, in modo ch'egli si abitui a dare ciò che sa bene gli verrà restituito. Io non ho visto nei fanciulli che queste due specie di generosità, cioè di dare sempre quello che non serve loro, o dare quello ch’essi sono sicuri

che

sarà

loro

reso.

Fate

in

modo,

dice

Locke, ch’essi siano convinti, per esperienza,

che

il più

liberale

è sempre

il

meglio favorito. Questo vuol dire rendere un fanciullo liberale in apparenza, e avaro in realtà. Egli aggiunge che i fanciulli contrarranno, in tal modo, l’abitudine della liberalità. Sì, di una libera-

lità da usuraio, che dà un uovo per avere una gallina. Ma, quando si tratterà di

dare

sul

serio,

addio

l'abitudine;

quando si cesserà di restituire loro, essi cesseranno subito di dare. Bisogna guardare all’abitudine dell'anima piuttosto * Si deve intendere ch'io non rispondo alle

sue domande quando piace a lui, ma quando piace a me; altrimenti sarebbe assoggettarmi al-

che a quella delle mani. Tutte le altre virtù che s’insegnano ai fanciulli rassomigliano a codesta; e predicando loro queste solide virtù si consumano i loro giovani anni nella tristezza! Ecco, davvero, una sapiente educazione! Maestri,

lasciate

le smorfie,

siate vir-

tuosi e buoni; che i vostri esempi si incidano nella memoria dei vostri allievi, in attesa di potere entrare nei loro cuori. Invece di affrettarmi ad esigere dal mio allievo degli atti di carità, preferisco farli io in sua presenza, e levargli anche il mezzo di imitarmi

in ciò, come

un onore che non è della sua età; poi ché bisogna ch'egli non si abitui a considerare i doveri degli uomini soltanto

come dei doveri di fanciulli. Che se, vedendomi assistere i poveri, egli m'in-

terroga sull'argomento, e se è tempo di rispondergli * gli dirò: « Amico mio,

è che, guando i poveri che ci fossero dei ricchi,

hanno voluto i ricchi hanno

promesso di nutrite tutti coloro che non avessero di che vivere né coi loro beni né col loro lavoro ». « Voi avete dunque anche promesso ciò? » riprenderà egli. « Senza dubbio; io non sono padrone del bene che passa per le mie mani se non alla condizione cui è subordinato il possesso di esso ». Dopo aver inteso questo discorso — € si è visto come si possa mettere un fanciullo in condizione di capirlo — un altro che non fosse Emilio sarebbe tentato d’imitarmi e di condutsi da uomo ricco: in simile caso, impedirei almeno che ciò fosse fatto con ostentazione; preferirei che egli mi involasse il mio diritto e si nascondesse per dare. È una frode della sua età, la sola che gli perdonerei. So bene che tutte queste virtù per imitazione sono virtù da scimmia, e che

nessuna buona azione è moralmente buona se non quando la si fa come tale, e non perché gli altri la fanno. Ma, in

un'età in cui il cuore non sente nulla ancora, bisogna ben fare imitare ai fan-

le sue volontà, e mettermi nella più pericolosa dipendenza in cui un istitutore possa essere rispetto al suo allievo.

406

EMILIO

ciulli

gli atti di

cui

si vuol

dar

loro

l'abitudine,

in attesa che li possano fare

ne, L’uomo

è imitatore,

per discernimento o per amore del beanche l'animale

lo è; il gusto dell’imitazione è della natura ben ordinata; ma degenera in vizio nella società. La scimmia imita l'uomo che teme e non imita gli animali che disprezza; giudica buono ciò che fa un essere migliore di sé. Invece, fra noi, i nostri arlecchini di ogni specie imitano il bello per degradarlo, per renderlo ridicolo; essi cercano, nel sentimento della loro bassezza, di rendersi

uguali a quello che vale più di loro; o, se si sforzano di imitare ciò che ammirano, si vede nella scelta degli oggetti il falso gusto degl’imitatori: vogliono assai più darla ad intendere agli altri o far applaudire il loro talento, che rendersi migliori o più saggi. Il fondamento dell’imitazione fra noi proviene dal desiderio di trasportarsi sempre fuori di sé. Se

riuscirò

nella

mia

impresa,

Emi-

lio non avrà certamente questo desiderio. Bisogna dunque fare a meno del bene apparente che può produrre. Esaminate a fondo tutte le regole della

vostra

educazione,

le

troverete

così

tutte in senso opposto, specialmente in ciò che concerne le virtù e i costumi. La sola lezione di morale che convenga all'infanzia, e la più importante di ogni età,

è di

non

far

mai

male

a nessuno.

Il precetto stesso di far del bene, se non è subordinato a quello, è pericoloso, falso, contradittorio. Chi non fa del bene?

Tutti

ne

fanno,

il cattivo

come

gli altri; egli fa un felice alle spese di cento infelici; e di qui provengono tutte le nostre calamità: Le più sublimi virtù sono negative: esse sono anche le più

difficili, poiché

e al disopra

sono

perfino

senza

ostentazione,

di questo

piacere

* Il precetto di non nuocere mai agli altri porta seco quello di attaccarsi alla società umana il meno possibile; poiché, nello stato sociale, il bene dell’uno fa necessariamente il male dell’altro. Questo rapporto è nell'essenza della cosa, e niente può cambiarlo. Si cerchi, in base a questo principio, qual è il migliore, l’uomo sociale o il solitario. Un autore illustre dice che non vi è che il cattivo che sia solo; io dico

così dolce al cuore dell'uomo, di riman-

darne un altro contento di noi. O qual bene fa necessariamente ai suoi simili quello fra essi, se ve n’è uno, che non fa loro mai male! Di quale intrepidezza d'animo, di quale vigore di carattere egli ha bisogno per ciò! Non è ragionando su questa massima, ma studiandosi di praticarla, che si sente quanto sia grande e penoso il riuscire *. Ecco alcune deboli idee delle precauzioni con le quali vorrei che si dessero ai fanciulli le istruzioni che non si possono talvolta rifiutar loro senza esporli a nuocere a sé o agli altri, e specialmente

a contrarre

cattive

abitudini,

di cui

si durerebbe fatica poi a correggerli: siamo sicuri che questa necessità si senterà raramente per i fanciulli vati come devono esserlo, poiché è

ma prealleim-

possibile che diventino indocili, cattivi, bugiardi, avidi, quando non si saranno

seminati nei loro cuori quei vizi che li rendano tali. Così quello che ho detto a questo proposito serve più alle eccezioni

che

alle

regole;

ma

queste

ecce-

zioni sono più frequenti di mano in mano che i fanciulli hanno maggiori occasioni di uscire dal loro stato e di contrarre i vizi degli uomini. Occorrono necessariamente, per quelli che si allevano in mezzo al mondo, delle istruzioni più precoci che per quelli che sono allevati nella solitudine. Questa educazione solitaria sarebbe dunque preferibile, quand’anche non facesse che dare all'infanzia il tempo di maturare. Vi è un altro genere di eccezioni contrarie per quelli che un’indole fortunata eleva al disopra della loro età. Siccome vi sono degli uomini che non escono mai dall'infanzia, ve che, per così dire, non

ne sono altri vi passano, e

sono uomini quasi in sul nascere. Il ma-

invece che non vi è che il buono che sia solo. Se questa proposizione è meno sentenziosa, es-

sa è più vera e meglio ragionata della precedente. Se il cattivo fosse solo, che male farebbe? Nella società egli prepara le sue macchine

per nuocere agli altri. Se si vuol ritorcere que-

sto con

argomento per l’uomo dabbene, rispondo l'articolo al quale appartiene questa nota "*

LIBRO

SECONDO

407

le è che questa ultima eccezione è mol-

che

ogni madre, immaginando che un ciullo possa essere un prodigio, non bita punto che il suo non lo sia. fanno di più, prendono per indizi ordinari quegli stessi che indicano

cervello

to rara, assai difficile a conoscere, e che

dine

abituale:

fanduEsse stral’or-

la vivacità, le arguzie, la

storditaggine, la pungente ingenuità; tutti segni caratteristici dell'età, e che mostrano meglio che un fanciullo non è che un fanciullo. C'è forse da stupirsi che colui che si fa parlare molto e al quale si permette di dire tutto, che non è preoccupato, da nessuno riguardo, da nessuna regola di buona creanza, abbia per caso qualche felice trovata? Assai più strano sarebbe che non ne avesse mai, così come lo sarebbe un astrologo che, con mille menzogne,

non predicesse

mai alcuna verità. Essi mentiranno tanto,

diceva

Enrico

IV,

che

infine

diran-

no la verità. Chiunque vuol trovare dei motti di spirito non ha che da dire molte sciocchezze. Dio preservi dal male le persone alla moda, le quali non hanno altro merito per essere festeggiate! I pensieri più brillanti possono cadere nel cervello dei fanciulli, o piuttosto le migliori parole nella loro bocca, come i diamanti del maggior prezzo sotto le loro mani,

senza che perciò né i pen-

fende

l’aria

un

istante,

e

ricade

l'istante dopo nel suo nido. Trattatelo dunque secondo la sua età nonostante le apparenze, e temete di esaurire le sue forze per averle volute esercitare troppo. Se questo giovane si

mincia ma

riscalda,

a gorgogliare,

fermentare

se

vedete

che

co-

non

ec-

lasciatelo dappri-

liberamente,

ma

citatelo mai, per paura che si svapori tutto; e quando i primi spiriti saranno sbolliti, trattenete, comprimete gli altri, fino

a che,

con

gli anni,

tutto

si volga

in calore vivificante e in vera forza. Al. trimenti perderete e tempo e cure, distruggerete la vostra propria opera; e dopo esservi senza discrezione inebriato di tutti questi vapori infiammabili, non vi resterà che un fondo senza vigore. Dai fanciulli storditi provengono gli uomini volgari: non conosco un’osservazione più generale e più esatta di questa. Niente è più difficile che il distinguete nell'infanzia la stupidità reale da quella apparente e ingannevole stupidità che è l'annunzio delle anime forti. Sembra dapprima strano che i due estremi abbiano dei segni così simili: e ciò deve pertanto essere; poiché, in un’età in cui l’uomo non ha ancora alcuna

vera idea, tutta la differenza che

si trova fra colui che ha del talento e

sieri né i diamanti appartengano loro; non c’è vera proprietà per questa età in nessun genere. Le cose che dice un fanciullo non sono per lui ciò che sono per noi; egli non vi unisce le medesime

in ciò, che l'uno non è capace di nulla e

di sicuro in tutto ciò che pensa. Esaminate il vostro preteso prodigio. In certi momenti gli troverete una vivezza di at-

tone,

idee. Queste idee, ammesso che ne abbia, non hanno nella sua testa né seguito né legamento; nulla di fisso, nulla

tività

estrema,

una

chiarezza

di

mente

da squarciare le nubi. Il più spesso questa medesima mente vi sembra lenta, fiacca e come circondata da una fitta nebbia. Talvolta vi sorpassa e talvolta resta immobile. Per un momento direste che è un genio, e un momento dopo che è uno sciocco. Vi ingannereste sempre; è un fanciullo. È un aquilotto

colui che non ne ha, è che l’ultimo non ammette che idee false, e il primo, non trovandone che di tali, non ne ammette

alcuna:

rassomiglia dunque allo stupido

all’altro gno che so, che idea a sempre

non conviene nulla. Il solo sepuò distinguerli dipende dal capuò offrire all'ultimo qualche sua portata, mentre il primo è lo stesso ovunque. Il giovane Ca-

durante

la sua

infanzia,

sembrava

un imbecille in casa. Era taciturno e ostinato: ecco tutta l'opinione che si aveva di lui. Fu soltanto nell’anticamera di Silla che suo zio imparò a conoscerlo. Se egli non fosse entrato in quella anticamera, forse sarebbe passato per un bruto fino all'età della ragione: se Cesare

non

fosse vissuto,

forse

si sarebbe

sempre trattato da visionario quello stes-

EMILIO

408 so Catone che scoprì il suo nio, e previde tutti i suoi così lontano. O come quelli cano così precipitosamente sono soggetti ad ingannarsi!

funesto geprogetti da che giudii fanciulli Essi sono

spesso più fanciulli di loro. Ho visto, in un'età abbastanza inoltrata, un uo-

mo che mi onorava della sua amicizia passare nella sua famiglia e presso gli amici per uno spirito limitato: quella testa eccellente si maturava in silenzio. Ad un tratto si è mostrato filosofo, e non dubito che la posterità non gli conceda un posto onorevole e distinto fra i migliori ragionatoti e i più profondi metafisici del suo secolo "5. Rispettate l'infanzia, e non vi affrettate a giudicarla, sia in bene che in male. Lasciate

che

le eccezioni

si mostrino,

si

provino, si confermino a lungo, prima di adottare per esse dei metodi particolari. Lasciate lungamente agire la natura, prima di ingerirvi ad agire al suo posto, per paura di ostacolare le sue operazioni.

Voi

conoscete,

dite

voi,

il

valore del tempo e non ne volete perdere. Voi non vedete che più se ne perde nell'usarlo male che a non ne far niente,

e che un

fanciullo male

istruito

è più lontano dalla saggezza di colui che non è stato istruito affatto. Voi siete allarmati di vederlo consumare i suoi primi anni nel non far niente. Come! non è niente l'essere felice? Non è nulla il saltare, il giocare, il correre tutto il giorno? Nella sua vita egli non sarà così occupato. Platone, nella sua Repubblica, che si crede così austera, alleva i fanciulli solo nelle feste, nei giuochi, nelle canzoni, nei diverti menti; si direbbe ch'egli ha fatto tut-

‘to,

quando

divertirsi;

ha

loro

e Seneca,

insegnato

parlando

bene

a

dell’anti-

ca gioventù romana: stava, dice, sempre in piedi; non le si insegnava nulla ch'ella dovesse imparare seduta !. Valeva essa meno, giunta all’età virile? Spaventatevi dunque poco di questo preteso ozio. Che cosa direste di un uomo il quale, per utilizzare tutta la sua vita, non

direste:

volesse

quest'uomo

mai

è

dormire?

insensato;

Voi

egli

non gode del suo tempo, ma se ne priva; per fuggire il sonno, corre ver. so la morte. Pensate dunque che è qui la stessa cosa, e che

l'infanzia

è il son-

no della ragione. L’apparente facilità d’imparare è causa della perdita dei fanciulli. Non si vede che questa stessa facilità è la prova che non imparano nulla. Il loro cervello liscio e terso riflette come uno specchio gli oggetti che gli si presen-

tano; ma niente vi resta, niente vi penetra, Il fanciullo ritiene le parole, le

idee

si riflettono;

tano

le

quelli

capiscono,

lui

che

solo

lo ascol-

non

le

in-

tende. Sebbene la memoria e il ragionamento siano due facoltà essenzialmente

diverse,

tuttavia

l'una

luppa veramente che con ma dell'età della ragione

non

riceve

idee,

ma

non

si

svi

l’altro. Priil fanciullo

immagini;

e

c'è

questa differenza fra le une e le altre, che le immagini non sono che delle pitture assolute degli oggetti sensibili, e le idee sono delle nozioni degli oggetti, determinate da rapporti. Una immagine può essere sola nello spirito che se la rappresenta; ma ogni idea ne suppone altre. Quando si immagina, non si fa che vedere;

quando

si con-

cepisce, si confronta. Le nostre sensazioni sono puramente passive, mentre tutte le nostre percezioni o idee nascono da un principio attivo che giudica. Questo sarà dimostrato in seguito. Dico dunque che i fanciulli, non essendo capaci di giudicare, non hanno una vera memoria. Essi ritengono i suoni, mente

le figure, le sensazioni, rara. le idee, più raramente il loro le-

gamento. Nell'obiettarmi ch'essi’ imparano alcuni elementi di geometria, si crede di ritorcere l'argomento contro di

me;

invece

nel

loro

mio saper pure ché, tri

to

tale

dimostrazione

è

in

favore: si dimostra che, lungi dal ragionare da sé, non sanno nepritenere i ragionamenti altrui; poise seguite questi piccoli geome-

che

essi

metodo,

non

voi

hanno

vedete

ritenuto

subi-

che

LIBRO

SECONDO

l'esatta termini

impressione della figura e i della dimostrazione. Alla più

piccola

nuova

409

obiezione,

essi

non

si

raccapezzano più; rovesciate la figura, ed essi non sanno distinguere più nulla. Tutto il loro sapere è nella sensazione, niente è penetrato fino al giudizio. La loro stessa memoria non è più perfetta delle altre facoltà, poiché bisogna quasi sempre ch'essi rimparino, da grandi, le cose delle quali hanno imparato le parole, da piccoli. Sono però molto lontano dal pensare che i fanciulli non abbiano alcuna specie di raziocinio *. Invece vedo che ragionano molto bene di tutto ciò che conoscono e che si riferisce al loro interesse presente e sensibile. Ma è sulle loro conoscenze che ci si inganna, prestando loro quelle che non hanno e facendoli ragionare su ciò che non

possono

comprendere.

Ci

s'ingan-

na ancora volendoli rendere attenti a delle considerazioni che non li riguardano in nessun modo, come quella del loro interesse da venire, della loro felicità quando saranno uomini, della stima che si avrà per loro quando saranno

divenuti

grandi;

discorsi

che,

tenu-

ti ad esseri sprovvisti di ogni previdenza, non significano assolutamente nulla per loro. Or bene, tutti gli studi forzati di questi poveri disgraziati tendono a questi oggetti interamente estranei ai loro spiriti. Si giudichi dell’attenzione ch'essi vi possono prestare. I pedagoghi che ci mettono in mostra con gran pompa gl’insegnamenti che danno ai loro discepoli sono pagati per tenere un altro linguaggio: però si vede, dalla loro condotta, che la pen-

* Ho cento volte riflettuto, scrivendo, che è impossibile, in un lungo lavoro, dare sempre lo stesso senso alle medesime parole. Non vi è lingua abbastanza ricca da fornire tanti termini, giri di parole e di frasi per tutte le modificazioni che le nostre idee possano avere. Il metodo di definire tutti i termini e di sostituire senza

tregua la definizione al posto della cosa defini.

ta. è bello ma impraticabile; poiché in qual modo evitare il circolo? Le definizioni potrebbero essere buone, se non si usassero parole per farle, Ciò malgrado, sono persuaso che si può essere chiari, anche nella povertà della lingua no-

sano

esattamente

bero

scienze

come

me.

Poiché,

in-

fine, cosa insegnano loro? Delle parole, ancora delle parole, sempre delle parole. Fra le diverse scienze che si vantano d’insegnar loro, si guardano bene dallo scegliere quelle che sarebbero loro veramente utili, perché sarebdelle

cose,

termini,

il

ed

essi

non

vi

riuscirebbero; ma scelgono quelle che si ha l'aria di sapere quando se ne co-

noscono

i

ti

così

lontani

delle

inutilità

blasone,

la

geo-

grafia, la cronologia, le lingue ecc., tutstudi

dall'uomo,

e

prattutto dal fanciullo, che è una raviglia se niente di tutto ciò gli essere utile una sola volta in vita Si rimarrà sorpresi che io conti, numero

so-

mepuò sua. nel

dell’educazione,

lo studio delle lingue: ma bisogna ricordare ch'io non parlo qui che degli studi della prima età; e, checché se ne possa

dire,

io

non

credo

lingua

ha

la

sua

forma

che,

fino

al-

l'età di dodici o di quindici anni, nessun fanciullo, prodigi a parte, abbia mai veramente imparato due lingue. Convengo però che, se lo studio delle lingue fosse solo quello delle parole, cioè delle figure o dei suoni che le esprimono, questo studio potrebbe essere utile ai fanciulli: ma le lingue, cambiando i segni, modificano anche le idee che rappresentano. I cervelli si formano sui linguaggi, i pensieri prendono la tinta degli idiomi. La ragione sola è comune, lo spirito in ogni particolare;

differenza che potrebbe ben essere, in parte, la causa o l’effetto dei caratteri nazionali;

e, ciò

che

sembra

conferma-

re questa congettura, è che, presso tutte le nazioni del mondo, la lingua sestra, non dando sempre le medesime accezioni alle medesime parole, ma facendo in modo, tut-

te le volte che si adopera ciascuna parola, che

l'accezione che le si dà sia sufficientemente determinata dalle idee che vi si riferiscono, e che ogni periodo in cui questa parola si trova, serva, per così dire, di definizione. Ora dico che i fanciulli sono incapaci di ragionare, e ora li fo ragionare con abbastanza finezza. Non credo per questo di contradirmi nelle mie idee, ma non posso non convenire che spesso mi contradico nelle mie espressioni.

EMILIO

410 gue le vicissitudini dei costumi, e si conserva 0 si altera con esse. Di queste forme diverse l’uso ne dà una al fanciullo, ed è la sola ch'egli conservi fino all’età della ragione. Per averne due, bisognerebbe ch’egli sapesse confrontare le idee; e come potrebbe paragonarle, quando è appena in grado di concepirle? Ogni cosa può avere per lui mille segni diversi: ma ogni idea non può avere che una forma: egli dunque non può imparare a parlare che una lingua. Ne impara pertanto parecchie, mi si dice: io lo nego. Ho visto di questi piccoli prodigi che credevano parlare cinque o sei lingue. Li ho intesi successivamente parlare tedesco, in termini latini, in termini francesi, in termini italiani; si servivano, in verità, di cinque o sei dizionari, ma non patlavano sempre che tedesco. In una parola, date ai fanciulli

tutti

i sinonimi

cambierete

che

le parole,

vi

non

piacerà;

la lingua;

voi

ed

essi non ne sapranno che una. Appunto per nascondere la loro inettitudine

a

ciò,

noi

li

esercitiamo

di

preferenza nelle lingue morte, di cui non ci sono più giudici che non possiamo ricusare. Essendosi l'uso familiare di queste lingue perduto da molto tempo, ci si contenta d’imitare ciò che se ne trova scritto nei libri; e questo si chiama parlarle. Se tale è il greco e il latino dei maestri, si giudichi di quello dei fanciulli. Appena hanno imparato a memoria i primi rudimenti, dei quali non intendono assolutamente nulla, s’insegna loro dapprima ad esporre un discorso francese con parole latine; poi, quando sono più progrediti, a cucire in prosa delle frasi di Cicerone, e in versi dei centoni di Virgilio. Allora essi credono di parlare latino: chi andrà a contradirli? Qualunque studio si faccia, i segni rappresentativi non sono nulla, senza l’idea delle cose rappresentate. Tuttavia si limita sempre il fanciullo a questi segni, senza mai potergli far comprendere alcuna delle cose che essi rappresentano. Pensando di insegnargli la descrizione della terra, non gli s’insegna

che a conoscere delle carte: gli s’insegnano i nomi delle città, dei paesi, dei fiumi, che non concepisce esistere altrove se non sulla carta, sulla quale gli vengono mostrati. Mi ricordo di aver visto in qualche luogo una geografia che cominciava così: « Cos'è il mondo? È un globo di cartone ». Questa è precisamente la geografia dei fanciulli. Io scommetto che dopo due anni di sfera e di cosmografia, non c'è un solo fan-

ciullo di dieci anni che, in base alle re-

gole che gli sono state insegnate, sappia andare da Parigi a Saint-Denis. Scommetto infatti che non c'è un solo fanciullo il quale, sopra un piano del giardino di suo padre, sia in grado di seguirne le svolte senza smarrirsi. Ecco questi dottori che sanno a puntino ove sono Pechino; Ispahan, il Messico e tutti i paesi della terra. Sento dire che conviene occupare i fanciulli in studi ove non occorrano che gli occhi: ciò potrebbe essere se ci fosse qualche studio pel quale non occorressero occhi;

ma

io non ne conosco af-

fatto. Per un errore ancora più ridicolo, si fa loro studiare la storia: ci s’immagina che la storia sia a loro portata, perché non è che una raccolta di fatti. Ma che s'intende per questa parola « fatti »? Si crede forse che i rapporti che determinano i fatti storici siano così facili a comprendere, e che le idee di essi si formino senza fatica nello spirito dei fanciulli? Si crede forse che la vera conoscenza degli avvenimenti sia separabile da quella delle loro cause, da quella dei loro effetti; e che la parte storica dipenda così poco da quella morale da poter conoscere l'una senza l’altra? Se non vedete nelle azioni degli uomini che i movimenti esteriori e puramente fisici, cosa imparate nella storia? Assolutamente nulla; e questo studio, spoglio di ogni interesse, non vi dà più piacere che istruzione. Se volete apprezzare queste azioni dai loro rapporti morali, cercate di far intendere questi rapporti ai vostri allievi, e vedrete allora se la storia si addice alla loro età.

LIBRO

SECONDO

411

Lettori, ricordatevi sempre che quegli che vi parla non è né un dotto né un filosofo, ma

un uomo

semplice,

ami.

co della verità, senza partito, senza sistema; un solitario che, vivendo poco con gli uomini, ha meno occasioni d'im-beversi dei loro pregiudizi, e maggior tempo per riflettere su quello che lo colpisce quando è con essi in relazione. I miei ragionamenti sono meno fondati su dei principi che su dei fatti; e credo non poter meglio mettervi in grado di giudicarne, se non riferendovi spesso qualche esempio delle osservazioni che me li suggeriscono. Eto andato a passare alcuni giorni in campagna da una buona madre di famiglia, la quale prendeva gran cura dei suoi figliuoli e della loro educazione. Una mattina in cui ero presente alle lezioni del figlio maggiore, il suo istitutore, che l’aveva molto bene istruito nel-

la storia antica, venendo a parlare di quella di Alessandro, citò il fatto conosciuto del medico Filippo, che è stato messo in evidenza, e che certamente ne valeva la pena !. L’istitutore, uomo

di merito, fece sull’intrepidezza di Alessandro parecchie riflessioni che non mi piacquero affatto, ma che evitai di ribattere, per non discreditarlo nella mente del suo allievo. A tavola, non si man-

cò,

secondo

il metodo

francese,

di

far

attraverso

le

chiacchierare molto il ragazzetto. La vivacità naturale alla sua età e l’attesa di un applauso sicuro, gli fecero spacciare

mille

sciocchezze,

quali però uscivano di tanto in tanto alcune parole felici che facevano dimenticare il resto. Infine venne la storia del medico Filippo: egli la raccontò assai chiaramente

e con molto

garbo.

Do-

po l'ordinario tributo di elogi che esigeva la madre e che aspettava il figlio, si discusse su ciò ch'egli aveva detto. I più biasimarono la temerità di Alessandro; alcuni, analogamente all’istitutore, ammiravano la sua fermezza, il suo coraggio: il che mi fece comprendere che nessuno di quelli che erano presenti vedeva in che consistesse la vera bellezza di questo tratto. Per me, dissi loro, mi sembra che, se c'è il mi-

nimo coraggio, la minima fermezza nell’azione

di

Alessandro,

non

è che

una

stravaganza. Allora tutti si unirono a me e convennero che era una stravaganza. Stavo per rispondere e per scaldarmici, quando una donna, che era accanto a me, e che non aveva aperto

bocca, si chinò al mio orecchio e mi disse a bassa voce: «Taci, Gian-Giacomo !; essi non ti intenderanno ». La

guardai, ne fui colpito, e tacqui. Dopo pranzo, supponendo, da parecchi indizi, che il mio giovane dottore non avesse capito nulla della storia che aveva così ben raccontata, lo presi per mano, feci con lui un giro nel parco

e, avendolo

interrogato

a mio

agio,

trovai che ammirava, più di ogni altro, il coraggio tanto vantato di Alessandro: ma sapete in che egli faceva consistere questo coraggio? Unicamente nell’ingoiare d’un fiato una bevanda di cattivo gusto,

senza

alla

bocca.

esitare,

senza

manifestare

la

più piccola ripugnanza. Il povero fanciullo, al quale si erano fatte prendere delle medicine quindici giorni prima e che non le aveva prese se non con mol. ta pena, ne aveva ancora il disgusto La

morte,

l’avvelenamento,

non passavano nel suo spirito se non come sensazioni sgradevoli, ed egli non

concepiva,

per

sé,

fermai

queste

altro

veleno

che

la

sèna. Però bisogna confessare che la fermezza dell'eroe aveva fatto una grande impressione sul suo giovane cuore, e che alla prima medicina che avesse dovuto ingoiare, aveva risoluto di essere un Alessandro. Senza entrare in schiarimenti, che evidentemente superavano la sua portata di spirito, lo conin

lodevoli

disposizioni,

e me ne ritornai via ridendo dentro di me dell’alta saggezza dei padri e dei maestri, i quali pensano d’insegnare la storia ai fanciulli. È facile mettere sulle loro bocche i nomi

di re, d'imperi,

di guerre, di con-

quiste, di rivoluzioni, di leggi: ma quando si tratterà di appropriare a queste parole delle idee chiare, ci correrà un bel po’ dal colloquio del giardiniere Roberto a tutte queste spiegazioni. Alcuni

lettori,

scontenti

del

« taci,

412

EMILIO

Gian-Giacomo », domanderanno, lo pre-

ste e sterile infanzia; ma è perché tutte le idee che può concepire e che gli so-

vedo, ciò che trovo infine di così bello nell'azione di Alessandro. Disgraziati! Se bisognerà dirvelo, come lo capirete?

no

pria vita; la sua grande anima era fatta per crederci. O come quella medicina inghiottita era una bella professione di

la vita,

È che Alessandro credeva alla virtù; ci credeva sulla sua testa, sulla sua pro-

fede!

No,

nessun

derno

Alessandro,

mortale

ne

fece

mai

una così sublime. Se vi è qualche mome

lo si mostri

a si-

mili tratti. Se non c'è scienza di parole, non c’è studio adatto ai fanciulli. Se essi non hanno vere idee, non hanno vera memo-

ria; poiché io non chiamo così quella che ritiene solo le sensazioni. A che serve iscrivere nella loro testa un catalogo di segni che non rappresentano nulla per essi? Imparando le cose, non impareranno anche i segni? Perché dar loro la pena inutile d’impararli due volte? E però quali pericolosi pregiudizi non si cominciano ad ispirar loro, facendo prendere per scienza quelle parole che non hanno per loro alcun senso! dalla prima patola di cui il fanciullo si contenta, è dalla prima cosa ch'egli impara sulla parola di altri, senza che

utili,

tutte

quelle

che

si riferiscono

alla sua felicità e che devono illuminarlo un giorno sui suoi doveri, vi s’imprimano per tempo con caratteri indelebili, e gli servano a condursi, durante in

maniera

conveniente

al suo

essere e alle sue facoltà. Senza studiare nei libri, quella specie di memoria che può avere un fanciullo non resta, per questo, inattiva; tutto quello che vede, tutto quello che sente lo colpisce, e se ne ricorda;

tiene

nota in se stesso delle azioni e dei discorsi degli uomini; e tutto ciò che lo circonda è il libro nel quale, senza pensarci,

arricchisce

continuamente

la

sua

un fanciullo questa agilità che lo rende atto a ricevere ogni specie d’impressioni, non è perché vi s’imprimano dei nomi di re, delle date, dei termini di blasone, di sfera, di geografia, e tutte quelle parole senza alcun senso per la sua età, e senza alcuna utilità per qualsiasi età, di cui si opprime la sua tri-

memoria, in attesa che il suo giudizio ne possa approfittare. Nella scelta di questi oggetti, nella cura di presentargli di continuo quelli che può conoscere, e di nascondergli quelli che deve ignorare, consiste la vera arte di coltivare in lui questa prima facoltà; ed è con ciò che bisogna cercare di formargli un magazzino di conoscenze che servano alla sua educazione durante la gioventù e alla sua condotta in tutti i tempi. Questo metodo, è vero, non forma dei piccoli prodigi e non fa brillare le governanti e i precettori; ma forma degli uomini giudiziosi, robusti, sani di corpo e d'intelletto, i quali, senza essersi fatti ammirare da giovani, si fanno onorare da adulti. Emilio non imparerà mai nulla a memoria, neppure delle favole, nemmeno quelle del La Fontaine, per quanto siano naturali e graziose; poiché le parole delle favole non sono più le favole, così come le parole della storia non sono la storia. Come si può essere tanto cie-

* La maggior parte dei dotti lo sono alla maniera dei fanciulli. La vasta erudizione risulta

presso a poco la scienza alla moda degli ultimi secoli. Quella del nostro secolo è altra cosa: non

ne

veda

lui

stesso

l'utilità,

che

il suo

giudizio è perduto: avrà molto tempo da brillare agli occhi degli sciocchi prima che ripari ad una simile perdita* No,

se

la

natura



al

cervello

di

meno da una moltitudine d'idee che da una mol.

titudine d'immagini. Le date, i nomi propri, i luoghi, tutti gli oggetti isolati o spogli d'idee, si ritengono unicamente per la memoria dei segni, e raramente si ricorda qualcuna di queste cose senza vedere nello stesso tempo il recto o il verso della pagina ove si è letta, o la figura sotto la quale si è veduta la prima volta. Tale era

si studia più, non si osserva più; si sogna, e ci danno

gravemente

per filosofia i sogni di alcune

cattive notti. Mi si dirà che sogno anch'io:

ne

convengo: ma — ciò che gli altri si guardano bene dal fare — io dò i miei sogni per sogni, lasciando cercare al lettore se hanno qualche co-

sa di utile per le persone sveglie.

LIBRO

-

SECONDO

chi da chiamare le favole la morale dei fanciulli, senza pensare che l’apologo, divertendoli,

li

inganna;

che,

sedotti

dalla menzogna, si lasciano sfuggire la verità, e che tutto quello che si fa per rendere loro l'istruzione piacevole impedisce loro di approfittarne? Le favole possono istruire gli uomini; ma ai fanciulli

bisogna

dire

la

nuda

verità;

Fontaine a tutti i fanciulli, e non ce n'è

uno solo che le capisca. Quand'anche le capissero, sarebbe ancora peggio; poiché la morale è talmente confusa e così sproporzionata alla loro età, da trascinarli piuttosto al vizio che alla virtù. Voi direte che anche codesti sono dei paradossi. Sia; ma vediamo se sono delle verità. Io dico che un fanciullo non intende affatto le favole che gli fanno imparare, petché, per quanti sforzi si facciano per renderle semplici, l’istruzione che se ne vuol trarre costringe a farvi entrare delle idee ch'egli non può afferrare, e che la forma stessa della poesia, rendendogliele più facili a ritenere, gliele rende più difficili a concepire; di modo che si acquista il diletto a spese della chiarezza. Senza citare questa moltitudine di favole che non hanno nulla d’intelligibile né di utile per i fanciulli, e che si fanno loro, senza discernimento, imparare con le altre, poiché vi si trovano mescolate, limitiamoci a quelle che l’autore sembra aver fatte specialmente per essi. Non

conosco,

in tutta

I Corvo e la Volpe

ap-

pena la si copre con un velo, essi non si danno più la pena di sollevarlo. Si fanno imparare le favole del La

la raccolta del

La Fontaine, che cinque o sei favole, nelle quali sia messa molto in risalto la ingenuità puerile; di queste cinque o sei prendo, per esempio, la prima di tutte, poiché è quella la cui morale si adatta maggiormente ad ogni età, quella che i fanciulli capiscono meglio, quella che imparano con maggior piacere; infine quella che, per questo, lo stesso autore ha messo di preferenza in testa al suo libro. Supponendo nell’autore realmente lo scopo di essere capito dai fanciulli, di piacer loro e di istruirli,

413 °

questa favola è certamente il suo capolavoro: mi si permetta dunque di seguirla passo passo e di esaminarla in po che parole.

FAVOLA

Messer

lo corvo,

sopra

un albero

[appollaiato,

Messere! Che significa questa parola in se stessa? Che significa davanti a un nome proprio? Che senso ha in questo caso? Che cosa è un corvo? Cos'è un albero appollaiato? Non si dice sopra un albero appollaiato, ma si dice appollaiato sopra un albero. Per conseguenza bisogna parlare delle inversioni della poesia; bisogna dire cos'è la prosa e cosa sono i vetsi. teneva nel suo becco un

[ formaggio.

Quale

formaggio?

Era un formaggio

di Svizzera, di Brie o di Olanda? Se il fanciullo non ha mai visto corvi, che ci

guadagnate a visti, come un formaggio sempre delle

Madama

parlargliene? E se ne ha concepirà ch'essi tengano nel loro becco? Facciamo immagini secondo natura. volpe, dall'odore

[allettata,

Anche qui, Madarta! Ma per costei la parola è almeno bene appropriata: essa è abilissima nelle astuzie del suo mestiere. Bisogna dire cos'è una volpe, e distinguere la sua vera indole dal carattere di convenzione che ha nelle favole. Allettata. Questa parola non è usata. Bisogna spiegarla; bisogna dire che non ce ne serviamo più se non in poesia. Il fanciullo domanderà perché in poesia si parla diversamente che in prosa. Cosa gli risponderete voi? Allettata dall'odore d'un formaggio! Questo formaggio, tenuto da un cor-

414

EMILIO

vo appollaiato sopra un albero, doveva avere molto odore per essere sentito dalla volpe in un bosco ceduo o nella sua tana. È così che voi esercitate nel vostro alunno quello spirito di critica giudiziosa, che non si lascia prendere se non

da

buoni

verità dalla altrui?

indizi, e sa discernere

menzogna

nelle

la

narrazioni

gli tenne presso a poco questo [ linguaggio: Questo linguaggio! Le volpi parlano dunque? Parlano dunque la medesima lingua dei corvi? Bada a te, saggio precettore: pesa bene la tua risposta prima di farla; essa ha maggiore importanza di quello che tu pensi. Eb!

buongiorno,

signor corvo!

Signore! Titolo che il fanciullo vede volgere in derisione, anche prima di sapere che è un titolo d’onore. Quelli che dicono signor del corvo avrebbero ben altro da fare avanti di avere spiegato questo del. Quanto

siete grazioso!

come

[sembrate

mi

bello!

Zeppa, ridondanza inutile. Il fanciullo, vedendo ripetere la medesima cosa in altri termini, impara a parlare senza precisione. Se dite che questa ridondan-

za è un’arte

dell’autore,

parole,

una

che

essa

entra

nell’intenzione della volpe, la quale vuol parere moltiplicare gli elogi con le ma

sarà

scusa

buona

non per il mio allievo.

per

voî sareste la fenice degli [abitatori di questi boschi. La fenice! Che cosa è una fenice? Eccoci gettati a un tratto nella bugiarda antichità, quasi nella mitologia. Gli abitatori di questi boschit Che discorso figurato! L’adulatore nobilita il suo linguaggio e gli dà maggiore dignità per renderlo più seducente. Intenderà un fanciullo questa finezza? Sa egli soltanto, può mai sapere ciò che sia uno stile nobile e uno stile basso? A queste parole, il corvo è fuori [di

e, per mostrare

Senza mentire! Si mente dunque qual. che volta? Cosa penserà il fanciullo se gl’insegnerete che la volpe non dice senza mentire se non perché mente? rispondesse alle vostre penne, Rispondesse! Che significa questa parola? Insegnate al fanciullo a confrontare qualità tanto diverse quanto il canto e le penne, e vedrete come v'intenderà.

la sua bella voce,

Non dimenticate che, per intendere questo verso e tutta la favola, il fanciullo deve sapere che cosa è la bella voce del corvo. apre un largo becco, lascia cader [la sua

preda.

Questo verso è ammirabile; l’armonia sola ne rende l’immagine. Vedo un gran brutto becco aperto; sento cadere il formaggio atraverso i rami: ma queste specie di bellezze sono perdute per i fanciulli. La

volpe

me,

Senza mentire, se il vostro canto

sé dalla gioia

Bisogna aver già provato delle passioni molto vive per comprendere questa espressione proverbiale.

se ne

[dice:

Mio

impadronisce, buon

signore,

e

Ecco dunque già la bontà trasformata in sciocchezza. Certo non si perde tempo per istruire i fanciulli. sappiate

che

Massima generale; diamo più.

ogni

adulatore

noi non compren-

vive a spese di colui che l’ascolta. Un fanciullo di dieci anni non capirà mai questo verso. Questa lezione vale ben un [formaggio, senza dubbio.

LIBRO

SECONDO

415

Ciò si capisce, e il pensiero è buonissimo. Però vi saranno sempre pochissimi fanciulli che sappiano paragonare una lezione a un formaggio e che non preferiscano il formaggio alla lezione. Bisogna dunque far loro intendere che

questo

scherzo. ciulli!

ragionamento

Quanta

non

finezza

è

per

che

dei

uno

fan-

Il corvo, vergognoso e confuso Altro pleonasmo; ma questo non è scusabile. giurò, ma un po' tardi, che non [si sarebbe lasciato più prendere. Giurò! Chi è quello sciocco di raestro che osi spiegare al fanciullo cosa sia un giuramento? Ecco

molti

particolari,

assai

meno

però di quelli che occorrerebbero per analizzare tutte le idee di questa favola, e ridurle alle idee semplici ed elementari di cui ciascuna di esse è composta. Ma chi è che crede di aver bisogno di codesta analisi per farsi intendere dalla gioventà? Nessuno di noi è abbastanza filosofo per sapersi mettere al posto di un fanciullo. Passiamo ora alla morale. Io domando se è proprio a dei fanciulli di sei anni che occorra insegnare che vi sono degli uomini i quali lusingano e mentiscono per loro profitto! Si potrebbe tutt'al più insegnar loro che vi sono dei burloni che canzonano i ragazzi, e si fanno beffe segretamente della loro sciocca vanità: ma il formaggio guasta tutto; s'insegna loro meno a non lasciarlo cadere dal proprio becco, che a farlo cadere dal becco di un altro. È questo il mio secondo paradosso, e non è il meno importante. Seguite i fanciulli che imparano le favole, e vedrete che, quando sono in grado di farne l'applicazione, ne fanno quasi sempre una contraria all’intenzione

dell'autore,

e

che

invece

di

essere

circospetti sul difetto di cui li si vuol guarire o preservare, essi inclinano ad amare il vizio con cui si trae partito dai difetti degli altri. Nella favola prece-

dente

i fanciulli

si burlano

del

corvo,

ma si affezionano tutti alla volpe; nella favola che segue, crederete di dar loro la cicala per esempio; niente affatto, essi sceglieranno la formica. Non piace umiliarsi: essi prenderanno sempre la parte più bella; è la scelta dell’amor proprio, è una

scelta

molto

naturale.

Ora,

che

orribile lezione per l'infanzia! Il più odioso di tutti i mostri sarebbe un fanciullo avaro e duro, il quale sapesse ciò che gli si domanda e quello ch'egli rifiuta. La formica fa ancor più, essa gl’insegna a canzonare nei suoi rifiuti. In tutte le favole in cui il leone è uno dei personaggi, siccome di solito è il più brillante, il fanciullo non manca mai di farsi leone: e quando presiede a qualche spartizione, egli, bene istruito dal suo modello, ha gran cura d’impadronirsi di tutto. Ma quando il moscerino

atterra

il leone,

è un

altro

affare;

e allora il fanciullo non è più leone, è moscerino. Egli impara ad uccidere un giorno a colpi di spillo quelli che non oserebbe di attaccare a pie’ fermo. Nella favola del lupo magro e del cane grasso, invece di una lezione di moderazione che si pretende dargli, ne prende una di licenza. Non dimenticherò mai di aver veduto piangere molto una bimba ch’era rimasta afflitta da questa favola, sebbene le si predicasse sempre la docilità, Si durò fatica a conoscere la causa delle sue lacrime: finalmente la si seppe. La povera fanciulla si annoiava

di

essere

a catena;

ella

si

sentiva il collo spelato, e piangeva di non essere lupo. Così dunque la morale della prima favola citata è per il fanciullo una lezione della più bassa adulazione; quella della seconda una lezione d’inumanità; quella della terza, una lezione d’ingiustizia; quella della quarta, una lezione di satira; quella della quinta, una lezione d’indipendenza. Quest’ultima, per essere superflua al mio allievo, non è perciò più conveniente ai vostri. Quando date loro dei precetti che si contradicono, che frutto sperate dalle vo-

stre

cure?

questa

Ma

morale

forse,

che

eccetto

mi

serve

ciò,

di

tutta

obie-

416 zione

EMILIO contro

le

favole,

fornisce

altret-

tante ragioni per conservarle. Occorre nella società una morale in parole e una in azioni, e queste due morali non si rassomigliano affatto. La prima è nel catechismo, ove la si lascia; l’altra è nel-

le favole del La Fontaine per i fanciul. li e nei suoi racconti per le madri. Lo stesso autore basta a tutto. Veniamo a patti, signor La Fontaine. To premetto, in quanto a me, di leggervi con piacere, di amarvi, d’istruirmi nelle vostre favole, poiché spero di non ingannarmi sul loro scopo; ma per il mio allievo, permettete che non gliene lasci studiare neppure una, finché voi non mi abbiate provato che è bene per lui l'imparare delle cose di cui non comprenderà la quarta parte; e che in quelle che potrà comprendere non piglierà mai

una

cantonata,

e che invece

di cor-

reggersi sul tipo del minchione, non si formerà su quello del briccone. Togliendo così tutti i doveri dei fanciulli, tolgo gli strumenti della loro più grande miseria, cioè i libri. La lettura è il flagello dell'infanzia, e quasi la sola occupazione che le si sa dare. Solo a dodici anni Emilio saprà cos'è un libro. Ma

almeno,

mi si dirà, bisogna be-

ne ch’egli sappia leggere. Ne convengo: bisogna che sappia leggere quando la lettura gli è utile: fino ad allora non serve che ad annoiarlo. Se non si deve esiger nulla dai fanciulli per obbedienza, ne consegue che non possono imparare nulla di cui non sentano il vantaggio attuale e presente, sia di diletto, sia di utilità; altrimenti qual motivo li spingerebbe ad imparare? L'arte di parlare agli assenti e d’intenderli, l’arte di comunicar loro da lon-

tano, senza mediatori, i nostri sentimenti, le nostre volontà, i nostri desideri, è

un’arte la cui utilità può essere resa sensibile a tutte le età. Per qual prodigio quest'arte così utile e così piacevole è diventata un tormento per l’infanzia? Perché la si costringe, suo malgrado, ad applicarvisi e la si assoggetta a delle usanze che non comprende af. fatto. Un fanciullo non è molto curioso di perfezionare lo strumento col quale

lo

si

tormenta;

ma

fate

in

modo

che

questo strumento serva ai suoi piaceri, e ben presto egli vi si applicherà vostro malgrado. . Cîì si dà un gran da fare nel cercare i migliori metodi per imparare a leggere; s'inventano

tavole, carte;

si fa della

camera di un fanciullo un laboratorio di stamperia. Locke vuole ch'egli impari a leggere con dei dadi. Non è questa un'invenzione ben trovata? Quale pietà! Un mezzo più sicuro di tutti questi e che si dimentica sempre, è il desiderio d’imparare. Ispirate al fanciullo questo desiderio, poi lasciate da parte e le tavole e i dadi; ogni metodo allora gli sarà buono. L'interesse presente, ecco il grande movente, il solo che conduca sicuramente e lontano. Emilio riceve talvolta da suo padre, da sua madre, dai suoi parenti, dai suoi amici, dei biglietti d’in-

vito per un pranzo, per una passeggiata, per una gita in barca, per vedere qualche festa pubblica. Questi biglietti sono brevi, chiari, nitidi, bene scritti. Bisogna trovare qualcuno che glieli legga: questo qualcuno o non si trova sempre a puntino, o ricambia al fanciullo la poca compiacenza che il fanciullo ebbe per lui la vigilia. Così l'occasione e il momento favorevole passano. Infine gli si legge il biglietto, ma non è più tempo. Ah! se avesse saputo leggerlo da sé! Ne riceve degli altri: sono così brevil Il soggetto ne è così interessante! Si vorrebbe

cercare di decifrarli;

si tro-

va ora un aiuto e ora un rifiuto. Ci si sforza, e infine si decifra la metà

di un

biglietto: si tratta di andar domani a mangiare della crema... non si sa dove né con chi... quanti sforzi si fanno per leggere il resto! Non credo che Emilio abbia bisogno delle tavole. Parlerò ora della scrittura? No; mi vergogno di perdere tempo in queste grullerie in un trattato di educazione. Aggiungerò questa sola parola che costituisce una massima importante: ordinariamente si ottiene con certezza e molto presto ciò che non si ha fretta di ottenere. Sono quasi sicuro che Emilio saprà perfettamente leggere e scri-

LIBRO

417

SECONDO

vere prima dei dieci anni, precisamente perché m'importa assai poco che lo sappia prima di quindici; ma preferirei che non sapesse mai leggere, piuttosto che acquistare questa scienza al prezzo di tutto ciò che può renderla utile: a che gli servirà la lettura quando lo si sarà disgustato per sempre! Id in primzis cavere oportebit, ne studia, qui amare nondum potest, oderit, et amaritudinem

semel perceptam etiam ultra rudes annos reformidet 9, Quanto più insisto sul mio metodo inattivo e tanto più sento che le obiezioni si rinforzano. Se il vostro allievo non imparerà nulla da voi, imparerà dagli altri. Se voi non saprete prevenire l'errore con la verità, imparerà delle menzogne: i pregiudizi che temete di dargli, li riceverà da tutto quanto lo circonda; essi entreranno per tutti i suoi sensi; o corromperanno la sua ragione, anche prima che sia formata; o il suo spirito, intorpidito da una lunga inazione,

sarà

assorbito

dalla

materia.

La

nessuna abitudine di pensare nell’infanzia ne toglie la facoltà per tutto il resto della vita. Mi

sembra

che

a ciò potrei facilmen-

te rispondere: ma perché sempre risposte? Se il mio metodo risponde da sé alle obiezioni, esso è buono; se non vi risponde, non vale nulla. Proseguo. Se, sopra il piano che ho cominciato a tracciare, voi seguite delle regole direttamente contrarie a quelle che sono stabilite; se, invece di spingere lontano lo spirito del vostro allievo, se, invece di farlo smarrire senza tregua in altri luoghi, in altri climi, in altri secoli, alle estremità della terra, e perfino uei cieli,

voi vi adoperate a tenerlo sempre in se stesso, e attento a ciò che lo riguarda immediatamente;

allora voi lo troverete

sensitivo diventa

attivo, acquista

capace di percezione, di memoria e perfino di ragionamento; è l’ordine della natura. Di mano in mano che l'essere

un di-

scernimento proporzionale alle sue forze; e non è che con la forza sovrabbondante a quella di cui ha bisogno per conservarsi, che si sviluppa in lui la facoltà speculativa atta ad impiegare que-

sto eccesso di forze per altri usi. Volete voi dunque coltivare l'intelligenza del vostro allievo? Coltivate le forze ch’essa deve governare. Esercitate continuamente il suo corpo; rendetelo robusto e sano, per renderlo saggio e ragionevole; lavori, agisca, corra, gridi, sia sempre in movimento;

sia uomo

per robustezza,

e ben presto lo sarà per la ragione. L’abbrutireste,

metodo,

è

vero,

se lo dirigeste

diceste

sempre:

va,

con

questo

sempre,

vieni,

se gli

resta,

fai

questo, non far quello. Se la vostra testa guida sempre le sue braccia, la sua gli diventa inutile. Ma ricordatevi delle nostre

convenzioni;

se

non

re

conserva,

l’una

siete

altro

che un pedante, non val la pena di leggermi. È un errore molto pietoso l’immaginare che l’esercizio del corpo nuoccia alle operazioni dello spirito; come se queste due azioni non dovessero camminadi

e

non

dovesse

sempre dirigere l’altra! Vi sono due specie di uomini, i cui corpi sono in un esercizio continuo, e che certamente pensano ben poco, tanto gli uni quanto gli altri, a coltivare la loro

anima,

cioè:

i contadini

e

i sel-

vaggi. I primi sono rustici, grossolani, malaccorti; gli altri, conosciuti per il loro buon senso, lo sono ancora per la sottigliezza del loro spirito: general mente non vi è nulla di più goffo di un contadino, né nulla di più fine di un selvaggio. Donde viene questa differenza? È che il primo, facendo sempre ciò che gli si comanda, o ciò che ha veduto fare a suo padre, o ciò che ha fatto egli stesso fin dalla sua giovinezza, non va avanti che per pratica; e, nella sua vita quasi automatica, occupato com'è continuamente

nei medesimi

lavori, l’abitudi-

ne e l'obbedienza gli fanno le veci della ragione. Per il selvaggio, è altra cosa: non essendo affezionato ad alcun luogo, non avendo alcun compito prescritto, non obbedendo

a nessuno,

non

avendo

altra

legge che la sua volontà, egli è forzato a ragionare in ogni azione della sua vita;

senza

non

fa un

averne

movimento,

anticipatamente

un

passo,

conside-

EMILIO

418 rate le conseguenze. In tal modo, quanto più il suo corpo si esercita, tanto più il suo spirito si rischiara; la sua forza e la sua ragione crescono insieme e si estendono l'una per l’altra. O dotto precettore, vediamo quale dei nostri due allievi rassomiglia al selvaggio, e quale rassomiglia al contadino. Sottomesso interamente ad una autorità sempre insegnante, il vostro non fa niente se non sulla parola; non osa mangiare quando ha fame, né ridere quando è allegro, né piangere quando è triste, né presentare una mano per l’altra, né

rimuovere

il piede

se non

come

gli è prescritto; ben presto non oserà respirare che secondo le vostre norme. A cosa volete che egli pensi, quando voi pensate a tutto per lui? Sicuro della vostra previdenza, che bisogno ha egli di averne? Vedendo che voi v’incaricate della

sua

conservazione,

del

suo

benes-

suo

corpo

nell’inazione,

non

ne rendete

sere, egli si sente liberato da questo pensiero; il suo giudizio si rimette al vostro; tutto quello che voi non gli proibite, egli lo fa senza riflessione, sapendo bene di farlo senza rischio. Che bisogno ha d’imparare a prevedere la pioggia? Egli sa già che voi guardate il cielo per lui. Qual bisogno ha di regolare la sua passeggiata? Egli non teme che voi gli lasciate trascorrere l'ora del desinare. Fino a che non gli proibite di mangiare, mangia; quando glielo proibite, non mangia più; non ascolta più gli stimoli del suo stomaco, ma-i vostri. Voi avete un bel rammollire il il suo intelletto più flessibile. Al contrario, voi finite di screditare la ragione nel suo spirito, facendogli consumare quel poco che ne ha sulle cose che gli sembrano più inutili. Non vedendo mai a che cosa essa serve, giudica infine che non serve a nulla. Il peggio che potrà capitargli ragionando male sarà di essere ripreso, ed egli lo è così spesso che non vi pensa punto; un peticolo tanto comune non lo spaventa più. Frattanto voi gli trovate dello spirito; ed egli ne ha per chiacchierare con le donne,

sul

tono

di cui

ho

già

parlato;

ma che si trovi nel caso di dover pagare

di persona, di prendere una decisione in qualche occorrenza difficile, e lo vedrete cento volte più stupido e più bestia del figlio del più grossolano villanzone. In quanto al mio allievo, o piuttosto a quello della natura, esercitato presto a bastare a se stesso per quanto è possibile, egli non si abitua affatto a ricorrere continuamente agli altri, ed ancor meno a far bella mostra del suo grande sapere. In cambio, giudica, prevede, ragiona su tutto ciò che si riferisce immediatamente a lui. Non ciarla, agisce; non sa una parola di quello che si fa nel mondo, ma sa benissimo fare ciò che gli conviene. Siccome è continuamente in moto, è obbligato ad osservare

molte

cose,

a

conoscere

molti

effetti; acquista presto una grande esperienza; prende le sue lezioni dalla natura e non dagli uomini; s'istruisce tanto meglio in quanto non vede in nessuna parte l’intenzione di istruirlo. In tal modo il suo corpo e il suo spirito si esercitano a un tempo. Operando sempre secondo il suo pensiero e non secondo quello di un altro, unisce conti. nuamente due operazioni; quanto più si rende forte e robusto, tanto più diventa assennato e giudizioso. È il mezzo di avere un giorno ciò che si crede incompatibile, e quello che quasi tutti i grandi uomini hanno riunito, la forza del corpo e quella dell'anima, la ragione di un saggio e il vigore di un atleta. O giovane istitutore, io vi prèdico un'arte difficile; è di governare senza precetti, e di far tutto, non facendo nulla. Quest'arte, ne convengo, non è della vostra età; essa non è adatta a far ri-

splendere a tutta prima il vostro talento, né a farvi valere al cospetto dei padri; ma è la sola fatta per riuscire. Non perverrete mai a fare dei saggi, se non farete prima dei birichini: era questa l'educazione degli Spartani; invece di

inchiodarli

sui

libri,

si

cominciava

con l’insegnar loro a rubare il loro desinare. Erano forse perciò gli Spartani grossolani, divenendo grandi? Chi non conosce la forza e l’arguzia delle loro risposte? Sempre fatti per vincere, essi

LIBRO

SECONDO

419

schiacciavano i loro nemici in ogni genere di guerra; e quei chiacchieroni di Ateniesi temevano le loro parole quanto i loro colpi. Nelle educazioni più accurate, il maestro comanda-e crede di governare: è in effetti il fanciullo che governa. Egli si serve di ciò che voi esigete da lui per ottenere da voi quello che gli piace, e sa farvi sempre pagare un'ora di assiduità con otto ore di compiacenza. Ad ogni istante bisogna patteggiare con lui. Questi trattati, che voi proponete a vostro modo, e ch’egli eseguisce a modo suo, ridondano sempre a profitto dei suoi capricci, specialmente quando si ha l’inettitudine di mettere come condizione pel suo profitto ciò che egli è ben

sicuro

di ottenere,

sia che

adem-

pia o no al patto che gli si impone in cambio. Il fanciullo legge, ordinariamente, molto meglio nello spirito del maestro,

che

non

il maestro

nel

cuore

del fanciullo. E ciò dev'essere: poiché tutta la sagacità che impiegherebbe il fanciullo abbandonato a se stesso per provvedere alla conservazione della sua persona, la impiega a salvare la sua libertà naturale dalle catene del suo tiranno; mentre questi, non avendo alcun interesse così urgente per penetrare l’altro, trova talvolta meglio il suo tornaconto a lasciargli la sua pigrizia o la sua vanità. Prendete una via opposta col vostro allievo; ch’egli creda sempre di essere il padrone, e siatelo invece sempre voi. Non vi è soggezione tanto perfetta quanto quella che conserva l'apparenza della libertà; si cattiva in tal modo la volontà stessa. Il povero fanciullo che non sa niente, che non può nulla, che non

conosce

niente,

non

suoi

lavori,

è forse

alla vostra

mercé? Non disponete voi, rispetto a lui, di tutto quello che lo circonda? Non siete voi padrone di destinarlo come vi piace?

I

i suoi

giuochi,

suoi piaceri, le sue pene, tutto ciò non è nelle vostre mani, senza che egli lo sappia? Senza dubbio, egli non deve fare che quello che vuole; ma non deve volere che ciò che voi volete ch'egli faccia; non deve fare un passo che non

i

abbiate preveduto, non deve aprire la bocca senza che voi non sappiate quel. lo che sta per dire 2. Allora egli potrà. abbandonarsi agli esercizi del corpo che la sua età ri-

chiede, senza abbrutire il suo spirito; allora, invece di acuire la sua astuzia ad eludere una incomoda autorità, voi lo

vedrete occuparsi unicamente a trarre, da tutto ciò che lo circonda, il partito più vantaggioso per il suo benessere attuale; allora voi sarete stupiti della sottigliezza delle sue invenzioni per appropriarsi di tutti gli oggetti che può raggiungere, e per godere veramente delle cose senza il sussidio dell’opinione. Lasciandolo così padrone della sua volontà, voi non ne fomentate i capricci. Non facendo se non quello che gli conviene, egli non farà ben presto che ciò che deve fare; e, benché il suo corpo sia in un movimento continuo, fino a che si tratterà del suo interesse presente

e

sensibile,

voi

vedrete

tutta

la

ragione di cui è capace svilupparsi molto meglio e in una maniera assai più confacente a lui, che negli studi di pura speculazione. Così, non

riarlo, non do niente gannerà e tale qual diarlo

vedendovi

intenti a contra-

diffidando di voi, non avenda nascondervi, egli non v'innon vi mentirà; si mostrerà è senza timore; potrete stu-

a vostro

comodo,

e disporre

in-

torno a lui le lezioni che volete dargli, senza ch’egli pensi mai di riceverne alcuna. Egli non spierà neppure i vostri costumi con una curiosa gelosia, e non si farà un piacere segreto di prendervi in fallo. Questo inconveniente che preveniamo è grandissimo. Una delle prime cure dei fanciulli è, come ho già detto, di scoprire il debole di coloro che li governano. Questa inclinazione porta alla cattiveria, ma non ne proviene: proviene dal bisogno di eludere una autorità che li molesta. Oppressi dal giogo che s'impone loro, cercano di scuoterlo; e i difetti che trovano nei maestri, forniscono loro dei buoni mezzi per ciò. Frattanto si contrae l'abitudine

420

EMILIO

di osservare le persone dai loro difetti e di compiacersi nel trovarne. È chiaro che anche questa è una sorgente di vizi soppressa nel cuore di Emilio; non avendo alcun interesse a trovare in me dei difetti, non me ne cercherà e sarà poco tentato di cercarne in altri. Tutte queste pratiche sembrano difficili, poiché non ne abbiamo l’idea; ma in fondo non devono esserlo. Si è in diritto di supporre in voi l’acume necessario per esercitare il mestiere che avete scelto; si deve presumere che conosciate l'andamento naturale del cuore umano, che sappiate studiare l'uomo e l'individuo; che sappiate anticipatamente a che cosa si piegherà la volontà del vostro allievo quando farete passare, sotto i suoi occhi, tutti gli oggetti che interessano la sua età. Ora, avere gli strumenti e conoscere bene il loro uso, non è forse essere maestri dell’operazione? Voi obiettate i capricci del fanciullo, ed avete torto. Il capriccio dei fanciulli non è mai l'opera della natura, ma di una cattiva disciplina: dipende dall'avere essi ubbidito

o comandato;

ed ho detto

cento volte che non va ammessa né l’una né l’altra cosa. Il vostro allievo non avrà dunque che quei capricci che gli avrete dati voi; è giusto che sopportiate la punizione delle vostre colpe. Ma, direte voi, come rimediarvi? Ciò si può ancora con una condotta migliore e con molta pazienza.

questo va benissimo, ma non ricominciate più ». Questa parola eccitò la sua curiosità, e fin dall’indomani, volendo un po’ vedere in qual modo io avrei osato disubbidirgli, non mancò di alzarsi alla medesima ora e di chiamarmi. Gli domandai ciò che voleva. Mi disse che non poteva dormire. « Tanto peggio », ripresi, e me ne stetti tranquillo, Mi pregò di accendere la candela: « Perché fare? » e me ne stetti cheto. Questo mio

tono laconico cominciava a imbarazzarlo. Se ne andò a cercare a tentoni l'ac-

ciarino,

che

fece

finta

di

battere,

e io

non potevo fare a meno di ridere, sentendolo che si dava dei colpi sulle dita.

Infine, convintissimo che non ne sarebbe venuto a capo, mi portò l’acciarino

al letto; gli dissi che non sapevo cosa farne e mi voltai dall'altra parte. Allora si mise a correre all'impazzata per la

camera, gridando, cantando, facendo molto rumore, dandosi, contro la tavola e

le sedie, dei colpi che aveva gran cura di attenuare, e per i quali non tralasciava di gridare molto forte, sperando di cagionarmi qualche inquietudine. Tutto ciò non

faceva

presa;

e vidi che, facen-

do assegnamento sulle belle esortazioni o sulla collera, non si era affatto preparato per questa mia imperturbabilità. Però, deciso a vincere la mia pazienza a forza di ostinatezza, egli continuò il suo baccano con tal successo, che finalmente mi riscaldai; e, presentendo che

stavo per guastar tutto con un impeto

M°’ero incaricato, durante alcune settimane, di un fanciullo abituato non

di

a

alzai senza dir nulla, andai in cerca del-

solo a fare la propria volontà, ma anche imporla

a

tutti,

e,

per

conseguenza,

pieno di capricci !. Fin dal primo giorno, per mettere alla prova la mia compiacenza, egli volle alzarsi a mezzanotte. Nel più forte del mio sonno, salta giù dal letto, prende la sua veste da camera e mi chiama. Mi alzo, accendo la candela; egli non voleva di più; in capo a un quarto d'ora il sonno lo sorprende, e si ricorica contento della sua prova. Due giorni dopo la ripete col medesimo successo,

e, da

parte

mia,

senza

il più

piccolo segno di impazienza. Siccome mi abbracciava nel coricarsi, gli dissi con molta calma: « Mio piccolo amico,

collera

fuori

di luogo,

presi

la riso-

luzione di ricorrere a un altro mezzo. Mi

l’acciarino che non trovai. Glielo chiedo, ed egli me lo dà, sfavillante di gioia per avere finalmente trionfato su me. Batto

l’acciarino,

accendo

la

candela,

prendo per mano il mio ragazzetto, lo conduco tranquillamente in un gabinetto vicino, le cui imposte erano ben chiuse e ove non c'era nulla da rompere: ve lo lascio senza luce; poi, chiudendo

die-

tro di lui la porta a chiave, ritorno a coricarmi senza avergli detto una sola parola. Non bisogna chiedermi se in sul principio ci fu del chiasso; me lo aspettavo e non mi commossi affatto. Final-

LIBRO mente

421

SECONDO il

rumore

s’acqueta;

ascolto,

lo

sento accomodarsi alla meglio, mi tranquillizzo. L'indomani entro a giorno fatto nel gabinetto; trovo il mio piccolo ribelle sdraiato su di un lettino, dormendo d'un sonno profondo, di cui, dopo tanta fatica, doveva sentire gran bisogno. La cosa non finì lì. La madre seppe che suo figlio aveva passato i due terzi della notte fuori del suo letto. Subito tutto fu perduto; era per lei un fanciullo bello e morto. Vedendo l'occasione buona per vendicarsi, egli fece l’ammalato, senza prevedere che non ci avrebbe guadagnato nulla. Fu chiamato il medico. Disgraziatamente per la madre, questo

medico

era un burlone,

il quale,

per divertirsi dei suoi timori, si studiava di aumentarli. Però mi disse in un orecchio: « Lasciatemi fare; vi prometto che il fanciullo sarà guarito per qualche tempo dal capriccio di fingersi ammalato ». Infatti gli furono prescritte la dieta

e

la

camera,

e

fu

raccomandato

al

farmacista. Io sospiravo nel vedere in tal modo questa povera madre divenuta lo zimbello di tutti coloro che la circondavano, eccettuato me solo, ch’ella prese in odio, precisamente perché non la ingannavo. Dopo alquanti rimproveri abbastanza aspri, ella mi disse che suo figlio era delicato, che era l’unico erede

della sua

fine la decisione di dormire anche lui e di star bene. Non si può immaginare a quanti di simili capricci il piccolo tiranno aveva assoggettato il suo infelice istitutore; poiché l’educazione era fatta sotto gli occhi della madre, la quale non tollerava che l'erede venisse disubbidito in nulla. A qualunque ora avesse voluto uscire, bisognava essere pronti per condurlo, o piuttosto per seguirlo; ed egli aveva sempre gran cura di scegliere il momento in cui vedeva il suo istitutore maggiormente occupato. Volle usare su di me

il medesimo

dominio,

e vendicarsi

durante il giorno del riposo che era costretto a lasciarmi la notte. Mi prestai volentieri a ogni cosa e cominciai col fargli constatare, coi suoi propri occhi, il piacere che provavo nel compiacerlo; dopo di ciò, quando si trattò di guarirlo dei suoi capricci, mi regolai diversamente. Bisognò dapprima fargli capire il suo torto, e ciò non fu difficile. Sapendo che i fanciulli pensano solo al presente, presi su lui il facile vantaggio della previdenza; ebbi cura dî' procurargli in casa un divertimento che sapevo essere molto di suo gusto;

e, nel momento

in cui

lo vidi più appassionato, andai a propotgli di fare una passeggiata; egli mi

mandò via: insistetti, non mi diede ascolto; bisognò che mi arrendessi, ed

famiglia, che bisognava conservarlo a qualunque costo e che non voleva ch'egli fosse contrariato. Su ciò io ero piena-

egli notò con affettazione in se stesso questo indizio di asservimento. Il giorno dopo fu la mia volta. Egli

riarlo, ella intendeva non obbedirgli in tutto. Vidi che bisognava prendere con la madre il medesimo tono preso col figlio. « Signora, le dissi abbastanza freddamente, io non so come si allevi un erede, e, ciò che conta di più, non vo-

vece, parevo profondamente occupato. Non occorreva tanto per deciderlo. Non mancò di venirmi a strappare al mio lavoro, perché lo conducessi a passeggiare al più presto. Rifiutai; egli si ostinò. « No, gli dissi; facendo la vostra volon-

ritorno;

non voglio uscire ». « Ebbene, riprese egli vivamente, uscirò solo ». « Come vorrete ». E riprendo il mio lavoro. Egli si veste, un po’ inquieto di vedere che lo lascio fare e non lo imito.

mente d'accordo con lei; ma, per contra-

glio neppure impararlo; su questo punto potete fare come volete ». Si aveva bisogno di me per qualche tempo ancora: il padre calmò tutto; la madre scrisse al precettore di affrettare il suo e il fanciullo, vedendo

che non

guadagnava nulla né a turbare il mio sonno né a fingersi ammalato, prese in-

si annoiò,

vi

avevo

provveduto;

io, in-

tà, voi mi avete insegnato a fare la mia;

Pronto

per

lo saluto;

uscire,

viene

per

salutarmi;

egli cerca di allarmarmi

col

EMILIO

422 racconto

delle gite che sta per fare;

sentirlo,

si sarebbe

creduto

che

andava

a

in capo al mondo. Senza commuovermi, gli auguro un buon viaggio. Il suo imbarazzo aumenta. Però dimostra fermezza,

e, pronto

messo

sotto

per uscire, dice al suo

cameriere di seguirlo. Costui, già prevenuto, risponde che non ha tempo e che, i miei

ordini,

deve

obbe-

dire a me piuttosto che a lui. In verità il fanciullo non capisce più. Come concepire che lo si lasci uscir solo, lui che si crede l'essere più importante per tutti gli altri, e che pensa essere il cielo e la terra interessati alla sua conservazione? Però comincia a sentire la sua debolezza; comprende che sta per trovarsi solo in mezzo a gente che non lo conosce; vede anticipatamente i pericoli a cui sta per esporsi: l’ostinazione sola lo sostiene

ancora;

discende

la

scala

lenta-

mente e molto turbato. Entra finalmente nella strada, consolandosi un poco del male che gli può capitare, nella speranza che la responsabilità cadrà su di me. Era qui che l'aspettavo. Tutto era preparato anticipatamente; e siccome si trattava di una specie di scenata pubblica,

mi

ero

munito

del

consenso

del

il suo fiocco sulle spalle e le sue risvolte d’oro non lo fanno rispettare di più. Frattanto un mio amico, ch'egli non conosceva affatto e ch’io avevo incaricato di vegliare su di lui, lo seguiva a passo a passo, senza ch'egli vi facesse attenzione, e gli si accostò quando ne fu tempo. Questa parte, che rassomigliava a quella di Sbrigani nel Pourceaugnac 2, richiedeva un uomo di spirito, e fu compiuta perfettamente. Senza rendere

il fanciullo

timido

e pauroso,

im-

pressionandolo con uno spavento troppo forte, gli fece sentire così bene l'imprudenza della sua scappata, che in capo a mezz'ora

me lo ricondusse dacile, con-

fuso, che neppure osava di alzare gli occhi. Per completare il disastro della sua spedizione, precisamente nel momento in cui egli entrava, suo padre discendeva per uscire, e lo incontrò sulle scale. Bisognava dire donde veniva, e perché io non ero con lui *. Il povero fanciullo avrebbe voluto essere cento piedi sotto terra. Senza divertirsi a fargli una lunga sgridata, il padre gli disse, assai più seccamente di quello ch'io mi sarei aspettato: « Quando vorrete uscire solo, ne siete il padrone; ma siccome non amo i banditi in casa mia, quando ciò

padre. Aveva appena fatto alcuni passi, che egli sente a destra e a sinistra diversi discorsi sul suo conto. Un vicino: « Che bel signorino! Ove va così solo solo? Certo si perderà: voglio pregarlo di entrare in casa nostra ». Una vicina; « Guardàtevene bene. Non vedete che è un piccolo dissoluto, scacciato dalla casa di suo padre, perché non voleva mettere giudizio? Non bisogna ospitare gli scapestrati; lasciatelo andare ove vuole ». « Ebbene dunque! che Dio lo accompagni! Mi dispiacerebbe molto che gli capitasse una disgrazia ». Un po' più lontano incontra dei birichini presso a poco della sua età, che lo stuzzicano e si burlano di lui. Quanto più va innanzi tanto più trova degli impicci. Solo e senza protezione, si vede lo zimbello di tutti e prova, con molta sorpresa, che

proveri e senza scherzi, ma con un po' di gravità; e, per paura ch'egli sospettasse che tutto ciò che era accaduto era soltanto un giuoco, non volli condurlo a spasso il medesimo giorno. L’indomani vidi, con gran piacere, ch'egli passa. va con me con aria di trionfo davanti alle medesime persone che si erano burlate di lui la vigilia, per averlo incontrato solo solo. Va da sé ch'egli non mi minacciò più di uscire senza di me. Fu con questi mezzi ed altri simili che, durante il poco tempo che restai con lui, venni a capo di fargli fare tutto quello che volevo senza prescrivergli

* In gere da

bene allora che non può svisarla, e se osasse dire una bugia, ne sarebbe convinto all'istante.

caso simile, si può senza rischio esiun fanciullo la verità; poiché egli sa

vi accadrà, abbiate cura di non ritornarvi più ». Quanto a me, lo ricevetti senza rim-

LIBRO SECONDO

423

nulla, senza proibirgli nulla, senza prediche,

senza

esortazioni,

senza

annoiat-

lo con lezioni inutili. In tal modo, finché parlavo era contento; ma il mio silenzio gli faceva paura; comprendeva che qualche cosa non andava bene, e la lezione gli veniva sempre dalla medesima cosa. Ma ritorniamo a noi. Non soltanto questi esercizi continui, lasciati così alla sola direzione della natura, fortificando il corpo, non abbrutiscono lo spirito; ma invece formano in noi la sola specie di ragione di cui la prima età sia suscettibile, e la più necessaria per ogni età. Essi c’insegnano a ben conoscere l’uso delle nostre forze, i rapporti dei nostri corpi con i corpi circostanti, l’uso degli strumenti naturali che sono a nostra portata e che convengono ai nostri organi. Vi è qual. che stupidaggine simile a quella di un fanciullo allevato sempre in camera e sotto

gli

occhi

della

volta

che

uscii

da

madre,

il

quale,

ignorando ciò che sia peso e ciò che sia resistenza, voglia strappare un grande albero o sollevare una roccia? La prima Ginevra,

volevo

se-

guire un cavallo che andava al galoppo; gettavo dei sassi contro la montagna di Salève, che era a due leghe da me; zimbello di tutti i fanciulli del villaggio, ero un vero idiota per essi. A diciotto anni s'impara in filosofia cos'è una leva; non c’è piccolo contadino di dodici anni che non sappia servirsi di una leva meglio del primo meccanico dell’Accademia. Le lezioni che gli scolari prendono fra loro nel cortile del collegio sono ad essi cento volte più utili di tutto ciò che si potrà dir loro in classe, Vedete un gatto entrare per la prima volta in una

camera:

visita, guarda,

fiu-

ta, non resta un momento in riposo, non si fida di nulla se prima non ha esaminato tutto, conosciuto tutto. Così fa un fanciullo quando comincia a camminare ed entra, per così dire, nello spazio del mondo. Tutta la differenza consiste

in

ciò,

che

alla

vista,

comune

al

fanciullo e al gatto, il primo unisce, per osservare, le mani che gli dette la natura, e l'altro l’odorato sottile di cui essa lo ha dotato. Questa disposizione,

bene

o mal

coltivata,

è ciò che rende

i

fanciulli accorti o tardi, pesanti o agili, sventati o prudenti. Essendo dunque i primi impulsi naturali dell'uomo di misurarsi con tutto ciò che lo circonda, e di provare in ogni oggetto che scorge le qualità sensibili che possono riferirsi a lui, il suo primo studio è una specie di fisica sperimentale relativa alla sua propria conservazione, e da cui lo si distoglie con degli studi speculativi prima che abbia riconosciuto il suo posto quaggiù. Mentre i suoi organi delicati e flessibili possono adattarsi ai corpi sui quali devono agire, mentre i suoi sensi ancora puri sono esenti da illusioni, è tempo di esercitare gli uni e gli altri alle funzioni che sono loro proprie; è tempo d’imparare a conoscere i rapporti sensibili che le cose hanno con noi. Siccome tutto ciò che penetra nell’intendimento umano vi arriva per mezzo dei sensi, la prima ragione dell’uorno è una ragione sensitiva; è essa che serve di base alla ragione intellettuale: i nostri primi maestri di filosofia sono i nostri piedi, le nostre mani,

i nostri

occhi.

Sostituire

dei

li-

bri a tutto ciò, non è insegnarci a ragionare, ma insegnarci a servirci della ragione altrui; è apprenderci a creder molto e a non sapere mai nulla. Per esercitare un'arte, bisogna cominciare col procurarsene gli strumenti; e, per potere utilmente impiegare questi strumenti, bisogna farli abbastanza solidi, perché resistano al loro uso. Per impatare a pensare, bisogna dunque esercitare le nostre membra, i nostri sensi, i nostri organi, che sono gli stru-

menti della nostra intelligenza; e per trarre tutto il profitto possibile da questi strumenti, bisogna che il corpo, che li fornisce, sia robusto e sano. Cosicché,

non solo la vera ragione dell’uomo non si forma indipendentemente dal corpo, ma anzi la buona costituzione del corpo rende le operazioni dello spirito facili e sicure. Nel mostrare in che cosa debbasi impiegare il lungo ozio dell'infanzia, entro in un particolare che sembrerà ridicolo.

Piacevoli

lezioni,

mi

si dirà,

che,

424

EMILIO

ricadendo sotto la vostra propria critica, si limitano ad insegnare quello che nessuno ha bisogno d'imparare! Perché consumare il tempo in istruzioni che vengono sempre da sé e che non costano né fatiche né cure? Quale fanciullo di dodici anni non sa tutto quello che voi volete insegnare al vostro, e, di più, ciò che i suoi maestri gli hanno insegnato? Signori, vi ingannate; io insegno al mio allievo un’arte lunghissima, penosis-

né regole

mente; quella di essere ignorante: poiché la scienza di chiunque non creda di sapere se non che ciò che sa, si riduce a ben poca cosa. Voi date la scienza, sta bene; io mi occupo dello strumento adatto per acquistarla. Si dice che un giorno i Veneziani, mostrando con gran pompa il loro tesoro di San Marco ad un ambasciatore di Spagna, costui, per tutto complimento, avendo guardato sotto le tavole, disse loro: « Qui non c'è la radice ». Io non vedo mai un precettore mettere in mostra il sapere del suo discepolo, senza essere tentato di dirgli al-

per gli uomini, è pernicioso soprattutto ai fanciulli. Gli umori stagnanti, arrestati nella loro circolazione, imputridiscono in un riposo che aumenta la vita inattiva e sedentaria, si corrompono, e cagionano lo scorbuto, malattia tutti i giorni più comune fra noi, e quasi ignorata dagli antichi, i quali ne erano preservati dalla loro maniera di vestirsi e di vivere. L'abito da ussaro, lungi dal rimediare a questo inconveniente, lo aumenta, e, per salvare ai fanciulli qualche legaccio, li comprime in tutto il corpo. Ciò che vi è di meglio da fare è il lasciarli in giacchetta più a lungo che si può, poi di dar loro un abito molto largo, e non impuntarsi a far risaltare la

sima,

e che

i vostri

non

hanno

certa-

trettanto.

Tutti quelli che hanno riflettuto sulla maniera di vivere degli antichi attribuiscono agli esercizi della ginnastica quel vigore di corpo e di anima che li distingue più sensibilmente dai moderni. La maniera con cui Montaigne appoggia questo sentimento dimostra ch'egli ne era fortemente compreso: egli vi ritorna continuamente e in mille modi. Parlando dell'educazione di un fanciullo, per rafforzargli l'anima, bisogna, dice 3, indurirgli i muscoli; assuefacendolo al lavoro,

lo

si abitua

della

colica

al dolore;

bisogna

addestrarlo all’asprezza degli esercizi, per prepararlo all’asprezza della lussa-

zione,

saggio

Locke,

e di

il buon

tutti

Rollin,

i mali.

Il

il dotto

Fleury, il pedante Crouzas *, così diver-

si fra loro in tutto il resto, si accordano tutti su questo solo punto, di esercitare molto il corpo dei fanciulli. È il più giudizioso dei loro precetti; è quello che è e sarà sempre il più trascurato. Ho già sufficientemente parlato della sua importanza; e siccome non si possono dare a questo proposito né migliori ragioni

trovano

più sensate di quelle che

nel libro del Locke,

si

mi conten-

terò di rinviarvi il lettore, dopo essermi presa la libertà di aggiungere alcune osservazioni alle sue. Le membra di un corpo che cresce devono stare tutte comodamente nelle loro vesti; nulla deve impacciare il loro movimento né il loro sviluppo; niente di

molto

troppo

L'abito

attillato,

al corpo; francese,

loro vita, il che

niente

che

aderisca

e

malsano

serve che

a defor-

nessuna

incomodo

non

allacciatura.

marla. I loro difetti, del corpo e dello spirito, provengono quasi tutti dalla medesima

causa;

si vuole

farli

uomini

prima del tempo. Vi sono dei colori gai e dei colori tristi: i primi vanno più a genio ai fanciulli e stanno loro anche meglio; e non vedo perché non si dovrebbe in ciò tener conto di convenienze così naturali: ma dal momento ch'essi preferiscono una stoffa perché è ricca, i loro cuori sono già presi dall'amore del lusso, da tutti i capricci dell'opinione; e questo gusto non è loro venuto certamente da essi stessi. Non si può dire quanto la scelta dei vestiti e i motivi di questa scelta influiscano sull'educazione. Non soltanto delle madri cieche promettono in premio ai loro figli degli ornamenti, ma si vedono anche dei precettori insensati minacciare i loro allievi d’un abito più grossolano e più semplice, come per punizione: « Se non studierete meglio, se

LIBRO

425

SECONDO

non conserverete meglio i vostri abiti, sarete vestito come questo piccolo contadino ». È come se dicessero loro: « Sappiate che l’uomo non vale che per i suoi abiti e che il vostro valore consiste tutto nei vostri abiti ». C'è da stupirsi quindi che da così sagge lezioni tragga profitto la gioventù, la quale non stima che gli ornamenti e non giudica del merito se non dal solo esteriore? Se io avessi da rimettere al posto la testa

d'un

fanciullo

così

corrotto,

avrei

cura che i suoi abiti più ricchi fossero i più scomodi, ch'egli vi fosse sempre impacciato,

sempre

a

disagio,

sempre

schiavo in mille maniere; farei fuggire la libertà, l'allegria davanti alla sua magnificenza: se volesse mischiarsi ai giuochi di altri fanciulli vestiti più semplicemente, tutto finirebbe, tutto scomparirebbe sull'istante. Infine lo annoierei, lo

sazierei

talmente

col

suo

fasto,

lo

renderei talmente schiavo del suo abito dorato, che ne farei il flagello della sua vita, in modo che vedesse con meno spavento la più nera prigione che i preparativi del suo abbigliamento. Finché non si è asservito il fanciullo ai nostri pregiudizi, essere a suo agio e libero è sempre il suo primo desiderio; il vestito più semplice, più comodo, quello che lo rende meno schiavo, è sempre il più prezioso per lui. C'è un'abitudine del corpo conveniente agli esercizi, ed un’altra più conveniente all'inazione. Questa, lasciando agli umori un corso eguale ed uniforme, deve garantire il corpo dalle alterazioni dell’aria;

l’altra,

facendolo

passare

con-

tinuamente dall’agitazione al riposo e dal calore al freddo, deve abituarlo alle medesime alterazioni. Ne consegue che le persone casalinghe e sedentarie devono vestirsi pesante in ogni tempo, per consetvarsi il corpo in una temperatura uniforme, la medesima, presso a poco, in tutte le stagioni e a tutte le ore del giorno. Quelli, invece, che vanno

e vengono, gia,

che

al vento, al sole, alla piog-

agiscono

* Lettera al signor

molto,

e

d'Alembert

passano

la

maggior parte del loro tempo sub dio, devono essere sempre vestiti leggermente, per abituarsi a tutte le vicissitudini dell’aria e a tutti i gradi di temperatura, senza esserne molestati. Io consiglierei agli uni e agli altri di non cambiar d’abiti secondo le stagioni, e sarà la pratica

costante

del mio

Emilio;

e con ciò non

intendo ch'egli porti di estate i suoi abiti d'inverno, come le persone sedentarie, ma che porti d'inverno i suoi abiti di

estate,

come

le persone

laboriose.

Que-

st’ultima usanza è stata quella del cavaliere Newton durante tutta la sua vita, ed ha vissuto ottanta anni. Poca o punta acconciatura del capo in ogni stagione. Gli antichi Egiziani avevano sempre la testa nuda, i Persiani la coprivano con grosse tiare e la co-

prono ancora con grossi turbanti, di cui,

secondo Chardin ®, l'aria del paese rende l’uso necessario. Ho notato altrove * la distinzione che fece Erodoto su di un campo di battaglia fra i crani dei Persiani e quelli degli Egiziani. Siccome dunque importa che le ossa della testa divengano più dure, più compatte, meno fragili e meno porose, per armare meglio il cervello non solo contro le ferite, ma contro i raffreddori, le flussioni e tutie le impressioni dell’aria, avvezzate i vostri figliuoli a restare estate e inverno, giorno e notte, sempre a testa nuda. Che se, per pulizia e per tenere i loro capelli in ordine, volete dar loro un copricapo durante la notte, esso sia ,

un berretto sottile a trafori, e simile al-

la reticella nella quale i Baschi avvolgono i loro capelli. So bene che la maggior parte delle madri, più colpite dall'osservazione di Chardin che dalle mie ragioni, crederanno di trovare dappertutto l'aria di Persia; ma io non ho scel-

to il mio allievo Europeo per farne un Asiatico. In generale si ricoprono troppo i fanciulli, e specialmente nella prima età. Bisognerebbe abituarli a sopportare piuttosto il freddo che il caldo: il gran freddo non li molesta mai, quando vi si

sugli spettacoli, p. 189,

12 ediz,

EMILIO

426 lasciano esposti per tempo; ma il tessuto della loro pelle, troppo tenero e troppo rado ancora, lasciando troppo libero passaggio alla traspirazione, li espone, per l’eccessivo calore, ad una spossatezza inevitabile. Perciò si nota che ne muoiono più nel mese di agosto che in alcun altro mese. D'altronde pare assodato, con la comparazione dei popoli del Nord e di quelli del Sud, che si diventa più robusti sopportando l'eccesso

che avessimo imparato ciò che bisogna fare per conservarlo. Tutte le volte che Emilio avrà sete, voglio che gli si dia da bere; voglio che gli si dia dell’acqua pura e senza alcuna preparazione, senza farla neppure stiepidire, anche se egli fosse tutto grondante di sudore, o si fosse nel cuore dell'inverno. La sola cura che raccomando è di distinguere la qualità delle acque. Se è acqua di fiume, da-

via via che il fanciullo si fa grande e che

me: se è acqua di sorgente, bisogna lasciarla un po’ di tempo all’aria, prima che la beva. Nelle stagioni calde, i fiumi sono caldi: non è così delle sorgenti, che non hanno avuto contatto coll’aria; bisogna aspettare che siano alla temperatura dell’atmosfera. D'inverno, invece, l’acqua di sorgente è, a questo riguardo, meno pericolosa dell’acqua di fiume. Ma non è né naturale né frequente che si sudi d’inverno, specialmente all’aria libera; poi-

del

freddo

le sue

che

l’eccesso

del

fibre si fortificano,

caldo.

Ma,

avvezzatelo

a

poco a poco a sfidare i raggi del sole: procedendo per gradi lo abituerete senza pericolo a sopportare gli ardori della zona torrida. Locke, fra i precetti virili e assennati che ci dà, ricade in alcune contradizioni,

che non ci aspetteremmo da un ragionatore così esatto. Questo

stesso uomo,

il

quale vuole che i fanciulli si bagnino di estate

nell'acqua

ghiaccia,

non

vuole,

quando sono riscaldati, che bevano dell’acqua fredda, né che si corichino per terra in luoghi umidi*. Ma poiché vuole che le scarpe dei fanciulli prendano acqua in ogni tempo, la prenderanno forse meno quando il fanciullo avrà caldo? E non gli si può fare del corpo, per rapporto ai piedi, le medesime induzioni ch'egli fa dei piedi per rapporto alle mani, e del corpo per rapporto al viso?

Se

voi

volete,

gli

direi

io,

che

l'uomo sia tutto viso, perché mi biasimate di volere ch’egli sia tutto piedi? Per impedire che i fanciulli bevano quando hanno caldo, egli prescrive di avvezzarli a mangiare anzitutto un pezzo di pane prima di bere. È assai strano

che, quando

ba

dargli

anche,

da

il fanciullo ha sete, si deb-

quando

mangiare; ha

fame,

mi

piacerebbe

dargli

da

be-

re. Mai mi persuaderò che i nostri primi appetiti siano così sregolati, che non si possa soddisfarli senza esporci a perire. Se ciò fosse, il genere umano si sarebbe distrutto cento volte prima ra si

* Come se i contadinelli scegliessero la terbene asciutta per sedervisi o per coricarsi e fosse mai udito dire che l'umidità della

tegliela

ché

subito,

l’aria

così

fredda,

come

esce

battendo

dal

fiu-

incessante-

mente sulla pelle, fa riassorbire all’interno il sudore, e impedisce ai pori di aprirsi abbastanza per dargli un passaggio libero. Ora io non pretendo che Emilio si eserciti in inverno accanto

ad un buon fuoco, ma fuori, all’aperta campagna, in mezzo ai ghiacci. Fino a

che non si riscalderà che a fare e a lanciare delle palle di neve, lasciamolo bere quando avrà sete; che continui ad esercitarsi dopo aver bevuto, e non temiamo alcun accidente. Che se per qualche

altro

esercizio

suda

e ha

sete,

be-

va acqua fredda, anche in quella stagione. Fate soltanto in modo da condurlo lontano e a piccoli passi a cercare la sua acqua. Col freddo che si suppone, egli si sarà sufficientemente rinfrescato arrivando, per berla senza alcun pericolo. Soprattutto prendete queste precauzioni senza che se ne accorga. Preferirei che fosse qualche volta ammalato, piuttosto che continuamente attento alla sua salute. terra avesse fatto male

ad alcuno di essi! Ad

ascoltare su di ciò i medici, si crederebbero selvaggi tutti rattrappiti dai reumatismi.

i

LIBRO

427

SECONDO

Occorre un lungo sonno ai fanciulli, perché fanno un esercizio eccessivo. L'uno

serve

di correttivo

all'altro;

per-

ciò si vede che essi hanno bisogno di tutti e due. Il tempo del riposo è quello

della

notte;

esso

è

indicato

dalla

natura. È un'osservazione costante che il sonno è più tranquillo e più dolce mentre

il

sole

è

sotto

l’orizzonte,

e

l'aria riscaldata dai suoi raggi non mantiene i nostri sensi in una così gran calma. Cosicché l'abitudine più salutare è

certamente

quella

di

alzarsi

e di

cori-

carsi col sole. Donde segue che nei nostri climi l'uomo e tutti gli animali hanno generalmente bisogno di dormire più a lungo l'inverno che l'estate. Ma la vita civile non è abbastanza semplice, abbastanza naturale, abbastanza

esente

da

rivoluzioni,

da

acci-

denti, perché si debba avvezzare l’uomo a questa uniformità, al punto da rendergliela necessaria. Senza dubbio bisogna assoggettarsi alle regole; ma la prima è quella di poterle infrangere senza rischio quando la necessità lo richieda. Non andate dunque ad ammollire indiscretarente il vostro allievo nella continuità di un sonno tranquillo, che non sia mai interrotto. Abbandonatelo dapprima senza soggezione alla legge della natura; ma non dimenticate

che,

fra noi,

egli deve

essere

al disopra di questa legge; ch'egli deve poter coricarsi tardi, alzarsi presto, essere svegliato bruscamente, passare le notti in piedi, senza esserne imbarazzato. Cominciando a fare ciò per tempo, andando sempre piano e a gradi, si forma il temperamento a quelle stesse cose che lo distruggono quando ve lo si sottomette già tutto formato. Importa di avvezzarsi dapprima ad essere mal coricati; è il mezzo per non trovare più un letto cattivo. In generale,

la

vita

dura,

una

volta

che

è di-

ventata abituale, moltiplica le sensazioni piacevoli: la vita molle ne prepara una infinità di spiacevoli. Le persone allevate troppo delicatamente non trovano sonno che su di un letto di piume: le persone abituate a dormire sulle tavole lo trovano dappertutto:

non c'è letto duro per chi si addormenta coricandosi. Un letto morbidetto, ove ci si seppellisce nella piuma o nel piumino, strugge e dissolve per così dire il corpo. Le reni inviluppate troppo caldamente si riscaldano. Di là provengono spesso il calcolo o altri

incomodi,

e infallibilmente

una

complessione delicata che li alimenta tutti. Il miglior letto è quello che procura un miglior sonno. Ecco quello che ci prepariamo Emilio ed io durante il giorno. Non abbiamo bisogno che ci si conducano degli schiavi di Persia per fare

i nostri

letti;

lavorando

la

terra,

sprimacciamo i nostri materassi. So per esperienza che quando un fanciullo ha buona salute, si è padroni di farlo dormire e vegliare quasi a volontà.

Quando

il fanciullo

è coricato

e

colla sua chiacchiera annoia la governante, questa gli dice: « Dormite »; è come se gli dicesse: «State bene », quando è ammalato. Il vero mezzo per farlo dormire è quello di annoiar lui. Parlate fino a che egli sia obbligato a tacere, e tosto dormirà: i predicozzi sono sempre buoni a qualche cosa; tanto vale il predicargli che il cullarlo: ma se adoperate questo narcotico la sera, guardatevi bene dall’impiegarlo di giorno. Sveglierò talvolta Emilio, non per paura che prenda l’abitudine di dormire troppo a lungo, ma per avvezzarlo a tutto, anche ad essere svegliato bruscamente. Inoltre, avrei pochissimo talento per il mio ufficio, se non sapessi obbligarlo a svegliarsi da sé, e ad alzarsi, per così dire, a mia volontà,

senza ch'io

gli dica una sola parola. Se non dorme abbastanza, gli lascio intravvedere per l'indomani una mattinata noiosa, ed egli stesso considererà come tanto di guadagnato tutto ciò che potrà concedere al sonno: se dorme troppo, gli mostro, al suo destarsi, un divertimento di suo gusto. Se poi voglio che si svegli al tempo fissato, gli dico: « Domani alle sei si parte per la pesca, si va a passeggiare nel tal posto; volete venire? ». Egli acconsente e mi

EMILIO

428 prega di svegliarlo: prometto o non prometto, secondo il caso: se si sveglia troppo tardi, mi trova già partito. Sarà una disgrazia se egli non imparerà ben presto a svegliarsi da sé.

Del resto, se accadesse, il che è raro, che qualche fanciullo indolente aves-

se la tendenza a marcire nella pigrizia, non bisogna abbandonarlo a questa inclinazione, nella quale si intorpidirebbe interamente, ma somministrargli qualche eccitante che lo svegli. Si comprende bene che non si tratta di farlo agire per forza, ma di eccitarlo con qualche desiderio che ve lo conduca; e questo desiderio,

scelto

natura, ci porta a Non immagino po’ di destrezza, il gusto, perfino

bene

nell'ordine

un tempo a nulla di cui, non si possa l’entusiasmo

della

due fini. con un ispirare nei fan-

ciulli, senza vanità, senza emulazione, senza gelosia. La loro vivacità, il loro

spirito imitatore, bastano; specialmente la loro allegria naturale, strumento la cui presa è sicura e che nessun precettore seppe mai immaginare. In tutti i giuochi, quando essi sono ben persuasi che non sono che giuochi, soffrono senza lamentarsi,

e anche

ridendo,

ciò che

non soffrirebbero mai altrimenti senza versare torrenti di lacrime. I lunghi di-

giuni,

le botte,

le bruciature,

le fatiche

di ogni specie, sono i divertimenti dei giovani selvaggi; prova che il dolore stesso ha il suo condimento che può toglierne l'amarezza: ma non è di tutti i maestri il sapere ammannire questo allettamento,

l’assaporarlo

nuovo,

se

né forse di tutti i discepoli

senza

non

eccezioni. Ciò che non l’asservimento

smorfie.

ci bado,

Eccomi

smarrito

. ne soffre punto

dell’uomo

al

di

nelle

è però

dolore,

ai

mali della sua specie, agli accidenti, ai pericoli della vita, infine, alla morte: quanto più lo si familiarizzerà con tutte queste idee, tanto più lo si guarirà dall’importuna sensibilità che aggiunge al male l'impazienza di tollerarlo; quanto più lo si addomesticherà con le sofferenze che possono colpirlo, tanto più si toglierà loro, come avrebbe detto Montaigne, la puntura «della stranezza, e tan-

to più si renderà l’anima sua invulnerabile e dura; il suo corpo sarà la corazza che smusserà tutti i colpi da cui potrebbe essere colpito nel vivo. L'approssimarsi stesso della morte non essendo la morte, la sentirà appena come tale; egli non morrà, per così dire; sarà vivo o morto, e niente

altro. Lo stesso Mon-

taigne avrebbe potuto dire di lui, come

ha

detto

di

un

re

del

Marocco”,

che

nessun uomo ha vissuto così innanzi nella morte. La costanza e la fermezza sono, come le altre virtù, tirocinio dell'infanzia: ma non è coll'insegnare i loro nomi ai fanciulli che esse s’insegnano loro, ma facendole loro gustare, senza che sappiano che cosa siano. Ma, a proposito di morire, come ci condurremo noi col nostro allievo relativamente al pericolo del vaiuolo? Glielo faremo inoculare da piccino, o aspetteremo che lo contragga naturalmente? Il primo partito, più conforme alla nostra pratica, garantisce dal pericolo l’età in cui la vita è più preziosa, a rischio di quella in cui lo è meno;

se, tuttavia,

ne

lasciate

si può dare il nome di rischio alla vaccinazione ben fatta ??. Ma il secondo è più nei nostri principi generali, di lasciar fare in tutto la natura nelle cure che ama prendere da sola, e che abbandona appena l'uomo vuole ingerirsene. L'uomo della natura è sempre preparato: lasciamolo vaccinare da questo maestro: egli sceglierà il momento meglio di noi. Non vogliate concludere da ciò ch'io biasimi il vaccino; poiché il ragionamento in base al quale ne esento il mio allievo si adatterebbe malissimo ai vostri. La vostra educazione li prepara a non sfuggire al vaiuolo nel momento in cui saranno

attaccati;

se

lo

ve-

nire a caso, è probabile che ne periranno. Vedo che nei diversi paesi si resiste tanto più al vaccino in quanto vi diventa più necessario; e la ragione di ciò si capisce facilmente. Per cui mi degnerò appena di trattare questa questione per il mio Emilio. Egli sarà vaccinato o non lo sarà, secondo i tempi, i luoghi, le circostanze: questo è quasi indifferente per lui. Se gli si inoculerà il

LIBRO

SECONDO

429

vaiuolo, si avrà il vantaggio di prevedere e conoscere il suo male anticipatamente; questo è già qualche cosa: ma se lo contrarrà naturalmente, l’avremo preservato

dal

medico;

ed

è

qualche

cosa di più. Un’educazione esclusiva, che tenda soltanto a distinguere dal popolo quel. li che l'hanno ricevuta, preferisce sempre le istruzioni più costose alle più comuni, e per ciò stesso alle più utili. In tal modo i giovani allevati con cura imparano tutti a montare a cavallo, poiché il far questo costa molto; ma quasi nessuno di essi impara a nuotare, perché ciò non costa niente, e un artigiano può saper nuotare bene come chicchessia.

Per

cavallo,

vi

altro,

senza

aver fatto

tien

saldo

e se ne

di accademici, si

un viaggiatore

monta

stu-

a

serve

abbastanza per i suoi bisogni; ma, nell’acqua, se non si nuota, ci si annega, e non si nuota senza aver imparato. Înfine non si è obbligati di montare a cavallo sotto pena della vita, mentre nessuno è sicuro di evitare un pericolo, al

quale si è così spesso esposti. Emilio starà nell'acqua come sulla terra. Perché non deve poter egli vivere in tutti gli elementi? Se si potesse imparare a volare

nell’aria,

ne

farei

un’aquila;

ne

farei una salamandra, se si potesse abituare a sopportare il fuoco. Si teme che un fanciullo anneghi imparando a nuotare: ch'egli s’anneghi imparando o per non aver imparato, sarà sempre colpa vostra. È la sola vanità che ci rende temerari; non lo si è quando non si è visti da nessuno: Emilio non lo sarebbe, ancor quando fosse visto da tutto l’universo. Siccome l’esercizio non dipende dal rischio, in un canale del parco di suo padre, egli imparerebbe ad attraversare l’Ellesponto: ma bisogna familiarizzarsi anche al rischio, per

parte

imparare

parlavo

a non

essenziale poco

fa.

del

Del

turbarsene;

tirocinio, resto,

è una

di

intento

cui

a

misurare il pericolo alle sue forze e a dividerlo sempre con lui, non avrò alcuna imprudenza da temere, quando regolerò la cura della sua conservazione su quella che devo alla mia.

Un fanciullo è meno grande di un uomo; egli non ha né la sua forza né la sua ragione: ma vede e intende quanto lui, o presso a poco; ha il gusto parimente sensibile, quantunque lo abbia meno delicato, e distingue anche bene gli odori, sebbene non vi metta la medesima sensualità. Le prime facoltà che si formano e si perfezionano in noi sono i sensi. Sono dunque le prime che si dovrebbero coltivare; sono le sole che si dimenticano, o quelle che si trascurano di più. Esercitare i sensi non è soltanto farne uso, è apprendere a ben giudicare per il loro mezzo, è apprendere, per così dire, a sentire; poiché noi non sappiamo



toccare,



vedere,



inten-

che serve a rendere

il cor-

dere, se non come abbiamo imparato. C'è un esercizio puramente naturale e meccanico,

po robusto senza dare alcun appiglio al

giudizio: nuotare, correre, saltare, frustare una trottola, lanciare dei sassi;

tutto ciò va benissimo: ma abbiamo noi forse soltanto braccia e gambe? Non abbiamo anche occhi e orecchie? E questi organi sono forse superflui all'uso dei primi? Non esercitate dunque solamente

le

forze,

esercitate

tutti

i sensi

che le dirigono; traete da ciascuno di essi tutto il profitto possibile, poi verificate l'impressione dell'uno per mezzo dell'altro. Misurate, contate, pesate, con-

frontate. Non adoperate la forza se non dopo avere stimata la resistenza: fate sempre in modo che l’apprezzamento dell’effetto preceda l’uso dei mezzi. Interessate il fanciullo a non far mai sforzi insufficienti o superflui. Se lo avvezzerete a prevedere così l’effetto di tutti i suoi movimenti e a correggere i suoi errori con l’esperienza, non è chiaro che quanto più egli agirà, tanto più diventerà giudizioso? Si tratta di rimuovere un mucchio? Se prenderà una leva troppo lunga, impiegherà troppo movimento; se la prenderà troppo corta, non avrà abbastanza forza: l’esperienza gli può insegnare a scegliere precisamente la mazza che gli occorre. Questa saggezza non è dunque superiore alla sua età. Si tratta di por-

430

EMILIO

tare un fardello? Se vuol prenderlo tanto pesante quanto può portarlo, e non vuol provare se lo solleva, non sarà forzato di stimarne il peso ad occhio? Sa egli confrontare dei mucchi della stessa materia e di diversa grossezza? Che scelga fra mucchi della medesima grossezza e di diverse materie; bisognerà bene ch'egli si dia a confrontare il loro peso specifico. Ho veduto un giovanotto,

molto

bene

educato,

il

quale

volle credere, se non dopo la che un secchio pieno di grossi di legno di quercia fosse meno del medesimo secchio pieno di Noi non siamo egualmente dell'uso di tutti i nostri sensi. uno,

cioè

il tatto,

la cui

mai sospesa durante la stato sparso su tutta la nostro corpo, come una tinua per avvertirci di può offenderlo. È anche per amore

azione

macchine! Chi vi assicura che vi seguitanno ovunque al bisogno? In quanto a me, preferisco che Emilio abbia degli occhi sulla punta delle dita piuttosto che nella bottega di un candelaio. Siete voi rinchiuso in un edificio nel

mezzo della notte? Battete le mani; scorgerete, dalla risonanza del luogo, se

lo spazio è grande o piccolo, se siete nel mezzo o in un angolo. A mezzo piede da un muro, l'aria meno circolante e più riflessa vi porta un’altra sensazione al viso. State tranquillo e voltatevi successivamente da tutte le parti; se c'è una porta aperta, una leggera corrente d'aria ve l'indicherà. Siete in

non

prova, trucioli pesante acqua. padroni Ve n'è non

è

veglia; esso è superficie del guardia contutto ciò che quello di cui,

o per forza, noi acquistiamo

più presto l’esperienza col continuo esercizio, e al quale, per conseguenza, abbiamo meno bisogno di dare una cultura particolare. Però osserviamo che i ciechi hanno il tatto più sicuro e più sottile di noi, perché, non essendo guidati dalla vista, sono costretti ad imparare a trarre unicamente dal primo senso i giudizi che ci fornisce l’altro. Perché dunque non ci si esercita a camminare

come

essi

al

buio,

a conoscere

corpi che possiamo toccare, a giudicare degli oggetti che ci circondano; a fare, insomma,

di

notte

e senza

luce,

i

tutto

ciò ch’essi fanno di giorno e senza occhi? Finché il sole risplende, abbiamo su di essi un vantaggio; nelle tenebre essi sono, a loro volta, le nostre guide. Noi siamo ciechi la metà della vita; con

la differenza che i veri ciechi sanno sempre condursi, e noi non osiamo fare un passo nel cuore della notte. Si ha della luce, mi si dirà. E che! sempre delle * Questo spavento diventa assai manifesto nelle grandi eclissi solari. ** Ecco anche un'altra causa, spiegata bene da un filosofo, di cui cito spesso il libro, e le cui grandi vedute m’istruiscono ancor più spesso:

un

battello?

Conoscerete,

dal

modo

col

quale l’aria vi batterà sul viso, non solo in quale direzione andate, ma anche se la corrente del fiume vi trascina lentamente

o presto.

Queste

osservazioni,

e

mille altre simili, non possono farsi bene che di notte; qualunque attenzione volessimo prestarvi di pieno giorno, saremmo

aiutati

o distratti

dalla

vista,

e ci

sfuggirebbero. Però qui non ci sono ancora né mani né bastone. Quante cognizioni oculari si possono acquistare col tatto,

anche

senza

toccare

nulla!

Molti giuochi di notte. Questo avvertimento è più importante di quello che sembra. La notte spaventa naturalmente gli uomini e talvolta gli animali*. La ragione, le cognizioni, lo spirito, il coraggio liberano poche persone da questo tributo. Ho visto dei ragionatori, degli spiriti forti, dei filosofi, dei militari intrepidi in pieno giorno, tremare la notte come femmine al rumore di una foglia di albero, Si attribuisce questo spavento ai racconti delle nutrici: si sbaglia; esso ha una causa naturale. Qual è questa causa? La stessa che rende i sordi diffidenti e il popolo superstizioso, l'ignoranza delle cose che ci circondano e di ciò che accade intorno a noi **. Abituato a scorgere da lontano gli og« Quando, per circostanze particolari, non possiamo avere un'idea giusta della distanza, e non possiamo giudicare degli oggetti che dalla

grandezza gine

che

dell’angolo,

formano

nei

o

piuttosto

nostri

occhi,

dell’imma-

ci ingannia-

LIBRO

431

SECONDO

petti e a prevedere le loro impressioni anticipatamente, in qual modo, non vedendo più nulla di quello che mi circonda, non vi supporrei io mille esseri, mille movimenti che possono nuocermi, e di cui mi è impossibile garantirmi? Ho un bel sapere che sono al sicuro nel luogo ove mi trovo, non lo so mai così bene come se lo vedessi attualmente: ho dunque sempre un soggetto di timore che non avevo in pieno giorno. So, è vero, che un corpo estraneo non può agire sul mio senza annunziarsi con qualche rumore; perciò, quanto tempo io resto continuamente con l'orecchio intento!

Al

minimo

rumore,

di

cui

non

posso discernere la causa, l'interesse della mia conservazione mi fa dapprima supporre tutto ciò che deve maggiormo allora necessariamente sulla grandezza di questi oggetti. Tutti hanno provato che viaggiando la notte si prende un cespuglio, al quale si è vicini, per un grande albero da cui si è lontani, oppure si prende un grande albero lontano per un cespuglio che è vicino: allo stesso modo, se non si conoscono gli oggetti per la loro forma e non si possa avere con tal mezzo alcuna idea di distanza, ci si ingannerà ancora

necessariamente: pidità

ad

alcuni

una mosca che passerà con ra-

occhi ci sembrerà

pollici

di

distanza

dai

nostri

in questo caso un uccello a

una grandissima distanza; un cavallo che fosse senza movimento in mezzo ad una campagna e

che fosse in un'attitudine simile, per esempio,

a quella d'un montone, non ci sembrerà più che un grosso montone, fino a che non riconosceremo che è un cavallo; ma appena lo avremo riconosciuto, ci sembrerà sul momento grosso

come un cavallo, e rettificheremo immediatamente

il nostro

primo

giudizio.

Tutte le volte che ci si troverà di notte in

luoghi sconosciuti, in cui non si re della distanza, e in cui non si scere la forma delle cose a causa si sarà in pericolo di cadere a ogni l'errore a riguardo dei giudizi che gli oggetti che si presenteranno.

provengono

lo spavento

potrà giudicapotrà riconodell'oscurità, momento nelsi faranno sudi qui che

e quella specie di ti-

more interno che l'oscurità della notte fa sentire a quasi tutti gli vomini; è su ciò che è fondava l'apparizione degli spettri e delle figure gigantesche e spaventevoli che tanta gente dice di aver visto. Si risponde loro comunemente che queste figure erano nella loro immaginazione: però esse potevano essere realmente nei loro occhi, ed è possibilissimo ch’essi abbiano visto effettivamente ciò che dicono di aver visto: poiché deve per forza accadere, tutte le volte che non si possa giudicare di un oggetto che per l’angolo che forma nell'occhio, che questo

mente impegnarmi a stare in guardia, e per conseguenza tutto ciò che è più atto a spaventarmi. Se non

odo

assolutamente

nulla, non

per questo sono tranquillo; poiché infine, senza

rumore,

mi

si può

anche

sor-

prendere. Bisogna ch'io supponga le cose tali e quali erano prima, tali e quali devono ancora essere, ch'io veda quel. lo

che

rare in presto che ho che ad more,

non

vedo.

Così,

sento

dei

ladri;

costretto

a ti-

ballo la mia immaginazione, ben non ne son più padrone, e ciò fatto per rassicurarmi non serve allarmarmi di più. Se sento ruse

non

sento

nulla, vedo dei fantasmi: la vigilanza che m'ispira la cura di conservarmi non mi dà che motivi di timore. Tutto ciò che deve rassicurarmi non è che nella oggetto

sconosciuto

ingrosserà

e ingrandirà

4

mano che se ne sarà più vicini; e che se è dapprima sembrato allo spettatore, il quale non può conoscere ciò che vede né giudicare a che distanza lo vede; se è sembrato, dico, dapprima dell'altezza di alcuni piedi quandu era alla distanza di venti o trenta passi, deve sembrare alto parecchie tese quando non ne sarà più lontano che di alcuni piedi; ciò che deve infatti stupirlo e spaventarlo, fino a che infine va a toccare l'oggetto o a riconoscerlo. Poiché, nel momento stesso in cui riconoscerà ciò che è, questo oggetto che gli sembrava gigantesco diminuirà ad un tratto, e non gli sembrerà più avere che la sua grandezza reale; ma, se si fug.

ge o non si osa avvicinarsi, è certo ‘che non si avrà altra idea di questo oggetto che quella del.

l'immagine

che

formava

nell'occhio,

e che

si

sarà realmente veduta una figura gigantesca © spaventevole per grandezza e per forma. Il pregiudizio degli spettri è dunque fondato nella natura, e le sue apparenze non dipendono, come credono i filosofi, unicamente dall’immaginazione ». Flist. mat., t. VI, p. 22, in-12. Ho cercato di mostrare nel testo come ne dipende sempre in parte; e, quanto alla causa spiegata in questo passo, si vede che l'abitudine di camminare la notte deve insegnarci a distinguere le apparenze che la rassomiglianza delle

forme e la diversità delle distanze fanno prendere agli oggetti ai nostri occhi nell'oscurità; poiché quando l'aria è ancora abbastanza chiara

da lasciarci scorgere i contorni degli oggetti, siccome c'è più aria interposta in una maggiore lontananza, dobbiamo sempre vedere questi con-

torni meno spiccati quando l’oggetto è più lontano da noi; ciò che basta, a forza di abitudine, a garantirci dall'errore che qui spiega il signor Buffon. Qualunque spiegazione si preferisca, il mio metodo è dunque sempre efficace, ed è ciò

che l’esperienza conferma

perfettamente.

EMILIO

432 mia ragione; l’istinto, più forte, mi parla diversamente da essa. A che serve pensare che non si ha nulla da temere, giacché allora non si ha nulla da fare? La

causa

del

male,

trovata

che

sia,

indica il rimedio. In ogni cosa l'abitudine uccide l'immaginazione; non vi sono che gli oggetti nuovi che la risvegliano. In quelli che si vedono tutti i giorni, non è più l'immaginazione che agisce, ma la memoria; ed ecco la ragione dell'assioma ab assuetis non fit passio, poiché non è che al fuoco dell'immaginazione che le passioni si accendono. Non ragionate dunque con colui che volete guarire dall'otrore delle tenebre; conducetevelo spesso, e siate si-

curi che tutti gli argomenti della filo

sofia non varranno questo uso. La testa non gira punto agli acconciatetti, e non si vede più aver paura nell'oscurità chiunque sia abituato ad esserci. Ecco dunque, per i nostri giuochi di notte, un altro vantaggio aggiunto al pri. mo: ma, perché questi giuochi riescano, non posso raccomandare troppo l'allegrezza. Niente è così triste come le tenebre: non rinchiudete il vostro bambino in una segreta oscura. Ch’egli rida entrando

nell'oscurità;

che

il

riso

lo

riprenda prima che ne esca; che, mentre vi è, l'idea dei divertimenti che lascia e di quelli che ritroverà, lo difenda dalle immaginazioni fantastiche che potrebbero andarlo a cercare. C'è un termine della vita oltre il quale si retrocede avanzando. Sento che ho passato questo termine. Ricomincio, per così dire, un’altra carriera. Il vuoto dell'età matura, che s'è fatto sentire in me, mi

ricorda

il dolce. tempo

della

prima

età. Invecchiando, ridivento fanciullo, e mi sovvengo più volentieri di ciò che ho

fatto a dieci anni

che a trenta.

Lettori,

perdonatemi dunque di trarre talvolta gli esempi da me stesso; poiché, per far bene questo libro, bisogna che lo faccia con piacere. Ero in campagna a dozzina da un ministro chiamato Lambercier. Avevo per compagno un cugino più ricco di me, il quale veniva trattato da erede, mentre io, lontano

da

mio

padre,

non

ero che

un povero orfano. Bernardo,

era

Il mio gran cugino,

singolarmente

pauroso,

specialmente la notte. Mi burlai tanto del suo spavento, che il signor Lambercier, annoiato delle mie vanterie, volle mettere a prova il mio coraggio. Una sera di

autunno,

che

era

molto

oscura,

egli mi dette la chiave del tempio, e mi disse di andare a cercare sul pergamo la Bibbia che vi era stata lasciata. Aggiunse, per mettermici di puntiglio, alcune parole che mi misero nell'impossibilità d'indietreggiare. Partii senza lume;

se ne avessi avuto,

forse sarebbe stato ancora peggio. Bisognava passare per il cimitero: lo attraversai

allegramente;

poiché,

fino

a

che mi sentivo all’aria aperta, non ebbi mai terrori notturni. Aprendo la porta, intesi su per la volta un certo rimbombo che credetti rassomigliare a voci umane, e che cominciò a scuotere la mia fermezza romana. Aperta la porta, volli entrare; ma appena ebbi fatto pochi passi, mi fermai. Scorgendo l'oscurità profonda che regnava in questo vasto luogo, fui preso da un terrore che mi fece rizzare i capelli:

retrocedo, esco, mi metto a fug-

gire tutto tremante. Trovai nella corte un piccolo cane chiamato Sultano, le cui carezze mi rassicurarono. Vergognoso del mio

spavento,

ritornai

indietro,

cercan-

do frattanto di condurre con me Sultano, che non volle seguirmi. Passo bruscamente la porta ed entro in chiesa. Appena vi fui rientrato, lo spavento mi riprese, ma così fortemente che perdetti la testa; e, quantunque il pergamo fosse a destra,

e io lo sapessi

benissimo,

es-

sendomi voltato senza accorgermene, lo cercai a lungo a sinistra, mi impigliai fra i banchi, non sapevo più ove fossi; e, non potendo trovare né il pergamo né la porta, caddi in uno sconvolgimento inesprimibile. Infine scorgo la porta, vengo a capo di riuscire dal tempio, e me ne allontano come la prima volta, ben deciso a non rientrarvi mai solo se non di pieno giorno. Ritorno fino a casa. Sul punto di entrare, distinguo la voce del signor Lambercier da alcuni grossi scoppi di risa.

LIBRO Li

SECONDO

prendo

confuso

433

anticipatamente

di

vedermi

messo

esito ad aprire la porta. tervallo,

sento

per

alla

me,

e,

berlina,

In questo in-

la signorina

Lambercier

preoccuparsi per me, dire alla domestica di prendere la lanterna, e il signor Lambercier disporsi a venirmi a cercare, scortato dal mio intrepido cugino, al quale poi non si sarebbe mancato di attribuire tutto l’onore della spedizione. Sul momento tutti i miei spaventi cessano, e non mi lasciano che quello di essere sorpreso nella mia fuga: corro, volo al tempio; senza sperdermi, senza brancolare, arrivo al pergamo; vi salgo,

prendo la Bibbia, mi slancio giù; in tre salti sono fuori del tempio, di cui dimenticai perfino di chiudere la porta; entro

in camera,

spossato,

getto la Bib-

bia sulla tavola, atterrito, ma pieno di gioia per aver prevenuto il soccorso che mi era destinato. Mi si domanderà se io dò questa mia azione come un modello da seguire e come un esempio della gaiezza che esigo in questa specie di esercizi. No; ma la dò per prova che nulla è più capace di rassicurare chiunque sia spaventato dalle ombre

della notte, che l'udite

in una camera vicina una compagnia adunata a ridere e a discorrere tranquillamente. Vorrei che invece di divertirsi così solo col suo allievo, si adunassero la sera molti fanciulli di buon umore;

ch'essi non fossero mandati dapprima se-

paratamente,

ma

in parecchi

insieme,

e

che non ci si arrischiasse a mandare alcuno perfettamente solo, senza esserci anticipatamente bene assicurati ch'egli non ne sarebbe troppo spaventato. Non immagino nulla di così piacevole e di così utile come

codesti

giuochi,

per poco che si voglia usare un po’ di accortezza nell’ordinarli. Farei in una gran

sala

una

specie

di

labirinto

con

delle tavole, delle poltrone, delle sedie, dei paraventi, Nelle inestricabili tortuosità di questo labirinto, disporrei, in mezzo a otto o dieci scatole da trappole, * Per esercitarli all'attenzione, non dite loto

mai se non cose che abbiano un interesse sensibile e presente per ben comprendere; special-

un'altra scatola quasi simile, ben forni-

ta di dolci; designerei in termini chiari, ma succinti, il posto preciso ove si trova la scatola buona; darei le indicazioni

sufficienti per distinguerla a persone più

attente

e meno

stordite

dei

fanciulli *;

poi, dopo aver fatto tirare a sorte i pic-

coli concorrenti, li manderei alla ricerca tutti, l'uno dopo l'altro, fino a che

la scatola buona fosse trovata: il che avrei cura di rendere difficile in proporzione della loro abilità. Figuratevi un piccolo Ercole che arriva, con una scatola in mano, tutto fiero della sua spedizione. Si mette la scatola sulla tavola, la si apre con una certa solennità. Sento di qui gli scoppi di risa,

gli

schiamazzi

dell'allegra

comitiva,

quando, invece dei dolci che si aspettavano, si trovano molto accuratamente disposti sopra del muschio o del cotone un maggiolino, una chiocciola, del carbone, una ghianda, un navone o qualche altra simile derrata. Altre volte, in una stanza imbiancata da poco, si sospenderà vicino al muro qualche giocattolo, ualche Niccolo mobile, che si tratterà i andare a cercare senza toccare il muro. Appena colui che lo riporterà sarà rientrato, per poco che non si sia attenuto

alla

condizione

fissata,

l’estremi-

la manica,

tradiranno

la sua

inettitudi-

tà del suo cappello tinto di bianco, la punta delle scarpe, la falda del vestito, ne. Ed eccone abbastanza, forse trop po, per far capire lo spirito di questa specie di giuochi. Se occorre dirvi tutto, non mi leggete affatto. Quali vantaggi un uomo così allevato non avrà di notte sugli altri uomini! I suoi piedi avvezzati a rinfrancarsi nelle tenebre, le sue mani esercitate ad appoggiarsi agevolmente su tutti i corpi circostanti, lo condurranno senza pena nella più fitta oscurità. La sua immaginazione, piena dei giuochi notturni della sua gioventù, si volgerà difficilmente su degli oggetti spaventevoli. Se crederà di intendere degli scoppi di risa, inmente non lungaggini, mai flua. Ma anche non lasciate né oscurità né equivoco.

una parola supernei vostri discorsi

434

EMILIO

vece di quelli degli spiriti folletti, saranno quelli dei suoi antichi compagni; se immaginerà un'assemblea, non sarà per lui una tregenda, ma la camera del suo precettore. La notte, non ricordandogli che idee liete, non gli sarà mai spaventosa; invece di temerla, l’amerà. Se si tratterà di una spedizione militare, sarà pronto a ogni ora, tanto solo quanto colla sua compagnia. Entrerà nel campo di Saul, lo percorrerà senza sperdersi, andrà fino alla tenda del re senza svegliare nessuno, e se ne ritornerà sen-

za essere scorto. Se occorre portar via i cavalli di Reso, rivolgetevi a lui senza paura. Fra le persone altrimenti educate,

troverete

difficilmente

un

Ulisse 28,

Ho veduto delle persone pretendere, con delle sorprese, di avvezzare i fanciulli a non spaventarsi di nulla la

notte.

Questo

metodo

è

assai

cattivo;

esso produce un effetto contrario a quello che

si cerca,

e non

serve

se

non

a

renderli sempre più paurosi. Né la ragione né l'abitudine possono rassicurare sull’idea d’un pericolo presente, di cui non si può conoscere né il grado né la specie, né sul timore delle sorprese che si sono spesso provate. Però, come assicurarsi di mantenere sempre il vostro allievo esente da simili accidenti? Ecco, a parer mio, il miglior consiglio, con cui si può prevenirnelo. Voi siete allora,

direi

al mio

Emilio,

nel caso

di

una giusta difesa; poiché l’aggressore non vi lascia giudicare se vuol farvi male o paura, e, siccome ha preso le sue precauzioni, perfino la fuga non è un rifugio per voi. Afferrate dunque arditamente colui che vi sorprende la notte, uomo

o bestia, non importa;

stringetelo,

agguantatelo con tutta la vostra forza: se si dibatte, colpite, non rispatmiate i colpi; e, checché egli possa dire o fare, non lo lasciate mai andare, prima che non sappiate bene cos'è. La spiegazione di ciò, vi farà probabilmente sapere che non c'era molto da temere, e questa maniera di trattare i burloni deve naturalmente scoraggiarli dal ritornarvi. Benché il tatto sia, fra tutti i nostri sensi, quello che viene maggiormente esercitato, i suoi giudizi restano frattan-

to, come ho detto, imperfetti e grossolani più di quelli di alcun altro, poiché noi mischiamo continuamente al suo uso

quello

della

l'occhio lo spirito essa. Per no i più

no

i più

vi,

noi

vista,

e

perché,

arrivando

all'oggetto prima della mano, giudica quasi sempre senza di contrario i giudizi del tatto sosicuri, precisamente perché solimitati;

poiché,

estendendosi

solo tanto lontano quanto le nostre mani possono toccare, rettificano l’inconsideratezza degli altri sensi, che si slanciano lontano su degli oggetti che scorgono appena, mentre tutto ciò che percepisce il tatto lo percepisce bene. Aggiungete che, unendo, quando ci piace, la forza dei muscoli all’azione dei neruniamo,

con

una

sensazione

si-

multanea, al giudizio della temperatura, delle grandezze, delle figure, il giudizio del peso e della solidità. Così il tatto, essendo di tutti i sensi quello che meglio c’istruisce sull’impressione che i corpi estranei possono produrre sul nostro, è quello il cui uso è più frequente, e che ci dà più immediatamente la conoscenza necessaria alla nostra conservazione. Come il tatto esercitato supplisce alla vista, perché non potrebbe anche supplire all’udito fino ad un certo punto, dal momento che i suoni eccitano nei corpi sonori degli scotimenti sensibili al tatto? Posando una mano sul corpo di un violoncello,

si può, senza

vibra e freme,

se il suono

il soccorso

né degli occhi né degli orecchi, distinguere, dal solo modo con cui il legno

che esso ren-

de è grave o acuto, se è tratto dal cantino o dalla quarta corda. Si eserciti il senso a queste differenze, e non dubito che, col tempo, non si possa diventare sensibili al punto da intendere un’aria intera con l’uso delle dita, Ora, supposto questo, è chiaro che si potrebbe age-

volmente

parlare

ai

sordi

in

musica;

poiché i toni e i tempi, non essendo meno suscettibili di combinazioni rego lari delle articolazioni e delle voci, possono essere presi egualmente per gli elementi del discorso. Vi sono degli esercizi che smussano il senso del tatto e lo rendono più ot-

LIBRO

435

SECONDO

tuso; altri invece lo aguzzano e lo rendono più delicato e più fino. I primi, aggiungendo molto movimento e molta forza alla continua impressione dei corpi duri, rendono la pelle ruvida, callosa, e le tolgono

la sensibilità

naturale;

i secondi sono quelli che variano questa medesima sensazione con Wun tatto leggero e frequente, di modo che lo spirito, intento a delle impresioni continuamente ripetute, acquista la facilità di giudicare tutte le loro modificazioni. Questa differenza è sensibile nell’uso

degli strumenti

musicali:

il tocco duro

e contundente del violoncello, del contrabbasso, dello stesso violino, renden-

do le dita più flessibili, ne indurisce le estremità. Il tocco liscio e levigato del clavicembalo le rende anche più flessibili e più sensibili nello stesso tempo. In ciò dunque il clavicembalo è da preferirsi. Occorre che la pelle s'indurisca alle impressioni dell’aria, e possa sfidarne le alterazioni; poiché è essa che protegge tutto

il resto.

Eccetto

ciò,

non

vorrei

che la sua mano, troppo servilmente applicata ai medesimi lavori, venisse ad indurirsi,

né che

la sua pelle,

divenuta

quasi ossea, perdesse quella sensibilità squisita che dà a conoscere quali sono i corpi sui quali la si passa, e, secondo

la specie di contatto, ci fa talvolta, nell'oscurità, rabbrividire in diversi modi.

Perché bisogna che il mio allievo sia costretto ad avere sempre sotto i piedi una pelle di bue? Che male ci sarebbe che la sua propria potesse al bisogno servirgli di suola? È chiaro che, in questa parte, la delicatezza della pelle non può mai essere utile a nulla, e può spes-

so nuocere molto. Svegliàti a mezzanotte nel cuore dell’inverno dal nemico nella loro città, i Ginevrini trovarono più presto i loro fucili che le loro scarpe. Se nessuno di essi avesse saputo cammi* Celebre maestro di ballo di Parigi, il quale, conoscendo bene il suo mondo, faceva lo stravagante per astuzia, e dava alla sua arte un'importanza che si fingeva di trovar ridicola, ma per la quale gli si portava, in fondo, il più gran rispetto. In un'altra arte non meno frivola,

nare a piedi nudi, chi sa se Ginevra non sarebbe stata presa? Armiamo sempre l’uomo contro gli accidenti imprevisti. Che Emilio corra la mattina a piedi nudi, in ogni stagione, per la camera, per le scale, per il giardino; lungi dal rimproverarlo, lo imiterò; solamente avrò cura di fargli evitare i vetri. Parlerò presto dei lavori e dei giuochi manuali. Del resto, ch'egli impari a fare tutti i passi che favoriscono le evoluzioni del corpo, a prendere in tutte le attitudini una posizione comoda e solida; che sappia saltare in lungo, in alto, arrampicarsi su di un albero,

scavalcare un muro; che trovi sempre il suo equilibrio; che tutti i suoi movimenti, i suoi gesti siano ordinati secondo le leggi dell'equilibrio, molto tempo prima che la statica si occupi di spiegarglieli. Dal modo col quale il suo piede poggia a terra e col quale il suo corpo si regge sulle gambe, deve sentire se sta bene o male. Un portamento sicuro ha sempre della grazia e gli atteggiamenti più stabili sono anche i più eleganti. Se fossi

maestro

di

ballo,

non

farei

tutte

le scimmiottate di Marcel *, buone per il paese in cui le fa; ma, invece di occupare eternamente il mio allievo a degli sgambetti, lo condurrei ai piedi di una roccia: là, gli mostrerei quale attitudine bisogna prendere, come bisogna portare il corpo e la testa, qual movimento occorre fare, in qual modo bisogna poggiare, ora il piede, ora la mano, per seguire leggermente i sentieri scoscesi, scabri e aspri, e slanciarsi di punta in punta tanto nel salire quanto nel discendere. Ne farei l’emulo di un capriolo, piuttosto che un ballerino dell’Opéra. Tanto il tatto concentra le sue operazioni intorno all'uomo, altrettanto vista estende le sue al di là di lui;

è ciò che rende queste ingannatrici:

la ed

con

si vede ancora oggi un artista comico darsi grand'aria e fare il buffone, e non riuscire meno bene. Questo metodo è sempre sicuro in Francia. Il vero talento, più semplice e meno ciarlatanesco, non vi fa fortuna. La modestia è colà la virtù degli sciocchi.

EMILIO

436 una occhiata un uomo abbraccia la metà del suo orizzonte. In questa moltitudine di sensazioni simultanee e di giudizi

che

esse

eccitano,

come

non

in-

gannarsi su alcuno? Così la vista è, di tutti i nostri sensi, il più fallibile, pre-

cisamente perché è il più esteso e perché, precedendo di molto tutti gli altri,

le sue operazioni sono troppo pronte e troppo vaste per poter essere rettificate da essi. C'è di più: le illusioni stesse della prospettiva ci sono necessarie per arrivate

a

conoscere

l’estensione,

e

a

confrontare le sue parti. Senza le false apparenze, non vedremmo nulla in lontananza; senza le gradazioni di grandezza e di luce, non potremmo stimare alcuna distanza, o piuttosto non ce ne sarebbero per noi. Se di due alberi eguali quello che è a cento passi da noi ci paresse tanto grande e tanto distinto quanto quello che è a dieci, li collocheremmo l’uno accanto all’altro. Se scorgessimo tutte le dimensioni degli oggetti sotto

la loro vera

misura,

non

vedrem-

ha,

per giu-

stessa

misura,

mo alcuno spazio e tutto ci apparireb-. be proprio sotto i nostri occhi. II senso

dicare loro

della

vista

la grandezza

distanza,

che

non

degli

una

oggetti

e la

cioè, l'apertura dell'angolo ch’essi fanno nel nostro occhio; e siccome questa apertura è un effetto semplice di una causa composta, il giudizio che eccita in noi lascia ogni causa particolare indeterminata,

o diventa

necessariamente

errato. Poiché in che modo distinguere dalla semplice vista se l'angolo sotto il quale vedo un oggetto più piccolo di un altro è tale, perché questo primo oggetto è realmente più: piccolo, o perché è più lontano? n Bisogna dunque seguire qui un metodo contrario al precedente: invece di semplificare la sensazione, raddoppiarla, verificarla sempre per mezzo di un’altra; assoggettare l'organo visivo all'organo

tàttile, e reprimere,

per così

dire,

l’impetuosità del primo senso col cammino pesante e regolato del secondo. Per non volerci assoggettare a questa pratica, le misure che noi facciamo a stima sono molto inesatte. Non abbiamo al-

cuna precisione nel colpo d'occhio per giudicare le altezze, le lunghezze, le profondità, le distanze;

e la prova che non

è tanto colpa del senso quanto del suo uso, è che gli ingegneri, gli agrimensori, gli architetti, i muratori, i pittori hanno in generale il colpo d'occhio molto più sicuro di noi, e valutano le misure dell’estensione con maggiore giustezza; poiché siccome il loro mestiere dà loro in ciò l'esperienza che noi trascuriamo di acquistare, essi tolgono lo equivoco dell'angolo con le apparenze che lo accompagnano e che determinano più esattamente ai loro occhi il rappotto delle due cause di questo angolo. Tutto ciò che dà del movimento al corpo

senza

comprimerlo

cile ad ottenersi

è sempre

fa-

dai fanciulli. Vi sono

mille mezzi di interessarli a misurare, a conoscere, a stimare le distanze. Ecco

un ciliegio molto alto; come faremo per cogliere delle ciliegie? La scala del granaio è buona a ciò? Ecco un ruscello molto largo; come lo attraverseremo? Potrà poggiare una delle tavole della corte

sulle

due

rive?

Vorremmo,

molta

fame,

ed

dalle

nostre finestre, pescare nei fossi del castello; quante braccia deve avere la nostra lenza? Vorrei fare un’altalena fra questi due alberi; ci basterà una corda di due tese? Mi si dice che nell’altra casa la nostra camera avrà venticinque piedi quadrati; credete voi che ci convenga? Sarà essa più grande di questa? Abbiamo

ecco

due

laggi; a quale dei due arriveremo ma per desinare? ecc. Si trattava di esercitare alla corsa fanciullo indolente e pigro, il quale si dedicava da sé a questo esercizio ad

alcun

altro,

benché

fosse

vil-

priun non né

destinato

allo stato militare: egli si era persuaso, non so come, che un uomo del suo ceto non doveva far nulla né saper nulla, e che la sua nobiltà doveva tenergli luogo di braccia, di gambe, come di ogni specie di merito. A fare d’un tal gentiluomo un Achille dal piede leggero, l’accortezza dello stesso Chirone sarebbe a mala pena bastata. La difficoltà era tanto più grande, in quanto io non volevo prescrivergli assolutamente nulla: ave-

LIBRO

SECONDO

437

vo bandito dai miei diritti le esortazioni, le promesse,

le minacce,

l’emulazio-

ne, il desiderio di brillare: come dargli quello di correre senza dirgli nulla? Correre io stesso sarebbe stato un mezzo poco sicuro, e soggetto ad inconvenienti. D'altronde si trattava ancora di trarre da questo esercizio qualche oggetto d'istruzione per lui, a fine di abituare le operazioni della macchina e quelle del giudizio a procedere sempre d'accordo.

Ecco

come

io feci:

io, cioè colui

che parla in questo esempio. Andando a passeggiare con lui il pomeriggio, mettevo talvolta in tasca due focacce d'una qualità che gli piaceva assai; ne mangiavamo una per ciascuno alla passeggiata* e ce ne ritornavamo molto contenti. Un giorno si accorse che avevo tre focacce; ne avrebbe potuto mangiare sei senza farsi male; egli si affretta a mangiare subito la sua, per domandare la terza. « No, gli dico: la mangerei volentieri anch'io, o la divideremmo: ma preferisco vederla disputare alla corsa da quei due ragazzetti che son là », Li chiamai, mostrai loro la focaccia e proposi le condizioni. Essi non domandarono di meglio. La focaccia fu posta su di una gran pietra che servì di meta, si segnò il tratto da percorrere; noi andammo a sederci: al segnale dato i ragazzetti partirono; il vittorioso s'impadronì della focaccia e la mangiò senza misericordia sotto gli occhi degli spettatori e del vinto. Questo divertimento valeva ben più della

focaccia;

ma

non

attaccò

a

tutta

se lo disputavano non erano ambiziosi: colui che lo riportava era lodato, festeggiato; tutto si faceva con una certa pompa. Per dar luogo poi alle competizioni ed aumentare l’interesse, segnavo il tratto da percorrere più lungo, vi ammettevo parecchi concorrenti. Erano appena in lizza, che tutti i passanti si fermavano a guardarli: le acclamazioni, le grida, i battimani li animavano: vedevo talvolta il mio ragazzetto trasalire, alzarsi, gridare quando uno stava per raggiungere o oltrepassare l'altro; erano per lui i giuochi olimpici. Però i concorrenti si servivano talvolta d'inganni; si trattenevano o si facevano cadere a vicenda, o spingevano dei sassi sul passaggio l’uno dell’altro. Ciò mi fornì un motivo per separarli e per farli partire da diversi punti, sebbene egualmente lontani dalla meta: si vedrà presto la ragione di questa previdenza; poiché devo trattare questo importante affare in tutti i suoi particolari. Annoiato di veder sempre mangiare sotto i suoi occhi delle focacce che gli facevano gran voglia, il signor cavaliere s’immaginò infine che il correre bene poteva

essere

Io

astenni

buono

a qualche

cosa;

e,

vedendo ch’egli aveva pure due gambe, cominciò a provarcisi segretamente. mi

dal

farvi

attenzione;

ma

capii bene che il mio strattagemma era riuscito. za forte

Quando (e lessi

si credette abbastanprima di lui nel suo

pensiero), ostentò di importunarmi avere

la focaccia

restante.

per

Io la rifiuto;

prima e non produsse nulla. Io non mi scoraggiai né mi affrettai: l’istruzione dei fanciulli è un mestiere in cui bisogna saper perdere del tempo per guadagnarne. Continuammo le nostre passeggiate; spesso si prendevano tre focacce, talvolta quattro, e di tanto in tanto ce n’era una e perfino due per i corridori. Se il premio non era grande, quelli che

egli si ostina, e con un'aria indispettita mi dice infine; « Ebbene, mettetela pure sulla pietra, segnate il cammino da percorrere e vedremo ». « Bene! gli ri-

* Passeggiata campestre, come si vedrà subito. Le passeggiate pubbliche delle città sono dannose ai fanciulli dell'uno e dell'altro sesso. qui che essi cominciano a diventare frivoli, e a voler essere guardati: è al Luxembourg, al-

le Tuileries, e specialmente al Palais-Royal, che la bella gioventù di Parigi va a prendere quell'aspetto impertinente e presuntuoso che la

spondo

ridendo,

un

cavaliere

sa

forse

correre? Acquisterete più appetito, e non di che sodisfarlo ». Punto dalla mia canzonatura,

egli

vi

riporta il premio

mette

ogni

studio,

tanto più facilmente,

rende così ridicola e che la fa urlare e detesta-

re in tutta l'Europa.

EMILIO

438 in quanto avevo fatto la lizza molto corta e avevo avuto cura di allontanare il miglior corridore. Si concepisce come, fatto questo primo passo, mi fu facile tenerlo in esercizio. Ben presto egli prese un

tal gusto

a questo

esercizio

che,

senza protezione, era quasi sicuro di vincere i miei birichini alla corsa, per quanto lungo fosse il tratto da percorrere. Il conseguimento di questo vantaggio ne produsse un altro al quale non avevo pensato. Quando riportava raramente il premio, lo mangiava quasi sempre solo,

come

facevano

i suoi

concorrenti;

ma,

avvezzandosi alla vittoria, divenne generoso, e divideva spesso con i vinti. Ciò mi

fornì

una osservazione

morale,

e im-

parai quindi quale era il vero principio della generosità. Continuando a segnare con lui in diversi luoghi i termini da cui ciascuno doveva partire a un tempo,

feci, senza che

se ne accorgesse, le distanze disuguali; di modo che l’uno, avendo da fare maggior cammino dell’altro per arrivare alla medesima meta, aveva uno svantaggio visibile:

ma, sebbene

bella;

in

lasciassi la scelta al

mio discepolo, egli non sapeva prevalersene, Senza preoccuparsi della distanza, egli preferiva sempre la strada più modo

che,

prevedendo

facil-

mente la sua scelta, ero presso a poco padrone di fargli perdete o guadagnare la focaccia a mia volontà: e questa mia accortezza rispondeva anche a più di uno scopo. Però, siccome il mio disegno era ch’egli si accorgesse della diffe-

renza, procuravo le: ma, sebbene

di rendergliela sensibiindolente nella calma,

era così vivace nei suoi giuochi, e diffidava tanto poco di me, che ebbi tutte le pene del mondo a fargli comprendere che lo abbindolavo. Infine ne venni a capo nonostante la sua storditaggine; egli mi fece dei rimproveri. Io gli dissi: « Di che cosa vi lamentate? In un dono che voglio fare, non sono forse padrone delle mie condizioni? Chi vi obbliga a correre? Vi ho io promeso di fare le lizze eguali? Non avete voi la scelta? Prendete pure la più corta, nessuno ve lo impedisce. Come non vi accorgete che siete voi che favorisco, e che l'inegua-

glianza di cui borbottate è tutta a vostro vantaggio, se sapete approfittarne? ». Ciò era chiaro; egli lo comprese, e, per scegliere, bisognò guardarci più da vicino. Prima si vollero contare i passi; ma la misura dei passi di un fanciullo è lenta e difettosa;

di

più,

immaginai

di

mol-

tiplicare le corse in un medesimo

no;

una

e allora,

specie

perdere,

nel

meglio,

a

di

divenendo

il divertimento

passione,

misurare

gior-

rincresceva

di

le lizze, il tempo

destinato a percorrerle. La vivacità dell’infanzia si concilia male con queste lungaggini: ci si esercitò dunque a veder stimar

meglio

una

distanza

ad occhio. Allora durai poca fatica a estendere e ad alimentare questo gusto. Finalmente alcuni mesi di prove e di errori corretti gli formarono talmente il compasso visivo, che, quando gli mettevo, col pensiero,

una

focaccia su qual-

che oggetto lontano, egli aveva il colpo d'occhio quasi tanto sicuro quanto la catena di un agrimensore. Siccome

la

vista

è,

di

tutti

i sensi,

quello da cui si possono meno separare i giudizi dallo spirito, occorre molto tempo per imparare a vedere; bisogna aver confrontato a lungo la vista al tatto, per avvezzare il primo di questi due sensi a farci un rapporto fedele delle figure e delle distanze: senza il tatto, senza il movimento progressivo, gli occhi più penetranti del mondo non potrebbero darci alcuna idea dell’estensione. L'universo intero non deve essere che un punto per un’ostrica: e non le sembrerebbe niente di più quand'anche una anima umana informasse quest'ostrica. Non è che a forza di camminare, di palpare,

di

mensioni

numerare,

che

di

s'impara

misurare

le

a stimatle:

di-

ma

anche, se si misurasse sempre, il senso, riposandosi sullo strumento, non ac-

quisterebbe alcuna giustezza. Non bisogna neppure che il fanciullo passi d'un tratto dalla misura alla stima; bisogna dapprima che, continuando a confrontare per parti ciò che non potrebbe confrontare d’un colpo, ad aliquote precise sostituisca aliquote per apprezzamento, e che invece di applicare sempre con la mano la misura, si avvezzi ad

LIBRO

439

SECONDO

applicarla soltanto con gli occhi. Vorrei pertanto che si verificassero le sue prime operazioni con delle misure reali, affinché egli correggesse i suoi errori, e imparasse a rettificarla con un migliore giudizio, nel caso che restasse nel senso qualche falsa apparenza. Si hanno delle misure naturali che sono presso a poco le medesime in tutti i luoghi; i passi di un uomo, l'estensione delle

sue

braccia,

la sua

statura.

Quan-

do un fanciullo stima l'altezza di un piano, il suo precettore gli può servir di tesa; se stima l'altezza d’un campanile, le case gli possono servir di misura; se vuol sapere le leghe della strada percorsa, conti le ore del cammino; e soprattutto non si faccia niente di tutto ciò per lui, ma egli stesso lo faccia. Non si potrebbe imparare a giudicar bene dell’estensione e della grandezza dei corpi senza imparare a conoscere le loro figure, e perfino ad imitarle; poiché, in fondo, questa imitazione non dipende assolutamente che dalle leggi della prospettiva; e non si può stimare l’estensione dalle sue apparenze, senza avere qualche conoscenza di queste leggi. I fanciulli, grandi imitatori, provano tutti a disegnare: io vorrei che il mio coltivasse quest'arte, non precisa mente per l’arte stessa, ma per farsi l'occhio

giusto

e la

mano

flessibile;

e,

in generale, importa assai poco ch'egli sappia il tale o il tal altro esercizio, purché acquisti la perspicacia del senso e la buona abitudine del corpo, che si consegue con tale esercizio. Mi guarderò bene dunque dal dargli un maestro di disegno, il quale gli darebbe a copiare solo delle imitazioni e gli farebbe disegnare soltanto dei disegni: voglio ch'egli non abbia altro maestro che la natura, né altro modello che gli oggetti. Voglio che abbia sotto gli occhi l'originale stesso, e non la carta che lo rappresenta; che disegni a matita

una

casa

da

una

casa,

un

albero

da un albero, un uomo da un uomo, affinché si abitui ad osservar bene i corpi e le loro apparenze, e non a prendere delle imitazioni false e convenzionali

per delle vere imitazioni. Lo distoglierò anche dal tracciar nulla a memoria in assenza degli oggetti, fino a che, con delle osservazioni frequenti, le loro figure esatte s'imprimano bene nella sua immaginazione; per paura che, sostituendo alla verità delle cose delle figure stravaganti e fantastiche, egli non perda la conoscenza delle proporzioni e il gusto delle bellezze della natura. So bene che in questo modo egli scombicchererà a lungo senza far nulla di riconoscibile, che prenderà tardi l’eleganza dei contorni e il tratto leggero dei disegnatori, e forse mai il discernimento degli effetti pittoreschi e il buon gusto del disegno; in compenso, contrarrà certamente un colpo d’occhio più giusto, una mano più sicura, la conoscenza dei veri rapporti di grandezza e di figura che sono fra gli animali, le piante, i corpi naturali, e una più pronta esperienza del giuoco della prospettiva. Ecco precisamente ciò che ho voluto fare, e la mia intenzione non è tan-

to quella ch'egli sappia imitare gli oggetti quanto quella che sappia conoscerli; preferisco ch'egli mi mostri una pianta di acanto, piuttosto che disegni poco bene i fogliami di un capitello. Del resto, in questo esercizio, come in tutti gli altri, io non pretendo che il mio allievo ne abbia solo il divertimento. Voglio renderglielo ancora più piacevole dividendolo continuamente con lui. Non voglio affatto ch'egli abbia altro emulo

all’infuori

di me;

ma

sarò

il

suo emulo senza tregua e senza rischio; ciò metterà dell’interesse nelle sue occupazioni, senza cagionare gelosia fra noi. Prenderò il lapis seguendo il suo esempio; lo adopererò dapprima così goffamente come lui. Anche se fossi un Apelle, non mi troverò che uno scombiccheratore. Comincerò col tracciare un uomo come i lacché li tracciano sui muri; una sbarra per ogni braccio, una sbarra per ogni gamba, e delle dita più grosse delle braccia. Molto tempo dopo ci accorgeremo l'uno o l'altro di questa sproporzione: noteremo che una gamba ha un certo spessore, che questo spessore non è dappertutto lo stesso;

440

EMILIO

che il braccio ha la sua lunghezza determinata in rapporto al corpo, ecc. Progredendo così, camminerò tutt'al più accanto a lui, o lo sorpasserò così poco, che gli sarà sempre facile raggiungermi e spesso superarmi. Avremo dei colori, dei pennelli; procureremo d'imitare il colorito degli oggetti e tutta la loro apparenza così bene come il loro aspetto. Minieremo, dipingeremo, scarabocchieremo; ma, in tutti i nostri scarabocchi, non cesseremo di osservare la natura;

non faremo mai nulla se non sotto gli occhi del maestro. Eravamo in cerca di ornamenti per la nostra

camera,

ed eccoli belli e trovati,

Faccio incorniciare i nostri disegni; li fo coprire con bei vetri, affinché non siano più

toccati, e affinché,

vedendoli

re-

stare nello stato in cui li abbiamo messi, ciascuno abbia interesse a non trascurare i suoi. Li dispongo per ordine intorno alla camera, ogni disegno ripetuto venti, trenta volte, e mostrante ad ogni esemplare il progresso dell’autore, dal momento in cui la casa non è che un quadrato quasi informe, fino a quel. lo in cui la facciata, il profilo, le proporzioni, le ombre sono nella più esatta verità. Queste gradazioni non possono mancare di offrirci continuamente dei quadri interessanti per noi, curiosi per gli altri, e di eccitare sempre più la nostra emulazione. Ai primi, ai più grossolani di questi nostri disegni, metto delle cornici assai brillanti e dorate, che

diano loro maggior risalto; ma quando l'imitazione diventa più esatta ed il disegno è veramente buono, allora non gli dò più che una cornice nera semplicissima; esso non ha più bisogno d’altro

ornamento

che

se stesso,

e sarebbe

un

peccato che la cornice condividesse l'attenzione che merita l'oggetto. Così ciascuno di noi aspira all’onore della cornice semplice; e quando uno vuole disprezzare il: disegno dell'altro, lo condanna alla cornice dorata. Un giorno, forse, queste cornici dorate passeranno fra noi in proverbio e noi ammireremo quanti uomini si rendono giustizia facendosi incorniciare così. Ho detto che la geometria non era

alla portata nostra. Noi metodo

non

dei fanciulli; ma è colpa non sentiamo che il loro è il nostro,

e che

ciò che

diventa per noi l’arte di ragionare non deve essere per essi se non l’arte di vedere. Invece di dar loro il nostro metodo, faremmo meglio a prendere il loro; poiché il nostro modo d’imparare la geometria è tanto un affare d'immaginazione quanto di ragionamento. Quando la proposizione è enunciata, bisogna immaginarne la dimostrazione, cioè trovare di quale proposizione già conosciuta quella dev'essere una conseguenza, e, di tutte le conseguenze che si possono trarre da questa medesima proposizione, scegliere precisamente quella di cui si tratta. In questo modo il ragionatore più esatto,

se

non

è inventivo,

deve

rima-

nere in asso. Per cui cosa ne deriva? Che invece di farci trovare le dimostrazioni, ce le ispirano; che invece d'insegnarci a ragionare, il maestro ragiona per noi e non esercita che la nostra memoria. Fate

delle

figure

esatte,

combinatele,

ponetele l’una sull’altra, esaminate i loro rapporti; troverete tutta la geometria elementare procedendo di osservazione in osservazione, senza che si tratti né di definizioni, né di problemi,

né di alcun’altra forma dimostrativa all’infuori della semplice sovrapposizione. Quanto a me, non pretendo d'insegnare la geometria ad Emilio, è lui che me l’insegnerà; io cercherò i rapporti ed egli li troverà; poiché io li cercherò in modo da farglieli trovare. Per esempio, invece di servirmi di un compasso per tracciare un cerchio, lo traccerò con una

punta all'estremità di un filo girante su di un pernio. Dopo ciò, quando vorrò confrontare i raggi fra loro, Emilio si burlerà di me, e mi farà comprendere che lo stesso filo sempre teso non può aver tracciato distanze disuguali. Se voglio misurare un angolo di sessanta gradi, descrivo dal vertice di quest'angolo, non un arco, ma un circolo intero: poiché con i fanciulli non bisogna mai sottintendere nulla. Trovo che la porzione del circolo compresa fra i

LIBRO

441

SECONDO

due lati dell'angolo è la sesta parte del circolo. Dopo ciò descrivo dallo stesso vertice un altro circolo più grande, e trovo che questo secondo arco è ancora la sesta parte del suo circolo. Descrivo un terzo circolo concentrico, sul quale faccio la stessa prova; e la continuo su nuovi

circoli,

fino

a che

Emilio,

offeso

dalla mia stupidità, m’avverte che ogni arco, grande o piccolo, compreso dal medesimo angolo, sarà sempre la sesta parte del suo circolo, ecc. Eccoci subito all'uso del rapportatore. Per provare che gli angoli adiacenti sono eguali a due retti, si descrive un circolo;

io,

invece,

faccio

in

modo

che

Emilio noti ciò in primo luogo nel circolo, e poi gli dico: « Se si togliesse il circolo, e si lasciassero le linee rette, gli

angoli cambierebbero di grandezza? », ecc. Si trascura l'esattezza delle figure, la si suppone, e ci si attiene alla dimostrazione. lerà mai

faccenda

delle

Fra noi, invece, non si pardi dimostrazione; la nostra

più

linee ben

importante diritte,

sarà di tirare

ben

giuste,

ben

eguali; di fare un quadrato assai perfetto, di tracciare

un

circolo ben

rotondo.

Per verificare l'esattezza della figura, la esamineremo attraverso tutte le sue proprietà sensibili; e questo ci fornirà l’occasione di scoprirne ogni giorno delle nuove. Piegheremo col diametro i due semicerchi;

con la diagonale, le due me-

tà del quadrato: confronteremo le nostre due figure per vedere quella i cui contorni convengono più esattamente, e per conseguenza la meglio fatta; disputeremo se questa eguaglianza di spartizione debba avere sempre luogo nei parallelogrammi, nei trapezi, ecc. Si cercherà talvolta di prevedere il risultato dell'esperienza prima di farla, ci si studierà di trovare delle ragioni, ecc. La geometria non è per il mio allievo se non l’arte di servirsi bene della riga e del compasso: egli non la deve affatto confondere col disegno, in cui non adopererà né l’uno né l’altro di questi strumenti. La riga e il compasso saranno chiusi

sotto

chiave,

e non

gli se ne ac-

corderà che raramente l’uso e per poco

tempo, affinché non si avvezzi a scarabocchiare: ma noi potremo talvolta portare le nostre figure andando a passeggio, e ragionare di quello che avremo fatto o di ciò che vorremo fare. Non dimenticherò mai di aver veduto a Torino un giovane al quale, nella sua infanzia, si erano insegnati i rapporti dei contorni e delle superfici dandogli ogni giorno da scegliere, in tutte le figure geometriche, dei favi di miele isoperimettici. Il piccolo ghiottone aveva esaurita l'arte di Archimede per trovare in quale c’era più da mangiare”. Quando un fanciullo giuoca al volano,

esercita

l'occhio

e

il

braccio

alla

giustezza; quando frusta una trottola, accresce la propria forza servendosene, ma senza imparar nulla. Ho domandato talvolta perché non si proponevano ai fanciulli gli stessi giuochi di destrezza che hanno gli uomini: la palla, il maglio, il bigliardo, l’arco, il pallone, gli strumenti musicali. Mi è stato risposto che alcuni di questi giuochi erano superiori alle loro forze, e che le loro mem-

bra e i loro organi non erano abbastanza formati per gli altri. Io trovo cattive queste ragioni: un fanciullo non ha la

statura

di

un

uomo,

e

non

manca

di portare un abito come il suo. Non intendo ch'egli giuochi con le nostre grosse stecche su di un bigliardo alto tre piedi; non intendo ch'egli vada a giocucchiare nelle nostre bische, né che si carichi la sua piccola mano di una racchetta pel giuoco della palla; ma che giuochi in una sala in cui siano state assicurate

le finestre;

che

si serva

dap-

essere

vigorosi,

cre-

prima soltanto di palle morbide; che le sue prime racchette siano di legno, poi di cartapecora, e infine di corde di budello tese in proporzione del suo progresso. Voi preferite il volano, perché stanca meno ed è senza pericolo. Avete torto per queste due ragioni. Il volano è un giuoco da donne; ma non ce n'è una che non faccia fuggire una palla in movimento. Le loro bianche pelli non devono indurirsi ai lividi e non certo delle contusioni aspettano i loro volti. Ma

noi,

diamo

fatti

forse

per

di divenirlo

senza

fatica?

442

EMILIO

E di quale difesa saremo capaci, se non saremo mai attaccati? Si giocano sempre fiaccamente quei giuochi in cui si può essere malaccorti senza rischio: un volano

che

cade

non

fa male

mandarla

con

mano

forte

a nessuno;

ma niente sgranchisce le braccia quanto il dover coprire la testa, nulla rende il colpo d'occhio così giusto come il dover preservare gli occhi. Slanciarsi da un capo all’altro della sala, giudicare il salto di una palla ancora in aria, rie sicura;

sif-

fatti giuochi convengono meno all'uomo di quello che servano a formarlo. Le fibre di un fanciullo, si dice, sono troppo molli! Esse hanno meno elasticità, ma

sono

più flessibili;

il suo brac-

cio è debole, ma infine è un braccio; se ne deve fare, osservatane la proporzione, tutto quello che si fa di un’altra macchina simile. I fanciulli non hanno nessuna destrezza nelle mani; è per questo ch'io voglio che se ne dia loro: un uomo tanto poco esercitato quanto essi non ne avrebbe di più: noi non possiamo conoscere l’uso dei nostri organi che dopo averli impiegati. Non c’è che una lunga esperienza che c’insegni a trar profitto da noi stessi, e questa esperienza è il vero studio al quale non ci si può applicare troppo presto. Tutto

ciò

che

si fa è fattibile.

Ora,

nulla è più comune che il vedere dei fanciulli destri e svelti aventi nelle membra fa medesima agilità che può avere un uomo. În quasi tutte le fiere si vedono dei fanciulli fare degli equilibri, camminare sulle mani, saltare, ballare sulla corda. Durante quanti anni delle compagnie di fanciulli non hanno atti rato,

con

ziose,

un

i loro

balli,

tanti

spettatori

alla Comzédie italiana! Chi non ha udito parlare in Germania e in Italia della compagnia pantomimica del celebre Ni. colini? Forse qualcuno ha mai notato in quei fanciulli dei movimenti meno sviluppati, delle attitudini meno gradanza * Un

orecchio

meno

leggera

meno

che

preciso,

nei

una

ballerini

ragazzino di sette anni ne ha fatti, dopo

pià affinati? le

dita

Si abbiano

rozze,

pure dapprima

corte,

poco

mobili,

le

mani grassotte e poco capaci di agguantare qualche cosa; ciò impedisce forse che parecchi fanciulli sappiano scrivere o disegnare nell'età in cui altri non sanno ancora tenere in mano né la matita né la penna? Tutta Parigi si ricorda ancora della piccola Inglese che faceva a dieci anni dei prodigi sul clavicembalo *. Ho visto in c4sa di un magistrato, suo figlio, un ragazzetto di otto anni, che veniva messo sulla tavola, alla frutta, come una statua in mezzo

ai vassoi, suonare là un violino grande quasi quanto lui, e sbalordire, con la sua esecuzione, gli stessi artisti. Tutti questi esempi e centomila altri provano,

che

stri non

mi

sembra,

si suppone esercizi è si vedono

che

l’inettitudine

nei fanciulli

per i no-

immaginaria, e che, se riuscire in alcuni, vuol

dire che non vi furono mai esercitati, Mi si dirà ch'io cado qui, per quel che riguarda il corpo, nel difetto della cultura prematura che biasimo nei fanciulli per rispetto allo spirito. La differenza è grandissima; poiché l'uno di questi progressi non è che apparente, ma l’altro è reale. Ho dimostrato che lo spirito ch’essi sembrano avere, non l’hanno; invece tutto ciò che sembrano fare

lo fanno. D'altronde, si deve sempre pensare che tutto ciò non è o non deve essere che giuoco, direzione facile e volontaria dei movimenti che la natura domanda loro, arte di variare i loro divertimenti per renderli loro più piacevoli, senza che mai la minima coercizione li tramuti in fatica: poiché, infine, a che si divertiranno di cui io non possa fare un oggetto d'istruzione per essi? E quand'anche non lo potessi, purché si divertano senza inconvenienti, e purché il tempo trascorra, il loro progresso in ogni cosa non importa che sia immediato; invece, quando bisogna necessariamente insegnar loro questa o quella cosa, comunque ci si regoli, è sempre

quel

tempo,

di più stupefacenti

ancora”.

LIBRO

443

SECONDO

impossibile che se ne venga a capo senza violenza, senza dispiacere e senza noia. Ciò che ho detto riguardo ai due sensi il cui uso è il più continuo e il più importante,

può

servir

d’esempio

per

il modo di esercitare gli altri. La vista e il tatto si applicano egualmente sui corpi in riposo e sui corpi che si muovono;

ma siccome

non vi è che lo scuo-

timento dell’aria che possa eccitare il senso dell’udito, non c'è che un corpo in movimento che produca del rumore

o del suono;

noi

non

notte,

e, sé tutto fosse in riposo,

intenderemmo

dunque,

in cui,

mai

non

nulla.

La

muovendoci

da noi stessi che quanto ci piace, non abbiamo da temere se non i corpi che si

muovono,

ci

preme

di

avere

l’orec-

chio vigilante, e di poter giudicare, con la sensazione che ci colpisce, se il corpo che la cagiona è grande o piccolo, lontano

o vicino;

se il suo

scuotimento

è violento o debole. L'aria scossa è soggetta a delle ripercussioni che la riflettono e le quali, producendo degli echi, ripetono

la sensazione, e fanno

in-

tendere il corpo rumoroso o sonoro in un luogo diverso da quello ove è. Se in una pianura o in una valle si mette l'orecchio a terra, si sente la voce degli uomini e il passo dei cavalli da molto più lontano che restando ritti. Come abbiamo confrontato la vista al tatto, è bene confrontarla parimente all'udito, e sapere quale delle due impressioni, partendo a un tempo dal medesimo corpo, arriverà più presto al suo organo. Quando si vede il fuoco di un cannone, ci si può ancora mettere al ri. paro dal colpo; ma appena se ne sente il rumore, non vi è più tempo, la palla è là. Si può giudicare della distanza ove si produce il tuono dall’intervallo di tempo che corre dal lampo al colpo. Fate in modo che il fanciullo conosca tutte queste esperienze; che faccia quelle che sono

a sua

portata, e che

trovi le altre

per induzione: ma preferisco cento volte ch'egli le ignori, piuttosto che occorra che gliele diciate voi. Noi abbiamo un organo che risponde all'udito, cioè quello della voce; non ne

abbiamo

egualmente

uno

che

risponda

alla vista, e non rendiamo i colori come

i

so,

le

i

sta

musica,

suoni. È un mezzo di più per coltivare il primo senso, esercitando l'organo attivo e l'organo passivo l'uno per l'altro. L'uomo ha tre specie di voci: cioè, la voce parlante o articolata, la voce cantante o melodiosa, e la voce patetica o accentuata, che serve di linguaggio alle passioni, ed anima il canto e la parola. Il fanciullo ha queste tre specie di voci come l’uomo, senza saperle egualmente congiungere: ha come noi il rigrida,

i pianti,

l’esclamazione,

gemiti; ma non sa unirne le inflessioni alle due altre voci. Una musica perfetta è quella che riunisce meglio queste tre voci, I fanciulli sono incapaci di quee il loro canto

non

ha

mai

anima. Allo stesso modo, nella voce parlante, il loro linguaggio non ha accento;

essi gridano,

ma

non

accentuano;

e sic-

come nel loro discorso c’è poco accento, vi è poca energia nella loro voce. Il nostro allievo avrà il parlare più unito, più semplice ancora, poiché le sue passioni, non essendo svegliate, non confonderanno il loro linguaggio col suo. Non gli date dunque da recitare delle parti di tragedia e di commedia, né insegnategli, come si dice, a declamare. Egli avrà troppo giudizio per saper dare un tono a delle cose che non può intendere e una certa espressione a dei sentimenti che non provò mai. Insegnategli a parlare uniformemente, chiaramente,

a ben

articolare, a pro-

nunciare esattamente e senza affettazione,

a

conoscere

e

a

seguire

l’accento

grammaticale e la prosodia, a parlare sempre abbastanza forte per essere udito, ma a non parlare mai più ad alta voce

del’ necessario,

difetto abituale

fanciulli educati nei collegi: sa nulla di superfluo.

nei

in ogni co-

Nello stesso modo, nel canto, rendete la sua voce giusta, eguale, flessibile, sonora; il suo orecchio sensibile alla mi-

sura e all’armonia; ma niente di più. La musica imitativa e teatrale non è della sua età; non vorrei neppure che cantasse delle parole; se volesse cantarne, procurerei di fargli delle canzoni

444

EMILIO

apposta, interessanti per la sua età e tanto semplici quanto le sue idee. Ci si immagina bene che, avendo avuto così poca fretta ad insegnarli a leggere la scrittura, non ne avrò neppure ad insegnargli a leggere la musica. Al lontaniamo dal suo cervello ogni attenzione troppo penosa, e non affrettiamoci a fissare il suo spirito su dei segni di convenzione.

Questo,

lo confesso,

sem-

bra avere la sua difficoltà; poiché se la conoscenza delle note non sembra dapprima più necessaria per saper cantare di quella delle lettere per saper parlare, c'è frattanto questa differenza, che, parIando, noi rendiamo le cantando, non rendiamo

nostre idee, e che quelle de-

gli altri. Ora, per renderle, bisogna leggerle 2. le,

Ma, primieramente, invece di leggersi può udirle, e un canto si rende

all'orecchio ancora più fedelmente che all'occhio. Di più, per conoscere bene la

musica,

comporla; insieme

non

con

basta

e una

cosa

l’altra,

renderla,

deve

senza

di

bisogna

impararsi che

non

la si sa mai bene. Esercitate il vostro piccolo musicista dapprima a fare delle frasi ben

regolari,

ben

cadenzate,

in se-

guito a legarle fra loro con una modulazione semplicissima, infine a notare i loro diversi rapporti con una punteggiatura corretta;

il che si fa colla buona

tutto

mai

bizzarri,

senza

fatica;

scelta delle cadenze e dei riposi. Sopratcanti

mai

niente

di

patetico né di espressivo. Una melodia sempre facile a cantarsi e semplice, sempre derivante dalle corde essenziali del tono, e sempre indicante talmente il basso, ch’egli lo senta e l’accompagni poiché,

per formarsi

la vo-

ce e l'orecchio, egli non deve cantare se non al clavicembalo. Per marcare meglio i suoni, si articolano nel pronunziarli; di qui l'uso di solfeggiare con certe sillabe. Per distinguere i gradi bisogna dar dei nomi a questi gradi e ai loro diversi termini fissi;

di

qui

i nomi

anche le lettere si indicano i tasti della scala. C e fissi, invariabili,

degli

intervalli,

e

dell'alfabeto con cui della tastiera e le note A designano dei suoni sempre dati dai me-

desimi tasti. Do e /2 sono un'altra cosa. Do è costantemente la tonica d'un modo maggiore o la mediante d'un modo minore. La è costantemente la tonica d'un modo minore o la sesta nota d'un modo maggiore. Così le lettere segnano i termini immutabili dei rapporti del nostro

sistema

musicale,

e le sillabe se-

gnano i termini omologhi dei rapporti simili in diversi toni. Le lettere indicano

i tasti

della

tastiera,

e le sillabe

gradi del modo. I musicisti francesi hanno stranamente imbrogliato queste

i

distinzioni; essi hanno confuso il senso delle sillabe col senso delle lettere;

e raddoppiando inutilmente i segni dei tasti, non ne hanno lasciato per esprimere

le

corde

dei

toni;

di

modo

che

per essi do e C sono sempre la medesima

cosa;

ciò che

non

è e non

deve

es-

sere, poiché allora a che servirebbe C? Cosicché il loro modo di solfeggiare è di una difficoltà eccessiva senza essere di alcuna utilità, senza portare alcuna idea netta allo spirito, poiché, con tal metodo, queste due sillabe do e ri, per

esempio, possono egualmente significare una terza maggiore, minore, superflua o diminuita. Per quale strana fatalità il paese del mondo in cui si scrivono i più bei libri sulla musica è precisamente quello in cui s'impara più difficilmente? Seguiamo col nostro allievo una pratica più semplice e più chiara; non vi siano per lui che due modi, i cui rapporti siano sempre i medesimi, e sempre indicati dalle stesse sillabe. Sia che canti o che suoni uno strumento, sappia egli stabilire il suo modo su ciascuno dei dodici toni che possono servirgli di base,

e sia

che

si moduli

in D,

in

C,

in G, ecc., la finale sia sempre do o la, secondo il modo. In questa maniera egli vi intenderà sempre; i rapporti essenziali del modo per cantare e suonare con precisione saranno sempre presenti al suo spirito, la sua esecuzione sarà più netta e il suo progresso più rapido. Non c'è nulla di più stravagante di ciò che i Francesi chiamano solfeggiare al naturale;

è allontanare

per sostituirne

le idee

dalla cosa,

delle estranee,

le quali

LIBRO

445

SECONDO

servono solo a sviare. Nulla è più naturale che il solfeggiare per trasposizione, quando il modo è trasportato. Ma ho già troppo parlato sulla musica; insegna-

stessi; e per mettere sempre il desiderio accanto al bisogno, fa sì che i nostri gusti cambino e si alterino con le nostre maniere di vivere. Quanto più ci

che un divertimento. Eccoci bene informati dello stato dei corpi estranei per rapporto al nostro,

to più perdiamo i nostri gusti naturali; o piuttosto l’abitudine ci fa una secon-

tela come

vorrete,

purché

non

sia altro

del loro peso, del loro aspetto, del loro

colore,

della

grandezza,

loro

della

loro

solidità,

distanza,

della

della

loro

lo-

ro temperatura, del loro riposo, del loro movimento. Noi siamo informati di quelli che ci conviene avvicinare o allontanare da noi, del modo col quale bisogna agire per vincere la loro resistenza, o per opporne loro una che ci preservi dall'esserne

offesi;

ma

non

o di

meno

clima

che

la costituzione

do

il

convenienti,

abita,

secondo

morremmo

secon-

il suo

affamati

o avvelenati,

insegnato

a conoscerlo

se dovessimo aspettare, per scegliere il nutrimento che ci conviene, che l’esperienza

ci avesse

e a sceglierlo: ma la suprema bontà, che ha fatto del piacere degli esseri sensibili lo strumento della loro conservazione, ci avverte, da quello che piace al nostro palato, di ciò che conviene al nostro stomaco. Non c’è naturalmente per l’uomo medico più sicuro che il proprio appetito; e, a prenderlo nel suo stato primitivo, non dubito punto che allora gli alimenti che egli trovava più piacevoli non fossero per lui anche i più sani. Ma c'è di più. L'Autore delle cose non provvede soltanto ai bisogni che ci dà, ma anche a quelli che ci diamo noi * Si veda

l’Arcadiu

di Pausania,

da natura, che noi sostituiamo

talmente

facilmente;

stimolan-

alla prima, che nessuno di noi conosce più questa. Ne segue che i gusti più naturali devono essere anche i più semplici, poiché sono quelli che sì trasformano più invece

acuendosi,

secondo

temperamento particolare, e secondo la maniera di vivere che il suo stato gli prescrive. Noi

tan-

mo che gradatamente ai sapori forti; sul principio ci ripugnano. Frutta, legumi,

è indifferente:

della sua specie,

stato di natura,

tutto

è abbastanza;

non è alimento per l’uomo; e delle sostanze che possono esserlo, ve ne sono di più

dallo

dosi per i nostri capricci, prendono una forma che non cambia più. L'uomo che non è ancora di nessun paese si abituerà senza fatica agli usi di qualunque paese; ma l’uomo di un paese non diventa più quello di un altro. Ciò mi sembra vero in tutti i sensi, e ben più ancora se applicato al gusto propriamente detto. Il nostro primo ali-

il nostro corpo si esaurisce senza tregua, esso ha bisogno di essere continuamente rinnovato. Sebbene abbiamo.la facoltà di cambiar altre sostanze nella nostra, la scelta non

allontaniamo

e anche

mento

è il latte;

noi

non

ci

avvezzia-

erbe, e infine alcune carni arrostite, sen-

za condimento e senza sale, furono i pasti dei primi uomini *. La prima volta che un selvaggio beve del vino, fa le boccacce

e lo rigetta;

e, anche

fra

noi,

chiunque ha vissuto fino a venti anni senza assaggiare liquori fermentati non ci si può più avvezzare: noi saremmo

tutti astemi, se non ci avessero dato del

vino nei nostri giovani anni. Infine, quanto più i nostri gusti sono semplici, tanto più sono universali; le ripugnanze più comuni cadono sulle vivande composte. Si vide mai alcuno avere in disgusto l’acqua o il pane? Ecco la traccia della natura, ecco dunque anche la nostra regola. Conserviamo al fanciullo il suo gusto primitivo per quanto è possibile;

che

il

suo

nutrimento

sia

co-

mune e semplice, che il suo palato non si familiarizzi che ai sapori poco piccanti, e non si formi un gusto esclusivo. Io non esamino qui se questa manie-

il brano

di

Plutarco

trascritto più

innanzi.

446

EMILIO

ra di vivere sia più o meno sana; non è così che la considero. Mi basta sapere, per preferirla, che è la più conforme alla natura, ed è quella che può più agevolmente piegarsi ad ogni altra. Coloro i quali dicono che bisogna avvezzare i fanciulli agli alimenti che useranno

mi

deve

da

sembra.

grandi,

essere

Perché lo

non

ragionano

il loro

stesso,

bene,

nutrimento

mentre

la

loro

maniera di vivere è così diversa? Un uomo esaurito dal lavoro, dalle preoccu-

pazioni,

dalle

sofferenze,

ha

bisogno

di

alimenti sostanziosi, che gli portino nuovo vigore al cervello; un fanciullo che ha finito di trastullarsi, e il cui corpo cresce, ha bisogno di un nutrimento abbondante che gli faccia molto chilo. D'altronde l’uomo fatto ha già il suo stato,

il suo

impiego,

il suo

domicilio;

ma chi può essere sicuro di ciò che la fortuna riserba al fanciullo? In ogni cosa non diamogli una fotma così determinata, che gliene costi troppo il cambiarla in caso di necessità. Non faccia mo che muoia di fame in altri paesi, se non si mena dietro da per tutto un cuoco francese, né che dica un giorno che non si sa mangiare se non in Francia. Ecco, fra parentesi, un piacevole elogio! Per

me,

direi

al

contrario

che

non

vi

sono che i Francesi i quali non sappiano mangiare, poiché occorre un'arte tanto particolare per rendere loro le vivande mangiabili. Delle nostre diverse

sensazioni,

il gu-

sto dà quelle che generalmente ci commuovono di più. Perciò siamo più interessati a giudicare esattamente le sostanze che devono far parte del nostro corpo, che quelle che non fanno che circondarlo. Mille cose sono indifferenti al tatto, all’udito, alla vista; ma non c'è quasi nulla d’indifferente al gusto. Di più, l’attività di questo senso è tutta fisica e materiale: è il solo che non dica niente all’immaginazione, è almeno quel. lo nelle cui sensazioni essa entra meno; invece l'imitazione e l'immaginazione mischiano spesso qualcosa di spirituale all’impressione di tutti gli altri. Perciò i cuori teneri e voluttuosi, i caratteri appassionati e veramente sensibili, fa-

cili a eccitarsi con gli altri sensi, sono generalmente abbastanza poco eccitabili in rapporto a questo. Da tale fatto appunto, che sembra mettere il gusto al di sotto di essi, e rendere più disprezzabile l'inclinazione che ci fa suoi schiavi,

io concluderei

invece

che

il mezzo

il

fanciullo

più conveniente per governare i fanciulli è quello di guidarli con la loro bocca. Il movente della ghiottoneria è specialmente preferibile a quello della vanità, in quanto che la prima è un appetito della natura, attinente immediatamente al senso, e la seconda è opera dell'opinione, soggetta al capriccio degli uomini e a ogni specie di abusi. La ghiottoneria è la passione dell'infanzia; questa passione non sta davanti ad alcun'altra; alla più piccola concorrenza

scompare.

Eh!,

credetemi,

non cesserà che troppo presto di pensare a ciò che mangia; e quando il suo cuore sarà troppo occupato, il suo palato non lo occuperà punto. Quando sarà grande, mille sentimenti impetuosi daranno il cambio alla ghiottoneria, e non faranno che irritare la vanità; poiché quest'ultima passione sola fa delle altre suo profitto, e infine le inghiottisce tutte. Ho talvolta considerato quelle persone che davano una certa importanza ai

buoni

bocconi,

che

pensavano,

sve-

gliandosi, a ciò che avrebbero mangiato nella giornata, e descrivevano un pasto con maggiore esattezza di quella che mette Polibio a descrivere un combatti. mento. Ho trovato che tutti questi pretesi uomini non erano che dei fanciulli di quaranta anni, senza vigore e senza consistenza, fruges consumere nati. La ghiottoneria è il vizio dei cuori che non hanno altre buone qualità. L'anima di un goloso è tutta nel suo palato, non è fatto che per mangiare; nella sua stupida incapacità non è al suo posto se non a tavola, non sa giudicare che dei piatti: lasciamogli senza rimpianto questo impiego: gli sta meglio quello che un altro, tanto per noi quanto per lui. Temere che la ghiottoneria non si radichi in un fanciullo capace di qualche cosa, è una precauzione di mente picci. na. Nell'infanzia non si pensa che a quel-

LIBRO

447

SECONDO

lo che si mangia; nell'adolescenza non ci si pensa più, tutto ci è buono e si hanno ben altre faccende. Non vorrei pertanto che si andasse a fare un uso indiscreto di un movente così basso, né a puntellare con un buon boccone l'onore di fare una bella azione. Ma non vedo perché, non

essendo

o non

dovendo

essere

tutta l'infanzia che giuochi e scherzevoli divertimenti, degli esercizi puramente corporali non avrebbero un valore materiale e sensibile. Se un piccolo Maiorchino, vedendo un cestino sulla cima di un albero, l’abbatte a colpi di fionda, non

è forse giusto ch'egli ne approfitti, e che una buona colazione ristori le forze ch'egli logora per guadagnarlo?* Che un giovane Spartano, col rischio di cento colpi di frusta, s’insinui abilmente in una cucina; che vi rubi un volpacchiotto vivo, che nel portarselo via sotto le vesti

ne

sia

graffiato,

morso,

messo

a

sangue, e, per non subire la vergogna di essere sorpreso, si lasci straziare le viscere senza batter ciglio, senza mandare un sol grido, non è forse giusto che approfitti infine della sua preda, e la mangi dopo esserne stato mangiato? Mai un buon pasto deve essere una ricompensa; ma perché non sarebbe talvolta l'effetto delle cure che si son prese per procurarselo? Emilio non considera la focaccia che ho messo sulla pietra come il premio per aver corso bene; egli sa soltanto che il solo mezzo per ottenere quella focaccia è di arrivarvi più presto di un altro. Ciò non contradice affatto alle massime che ho dianzi esposte sulla semplicità delle vivande; poiché, per favori re l'appetito dei fanciulli, non si tratta di eccitare la loro sensualità,

tanto di sodisfarla;

ma

sol-

e questo si otterrà

* È da molti secoli che i Maiorchini hanno perduto questo uso; esso è del tempo della celebrità

dei

loro

frombolieri.

** So che gli Inglesi

vantano

molto

la lo-

ro umanità e la buona indole della loro nazione, che chiamano good natured people; ma hanno un bel gridare ciò quanto vogliono, nessuno lo ripete dopo di loro. #** I Baniani, che si astengono da ogni specie di carne più severamente dei Gauri, sono

per mezzo delle cose più comuni del mondo, se non ci si preoccuperà di raffinar loro il gusto. Il loro appetito continuo, stimolato dal bisogno di crescere, è un condimento

sicuro che tien luo

go per loro di molti altri. Delle frutta,

dei

latticini,

qualche

stiacciata

un

po’

più delicata del pane ordinario, soprattutto l’arte di distribuire sobriamente tutto ciò; ecco di che condurre degli eserciti di fanciulli in capo al mondo senza dar loro il gusto per i sapori forti, né rischiare di rovinar loro il palato. Una delle prove che il gusto della carne non è naturale nell'uomo, è l’indifferenza che i fanciulli hanno per quella pietanza, e la preferenza che danno tutti agli alimenti vegetali, come i latticini, le pasticcerie, le frutta, ecc. Occorre so-

prattutto non snaturare questo gusto primitivo e non rendere i fanciulli carnivori;

se non

per la loro salute, è per

il loro carattere; poiché, in qualunque maniera si spieghi l’esperienza, è certo che i grandi mangiatori di carne sono in generale crudeli e feroci più degli altri uomini: questa osservazione è di tutti i luoghi e di tutti i tempi. La barbarie inglese è conosciuta **;

i Gauri,

invece,

sono gli uomini più tranquilli ***. Tutti i selvaggi sono crudeli; e i loro costumi non li spingono ad esser tali: questa crudeltà proviene dai loro alimenti. Essi vanno alla guerra come alla caccia, e trattano gli uomini come tanti orsi. In Inghilterra stessa i macellai non sono ammessi a testimoniare **** come non lo sono i chirurghi. I grandi scellerati si abituano all’assassinio bevendo del sangue. Omero fa dei Ciclopi, mangiatori di carne, degli uomini

Lotofagi

un

popolo

spaventosi;

così

amabile,

e dei

che

dolci come essi; ma siccome la loro morale è meno pura e il loro culto meno ragionevole, non sono così onesti,

#*** Uno dei traduttori inglesi di questo libro

ha fatto notare qui il mio granchio e tutti e due l’hanno corretto. I macellai e i chirurghi sono ammessi a testimoniare; ma i primi non sono ammessi come giurati o pari nel giudizio dei delitti, e i chirurghi lo sono.

448

EMILIO

non appena si era cercato di entrare in relazione con loro, si dimenticava perfino il proprio paese per vivere con essi. «Tu

mi

domandi,

diceva

Plutarco *,

perché Pitagora si asteneva dal mangiare carne di bestie; ma io ti domando

in-

vece che coraggio d'uomo ebbe il primo che avvicinò alla sua bocca una carne

macellata, che spezzò con i suoi denti le ossa di un animale morente, che si

fece servire dei corpi morti, dei cadaveri, e inghiottì nello stomaco delle

membra

che,

un

momento

prima,

be-

lavano,- muggivano, camminavano e vedevano. Come poté la sua mano immergere un ferro nel cuore di un essere sensibile? Come potettero i suoi occhi sopportare un omicidio? Come poté egli veder sgozzare, scorticare, smembrare un povero animale senza difesa? Come poté tollerare l’aspetto delle carni palpitanti? Come il loro odore non gli fece venire il vomito? Come non si sentì disgustato, respinto, preso d’orrore, quando andò a toccar con mano la lordura di quelle ferite, a nettare il sangue nero e coagulato che le copriva? Le pelli strisciavano sulla terra

[scorticate;

le carni al fuoco muggivano [infilzate; l’uomo non poté mangiarle senza [ fremere, e nel suo seno le sentì gemere. Ecco ciò che dovette immaginare e sentire la prima volta che vinse la natura per fare questo orribile pasto, la prima volta che ebbe fame di una be-

stia

male

viva,

che

il quale

volle

nutrirsi

pascolava

di

ancora

un

ani-

e che

disse come bisognava sgozzare, sbranare,

cuocere la pecora che gli lambiva le mani. Di quelli che cominciarono questi crudeli banchetti e non di quelli che li lasciano, si ha motivo di stupirsi: almeno quei primi potrebbero giustificare la loro barbarie con delle scuse che mancano alla nostra, e la cui mancanza

ci ren-

de cento volte più barbari di loro. O mortali prediletti dagli dei, ci direbbero questi primi uomini, confron-

tate i tempi, vedete quanto voi siete felici e quanto noi eravamo miseri! La terra da poco formata e l’aria carica di vapori erano ancora restie all'ordine delle stagioni; il corso incerto dei fiumi guastava le loro rive da ogni parte; stagni, laghi, profonde paludi inondavano i tre quarti della superficie del mondo; l'altro quarto era coperto di boschi e di foreste sterili. La terra non produceva alcun

buon

frutto;

noi non

avevamo

al-

cuno strumento da aratura; ignoravamo ‘l’arte di servircene, e il tempo della messe non veniva mai per chi non aveva seminato nulla. Cosicché la fame non ci abbandonava

affatto. L'inverno, il mu-

schio e la scorza degli alberi erano le nostre pietanze ordinarie. Alcune radici verdi di gramigna e di erica erano per noi

un

festino;

e

quando

gli

uomini

avevano potuto trovare delle faggiòle, delle noci o delle ghiande, ballavano dalla gioia intorno ad una quercia o ad un faggio, al suono di qualche canzone rustica, chiamando

la terra loro nutrice

e loro madre: era quella la loro sola festa, erano quelli i loro unici giuochi: tutto il resto della vita umana non era che

dolore,

Ma

voi,

sofferenza

e miseria.

Infine, quando la terra spoglia e nuda non ci offriva più nulla, costretti ad oltraggiare la natura per conservatci, mangiammo i compagni della nostra miseria, piuttosto che perire con essi. uomini

crudeli,

chi

vi forza

a

versare del sangue? Vedete quale affluen-

za di beni vi circonda!

Quanti

frutti vi

produce la terra! Quante ricchezze vi danno i campi e le vigne! Quanti animali vi offrono il loro latte per nutrirvi e il loro vello per vestirvi! Cosa domandate loro di più? E quale rabbia vi porta a commettere tante uccisioni, saziati come siete di beni e rigurgitanti di viveri? Perché mentite contro vostra madre, accusandola di non poter nutrirvi? Perché peccate contro Cerere inventrice delle sante leggi, e contro il grazioso Bacco, consolatore degli uomini? Come se i loro doni profusi non bastassero alla conservazione del genere umano! Come avete il cuore di mischiare con i loto dolci frutti delle ossa

LIBRO

449

SECONDO

sulle vostre tavole, e di mangiare insieme col latte il sangue delle bestie che ve lo danno? Le pantere e i leoni, che chiamate bestie feroci, seguono il loro

daveri,

di

animali per vivere. Ma voi, cento volte più feroci di loro, combattete l'istinto senza necessità, per abbandonarvi alle vostre più crudeli delizie. Gli animali che mangiate non sono quelli che mangiano gli altri: voi non li mangiate que-

sistere

credo che pochi lettori non me ne saranno riconoscenti. Del resto, qualunque specie di regime voi diate ai fanciulli, purché li avvezziate soltanto a delle pietanze comuni e semplici, lasciateli mangiare, correre e giocare tanto che a loro piaccia; poi siate sicuri che non mangeranno mai troppo e non avranno indigestioni: ma se li affamerete la metà del tempo, ed essi troveranno il mezzo di sfuggire alla vostra vigilanza, si risarciranno con tutte le loro forze; mangeranno fino a rigettare, fino a crepare, Il nostro appetito non è smisurato se non perché vogliamo dargli delle regole diverse da quelle della natura; sempre regolando, prescrivendo, aggiungendo, sopprimen-

alla

istinto

per

sti animali

forza,

ed

carnivori,

uccidono

gli

altri

voi li imitate:

voi

non avete fame che delle bestie innocenti e docili che non fanno male a nessuno,

che

si

affezionano

a voi,

che

vi servono e che voi divorate in premio dei loro servizi. O assassino contro natura! Se ti ostini a sostenere che essa ti ha fatto per divorare i tuoi simili, esseri di carne ed ossa, sensibili e vivi, come te, soffoca

dunque l’orrore ch’essa t'ispira per questi pasti orrendi; ammazza gli animali da te, dico, con le tue proprie mani, senza utensili di ferro, senza coltelli; dilaniali con le tue unghie, come fanno

cui

l’occhio

stesso

avrebbe

avuto pena a tollerare l’aspetto ». Quantunque questo brano sia estraneo al mio soggetto, non ho potuto retentazione

do, noi facciamo

di trascriverlo,

e

tutto con la bilancia in

mano; ma questa bilancia sta nella misu-

ra

dei

nostri

capricci,

e non

in

quella

una

estre-

per farlo morire due volte. E non è abbastanza, la carne morta ti ripugna ancora, i tuoi visceri non la possono tollerare; bisogna trasformarla col fuoco,

del nostro stomaco. Ritorno sempre ai miei esempi. Presso i contadini la madia e il frutteto sono sempre aperti, e i fanciulli, al pari degli uomini, non sanno cosa sia indigestione. Se accadesse pertanto che un fanciullo mangiasse troppo, il che non credo possibile col mio metodo, è così facile distrarlo con divertimenti di suo gusto, che si arriverebbe ad esaurirlo d'inedia senza che vi pensasse. Come mai dei mezzi così sicuri e così facili sfuggono a tutti gl'istitutori? Erodoto raccon-

persone per toglierti l'orrore dell'uccisione e ornarti dei corpi morti, affinché il senso del gusto, ingannato da questi travestimenti, non rigetti ciò che gli è strano, e assapori con piacere dei ca-

ma carestia, immaginarono d’inventare i giuochi ed altri divertimenti con i quali ingannavano la fame e passavano giorni interi senza pensare a mangiare *. I vostri dotti istitutori hanno forse letto cento volte questo passo, senza vedere l’applicazione che se ne può fare ai fan-

i leoni e gli orsi; mordi quel bove, e mettilo in pezzi; conficca i tuoi artigli nella sua pelle: mangia questo agnello sempre vivo, divora queste carni ancora calde,

bevi

la

sua

cidere

l’animale,

anima

col

suo

san-

gue. Tu fremi! Tu non osi sentir palpitare sotto i tuoi denti una carne viva! Uomo spregevole! Tu cominci con l'uce poi

lo mangi,

come

bollirla, arrostirla, conditla con droghe che la dissimulino; ti occorrono dei salumai, dei cuochi, dei rosticceri, delle

* Gli

storici

antichi

sono

pieni

fossero falsi. Ma

di

vedute,

assorbe tutto:

i Lidi,

incalzati

da

portasse molto che un fatto fosse vero, quando se ne potesse trarre una istruzione utile. Gli uomini assennati devono considerare la storia

come

molto

piamo trarre alcun vero profitto dalla storia; la critica di erudizione

che

noi non sap-

di cui si potrebbe fare uso, quand'anche i fatti

che le presentano

ta

se im-

come

un

tessuto

adatta

di

al cuore

favole,

umano.

la cui

morale

è

EMILIO

450 ciulli. Qualcuno di essi mi dirà forse che un fanciullo non lascia volentieri il suo desinare per andare a studiare la sua lezione. Maestro, voi avete ragione; io non pensavo a quel divertimento. Il senso dell’odorato è al gusto ciò che quello della vista è al tatto: esso lo previene, lo avverte della maniera onde tale o tal'altra sostanza deve commuoverlo e lo dispone a ricercarla o a fuggirla, secondo l'impressione che se ne riceve anticipatamente. Ho udito dire che i selvaggi avevano l’odorato sensibile in modo diverso dal nostro, e giudicavano in modo differente dei buoni e dei cattivi odori. Per parte mia, lo crederei bene. Gli odori per se stessi sono

delle

sensazioni

deboli;

essi

scuo-

tono più l’immaginazione che il senso, e non impressionano tanto per ciò che danno quanto per quello che fanno aspettare. Supposto ciò, i gusti degli uni, diventati, per i loro modi di vivere, così diversi dai gusti degli altri, devono far loro emettere dei giudizi molto opposti sui sapori e, per conseguenza, sugli odori che li annunziano. Un Tartaro deve fiutare con altrettanto piacere un quarto puzzolente di cavallo morto, quanto un nostro cacciatore una pernice a metà imputridita. Le nostre sensazioni vane, come quella di essere profumati dai fiori di una aiuola di giardino, devono essere insensibili a degli uomini che camminano troppo per dilettarsi a passeggiare, e che non lavorano abbastanza per farsi una voluttà del riposo. Della gente sempre affamata non può sentire un gran piacere in quei profumi che non annunziano niente da mangiare. L’odorato è il senso dell’immaginazione;

dando

ai nervi

un

tono

più

for-

te, esso deve agitar molto il cervello: è per questo che rianima un momento il temperamento e lo esaurisce a lungo andare. Esso ha, nell'amore, degli effetti abbastanza conosciuti: il dolce profumo di un gabinetto da toeletta non è un tranello tanto debole quanto si pensa; e non so se occorra felicitare 0 cormpiangere l’uomo saggio e poco sensibile,

che l’odore dei fiori, che la sua amante ha sul seno, non fece mai palpitare.

L’odorato

non

deve

dunque

essere

molto attivo nella prima età, in cui l’im-

maginazione,

che poche

passioni hanno

ancora animata, non è affatto suscettibile di emozione, e in cui non si ha an-

cora abbastanza esperienza per prevedere con un senso ciò che ce ne promette un altro. Questa conseguenza è pure perfettamente confermata dall'osservazione; ed è certo che questo senso è ancora ottuso e quasi stupido nella maggior parte dei fanciulli. Non che la sensazione non sia in essi così fine e forse più che negli uomini; ma essi, non aggiungendovi alcun’altra idea, non si commuovono agevolmente per un sentimento di piacere o di dolore e non ne sono né lusingati né feriti come noi. Io credo che, senza uscire dal medesimo

sistema,

e senza ricorrere all'anatormia comparata

dei due sessi, si troverebbe facilmente la

ragione del perché le donne in generale sono sensibili più vivamente agli odori che gli uomini. Si dice che i selvaggi del Canada si rendano,

fin dalla

cani

stessi.

loro

gioventù,

l’odo-

rato così sottile che, quantunque abbiano dei cani, non si degnano di servirsene per la caccia, e si tengono luogo di essi

Intendo,

infatti, che

se

si allevassero i fanciulli a scoprire il loro pranzo, così come il cane scopre la selvaggina, si arriverebbe forse a perfezionare in loro l’odorato al medesimo punto; ma non vedo in fondo che si possa

in essi

trarre da questo

senso

un

uso molto utile, se non per far loto conoscere i suoi rapporti con quello del gusto. La natura ha preso cura di forzarci a metterci al corrente di questi rapporti. Ha reso l'azione di quest’ultimo senso quasi inseparabile da quella

dell'altro,

rendendo

i loro organi vicini,

e mettendo nella bocca una comunicazione immediata fra i due, di modo che noi non gustiamo nulla senza prima fiutare. Vorrei soltanto che non si alterassero questi rapporti naturali per ingannare un fanciullo, coprendo, per esempio, con un aroma gradevole il disgusto di una medicina; poiché il disaccor-

LIBRO

451

SECONDO *

do fra i due sensi è troppo grande allora per poterlo ingannare; il senso più attivo assorbendo l’effetto dell'altro, egli non prende la medicina con meno disgusto: questo disgusto si estende a tutte le sensazioni che lo colpiscono nello stesso tempo; alla presenza della più debole, la sua immaginazione gli ricorda anche l’altra; un profumo assai soave non è più per lui che un odore disgustante: ed è così che le nostre precauzioni indiscrete aumentano la somma delle sensazioni spiacevoli a spese delle piacevoli. Mi resta da parlare, nei libri seguenti, della cultura di una specie di sesto senso, chiamato senso comune, non tanto perché è comune a tutti gli uomini, quanto perché risulta dall'uso ben regolato degli altri sensi, e ci istruisce della natura delle cose col concorso di tutte le loro apparenze. Questo sesto senso non ha, per conseguenza, organi particolari: non risiede che nel cervel-

lo; e le sue sensazioni,

puramente

inter-

ne, si chiamano percezioni o idee. Dal numero di queste idee si misura l’estensione delle nostre cognizioni; la loro nettezza, la loro chiarezza fanno la giustezza dello spirito; l’arte di confrontarle fra loro si chiama ragione umana. Cosicché ciò ch'io chiamavo ragione sensitiva o puerile consiste nel formare idee semplici col concorso di parecchie sensazioni;

e ciò che chiamo

ragione in-

tellettuale o umana consiste nel formare idee complesse col concorso di parecchie idee semplici. Supponendo dunque che il mio metodo sia quello della natura e ch'io non mi sia sbagliato nell’applicazione, ah-

biamo

condotto

il nostro

allievo,

attra-

verso i paesi delle sensazioni, sino ai confini della ragione puerile: il primo passo

che

faremo

al di là dev'essere

un

passo d'uomo, Ma, prima di entrare in questa nuova carriera, gettiamo un momento gli occhi su quella che abbiamo testé percorsa. Ogni età, ogni stato della vita, ha la sua perfezione conveniente, la specie di maturità che gli è propria. Abbiamo spesso udito parlare di un uomo fatto; ma consideriamo un

fanciullo fatto: questo spettacolo più nuovo per noi, e non sarà meno piacevole. L'esistenza degli esseri finiti è povera e così limitata che, quando vediamo

che

ciò che

è, non

siamo

sarà forse così non mai

commossi. Sono le chimere che adornano gli oggetti reali; e se l'immaginazione non aggiunge un incanto a ciò che ci colpisce, lo sterile piacere che vi si prende si limita all'organo, e lascia sempre il cuore freddo. La terra, ornata

dei tesori dell'autunno, mette

in mostra

una ricchezza che l'occhio ammira: ma questa ammirazione non è commovente; essa proviene più dalla riflessione che dal sentimento. In primavera, la campagna quasi nuda non è ancora coperta da nulla, i boschi non offrono alcuna ombra, la verdura comincia appena a spuntare, e il cuore è commosso al suo aspetto. Vedendo rinascere così la natura, ci si sente noi stessi

rianima-

re; l'immagine del piacere ci circonda: queste compagne della voluttà, queste dolci lacrime, sempre pronte ad aggiungersi a ogni sentimento delizioso, sono già sull’orlo delle nostre ciglia: ma l’aspetto delle vendemmie ha un bell’essere

animato,

vivo,

piacevole,

lo si ve-

de sempre con l'occhio asciutto. Perché questa differenza? È che allo spettacolo della primavera l’immaginazione aggiunge quello delle stagioni che la devono seguire; a quei teneri germogli che l’occhio scorge, essa aggiunge i fiori,

i frutti,

le ombre,

talvolta

i mi-

steri che possono coprire. Essa riunisce in un punto i tempi che devono succedersi, e vede gli oggetti meno come saranno che come li desidera, perché dipende da lei lo sceglierli. In autunno, invece, non c'è più da vedere che ciò che è. Se si vuole arrivare alla primavera, l'inverno ci arresta, e l'immaginazione agghiacciata spira sulla neve e nella brina. Questa è la sorgente dell'incanto che si prova nel contemplare una bella infanzia piuttosto che la perfezione dell'età matura. Quando è che gustiamo un vero piacere nel vedere un uomo? È quando la memoria delle sue azioni

EMILIO

452 della

e non conti le ore che per i tuoi piaceri,

a considerarlo così com'è, o a supporlo tal quale sarà nella sua vecchiaia, l’idea della natura declinante fa dimenticare tutto il nostro piacere. Non ve n’è punto nel veder avanzare un uomo a grandi passi verso la tomba, e l'immagine della morte imbruttisce tutto. Ma quando mi figuro un fanciullo dai

partenza di questo sfortunato; vieni... Egli arriva, e provo al suo avvicinarsi un impeto di gioia che gli vedo condi-

formato per la sua età, esso non mi fa nascere una sola idea che non sia piacevole sia per il presente, che per l’av-

mo sempre, e non stiamo con nessuno tanto bene quanto insieme. Il suo aspetto, il suo portamento, il suo contegno annunziano la sicurezza e la contentezza; la salute splende sul suo viso; i suoi passi risoluti gli danno

ci

fa

retrocedere

lungo

il corso

sua vita, e lo ringiovanisce, per così dire, ai nostri occhi. Se siamo ridotti

dieci ai dodici anni, sano, vigoroso,

venire:

lo vedo

ardente,

vivo,

ben

animato,

senza preoccupazioni tormentanti, senza lunghe e penose previdenze; tutto dedito alla sua esistenza attuale, e godente di una pienezza di vitalità che sembra volersi estendere fuori di lui. Lo prevedo in un’altra età; esercitando il senso,

la mente,

le forze

che

si svi-

luppano in lui di giorno in giorno, e di cui dà ad ogni momento nuovi indizi: lo contemplo fanciullo, e mi piace: lo immagino uomo, e mi piace di più; il suo sangue ardente sembra riscaldare il mio; credo

vivere

della

sua

vita,

e

la

sua

la

sua

Vivacità mi ringiovanisce. Suona l'ora: qual cambiamento! un

istante

l'occhio

si

offusca,

In

vieni, mio felice, mio amabile allievo, a consolarci, con la tua presenza, della

videre.

gno;

ch'egli

È

il suo

amico,

è il compagno accosta;

è

ben

dei

il suo

suoi

sicuro,

compa-

giuochi

nel

ve-

dermi, che non rimarrà lungo tempo senza divertimento; noi non dipendiamo

mai

un'atia

l'uno dall'altro, ma

colorito,

deli-

ha nulla della mollezza effeminata;

l’aria

cato

di

ancora

vigore;

senza

il suo

ci accordia-

essere

insipido,

non

e il sole vi hanno già messo l’impronta

onorevole del suo sesso; i suoi muscoli, ancora arrotondati, cominciano a indi-

care alcuni

tratti di una

fisonomia na-

scente; i suoi occhi, che il fuoco del sentimento non anima ancora, hanno almeno tutta la loro serenità nativa *;

lunghi dispiaceri non li hanno offuscati, lacrime senza fine non hanno solcato le sue gote. Vedete nei suoi movimenti pronti,

ma

sicuri,

la vivacità

della

sua

gaiezza scompare; addio la gioia, addio gli scherzevoli giuochi. Un uomo severo e irritato lo prende per mano e gli dice gravemente: « Andiamo, signore », e lo conduce via. Nella camera in cui entrano intravvedo dei libri. Dei libri! Che triste ammobiliamento per la sua età! Il povero fanciullo si lascia trascinare, volge un occhio di rimpianto su tutto ciò che lo circonda, tace, e parte cogli occhi gonfi di lacrime che non osa versare, e col cuore grosso di sospiri che non osa sfogare. . O tu che non hai niente di simile da temere, tu per cui nessun tempo della vita è un tempo di molestia e di noia, tu che vedi venire il giorno senza inquietudine, la notte senza impazienza,

età, la fermezza dell'indipendenza, l’esperienza degli esercizi molteplici. Egli ha l'aria aperta e franca, ma non insolente

sue importunità, né il suo cicaleccio, né le sue domande indiscrete. Non abbiate paura ch'egli s'impadronisca di voi, che pretenda occuparvi di lui solo e che voi non possiate più disfarvene. Non aspettatevi neppure da lui dei discorsi piacevoli, né che vi dica ciò

* Adopero questa parola nella sua accezione italiana, per non aver trovato un sinonimo in

francese. Se ho si capisca.

né vana:

il viso, che non

è stato incol-

lato sui libri, non gli casca sullo stomaco: non si ha bisogno di dirgli: « Alzate la testa »; la vergogna e il timore non gliela fecero abbassar mai. Facciamogli posto in mezzo all’assem-

blea: signori, esaminatelo, interrogatelo con tutta fiducia; non temete né le

torto,

poco

importa,

purché

mi

LIBRO

453

SECONDO

che gli avrò suggerito; non aspettatevi che la verità naturale e semplice, senza ornamenti, senza affettazione, senza vanità. Egli vi dirà il male che ha fatto o quello che pensa, liberamente come il bene, senza preoccuparsi in alcun modo dell'effetto che farà su voi ciò che avrà detto: userà della parola in tutta la semplicità della sua primitiva educazione. Si ama pronosticare bene dei fanciulli, e ci si rammarica sempre di quel flusso d'inezie che viene quasi sempre a rovesciare le speranze che si vorrebbero trarre da qualche felice facezia che per caso esce loro di bocca. Se il mio darà raramente tali speranze, non darà mai questo rimpianto; poiché egli non dice mai una parola inutile, e non si esaurisce in chiacchiere che sa non essere ascoltate. Le sue idee sono limitate, ma nette; se non sa niente a memoria,

sa molto per esperienza; se legge meno bene di un altro fanciullo nei nostri libri, legge meglio in quello della natuil suo spirito non è nella sua lingua, ma nella sua testa; egli ha meno memoria che giudizio; non sa parlare che un linguaggio, ma intende quello che dice; e se non dice così bene come dicono gli altri, in compenso fa meglio ch’essi non facciano. Non sa cosa sia praticaccia, uso, abitudine;

ciò

che

fece

ieri

non

influisce

affatto su quello che fa oggi *: non segue mai delle formule, non cede né al. l'autorità né all'esempio, e non agisce e non parla che come gli conviene. In tal modo, non aspettatevi da lui né discorsi ispirati né maniere studiate, ma sempre l'espressione fedele delle sue idee e la condotta che nasce dalle sue inclinazioni. Voi gli trovate un piccolo numero di nozioni morali che si riferiscono al suo * L'attrattiva

grizia

naturale

dell'abitudine

nell'uomo,

viene

dalla

e questa pigrizia

pi

au-

menta nell'abbandonarsi ad essa: si fa più agevolmente quello che si è già fatto; essendo la strada aperta, Quindi si può

diventa più facile a seguirla. notare che il dominio dell’abitu-

dine è grandissimo sui vecchi e sugl’indolenti, piccolissimo sulla gioventù

e sui vivaci.

Questo

stato

attuale,

bero,

una

nessuna

tivo degli uomini: volta

che

sullo

stato

rela-

e a che gli servirebun

fanciullo

non

è

ancora un membro attivo della società? Parlategli di libertà, di proprietà, perfino di convenzione: può saperne fin qui; egli sa perché ciò che è suo è suo e perché ciò che non è suo non è suo: al di là di questo non sa più nulla. Parlategli

quello

di dovere,

che

d'obbedienza,

vogliate

dire;

non

sa

comandategli

qualche cosa, non vi intenderà;

ma dite-

gli: « Se mi faceste il tal favore, ve lo renderei alla prima occasione »; subito egli si affretterà a compiacervi, poiché non chiede di meglio che di estendere il suo dominio e di acquistare su di voi dei diritti ch'egli sa essere inviolabili. Forse non è nemmeno indispettito di occupare un posto, di far numero, d’essere contato per qualche cosa: ma se ha quest’ultimo motivo, eccolo già fuor di natura, e voi non avete bene turate anticipatamente tutte le porte della vanità. Da parte sua, se avrà bisogno di qualche

assistenza,

la chiederà

indifferente-

mente al primo che incontra; la domanderebbe al re come al suo lacché: tutti gli uomini sono ancora eguali ai suoi

occhi.

Voi

vedete,

dal

modo

con

cui

prega, ch'egli sente che non gli si deve nulla; egli sa che quello che chiede è una grazia. Sa anche che l'umanità porta a concederne. Le sue espressioni sono semplici e laconiche. La sua voce, il suo sguardo, il suo gesto, sono d’un essere egualmente abituato alla compiacenza e al rifiuto. Non è né la strisciante e servile sottomissione d’uno schiavo,

né l'imperioso è una

modesta

accento

fiducia

di un

la nobile e commovente

nel

suo

padrone;

simile,

dolcezza di un

essere libero, ma sensibile e debole, che

implora

l’assistenza

d'un

essere

libero,

regime non è buono che alle anime deboli, e le

indebolisce di più di giorno in abitudine utile ai fanciulli è senza pena alla necessità delle abitudine utile agli uomini è di za pena alla ragione. Ogni altra

vizio.

giorno. La sola di assoggettarsi cose, e la sola sottoporsi senabitudine è un

454

EMILIO

ma forte e benefico. Se gli concederete quello che domanda, egli non vi ringrazierà,

ma

debito.

menterà,

sentirà

be inutile: stato

che

ha

contratto

Se glielo rifiuterete, non non

un

si la-

insisterà, sa che ciò sareb-

egli non dirà fra sé: « Mi è

fatto

un

rifiuto », ma

dirà:

« Ciò

non poteva essere »; e, come ho già detto, non

ci si ribella contro

ben riconosciuta. Lasciatelo

solo

in

la necessità

libertà,

vedetelo

agire senza dirgli nulla; considerate ciò che farà e come si comporterà. Non avendo bisogno di dimostrare a se stesso che è libero, non fa mai nulla per storditaggine e soltanto per fare un atto di potere sopra se stesso: non sa forse che è sempre padrone di sé? Egli è accorto, leggero, agile; i suoi movimenti hanno tutta la vivacità della sua età, ma

voi non ne vedete uno che non

abbia un fine. Checché voglia fare, non intraprenderà mai niente che sia al disopra delle sue forze, poiché le ha ben provate

e le conosce;

i suoi

mezzi

sa-

ranno sempre appropriati ai suoi disegni, e raramente agirà senza essere sicuro del successo. Egli avrà l'occhio attento e giudizioso: non andrà come un grullo interrogando gli altri su tutto ciò che vede;

ma

esaminerà da sé la cosa, e

si stancherà per trovare ciò che vuole imparare prima di domandarne. Se cadrà in imbarazzi imprevisti, egli si turberà

meno

di

un

altro;

se

ci

sarà

ri-

schio, si spaventerà anche meno. Siccome la sua immeginazione resta ancora inattiva, e non si è fatto nulla per animarla, egli non vede che ciò che è, non

stima i pericoli che per quanto valgono, e conserva sempre il suo sangue freddo. La necessità si aggrava troppo spesso su di lui, perché ricalcitri ancora contro di essa; egli ne porta il giogo fin dalla nascita; eccolo già avvezzo; egli è sempre pronto a tutto. Si occupi o si diverta, l’una e l’altra cosa è eguale per lui; i suoi giuochi sono le sue occupazioni,

egli non vi sente

alcuna differenza. Mette in tutto quello che fa un interesse che fa ridere e una libertà che piace, mostrando a un tempo la forza del suo spirito e la sfera delle

sue cognizioni. Non è forse lo spettacolo di questa età, uno spettacolo delizioso e dolce, il vedere un bel fanciullo, con l'occhio vivace e allegro, con l'aspet-

to contento e sereno, con la fisonomia aperta e ridente, fare, giocando, le cose

più serie, o profondamente occupato nei più frivoli divertimenti? Volete voi ora giudicarlo per comparazione? Mischiatelo con altri ragazzi, e lasciatelo fare. Vedrete ben presto quale veramente è più formato, quale si avvicina meglio alla perfezione della loro età. Fra i fanciulli della città nessuno è più scaltro di lui, ma egli è più forte di ogni altro. Posto fra contadinelli, egli li eguaglia in forza e li supera in destrezza. In tutto ciò che è alla portata dell'infanzia, egli giudica, ragiona, prevede meglio di tutti loro. Si tratta di agire, di correre,

smuovere

masse,

di

dei

corpi,

valutare

di saltare, di

di sollevare

delle

distanze,

delle

d'in-

ventare dei giuochi, di conquistare dei premi? Si direbbe che la natura è ai suoi ordini, tanto sa agevolmente piegare ogni cosa alle sue volontà. Egli è fatto per guidare, per governare i suoi eguali: il talento, l'esperienza gli tengon luogo di diritto e di autorità. Dategli l'abito e il nome che vi piacerà, poco importa, egli primeggerà ovunque e diventerà dappertutto il capo degli altri: essi sentiranno sempre la sua superiorità su di loro: senza voler comandare, egli sarà il padrone; senza credere di obbedire,

Egli fanzia, ciullo, zione trario,

essi

obbediranno.

è pervenuto alla maturità dell’inha vissuto della vita di un fannon ha comprato la sua perfea spese della sua felicità; al conesse

hanno

concorso

l'una

all’al-

tra. Acquistando tutta la ragione della sua età, egli è stato felice e libero quanto la sua costituzione gli permetteva di esserlo. Se la fatale falce viene a mietere in lui il fiore delle nostre speranze, non avremo da piangere a un tempo la sua vita e la sua morte, non esacer-

beremo i nostri dolori col ricordo di quelli che gli avremo cagionati; diremo fra noi: « Almeno egli ha goduto la sua infanzia; noi non gli abbiamo fatto per-

LIBRO

455

TERZO

dere nulla di ciò che la natura gli aveva dato ». Il grande inconveniente di questa prima educazione è ch’essa non può esser giudicata se non dagli uomini chiaroveg-

una sera a passeggiare col suo istitutore e con lui in una pianura ove alcuni sco lari si divertivano a far andare degli aquiloni. Il padre, per incidenza, disse al figlio: « Dov'è l’aquilone di cui ve-

tanta cura, degli occhi volgari non vedono che un birichino. Un precettore pensa al suo interesse più che a quello del suo discepolo; egli si sforza di provare che non perde il suo tempo, e che guadagna bene il danaro che gli si dà; lo provvede di una esperienza di facile sfoggio e che si possa mostrare quando si vuole; non importa che ciò che gl'insegna sia utile, purché sia facilmente visibile. Egli accumula senza scelta, senza discernimento, cento guazzabugli nel-

alzare la testa, il fanciullo rispose: « Sulla strada maestra ». E infatti, aggiunge-

genti, e che, in un fanciullo allevato con

la sua memoria.

Quando

si tratta di esa-

minare il fanciullo, gli si fa sua merce; egli la mette in è contenti, poi ripiega la sua ne va. Il mio allievo non è non

non

ha

ha

balle

nulla

di

da

merce

spiegate la mostra, si balla e se così ricco,

da

distendere,

mostrare

se

non

diamo va

l'ombra? ».

milord

caratterizzano?

Ve

ne

sono,

maestra

era

L'indomani mandò all’istitutore l'atto di una pensione vitalizia, oltre al suo stipendio. Che uomo quel padre! E qual figlio gli era promesso! La domanda è adeguata all'età: la risposta è molto semplice; ma vedete quale chiarezza di giudizio infantile essa suppone! È così che l'allievo* di Aristotile addomesticava quel celebre corsiero che nessuno sei diero aveva potuto domare.

se

sì,

la strada

senza

rola, abbraccia il figlio, e, terminando là il suo esame, se ne va senza dir nulla.

FINE

Ove sono gli osservatori che sappiano afferrare al primo colpo d'occhio i tratti lo

Hyde,

esitare,

fra il sole e noi. Il padre, a questa pa-

stesso. Ora un fanciullo, come anche un uomo, non si vede in un momento.

che

Senza

DEL

LIBRO

LIBRO

SECONDO

TERZO

ma ve ne sono pochi; e sopra centomila padri, non se ne troverà uno di questo numero. Le domande troppo moltiplicate annoiano e disgustano tutti, a più forte ragione i fanciulli. In capo ad alcuni mi.

Sebbene fino all'adolescenza tutto il corso della vita sia un tempo di debolezza, c'è un punto, nella durata della prima età, in cui avendo il progresso delle forze oltrepassato quello dei bisogni, l'animale crescendo, ancora assolu-

ascoltano più ciò che un ostinato interrogatore domanda loro, e non rispondono più che a caso. Questa maniera di esaminarli è vana e pedantesca; spesso una parola presa a volo dipinge meglio il loro senso e il loro spirito di quello che farebbero lunghi discorsi: ma bisogna badare che questa parola non sia né ispirata né fortuita. Dobbiamo aver molto giudizio noi stessi per apprezzate quello di un fanciullo. Ho udito raccontare al defunto milord

zione. Non essendo i suoi bisogni tutti sviluppati, le sue forze attuali sono più che sufficienti per provvedere a. quelli che ha. Come uomo egli sarebbe molto debole, come fanciullo è molto forte. Donde nasce la debolezza dell’uomo? Dall’ineguaglianza che si t:ova fra la sua forza ed i suoi desideri. Sono le nostre passioni che ci rendono deboli, per-

nuti

la

loro

attenzione

si

stanca,

non

Hyde che un suo amico, ritornato dall’Italia dopo tre anni di assenza, volle

esaminare i progressi di suo figlio, in età dai nove ai dieci anni. Essi vanno

tamente

ché,

per

debole,

diventa

contentarle,

ci

forte

per

rela-

occorrerebbero

più forze di quelle che ci ha dato la natura. Diminuite dunque i desideri, è come se voi aumentaste le forze: colui che può più che non desideri, ne ha d’avanzo; egli è certamente un essere fortissimo. Ecco il terzo stato della fan-

EMILIO

456 ciullezza, quello di cui debbo

ora par-

non li tradisse. Perfino nelle nostre cit-

per mancanza di un termine proprio che lo esprima; poiché questa età si avvi-

maniscalchi, sono robusti quasi quanto i loro padroni, e non sarebbero meno destri se fossero stati esercitati a tempo. Se c’è della differenza e convengo che ce ne sia, essa è molto più piccola, lo ripeto, di quella che passa fra i desideri ardenti di un uomo e i desideri limitati di un fanciullo. D'altronde, qui non è questione solamente di forze fisiche, ma soprattutto della forza e della capacità dello spirito, che le supplisce o le dirige. Questo intervallo in cui l'individuo può più di quello che desidera, benché non sia il tempo della sua massima

lare. Continuo cina

all'adolescenza,

quella della A dodici fanciullo si damente che lento,

a chiamarlo

ancora

il più

senza

fanciullezza,

essere ancora

pubertà. o tredici anni le forze del sviluppano assai più rapii suoi bisogni. Il più vio-

fatto

terribile

sentire

bisogno,

in

lui;

stesso resta nell'imperfezione,

non

si è

l'organo

e sembra,

per uscirne, aspettare che la sua volontà ve lo forzi. Poco sensibile alle ingiurie dell'aria e delle stagioni, egli le affronta senza pena; il suo calore nascente gli tien luogo di abito; il suo appetito gli tien luogo di condimento; tutto ciò che può nutrire è buono alla sua

età;

dato

da

se

ha

terra e dorme; tutto

sonno,

si distende

per

si vede ovunque circon-

ciò che

gli è necessario;

nessun bisogno immaginario lo tormenta; l'opinione non può nulla su di lui; i suoi desideri non vanno più lontano delle sue braccia: non solo può bastare a se stesso, ma ha forze superiori a quelle che gli occorrono; è il solo tempo della sua vita in cui si troverà in questo caso. Prevedo l’obiezione. Non si dirà che il fanciullo abbia maggiori bisogni di quelli ch'io gli dò, ma si negherà ch'egli abbia la forza che gli attribuisco: non si penserà ch'io parlo del mio allievo, e non di quei fantocci ambulanti che viaggiano da una camera all’altra, che lavorano in una cassa e portano dei carichi di cartone. Mi si dirà che la forza virile non si manifesta che con la virilità; che gli spiriti vitali, elaborati nei vasi convenienti e sparsi per tutto il corpo, possono soli dare ai muscoli la consistenza, l'attività, il tono, l'elasticità, da cui risulta una vera forza. Ecco

la filosofia del gabinetto; ma io mi appello all’esperienza. Vedo nelle vostre campagne dei grandi ragazzi lavorar la terra,

fare la seconda

aratura,

condurre

l’aratro, caricare una botte di vino, guidare la vettura precisamente come il loro padre: si prenderebbero per degli uomini, se il suono della loro voce

tà,

giovani

forza

operai,

fabbri,

assoluta, è, come

fabbriferrai,

ho detto, quello

della sua massima forza relativa. È il tempo più prezioso della vita, tempo che non viene che una volta sola; tempo assai breve, e tanto più breve, come

si vedrà in seguito, quanto più gl’importa di impiegarlo bene. Cosa farà egli dunque di questa eccedenza di facoltà e di forze che ora ha di troppo e che gli mancherà in un’altra età? Egli procurerà di impiegarla in cure che gli possano giovare in caso di necessità;

getterà,

per così

dire,

nel.

l'avvenire il superfluo del suo essere attuale: il fanciullo robusto farà delle provviste per l’uomo debole; ma non stabilirà i suoi magazzini né nelle casse che gli possono

essere rubate, né nei

granai che gli sono estranei;

per impa-

dronirsi veramente del suo sapere, è nelle sue braccia, nella sua testa, è in

se stesso che lo collocherà. Ecco dunque il tempo dei lavori, delle istru zioni, degli studi: e notate che non sono io che faccio arbitrariamente questa

scelta,

è

la

natura

stessa

che

l'in-

dica. L'intelligenza umana ha i suoi li miti; e non soltanto un uomo non può saper tutto, ma non può neppure sapere interamente il poco che sanno gli altri uomini. Poiché la contradittoria di ogni proposizione falsa è una verità, il numero delle verità è inesauribile come quello degli errori. C'è dunque una scelta tanto nelle cose che si de-

LIBRO

457

TERZO

vono insegnare, quanto nel tempo adatto ad impararle. Delle cognizioni che

sono a nostra portata, le une sono false, le altre sono inutili, e altre ancora

servono a nutrire l'orgoglio di colui che le ha. Il piccolo numero di quelle che contribuiscono realmente al nostro benessere è il solo degno delle ricerche d'un uomo saggio, e per conseguenza d’un fanciullo che si voglia render tale. Non si tratta di sapere quello che è, ma soltanto ciò che è utile!, Da questo piccolo numero bisogna sottrarre ancora le verità che richiedono,

per

essere

comprese,

un

intellet-

to già tutto formato; quelle che suppongono la conoscenza dei rapporti dell'uomo, che un fanciullo non può acquistare; quelle che, benché vere in se stesse, dispongono un’anima inesperta a pensare falsamente su altri soggetti.

Eccoci ridotti a un ben ristretto circolo relativamente all'esistenza delle cose; ma quale sfera immensa forma ancora questo circolo per la misura dello spirito di un fanciullo! Tenebre dell'intelletto umano, quale mano temeraria osò toccare il vostro velo? Quanti abissi vedo scavare dalle nostre vane scienze intorno a questo giovane sfortunato! O tu che stai per condurlo attraverso questi pericolosi sentieri e per alzare davanti ai suoi occhi la tenda sacra

della

natura,

trema!

Assicurati

bene dapprima della sua e della tua testa; temi ch'essa non giri all'uno o all’altro,

e

forse

cordati,

ricordati

a

tutti

e

due.

Temi

l'allettamento specioso della menzogna e i vapori inebrianti dell'orgoglio. Riincessantemente

che

l'ignoranza non ha mai fatto del male,

che

l'errore

solo

è funesto,

e che

non

ci si smarrisce per quello che non si sa, ma per quello che si crede di sapere. I suoi progressi nella geometria vi potrebbero servire di prova e di misura certa per lo sviluppo della sua intelligenza: ma tosto che può discernere ciò che è utile e ciò che non lo è, fa d'uopo usare molta circospezione e

molta arte per condurlo agli studi speculativi. Voleté, per esempio, ch'egli cerchi una media proporzionale fra due linee? Cominciate col fare in modo che abbia bisogno di trovare un quadrato eguale ad un rettangolo dato: se si trattasse di due medie proporzionali, bisognerebbe dapprima interessarlo al problema della duplicazione del cubo, ecc. Vedete in qual modo ci avviciniamo gradatamente alle nozioni morali che distinguono il bene e il male. Fin qui non abbiamo conosciuto altra legge che quella della necessità: ora noi abbiamo riguardo per ciò che è utile; arriveremo presto a ciò che è conveniente e buono. Il medesimo istinto anima le diverse facoltà dell’uomo. All’attività del corpo che cerca di svilupparsi, succede l’attività dello spirito che cerca d’istruirsi. Dapprima i fanciulli non sono che turbolenti, poi sono curiosi; e questa curiosità ben diretta è il movente dell'età cui siamo pervenuti. Distinguiamo sempre le inclinazioni che vengono dalla matura da quelle che provengono dall'opinione. C'è un ardore di sapere il quale non è fondato che sul desiderio di essere stimato sapiente; ce n'è un altro che nasce da una curiosità naturale all'uomo per tutto ciò che può interessarlo da vicino o da lontano. Il desiderio innato del benessere e l'im. possibilità di sodisfare pienamente questo desiderio gli fanno ricercare senza tregua nuovi mezzi di contribuirvi. Tale è il primo principio della curiosità; principio naturale al cuore umano, ma il cui sviluppo non si fa che in proporzione delle nostre passioni e delle nostre cognizioni. Supponete un filosofo relegato in un'isola deserta con degli strumenti e dei libri, sicuro di passarvi solo il resto dei suoi giorni; egli non si darà più alcun pensiero del sistema del mondo, delle leggi dell’attrazione, del calcolo differenziale: non aprirà forse, in tutta la sua vita, un solo libro; ma non si asterrà mai dal

visitare la sua isola fino all’ultimo angolo riposto, per quanto grande possa essere. Respingiamo dunque ancora dai

458

EMILIO

nostri primi studi le cognizioni il cui gusto non è naturale nell'uomo, e limitiamoci a quelle che l’istinto ci porta a cercare. L'isola del genere umano è la terra; l'oggetto che colpisce di più i nostri occhi è il sole. Appena comincia-

sé; che non impari la scienza, ma l'inventi. Se mai sostituirete nel suo spirito l'autorità alla ragione, egli non ragionerà più; non sarà più che il giocattolo dell'opinione degli altri. Voi volete insegnare la geografia a questo fanciullo, e gli andate a cercare

prime osservazioni devono cadere sull’una o sull’altro. Anche la filosofia di quasi tutti i popoli selvaggi si aggira unicamente intorno a divisioni immaginarie della terra e intorno alla divinità del sole. Che deviazione! si dirà forse. Dianzi non eravamo occupati che di ciò che

Perché tutte queste rappresentazioni? Perché non cominciate col mostrargli l'oggetto stesso, affinché egli sappia almeno di che cosa gli parlate? Una bella sera si va apasseggiare in

mo

ad

allontanarci

da

noi,

le

ci tocca, di ciò che ci circonda diatamente; eccoci ad un tratto

nostre

immea per-

correre il globo e a saltare alle estremità dell'universo! Questa deviazione è l’effetto del progresso delle nostre forze e della tendenza del nostro spirito. Nello stato di debolezza e d’insufficienza, la cura di concentra in noi stessi;

conservarci nello stato

ci di

potenza e di forza, il desiderio di estendere il nostro essere ci porta al di là, e ci fa slanciare tanto lontano quanto ci è possibile: ma siccome il mondo intellettuale

il nostro

dei

nostri

so

misura.

ci

è

pensiero occhi,

ancora

e

non

sconosciuto,

va più lontano

il nostro

intelletto

non si estende che con lo spazio ch'esTrasformiamo

idee,

ma

non

le nostre sensazioni in

saltiamo

di un

tratto da-

gli oggetti sensibili agli oggetti intel. lettuali. È per mezzo dei primi che dobbiamo arrivare agli altri. Nelle prime operazioni dello spirito, siano i sensi le sole sue guide. Nessun altro libro

che

il mondo,

nessun'altra

istru-

zione che i fatti. Il fanciullo che legge non pensa, esso non fa che leggere; non si istruisce, impara delle parole. Rendete il vostro allievo attento ai fenomeni

della

natura,

ben presto curioso; la

sua

curiosità,

non

e

lo

renderete

ma, per alimentare vi

affrettate

mai

a sodisfarla. Mettete le questioni a sua portata, e lasciategliele risolvere. Ch'egli non sappia nulla perché glielo avete detto voi, ma perché l’ha compreso da

globi,

un

bene

sfere,

luogo

carte...

quante

favorevole,

in cui

scoperto

te il sole

lascia vedere

che

tramonta,

macchine!

l’orizzonte

interamen-

e si osservano

gli oggetti che rendono riconoscibile il punto del suo tramonto. L'indomani,

per

respirare

il

fresco,

si

ritorna

aumenta,

l’orien-

allo stesso luogo prima che il sole sorga. Lo si ved= annunciarsi da lontano per gli sprazzi di fuoco che lancia davanti

a sé. L’incendio

te sembra tutto in fiamme: al loro splendore si aspetta a lungo l’astro prima che si mostri; ad ogni istante si crede vederlo apparite; finalmente lo si vede. Un punto brillante parte come un lampo, e riempie subito tutto lo spazio; il velo delle tenebre si scansa e cade. L’uomo riconosce il suo soggiorno, e lo trova abbellito. Il verde delle piante

ha preso,

durante

la notte,

un vigore nuovo; il giorno nascente che lo rischiara, i primi raggi che lo indorano, lo mostrano coperto d'un brillante strato di rugiada, che riflette all'occhio la luce e i colori. Gli uccelli

in coro

me

si riuniscono,

il padre

mento

della vita;

nessuno

tace;

resto

della

e salutano

in questo

il loro

insie-

mo-

cinguettio,

debole ancora, è più lento e più dolce che

nel

giornata;

risente

del languore d'un tranquillo risveglio. Il concorso di tutti questi oggetti porta ai sensi una impressione di freschezza che sembra penetrare fin nell’anima. È una mezz'ora d’incanto, al quale nessun uomo resiste: uno spettacolo così grande, così bello, così delizioso non lascia nessuno indifferente. Pieno

maestro

dell'entusiasmo

vuole

che

comunicarlo

al

prova,

il

fanciul-

LIBRO

459

TERZO

lo: crede di commuoverlo rendendolo attento alle sensazioni da cui è commosso egli stesso. Quale - sciocchezza! Solo nel cuore dell’uomo è la vita dello spettacolo della natura; per vederlo, bisogna sentirlo. Il fanciullo scorge gli oggetti; ma non può scorgere i rapporti che li legano, non può intendere la dolce armonia del loro concerto. Occorre un'esperienza ch'egli non ha acquistata,

occorrono

dei

sentimenti

che

non ha provati, per sentire l’impressione complessa che risulta a un tempo da tutte queste sensazioni. Se non ha percorso per lungo tempo delle aride pianure, se le sabbie ardenti non hanno bruciato i suoi piedi, se il riflesso soffocante delle rocce battute dal sole non lo ha mai oppresso, come gusterà l'aria fresca di una bella mattina? Come il profumo

dei fiori, l'incanto del verde

dei campi, l’umido vapore della rugiada, il camminare molle e dolce sul tappeto erboso, affascineranno i suoi sensi? Come potrà il canto degli uccelli cagionargli un’emozione voluttuosa, se gli accenti dell'amore e del piacere gli sono ancora sconosciuti? Con quale entusiasmo vedrà spuntare una così bella giornata, se la sua immaginazione non saprà dipingergli quelle gioie di cui si può riempirla? Infine come si potrà egli intenerire sulla bellezza dello spettacolo della natura, se ignora qual mano ebbe cura di abbellirlo? Non tenete al fanciullo dei discorsi che non può intendere. Niente descrizioni,

niente

eloquenza,

niente

figure,

niente poesia. Non si tratta ora né di sentimento né di gusto. Continuate a essere chiaro, semplice e freddo; non verrà che troppo presto il tempo di prendere un altro linguaggio. Allevato nello spirito delle nostre massime,

avvezzo

a trarre

tutti i mezzi

da se stesso e a non ricorrere mai ad altri se non dopo aver riconosciuta la sua

insufficienza,

ogni

nuovo

oggetto

che vede lo esamina a lungo senza dir nulla. È riflessivo, non importuno. Conrentatevi dunque di presentargli in buon punto gli oggetti; poi, quando vedrete

la sua curiosità sufficientemente occupata, fategli qualche domanda laconica che lo metta sulla via di risolverla. In tale occasione, dopo aver ben contemplato con lui il sole che sorge, dopo avergli fatto notare dalla medesima parte le montagne e gli altri oggetti vicini, dopo averlo lasciato ragionare su di ciò a sua volontà, restate per alcuni minuti in silenzio come un uomo che mediti, e poi ditegli: « Penso che ieri sera il sole è tramontato là e che di là invece è sorto questa mattina. Come può accadere ciò? ». Non aggiungete niente di più: se vi fa delle domande, non rispondetegli; parlate di altre cose. Lasciatelo

a se stesso, e siate sicuro

maniera,

il

che ci penserà. Perché un fanciullo si avvezzi ad essere attento e sia ben colpito da qualche verità sensibile, bisogna che essa gli dia alcuni giorni di inquietudine prima ch'egli la scopra. Se egli non afferra abbastanza questa verità in tal c'è

mezzo

di

rendergliela

ancora più sensibile, e questo mezzo è di rigirare la domanda. Se non sa come il sole arrivi dal suo tramonto al suo sorgere, sa almeno come esso arriva

dal

suo

sorgere

al suo

tramonto;

i

soli occhi glielo apprendono. Chiarite dunque la prima domanda con l'altra: o il vostro allievo è assolutamente stupido, o l'analogia è troppo chiara per potergli sfuggire. Ecco la sua prima lezione di cosmografia. Siccome noi procediamo sempre lentamente d’idea sensibile in idea sensibile, ci familiarizziamo a lungo con la medesima, prima di passare a un'altra, e infine non forziamo mai il nostro allievo ad essere attento, ci corre troppo da questa prima lezione alla conoscenza del corso del sole e della figura della terta: ma siccome tutti i movimenti apparenti dei corpi celesti dipendono dallo stesso principio, e la prima osservazione conduce a occorrono meno sforzi,

tutte le altre, benché ci sia

bisogno di maggior tempo, per arrivare da una rivoluzione diurna al calcolo delle eclissi, che per arrivare a ben capire il giorno e la notte.

EMILIO

460 Poiché il sole gira attorno al mondo, esso descrive un circolo, e ogni circolo deve avere un centro; sappiamo già ciò. Questo centro non può vedersi, poi-

ché è nel cuore della terra; ma si possono notare sulla superficie due punti opposti che gli corrispondono. Uno spiedo

lungato

passando

dall'altra,

fino

sarà

per

i tre

l’asse

del

al cielo

da

punti

una

mondo

e pro-

parte

e

e del

movimento giornaliero del sole. Un girlo rotondo girante sulla sua punta rappresenta il cielo girante sul suo asse, le due punte del girlo sono i due poli: il fanciullo sarà molto contento di conoscerne uno; io glielo mostro alla coda dell'Orsa Minore. Ecco del divertimento per la notte; a poco a poco ci si familiarizza con le stelle, e di qui masce il primo gusto di conoscere i pianeti e di osservare le costellazioni. Abbiamo visto levarsi il sole a San Giovanni;

lo

vedremo

anche

levarsi

a

Natale o in qualche altro bel giorno d'inverno; poiché si sa che non siamo pigri e ci facciamo un giuoco di affrontare il freddo. Ho cura di fare questa seconda osservazione nel medesimo luogo in cui abbiamo fatto la prima; e, mediante qualche destrezza per preparare

l'osservazione,

l'uno

o

l'altro

non

e

esso

mancherà di esclamare; « Oh! oh! questa sì che è graziosa! Il sole non sorge più al medesimo posto! Qui ci sono le nostre

antiche

si è levato

indicazioni,

là », ecc.

C'è

ora

dunque

un

oriente d’estate, e un oriente d’inverno », ecc... Giovane maestro, eccovi sul-

la buona via. Questi esempi vi debbono bastare per insegnare molto chiaramente la sfera celeste,_ prendendo il mondo per il mondo, e il sole per il sole. In generale, non sostituite mai il segno alla cosa, se non quando vi è impossibile di mostrarla; poiché il segno assorbe l'attenzione del fanciullo e gli fa dimenticare la cosa rappresentata. La sfera armillare mi sembra una macchina mal composta, ed eseguita in cattive proporzioni. Quella confusione

di circoli,

e le bizzarre

figure che

vi si

notano, le danno l'aspetto di un libro di magia che spaurisce la mente dei

fanciulli. La terra è troppo piccola, i cerchi sono troppo grandi, troppo numerosi;

alcuni,

come

i coluri, sono

per-

fettamente inutili; ogni cerchio è più largo della terra; lo spessore del cartone dà loro un aspetto di solidità che li fa prendere per delle masse circolari realmente esistenti; e quando voi dite al fanciullo che questi cerchi sono immaginari, egli non sa quello che vede e non capisce più nulla. Noi non sappiamo mai metterci al posto dei fanciulli; non entriamo nelle loro idee, ma prestiamo loro le nostre; e, seguendo sempre i nostri ragionamenti, con delle catene di verità non

accumuliamo se non stravaganze ed errori nella loro testa. Si disputa sulla scelta dell’analisi o della sintesi per studiare le scienze. Non c'è sempre bisogno di scegliere. Talvolta si può risolvere e comporre nelle medesime ricerche, e guidare il fanciullo col metodo dell'insegnamento quando egli crede solo di analizzare. Allora, adoperando nello stesso tempo l'uno e l’altro metodo,

essi servirebbero

di prova l’uno all’altro. Partendo a un tempo dai due punti opposti, senza pensare di far la stessa strada, egli sarebbe assai sorpreso di ritrovarsi col medesimo risultato, e questa sorpresa non potrebbe che essere molto piacevole.

Vorrei,

per

esempio,

prendere

la

geografia con questi due termini, e aggiungere allo studio delle rivoluzioni del globo la misura delle sue parti, a cominciare dal luogo ove si abita. Mentre il fanciullo studia la sfera e si trasporta in tal modo nei cieli, riportatelo alla divisioni della terra, e mostrategli” dapprima il suo soggiorno. I suoi due primi punti di geografia saranno la città ove dimora e la casa di campagna di suo padre; poi i luoghi intermedi,

indi

i fiumi

della

vicinanza,

in mano

che

sa o stima

infine l'aspetto del sole e il modo di orientarsi. È qui il punto di ricongiungimento. Ch'egli faccia da sé la carta di tutto ciò, una carta semplicissima e dapprima formata di due soli oggetti, ai quali aggiunga a poco a poco gli altri, di mano

LIBRO

461

TERZO

la loro distanza e la loro posizione. Vedete già qual vantaggio gli abbiamo procurato anticipatamente, mettendogli un compasso negli occhi. Malgrado

ciò,

senza

dubbio,

biso-

gnerà guidarlo un poco, ma pochissimo, senza che appaia. Se sbaglia, lasciatelo fare, non correggete i suoi errori;

aspettate

in

silenzio

che

sia

in

grado di vederli e di correggerli da sé,

o tutt'al più, in una occasione favorevole, introducete qualche operazione

che glieli faccia sentire. Se non sbagliasse mai, non imparerebbe così bene. Del resto, non si tratta ch'egli sappia esattamente la topografia del paese, ma il mezzo di istruirsene; poco importa che abbia delle carte nella testa, purché concepisca bene ciò che esse rappresentano ed abbia una idea chiara dell’arte che serve a tracciarle. Vedete già la differenza che c'è tra il sapere dei vostri allievi e l'ignoranza del mio! Essi conoscono le carte, e lui le fa. Ecco nuovi ornamenti per la sua camera. Ricordatevi sempre che lo spirito della mia educazione non è d’insegnare al

fanciullo

molte

cose,

gli;

non

ne

trarrete

ma

di

non

la-

sciar mai entrare nel suo cervello che idee giuste e chiare. Quand'anche non sapesse nulla, poco importa, purché non s'inganni; e io non metto delle verità nella sua testa se non per garantirlo dagli errori che imparerebbe in loro vece. La ragione, il giudizio vengono lentamente, i pregiudizi accorrono in folla, ed è da questi che bisogna preservarlo. Ma se avete in vista la scienza in se stessa, entrate in un mare senza fondo, senza riva, tutto pieno di scove

mai.

Quando

vedo un uomo preso dall'amore delle cognizioni lasciarsi sedurre al loro incanto e correre dall'una all'altra senza sapersi fermare, credo di vedere un fanciullo sulla riva intento ad ammassare delle conchiglie e cominciare a caricarsene; poi, tentato da quelle che vede ancora, gittarne via, riprenderne, finché, oppresso dalla loro moltitudine e non sapendo più cosa scegliere, finisce

col buttar vuoto. Durante lungo: noi derlo, per Qui

via tutto e se ne ritorna

è tutto

a

la prima età, il tempo era non cercavamo che di perpaura di impiegarlo male. il contrario,

e non

ne

ab-

rapidamente,

ha

biamo abbastanza per fare tutto ciò che sarebbe utile. Pensate che le passioni si avvicinano e che, appena picchieranno alla porta, il vostro allievo non avrà più attenzione che per esse. L’età tranquilla della intelligenza è così

breve,

passa

così

tanti altri usi necessari, che è una pazzia pretendere che essa basti a rendere un fanciullo sapiente. Non si tratta d’insegnargli le scienze, ma di dargli il gusto di amarle e dei metodi per apprenderle, quando questo gusto sarà sviluppato meglio. È questo certissimamente un principio fondamentale di ogni buona educazione. Ecco anche il tempo di avvezzarlo a poco a poco a prestare un'attenzione continua al medesimo soggetto: ma non è mai la violenza, è sempre il piacere o il desiderio che deve produrre questa attenzione; bisogna aver gran cura che essa non lo opprima e non vada fino alla noia. Guardate dunque sempre attentamente; e, qualunque cosa accada, lasciate tutto prima che si annoi; poiché non importa mai tanto ch’egli impari quanto importa che non faccia niente suo malgrado. Se egli stesso vi fa delle domande, rispondete quanto occorre per mantener desta la sua curiosità, non per sodisfarla: soprattutto, quando vedete che, invece di domandare per istruirsi, si mette a vaneggiare e ad opprimervi di domande sciocche, fermatevi subito, sicuro che allora egli non si preoccupa più della cosa, ma solo di assoggettarvi alle. sue interrogazioni. Bisogna avere meno riguardo alle parole che pronunzia che al motivo che lo fa parlare. Questo avvertimento, fin qui meno necessatio, diventa della massima impor. tanza appena il fanciullo comincia a ragionare. C'è una catena di verità generali per la quale tutte le scienze dipendono da

EMILIO

462 alcuni principi comuni successivamente:

e si sviluppano

questa catena

è il me-

todo dei filosofi. Ma non è di questo che si tratta qui. Ce n'è uno tutto diverso, per il quale ogni oggetto particolare ne attira un altro e mostra sempre quello che lo segue. Quest'ordine, che

alimenta,

con

una

cutiosità

conti-

nua, l'attenzione che tutti gli oggetti esigono, è quello che seguono la maggior parte degli uomini, e soprattutto quello che occorre ai fanciulli. Orientandoci per rilevare le nostre carte, ci è occorso di tracciare delle meridiane. Due punti d’intersezione fra le ombre eguali del mattino e della sera danno una meridiana eccellente per un astranomo di tredici anni. Ma queste meridiane spariscono, occorre del tempo per tracciarle; esse obbligano a lavorare sempre nel medesimo luogo: tante cure,

tanto

disturbo

l'annoterebbero

in-

fine. L'abbiamo preveduto; vi provvediamo in antecedenza ?, Eccomi di nuovo nei mici lunghi e minuziosi particolari. Lettori, sento i vostri mormorii e li affronto: non voglio sacrificare alla vostra impazienza la parte più utile di questo libro. Prendete la vostra risoluzione sulle mie lun. gaggini; poiché, per me, ho già preso la mia sulle vostre lagnanze. Da molto tempo ci eravamo accorti, io e il mio allievo, che l’ambra, il vetro, la cera, diversi corpi strofinati at-

tiravano le pagliuzze e che altri non le attiravano. Per caso ne troviamo uno che ha una virtù ancora più singolare: cioè di attirare a qualche distanza, © senza essere strofinato, la limatura ed altri pezzetti di ferro. Quanto tempo questa qualità ci diverte, senza che possiamo vederci niente di più! Infine troviamo che essa si comunica al ferro stesso,

calamitato

giorno

andiamo

in

un

certo

alla fiera *;

senso?.

un

Un

gioca-

* Non ho potuto fare a meno di ridere leg-

gendo una fine critica del signor Formey su questo piccolo racconto: « Questo giocatore di bussolotti, dice, che si picca di emulazione verso un fanciullo e fa un grave predicozzo al suo istitutore è un individuo del mondo degli Emilii ». Lo spiritoso signor Formey non ha po-

tore di bussolotti attira, con un pezzo di pane, un’anatra di cera galleggiante in una catinella di acqua. Molto sorpresi, noi non diciamo pertanto: « È uno stregone », poiché non sappiamo cosa sia uno stregone. Continuamente colpiti da effetti di cui ignoriamo le cause, non ci affrettiamo a giudicare di nulla, e restiamo tranquilli nella nostra ignoranza, fin quando troviamo l'occasione di uscirne. Di ritorno a casa, a forza di parlare dell’anatra

della

fiera,

ci

metteremo

in

capo di imitarla: prendiamo un buon ago ben calamitato, lo circondiamo di cera bianca, che foggiamo, meglio che possiamo,

in forma

di anatra,

in modo

che l'ago attraversi il corpo e la testa faccia da becco. Posiamo sull’acqua l’anatra, avviciniamo al becco un anello di chiave, e vediamo, con una gioia fa-

cile a comprendere, che la nostra anatra segue la chiave, precisamente come l'anatra della fiera seguiva il pezzo di pane. Osservare in quale direzione l’anatra si ferma sull'acqua quando viene lasciata in riposo, è cosa che potremo fare un'altra volta. Quanto al presente, tutti assorti nel nostro oggetto, non ne vogliamo di più. Fin dalla stessa sera ritorniamo alla fiera con del pane preparato nelle no stre tasche; e, appena il giocatore di bussolotti ha fatto il suo giro, il mia piccolo dottore, che a fatica si conte neva, gli dice che quel giuoco non è

difficile, e che

egli stesso

farà

altrettan-

to. È preso alla parola: cava subito di tasca il pane ove è nascosto il pezzo di ferro;

avvicinandosi

alla

tavola,

il cuo-

re gli batte; presenta il pane quasi tremando; l'anatra viene e lo segue: il fanciullo getta un grido e non sta in sé dalla gioia. Ai battimani, alle acclamazioni dell'assemblea, la testa gli gira, egli è fuori di sé. Il giocoliere interdetto va tuto supporre che questa piccola scena era pre-

parata e che il giocoliere era edotto della parte che doveva rappresentare; ecco infatti quello

che non ho detto. Ma quante volte, al contrario, ho dichiarato che non scrivevo per la gente alla quale occorreva dire tutto!

LIBRO

TERZO

frattanto

463

ad abbracciarlo,

a felicitarlo, e

lo prega di onorarlo ancora l'indomani della sua presenza, aggiungendo che avrà cura di raccogliere maggior quantità di gente ancora per applaudire alla sua abilità. Il mio piccolo naturalista inorgo-

glito vuole ciarlare; ma subito gli chiudo la bocca, e lo riconduco

via colmato

di elogi. Il fanciullo, fino al giorno dopo, conta i minuti con una risibile inquietudine. Invita tutti quelli che incontra; vorrebbe che tutto il genere umano fosse testimonio della sua gloria; aspetta l’ora con pena, la precorre: si vola all'appuntamento; la sala è già piena. Entrando, il suo giovane cuore si effonde. Altri giuochi devono precedere; il giocatore di bussolotti supera se stesso e fa delle cose sorprendenti. Il fanciullo non vede nulla di tutto ciò; si agita, suda, respira

appena; passa il tempo a palpare in tasca il suo pezzo di pane con una mano tremante d'impazienza. Finalmente arriva il suo turno; il giocoliere lo annunzia al pubblico con pompa. Egli si avvicina un po’ vergognoso, tira fuori il suo pane... Nuova vicissitudine delle co-

se umane!

L’anatra,

così

addomesticata

il giorno avanti, è diventata oggi selvaggia; invece di presentare il becco, volta la coda e fugge; evita il pane e la mano che lo presenta con tanta cura quanta ne metteva prima a seguirli. Dopo mille tentativi inutili e sempre urlai, il fanciullo si rammarica, dice che lo si inganna, che è un'altra anatra che è stata sostituita alla prima, e sfida il giocatore di bussolotti ad attirarla. Il giocatore di bussolotti, senza rispondere, prende un pezzo di pane, lo presenta

all’anatra;

immediatamente

l'ana-

tra segue il pane e va verso la mano che lo ritira. Il fanciullo prende lo stesso pezzo di pane; ma, lungi dal riuscire meglio di prima, vede che l'anatra si burla di lui, e fa delle piroette intorno al bacino: si allontana infine tutto confuso e non osa più esporsi alle urlate, Allora il giocatore di bussolotti prende il pezzo di pane che il fanciullo aveva portato e se ne serve con altrettan-

to successo che del suo: ne ritira il fer-

ro

davanti

a tutti,

altra

risata

alle

no-

stre spalle; poi, con questo pane così vuotato, attira l'anatra come prima. Fa la medesima cosa con un altro pezzo tagliato davanti a tutti da una terza mano; fa altrettanto col suo guanto; con la punta del suo dito; infine va nel mezzo

della camera

e, col tono

enfatico

proprio di quella gente, dichiarando che la sua anatra non obbedirà meno alla sua voce che al suo gesto, le parla e l'anatra obbedisce; le dice di andare a destra ed essa va a destra, di ritornare e ritorna, di girare e gira; il movimento è pronto come l’ordine. Gli applausi raddoppiati sono altrettanti affronti per noi. E ci squagliamo senza essere visti, rinchiudendoci nella nostra camera senza andare a raccontare i nostri successi a tutti, come avevamo progettato. Il giorno dopo si bussa alla nostra porta: apro; è l'uomo dai bussolotti. Si lagna modestamente della nostra condotta. Cosa ci aveva egli fatto per obbligarci a volere screditare i suoi giuochi e a togliergli il mezzo per guadagnarsi da vivere? Cosa c'è dunque di così meraviglioso nell’arte di attirare un’anatra di cera, per comprare questo onore a costo della vita di un uomo onesto? « In parola mia, signori, se avessi qualche altro talento per vivere, non mi glorificherei affatto di questo. Voi avreste dovuto credere che un uomo, il quale ha passato tutta la sua vita ad esercitarsi in questa misera industria, ne sa intorno ad essa più di voi che non ve ne occupate che solo per alcuni momenti. Se a tutta prima non vi ho mostrato i miei colpi da maestro, si è che non bisogna affrettarsi a sfoggiare storditamente tutto ciò che si sa; io ho sempre cura di conservare i miei migliori esercizi per l'occasione, e dopo questi ne ho ancora altri per fermare i giovani indiscreti, Del resto, signori, vengo volentieri ad insegnarvi questo segreto che vi ha tanto imbarazzati, pregandovi di non abusarne per nuocermi e di essere più guardinghi un'altra volta ». Allora ci mostra la sua macchina e vediamo, con la più gran sorpresa, che

464

EMILIO

consiste solo in una calamita forte e ben

munita, che un fanciullo, nascosto sotto la tavola, faceva muovere, senza che al-

cuno se ne accorgesse. L'uomo ripiega la sua macchina; e, dopo avergli fatto i nostri ringraziamenti e le nostre scuse, vogliamo fargli un regalo;

ho

da

egli lo rifiuta. « No, signori, non

lodarmi

abbastanza

di voi

per

accettare i vostri doni; vi lascio obbligati verso di me vostro malgrado; è la

mia sola vendetta. Sappiate che c'è della generosità in tutte le condizioni; io fo pagare i miei giuochi e non le mie lezioni ». Uscendo, egli rivolge a me in modo particolare e ad alta voce un rimprovero: « Scuso volentieri, mi dice, questo fanciullo; egli non ha peccato che per ignoranza. Ma voi, signore, che dovevate conoscere il suo errore, perché glielo avete lasciato fare? Poiché vivete insieme, voi, come il più attempato, gli dovete le vostre cure, i vostri consigli; la vostra esperienza è l’autorità che deve condurlo. Rimproverandosi, quando sarà

grande,

i

torti

della

sua

gioventù,

vi rinfaccerà, senza dubbio, quelli cui non l'avrete avvertito » *, Parte,

lasciandoci

tutti

e due

di

molto

confusi, Io mi biasimo per la mia fiacca facilità; prometto al fanciullo di sacrificarla un’altra volta al suo interesse, e di avvertirlo dei suoi errori prima che ne faccia; poiché il tempo si avvicina in cui i nostri rapporti stanno per cambiare, e in cui la severità del maestro deve succedere alla compiacenza del compagno; questo cambiamento deve avvenire per gradi; bisogna prevedere tutto, e prevedere tutto di molto lontano. Il giorno dopo ritorniamo alla fiera * Ho forse dovuto supporre qualche lettore abbastanza stupido da non sentire in questo rimprovero un discorso dettato parola per parola dall'istitutore per arrivare ai suoi disegni? Si è dovuto supporre me stesso abbastanza stupido per mettere naturalmente nella bocca di un giocoliere questo linguaggio? Credevo di aver dato prova almeno di talento abbastanza mediocre per far parlare la gente secondo la mentalità del proprio stato. Si veda anche la

per rivedere il giuoco di cui abbiamo imparato il segreto. Ci avviciniamo con un profondo rispetto al nostro giocoliere Socrate; osiamo appena alzar gli occhi su di lui: ci colma di cortesie e ci dà posto con una distinzione che ci umi. lia ancora. Fa i suoi giuochi come al solito; ma si diverte e si compiace a lungo con quello dell’anatra, guardandoci spesso con aria piuttosto altera. Noi sappiamo tutto e non fiatiamo. Se il mio allievo osasse solo aprire la bocca, sarebbe

un

fanciullo

da

schiacciare.

Tutti i particolari di questo esempio sono più importanti di quello che si crede. Quante lezioni in una sola! Quante conseguenze mortificanti attira il primo

movimento di vanità! Giovane maestro, spiate questo primo movimento con cu-

ra. Se sapete farne uscire in tal modo

l'umiliazione,

le disgrazie **,

siate sicu-

ro che egli non ne caverà, per lungo tempo, un secondo. Quanti preparativi!

direte voi. Ne

convengo,

e tutto questo

ecc. Spesso, attenti notiamo infine che

attorno al bal’anatra in ri-

per farci una bussola che ci tenga luogo di meridiana. Avendo imparato che la calamita agisce attraverso gli altri corpi, non abbiamo nulla di più urgente che di fare una macchina simile a quella che abbiamo vista: una tavola incavata, un bacino molto piatto adattato su questa tavola, e riempito di alcune linee di acqua, un’anatra fatta con un po’ più di

cura, cino,

poso mantiene presso a poco sempre la medesima direzione. Seguiamo questa

esperienza,

esaminiamo

questa

di-

rezione: troviamo che è dal sud al nord. Non ce ne occorre di più; la nostra bussola è trovata, o poco manca; eccoci nel campo della fisica.

fine del capoverso seguente. Non era forse dire

tutto per chiunque altro che non fosse il signor Formey? ** Questa umiliazione, queste disgrazie sono di mia fattura e non di quella del giocoliere. Poiché il signor Formey voleva, me vivente, impadronirsi del mio libro e farlo stampare senz'altro levando il mio nome per sostituirlo col suo, doveva almeno prendersi il disturbo, non dico di comporlo, ma di leggerlo‘.

LIBRO Ci

465

TERZO

sono

diversi

climi

sulla

terra,

e

diverse temperature in questi climi. Le stagioni variano più sensibilmente di mano in mano che ci si avvicina al polo; tutti i corpi si restringono al freddo e si dilatano al caldo; questo effetto è più misurabile nei liquori, e più sensibile nei liquori spiritosi: di qui il termometro. Il vento colpisce il viso, l’aria è dunque un corpo, un fluido; la si sente, quantunque non si abbia alcun mezzo per vederla. Rovesciate un bicchiere nell’acqua, l’acqua non lo riempirà, a meno che non lasciate all’aria un'uscita; l’aria è dunque capace di resistenza. Immergete di più il bicchiere, l'acqua guadagnerà nello spazio d’aria, senza poter riempire interamente que. sto spazio; l’aria è dunque capace di compressione fino a un certo punto. Un pallone riempito di aria compressa balza meglio che riempito di ogni altra materia; l’aria è dunque un corpo elastico. Stando disteso nel bagno, sollevate orizzontalmente il braccio fuori

dell’acqua,

lo

sentirete

caricato

di

un

devono zione

risultarne. Per la mia prima le-

di statica, invece

di andare

a cer-

car delle bilance, metto un bastone di traverso sulla spalliera di una sedia, misuro la lunghezza delle due parti del bastone in equilibrio, vi aggiungo da una parte e dall’altra dei pesi, ora uguali, ora disuguali: e, tirandolo o spingendolo per quanto è necessario, trovo infine che l'equilibrio risulta da una proporzione reciproca fra la quantità dei pesi e la lunghezza delle leve. Ecco già il mio piccolo fisico capace di rettificare delle bilance prima di averne viste. Certamente si prendono delle nozioni assai più chiare e molto più sicure delle cose che s'imparano così da sé, che di quelle che si ricavano dagli insegnamenti altrui; e, oltre che non si avvezza affatto la propria ragione a sottomettersi

servilmente

all’autorità,

ci

si rende più ingegnosi a trovare dei rapporti, a legare delle idee, a inventare degli strumenti, che quando, adottando tutto

ciò

così

come

ci

si dà,

lasciamo

peso terribile; l’aria è dunque un corpo pesante. Mettendo l'aria in equilibrio

soccombere

peso: di qui il barometro, il sifone, la cerbottana, la macchina pneumatica. Tutte le leggi della statica e dell’idrostatica si trovano per mezzo di esperienze anche così grossolane. Non voglio che si entri per niente di tutto ciò in un gabinetto di fisica sperimentale: tutto quell’apparato di strumenti e di macchine mi dispiace. L’aria scientifica uccide la scienza. O tutte quelle macchine spaventano un fanciullo o le loro figure dividono e sottraggono l’attenzione ch’egli dovrebbe porgere ai loro effetti. Voglio che noi stessi facciamo tutte le nostre macchine, e non voglio cominciare col fare lo strumento prima dell'esperienza; ma voglio che dopo avere intravisto l’esperienza come per caso, noi inventiamo a poco a poco lo strumento che deve verificarla. Preferisco che i nostri strumenti non siano così perfetti e così giusti e che noi abbiamo delle idee più precise di ciò che devono essere e delle operazioni che

domestici e trascinato dai suoi cavalli, perde alla fine la forza e l’uso delle sue membra. Boileau si vantava di avere insegnato a Racine a rimare difficilmente. Fra tanti ammirabili metodi per abbreviare lo studio delle scienze, avremmo gran bisogno che qualcuno ce ne desse uno per impararle con sforzo. Il vantaggio più sensibile di queste lente e laboriose ricerche è di mantene-

con

altri

fluidi,

se

ne

può

misurare

il

il nostro spirito nella non-

curanza, come il corpo di un uomo che, sempre vestito, calzato, servito dai suoi

re,

in mezzo

corpo nella sua la loro agilità, mente le mani all'uomo. Tanti guidarci nelle plire

alla

agli

studi

speculativi,

il

attività, le membra nele di abituare incessanteal lavoro e agli usi utili strumenti inventati per nostre esperienze e sup-

giustezza

dei

sensi,

ne

fanno

trascurare l'esercizio. Il grafometro dispensa dallo stimare la grandezza degli angoli; l'occhio che misurava con precisione le distanze si affida alla catena che le misura per lui; la stadera mi esen-

ta dal giudicare con la mano il peso che conosco per mezzo di essa. Quanto

EMILIO

466 più i nostri utensili sono ingegnosi, tanto più i nostri organi diventano grossolani e inetti: a forza di raccogliere del. le macchine intorno a noi, non ne troviamo più in noi stessi”. Ma quando mettiamo, per costruire queste macchine, la destrezza che ce ne faceva le veci, quando adoperiamo nel farle l’acutezza che occorreva per farne a meno,

noi

guadagniamo

senza

perder

nulla, aggiungiamo l’arte alla natura, e diventiamo più ingegnosi senza divenire meno accorti. Se invece di inchiodare un fanciullo sui libri, l’occupo in un’officina, le sue mani lavorano a profitto del suo spirito: egli diventa filosofo e crede di non essere che un operaio. Infine questo esercizio ha altri usi di cui parlerò qui appresso; e si vedrà come, dai giuochi della filosofia, ci si può innalzare alle vere funzioni dell’uomo. Ho già detto che le cognizioni puramente speculative non convengono ai fanciulli, anche se prossimi all’adolescenza: ma, senza farli entrare molto innanzi nella fisica sistematica, fate frattanto

in modo che tutte le loro esperienze si leghino l'una all'altra con qualche specie di deduzione, affinché, per mezzo di questa catena, essi possano disporle per ordine nella loro mente e richiamarsele al bisogno; poiché è molto difficile che dei fatti e perfino dei ragionamenti isolati rimangano a lungo nella memoria, quando manchi l’appiglio per ricondurveli. Nella ricerca delle leggi della natura, cominciate sempre dai fenomeni più comuni e più sensibili, e avvezzate il vostro allievo a non prendere questi fenomeni per delle ragioni, ma per dei fatti. Prendo una pietra, fingo di posarla nell'aria; apro la mano, la pietra cade. Guardo Emilio attento a quello che faccio, e gli dico: « Perché questa pietra è caduta? ». Qual fanciullo rimarrà in asso a questa domanda?

Nessuno, neppure Emilio,

se non avrò avuto gran cura di prepararlo a non sapervi rispondere. Tutti diranno che la pietra cade, perché è pesante. E che cosa è pesante? Ciò che cade. La pietra cade dunque perché ca-

de? Qui il mio piccolo filosofo si ferma per davvero. Ecco la sua prima lezione

di

fisica

sistematica;

e,

sia

che

essa gli giovi o no in questo genere, sarà sempre una lezione di buon senso. Di mano in mano che il fanciullo progredisce in intelligenza, altre considerazioni importanti ci obbligano a una scelta più rigorosa nelle sue occupazioni. Appena egli perviene a conoscere abbastanza se stesso per concepire in che consista il suo benessere, appena può afferrare dei rapporti abbastanza estesi per giudicare di ciò che gli conviene e di ciò che non gli conviene, si trova già in condizione di sentire la differenza che c'è fra il lavoro e il divertimento, e di non considerare quest'ultimo che come il sollievo del primo. Allora degli oggetti di utilità reale possono entrare nei suoi studi, e impegnarlo a darvi un'applicazione più costante di quella ch'egli dava a semplici divertimenti. La legge della necessità, sempre rinascente, insegna presto all’uomo a fare ciò che non gli piace, per prevenire un male che gli dispiacerebbe di più. Questo

è l’uso della previdenza;

e da questa previdenza, bene o male regolata, nasce tutta la saggezza o tutta la miseria umana. Ogni

uomo

vuole

essere

felice;

ma,

per arrivare ad esserlo, bisognerebbe cominciare col sapere cos'è la felicità. La felicità dell’uomo naturale è tanto semplice quanto la sua vita; consiste nel non soffrire: la salute, la libertà, il necessario,

la

costituiscono.

La

felicità

dell'uomo morale è altra cosa: ma non è di questa che si parla qui. Non ripeterò mai abbastanza che non vi sono che degli oggetti puramente fisici che possano interessare i fanciulli, specialmente quelli dei quali non si è risvegliata la vanità,

e che

non

sono

stati anticipata-

mente corrotti col veleno dell'opinione. Quando, prima di sentire i loro bisogni, essi li prevedono, la loro intelligenza è già molto progredita, e cominciano a conoscere il valore del tempo. Occorre allora abituarli a dirigerne l’impiego sopra degli oggetti utili, ma di una utilità sensibile alla loro età, e alla portata

LIBRO

467

TERZO

delle loro cognizioni. Tutto quello che dipende dall’ordine morale e dall’uso della società non deve affatto esser loro presentato subito, poiché essi non sono in condizioni d’intenderlo. È una sciocchezza esigere da loro che si applichino a delle cose che vagamente si dice essere per il loro bene, senza che sappiano quale sia questo bene, e da cui si assicura che trarranno profitto divenuti grandi, senza che prendano ora alcun interesse a questo preteso profitto, che non possono comprendere. Che il fanciullo non faccia nulla sulla parola: niente è bene per lui, se non quello che sente esser tale. Forzandolo a studiare sempre ciò che sorpassa l’intelligenza della sua età, voi credete di usare la previdenza e invece ne mancate. Per armarlo di alcuni vani strumenti,

di cui non farà forse mai uso, gli togliete lo strumento più universale dell'uomo,

che

è il buon

senso;

lo avvez-

zate a lasciarsi sempre guidare, a non essere sempre che una macchina nelle mani altrui. Voi volete ch’egli sia docile essendo piccolo; è volere ch'egli sia credulo e minchione quando sarà grande. Gli dite continuamente: «Tutto ciò che vi domando è per il vostro vantaggio; ma voi non siete in grado di conoscerlo. Cosa m'importa che voi facciate o no quello ch'io esigo? È per voi solo che lavorate ». Con tutti questi bei discorsi che gli tenete ora per renderlo saggio, preparate il successo di quelli che gli terrà qualche giorno un visionario, un alchimista, un ciarlatano, un furfante, o un pazzo qualsiasi, per prenderlo in trappola o per fargli adottare la sua pazzia. Occorre che un uomo sappia molte cose di cui un fanciullo non può comprendere l’utilità; ma bisogna forse ed è possibile che un fanciullo impari tutto ciò che importa a un uomo di sapere? Procurate d'insegnare al fanciullo quello

che

è utile

alla

sua

età,

e vedrete

che tutto il suo tempo sarà più che occupato. Perché volete, a danno degli studi che gli convengono oggi, applicarlo a quelli di un'età alla quale è

così poco sicuro di arrivare?

Ma,

direte,

avrà egli il tempo d'imparare ciò che si deve sapere quando sarà venuto il momento di farne uso? Lo ignoro: ma quello che so, è che è impossibile d’impararlo più presto; poiché i nostri veri maestri sono l'esperienza e la sensazione,

e mai

l’uomo

sente bene

ciò che

conviene all'uomo se non nei rapporti in cui si è trovato. Un fanciullo sa che è fatto per diventare uomo; tutte le idee che può avere dello stato d'uomo, sono occasioni d’istruzione per lui; ma sulle idee di questo stato che non sono a sua portata deve restare in una ignoranza assoluta. Tutto il mio libro non è che una prova continua di questo principio di educazione. Appena siamo pervenuti a dare al nostro allievo una idea della parola utile, abbiamo un grande appiglio di più per governarlo; poiché questa parola lo colpisce molto, in quanto che essa non ha per lui che un senso relativo alla sua età, ed egli ne vede chiaramente il rap porto col suo benessere attuale. I vostri fanciulli non sono punto colpiti da questa parola, poiché voi non avete avuto cura di dar loro un'idea che sia a loro portata, e poiché incaricandosi altri sempre di provvedere a ciò che è loro utile, essi non hanno mai bisogno di pensarci da sé, e non sanno cosa sia utilità. « A che serve ciò? », Ecco oramai le parole sacre, le parole determinanti fra lui e me in tutte le azioni della nostra vita: ecco la domanda che, da parte mia,

segue infallibilmente tutte le sue domande, e che serve di freno a quelle moltitudini d’interrogazioni sciocche e fastidiose con cui i fanciulli stancano senza posa e senza frutto tutti quelli che li circondano, più per esercitare sopra di essi una specie d'impero che per trarne qualche vantaggio. Colui al quale, per sua più importante lezione, s’insegna a non voler sapere che ciò che è utile, interroga come Socrate; egli non fa neppure una domanda senza darsene da se stesso quella ragione che sa che gli sarà chiesta prima di risolverla. Vedete qual potente strumento vi metto fra le mani per agire sul vostro

EMILIO

468 allievo. Non conoscendo le ragioni di nulla, eccolo quasi ridotto al silenzio quando vi piaccia; e quale vantaggio le vostre cognizioni e la vostra esperienza non vi danno invece per mostrargli l’utilità di tutto quello che gli proponete! Poiché, non v’illudete, il fargli questa domanda vuol dire insegnargli a farvela a sua volta;

e voi dovete

per tutto quello seguito, seguendo non mancherà di cIÒ? ». È questo forse ad evitare per un

domanda

del

calcolare che,

che gli proporrete in il vostro esempio, egli dire: « A che serve

il tranello più difficile istitutore. Se, dietro la

fanciullo,

nel

cercare

di

tirarvi d'impaccio, voi gli date una sola ragione ch'egli non sia in grado di capire, vedendo che ragionate sulle vostre idee e non sulle sue, egli crederà ciò che gli dite buono per la vostra età, e non per

la sua;

non

si fiderà

più

di voi, e

tutto è perduto. Ma dov'è il maestro che voglia rimanere in asso e convenire dei suoi torti verso l'allievo? Tutti si fanno una legge di non convenire nemmeno di quelli che hanno; ed io me ne farci una di convenire anche di quelli che non avessi, qualora non potessi mettere le mie ragioni alla sua portata: cosicché la mia condotta, sempre netta nel suo spirito, non gli sarebbe mai sospetta, ed io mi conserverci maggior credito attribuendomi degli errori, di quello che gli altri non facciano nascondendo i loro. In primo luogo, pensate bene che raramente tocca a voi il proporgli ciò che deve imparare; sta a lui il desiderarlo, cercarlo,

trovarlo,

e

a

voi

metterlo

a

sua portata, far ‘nascere scaltramente questo desiderio e fornirgli i mezzi per sodisfarlo. Ne segue perciò che le vostre domande devono essere poco frequenti,

ma

bene

scelte;

e che,

siccome

ne avrà da ‘fare molte più lui a voi che voi a lui, sarete sempre meno allo scoperto, e vi troverete più spesso nel ca* Ho spesso notato che, nelle dotte istruzioni che si danno ai fanciulli, si pensa a fatsi ascoltare meno da essi che dalle persone auto-

so di dirgli: « In che è utile a sapersi quello che mi domandate? ». Di più, siccome importa poco ch'egli impari questa o quella cosa, purché concepisca bene quello che impara e l’uso di ciò che impara, subito che non avete da dargli, su quello che dite, uno schiarimento che gli sia utile, non gliene date affatto. Ditegli senza scrupolo: «Non ho una buona risposta da darvi; avevo

torto,

lasciamo

andare ».

Se

il

vostro insegnamento era realmente fuor di proposito, non c'è alcun male ad abbandonarlo del tutto; se non lo era, con

un po’ di cura troverete ben presto l’occasione di rendergliene sensibile l’utilità. Non mi piacciono le spiegazioni fatte a base di discorsi; i giovani vi prestano poca attenzione e non li ritengono affatto. Le cose! le cose! Non ripeterò mai abbastanza che noi diamo troppa influenza alle parole: con la nostra

educazione

ciarlona,

non

facciamo

che dei chiacchieroni*. Supponiamo che, mentre studio col mio allievo il corso del sole e il modo di orientarsi, egli m’interrompa tutto a un tratto per domandarmi a che serva tutto questo. Che bel discorso gli farò! Di quante cose colgo l'occasione per istruirlo rispondendo alla sua domanda, specialmente se abbiamo dei testimoni alla nostra conversazione! * Gli parlerò dell'utilità dei viaggi, dei vantaggi del commercio, delle produzioni particolari a ogni clima, dei costumi dei diversi popoli, dell'uso del calendario, del calcolo del ritorno delle stagioni per l’agricoltura,

dell’arte

della

navigazione,

della maniera di condursi sul mare e di seguire esattamente la propria rotta, senza sapere dove si è. La politica, la storia naturale, l'astronomia, la morale stes-

sa e il diritto delle genti entreranno nella mia spiegazione, in modo da dare al mio allievo una grande idea di tutte queste scienze e un grande desiderio revoli

che

sono

presenti.

Sono

sicurissimo di

quello che dico, poiché ne ho fatto l'osservazio

ne su me stesso.

LIBRO

469

TERZO

d'impararle. Quando avrò detto tutto, avrò fatto lo sfoggio d’un vero pedante, del quale non avrà capito una sola idea. Avrebbe una grande voglia di domandarmi, come prima, a cosa serva l’orientarsi; ma non osa, per paura ch'io vada in collera. Trova maggior tornaconto a fingere d'intendere ciò che è stato forzato ad ascoltare. Così si praticano le belle educazioni. Ma il nostro Emilio, più rusticamente allevato, e al quale diamo con tanta pena

una

salda

concezione,

non

ascolterà

nulla di tutto ciò. Alla prima parola che non capirà se ne andrà via, ruzzerà nella sua camera, lasciandomi a perorare solo solo. Cerchiamo una soluzione più grossolana; il mio apparato scientifico non val nulla per lui. Osservavamo la posizione della foresta al nord di Montmorency, quando egli mi ha interrotto con la sua domanda importuna: « A che serve ciò? ». « Avete ragione, gli dico; bisogna pensarci con comodo; e se troveremo che questo lavoro

non

è buono

a nulla, non

lo ri-

prenderemo più, perché non ci mancano i divertimenti utili ». Ci si occupa d'altro, e per tutto il resto della giornata non si parla più di geografia. La mattina seguente gli propongo di fare due passi prima di colazione: egli non domanda di meglio; per correre, i fanciulli sono sempre pronti, e questo mio ha buone gambe. Saliamo fino alla foresta, percorriamo i prati, ci sperdiamo, non sappiamo più dove siamo; e, quando si tratta di ritornare, non pos-

siamo più ritrovare la nostra strada. Il tempo passa, sopravviene il caldo, abbiamo

fame;

ci affrettiamo,

erriamo

in-

vano da una parte e dall’altra, non troviamo dappertutto che boschi, cave, pianure, e nessun indizio per raccapezzarci. Tutti accalorati, affranti dalla fatica, affamati, altro non facciamo colle nostre

ceduo è una foresta per lui, un uomo della sua statura è seppellito nei cespugli. Dopo alcuni momenti di silenzio, gli dico con aria inquieta: « Mio caro Emilio, come faremo per uscire di qui? ». EMILIO

(grondando di sudore e piangendo a calde lacrime): Non ne so niente. Sono stanco: ho fame, ho sete; non ne posso più. GIAN-GIACOMO

Mi credete forse in miglior condizione di voi? E pensate voi ch'io mi asterrei dal piangere, se potessi far colazione con le mie lacrime? Non si tratta di piangere, si tratta di riaversi. Vediamo il vostro orologio; che ore sono? EMILIO

È

mezzogiorno,

e sono

digiuno.

GIAN-GIACOMO

È vero, giuno.

è mezzogiorno,

e sono

di-

EMILIO

Oh! che fame dovete avere! GIAN-GIACOMO

Il male è che il mio desinare non verrà a cercarmi qui. È mezzogiorno: è precisamente l’ora in cui osservavamo ieri da Montmorency la posizione della foresta. Se potessimo anche osservare dalla foresta la posizione di Montmorency?

EMILIO

Sì;

ma

ieri noi

vedevamo

la foresta,

corse che sperderci sempre più. Ci sediamo infine per riposarci, per deliberare. Emilio, ch'io suppongo allevato co-

e di qui non vediamo la città.

piange; non sa che siamo alle porte di Montmorency, e che un semplice bosco ceduo ce la nasconde; ma questo bosco

Ecco il male... Se potessimo fare a meno di vederla, per trovare la sua posizione! ...

me

un

altro

fanciullo,

non

delibera,

GIAN-GIACOMO

EMILIO

470 EMILIO Mio

buon

EMILIO

(battendo le mani e mandando un grido di gioia): Ah! vedo Montmorency! Eccola, da-

amico! GIAN-GIACOMO

vanti a noi, interamente visibile. Andiamo a far colazione, andiamo a desinare, corriamo presto; l'astronomia è

Non dicevamo che la foresta era... EMILIO

buona

AI nord di Montmorency. GIAN-GIACOMO

Per conseguenza Montmorency dev'essere... EMILIO AI sud della foresta. GIAN-GIACOMO

Noi abbiamo un mezzo il nord a mezzogiorno.

per

trovare

EMILIO

Sì, per l’ombra.

mezzo

della

direzione

del-

GIAN-GIACOMO Ma

EMILIO Come

fare? GIAN-GIACOMO

Il sud è l'opposto del nord. EMILIO

Ciò

è vero;

non

c'è

che

da

cercare

l'opposto dell'ombra. Oh! ecco il sud! ecco il sud! Certamente Montmorencyè da questa parte; cerchiamo da questa parte. GIAN-GIACOMO

Potete aver ragione; prendiamo questo sentiero attraverso il bosco. * Ad ogni spiegazione che si voglia dare al

fanciullo,

una

piccola

messa

mentre,

in

scena

che

la

se io non

avessi

quest’ulimporta, siate siper tutta giornata;

fatto che

fin-

gergli tutto ciò nella sua camera, il mio discorso sarebbe stato dimenticato fin dal giorno dopo. Bisogna parlare, più che si può, per mezzo delle azioni, e non dire che ciò che non si può fare. Il lettore non si aspetti ch’io lo disprezzi tanto da dargli un esempio su ogni specie di studio: ma, di qualunque cosa si tratti, non esorterò mai abbastanza l’istitutore a misurar bene la sua prova sulla capacità dell’allievo; poiché, ancora una volta, il male non sta in quello ch'egli non intende, ma in ciò ch’egli crede d'intendere. Mi

il sud?

a qualche cosa.

Badate che, se egli non dirà tima frase, la penserà; poco purché non sia io a dirla. Ora, curo ch'egli non dimenticherà la vita la lezione di questa

ricordo

che,

volendo

dare

a

un

tenendo

da-

fanciullo un po’ di simpatia per la chimica, dopo avergli mostrato parecchi precipitati metallici, gli spiegavo come si fa l'inchiostro. Gli dicevo che la sua nerezza proviene soltanto da un ferro diviso in minutissimi pezzi, distaccato dal vetriolo e precipitato per mezzo di un liquido alcalino. Nel mezzo della mia dotta spiegazione, il piccolo traditore mi fermò di botto con la domanda che gli avevo insegnata: eccomi molto imbarazzato. Dopo aver fantasticato un poco, presi il mio partito; mandai a prendere del vino nella cantina del padron di casa e dell'altro vino da otto soldi da un vinaio. Presi da una piccola fiala della so-

luzione

di alcali

fisso;

poi,

vanti a me, in due bicchieri, queste due diverse qualità di vino *, gli parlai così:

preceda serve molto a renderlo attento.

LIBRO

471

TERZO

« Si falsificano parecchie derrate per farle apparire migliori di quelle che sono. Queste falsificazioni ingannano l’oc-

chio e il gusto; ma sono nocive, e rendono la cosa falsificata, con la sua bella

apparenza, peggiore di quanto era prima. Si falsificano soprattutto le bevande, e particolarmente i vini, in quanto che l'inganno

è più

difficile

a conoscersi,

e

dà maggior profitto all’ingannatore. La falsificazione dei vini aspri o agti si fa col litargirio: il litargirio è una preparazione di piombo. Il piombo unito agli acidi forma un sale molto dolce, che corregge al gusto l’asprezza del vino, ma che è un veleno per quelli che lo bevono. Occorre dunque, prima di bere del vino sospetto, sapere se esso contenga o no del litargirio. Ora, ecco come ragiono per scoprire ciò. Il liquido del vino non contiene soltanto spirito infiammabile, come avete visto dall’acquavite che se ne estrae: esso contiene anche dell'acido, come potete conoscere dall’aceto e dal tartaro che pure se ne estrae. ° L'acido ha rapporto colle sostanze metalliche,

si unisce

ad

esse

per

disso-

luzione formando un sale composto, come, per esempio, la ruggine, la quale non è altro che un ferro disciolto dall'acido contenuto nell'aria o nell'acqua,

e come

anche

il verderame,

che

non

è

se non rame sciolto dall’aceto. Ma questo medesimo acido ha più rapporto ancora con le sostanze alcaline

che

con

le sostanze

metalliche,

di

modo che, per l’intervento delle prime nei sali composti di cui vi ho or ora parlato, l’acido è forzato a lasciar andare il metallo al quale è unito, per attaccarsi all'alcali. Allora

la

sostanza

metallica,

liberata

* I vini che si vendono al minuto dai vinai di Parigi, quantunque non siano tutti litargirati, sono raramente esenti da piombo, poi-

ché i banchi di questi mercanti sono forniti di questo metallo, ed il vino che si versa nella misura, passando e inc-igiando su questo piombo, ne scioglie sempre una piccola parte. È strano che un abuso così manifesto e così pe-

dell'acido che la teneva disciolta, precipita, e rende il liquore opaco. Se dunque uno di questi due vini è litargirato, il suo acido tiene il litargirio in dissoluzione. Versandovi del liquido alcalino, questo forzerà l'acido a cadere per unirsi ad esso; il piombo, non

essendo

più

tenuto

in dissoluzione,

riapparità, turberà il liquido, e precipiterà infine nel fondo del bicchiere. Se non c'è piombo * né alcun metallo nel vino, l'alcali si unirà tranquillamente ** all’acido, tutto resterà disciolto

e non si formerà alcun precipitato ». Poi versai un po’ del mio liquido alcalino successivamente nei due bicchieri: quello del vino di casa restò chiaro e diafano;

l’altro,

in un

momento,

di-

venne torbo, e in capo a un'ora si vide chiaramente il piombo precipitato in fondo al bicchiere. « Ecco,

ripresi, il vino

naturale e pu-

ro che sì può bere, ed ecco il vino falsificato che avvelena. Ciò si scopre per mezzo delle medesime cognizioni di cui mi chiedevate l'utilità; colui che sa bene come si fa l’inchiostro, sa anche co-

noscere i vini adulterati ». Ero molto contento del mio esempio, e tuttavia mi accorsi che il fanciullo non ne era per niente colpito. Ebbi bisogno di un po’ di tempo per sentire che non avevo commesso che una sciocchezza: poiché, senza parlare dell’impossibilità che a dodici anni un fanciullo potesse seguite la mia spiegazione, l’utilità di questa esperienza non entrava nella sua mente, poiché avendo assaggiato i due vini e trovandoli tutti e due buoni, non attribuiva alcuna idea a questa parola di falsificazione, che io pensavo di avergli così bene spiegata. Quelle altre parole malsano,

pure

alcun

veleno,

senso

per

non

lui;

avevano

egli

nep-

era,

a

ricoloso sia tollerato dalla polizia. È vero per altro che le persone agiate, non bevendo di quei vini, sono poco soggette ad essere avvelenate. ** L'acido vegetale è molto dolce. Se fosse un acido minerale, e fosse meno esteso, l'unione non si farebbe senza effervescenza.

.

472 questo proposito, nel caso dello del medico Filippo: è il caso di fanciulli. I rapporti degli effetti con le di cui non scorgiamo il nesso, i

storico tutti i cause beni e

i mali di cui non abbiamo alcuna idea, i

bisogni che non abbiamo mai sentiti, sono nulli per noi; è impossibile sentirci impegnati per cagion loro a non far nulla che vi si riferisca. Si vede a quindici anni la felicità d’un uomo saggio, come a trenta la gloria del paradiso. Se non si concepiranno bene l’una e l'altra, si farà poca cosa per acquistarle; e, ancorché si concepissero, si farà ancora poco se non

si desidereranno,

se non

si sen-

tiranno convenienti a sé. È facile convincere un fanciullo che quello che gli si vuole insegnare è utile: ma è inutile convincerlo se non si sa persuaderlo. Invano la tranquilla ragione ci fa approvare o biasimare, non c'è che la passione che ci faccia agire; e come appassionarsi per degli interessi che non si hanno

ancora?

Non mostrate mai nulla al fanciullo che non possa vedere. Mentre l'umanità gli è quasi estranea, non potendo elevarlo allo stato d'uomo, abbassate ‘per lui l'uomo allo stato di fanciullo. Pensando a ciò che gli può essere utile in un’altra età, non gli parlate che di quello di cui vede fin da ora l’utilità. Del resto, mai confronti con altri fanciulli, nessun concorrente, neppure alla corsa, appena comincia a ragionare: prefetisco cento volte ch'egli non impari affatto ciò che non imparerebbe se non per gelosia o per vanità. Soltanto noterò tutti gli anni i progressi che avrà fatto: li confronterò con quelli che farà l’anno seguente: gli dirò: « Siete cresciuto di tante linee; ecco il fosso che saltavate, il fardello che portavate; ecco la distanza alla quale lanciavate un sasso, il tratto che percorrevate in un sol fiato, ecc.j vediamo

ora ciò che farete ». Io lo

eccito così senza renderlo geloso di nessuno. Egli vorrà sorpassarsi, lo deve: non vedo nessun inconveniente ch'egli sia emulo di se stesso. Io odio i libri; essi non insegnano che a parlare di quello che non si sa?.

EMILIO

Si dice che Ermete

lonne

gli

incise su delle co-

elementi

delle

scienze,

per

si sarebbero

con-

mettere le sue scoperte al riparo da un diluvio. Se le avesse bene impresse nel. la testa degli

uomini,

servate per tradizione. Cervelli ben preparati sono quei monumenti in cui si scolpiscono più sicuramente le cognizioni umane. Non ci sarebbe mezzo di avvicinare tante lezioni sparse in tanti libri, di riunirle sotto un oggetto comune che potesse servire di stimolo, anche a questa età? Se si può inventare una situazione in cui tutti i bisogni naturali dell'uomo si mostrino in modo sensibile allo spirito di un fanciullo, e in cui i mezzi di provvedere a questi medesimi bisogni si sviluppino successivamente con la stessa facilità, è con la pittura viva e ingenua di questo stato che bisogna dare il primo esercizio alla sua immaginazione. Filosofo

la vostra.

ardente,

Non

vedo

già accendersi

fate lo splendido;

sta

situazione

è trovata,

che

la descrivereste

bri,

ne

que-

è descritta,

e,

senza farvi torto, assai meglio di quello voi

stesso,

almeno

con maggior verità e semplicità. Poiché ci occorrono assolutamente dei liesiste

uno

che

fornisce,

secon-

do me, il più felice trattato di educazione naturale. Questo libro sarà il primo che leggerà il mio Emilio; solo esso comporrà per molto tempo tutta la sua biblioteca, e vi terrà sempre un posto distinto. Sarà il testo per il quale tutte le nostre conversazioni sulle scienze naturali non serviranno che da commentario. Servirà di prova, durante i nostri progressi, allo stato del nostro giudizio; e, fino a che il nostro gusto non sarà guastato, la sua lettura ci piacerà sempre. Qual è dunque questo libro meraviglioso? È Aristotile? È Plinio? È Bufton? No; è Robinson Crusoe. Robinson

Crusoe

nella

sua

isola,

so-

lo, privo dell'assistenza dei suoi simili e degli strumenti di tutte le arti, provvedendo per altro alla sua sussistenza,

alla

sua conservazione,

e procu-

randosi perfino una specie di benessere: ecco un oggetto interessante per ogni

LIBRO

TERZO

473

età, e che con mille mezzi si può rendere piacevole ai fanciulli. Ecco come realizziamo

l'isola

deserta,

che

sociale;

verosimilmente

non

mi

serviva

dapprima di paragone. Questo stato non è, ne convengo, quello dell’uomo dev'essere

quello di Emilio: ma è su questo medesimo stato ch’egli deve apprezzare tutti gli altri. Il mezzo più sicuro di elevarsi al disopra dei pregiudizi e di regolare i propri giudizi sui veri rapporti delle cose, è di mettersi al posto di un

uomo

isolato,

e di giudicare

di

tut-

to come quest'uomo ne deve giudicare lui stesso, avuto riguardo alla propria utilità. Questo romanzo, sbarazzato da ogni suo guazzabuglio, cominciando dal naufragio di Robinson presso la sua isola, e terminando all’arrivo della nave che viene a tràrnelo, sarà a un tempo il divertimento e l'istruzione di Emilio durante l'epoca di cui ora si parla. Voglio che gliene vengano le vertigini, che si occupi incessantemente del suo castello, delle sue capre, delle sue piantagioni; che apprenda particolarmente, non nei libri, ma sulle cose, tutto quello che occorre sapere in caso simile; che pensi di essere egli stesso un Robinson; che si veda vestito di pelli, portante un gran

berretto,

una

grande

sciabola,

tut-

to il grottesco equipaggio della persona, eccetto il parasole, del quale non avrà bisogno. Voglio che si preoccupi delle misure da prendere, se questa o quella cosa venisse a mancargli; che esamini la condotta del suo eroe, che cerchi

se

non

ha

omesso

niente,

se

non

c'era nulla di meglio da fare; che noti attentamente gli errori e ne approfitti per non cadervi egli stesso in simili casi: poiché non dubitate punto ch'egli non si proponga di andare a fondare uno

stabilimento

simile;

è il vero

ca-

stello in aria di quella età beata, in cui non si conosce altra felicità che il necessario e la libertà. Quale risorsa questa follia per un uomo abile, il quale non l’ha saputa far nascere che solo per metterla a profitto! Il

fanciullo,

desideroso

di

farsi

delle

provviste per la sua isola, sarà più ar-

dente nell’imparare che non il maestro nell’insegnare. Vorrà sapere tutto quello che è utile, e non vorrà sapere che ciò: voi non avrete più bisogno di guidarlo, non avrete che da trattenerlo. Del

resto, affrettiamoci a stabilirlo in questa isola, mentre egli vi limita la sua felicità; poiché si avvicina il giorno in

cui, se ci vorrà vivere ancora, non vorrà

più viverci solo; e in cui Venerdì che ora non lo commuove punto, non gli basterà a lungo. La pratica delle arti naturali, alle quali può bastare un solo uomo, conduce

alla

ricerca

delle

arti

industriali,

le quali hanno bisogno del concorso di parecchie mani. Le prime possono essere esercitate dai solitari, dai selvaggi; ma le altre non possono nascere che nella società, e la rendono

necessaria.

Fin-

ché si conosce solo il bisogno fisico, ogni uomo

basta

a se

stesso;

l'introduzione

del superfluo rende indispensabile la divisione e la distribuzione del lavoro: poiché, quantunque un uomo, lavorando solo, non guadagni che la sussistenza di un uomo, cento uomini, lavorando

insieme, guadagneranno di che farne sussistere duecento. Appena dunque una parte degli uomini si riposa, bisogna che il concorso delle braccia di quelli che lavorano supplisca all'ozio di coloro che non fanno nulla?, La vostra cura maggiore dev'essere quella di allontanare dalla mente del vostro allievo tutte le nozioni delle relazioni sociali che non sono a sua portata: rna quando la concatenazione delle cognizioni vi costringa a mostrargli la mutua dipendenza degli uomini, invece di mostrargliela dal lato morale, diri gete dapprima tutta la sua attenzione verso

l’industria

e

le

arti

meccaniche,

che li rendono utili gli uni agli altri. Facendolo passare di officina in officina, non permettete ch’egli veda mai alcun lavoro senza mettere egli stesso la mano all'opera, né che ne esca senza sapere perfettamente la ragione di tutto quello che vi si fa, o almeno di ciò che ha osservato. Per questo,

tutto lavo-

rate voi stesso, dategli ovunque l'esempio: per renderlo maestro, siate ovun-

474

EMILIO

que apprendista; e calcolate che un’ora di lavoro gl’insegnerà più cose di quelle ch'egli ne riterrebbe con un giorno di spiegazioni. Vi è una stima pubblica annessa alle diverse arti in ragione inversa della loro

utilità

reale.

Questa

stima

si mi-

sura direttamente sulla loro stessa utilità, e ciò dev'essere. Le arti più utili sono quelle che guadagnano meno, poiché il numero degli operai si proporziona al bisogno degli uomini, e il lavoro necessario a tutti rimane forzatamente a un prezzo che il povero può pagare. Invece, quegli autorevoli che non sono chiamati

artigiani,

unicamente

ma

artisti, lavorando

per gli sfaccendati

e i ric-

chi, mettono un prezzo arbitrario alle loro inezie; e, siccome il merito di questi vani lavori non è che nell'opinione,

il loro prezzo medesimo fa parte di que-

sto merito, e vengono

stimati in propor-

zione di quello che costano. Il caso che ne fa il ricco non procede dal loro uso, ma dal fatto che il povero non può pagarli. Nolo habere bona, nisi quibus populus inviderit 9. Cosa diventeranno i vostri allievi, se lascerete adottar loro questo stupido pregiudizio, se lo favorirete voi stesso, se vi vedranno, per esempio, entrare con maggiori riguardi nella bottega di un orefice che in quella di un magnano? Qual giudizio si faranno del vero merito delle arti e del vero valore delle cose, quando vedranno che dappertutto il prezzo del capriccio è in contradizione col prezzo tratto dall’utilità reale, e che quanto più la cosa costa, tanto meno vale? Al primo momento che lascerete entrare

queste

idee

nella loro

testa, ab-

bandonate il resto della loro educazione; vostro malgrado essi saranno educati come tutti gli altri, e voi avrete perduto quattordici anni di cure. Emilio, pensando ad arredare la sua isola, avrà

altri modi

di vedere.

Robin-

son avrebbe fatto assai più conto della bottega di un fabbro ferraio che di tutte le bagattelle di Saido. Il primo gli sarebbe parso un uomo molto rispettabile, e l’altro un piccolo ciarlatano. «Mio figlio è fatto per vivere nel

mondo; egli non vivrà con dei saggi, ma con dei pazzi: bisogna dunque che conosca le loro pazzie, poiché è da queste che essi vogliono essere condotti. La conoscenza reale delle cose può essere buona, ma quella degli uomini e dei loro giudizi è ancora meglio; poiché, nella società umana, il più grande strumento dell’uomo è l’uomo, ed il più saggio è colui che meglio si serve di questo strumento. A che prò dare ai fanciulli l’idea d’un ordine immaginario affatto contrario a quello ch’essi troveranno stabilito, e sul quale bisognerà che si regolino? Date loro primieramente delle lezioni per essere saggi, e poi ne darete loro per giudicare in che cosa gli altri sono pazzi ». Ecco le massime speciose sulle quali la falsa prudenza dei padri lavora a rendere i loro figli schiavi dei pregiudizi di cui li nutriscono, e giocattoli essi stessi della turba insensata di cui pensano fare lo strumento delle loro passioni. Per pervenire a conoscere l'uomo, quante cose bisogna conoscere prima di lui! L'uomo è l’ultimo studio del

saggio,

e

voi

pretendete

farne

il

primo di un fanciullo! Prima di istruirlo sui nostri

sentimenti,

cominciate

dal-

l'insegnargli ad apprezzarli. È forse conoscere una follia il prenderla per la ragione? Per essere saggio bisogna distinguere ciò che non lo è. In che modo vostro figlio conoscerà gli uomini, se non saprà né valutare i loro giudizi né districare i loro errori? È un male sapere ciò ch’essi pensano, quando si ignora se ciò che pensano è vero o falso. Insegnategli dunque in primo luogo ciò che sono le cose in se stesse, e gli insegnerete dopo ciò che esse sono ai nostri occhi: è così ch'egli saprà confrontare l'opinione alla verità ed elevarsi al disopra del volgo; poiché non si conoscono affatto i pregiudizi quando si adottano, e non si governa punto il popolo quando gli si assomiglia. Ma se cominciate coll'istruirlo sull’opinio ne pubblica prima d'insegnargli ad apprezzarla, assicuratevi che, checché possiate

fare,

essa

diventerà

la sua,

e voi

non la distruggerete più. Concludo che,

LIBRO

475

TERZO

per rendere un giovane giudizioso, bisogna formare bene i suoi giudizi, invece di ispirargli i nostri. Voi vedete che fin qui non ho affatto parlato degli uomini al mio allievo; egli avrebbe avuto troppo buon senso per intendermi; le sue relazioni con la sua specie non gli sono ancora abbastanza sensibili, perché possa giudicare degli altri da sé. Non conosce altro essere umano

che sé solo, ed è anche mol-

to lontano dal conoscersi: ma, se porta pochi giudizi sulla sua persona, almeno non ne porta che di giusti. Egli ignora qual è il posto degli altri, ma sente il suo e vi si mantiene. Invece delle leggi sociali che non può conoscere, lo abbiamo legato con le catene della necessità, Non è quasi ancora che un essere fisico, continuiamo a trattarlo come

Per

mezzo

del

loro

rapporto

tale.

sensi-

bile con la sua utilità, la sua sicurezza, la sua conservazione, il suo benessere,

egli deve valutare tutti i corpi della natura e tutti i lavori degli uomini. Perciò il ferro dev'essere ai suoi occhi di un valore assai più grande dell’oro, e il vetro di un valore più grande del diamante: allo stesso modo egli onora assai

più

un

calzolaio,

molto

importante,

un

muratore,

e darebbe

tutta l’Ac-

che un Lempereur, un Le Blanc, e tutti i gioiellieri di Europa; un pasticcere è specialmente ai suoi occhi un uomo cademia delle scienze per il più piccolo confettiere della via dei Lombardi. Gli orefici, gl'incisori, gl’indoratori, i ricamatori

non

sono,

a suo

giudi-

zio, che dei fannulloni, i quali si divertono in giuochi perfettamente inutili; non fa neppure gran caso dell’orologeria. Il fortunato fanciullo gode del tempo senza esserne schiavo; ne approfitta e non ne conosce il valore. La cal. ma delle passioni, che rende per lui la successione sempre uguale, gli tien luogo di strumento per misurarlo al bisogno. Supponendogli un orologio, come pure facendolo piangere, io mi davo un Emilio volgare per essere utile e farmi capire; poiché, in quanto al vero, un fanciullo così diverso dagli

altri non servirebbe di esempio a niente.

C'è un ordine non meno naturale e più giudizioso ancora, per mezzo del quale si considerano le arti secondo i rapporti di necessità che le legano, mettendo in prima fila le più indipendenti, e all'ultima quelle che dipendono da un maggior numero di altre. Quest'ordine,

siderazioni nerale,

che

su

è simile

fornisce

quello

importanti

della

società

al precedente,

con-

ge-

e sotto-

messo allo stesso capovolgimento nella stima degli uomini; di modo che l’impiego delle materic prime vien fatto nei mestieri senza onore, quasi senza profitto, e quanto più esse cambiano di mano, tanto più la mano d'opera aumenta di prezzo e diventa onorevole. Io non esamino se è vero che l’ine dustria sia più grande e meriti maggiore ricompensa nelle arti minuziose che danno l’ultima forma a queste materie,

che

non

nel

primo

lavoro

che

le

converte all’uso degli uomini: ma dico che in ogni cosa l’arte il cui uso è più generale e più indispensabile, è incontestabilmente quella che merita maggiore stima, e che quella alla quale altre arti sono meno necessarie la merita ancora al disopra delle più subordinate, poiché è più libera e più vicina all'indipendenza. Ecco le vere regole pet l'apprezzamento delle arti e dell'industria;

tutto

il

resto

è

arbitrario

e dipende dall’opinione. La prima e la più rispettabile di tutte le arti è l'agricoltura: metterei la ferriera

in

seconda

linea,

la

lavorazione

del legno in terza, e così di seguito. Il fanciullo che non sarà stato punto sedotto dai pregiudizi volgari, giudicherà precisamente così. Quante riflessioni importanti non trarrà il nostro Emilio, a questo proposito, dal suo Robinson! Cosa penserà egli vedendo che le arti non si perfezionano che suddividendosi, che moltiplicando all'infinito gli strumenti delle une e delle altre? Egli dirà fra sé: « Tutte quelle persone sono stoltamente ingegnose: si crederebbe che hanno paura che le braccia e le dita servano loro a qualche cosa, tanti stru-

476

EMILIO

menti essi inventano per farne a meno. Per

esercitare

un'arte

sola,

essi

sono

assoggettati a mille altre: occorre una città ad ogni operato ». In quanto al mio compagno e a me, mettiamo il nostro genio nella nostra abilità; ci facciamo degli utensili che possiamo portare dappertutto con noi. Tutte quelle persone così fiere del loro talento in Parigi non saprebbero nulla nella nostra isola

e sarebbero,

mani

del

a

loro

volta,

nostri

apprendisti. Lettore, non vi arrestate a veder qui l'esercizio del corpo e la destrezza delle nostro

allievo;

ma

conside-

rate quale direzione noi diamo alle sue

curiosità infantili; considerate il senso, lo spirito inventivo, la previdenza;

considerate

qual

formando.

tutto

quello

In

cervello

tutto

che

ciò

gli

andiamo

che

vedrà,

farà, vorrà

in

conoscere

tutto, vorrà sapere la ragione di tutto; di strumento in strumento, vorrà sem-

pre risalire al primo; non ammetterà niente per supposizione; rifiuterebbe d’imparare ciò che richiedesse una conoscenza anteriore ch’egli non avesse:

pere

se vedrà

in

tratto

qual

dalla

fare

una

molla,

modo

vorrà

l'acciaio

miniera;

se

vedrà

è

sa-

stato

riunire

insieme i pezzi di una cassa, vorrà sapere come l’albero è stato tagliato; se lavorerà egli stesso, ad ogni utensile di cui

fra sé: le,

si servirà,

«Se

come

mi

non

non

mancherà

avessi

questo

regolerei

per

di dire

utensi-

farne

uno

ma

voi

senza

tre-

simile, o per farne a meno? ». Del resto, un errore difficile ad evitarsi nelle occupazioni per le quali il maestro si appassiona è il supporre sempre lo stesso gusto nel fanciullo: badate, quando il divertimento del lavoro vi conquista, ch'egli non si annoi nel frattempo senza osare di dichiararvelo. Il fanciullo deve essere unicamente

interessato

alla

dovete essere unicamente fanciullo,

osservarlo,

cosa;

interessato al

spiarlo

gua e senza che ciò appaia, anticipatamente tutti i suoi e prevenire quelli che non vare; occuparlo infine in non

soltanto

si

senta

utile

presentire sentimenti, deve promodo che, alla

casa,

ma che si compiaccia anche molto di ben capire a cosa serve quello che fa. La società delle arti consiste nello scambio d’industria, quella del commercio nello scambio delle cose, quella delle banche nello scambio di contrassegni e di danaro: tutte queste idee rimangono, e le nozioni elementari sono già acquisite; abbiamo gettato i fondamenti di tutto ciò fin dalla prima età, con l'aiuto del giardiniere Roberto. Non ci resta ora che generalizzare queste medesime idee ed estenderle a parecchi esempi, per fargli comprendere il meccanismo del traffico considerato

in se stesso, e reso

sensibile dai

particolari di storia naturale che riguardano le produzioni speciali ad ogni paese, dai particolari di arti e di scienze che riguardano la navigazione, infine dal più grande o più piccolo ostacolo nel trasporto, secondo la lontananza dei luoghi, secondo la situazione delle

terre, dei

scambio,

nessuno

Nessuna

società

mari,

può

dei

scambio

fiumi,

esistere

senza

ecc.

senza

misu-

ra comune, e nessuna misura comune senza eguaglianza. In questa maniera, ogni società ha per prima legge qualche eguaglianza convenzionale, sia negli uomini che nelle cose. L’eguaglianza convenzionale fra gli uomini, ben diversa dall’eguaglianza naturale, rende necessario il diritto positivo, cioè il governo e le leggi. Le cognizioni politiche di un fanciullo devono essere nette e limitate; egli non deve conoscere del governo in generale che quello che si riferisce al diritto di proprietà, di cui possiede già qualche idea. L’eguaglianza convenzionale fra le cose ha fatto inventare la moneta, poiché la moneta non è che un termine di paragone per il valore delle cose di diversa specie; e in tal senso la. moneta è il vero vincolo della società: ma tutto può essere moneta; una volta il bestiame lo era, e le conchiglie lo sono ancora presso parecchi popoli; il ferro fu moneta a Sparta, il cuoio lo è stato in Svezia, l'oro e l'argento lo sono fra noi.

LIBRO

TERZO

477

I metalli, essendo più facili a trasportarsi, sono stati generalmente scelti come termini medi di tutti gli scambi; e si sono convertiti questi metalli in moneta, per risparmiare la misura o il peso a ogni scambio; poiché il se-

gno

della

moneta

non

è

che

un’atte-

stazione che la moneta così segnata è di un tal peso; ed il principe solo ha il diritto

di

coniar

moneta,

atteso

che

egli solo ha il diritto di esigere che la sua testimonianza faccia autorità fra tutto un popolo. L'uso di questa invenzione, così spiegato, si fa capire al più stupido. È difficile confrontare immediatamente delle cose di natura diversa, per esempio, del panno con del grano; ma quando sì è trovata una misura comune, la moneta, è facile al fabbricante

cioè e al

contadino riferire il valore delle cose che vogliono scambiare a questa misura comune. Se tale quantità di panno vale tale somma di danaro e tale quantità di grano vale anche la medesima somma di danaro, ne segue che il mercante, ricevendo questo grano per il suo panno, fa uno scambio equo. In tal modo,

per

mezzo

della

moneta,

i beni

di

specie diverse diventano commensurabili e possono compararsi. Non andate più lontano di così, e non entrate nella spiegazione degli effetti morali di questa istituzione. In ogni cosa occorre esporre bene gli usi prima di mostrare gli abusi. Se pretendeste di spiegare ai fanciulli come i segni facciano trascurare le cose, come dalla moneta siano nate tutte le chimere dell'opinione, come i paesi ricchi di danaro debbano essere poveri di tutto, trattereste questi fanciulli non soltanto da filosofi, ma

da uomini

saggi, e

pretendereste far loro intendere ciò che perfino pochi filosofi hanno capito bene. Su quale abbondanza di oggetti interessanti non si può così rivolgere la

curiosità

di

un

allievo,

senza

allonta-

narsi mai dai rapporti reali e materiali che sono a sua portata, né tollerare che sorga nella sua mente una sola idea che non possa concepire! L'arte del macstro consiste nel non lasciar mai cadere

pesantemente le sue osservazioni su delle minuzie

che

non

conducono

a nulla,

ma nell'avvicinarlo incessantemente alle grandi relazioni ch'egli deve conoscere un giorno per ben giudicare del buono e del cattivo ordine della società civile. Bisogna saper combinare le conversazioni con cui lo si diverte con la piega dello spirito che gli si è dato. Una data domanda, che non potrebbe neppure sfiorare l'attenzione di un altro, tormen-

terà Emilio per sei mesi. Noi andiamo a desinare in una casa opulenta; troviamo i preparativi di un

banchetto,

molta

gente,

molti

servitori,

molti piatti, un servizio elegante e fine. Tutto questo apparato di piacere e di festa ha qualche cosa d'inebriante che va alla testa, quando non vi si è abituati. Prevedo già l’effetto di tutto questo sul mio giovane allievo. Mentre il banchetto si prolunga, mentre i servizi si succedono, mentre intorno alla tavola si fanno mille discorsi rumorosi, mi

avvicino al suo orecchio e gli dico: « Per quante mani pensate voi che sia passato tutto quello che vedete su questa tavola prima di arrivarvi? ». Quale folla d'idee risveglio nel suo cervello con queste poche parole! Ecco all'istante sfumati tutti i vapori del delirio! Egli fantastica,

riflette, calcola, s'inquie-

no,

loro

ta. Mentre

e

forse

fanno

i filosofi,

dalle

i fanciulli,

rallegrati

vicine,

eccolo,

dal

vi-

farneticano

lui,

solo

solo, a filosofare nel suo cantuccio: m’interroga; rifiuto di rispondere, rimando la cosa a un altro momento;

s'impazientisce,

e di bere,

arde

dimentica dal

di

desiderio

mangiare

di essere

fuori di tavola per intrattenermi a suo piacere. Quale oggetto per la sua curiosità! Quale testo per la sua istruzione! Con un giudizio sano che nulla ha potuto corrompere, cosa penserà egli del lusso, quando troverà che tutte le regioni del mondo sono state messe a contribuzione, che venti milioni di mani hanno forse lavorato a lungo, che esso ha costato la vita forse a migliaia di uomini, e tutto ciò per presentargli in pompa, a mezzogiorno, quello ch'egli

478

EMILIO

va a depositare, la sera, nel guardaroba? Spiate con cura le conclusioni segrete ch'egli trae nel suo cuore da tutte queste osservazioni. Se l'avete messo in guardia meno bene di quello che suppongo, può essere tentato di volgere le sue riflessioni in un altro senso, e di

considerarsi come un personaggio importante

nel

cure

nare.

Se

to, potete

che

mondo,

concorrono

vedendo

presentite

facilmente

lo faccia,

che

a preparargli questo

o almeno

tante

il desi-

ragionamen-

prevenirlo

prima

cancellarne

su-

bito l’impressione. Non sapendo ancora appropriarsi le cose che per mezzo di un godimento materiale, non può giudicare della loro convenienza o sconvenienza rispetto a Îui, se non per mezzo di rapporti sensibili. Il confronto di un desinare semplice e rustico, preparato dall'esercizio, condito dalla fame, dalla libertà,

dalla

gioia,

col

suo

banchetto

così magnifico e così compassato, basterà per fargli sentire che, tutto l’apparato del banchetto non avendogli dato alcun profitto reale, e uscendo il suo stomaco contento egualmente tanto dalla tavola del contadino quanto da quella

del

finanziere,

non

c’era

niente

di

più nell'uno che nell'altro ch'egli potesse chiamare veramente suo. Immaginiamo ciò che in simile caso un precettore potrà dirgli. « Ricordatevi bene questi due pasti, e giudicate in voi stesso quale avete fatto con maggior piacere; in quale avete notato maggior brio? In quale si è mangiato con più grande appetito, si è bevuto più al-

legramente,

si è riso più di cuore?

Qua-

le è durato più a lungo senza noia e senza aver bisogno di essere rinnovato con altri servizi? Frattanto vedete la differenza: questo pane bigio, che voi trovate così buono, viene dal grano raccolto da questo contadino; il suo vino nero e grossolano, ma dissetante e sano, viene dal terreno della sua vigna; * Il gusto che suppongo nel mio allievo per la campagna è un frutto naturale della sua educazione. D'altronde, non avendo nulla del modo di fare presuntuoso e ridicolo che piace. tanto

la biancheria viene dalla sua canapa, filata d'inverno dalla sua moglie, dalle sue

figlie,

dalla

sua

serva;

non

altre

mani all’infuori di quelle della sua famiglia hanno fatto i preparativi della sua tavola; il mulino più prossimo e il mercato vicino sono i confini dell’universo per lui. In che dunque avete realmente goduto per tutto ciò che hanno fornito di più la terra lontana e la mano degli uomini sull'altra tavola? Se tutto ciò non vi ha fatto fare un pasto migliore, che cosa avete guadagnato in quell’abbondanza? Cosa c’era là che fosse fatto per voi? Se voi foste stato il padrone di casa, potrà egli aggiungere, tutto questo sarebbe stato per voi ancora più estraneo: poiché la premura di sfoggiare agli occhi degli altri il vostro godimento avrebbe finito per togliervelo: voi ne avreste avuto il fastidio, ed essi il piacere ». Questo discorso può essere molto bello;

ma

non

vale

nulla

per

Emilio,

di cui supera la portata, e al quale non si ispirano le proprie riflessioni. Parlategli dunque più semplicemente. Dopo queste due prove, ditegli qualche mattina: «Ove desineremo oggi? Intorno a quella montagna di argento che copre i tre quarti della tavola e a quei giardini di fiori di carta che vengono serviti alle frutta sopra specchi, fra quelle donne in grandi rigonfi che vi trattano da marionetta e vogliono che abbiate detto ciò che non sapete; oppure in quel villaggio, a due leghe di qui, presso quella brava gente che ci accoglie così allegramente e ci dà della crema così buona? ». La scelta di Emilio non è dubbia: poiché egli non è né ciarlone né vanitoso: non può tollerare la soggezione, e tutti i nostri intingoli fini non gli piacciono punto: ma è sempre pronto a correre in campagna, ama molto le buone frutta, i buoni legumi, la buona crema e le brave persone *. Cammin facendo,

la

riflessione

viene

da

sé.

Io

alle donne, ne è meno festeggiato degli altri fanciulli; per conseguenza sta meno volentieri con esse, e si corrompe meno nella loro società, di cui non è ancora in grado di sentire il fa-

LIBRO

479

TERZO

vedo che quelle folle di uomini che lavorano a questi grandi pranzi perdono le loro fatiche o non pensano affatto ai nostri piaceri. I miei esempi, buoni forse per un soggetto, saranno cattivi per mille altri. Se se ne comprenderà lo spirito, si saprà ben variarli all'occorrenza: la scelta dipende dallo studio del genio proprio a ciascuno, e questo studio dipende dalle occasioni che si offrono loro di mostrarsi. Non si immaginerà che, nello spazio di tre o quattro anni che abbiamo da occupare qui, noi possiamo dare al fanciullo più felicemente nato un'idea di tutte le arti e di tutte le scienze naturali, sufficiente per impararle un giorno da sé; ma facendo così passare davanti a lui tutti gli oggetti che è necessario

conosca,

lo mettiamo

in con-

dizione di sviluppare il suo gusto, il suo talento, di fare i primi passi verso l'oggetto a cui il suo genio lo porta, e d’indicarci la strada che bisogna aprirgli per secondare la natura. Un altro vantaggio di questa concatenazione di cognizioni limitate, ma giuste, è di mostrargliele per mezzo delle loro relazioni e dei loro rapporti, di metterle tutte al loro posto nella sua stima, e di prevenire in lui i pregiudizi che hanno la maggior parte degli uomini per i talenti che coltivano, contro quelli che hanno trascurati. Colui che vede bene l’ordine del tutto vede il posto ove deve stare ogni parte; colui che vede bene una parte, e che la conosce a fondo, può essere un uomo dotto: l’altro è un uomo giudizioso; e voi vi ricordate che quello che noi ci proponiamo di acquistare è meno la scienza che il giudizio. Checché ne sia, il mio metodo è indipendente dai miei esempi; esso è fondato sulla misura delle facoltà dell’uomo nelle sue varie età, e sulla scelta scino. Mi son ben guardato dall’insegnargli a baciar loro la mano, a dir loro delle scipitaggini e neppure a manifestar loro, piuttosto che agli uomini, i riguardi che son loro dovuti: mi son fatto una legge inviolabile di non esigere

delle occupazioni sue facoltà. Credo cilmente un altro potesse sembrare esso fosse meno

che convengono alle che si troverebbe fametodo col quale si di far meglio: ma se appropriato alla spe-

cie, all'età, al sesso, dubito che avrebbe

il medesimo successo. Cominciando questo secondo do, abbiamo approfittato della bondanza delle nostre forze sui bisogni per portarci fuori di noi; mo

slanciati

nei

cieli;

abbiamo

periosovrabnostri ci siamisu-

rato la terra; abbiamo raccolto le leggi della natura; in una parola, abbiamo percorso l’isola intera: ora ritorniamo a noi;

alla

ci

nostra

riavviciniamo

rientrandovi,

abitazione. di non

insensibilmente

Troppo

trovarla

felici,

ancora

in

possesso del nemico che ci minaccia, e che si prepara ad impadronirsene. Che ci resta da fare dopo avere osservato tutto quello che ci circonda? Convertite al nostro uso tutto ciò di cui possiamo appropriarci, e trar profitto dalla nostra curiosità per il vantaggio del nostro benessere. Fin qui abbiamo fatto provvista di strumenti di ogni specie, senza sapere di quali avremmo

to bisogno.

avu-

Inutili forse a noi stessi, i

nostri potranno

servire ad altri; e forse,

a nostra volta, avremo bisogno dei loro. Così troveremmo tutti il nostro tornaconto a questi scambi: ma, per farli, bisogna che conosciamo i nostri bisogni reciproci, bisogna che ognuno sappia ciò che altri hanno per il suo uso, e quello ch'egli può offrir loro in contraccambio. Supponiamo dieci uomini, di cui ciascuno abbia dieci specie di bisogni. Occorre che ciascuno, per il suo necessario, si applichi a dieci specie di lavori: ma, vista la differenza di genio e di talento, l’uno riuscirà meno in qualcuno di questi lavori, l'altro in un altro. Tutti, atti a diverse medesime, e saranno

miamo

una

società

cose,,faranno le mal serviti. For-

di questi dieci uo-

da lui niente di cui la ragione non fosse a sua portata; e non c'è alcuna buona ragione per un fanciullo di trattare un sesso diversamente dall’altro.

EMILIO

480 mini, e che ciascuno si applichi, per sé solo e per gli altri nove, al genere di occupazione che meglio gli conviene; ognuno approfitterà dei talenti degli al-

tri come se egli solo li avesse tutti; ciascuno perfezionerà il suo con un continuo esercizio; ed accadrà che tutti e dieci, perfettamente ben provvisti, avran-

no ancora del superfluo per altri. Ecco il principio apparente di tutte le nostre istituzioni. Non è mio proposito esamimarne qui le conseguenze: ho fatto ciò in un altro scritto *. Su questo principio, un uomo che volesse considerarsi come un essere isolato, non desiderando assolutamente nul-

la e bastando a se stesso, non potrebbe essere che infelice. Gli sarebbe anche impossibile sussistere; poiché, trovando la terra intera coperta del tuo e del mio, e non avendo niente altro di suo che il proprio corpo, donde trarrebbe il suo necessario? Uscendo dallo stato di natura,

noi

forziamo

anche

i nostri

simili

ad uscirne; nessuno vi può rimanere a dispetto degli altri; e sarebbe realmente uscirne, il volervi restare nell'impossibilità di vivervi; poiché la prima legge della natura è la cura di conservarsi 11, Così si formano a poco a poco nello spirito di un fanciullo le idee delle relazioni sociali, anche prima ch'egli possa realmente essere membro attivo della società. Emilio vede che, per avere degli strumenti per suo uso, gliene occorrono ancora per l’uso degli altri, per mezzo dei quali egli possa ottenere in cambio le cose che gli sono necessarie e che sono in loro potere. Io lo conduco facilmente a sentire il bisogno di questi scambi, e a mettersi in condizione

di approfittarne. « Monsignore,

bisogna

che

viva », di-

ceva un disgraziato autore satirico al ministro, il quale gli rimproverava l’infamia di quel suo mestiere. « Non ne vedo la necessità », gli rispose freddamente l'uomo in funzione. Questa risposta, eccellente per un ministro, sarebbe sta* Discorso

sulla disuguaglianza.

ta barbara e falsa in ogni altra bocca. È necessario che un uomo viva. Questo argomento, al quale ognuno dà più o meno forza, secondo che ha più o meno umanità, mi pare senza replica per colui che lo fa relativamente a se stesso. Poiché,

di tutte le avversioni

che ci dà

la natura, essendo la più forte quella di morire, ne segue che tutto è permesso da essa a chiunque non abbia nessun altro mezzo per vivere. I principi in base ai quali l'uomo virtuoso impara a disprezzare la vita e ad immolarla al suo dovere sono ben lontani da quella semplicità primitiva. Felici i popoli presso i quali si può essere buoni senza sforzo e giusti senza virtù! Se vi è qualche misero stato nel mondo in cui ciascuno non possa vivere senza far male e in cui i cittadini siano bricconi per necessità, non è il malfattore che bisogna impiccare, ma colui che lo forza a diventarlo. Appena Emilio saprà ciò che è la vita, la mia prima cura sarà d’insegnargli a conservarla. Fin qui non ho distinto le condizioni, i gradi, le fortune: e non li distinguerò affatto in seguito, poiché l’uomo è lo stesso in tutte le condizioni;

il ricco non ha lo stomaco più grande del povero e non digerisce meglio di lui; il padrone non ha le braccia né più lunghe né più forti di quelle del suo schiavo; un grande non è più grande di un popolano; e infine, essendo i bisogni naturali dappertutto i medesimi, i mezzi per provvedervi devono essere dappertutto eguali. Appropriate l'educazione

dell'uomo all'uomo, e non a ciò che non è lui. Non vedete che, lavorando a for-

marlo esclusivamente per uno stato sociale, lo rendete inutile ad ogni altro, e che, se piace alla fortuna, non avrete lavorato che a renderlo infelice? Cosa c'è di più ridicolo di un gran signore divenuto pezzente, che porta nella sua miseria i pregiudizi della sua nascita? Cosa c'è di più vile di un ricco impoverito, il quale, ricordandosi del disprezzo che è dovuto alla povertà, si sente divenuto

LIBRO TERZO

481

l’ultimo degli uomini? L'uno ha per sola risorsa il mestiere di pubblico bric-

cone,

l'altro

quello

di servo

strisciante,

con questo bel motto: « Bisogna ch'io viva ». Voi vi fidate dell'ordine attuale della società, senza pensare che quest'ordine è soggetto a rivoluzioni inevitabili, e che non vi è possibile né prevedere né prevenire quella che può riguardare i vostri figli. Il grande diventa piccolo, il ricco diventa povero, il monarca diventa suddito; i colpi della sorte sono forse così rari che possiate far conto di esserne esenti? Ci avviciniamo allo stato di crisi e al secolo delle rivoluzioni * !?., Chi può rispondervi di quello che diventerete

allora?

Tutto

ciò che

gli uo-

mini hanno fatto, gli uomini possono distruggerlo: di caratteri indelebili non ci sono che quelli che imprime la natura, e la natura non fa né principi, né ricchi, né grandi signori. Cosa farà dunque, nella bassezza, questo satrapo che voi non avete allevato se non per la grandezza? Cosa farà, nella povertà, questo affarista il quale non sa vivere che di oro? Cosa farà, sprovvisto di tutto, questo fastoso imbecille che non sa punto usar di se stesso, e non

mette

il suo

lo stato che Io abbandona,

e restare uo-

suo trono;

vedo che esi-

essere se non in ciò che è estranco a lui? Felice colui che sa abbandonare allora mo a dispetto della sorte! Si lodi quanto si voglia questo re vinto che vuole seppellirsi da furioso sotto i rottami del io lo disprezzo;

ste solo per la sua corona, e che non conta nulla affatto se non è re: ma colui che la perde e ne fa a meno è allora al disopra di essa. Dal posto di re, che un vile, un cattivo, un pazzo può tenere come un altro, sale allo stato di uo-

mo, che così pochi uomini sanno ‘occupare. Allora egli trionfa della fortuna, la sfida, non deve nulla che a sé solo: e, quando non gli resta da mostrare che sé, non è affatto nessuno; è qualche co* Ritengo

impossibile

che

le

grandi

monar-

chie di Europa abbiano ancora da durare a lun-

go: tutte hanno brillato, e ogni Steto che brilla è nel suo decadimento. Ho della mia opi-

sa. Sì, preferisco

cento

volte

il re di

Siracusa, maestro di scuola a Corinto, e il re di Macedonia, cancelliere a Ro-

ma, che un non sa cosa l'erede del ludibrio di sua

miseria,

infelice Tarquinio, il quale diventare se non regna, che possessore dei tre regni”, chiunque osi insultare alla errante

di

corte

in

corte,

implorante dappertutto dei soccorsi e che trova dappertutto degli affronti, per non saper fare se non un mestiere che non è più in suo potere. L’uomo e il cittadino, qualunque egli sia, non ha altro bene da mettere nella società che se stesso, tutti gli altri suoi beni vi sono suo malgrado; e quando un uomo è ricco, o non gode della sua ricchezza, o il pubblico ne gode pure. Nel primo caso egli ruba agli altri ciò di cui si priva; e nel secondo non dà loro nulla. Così il debito sociale gli resta tutto intero finché non paga che coi suoi beni. « Ma mio padre, guadagnandoli,

ha

servito

la società... ». Sia;

egli

ha pagato il suo debito, ma non il vostro. Voi dovete più agli altri che sc foste nato senza beni, poiché siete nato favorito. Non è affatto giusto che quello che un uomo ha fatto per la società ne discarichi un altro di ciò che le deve; poiché ciascuno, dovendosi tutto quanto, non può pagare che per sé, e nessun padre può trasmettere a suo figlio il diritto di essere inutile ai suoi simili: ora è frattanto quello che fa, secondo voi, trasmettendogli le sue ricchezze, che sono la prova e il prezzo del lavoro. Colui che si mangia nell’ozio ciò ch'egli stesso non ha guadagnato lo ruba; e un possidente, che lo Stato paga per non far nulla, non differisce punto, agli occhi miei, da un brigante che vive alle spalle dei passanti. Fuori della società, l’uomo isolato, non dovendo nulla a nessuno,

ha diritte di vivere come

gli piace; ma nella società, ove vive necessariamente a spese degli altri, deve loro in lavoro il prezzo del suo mannione ragioni più particolari di questa massima; ma non è opportuno dirle, e ciascuno le vede benissimo.

EMILIO

482 tenimento;

ciò è senza

eccezioni.

Lavo-

rare è dunque un dovere indispensabile per l'uomo sociale. Ricco 0 povero, potente o debole, ogni cittadino ozioso è un furfante. Ora, di tutte le occupazioni che possono fornire la sussistenza all’uomo, quella che lo avvicina di più allo stato di natura è il lavoro delle mani: di tutte le condizioni, la più indipendente dalla fortuna e dagli uomini è quella dell’artigiano. L'artigiano non dipende che

dal

suo

lavoro;

egli è libero,

tanto

libero quanto il contadino è schiavo: poiché costui dipende dal suo campo, la cui raccolta è a discrezione di altri. Il nemico, il principe, un vicino potente, un processo, gli possono porta via questo campo; per questo campo, lo si può tormentare in mille modi: ma ovunque si voglia angariare l'artigiano, il suo bagaglio è subito fatto; egli porta via le sue braccia e se ne va. Tuttavia l’agricoltura è il primo mestiere dell’uomo; è il più onesto, il più utile, e per conseguenza il più nobile ch'egli possa esercitare. Io non dico ad Emilio: « Impara l'agricoltura »; egli la sa. Tutti i lavori rustici gli sono familiari; è da essi che ha cominciato; è ad essi ch'egli ritorna incessantemente. Gli dico dunque: « Coltiva l’eredità dei tuoi padri. Ma se perdi questa eredità, o se non ne hai,

che

fare?

Impara

un

mestiere » !*.

« Un mestiere a mio figlio! Mio figlio attigiano! Signore, ci pensate? ». « Ci penso meglio di voi, signora, che volete ridurlo a non poter mai essere che un lord, un

marchese,

un

principe,

e forse

un giorno meno che niente: io gli voglio dare un posto che non possa perdere, un posto che lo onori in ogni tempo; voglio elevarlo allo stato di uomo;

e, checché

voi

possiate

dire, avrà

meno

uguali in questo titolo che in tutti quelli che dovrà a voi ». La lettera uccide e lo spirito vivifica. Si tratta meno d’imparare un mestiere per conoscere un mestiere, che per vincere i pregiudizi che lo disprezzano. Voi non sarete mai ridotto a lavorare per vivere. Eh! tanto peggio! Tanto peggio per voi! Ma non importa; non lavorate

affatto per necessità, lavorate per gloria. Abbassatevi alla condizione di artigiano, per essere al disopra della vostra. Per assoggettare a voi la fortuna e le cose, cominciate col rendervene indipendenti. Per regnare con l’opinione, cominciate dal regnare su di essa. Ricordatevi che non è un talento che vi domando; è un mestiere, un vero mestiere, un'arte puramente meccanica, in

cui le mani

lavorino più della testa, e

che non conduca alla fortuna, ma con la

quale si possa far a meno di questa. In alcune case molto lontane dal pericolo di mancar di pane, ho visto dei padri spingere la previdenza fino al punto di aggiungere alla cura d'istruire i propri figliuoli quella di provvederli di cognizioni da cui, in ogni evenienza, potessero trarre profitto per vivere. Questi padri previdenti credono di far molto: essi non fanno niente, poiché le risorse che pensano di risparmiare per i loro figliuoli dipendono da quella medesima fortuna al disopra della quale vogliono metterli. Di modo che con tutti questi bei talenti, se colui che li ha non si'tro-

verà in circostanze favorevoli per farne uso, perirà di miseria come se non ne avesse alcuno. Dal momento che si tratta di maneggi e d'’intrighi, tanto vale impiegarli per mantenersi nell’abbondanza, che per riguadagnare,

dal

seno

della

miseria,

di

che risalire al primitivo stato. Se coltiverete delle arti il cui successo dipende dalla riputazione dell’artista; se vi renderete idoneo ad impieghi che si ottengono solo per favore, a che cosa vi servirà

tutto

questo

quando,

alle

donne

di. corte,

giustamente

disgustato del mondo, sdegnerete i mezzi senza dei quali non si può riuscire? Voi avete studiato la politica e gli interessi dei principi: ecco che ciò va benissimo; ma che farete di queste cognizioni, se non saprete pervenire ai ministri, ai capi

di

ufficio;

se non avrete il segreto di piacer loto, se tutti non troveranno in voi l’uomo scaltro che convenga loro? Voi siete architetto o pittore: sia; ma dovete far conoscere il vostro talento. Pensate forse di andare di punto in bianco ad

LIBRO

483

TERZO

esporre un vostro lavoro al Salon? OR! la cosa non è così facile. Bisogna essere dell’Accademia; occorre anche essere protetti per ottenere in un angolo di muro qualche posto oscuro. Lasciatemi la riga e il pennello; prendete una vettura pubblica, e correte di porta in porta: è così che si acquista la celebrità. Ora dovete sapere che tutte queste illustri porte hanno dei guardaportoni o dei portinai, i quali non intendono che a gesti, e le cui orecchie sono nelle mani. Volete insegnare ciò che avete imparato, e diventare maestro di geografia, o di matematica, o di lingue, o di

musica, o di disegno? Anche per ciò occorre trovare degli scolari e per conseguenza dei lodatori. Fate conto che importa più essere ciarlatano che abile, e che, se non saprete altro mestiere che il vostro, non sarete che un ignorante. Vedete dunque quanto siano poco solide tutte queste brillanti risorse, e quante altre risorse vi sono necessarie per trar profitto da quelle. E poi, che diventerete voi in questo lento avvilimento?

I

rovesci,

anziché

istruirvi,

vi

avviliscono: trastullo più che mai dell'opinione pubblica, come vi inalzerete al di sopra dei pregiudizi, arbitri della vostra sorte? Come disprezzerete la bassezza e i vizi di cui avete bisogno per vivere? Voi non dipendevate che dalle ricchezze, e ora dipendete dai ricchi; non avete fatto che peggiorare la vostra schiavitù e sopraccaricarla della vostra miseria. Eccovi povero senza essere libero; è il peggiore stato in cui l’uomo possa cadere. Ma,

invece di ricorrere, per vivere, a

queste alte cognizioni che sono fatte per nutrire l’anima e non il corpo, se ricorrete, in caso di necessità, alle vostre mani e all’uso che ne sapete fare, tutte le difficoltà spariscono, tutti i maneggi diventano inutili; la risorsa è sempre pronta al momento di adoperarla; la probità, l’onore, non sono più un ostacolo alla vita; voi non avete più bi-

* Voî lo siete bene, voi, mi si dirà. Io lo sono per mia disgrazia, lo confesso; e i mici torti, che penso di avere espiati abbastanza, non

sogno di essere pusillanime e bugiardo davanti ai grandi, pieghevole e strisciante davanti ai bricconi, vile compiacente di tutti, prenditore a prestito o ladro, il che è, presso a poco, la medesima cosa quando non si ha nulla; l'opinione degli altri non vi riguarda affatto; voi non

avete

da

far

la

corte

a

nessuno,

non dovete lusingare nessuno sciocco, piegare nessun guardaportone, pagare alcuna cortigiana, e, ciò che è peggio, incensare. Che dei birbanti trattino i grandi affari, a voi poco importa: ciò non v’impedirà,

nella

vostra

vita

oscura,

di

essere un uomo dabbene e di avere del pane. Voi entrate nella prima bottega del mestiere che avete imparato: « Padrone, ho bisogno di lavoro ». « Compagno, mettetevi là e lavorate ». Prima che

l’ora del desinare

sia venuta,

avete

guadagnato il vostro desinare: se sarete diligente e sobrio, prima che siano passati otto giorni, avrete di che vivere per altri otto giorni: avrete sano, sincero, laborioso,

vissuto libero, giusto. Non è

perdere il proprio tempo il guadagnarlo in tal modo. Voglio assolutamente che Emilio impari un mestiere. Un mestiere onesto, almeno, direte voi. Che significa questa parola? Ogni mestiere utile al pubblico non è forse onesto? Io non voglio ch'egli sia ricamatore, né indoratore, né verniciatore, come il gentiluomo del Locke; non voglio che sia né musicista, né comico, né fabbricante di libri *. Salvo

queste professioni e le altre che loro somigliano, prenda quella che vuole; non pretendo molestarlo in nulla. Preferisco ch'egli sia calzolaio piuttosto che poeta; preferisco ch'egli lastrichi le strade maestre piuttosto che faccia dei fiori di porcellana. Ma, direte voi, i birri, gli spioni, i carnefici, sono della gente utile. Sta

solo al governo che essi non lo siano. Ma passiamo oltre; avevo torto: non basta scegliere

un

mestiere

utile,

bisogna

ancora che non esiga dalle persone che lo esercitano delle qualità d'anima odiosono per gli altri delle ragioni per averne di simili, Non scrivo per scusare i miei errori, ma

per impedire ai miei lettori di imitarli "3.

484

EMILIO

se e incompatibili con l'umanità. Così, ritornando alla prima parola, prendiamo un mestiere onesto: ma ricordiamoci sempre che non c’è onestà senza l’utilità. Un celebre autore di questo secolo !, i cui libri sono pieni di grandi progetti e di piccole vedute, aveva fatto voto, come tutti i preti della sua comunione, di

non

avere,

personalmente,

alcuna

donna; ma, essendo più scrupoloso degli altri quanto ad adulterio, si dice ch'egli prendesse il partito di tenere delJe graziose serve, con le quali riparava, meglio che poteva, all’oltraggio che aveva fatto alla sua specie con quel suo temerario impegno. Riteneva come dovere del cittadino

il darne altri alla patria;

parrucchiere,

che

e

col tributo che le pagava in questo genere, popolava la classe degli artigiani. Appena questi fanciulli erano in età, faceva a tutti imparare un mestiere di loro gusto, non escludendo che le professioni oziose, futili, o soggette alla moda, come, per esempio, quella del non

è mai

necessaria,

e che può diventare inutile da un giorno

all'altro,

finché

la natura

non

sì ri-

fiuterà di darci dei capelli. Ecco lo spirito che deve guidarci nella scelta del mestiere di Emilio; o piut-

tosto, non sta a noi fare questa scelta, ma a lui; poiché, essendo in Ivi il di-

sprezzo naturale delle cose inutili conservato dalle massime di cui è imbevuto, non vorrà mai sciupare il suo tempo in lavori di nessun valore; ed egli non conosce altro valore alle cose che quello della loro utilità reale; gli occorre un mestiere quale avrebbe potuto servire a Robinson nella sua isola. Facendo passare in rivista davanti ad un fanciullo le produzioni della natura

e dell’arte,

stuzzicando

la sua curiosità,

seguendolo ove essa lo porta, si ha il vantaggio di studiare i suoi gusti, le sue inclinazioni, le sue tendenze, e di veder brillare la prima scintilla del suo genio, s'egli ne ha qualcuno che sia ben promunciato,

Ma

un

errore

comune,

e dal

quale dovete preservarvi, è di attribuire all'ardore del talento ciò che è effetto dell'occasione, e di prendere per in-

clinazione

accentuata

quell’arte

lo

spirito

verso

imitativo

questa

o

comune

all'uomo e alla scimmia, e che potta mac-

chinalmente l'uno e l'altra a voler fare tutto ciò che vede fare, senza saper troppo a che cosa ciò serva. Il mondo è pieno di artigiani, e soprattuito di artisti, che non hanno il talento naturale dell’arte che esercitano, e nella quale si è voluto spingerli innanzi fin dai loro primi anni, sia perché determinati da altre convenienze, sia perché ingannati da uno zelo apparente che li avrebbe egualmente portati verso un'arte ben diversa, se l’avessero veduta praticare subito. Taluno sente un tamburo e si crede generale; qualche altro vede costruire e vuol essere architetto. Ciascuno è tentato dal mestiere che vede fare, quando lo crede stimato. Ho conosciuto un lacchè il quale, vedendo il suo padrone dipingere e disegnare, si mise in testa di essere pittore e disegnatore. Fino dal momento che ebbe fatta questa risoluzione, prese il lapis che non ha più lasciato se non per prendere il pennello, che non lascerà per tutta la vita. Senza lezioni e senza regole, egli si mise a disegnare tutto ciò che gli cadeva sotto mano. Passò tre anni interi curvo sui suoi sgorbi, senza che mai nulla potesse strapparnelo

all'infuori

del

suo

servizio,

e sen-

za mai scoraggiarsi del poco progresso che le sue mediocri disposizioni gli per-

mettevano di fare. L'ho veduto, durante sei mesi di un'estate ardentissima, in

una

piccola

anticamera

a mezzogiorno,

ove si soffocava solo ad attraversarla, se-

duto, o piuttosto inchiodato tutto il giorno

sulla

sua

sedia, davanti

a un

globo,

disegnare questo globo, ridisegnarlo, cominciare e ricominciare senza tregua con una invincibile ostinazione, fino a che ne

ebbe reso l’altorilievo abbastanza bene per essere contento del suo lavoro. Infine, favorito dal suo padrone e guidato da un artista, è arrivato al punto da lasciare la livrea e da vivere col suo pennello. Fino a un certo segno la perseveranza supplisce al talento: egli ha raggiunto questo segno e non lo sorpasserà mai. La costanza e l’emulazione di questo one-

LIBRO

TERZO

485

sto giovane sono lodevoli. Egli si farà sempre stimare per la sua assiduità, per la sua

fedeltà,

per

i suoi

costumi;

ma

non dipingerà mai altro che ornamentazioni in legnp dell'architrave di una porta. Chi non sarebbe stato ingannato dal suo zelo e non l’avrebbe preso per un vero talento? C'è molta differenza fra il dilettarsi d’un lavoro e l'esservi adatto. Occorrono delle osservazioni più profonde di quello che si pensa per assicurarsi del vero genio e del vero gusto di un fanciullo, il quale mostra assai più

i suoi desideri che le sue disposizioni, e che è sempre giudicato in base ai primi perché non si sanno studiare le al. tre. Vorrei che un uomo giudizioso ci desse un trattato dell'arte di osservare i fanciulli. Quest’arte sarebbe molto

im-

portante a conoscere: i padri e i maestri non ne hanno ancora gli elementi. Ma forse noi diamo qui troppa importanza alla scelta di un mestiere. Poiché non si tratta che di un lavoro manuale, questa scelta non è niente per Emilio; e il suo tirocinio è già fatto più che per metà, mediante gli esercizi in cui lo abbiamo occupato finora. Che volete ch'egli faccia? È pronto a tutto; sa già maneggiare la vanga e la zappa, sa servirsi del tornio, del martello, della

pialla, della lima; gli utensili di tutti i mestieri gli sono già familiari. Non si tratta più che di acquistare un uso abbastanza pronto, abbastanza facile di qualcuno di questi utensili per eguagliare in diligenza i buoni operai che se ne servono;

ed egli ha, a questo pun-

to, un grande vantaggio su tutti, ed è di avere il corpo agile, le membra flessibili, per prendere senza fatica qualsiasi attitudine e per prolungare senza sforzo qualsiasi specie di movimento. Di più, egli ha gli organi giusti e bene esercitati;

gli è già maestro,

tutta

nota.

non

la meccanica

Per

saper

gli manca

che

delle

lavorare

arti

da

l’abitudine,

e l'abitudine non si acquista che col tempo. A quale mestiere, la cui scelta ci resta a fare, darà egli abbastanza * Non

c'erano sarti fra gli antichi:

gli abiti degli

tempo per rendervisi diligente? Non si tratta più che di questo. Date all'uomo un mestiere che convenga al suo sesso, e al giovane un mestiere che convenga alla sua età; ogni professione

sedentaria

e

casalinga,

che

effemina e rammollisce il corpo, non gli piace né gli conviene. Mai giovanetto aspirò da se stesso ad essere sarto; ci vuole dell’arte per portare a questo mestiere da donne il sesso per il quale non è fatto *. L’ago e la spada non potrebbero essere maneggiati dalle stesse mani. Se fossi sovrano, non permetterei il cucito e i mestieri d'ago che alle donne e agli zoppi, ridotti ad occuparsi com’esse. Supponendo gli eunuchi necessari, trovo gli Orientali veramente pazzi a farne apposta. Perché non si contentano di quelli che ha fatto la natura, di quelle folle di uomini vili di cui essa ha mutilato il cuore? Essi ne avrebbero d’avanzo per il bisogno. Ogni uomo debole, delicato, pauroso è condannato da essa alla vita sedentaria; è fatto

per vivere con le donne, o a loro modo. Ch'egli eserciti qualcuno dei mestieri che son loro propri, sta bene; e, se occorrono assolutamente dei veri eunuchi, si riducano a questo stato gli uomini che disonorano il loro sesso scegliendo degli impieghi che non gli convengono. La loro scelta rivela l'errore della natura: correggete questo errore in un modo o in un

altro;

non

avrete

fatto che del

bene. Interdico al mio allievo i mestieri malsani, ma non i mestieri penosi, e neppure i mestieri pericolosi. Essi esercitano a un tempo la forza e il coraggio; sono adatti agli uomini soli; le donne non vi aspirano; come non hanno essi vergogna di usurpare quelli che le donne esercitano? Luctantur paucae, comedunt [coliphia paucae. Vos lanam trabitis, calathisque vellera...!, uomini

erano

[peracta

refertis

fatti in casa dalle donne.

EMILIO

486 In Italia, non

si vedono

donne

nelle

botteghe; e non si può immaginare niente di più triste del colpo d'occhio delle strade di quel paese per coloro che sono abituati a quelle della Francia e dell’Inghilterra. Vedendo dei mercanti di mode vendere alle signore nastri, nappine,

reticelle,

ciniglia,

trovavo

codesti

ornamenti delicati assai ridicoli in mani grossolane, fatte per tirare i mantici in una fucina e per battere sull’incudine. Dicevo fra me: «In questo paese le donne dovrebbero, per rappresaglia, mettere su delle botteghe di spadai e di armaiuoli ». Eh! ciascuno faccia e venda le armi del suo sesso. Per conoscerle, bisogna adoperarle. O giovane, imprimi nei tuoi lavori il segno d'una mano virile. Impara a maneggiare con braccio vigoroso la scure e la sega, a squadrare un trave, a sa-

lire su di un comignolo, a mettervi la vetta, a rinforzarla con pilastrini e tiranti; poi, grida a tua sorella di venirti ad aiutare

nel

tuo

lavoro,

come

essa ti

diceva di lavorare al suo punto in croce. Ne dico troppo per i miei ameni contemporanei, lo sento; ma io mi lascio talvolta trascinare a furia di conseguenze. Se un uomo qualsiasi ha vergogna di lavorare in pubblico armato di un'ascia da bottaio e cinto di un grembiule di pelle, non vedo più in lui che uno schiavo dell'opinione, pronto ad arrossire di far bene, appena che ci si riderà delle persone oneste. Tuttavia cediamo al pregiudizio dei padri tutto ciò che non può nuocere al giudizio dei fanciulli. Non è necessario esercitare tutte le professioni utili, per onorarle tutte; basta non stimarne nessuna al disotto di sé. Quando

si ha la scelta e nulla d'al-

tronde ci costringe, perché non si con-

sulterebbe

il gradimento,

l’inclinazione,

meno un calzolaio. Bisogna che tutti i mestieri si facciano; ma chi può scegliere deve aver riguardo alla pulizia, poiché in quanto a ciò non vi è opinione: su questo punto i sensi ci decidono. Infine, non mi piacerebbero quelle stupide professioni i cui operai, senza industria e quasi automaticamente, non esercitano le loro mani che al medesimo lavoro; i tessitori, i calzettai, i segatori di pietra: a che serve impiegare in questi mestieri degli uomini di giudizio? È una macchina che ne conduce un'altra. Tutto ben considerato, il mestiere che

a me piacerebbe fosse di gusto del mio allievo è quello del falegname. È pulito, è utile e può esercitarsi in casa; mantiene il corpo sufficientemente in esercizio; esige nell’operaio accortezza e abilità;

e, nella forma

dei

lavori

che

l’utilità determina, l'eleganza e il gusto non sono esclusi. Ché, se per caso, il genio del vostro allievo fosse decisamente volto verso le scienze speculative, allora io non biasimerei che gli si desse un mestiere conforme

alle sue inclinazioni

per esempio,

matematica, scopi, ecc.

e imparasse,

a fare degli strumenti

dei

cannocchiali,

dei

di

tele°

Quando Emilio imparerà il suo mestiere, io voglio impararlo con lui; poiché sono convinto ch’egli non imparerà mai bene se non ciò che impareremo insieme. Ci metteremo dunque tutti e due a fare le prime prove, e non pretenderemo affatto di essere trattati da signori, ma da veri principianti che non lo sono per ridere: perché non lo saremmo per davvero? Lo zar Pietro !° era carpentiere nel cantiere e tamburino nelle sue proprie truppe: pensate voi che questo principe non valesse voi per la nascita o per il merito? Voi capite ch'io

la convenienza fra le professioni dello stesso grado? I lavori dei metalli sono non dico ciò a Emilio, ma a voi, chiunutili, e anche i più utili di tutti; però, . que possiate essere. a meno che una ragione particolare non Purtroppo noi non possiamo passare mi vi trascini, non farò di vostro figlio tutto il nostro tempo al pancone da leun maniscalco, un magnano, un fabbro; gnaiolo. Non siamo soltanto apprendisti non mi piacerebbe vedergli, nella sua operai, siamo apprendisti uomini; e il fucina, la faccia di un ciclope. Parimentirocinio di quest’ultimo mestiere è più te, non ne farò un muratore, e ancora penoso e più lungo dell'altro. Come fa-

LIBRO

487

TERZO

remo dunque? Prenderemo un maestro di pialla un'ora al giorno, così come si prende un maestro di ballo? No; non saremmo allora dei principianti, ma dei discepoli; e la nostra ambizione non consiste tanto nell’impatare l’arte del falegname quanto nell'elevarci allo stato di falegname. Sono dunque del parere che noi andiamo ogni settimana una o due volte almeno a passare l'intera giornata dal maestro, che ci alziamo alla sua ora,

che siamo al lavoro prima di lui, che mangiamo alla sua tavola, che lavoriamo sotto i suoi ordini; e che, dopo aver avuto l'onore di cenare con la sua famiglia,

ritorniamo,

volendo,

a coricarci

nei nostri letti duri. Ecco come s'imparano parecchi mestieri a un tempo e co-

ni maestri. Il suo lavoro sia valutato per il lavoro in sé e non perché è fatto da lui. Dite di ciò che è fatto bene: « Questo sì che è ben fatto »j ma non aggiungete: «Chi ha fatto ciò? ». Se egli stesso dice con aria fiera e contenta di sé: « Sono io che l'ho fatto »; aggiungete freddamente: « Voi o un altro, non importa, è sempre un lavoro fatto bene ». Buona madre, guàrdati specialmente dalle menzogne che ti si preparano. Se tuo figlio sa molte cose, diffida di tutto ciò che sa: se ha la disgrazia di essere allevato in Parigi e di essere ricco, è perduto. Finché si troveranno abili arti-

sti, avrà tutti i loro talenti; ma lontano da essi, non ne avrà più. A Parigi, il

ricco sa tutto; d’ignorante non c'è che ci si esercita al lavoro delle mani, il povero. Questa capitale è piena di senza trascurare l’altro tirocinio. dilettanti e specialmente di donne diSiamo semplici nel far bene: non anlettanti, che fanno i lavori come il sidiamo a riprodurre la vanità con le nognor Guillaume inventava i suoi colori. stre cure per combatterla. Inorgoglirsi Conosco a questo riguardo tre onotedi aver vinto i pregiudizi, è sottomettervisi. Si dice che, per un antico uso del- . voli eccezioni fra gli uomini, e ce ne possono essere di più; ma non ne conola casa ottomana, il Gran Signore è me

obbligato

a

lavorare

con

le

sue

mani;

e ognuno sa che i lavori di una mano reale non possono essere che dei capolavori. Egli distribuisce dunque magnificamente i suoi capolavori ai grandi della Porta; e il lavoro è pagato secondo la qualità dell'operaio. Quello ch’io vedo di male in ciò non è questa pretesa vessazione;

poiché,

al contrario,

essa

è un

bene. Forzando i grandi a dividere con lui Ie spoglie del popolo, il principe è tanto meno soggetto a saccheggiare il popolo direttamente. È un sollievo necessario al dispotismo, e senza il quale quell'orribile governo non potrebbe sussistere. Il vero male d’un simile uso è l’idea ch'egli dà del suo merito a quel povero uomo, Come il re Mida, egli vede camquali

che è bello conoscere un mestiere,

i vo-

stri figliuoli lo saprebbero presto senza impararlo: diventerebbero maestri come i consiglieri di Zurigo. Niente di tutto questo cerimoniale per Emilio; nessuna apparenza e sempre della realtà. Non si dica che sa, ma impari in silenzio. Faccia sempre il suo capolavoro, e non

diventi

mai

maestro;

non

si mostri

spuntare.

fa non acquisti prezdal lavoro. Non tal. giudichi del suo se con quello dei buo-

allievo il gusto della riflessione e della meditazione, per compensare in lui la pigrizia che risulterebbe dalla sua indifferenza per i giudizi degli uomini e dalla calma delle sue passioni. Bisogna che

orecchie

ciò fa

Per conservarle corte al nostro Emilio, preserviamo le sue mani da questo ric-

co talento; ciò che zo dall’operaio, ma leriamo mai che si non confrontandolo

ne siano. In generale si acquista un nome nelle arti come nella magistratura; si diventa artista e giudice degli artisti, così come si diventa dottore in legge e magistrato. Se dunque fosse una volta stabilito

operaio per averne il titolo, ma per il lavoro che fa. Se fin qui mi son fatto intendere, si deve concepire come, con l'abitudine dell'esercizio del corpo e del lavoro del-

biarsi in oro tutto ciò che tocca, ma non

scorge

sco alcuna fra le donne, e dubito che ve

le mani,

io dia

insensibilmente

al mio

488

EMILIO

lavori da contadino, e che pensi da filosofo, per non essere infingardo quanto un selvaggio. Il grande segreto dell'educazione è di fare in modo che gli esercizi del corpo e quelli dell’animo servano sempre di ricreazione gli uni agli altri. Ma guardiamoci bene dall’anticipare quegl'insegnamenti che richiedono uno spirito più maturo. Emilio non sarà lungo tempo opetaio, senza provare da se stesso l’ineguaglianza delle condizioni, che aveva dapprima appena scorta. Secondo le massime che gli dò e che sono a sua portata, egli vorrà esaminarmi a mia

volta.

Ricevendo

tutto da me

solo,

vedendosi così vicino allo stato dei poveri, vorrà sapere perché io ne sono così lontano. Mi farà forse, all'improv-

viso, delle domande scabrose: « Voi siete ricco, me l'avete detto, lo vedo. Un

ricco deve anche il suo lavoro alla so-

cietà,

poiché

è uomo,

Ma

voi,

cosa

fa-

te dunque per essa? ». Che risponderebbe a ciò un buon istitutore? L’ignoro. Egli sarebbe forse abbastanza sciocco da parlare al fanciullo delle cure che ha per lui. In quanto a me, il laboratorio mi cava dall'impiccio. « Ecco, caro Emilio, una eccellente domanda: vi prometto di rispondere per me, quando farete per voi stesso una risposta di cui siate contento.

Intanto,

avrò cura

re a voi e ai poveri troppo, e di fare una

di restitui-

quello che ho di

tavola o un banco

per settimana, per non essere intera‘ mente inutile a tutto ». Eccoci ritornati a noi stessi. Ecco il nostro fanciullo pronto a cessare di esserlo, rientrato nel suo individuo.

Ecco-

lo sentire più che mai la necessità che lo affeziona alle cose. Dopo aver cominciato coll’esercitare il corpo e i sensi, abbiamo esercitato il suo spirito e il suo giudizio. Infine abbiamo riunito l'uso delle sue membra a quello delle sue facoltà;

abbiamo

pensante:

fatto un essere agente e

non ci resta più, per comple-

tare l’uomo,

che

fare un

essere amante

e sensibile, cioè perfezionare la ragione col sentimento. Ma prima di entrare in questo nuovo ordine di cose, gettiamo gli occhi su quello da cui usciamo,

e vediamo, il più esattamente che è possibile, fin dove siamo arrivati. Il nostro allievo non aveva dapprima che

delle

sensazioni,

ora ha delle idee:

non faceva che sentire, ora giudica. Poiché dalla comparazione di parecchie sensazioni

successive

o

simultanee,

e

dal

giudizio che se ne fa, nasce una specie di sensazione mista o complessa, ch'io chiamo idea !. La maniera di formare le idee è ciò che dà un carattere allo spirito umano. Lo spirito che forma le sue idee soltanto sopra dei rapporti reali è uno spirito solido; quello che si contenta di rapporti apparenti è uno spirito superficiale; quello che vede i rapporti così come sono è uno spirito giusto; quello che li apprezza male è uno spirito falso; quello che inventa dei rapporti immaginari, i quali non hanno né realtà né apparenza, è un pazzo; quello che non confronta punto è un imbecille. L’attitudine più o meno grande a confrontare delle idee e a trovare dei rapporti è ciò che costituisce negli uomini maggiore o minore spirito, ecc. Le idee semplici non sono che delle sensazioni comparate. Vi sono dei giudizi tanto nelle semplici sensazioni quanto nelle sensazioni complesse, ch'io chiamo idee semplici. Nella sensazione, il giudizio è puramente passivo, esso afferma che si sente ciò che si sente. Nella percezione o idea, il giudizio è attivo; esso avvicina, confronta, determina dei

rapporti

Ecco

che

il senso

tutta la differenza;

non

determina.

ma essa è gran-

de. Mai la natura c'inganna; siamo sempre noi che c'inganniamo ©. Vedo servire a un fanciullo di otto anni del gelato di crema; egli porta il cucchiaino alla bocca senza sapere cosa sia, e, colto dal freddo, esclama: « Ah! ciò mi brucia! ». Prova una sensazione molto viva; non ne conosce altra più viva che il calore del fuoco, e crede di sentir quella. Però s’inganna; l’impressione subitanea del freddo lo ferisce, ma non lo brucia; e queste due sensazioni non sono simili, poiché quelli che hanno provato l’una e l'altra non le

LIBRO

TERZO

489

confondono affatto. Non è dunque la sensazione che lo inganna, ma il giudizio che pronuncia su di essa. La stessa cosa accade a colui il quale vede per la prima volta uno specchio o una

macchina

d'ottica,

o

che

entra

in

una cantina profonda nel cuore dell’inverno o dell’estate, o che bagna nell’acqua tiepida una mano caldissima o

freddissima,

o

che

fa

rotolare

fra

due

dita incrociate una piccola palla, ecc. Se si contenta di dire ciò che percepisce, ciò che sente, essendo il suo giudizio puramente passivo, è impossibile che s'inganni: ma quando giudica della cosa

dall’apparenza,

è

attivo,

confronta,

stabilisce per induzione dei rapporti che non scorge; allora egli s’inganna o può ingannarsi. Per correggere o prevenire l’errore, ha bisogno dell’esperienza. Mostrate di notte al vostro allievo delle nubi che passano fra la luna e lui, ed egli crederà che sia la luna a passare in senso contrario e che le nubi stiano ferme. Lo crederà per un'induzione precipitata, poiché vede ordinariamente i piccoli oggetti muoversi di preferenza ai grandi, e le nubi gli sembrano più grandi della luna, di cui non può calcolare la lontananza. Quando, in un battello che voga, egli guarda da un po’ lontano

la riva,

cade

nell'errore

contrario,

e crede di veder correre la terra, poi ché, non sentendosi in moto, guarda il battello, il mare o il fiume, e tutto il suo orizzonte, come un tutto immobile, di cui la riva che vede correre gli sembra solo una parte. La prima volta che un fanciullo vede un bastone a metà tuffato nell'acqua, vede un bastone spezzato: la sensazione

rotto,

allora

dice

il falso.

Perché

ciò?

Perché allora diventa attivo, e non giudica più per visione, ma per induzione, affermando ciò che non sente, cioè che il giudizio che riceve da un senso sarebbe confermato da un altro. Poiché tutti i nostri errori vengono dai nostri giudizi, è chiaro che, se noi non avessimo mai bisogno di giudicare,

non avremmo dere;

non

alcun bisogno di appren-

saremmo

mai

nel caso di in-

gannarci; saremmo più felici della nostra ignoranza di quello che possiamo esserlo del nostro sapere. Chi nega che . i sapienti non sappiano mille cose vere che gl'ignoranti non sapranno mai? Son forse i sapienti per questo più vicini

alla verità? Al contrario, essi se ne allontanano avanzando, poiché, facendo la

vanità del giudizio ancora più progresso delle cognizioni, ogni verità che imparano non viene che con cento giudizi

falsi. È della massima evidenza che le società degli scienziati di Europa non sono che delle scuole pubbliche di menzogne;

e molto

sicuramente

vi sono più

errori nell'Accademia delle scienze che in tutto un popolo di Uroni. Poiché quanto più gli uomini sanno. tanto più sbagliano, il solo mezzo di evi. tare l'errore è l'ignoranza. Non giudicate e non v’ingannerete mai. Questa è la lezione della natura come della ragione. Eccetto i rapporti immediati, in picco

lissimo numero e molto sensibili, che le cose hanno con noi, non abbiamo, per

è vera, e non cesserebbe di esserlo, quan-

natura, che una profonda indifferenza per tutto il resto. Un selvaggio non vol. gerebbe il piede per andare a vedere il movimento della più bella macchina, e tutti i prodigi dell'elettricità. « Che m'importa? » è l’espressione più fami. liare all'ignorante e più conveniente al saggio. Ma disgraziatamente questa espressione non ci va più. Tutto ci riguarda dal momento che siamo dipendenti da tut-

lungi,

cessariamente con i nostri bisogni. Ecco perché ne dò una grandissima al filosofo e non ne dò affatto al selvaggio.

d’anche non sapessimo la ragione di questa apparenza. Se dunque gli domandate ciò che vede, egli dice: « Un bastone spezzato », e dice il vero, poiché egli è sicurissimo che ha la sensazione di un bastone spezzato. Ma quando, ingannato dal suo giudizio, va più e,

dopo

di

avere

affermato

che

vede un bastone rotto, afferma ancora che ciò che vede è infatti un bastone

to;

e la nostra

Questi

non

curiosità

ha bisogno

si estende

di nessuno;

ne-

l’al-

490

EMILIO

tro ha bisogno di tutti, e specialmente di ammiratori. Mi

si dirà che esco dalla natura;

non

lo credo. Essa sceglie i suoi strumenti, e li regola, non sull’opinione, ma sul bisogno. Ora i bisogni cambiano secondo la situazione degli uomini. C'è molta differenza fra l'uomo naturale che vive

nello

stato

di natura,

le che vive nello stato non è un selvaggio da serti; è un selvaggio le città. Bisogna che il suo necessario, trar

abitanti,

e vivere,

e l’uomo

natura-

di società. Emilio relegarsi nei defatto per abitare vi sappia trovare profitto dai loro

se non

come

essi, al-

meno con essi. Poiché, in mezzo a tanti rapporti nuovi da cui sta per dipendere, bisognerà suo malgrado che giudichi, insegnamogli dunque a giudicar bene. Il miglior modo d’imparare a ben giudicare è quello che tende a semplificare

di

più

le

nostre

esperienze,

e a

poterne anche fare a meno senza cadere nell’errore. Donde segue che dopo aver lungamente verificato i rapporti dei sensi l'uno con l’altro, bisogna ancora imparare a verificare i rapporti di ciascun senso per se stesso, senza aver bisogno di ricorrete a un altro senso: allora ogni sensazione diventerà per noi un’idea, e questa idea sarà sempre conforme alla verità. Tale è la specie di apprendimento di cui ho cercato di occupare questa terza epoca della vita umana. Questo modo di procedere esige una pazienza e una circospezione di cui pochi maestri sono capaci, e senza le quali mai il discepolo imparerà a giudicare. Se, per esempio, quando questi s’inganna sull’apparenza del bastone spezzato, per mostrargli il suo errore, voi vi affretterete a trarre il bastone fuori dell'acqua, forse lo disingannerete: ma che cosa gli insegnerete? Niente altro che ciò che avrebbe subito imparato da se stesso. Oh! non è questo certamente che bisogna fare! Si tratta meno d’insegnargli una verità, che di mostrargli come bisogna fare per scoprire sempre la verità. Per meglio istruirlo, non bisogna disingannarlo così presto. Prendiamo Emilio e me a mo' di esempio.

Primieramente,

domande

supposte,

vato secondo

alla seconda

ogni

il solito, non

delle due

fanciullo

mancherà

alledi

rispondere affermativamente: « È certamente, dirà egli, un bastone spezzato ». Dubito assai che Emilio mi dia la medesima risposta. Non vedendo la necessità di essere sapiente né di parerlo, egli non è mai premuroso di giudicare; non giudica che sull’evidenza; ed è molto lontano dal trovarla in questa occasione, lui che sa quanto i nostri giudizi sulle apparenze siano soggetti all’illusione, non fosse altro che nella prospettiva. D'altronde, siccorne sa per esperienza che le mie domande più frivole hanno sempre qualche scopo ch’egli non scorge dapprima, non ha preso l'abitudine di rispondere inconsideratamente; invece, diffida, presta attenzione,

le esa-

mina con gran cura prima di rispondervi. Non mi dà mai una risposta di cui non sia contento egli stesso; ed è diffi cile a contentarsi. Infine non presumiamo né lui né io di sapere la verità del. le cose, ma solamente di non cadere nel. l'errore. Saremmo assai più confusi di contentarci di una ragione che non è buona,

che

di

non

trovarne

affatto.

« Vediamo,

esami-

« Non so », è una frase che piace tanto a tutti e due e che ripetiamo così spesso, che non costa più nulla né all’uno né all'altro. Ma, sia che questa storditezza gli sfugga, sia ch'egli l'eviti col nostro comodo « non so », la mia repli-

ca

è

la

medesima:

niamo ». Questo bastone per metà immerso nell'acqua vi è fissato in una posizione perpendicolare. Per sapere se è spezzato, come pare, quante cose non dobbiamo fare prima di trarlo dall’acqua o prima di portarvi la mano! 1. Dapprima giriamo intorno al bastone e vediamo che la rottura gira con noi. È dunque il nostro occhio solo che la cambia, e gli sguardi non rimuovono i corpi. 2. Guardiamo bene a piombo sulla punta del bastone che è fuori dell’acqua; allora il bastone non è più curvo, la punta vicina al nostro occhio ci na-

LIBRO TERZO

491

sconde esattamente l'altra punta *. Il nostro occhio ha forse raddrizzato il bastone? . 3. Agitiamo la superficie dell’acqua; vediamo il bastone piegarsi in parecchi punti, muoversi a zig-zag, e seguire le ondulazioni dell'acqua. Il movimento che diamo a quest'acqua basta a spezzare,

ad

ammollire

e a fondere

in

tal

modo il bastone? 4. Facciamo scorrere l’acqua, e vediamo il bastone raddrizzarsi a poco a poco di mano in mano che l'acqua abbassa. Non ce n'è più di quello che occorra -per chiarire il fatto e trovare la rifrazione? Non è dunque vero che la vista c’inganni, poiché non abbiamo bisogno che di essa sola per rettificare gli errori che le attribuiamo. Supponiamo il fanciullo abbastanza stupido per non capire il risultato di questi esperimenti; è allora che bisogna chiamare il tatto in soccorso della vista. Invece di trarre il bastone fuori dell’acqua, lasciatelo nella sua posizione, e il fanciullo vi passi la mano da un capo all’altro; non sentirà nessun angolo; il bastone non è dunque spezzato. Mi direte che qui non ci sono solamente dei giudizi, ma dei ragionamenti in tutte le regole. È vero: ma non vedete che, appena lo spirito è pervenuto fino alle idee, ogni giudizio è un ragionamento? La coscienza di ogni sensazione è una proposizione, un giudizio. Dunque, tosto che si confronta una sensazione con un’altra, si ragiona. L'arte di giudicare e l'arte di ragionare sono esattamente la stessa cosa. Emilio non saprà mai la diottrica o voglio che la impari attorno a questo bastone. Non avrà sezionato punti insetti; non avrà contato le macchie del sole; non saprà cosa sia un microscopio e un telescopio. I vostri dotti allievi si burleranno della sua ignoranza. E non avranno torto; poiché, prima di servirsi di questi strumenti, intendo che li . * Ho poi trovato il contrario con un esperimento più esatto. La rifrazione agisce circolarmente, e il bastone pare più grosso dalla

inventi, e voi immaginate bene che ciò non potrà accadere così presto. Ecco lo spirito di tutto il mio metodo in questa parte. Se il fanciullo fa rotolare una piccola palla fra due dita incrociate e crede di sentire due palle, non gli permetterò di guardarvi se prima non sia convinto che non ce n'è che una. Questi schiarimenti basteranno, penso, per notare nettamente il progresso che ha fatto fin qui lo spirito del mio allievo, e la via per la quale ha seguito questo progresso. Ma voi forse siete spaventati della quantità delle cose che ho fatto passare davanti a lui: voi temete ch’io accasci il suo spirito sotto queste moltitudini di cognizioni. È tutto il contrario; gli insegno assai più a ignorarle che a saperle. Gli mostro la via della scienza, agevole alla verità, ma lunga, immensa, lenta da percorrere. Gli faccio fare i primi passi, perché riconosca l’entrata, ma non gli permetto mai di andar lontano. Costretto ad imparare da sé, egli usa della sua ragione e non di quella degli altri; poiché, per non accordar nulla all'opinione, non bisogna accordar nulla all'autorità; e la maggior parte dei nostri errori ci vengono meno da noi che dagli altri. Da questo esercizio continuo deve risultare un vigore di spirito simile a quello che si dà al corpo col lavoro e con la fatica. Un altro vantaggio si è che non si avanza che in proporzione delle proprie forze. Lo spirito, come il corpo, non porta che ciò che può portare. Quando l'intelletto si assimila le cose prima di deporle nella memoria, ciò che ne trae in seguito è suo: invece sovraccaricando la memoria a sua insaputa, ci si espone a non ritrarte mai nulla che gli sia conveniente. Emilio ha poche cognizioni, ma quelle che

ha

sono

veramente

sue;

non

sa

nulla a mezzo. Nel piccolo numero delle cose che sa e che sa bene, la più importante è che ve ne sono molte ch'egli

punta che è nell'acqua che dall'altra; ma ciò non cambia nulla alla forza del ragionamento, € la conseguenza non ne è meno giusta.

492

EMILIO

ignora e che può sapere un giorno, molte di più di quelle che sanno altri uomini e ch'egli non saprà per tutta la sua vita, e una infinità di altre che nes-

sun uomo

saprà mai. Egli ha uno spiri-

to aperto, intelligente, pronto a tutto, e, come dice Montaigne ‘!, se non istrui-

to, almeno istruibile. Mi basta che sappia trovare l’4 che scopo di tutto ciò che fa, e il perché di tutto ciò che crede. Poiché, ancora una volta, il mio sco-

po non è quello d'infondergli la scienza, ma d’insegnargli ad acquistarla al bisogno, di fargliela stimare esattamente per quello che vale, e di fargli amare la verità sopra ogni altra cosa. Con questo metodo si progredisce poco, ma non si fa mai un passo inutile, e non si è forzati a retrocedere. Emilio non ha che delle cognizioni naturali e puramente fisiche. Non sa neppure il nome della storia, né ciò che sia metafisica e morale. Conosce i rapporti

essenziali

idee,

fare

curo.

Il

tra

l'uomo

e

le

cose,

Vede

delle

ma nessuno dei rapporti morali tra uomo e uomo. Sa generalizzare poco le poche

astrazioni.

qualità comuni a certi corpi, senza ragionare su queste qualità in se stesse. Conosce l’estensione astratta per mezzo delle figure della geometria; conosce la quantità astratta per mezzo dei segni algebrici. Queste figure e questi segni sono i sostegni di quelle astrazioni, sulle quali poggiano i suoi sensi. Egli non cerca di conoscere le cose per la loro natura, ma solo per le relazioni che lo interessano. Non stima ciò che gli è estraneo se non per rapporto a se stesso; ma questo apprezzamento è esatto e sicapriccio,

la convinzione,

non

c'entrano per niente. Fa più caso di quello che gli è più utile: e, non dipartendosi mai da questa maniera di apprezzare, non concede nulla all’opinione. Emilio è laborioso, temperante, paziente, fermo, pieno di coraggio. La sua immaginazione, per nulla accesa, non gli ingrandisce mai i pericoli; è sensi. bile a pochi mali, e sa soffrire con costanza, poiché non ha imparato a di. scutere contro il destino. Riguardo alla morte, non sa ancora bene cosa sia; ma,

avvezzo a subire senza resistenza la lep-

ge della necessità, quando

dovrà morire,

morrà senza gemere e senza dimenarsi: è tutto quello che la natura permette in questo momento aborrito da tutti. Vivere libero e tenere poco alle cose umane è il miglior mezzo per imparare a morire. In una parola, Emilio ha della virtù tutto ciò che si riferisce a se stesso. Per avere anche le virtù sociali, gli manca soltanto di conoscere le relazioni che le esigono; gli mancano unicamente delle cognizioni che il suo spirito è prontissimo a ricevere. È Egli considera sé senza riguardo agli altri, e trova giusto che gli altri non pensino punto a lui. Non esige nulla da nessuno, e non crede di dover niente a nessuno. È solo nella società umana,

non conta che su se stesso. Ha diritto anche più di qualunque altro di contare su se stesso, poiché egli è tutto ciò che si può essere alla sua età. Non ha errori o non ha che quelli che ci sono inevitabili; non ha vizi, o non ha che quel-

li da cui nessun uomo può andare esente. Ha il corpo sano, le membra agili, lo spirito giusto e senza pregiudizi, il cuore libero e senza passioni. L’amor proprio, la prima e la più naturale di tutte, vi è ancora appena esaltato. Senza turbare il riposo di nessuno, egli ha vissuto contento, felice e libero, per quanto la natura lo ha permesso. Pensate voi che un fanciullo, pervenuto così al suo quindicesimo anno, abbia perduto i precedenti? FINE

DEL

. LIBRO

LIBRO

TERZO

QUARTO

Come passiamo rapidamente su questa terra! Il primo quarto della vita è trascorso prima che se ne sia conosciuto l'uso; l'ultimo quarto scorre ancora dopo che si è cessato di goderne. Dapprima noi non sappiamo vivere, ben presto non lo possiamo più; e, nell’intervallo che separa queste due estremità

LIBRO

QUARTO

inutili,

i tre

493

quarti

del

tempo

the

ci

resta sono consumati nel sonno, nel lavoro, nel dolore, nelle difficoltà, nelle

pene di ogni specie. La vita è breve, non tanto per il poco tempo che dura, quanto per il fatto che, di questo poco tempo, noi non ne abbiamo quasi punto per gustarne. Per quanto l'istante della morte sia lontano da quello della nascita, la vita è sempre troppo breve, quando

questo spazio è male impiegato.

Noi nasciamo, per così dire, in due volte: l’una per esistere, e l’altra per vivere; l’una per la specie, e l’altra per il sesso. Quelli

che considerano

la don-

na come un uomo imperfetto hanno, senza dubbio, torto: ma l’analogia esteriore è per essi. Fino all’età nubile, i fanciulli dei due sessi non hanno nessuna diversità apparente che li distingua: lo stesso viso, lo stesso aspetto, la stessa carnagione, la stessa voce, tutto è

sibili nell'aspetto. La sua fisonomia si sviluppa e prende l’impronta d'un carattere; la peluria rara e molle che cresce in fondo alle guance s'imbrunisce e prende consistenza. La sua voce cambia, o piuttosto egli la perde; egli non è né fanciullo né uomo, e non può prendere il tono di nessuno dei due. I suoi occhi, questi organi

dell'anima, che non

hanno detto nulla fin qui, trovano un linguaggio e dell'espressione; un fuoco nascente li anima; i loro sguardi più vivi hanno

ancora

una

santa

innocenza,

ma non hanno più la loro primitiva imbecillità: sente già che possono dir troppo; comincia a sapere abbassarli e ad arrossire; diventa sensibile prima di sapere ciò che sente; è inquieto senza ragione di esserlo. Tutto questo può venire lentamente e lasciarvi ancora del tempo: ma se la sua vivacità si rende troppo impaziente, se il suo impeto si

uguale: le ragazze sono dei fanciulli, i ragazzi sono delle fanciulle; il medesimo nome basta a degli esseri così simili.

cambia in furore, se s’irrita e s'intenerisce da un momento all’altro, se versa delle lacrime senza motivo, se, vicino

luppo ulteriore del sesso, conservano questa somiglianza per tutta la loro vita; essi sono sempre dei bambinoni; e le femmine, non perdendo questa medesima conformità, sembrano, sotto mol. ti rispetti, non esser mai altra cosa.

mano di una donna, posandosi sulla sua, lo fa fremere, se si turba o s'intimidi-

I maschi,

Ma

nei quali

l’uomo,

si impedisce

in generale,

non

lo svi-

è fatto

per rimaner sempre nella fanciullezza. Egli ne esce al tempo prescritto dalla natura;

e questo

momento

di crisi, ben-

ché abbastanza corto, esercita a lungo la sua influenza. Come il mugghiar del mare precede da lontano la tempesta, questa burrascosa rivoluzione si annunzia col mormorio delle passioni nascenti; una fermentazione sorda avverte dell’approssimarsi del pericolo. Un cambiamento nell'umore, frequenti impeti di collera, una continua agitazione di spirito, rendono il fanciullo quasi intrattabile. Egli diventa sordo alla voce che lo rendeva docile; è un leone nella sua febbre; disconosce

la sua guida, non vuole più essere governato, Ai segni morali d'un umore che si altera si uniscono dei cambiamenti sen-

ad oggetti che cominciano a diventar pericolosi pet lui, il suo polso aumenta i battiti e l’occhio gli s’infiamma, se la sce accanto a lei; Ulisse, o saggio Ulisse, bada a te! Gli otri che tu chiudevi con tanta cura sono aperti; i venti sono già scatenati: non abbandonare più un momento il timone, o tutto è perduto. È questa la seconda nascita di cui ho parlato; è qui che l’uomo nasce veramente alla vita, e che nulla di umano gli è estraneo. Fin qui le nostre cure non sono state che dei giuochi da

fanciullo;

solo

ora

esse

assumono

una

vera importanza. Questa epoca in cui finiscono le educazioni ordinarie è propriamente quella nella quale la nostra deve cominciare; ma, per esporre bene questo nuovo piano, rifacciamoci più indietro dallo stato delle cose che vi si riferiscono. Le nostre passioni sono i principali strumenti della nostra conservazione: è dunque un'impresa tanto vana quanto ridicola il volerle distruggere; è lo stesso

che

controllare

la natyra,

che

rifor-

494

EMILIO

mare l'opera di Dio. Se Dio dicesse all'uomo di annientare le passioni che gli dà, Dio vorrebbe e non vorrebbe; contradirebbe se stesso. Egli non ha mai dato quest'ordine insensato, nulla di simile è scritto nel cuore umano; e quello che Dio vuole che un uomo non glielo fa dire da un altro

faccia, uomo,

glielo dice da sé, glielo scrive nel fondo del cuore. Ora io giudicherei colui che volesse impedire alle passioni di nascere quasi tanto pazzo quanto colui che volesse annientarle; e quelli che avessero creduto che tale è stato il mio progetto fin qui mi avrebbero certamente molto male inteso. Ma si ragionerebbe bene sc, dal momento che è nella natura dell’uomo l’aver delle passioni, si concludesse che tutte le passioni che sentiamo in noi e vediamo negli altri siano naturali? La loro

sorgente

è

naturale,

è

vero;

ma

mille rivoli estranei l'hanno ingrossata; è un gran fiume che si accresce di continuo, e nel quale si troverebbero appena alcune gocce delle sue prime acque. Le nostre passioni naturali sono molto limitate; esse sono gli strumenti della nostra

libertà,

e tendono

a conservarci.

Tutte quelle che ci soggiogano e ci distruggono ci vengono da altra parte; la natura non ce le fornisce, ce le appropriamo noi a suo danno. La sorgente delle nostre passioni, l'origine e il principio di tutte le altre, la sola che nasce con l’uomo e non l'abbandona mai finché è in vita, è l'amore di sé: passione primitiva, innata, ante-

riore a ogni altra, e di cui tutte le altre

non sono, in un certo senso, che delle modificazioni. In questo senso, tutte,

se si vuole, sono naturali. Ma la maggior parte di queste modificazioni hanno delle cause estranee, senza delle quali non avrebbero mai luogo, e queste stesse modificazioni, lungi dall’esserci vantaggiose, ci sono nocive; esse cambiano il primo oggetto e vanno contro il loro principio: allora l’uomo si trova fuori della natura, e si mette

tradizione con se stesso !. L'amore di se medesimo

in con-

è sempre

buono, sempre conforme all'ordine. Essendo ognuno incaricato specialmente della sua propria conservazione, la prima e la più importante delle sue cure è e deve essere di vegliarvi incessantemente: e come vi veglierebbe così, se non vi prendesse il più grande interesse? Bisogna dunque che noi ci amiamo per conservarci; bisogna che ci amiamo di più di ogni altra cosa; e, per una conseguenza immediata del medesimo sentimento,

noi

amiamo

ciò che ci con-

serva. Ogni fanciullo si affeziona alla sua nutrice: Romolo doveva affezionarsi alla lupa che l’aveva allattato. Dapprima questo attaccamento è puramente macchinale. Ciò che favorisce il benessere di un individuo lo attrae; ciò che gli nuoce lo respinge: questo non è che un

istinto

questo mento

cieco.

istinto

Quello

che

trasforma

l’avversione

in odio, è

in sentimento,

in amore,

l’attacca-

l’intenzione manifesta di nuocerci o di esserci utili. Non ci si appassiona per gli esseri insensibili, i quali non seguono che l’impulso che si dà loro: ma quelli da cui si aspetta del bene o del male per loro disposizione interiore, per loro volontà, quelli che vediamo agire liberamente pro o contro, c'ispirano dei sentimenti simili a quelli che ci dimostrano. Ciò che ci serve, lo si cerca; ma ciò che ci vuol servire, lo si ama: ciò che ci nuoce, lo si fugge; ma ciò che ci vuol

nuocere,

lo si odia.

Il primo sentimento di un fanciullo è quello di amare se stesso; e il secondo, che deriva dal primo, è di amare quelli che lo avvicinano; poiché, nello stato di debolezza in cui è, non conosce

nessuno se non per l’assistenza e le cure che riceve. Dapprima la viva affezione che ha per la nutrice e per la governante

non

è

che

abitudine.

Le

cerca,

perché ha bisogno di esse e perché si trova bene ad averle; è piuttosto conoscenza che benevolenza. Gli occorre molto tempo per comprendere che esse non soltanto gli sono utili, ma che vogliono esserlo; ed è allora ch'egli comincia ad amarle, Un fanciullo è dunque naturalmente

LIBRO

495

QUARTO

incline alla benevolenza, perché vede che tutto ciò che lo avvicina è spinto ad assisterlo e perché egli prende, ‘da que-

sta osservazione, l'abitudine di un sentimento favorevole alla sua specie: ma, via via che estende le sue relazioni, i

suoi bisogni, le sue dipendenze attive o passive, il sentimento dei suoi rapporti con gli altri si sveglia, e produce quello dei doveri e delle preferenze. Allora il fanciullo diventa imperioso, geloso,

ingannatore,

vendicativo.

Se

lo si

piega all’obbedienza, non vedendo l’utilità di ciò che gli si comanda, egli l'at-

tribuisce al capriccio, all’intenzione di tormentarlo, e si rivolta. Se gli si ubbi-

disce, appena qualche cosa gli resiste, egli ci vede una ribellione, un'intenzione di resistergli; batte la sedia o la tavola perché si è disubbidito. L'amore di sé, che non riguarda che noi, è contento quando i nostri veri bisogni sono sodisfatti; ma l'amor proprio, che si confronta, non è mai contento e non può esserlo, poiché questo sentimento, preferendoci agli altri, esige anche che gli altri ci preferiscano ad essi; il che è impossibile. Ecco in qual modo le passioni dolci ed affettuose nascono dall’amore di sé, e come le passioni odiose e irascibili nascono dall'amor proprio. Così,

ciò

che

rende

l’uomo

essenzial-

mente buono è di avere pochi bisogni e di paragonarsi poco agli altri; ciò che lo rende essenzialmente cattivo è di avere molti bisogni e di dipendere molto dall'opinione. In base a questo principio è agevole vedere come si possano dirigere al bene o al male tutte le passioni dei fanciulli e degli uomini. È vero che, non potendo vivere sempre soli, essi vivranno difficilmente sempre buoni: questa difficoltà aumenterà perfino necessariamente colle loro relazioni; ed è in ciò soprattutto che i pericoli della società ci rendono più indispensabili l’arte e le cure per prevenire,

nel

cuore

umano,

la

depravazione

che nasce dai suoi nuovi bisogni. Lo studio proprio all'uomo è quello dei suoi rapporti. Finché non si conosce che

per

il suo

diarsi per mezzo

essere

fisico,

deve

stu-

dei suoi rapporti con

le cose;

è questo

fezioni

della

l’ufficio della sua fan-

ciullezza: quando comincia a sentire il suo essere morale, deve studiarsi per mezzo dei suoi rapporti con gli uomini; è questo il compito di tutta la sua vita, a cominciare dal punto in cui siamo arrivati. Appena l’uomo ha bisogno di una compagna, non è più un essere isolato, il suo cuore non è più solo. Tutte le sue relazioni con la sua specie, tutte le afsua

anima,

nascono

con

quella. La sua prima passione fa ben presto fermentare le altre. L’inclinazione dell’istinto è indeterminata. Un sesso è attratto verso l’altro;

ecco il movimento

della natura.

La

lità

odiose,

ne

ne

scelta, le preferenze, la simpatia personale, sono l’opera del sapere, dei pregiudizi, dell'abitudine: occorrono tempo e cognizioni per renderci capaci di amore: non si ama se non dopo aver giudicato, non si preferisce che dopo aver confrontato. Questi giudizi si fanno senza che ce ne accorgiamo, ma non sono per questo meno reali. Il vero amore, checché se ne dica, sarà sempre onorato dagli uomini: poiché, quantunque i suoi impeti ci turbino, benché esso non escluda dal cuore che lo sente quae

perfino

produca,

suppone pertanto sempre delle stimabili, senza delle quali non si sarebbe in grado di sentirlo. Questa scelta, che è messa in opposizione con la ragione, ci viene da essa. Si è fatto l'Amore cieco, perché ha migliori occhi di noi e perché vede dei rapporti che noi non possiamo scorgere. Per chi non avesse alcuna idea di merito e di bellezza, ogni donna sarebbe egualmente buona, e la prima venuta sarebbe sempre la più amabile. L'amore, lungi dal venire dalla natura, è la regola e il freno delle sue inclinazioni: per esso, ad eccezione dell'oggetto amato, un sesso non è più niente per l’altro ?. La preferenza che si accorda, si vuole ottenerla;

l'amore

deve

essere

recipro-

co. Per essere amati, bisogna rendersi amabili; per essere preferiti, occorre rendersi più amabili di un altro, più amabili di chiunque altro, almeno agli

496

EMILIO

occhi dell'oggetto amato. Di qui i primi sguardi sui propri simili; di qui i primi confronti con essi; di qui l’emulazione,

le

rivalità,

la gelosia.

Un

cuore

pieno di un sentimento che trabocca si diletta a sfogarsi; dal bisogno di una amante nasce presto quello di un amico. Colui il quale sente quanto sia dolce l'essere amato, vorrebbe esserlo da tutti; e non è possibile che tutti vogliano esser preferiti, senza che ci siano molti malcontenti. Con l’amore e l'amicizia nascono i dissensi, l'inimicizia, l'odio. Dal seno di tante passioni diverse vedo l'opinione alzarsi su un trono incrollabile, e gli stupidi mortali, asserviti al suo impero, non fondare la loro esistenza che sui giudizi altrui. Estendete queste idee, e vedrete donde viene al nostro amor proprio la forma che gli crediamo naturale; e come l'amore di se medesimo, cessando di essere un sentimento assoluto, diventi or-

goglio nelle anime grandi, vanità nelle piccole, e in tutte si alimenti incessantemente a spese del prossimo. Non avendo la specie di queste passioni il suo germe nel cuore dei fanciulli, non vi può nascere da se stessa; siamo noi soli che ve la portiamo, e mai esse vi prendono radice se non per nostra colpa: ma non è più così del cuore del giovane; qualunque cosa noi possiamo fare, esse vi nasceranno nostro malgrado. È dunque tempo di cambiar metodo, Cominciamo da alcune riflessioni importanti sullo stato critico del quale qui si tratta. Il passaggio dalla fanciullezza alla pubertà non è talmente determinato dalla natura ch’esso non varii negli in* « Nelle città, dice il signor Buffon, e presso le persone agiate, i fanciulli, abituati a nutrimenti abbondanti e succulenti, arrivano più

presto a questo stato; in campagna e presso il popolo

povero,

i fanciulli

sono più

tardivi, per-

Ché sono nutriti male e troppo poco; occorrono

loro due o tre anni di più» (His. Nat., t. IV, p. 238, in-12). Ammetto l'osservazione, ma non la spiegazione, poiché nel paese in cui il contadino si nutrisce assai bene e mangia molto, come nel Vallese, e anche in alcuni luoghi montuosi dell'Italia, come il Friuli, l'età della pubertà nei due sessi è egualmente più tardiva che in quelle città nelle quali, per sodisfare la

dividui secondo i temperamenti, e nei popoli secondo i climi. Tutti sanno le distinzioni osservate su questo punto fra i paesi caldi e i paesi freddi, e ciascuno vede che i temperamenti ardenti sono formati più presto degli altri: ma ci si può ingannare sulle cause, ed attribuire spesso al fisico ciò che bisogna imputare al morale; è uno degli abusi più frequenti della filosofia del nostro secolo *. Le istruzioni della natura sono tardive e lente; quelle degli uomini sono quasi sempre premature. Nel primo caso i sensi svegliano l'immaginazione; nel secondo, l'immaginazione sveglia i sensi; essa dà loro un'attività precoce che non può mancare di snervare, d'indebolire, dapprima gli individui, e poi, a lungo andare, anche la specie. Un'osservazione più generale e più sicura di quella dell'effetto dei climi, è che la pubertà e la potenza del sesso sono sempre più precoci presso i popoli istruiti e civili che presso i popoli ignoranti e barbari *. I fanciulli hanno una sagacità singolare per distinguere, attraverso tutte le scimmiotterie della decenza,

i cattivi

loro,

lezioni

costumi

che

essa

co-

pre. Il linguaggio castigato che si ispira le

di

onestà

che

loro

si

danno, il velo del mistero che si ostenta di stendere davanti

ai loro occhi, so-

no altrettanti stimoli alla loro curiosità. AI

modo

con

cui

ci si mette,

è chiaro

che ciò che si finge di nascondere loro è solo per farlo imparare; e questa è, di tutte le istruzioni che si danno

loro,

quella della quale approfittano meglio. Consultate l'esperienza, e comprenderete a qual punto questo metodo insen-

vanità, si mette spesso nel mangiare una estiema parsimonia, e in cui la maggior patte, come dice il proverbio, « vestono bene e mangiano poco », Si è metavigliati di vedere, in queste montagne, grandi ragazzi, forti come uomini, avere ancora la voce acuta e il mento imberbe, e grandi ragazze già ben formate, non avere alcun segno periodico del loro sesso. Differenza che mi sembra derivare unicamente da ciò, che, nella semplicità dei loro costumi, la loro immaginazione, più a lungo tranquilla e calma, fa più tardi fermentare il sangue e rende il loro temperamento meno precoce.

LIBRO

QUARTO

497

sato acceleri l'opera della natura e rovini il temperamento. È questa una delle principali cause che fanno degenerare le razze nelle città. I giovani, esauriti presto, restano piccoli, deboli, mal fatti, invecchiano invece di crescere, co-

me la vite, a cui si fa produrre il frutto in primavera,

languisce

e muore

pri-

ma dell’autunno. Bisogna aver vissuto presso popoli rozzi e semplici per conoscere fino a quale età una felice ignoranza vi può prolungare l'innocenza dei fanciulli. È uno spettacolo commovente e ridicolo insieme

vedere

i due sessi, abbandonati

alla sicurezza dei loro cuori, prolungare nel fiore dell'età e della bellezza i giuochi ingenui dell’infanzia, e mostrare con la loro stessa familiarità la purezza dei loro piaceri. Quando infine questa amabile gioventù perviene a maritarsi, i due sposi, dandosi mutuamente le primizie della loro persona, sono più cari

l'uno

all’altro;

moltitudini

di

fanciulli,

sani e robusti, diventano il pegno di una unione che niente altera, ed il frutto della saggezza dei loro primi anni. Se l'età in cui l’uomo acquista la coscienza del suo sesso differisce tanto per l'effetto dell'educazione quanto per l’azione della natura, ne consegue che si può accelerare e ritardare questa età secondo il modo con cui si allevano i fanciulli; e se il corpo guadagna o perde in consistenza man mano che si ritarda o si accelera questo progresso, ne segue anche che, quanto più ci si applica a ritardarlo, tanto più un giovane acquista vigore e forza. Io non parlo ancora che degli effetti puramente fisici: si vedrà presto che essi non si limitano qui. Da queste riflessioni traggo la soluzione di quella questione così spesso dibattuta: se convenga illuminare i fanciulli per tempo sugli oggetti della loro curiosità, o se sia meglio darla loro a bere con modesti errori. Penso che non si debba fare né l’una né l’altra cosa. In primo luogo, questa curiosità non sorge senza che se ne sia loro data l’occasione. Bisogna dunque fare in modo che non l'abbiano. In secondo luogo,

delle questioni che non si è obbligati a risolvere non richiedono che s’inganni colui che le fa: è meglio imporgli silenzio che rispondergli mentendo. Egli sarà poco sorpreso di questa legge, se si è avuto cura di assoggettarvelo nelle cose indifferenti. Infine, se si prende il partito di rispondere, lo si faccia con la più grande semplicità, senza mistero, senza imbarazzo,

senza sorridere. C'è as-

sai meno pericolo a sodisfare la curiosità del fanciullo che ad eccitarla ‘. Le vostre risposte siano sempre gravi, brevi, decise, e senza mai apparenza d'esitazione. Non ho bisogno di aggiungere ch’esse devono essere vere. Non si può insegnare ai fanciulli il pericolo di mentire

agli

uomini,

senza

sentire,

da

parte degli uomini, il pericolo più grande di mentire ai fanciulli. Una sola menzogna del maestro scoperta dall'allievo, rovinerebbe per sempre tutto il frutto dell'educazione. Un'ignoranza assoluta su alcune materie è forse ciò che converrebbe meglio ai fanciulli: ma ch'essi apprendano presto ciò che è impossibile di nascondere loro sempre. Bisogna, o che la loro curiosità non si svegli in nessun modo, o ch’essa sia appagata prima dell'età in cui non è più senza pericolo. La vostra condotta col vostro allievo dipende mol. to, riguardo a ciò, dalla sua particolare situazione, dalle compagnie che lo circondano, dalle circostanze in cui si prevede che potrà trovarsi, ecc. Importa qui di non

affidare nulla

al caso;

e, se non

siete sicuro di fargli ignorare fino a se-

dici anni

la differenza dei sessi, abbiate

cura che l'apprenda prima dei dieci. Non mi piace che si ostenti con i fanciulli un linguaggio troppo castigato, né che si facciano lunghi giri di parole, di cui si accorgono, per evitare di dare alle cose il loro vero nome. I buoni costumi, in queste materie, hanno sempre molta semplicità; ma delle immaginazioni contaminate dal vizio rendono l'orecchio delicato, e costringono a sottilizzare continuamente sulle espressioni. I termini grossolani sono senza conseguenza; sono le idee lascive che occorre allontanate.

498

EMILIO

Quantunque il pudore sia naturale alla specie umana, naturalmente i fanciulli non ne hanno punto. Il pudore non nasce che con la conoscenza del male: e in qual modo i fanciulli, che non hanno né devono avere questa conoscenza, avrebbero questo sentimento che ne è l’effetto? Dar loro delle lezioni di pudore e di onestà, è insegnar loro che vi sono delle cose vergognose e disoneste, è suscitare in loro un desiderio segreto di conoscere quelle cose. Presto o tardi ne vengono a capo, e la prima scintilla che arriva all’immaginazione accelera certamente l’incendio dei sensi. Chiunque arrossisce è già colpevole; la vera innocenza non ha vergogna di nulla. I fanciulli non hanno i medesimi desideri degli uomini; ma, soggetti come essi alla sconcezza che offende i sensi,

possono da questo solo asservimento ricevere le stesse lezioni di convenienza. Seguite lo spirito della natura che, ponendo nei medesimi luoghi gli organi dei piaceri segreti e quelli dei bisogni disgustosi, c'ispira le stesse inquietudini in età differenti, ora con un'idea e ora con un’altra; all'uomo con la modestia, al fanciullo con la nettezza.

Non vedo che un buon mezzo per conservare ai fanciulli la loto innocenza: è che tutti quelli che li circondano la rispettino e l'amino. Senza di ciò, tutta la ritenutezza che si cerca di adoperare con essi si smentisce presto O tardi;

un

sorriso,

un

batter

d'occhio,

un

gesto sfuggito, dicono tutto ciò che si cerca di tacer loro; perché imparino, è sufficiente per loro vedere che si è voluto nascondere loro qualche cosa. La delicatezza di modi e di espressioni di cui si servono fra loro le persone civili, supponendo delle cognizioni che i fanciulli non debbono avere, è affatto fuori di luogo con essi: ma quando

si tiene veramente in gran conto la loro semplicità, si trova agevolmente, parlando ad essi, quella dei termini che loro convengono. C'è una certa ingenuità di linguaggio che si addice e piace all’innocenza: ecco il vero modo che distoglie un fanciullo da una peri-

colosa curiosità. Parlandogli semplicemente di tutto, non gli si lascia sospettare che resti qualcosaltro da dirgli. Aggiungendo alle parole grossolane le idee spiacevoli che loro convengono, si soffoca il primo fuoco dell’immaginazione: non gli si proibisce di pronunziare queste parole e di avere queste idee; ma gli si dà, senza che vi pensi, della ripugnanza a ricordarle. E quanti impicci questa ingenua libertà non risparmia a quelli i quali, traendola dal loro cuore, dicono

sempre

ciò che

occorre

dire,

e lo dicono sempre come l’hanno sentito! « Come si fanno i figli? ». Domanda imbarazzante che vien fatta abbastanza naturalmente

dai

fanciulli,

e la cui

ri-

sposta indiscreta o prudente decide talvolta dei loro costumi e della loro salute per tutta la loro vita. La maniera più breve che una madre immagina per liberarsene, senza ingannare il figlio, è d'imporgli silenzio. Ciò andrebbe bene se egli fosse stato abituato da molto tempo alle domande indifferenti e se non sospettasse un certo mistero in questo nuovo accento. Ma raramente ella si limita qui. « È il segreto delle persone maritate, gli dirà; i piccoli ragazzi non devono punto essere tanto curiosi ». Così va benissimo per cavar dall’impiccio la madre: ma sappia essa che,

offeso

nelle

sue

da

quel

tono

di

disprezzo,

il piccolo ragazzo non avrà un momento di riposo fino a quando non avrà appreso il segreto delle persone maritate, e non tarderà molto a conoscerlo. Mi si permetta di riferire una risposta ben differente che ho udita fare alla medesima domanda, ec che tanto più mi colpì in quanto essa veniva da una donna così modesta nei suoi discorsi come maniere,

l’occorrenza, suo

ma

calpestare,

che

sapeva,

per il bene

al-

di

figlio e per la virtù, il falso timore

del biasimo e le inutili chiacchiere della gente spiritosa. Non era molto che il fanciullo aveva gettato insieme con le urine una piccola pietra che gli aveva lacerata l’uretra;

ma

il male passato era

dimenticato. « Mamma, disse il piccolo sventato, come si fanno i figliuoli? ».

LIBRO

QUARTO

499

«Figlio mio, risponde la mamma senza «esitare, le donne li pisciano con dei dolori che costano loro talvolta la vita ». Che i pazzi ridano, che gli sciocchi siano scandalizzati; ma che i saggi cerchino se troveranno mai una risposta più giudiziosa e che calzi meglio al suo fine. Dapprima l'idea di un bisogno naturale e conosciuto dal fanciullo svia quella di un'operazione misteriosa. Le idee accessorie del dolore e della morte coprono quella con un velo di tristezza che attutisce l'immaginazione e reprime la curiosità; tutto avvia lo spirito sulle conseguenze del parto e non sulle sue cause. Le infermità della natura umana, degli oggetti disgustanti, delle immagini di sofferenza, ecco gli schiarimenti a cui conduce questa risposta, se la ripugnanza che ispira permette al fanciullo di domandarli. Di dove l’inquietudine dei desideri avrà occasione di nascere nelle conversazioni così condotte? E però voi vedete che la verità non è stata punto alterata, e che non si è avuto bisogno d’ingannare il proprio allievo invece d’istruirlo. I vostri figliuoli leggono: acquistano nelle loro letture delle cognizioni che non avrebbero se non avessero letto. Se studiano, l'immaginazione si accende e si aguzza nel silenzio del gabinetto. Se vivono

nel mondo,

intendono

un

gergo bizzarro, vedono degli esempi dai quali sono colpiti: sono stati così ben persuasi che erano uomini che, in tutto quello che gli uomini fanno in loro presenza, cercano

subito

in qual

modo

ciò

possa loro convenire: bisogna bene che le azioni altrui servano loro di modello, quando gli altrui giudizi servono loro di legge. Dei servitori che si fanno dipendere da essi, e perciò interessati a piacere, fanno loro la corte a spese dei buoni costumi; delle governanti canzonatrici

tengono

loro,

a

quattro

anni,

dei discorsi che la più sfacciata non oserebbe tener loro a quindici. Presto esse dimenticano quello che hanno detto;

ma

essi

non

dimenticano

ciò

che

hanno inteso. Le conversazioni licenziose preparanoi costumi libertini: il

lacchè briccone rende il fanciullo dissoluto; e il segreto dell'uno serve di garante a quello dell'altro. Il fanciullo allevato secondo la sua età è solo. Egli non conosce altre affezioni che quelle dell'abitudine; ama la sorella come il suo orologio, e l’amico come il suo cane. Non si sente di alcun sesso, di nessuna specie: l’uomo e la donna gli sono egualmente estranei; nulla attribuisce a sé di quello che essi fanno né di quello che dicono; non vede e non intende, o non vi presta alcuna attenzione;

i loro

discorsi

non

lo inte-

solamente

ch’essa

ressano più che i loro esempi: tutto ciò non è fatto per lui. Non è un errore artificioso che gli vien dato con questo metodo, è l'ignoranza della natura. Il tempo viene in cui la stessa natura prende cura d’illuminare il proprio allievo;

ed

è

allora

l'ha messo in grado di approfittare senza rischio delle lezioni che gli dà. Ecco il principio: non è mio compito accennare ai particolari delle regole: e i mezzi che propongo in vista di altri oggetti, servono pure di esempio per questo.

Se volete mettere l'ordine e la norma nelle passioni nascenti, estendete lo spazio durante il quale esse si sviluppano, affinché abbiano il tempo di ordinarsi via via che nascono. Allora non è l’uomo ma la natura

solo quella suo lavoro. solo,

non

che le mette in stessa; la vostra

ordine, cura è

di lasciarle accomodare il Se il vostro allievo fosse

avreste

niente

da

fare;

ma

tutto ciò che lo circonda infiamma la sua immaginazione. Il torrente dei pregiudizi lo trascina: per trattenerlo bisogna spingerlo in senso contrario. Bisogna che il sentimento incateni l’immaginazione, e la ragione faccia tacere l'opinione degli uomini5. La sorgente di tutte le passioni è la sensibilità; l’immaginazione determina la loro inclinazione. Ogni essere che senta i suoi rapporti deve essere commosso quando questi rapporti si alterano ed egli ne immagina o crede immaginarne di più convenienti alla sua natura. Sono gli errori dell'immaginazione che trasfor-

500

EMILIO

mano in vizi le passioni di tutti gli esseri limitati, anche degli angeli, se ne hanno: poiché bisognerebbe che conoscessero la natura di tutti gli esseri, per

sapere

quali

rapporti

convengano

me-

glio alla loro: Ecco dunque il sommario di tutta la saggezza umana nell’uso delle passioni: 1. sentire i veri rapporti dell’uomo tanto nella specie quanto nell’individuo; 2. ordinare tutte le affezioni dell'anima secondo questi rapporti. Ma è padrone l'uomo di ordinare le sue affezioni secondo tali o tali altri rapporti? Senza dubbio, se è padrone di dirigere la sua immaginazione sopra questo o quell'oggetto, o di darle questa o quella abitudine. D'altronde qui si tratta meno di ciò che un uomo può fare su se stesso, che di quanto noi possiamo fare sul nostro allievo, per la scelta delle circostanze ove noi lo collochiamo. Esporre i mezzi atti a mantenerlo

nell'ordine

della

natura,

è

dire

abbastanza in qual modo ne può uscire. Fino a tanto che la sua sensibilità

resta

limitata

al suo

individuo,

non

c'è

nulla di morale nelle sue azioni; è solo quando essa comincia ad estendersi fuori di lui ch'egli si forma prima i sentimenti, poi le nozioni del bene e del male, i quali lo costituiscono veramente uomo e parte integrante della sua specie. A questo primo punto dunque bisogna anzitutto fissare le nostre osservazioni £. Esse

sono

difficili,

in

quanto

che,

per farle, occorre respingere gli esempi che

sono

sotto

i nostri occhi,

e cercare

quelli in cui gli sviluppi ulteriori si fanno secondo l’ordine della natura. Un fanciullo formato, gentile, incivilito, il quale non attenda che la potenza di mettere in opera le istruzioni premature che ha ricevute, non s’inganna mai sul momento in cui questa potenza gli sopravviene. Anziché aspettarla l’accelera; dà al suo sangue una fermentazione precoce; sa quale deve essere l'oggetto dei suoi desideri molto tempo prima anche che li provi, Non è la natura

che la forza:

che

lo eccita,

è lui

stesso

essa non ha più nulla da

insegnargli, facendolo uomo; lo era per il pensiero assai prima di esserlo in effetto. Il vero cammino della natura è più graduale e più lento. A poco a poco il sangue s’infiamma, gli spiriti si elaborano, il temperamento si forma. Il saggio operaio che dirige la fabbrica ha cura di perfezionare tutti i suoi strumenti prima di metterli in opera: una lunga inquietudine precede i primi desideri, una lunga ignoranza li inganna; si desidera senza sapere che cosa. Il sangue

fermenta

e si agita;

una

esube-

ranza di vita cerca di estendersi al di fuori. L'occhio si anima e percorre gli altri esseri; si comincia a prendere interesse a quelli che ci circondano, si comincia a sentire che non si è fatti per vivere soli: è così che il cuore si apre agli affetti umani, e diviene capace di devozione. Il primo sentimento di cui un giovane allevato accuratamente sia suscettibile

non

è l'amore,

tivi,

furiosi:

tutto

il resto;' essi

ma

l'amicizia.

Il

primo atto della sua immaginazione nascente è d’insegnargli che ha dei simili, e la specie lo colpisce prima del sesso. Ecco dunque un altro vantaggio dell'innocenza prolungata: è di approfittare della sensibilità nascente per gettare nel cuore del giovane adolescente le prime sementi dell'umanità: vantaggio tanto più prezioso, in quanto è il solo tempo della vita in cui le medesime cure possano ottenere un vero risultato. Ho sempre visto che i giovani corrotti per tempo, e lasciati in balìa delle donne e della dissolutezza, erano inumani e crudeli; la foga del temperamento li rendeva impazienti, vendicala

loro

immaginazione,

piena di un solo oggetto, si rifiutava a pietà



non

misericordia;

ficato padre,

madre,

conoscevano

avrebbero

e l'universo



sacri.

intero,

per il più piccolo dei loro piaceri. Invece, un giovane allevato in una felice semplicità è portato, dai primi movimenti della natura, verso le passioni tenere e affettuose: il suo cuore compassionevole si commuove per le pene

LIBRO

501

QUARTO

dei suoi simili; esulta dal piacere quando rivede il suo compagno, le sue braccia

sanno

ma

lo

trovare

suoi occhi sanno nerezza; egli è di dispiacere, al feso. Se l'ardore rende

strette

carezzevoli,

versare lacrime di tesensibile alla vergogna rimpianto di avere ofdel sangue che s’infiam-

vivo,

impetuoso,

i

colleri-

co, il momento dopo si vede tutta la bontà del suo cuore nell’effusione del suo pentimento; piange, geme sulla ferita che ha fatta; vorrebbe, a prezzo del

suo sangue, riscattare quello che ha versato; tutto il suo impeto si estingue, tutta la sua fierezza si umilia davanti al sentimento della sua colpa. Se è egli stesso l’offeso, nell’impeto del suo

furore,

una

scusa,

una

parola

lo

disarmano; perdona i torti altrui con lo stesso buon cuore col quale ripara i suoi. L'adolescenza non è l'età né della vendetta né dell'odio; è quella della commiserazione,

della

clemenza,

della

sia nato

male,

generosità. Sì, lo sostengo, e non temo punto di essere smentito dall’esperienza, un

fanciullo che

non

e che abbia conservato fino a venti anni la sua innocenza, è a quell'età il più generoso,

più

stato credo

il migliore,

amabile

degli

il più amoroso,

uomini.

mai detto niente di bene, i vostri filosofi,

Non

vi

simile; allevati

il

è

lo in

mezzo alla corruzione dei collegi, non si curano di sapere ciò. La debolezza dell'uomo lo rende socievole; le nostre miserie comuni portano i nostri cuori all'umanità: non le dovremmo nulla se non fossimo uomini. Ogni affetto è un segno d'’insuffi-

cienza:

se

ciascuno

di

noi

non

avesse

bisogno degli altri, non penserebbe affatto ad unirsi a loro. Così dalla nostra stessa infermità nasce la nostra fragile felicità. Un essere veramente felice è un essere solitario; Dio solo gode di una felicità assoluta: ma chi di noi ne ha l'idea? Se qualche essere imperfetto potesse bastare a se stesso, di che godrebbe egli, secondo noi? Sarebbe solo,

sarebbe

miserabile.

Non

concepisco

che colui che non ha bisogno di nulla possa amare qualche cosa: non conce-

pisco che colui che non ama niente possa essere felice.‘ Ne consegue che noi guadagniamo l'animo dei nostri simili meno per il sentimento dei loro piaceri che per quello delle loro pene; poiché vi vediamo assai meglio l’identità della nostra natura e la garanzia della loro affezione per noi. Se i nostri comuni bisogni ci uniscono per interesse, le nostre comuni miserie ci uniscono per affezione. L'aspetto di un uomo felice ispira negli altri meno amore che invidia; lo si accuserebbe volentieri di usurpare un diritto

che

non

ha,

cità esclusiva; e ancora facendoci mo non ha alcun chi non compiange soffrire? Chi non suoi

mali,

se

ciò

ra, in quanto

che

facendosi

una

feli-

l'amor proprio soffre sentire che quell'uobisogno di noi. Ma l’infelice ch'egli vede vorrebbe liberarlo dai non

costasse

che

un

augurio? L'immaginazione ci mette al posto del miserabile piuttosto che a quello dell'uomo felice; si sente che uno di questi stati ci commuove più da vicino che l'altro. La pietà è dolce, poiché mettendosi al posto di quegli che soffre, si sente pertanto il piacere di non soffrire come lui. L’invidia è amal’aspetto

di un

uomo

felice, lungi dal mettere l’invidioso al suo posto, gli dà il dispiacere di non esserci. Sembra che l’uno ci esenti dai mali che soffre, e l’altro di tolga i beni di cui gode. Volete dunque eccitare ed alimentare nel cuore di un giovane i primi movimenti

della

sensibilità

nascente,

e diri-

gere il suo carattere verso la beneficenza e verso la bontà? Non andate a far germogliare in lui l'orgoglio, la vanità, l’invidia con l’immagine ingannatrice della felicità degli uomini; non esponete dapprima davanti ai suoi occhi la pompa delle corti, il fasto dei palazzi, l’attrattiva degli spettacoli; non lo conducete nei circoli, nelle brillanti assemblee;

non

ni, non è formarlo, ma corromperlo;

non

gli mostrate l’esteriore della grande società che dopo averlo messo in grado di apprezzarla in se stessa. Mostrargli il mondo prima che conosca gli uomiè istruirlo,

ma

ingannarlo.

502 né

EMILIO

Gli

re,

uomini né

non

grandi,



mali,

ai

sono

naturalmente

cortigiani,



ric-

chi; tutti sono nati nudi e poveri, tutti soggetti alle miserie della vita, ai di-

spiaceri,

ai

bisogni,

ai

dolori

di ogni specie; infine tutti sono condannati a morire. Ecco ciò che è veramente dell’uomo;

ecco

ciò da cui nessun

mor-

tale va esente. Cominciate dunque con lo studiare quello che è inseparabile dalla natura umana, quello che costituisce il meglio dell'umanità. A sedici anni l’adolescente sa cosa vuol dire soffrire, poiché ha sofferto egli stesso; ma egli sa appena che altri esseri soffrono pure: vederlo senza sentirlo non è saperlo; e, come l'ho detto cento volte, non immaginando il fanciullo quello che sentono gli altri, non conosce altri mali che i suoi: ma quando il primo sviluppo dei sensi accende in lui il fuoco dell’immaginazione, comincia a sentirsi nei suoi simili, a commuoversi dei loro lamenti, e a soffrire

dei loro dolori. È allora che il triste quadro dell’umanità sofferente deve portare al suo cuore la prima tenerezza ch'egli abbia mai provata. Se questo momento non è facile a riconoscere nei vostri ragazzi, con chi ve la prendete? Voi li istruite così per tempo a schernire il sentimento, ne insegnate loro così presto il linguaggio, che, parlando sempre sul medesimo tono, essi ritorcono le vostre lezioni contro voi stessi, e non vi lasciano alcun

mezzo di distinguere quando, cessando di mentire, cominciano a sentire quello che

dicono.

Ma

vedete

il mio

Emilio;

all'età in cui l'ho condotto, egli non ha né sentito né mentito. Prima di sapere cosa sia amare, egli non ha detto a nessuno: «Io vi amo tanto »; non gli si è punto prescritto il contegno che doveva assumere nella camera di suo padre,

di

sua

madre

o del

suo

istitutore

ammalato; non gli è stata mostrata l’arte di ostentare la tristezza che non aveva. Egli non ha finto di piangere sulla morte di nessuno; poiché non sa cosa sia morire. La medesima insensibilità che ha nel cuore l’ha anche nelle sue maniere.

Indifferente

a tutto,

fuori che

a se stesso, come tutti gli altri fanciulli, non prende interesse a nessuno; tut-

to ciò che lo distingue si è che non vuole affatto parere di prenderne, e che non è falso come loro. Emilio, avendo riflettuto poco sugli esseri sensibili, saprà tardi cosa sia soffrire e morire. I lamenti e le grida cominceranno ad agitare le sue viscere, l'aspetto del sangue che scorre gli farà stornare gli occhi; le convulsioni di un animale spirante gli daranno non so quale angoscia prima ch'egli sappia donde gli vengano queste emozioni. Se fosse rimasto stupido e barbaro, non le avrebbe;

se fosse più

istruito,

ne cono-

scerebbe la sorgente: ha già comparato troppe idee per non sentire nulla, e non abbastanza per comprendere ciò che sente. Così nasce la pietà, primo sentimento relativo che commuova il cuore umano secondo l’ordine della natura. Per diventare sensibile e pietoso, bisogna che il fanciullo sappia che vi sono esseri simili a lui che soffrono quello che egli ha sofferto, che sentono i dolori ch’egli ha sentiti, e altri di cui deve aver l'idea, come di esseri che possono ugualmente sentirli. Infatti, come ci lasciamo muovere a pietà, se non col trasportarci fuori di noi e coll’identificarci

con

l'animale

sofferente,

non

è in noi, ma

lasciando,

per

così dire, il nostro essere per prendere il suo? Noi non soffriamo se non tanto quanto giudichiamo ch'egli soffra; in lui che noi soffria-

mo. In tal modo nessuno diviene sensibile se non quando la sua immaginazione si anima, e comincia a trasportarlo fuori di lui. Per eccitare e alimentare questa sensibilità nascente, per guidarla e seguir-

la

nella

sua

inclinazione

naturale,

co-

sa dobbiamo dunque fare, se non offrire al giovane degli oggetti sui quali possa agire la forza espansiva del suo cuore, che lo dilatino, che lo estendano sugli altri esseri, che lo facciano dappertutto ritrovare

fuori

di sé;

se non

allontana-

re con cura quelli che lo rinserrano, lo concentrano e distendono la molla dell'io umano;

cioè, in altri termini, se non

LIBRO

503

QUARTO

promuovere

in lui la bontà, l'umanità, la

commiserazione, la beneficenza, tutte le passioni attraenti e dolci che piacciono naturalmente agli uomini, e impedire il

nascere

dell’invidia,

della

cupidigia,

dell'odio, di tutte le passioni ripugnanti e crudeli, che rendono,

la sensibilità

negativa,

non

e fanno

per così dire,

solamente

il

tormento

nulla, ma di

colui

che le prova? Credo di poter riassumere tutte le riflessioni precedenti in due o tre massime

dere.

precise,

chiare,

Prima

e

facili

a

inten-

affezionandosi

queche del affe-

sinceramen-

te, non si fa che appropriarsi una parte del suo benessere. Talvolta lo si ama nelle sue sventure: ma, finché prospera, non ha per vero amico se non colui il quale non è lo zimbello delle apparenze, e che lo compiange più che non lo invidi, malgrado la sua prosperità. Si è commossi, per esempio, della felicità di certi stati della vita campestre e pastorale. L'incanto di vedere quella buona gente felice non è avvelenato dall'invidia,

ci

Nor si compiangono negli altri se non

î mali di cui non stessi.

Non

Se si trovano delle eccezioni a sta massima, esse sono più apparenti reali. Così non ci si mette al posto ricco o del grande al quale ci si anche

Seconda massima

massima

Non è proprio del cuore umano il mettersi al posto di coloro che sono più felici di noi, ma solamente di quelli che sono più da compiangere.

ziona;

Ne consegue che, per condurre un giovane all’umanità, lungi dal fargli ammirare la sorte brillante degli altri, bisogna mostrarglicla dai suoi lati tristi, bisogna fargliela temere. Allora, per una conseguenza evidente, egli deve aprirsi una via verso la felicità, che non sia sulle tracce di nessuno.

si interessa

ad

essa

davve-

ci crediamo

esenti noi

ignara mali, miseris

[succurrere

disco?.

Non conosco niente di tanto bello, di tanto profondo, di tanto commovente, di

tanto vero quanto questo verso. Perché i re sono senza pietà per i loro sudditi? Perché essi fanno conto di non essere mai uomini. Perché i ricchi sono così duri verso i poveri? Perché non hanno paura di divenirlo. Perché la nobiltà ha un così gran disprezzo per il popolo? Perché un nobile non sarà mai plebeo. Perché i Turchi sono generalmente più umani, più ospitali di noi? Perché nel loro governo affatto arbitrario, essendo la grandezza e la fortuna dei particolari sempre precarie e vacillanti, essi non considerano punto l'abbassamento e la miseria come uno stato estraneo ad essi *; ciascuno può essere domani ciò che oggi è colui che egli

assiste.

ripresenta

orientali,

Questa

riflessione,

continuamente



alla

loro

nei

lettura

che

si

romanzi un

non

ro. Perché ciò? Perché ci si sente padroni di discendere a quello stato di pace e d’innocenza, e di godere della medesima felicità: è un'ultima risorsa che non dà se non idee piacevoli, attesoché basta volerne godere per poterlo. C'è sempre del piacere nel vedere le proprie risorse, nel contemplare il proprio bene, anche quando non se ne voglia usare.

so che di commovente che non ha punto tutta l’affettazione della nostra secca morale. Non abituate dunque il vostro allievo a guardare dall'alto della sua gloria le pene degli sfortunati, i lavori dei miserabili, e non sperate d'insegnargli a compiangerli, se li considera come estranei a lui. Fategli ben comprendere che la sorte di questi disgraziati può

* Ciò sembra cambiare un po' ora: gli Stati sembrano diventare più fissi, e gli uomini di-

ventano anche più duri.

EMILIO

504 essere la sua, che

tutti i loro mali sono

sotto i suoi piedi, che mille avvenimenti imprevisti ed inevitabili ve lo possono piombare da un momento all'altro. | Insegnategli a non contare né sulla nascita, né sulla salute, né sulle ricchezze;

mostrategli tutte le vicissitudini della fortuna; cercategli gli esempi sempre troppo frequenti di persone le quali, da uno stato più elevato del suo, sono cadute al disotto di quello di questi infelici: e che ciò sia per loro colpa o no, non è argomento da trattarsi ora; sa

egli soltanto cosa sia colpa? Non invadete mai il campo delle sue cognizioni, e non lo rischiarate che con le informazioni che sono a sua portata: non ha bisogno d'esser molto sapiente per sentire che tutta la prudenza umana non può garantirgli se tra un'ora sarà vivo o morto; se i dolori della nefrite non gli faranno digrignare i denti prima di notte; se fra un mese egli sarà ricco o povero; se fra un anno forse non faticherà sotto il bastone nelle galere di Algeri. Soprattutto, non andate a dirgli tutte queste cose freddamente come fosse il suo catechismo; ch'egli veda, ch'egli senta le calamità umane: scuotete, spaventate la sua immaginazione coi pericoli dai quali ogni uomo è continuamente circondato; che veda intorno a lui tutti questi abissi, e, nel

sentirveli descrivere, si serri addosso a voi per paura di cadervi. Noi lo renderemo

timido

e

codardo,

direte

voi.

Lo vedremo in seguito; ma, quanto al presente, cominciamo col renderlo umano; ecco soprattutto quello che c’importa. Terza massima La pietà che si ba del male altrui non si misura sulla quantità di questo ma-

le, ma

sul sentimento

li che lo soffrono.

attribuito

a quel-

Non si compiange un infelice se non in quanto si pensa ch'egli si senta degno d'esser compianto. Il sentimento fisico dei nostri mali è più limitato che

non sembri; ma è per la memoria che ce ne fa sentire la continuità, è per l’immaginazione che li estende nell’avvenire, che essi ci rendono veramente meritevoli di compassione. Ecco, penso, una delle cause che ci fanno essere più duri verso i mali degli animali che verso quelli degli uomini, quantunque la sensibilità comune dovrebbe egualmente identificarci con essi. Non si compatisce affatto un cavallo di carrettiere nella sua stalla, poiché non si presume che, mangiando il suo fieno, pensi alle botte ricevute e alle fatiche che lo aspettano. Non si compatisce neppure un montone che si vede pascolare, quantunque si sappia che sarà presto sgozzato, poiché si giudica ch’egli non prevede la sua sorte. Per estensione si diventa in tal modo duri sulla sorte degli uomini; e i ricchi si consolano del male che fanno ai poveri, supponendoli abbastanza stupidi per non sentirne nulla. In generale giudico del valore che ognuno mette alla felicità dei suoi simili dal caso ch'egli sembra fare di loro. È naturale che si faccia poco conto della felicità delle persone che si disprezzano. Non vi stupite dunque più se gli uomini politici parlano del popolo con tanto sdegno, né se la maggior parte dei filosofi ostentano di fare l'uomo così malvagio. È il popolo che compone il genere umano; ciò che non è popolo è così poca cosa, che non vale la pena di tenerne conto. L'uomo è lo stesso in tutte le condizioni:

se è così, i ceti più nume-

rosi meritano il maggior rispetto. Davanti a colui che pensa, tutte le distinzioni civili scompaiono: egli vede le medesime

passioni,

i

medesimi

senti-

menti nell'uomo rozzo e nell'uomo illustre; non vi discerne che il loro linguaggio, che un colorito più o meno affettato;

e

lino;

se

se

qualche

differenza

essenzia-

le li distingue, essa è a danno dei più dissimulatori. Il popolo si mostra com'è, e non è amabile: ma bisogna bene che le persone dell'alta società dissimurebbero C'è,

si mostrassero

orrore.

dicono

medesima

dose

ancora

come

sono,

fa-

i nostri

saggi,

la

di felicità e di dolore

LIBRO

QUARTO

505

in tutti gli stati. Massima tanto funesta quanto insostenibile; poiché se tutti sono egualmente felici, che bisogno ho io d'incomodarmi per qualcuno? Ognuno resti

com'è;

lo

schiavo

sia

maltrattato,

l'infermo soffra, il pezzente perisca; non c'è per essi nulla da guadagnare cambiando di stato. Essi fanno l’enumerazione delle pene del ricco, e mostrano l’inanità dei suoi vani piaceri: che sofisma madornale! Le pene del ricco non gli

derivano

dal

suo

stato,

ma

da

lui

solo, che ne abusa. Fosse anche più infelice dello stesso povero, non è da compiangere, perché i suoi mali sono tutti opera sua, e perché non dipende che da lui d'essere felice. Ma le pene dello sfortunato gli vengono dalle cose, dal rigore della sorte che grava su di lui. Non c'è abitudine che gli possa togliere il

sentimento

fisico

della

fatica,

della

spossatezza, della fame: il buon senso e la saggezza non servono a nulla per esentarlo dai mali del suo stato. Che ci guadagna Epitteto a prevedere che il suo padrone gli romperà la gamba? Gliela rompe meno per questo? Egli ha, ol. tre al suo male, il male della previdenza. Ancorché il popolo fosse assennato quanto lo supponiamo stupido, che potrebbe essere di diverso da quello che è? Che potrebbe fare di più di quello che fa? Studiate la gente di questa classe e vedrete che, sotto un altro linguaggio, essa ha altrettanto spirito e più buon senso di voi. Rispettate dunque la vostra specie; pensate che è composta essenzialmente dalla colleganza dei popoli; che quand’anche tutti i re e tutti i filosofi

ne

fossero

tolti,

non

ci se ne

accorgerébbe neppure, e le cose non andrebbero peggio. In una parola, insegnate al vostro allievo ad amare tutti gli uomini, ed anche quelli che li disprezzano; fate in modo ch'egli non si collochi in alcuna classe, ma che si ritrovi in tutte; parlate davanti a lui del genere

umano

con

tenerezza,

anche

con

pietà,

ma giammai con disprezzo. Uomo, non disonorare l’uomo. Per mezzo di queste vie ed altre simili, assai contrarie a quelle che sono praticate,

conviene

penetrare

nel

cuore

del giovane adolescente per eccitarvi i primi movimenti della natura, svilupparlo ed allargarlo ai suoi simili; al che aggiungo che occorre frammischiare a questi movimenti il meno interesse personale possibile: soprattutto nessuna vanità, nessuna emulazione, nessuna gloria,

nessuno

di

quei

sentimenti

che

ci

obbligano a confrontarci cogli altri; poiché questi paragoni non si fanno mai senza qualche impressione di odio verso quelli che ci disputano la preferen-

za, non

fosse altro che

nella nostra

sti-

ma. Allora bisogna accecarsi o irritarsi, essere un cattivo o uno sciocco: procuriamo di evitare questa alternativa. Queste passioni così pericolose nasceranno

presto

o tardi,

mi si dice, nostro

malgrado, Non lo nego; ogni cosa ha il suo tempo e il suo luogo: dico soltanto che non si deve aiutarle a nascere. Ecco lo spirito del metodo che bisogna prescriversi. Qui gli esempi e i particolari sono inutili, perché qui comincia la divisione

quasi

infinita

maestro,

la

vera

funzione

dagliare

i cuori,

dei

caratteri,

ed ogni esempio ch'io dessi non converrebbe forse a uno su cento mila. A questa età comincia anche, nell’abile dell’osserva-

tore e del filosofo che sa l'arte di scanlavorando

a

formarli.

Mentre il giovane non pensa ancora a contraffarsi e non l’ha ancora imparato, per ogni oggetto che gli si presenta si vede nel suo aspetto, nei suoi occhi, nel

suo gesto, l'impressione che ne riceve; si leggono sul suo viso tutti i movimenti della sua anima: a forza di spiarli si perviene a prevederli, e infine a diri gerli. Si osserva in generale che il sangue, le ferite, le grida, i gemiti, i preparativi delle operazioni dolorose, e tutto ciò che porta ai sensi oggetti di sofferenza, impressionano più presto e più general. mente tutti gli uomini. L'idea di distruzione, essendo più complessa, non colpisce allo stesso modo; l’immagine della morte viene più tardi e più debolmente, poiché nessuno ha, dal canto suo, l’espe-

rienza del morire: bisogna aver visto dei cadaveri per sentire le angosce de-

506

EMILIO

gli agonizzanti. Ma quando una volta questa immagine si è ben formata nel nostro spirito, non c’è spettacolo orribile ai nostri occhi, sia a causa

più del-

l'idea di distruzione totale che essa dà allora per mezzo dei sensi, sia perché,

sapendo

che questo

momento

è inevita-

bile per tutti gli uomini, ci si sente più vivamente commossi da una situazione alla quale si è sicuri di non potere sfug-

gire.

Queste impressioni diverse hanno le loro modificazioni e i loro gradi, che dipendono dal carattere particolare di ogni individuo e dalle sue abitudini an-

teriori; ma esse sono universali, e nessuno n'è interamente esente, Ce ne sono

di più tardive e di meno generali, che sono più proprie alle anime sensibili: sono quelle che si ricevono dalle pene

morali, dai dolori interni, dalle afflizioni, dai languori, dalla tristezza. Ci sono

delle persone che non sanno essere commosse se non dalle grida e dalle lacrime;

i lunghi

e sordi

gemiti

d'un

cuore

stretto dall'angoscia non hanno loro strappato mai dei sospiri; mai la vista di un contegno abbattuto, di un viso scarno e livido, d'un occhio spento e che non può più piangere, li ha fatti piangere; i mali dell'anima non sono niente per loro: essi sono giudicati, la loro anima

non

sente

nulla;

non

aspettatevi

da loro che rigore inflessibile, durezza di cuore, crudeltà. Essi potranno essere integri e giusti, mai clementi, generosi, pietosi.

Dico

che

potranno

essere

giu-

sti, se tuttavia un uomo può essere tale quando non è misericordioso. Ma non vi affrettate a giudicare i giovani in base a questa regola, soprattutto quelli che, essendo stati allevati come

devono

esserlo,

non

hanno

alcu-

na idea delle pene morali che non si sono fatte mai loro provare;

poiché, anco-

sto

cominciano

ra una volta, non possono compatire che i mali che conoscono; e questa apparente insensibilità, la quale non deriva che dall’ignoranza, si cambia prein

tenerezza,

quando

a

sentire che ci sono nella vita umana mille dolori che essi non conoscono. In quanto al mio Emilio, se ha avuto sem-

plicità e buon senso nell'infanzia, sono sicurissimo che avrà anima e sensibilità nella gioventù; poiché la verità dei sentimenti dipende molto dalla giustezza delle idee. Ma perché rammentarlo qui? Più di un lettore mi rimprovererà senza dubbio la dimenticanza delle mie prime risoluzioni,

avevo

infelici,

e della

promessa dei

al

felicità

morenti,

mio

degli

costante

allievo.

che

Degli

spettacoli

di

dolore e di miseria! Che felicità, che godimento per un giovane cuore che nasce alla vita!

Il suo triste istitutore, che

gli destinava un’educazione così dolce, non lo fa nascere che per soffrire. Ecco ciò che si dirà: cosa m'importa? Io ho promesso di renderlo felice, non di fare in modo: che avesse l'apparenza di esserlo. È colpa mia se, sempre vittime dell'apparenza, voi la prendete per la realtà? Prendiamo due giovani che escano dalla prima educazione, e che entrino nel mondo per due porte direttamente opposte. L'uno sale d'un tratto sull'Olimpo e si riversa nella più brillante società; lo si conduce alla corte, presso i grandi, presso i ricchi, presso le belle donne. Lo suppongo festeggiato dappertutto, e non esamino l’effetto di questa accoglienza sulla sua ragione; suppongo che essa vi resista. I piaceri volano incontro a lui, tutti i giorni nuovi oggetti lo divertono; egli si abbandona a tutto con un interesse che vi seduce. Voi lo vedete attento, premuroso,

curioso;

zione vi colpisce:

la prima

sua

ammira-

lo stimate contento:

ma considerate lo stato della sua anima;

voi credete ch'egli goda; io credo che soffra. Che scorge egli dapprima aprendo gli occhi? Delle moltitudini di pretesi beni che

non

conosceva,

e di cui la mag-

gior parte, non essendo che per un momento a sua portata, sembrano mostrarsi a lui soltanto per dargli il dispiacere d’esserne privo. Se passeggia in un palazzo, vi accorgete, dalla sua inquieta curiosità, ch’egli si domanda perché la sua casa paterna non è come quello. Tutte le sue domande vi dicono ch'egli

LIBRO

QUARTO

507

si paragona continuamente al padrone di quella casa; e tutto ciò che trova di mortificante per lui in questo parallelo acuisce la sua vanità,

irritandola.

Se in-

contra un giovane meglio vestito di lui, lo vedo

mormorare,

segretamente,

con-

tro l’avarizia dei suoi genitori. Se è vestito di gala più di un altro, ha il dolore di vedere quest'altro sorpassarlo o per la nascita o per lo spirito, e tutta la sua doratura umiliata davanti a un semplice vestito di panno. Se brilla da solo

in

una

riunione,

se

come

di

accordo,

di

un

uomo

grave,

fino

a lui;

il merito;

avrà

se

fosse

di-

sia ben

fatto, pieno

buone

fortune,

suoi

desideri,

ma non avrà né impeti né passioni per

gustarle.

Non

avendo

i

sempre prevenuti, mai il tempo di nascere, in mezzo ai piaceri egli non sente che la noia del disagio: il sesso fatto per la felicità del suo lo disgusta e lo sazia perfino prima che lo conosca; se continua a vederlo, non è più che per vanità; e quand’anche vi si affezionasse

con un gusto vero, non sarà lui solo giovane, lui solo brillante, lui solo ama-

bile, e non troverà sempre nelle sue amanti dei prodigi di fedeltà. Non dico niente degli intrighi, dei tradimenti,

delle

perversità,

dei

penti-

menti di ogni specie inseparabili da una simile vita. L'esperienza del mondo ce lo rende ripugnante, si sa: non parlo che delle seccature inerenti alla prima illusione. Quale

contrasto

so fin qui

per

attenzioni,

l’en-

estranea, egli che fu, tempo, il centro della

per sua!

così lungo Quanti af-

fronti, quante umiliazioni non deve egli subire, prima di perdere, fra gli ‘sconosciuti, i pregiudizi della sua importanza presi e nutriti in mezzo ai suoi!

Fanciullo,

tutto

gli

cedeva,

tutti

e gli fa sentire

e, anche

delle

loro

bef-

di spirito, amabile: sarà ricercato dalle donne; ma ricercandolo prima che le ami, lo renderanno piuttosto pazzo che innamorato:

le

le parole

tutti

sdegnato da un solo uomo, il disprezzo di quest'uomo avvelena immantinente gli applausi degli altri. Diamogli tutto, prodighiamogli i godimenti,

tutte

uni-

sulla

farde di un caustico non tardano ad arrivare

di

trare ad un tratto in un ordine di cose in cui è considerato per così poco, e ri. trovarsi come annegato in una sfera

si

alza

scono contro di lui; gli sguardi inquietanti

getto

si davan premura attorno a lui: giovane, bisogna ch'egli ceda a tutti; o, per poco che si trascuri e conservi le sue arie antiche, quante dure lezioni lo faranno rientrare in se stesso! L’abitudine di ottenere agevolmente gli oggetti dei suoi

si

punta dei piedi per essere visto meglio, chi è che non ha una segreta disposizione a mortificare l’aria superba e vanitosa d'un giovane presuntuoso? Ben presto,

e dei suoi amici, si è visto l'unico og-

colui

che,

chiu-

nel seno della sua famiglia

desideri nue.

lo

Tutto

porta

a

desiderare

delle privazioni

ciò che

lo lusinga

molto,

conti-

lo tenta;

tutto ciò che gli altri hanno, egli vorrebbe avere: agogna tutto, porta invidia a tutti, vorrebbe dominare dappertutto; la vanità lo rode, l’ardore dei desideri sfrenati infiamma il suo giovane cuore; la gelosia e l’odio nascono con essi; tutte le passioni divoranti vi prendono insieme lo slancio; egli ne porta l’agitazione nel tumulto del mondo; la riporta con sé tutte le sere; rientra in casa scon-

tento di sé e degli altri; si addormenta pieno di mille vani progetti, turbato da mille fantasie; e il suo orgoglio gli rappresenta fin nei sogni i beni chimerici il cui desiderio lo tormenta e che non possiederà mai in tutta la sua vita ®. Ecco il vostro allievo: vediamo il mio. Se il primo spettacolo che lo colpisce è un oggetto di tristezza, il primo ritorno su se stesso è un sentimento di piacere. Vedendo da quanti mali è libero, si sente più felice di quello che pensava. Condivide le pene dei suoi simili, ma questa partecipazione è volontaria e dolce. Gode a un tempo della pietà che ha per i loro mali, e della fortuna

che

ne

lo

esenta;

si

sente

in

quello stato di forza che ci estende oltre i limiti

della

nostra

individualità,

e

ci fa portare altrove l’attività superflua al nostro benessere. Per compiangere il male altrui, bisogna senza dubbio cono-

EMILIO

508 scerlo; ma non bisogna sentirlo. Quando si è sofferto o si teme di soffrire, si com-

piangono quelli che soffrono; ma mentre si soffre, non si compiange che se stessi.

Ora

se, essendo

tutti

sottomessi

alle miserie della vita, nessuno concede agli altri se non la sensibilità di cui non ha attualmente bisogno per sé, ne consegue che la commiserazione dev'essere un sentimento molto dolce, poiché depone in nostro favore, e invece un uomo duro è sempre infelice, poiché lo stato del suo cuore non gli lascia alcuna sensibilità sovrabbondante da potersi concedere alle pene altrui. Noi giudichiamo troppo la felicità dalle apparenze: la supponiamo dove meno si trova; la cerchiamo ove non può essere: la gaiezza non ne è che un segno molto equivoco. Un uomo allegro è spesso un disgraziato il quale cerca di ingannare gli altri e di stordire se stesso. Queste persone così amene, così leali, così serene in società, sono quasi tutte tristi e brontolone in casa loro, ed

i domestici scontano poi il divertimento che danno alle loro società. La vera contentezza non è né allegra né burlona; gelosi di un sentimento così dolce, nel gustarlo si pensa ad esso, lo si assapora,

uomo de

si

teme

veramente

punto;

di

chiude,

farlo

svaporare.

Un

felice non parla né riper

così

dire,

la fe-

velano

i di-

licità attorno al suo cuore. I giuochi ru-

morosi,

la gioia turbolenta,

sgusti e la noia. Ma la melanconia è amica della voluttà: la tenerezza e le lacrime accompagnano i più dolci godimenti, e la stessa gioia eccessiva strappa piuttosto il pianto che il riso. Se dapprima la moltitudine e la varietà dei divertimenti sembrano contribuire alla felicità, se l'uniformità di una

vita eguale pare a prima vista noiosa, guardandovi meglio si trova, invece, che la più dolce abitudine dell'anima consiste in una moderazione di godimento che lascia poco motivo al desiderio e al disgusto. L’inquietudine dei desideri produce

la curiosità,

l’incostanza;

il vuoto

dei piaceri turbolenti produce la noia. Non ci si annoia mai del proprio stato quando non se ne conosca uno più pia-

cevole. Di tutti gli uomini del mondo, i selvaggi sono i meno curiosi e i meno annoiati;

tutto

è loro

indifferente:

essi

non godono delle cose, ma di se stessi; passano la vita a non far nulla, e non si annoiano mai. L’uomo di mondo è tutto quanto nella sua maschera. Non essendo quasi mai

in se stesso, è sempre estraneo a sé, e si

trova molto a disagio quando è obbligato a rientrarvi. Ciò ch'egli è non è nulla, ciò che pare è tutto per lui. Non posso fare a meno di figurarmi, sul volto del giovane di cui ho dianzi parlato, un non so che d'impertinente, di manierato, di affettato, che dispiace,

che disgusta la gente alla buona; e su quello del mio, una fisonomia interessante e semplice, che dimostra la contentezza, ispira

la la

vera serenità dell'animo, che stima, la fiducia, e che sem-

mezzo

dell'altra, senza

bra non aspettare che l’effusione dell'amicizia per concedere la propria a coloro che lo avvicinano. Si crede che la fisonomia non sia che un semplice sviluppo di linee impresse già dalla natura. Per me, penserei che oltre a questo sviluppo, i lineamenti del viso di un uomo si vengano insensibilmente formando e prendendo una fisonomia per effetto dell'impronta frequente e abituale di certe affezioni dell'anima. Queste affezioni spiccano sul viso: nulla è più certo; e quando si convertono in abitudine, vi devono lasciare delle impronte durevoli. Ecco come concepisco che la fisonomia annunci il carattere e come si possa talvolta giudicare dell’uno per andare

a cercare

in cui,

divenuto

delle spiegazioni misteriose le quali suppongono delle cognizioni che noi non abbiamo. Un fanciullo non ha che due affezioni ben marcate, la gioia e il dolore: ride o piange; quelle intermedie non sono nulla per lui; egli passa continuamente dall'una all’altra di queste emozioni. Questa continua alternativa impedisce ch'esse lascino sul suo volto alcuna impronta costante, e ch'egli prenda una fisonomia:

ma

nell’età

più sensibile, egli è più vivamente o più costantemente commosso, le impressio-

LIBRO

509

QUARTO

ni più profonde lasciano delle tracce più difficili a distruggere; e dallo stato abituale dell'anima risulta una disposizione di lineamenti che il tempo rende incancellabili. Però non è raro vedere gli uomini cambiar di fisonomia in età diverse. Ne ho veduti parecchi in questo caso; e ho sempre trovato che quelli che avevo potuto osservare bene e seguire avevano anche cambiato di passioni abituali. Questa sola osservazione, ben confermata,

mi

sembrerebbe

decisiva,

e

educazione,

in

cui

imparare

a

non

è fuor di posto

in un trattato di

occorre

giudicare dei movimenti dell'anima dai segni esteriori. Non so se, per non avere imparato ad imitare delle maniere di convenzione e a fingere dei sentimenti che non ha, il mio giovane sarà meno amabile. Non è di questo che si tratta qui: so soltanto ch'egli sarà più amoroso; e stento molto a credere che chi non ama che sé possa abbastanza bene contraffarsi per piacere quanto colui il quale trae dalla sua affezione per gli altri un nuovo sentimento di felicità. Ma in quanto a questo medesimo sentimento, credo averne detto abbastanza per guidare su questo punto un lettore ragionevole, e mostrare che ‘non mi sono contradetto. Ritorno dunque al mio metodo, e dico: quando l’età critica si avvicina, offrite ai giovani degli spettacoli che li frenino, e non degli spettacoli che li eccitino; ingannate la loro immaginazione nascente con degli oggetti che, lungi dall’infiammare i loro sensi, ne reprimano l’attività. Allontanateli dalle città grandi, nelle quali l'abbigliamento e l’immodestia delle donne affrettano e prevengono le lezioni della natura, in cui tutto presenta ai loro occhi dei piaceri che non devono conoscere che solo quando sapranno sceglierli. Riconduceteli nelle loro prime abitazioni, dove la semplicità campestre lascia le passioni della loro età svilupparsi meno rapidamente: o, se il loro gusto per le arti li affeziona ancora alla città, prevenite in essi, per mezzo di questo medesimo gusto, un ozio pericoloso. Scegliete con

cura le loro società, le loro occupazioni,

i loro piaceri: non mostrate loro che dei quadri commoventi, ma modesti, che li agitino senza sedurli, e che alimentino la loro sensibilità senza sconcertare i loro sensi. Pensate anche che c'è dappertutto qualche eccesso da temere, e che le passioni smodate fanno sempre più male di quello che si vuole evitare. Non si tratta di fare del vostro allievo un infermiere, un fratello della Carità, di affliggere i suoi sguardi con degli oggetti continui di dolori e di sofferenze, di condurlo da infermo a infermo, da ospedale a ospedale, dalla Grève? alle prigioni: bisogna ch'egli si commuova e non che faccia il callo all'aspetto delle miserie umane. Per lungo tempo colpiti dai medesimi spettacoli, non se ne sentono più le impressioni; l'abitudine avvezza a tutto; ciò che si vede troppo non lo s'immagina più, e non è che l’immaginazione che ci faccia sentire i mali altrui: è così che a forza di vedere morire e soffrire,

i preti e i medici

diven-

tano spietati. Che il vostro allievo conosca dunque la sorte dell'uomo e le miserie

dei

suoi

simili;

ma

non

ne

sia

il ritorno

su

troppo spesso testimonio. Un solo oggetto bene scelto, e mostrato in un momento conveniente, gli darà un mese di tenerezza e di riflessioni. Non è tanto

ciò

che

vede,

quanto

quello che ha veduto, che determina il giudizio ch’egli ne fa; e l'impressione durevole che riceve da un oggetto gli proviene meno dall'oggetto medesimo che dal punto di vista sotto il quale lo si conduce a riqordarlo. È così che, aven-

do cura degli esempi, delle lezioni, delle immagini, voi fiaccherete per molto tempo lo stimolo dei sensi, e ingannerete la natura, pur seguendone le inclinazioni. Man mano ch'egli acquista delle cognizioni, scegliete idee che vi si riferiscano;

man

mano

che

i suoi desideri

si

accendono, scegliete degli spettacoli adatti a reprimerli. Un vecchio militare, che si è segnalato tanto per i suoi costumi quanto per il suo coraggio, mi ha raccontato che, nella sua prima giovinezza, suo padre, uomo di buon senso ma as-

510

EMILIO

sai devoto, vedendolo, per il suo temperamento nascente, dedito alle donne, non risparmiò nulla per contenerlo; ma infine, nonostante tutte le sue cure, sen-

tendolo vicino a sfuggirgli, ebbe in animo di condurlo in un ospedale di sifilitici,

e,

senza

prevenirlo

di

niente,

lo

fece entrare in una sala dove un branco di quegli infelici espiavano, con una cura

orribile, il disordine

che ve li ave-

va esposti. A quel ributtante spettacolo, che stomacava tutti i sensi a un tempo, il giovane poco mancò non svenisse, « Va,

miserabile

vizioso,

gli disse allora

il padre con tono veemente, segui l’ab-

bietta

inclinazione

che

ti trascina;

ben

presto sarai troppo felice di essere ammesso in questa sala, nella quale, vittima dei più infami dolori, forzerai tuo padre a ringraziare Dio per la tua morte ». Queste poche parole, unite all'energico quadro che colpiva il giovane, gli fecero un'impressione che non si cancellò mai più. Condannato dalla sua condizione a passare la gioventù nelle guarnigioni, preferì sopportare tutti i motteggi dei suoi compagni, anziché imitare il loro libertinaggio. « Sono stato

uomo, mi disse, -ho avuto delle debolezze; ma, giunto fino alla mia età, non ho

mai potuto vedere una ragazza pubblica senza provarne orrore ». Maestro, pochi discorsi; ma imparate a scegliere i luoghi, i tempi, le persone; poi date sempre le vostre lezioni con gli esempi, e siate sicuro del loro effetto. L'impiego della fanciullezza è poca cosa: il male che vi s'insinua non è senza rimedio, e il bene che vi si fa può venire più tardi. Ma non è così della prima età, in cui l’uomo comincia veramente

a vivere.

Questa

età non

dura

mai abbastanza per l’uso che se ne deve

fare, e la sua importanza esige un’atten-

zione senza posa: ecco perché insisto sull’arte di prolungarla. Uno dei migliori precetti della buona cultura è di ritardare tutto finché è possibile. Rendete i progressi lenti e sicuri: impedite che l'adolescente divenga uomo nel momento in cui non gli resta nulla da fare per divenirlo. Mentre il corpo cresce, gli

spiriti destinati a dare balsamo al sangue e forza alle fibre si formano e si elaborano. Se fate prendere loro un corso differente, e se quanto è destinato a perfezionare un individuo serve alla formazione

di

un

altro,

tutti

e due

resta-

no in uno stato di debolezza, e l’opera della natura rimane imperfetta. Le operazioni dello spirito risentono a loro volta di questa alterazione; e l’anima, tanto debole quanto il corpo, non ha che delle funzioni deboli e languide. Membra grosse e robuste non fanno né il coraggio né il genio; e penso che la forza dell'anima non accompagna quella del corpo, quando d'altro canto gli organi della comunicazione delle due sostanze sono mal disposti. Ma, per quanto ben disposti possano essere, agiranno sempre debolmente, se non hanno per principio che un sangue spossato, impoverito e sprovvisto di quella sostanza che dà forza e movimento a tutte le molle della macchina. Generalmente si scorge maggior vigore d'anima negli uomini i cui giovani anni sono stati preservati da una corruzione prematura, che in quelli il cui disordine è cominciato

con

la facoltà

di

abbandonarvisi;

ed è senza dubbio una delle ragioni perché i popoli che hanno dei costumi sorpassano ordinariamente in buon senso e in coraggio i popoli che non ne hanno. Questi brillano unicamente per non so quali piccole qualità abili, ch’essi chiamano

spirito,

acutezza

di

mente,

astu-

zia; ma quelle grandi e nobili funzioni di saggezza e di ragione che distinguono ed onorano l’uomo per mezzo delle belle azioni, delle virtù e delle cure veramente utili, non si trovano che nei

primi. I maestri si lamentano che il fuoco di questa età renda la gioventù incapace di disciplina, e lo vedo anch'io: ma non è forse colpa loro? Appena hanno lasciato prendere a questo fuoco il suo corso per mezzo dei sensi, ignorano essi che non si può più dargliene un altro? I lunghi e freddi sermoni di un pedante cancelleranno dalla mente del suo allievo l’immagine dei piaceri che ha concepito? Bandiranno dal.suo cuore i

LIBRO

QUARTO

desideri che lo no l'ardore di conosce l’uso? ostacoli che si

511

tormentano? Attutiranun temperamento di cui Non s’irriterà contro gli oppongono alla sola fe-

licità di cui abbia

l’idea?

E, nella dura

legge che gli si prescrive senza potergliela far intendere, che cosa vedrà

egli, se

non il capriccio e l'odio d’un uomo che cerca di tormentarlo? È forse strano ch'egli si rivolti e lo odii a sua volta? Capisco bene che, rendendosi compiacenti, ci si possa rendere più sopportabili, e conservare un’apparente autorità. Ma non vedo troppo a che serva l’autorità che non si esercita sul proprio allievo se non fomentando i vizi ch'essa dovrebbe reprimere; è come se, per calmare

un

cavallo

focoso,

lo scudiere

facesse saltare in un precipizio. Questo

fuoco

lo

dell’adolescente è tanto

lontano dall'essere un ostacolo per l’educazione, che anzi è per esso che questa si effettua e si compie; è desso che vi dà presa sul cuore di un giovane, quando cessa di essere meno forte di voi. Le sue prime affezioni sono le redini con le quali voi dirigete tutti i suoi movimenti: egli era libero, e lo vedo schiavo. Finché non amava nulla, non

dipendeva che da se stesso e dai suoi bisogni; tosto che ama, dipende dalle sue affezioni. Così si formano i primi vincoli che l'uniscono alla sua specie. Dirigendo verso di essa la sua sensibilità nascente, non crediate che questa abbraccerà dapprima tutti gli uomini, e che questa parola di genere umano significherà per lui qualche cosa. No, questa sensibilità si limiterà dapprima ai suoi

simili;

e i suoi

simili non

saranno

per lui degli sconosciuti, ma quelli con i quali ha dei legami, quelli che l’abitudine gli ha resi cari o necessari, quelli ch'egli vede evidentemente aver con lui modi di pensare e di sentire comuni, quelli che vede esposti alle pene che ha sofferte e sensibili ai piaceri che ha gustati; quelli, insomma, nei quali l’iden* L'affetto può fare a meno del contraccam-

bio, mai contratto tutti. La

l’amicizia. Questo è uno scambio, un come gli altri; ma è il più santo di parola azzico non ha altro correlativo

tità di natura più manifesta gli dà una più grande disposizione ad amare. Sarà solo dopo aver coltivata la sua indole in mille modi, dopo molte riflessioni sui suoi sentimenti e su quelli che osserverà negli altri, ch'egli potrà pervenire a generalizzare le sue nozioni individuali sotto l’idea astratta di umanità, e apgiungere alle sue affezioni particolari quelle che possono identificarlo con: la sua specie. Divenendo capace di affetto, diventa sensibile a quello degli altri *, e perciò anche attento agli indizi di tale affetto. Vedete voi qual nuovo impero state per acquistare su di lui? Quante catene avete messe intorno al suo cuore prima che se ne accorgesse! Cosa non sentirà egli quando, aprendo gli occhi su se stesso, vedrà ciò che avete fatto per lui; quando potrà paragonarsi agli altri giovani della sua età e paragonar voi agli altri istitutori! Dico quando lo vedrà, ma guardatevi bene dal dirglielo; se glielo direte, non lo vedrà più. Se esigerete da lui obbedienza in cambio delle cure che gli avete prestate, egli crederà che l'avete ingannato: dirà fra sé che, fingendo di rendergli servizio gratuitamente, avete preteso di caricarlo di un debito,

e di legarlo con

un contratto

al

quale non ha acconsentito. Invano aggiungerete che quello che esigete da lui non è che per lui stesso: in fin dei conti voi esigete, ed esigete in virtù di ciò che avete fatto senza la sua confessione. Quando un infelice prende il danaro che si finge di dargli, e si trova impegnato suo malgrado, voi gridate all’ingiustizia: non siete voi ancora più ingiusto di chiedere al vostro allievo il prezzo delle cure ch'egli non ha accettate? L’ingratitudine sarebbe più rara se i benefici a usura fossero meno comuni. Si ama ciò che ci fa del bene; è un sentimento tanto naturale! L’ingratitudine non è nel cuore dell'uomo, ma l'inche

del

se stesso.

Ogni

uomo

che

non

suo amico è certissimamente

un

sia

l'amico

briccone;

poiché non è tributando o fingendo di tributare l'amicizia, che la si può ottenere.

512

EMILIO

teresse

vi

è:

vi

sono

meno

obbligati

ingrati che benefattori interessati. Se mi venderete i vostri doni, mercanteggerò sul prezzo; ma se fingete di dare, per vendere poi al vostro prezzo, voi usate la frode: è l’essere gratuiti che li rende inestimabili. Il cuore non riceve leggi che da se stesso; volendolo incatenare lo si libera;

lo s’incatena

lascian-

dolo libero. Quando il pescatore getta l'esca nell’acqua, il pesce viene, e vi resta attor-

no

senza

diffidenza;

ma

quando,

preso

all'amo nascosto sotto l’adescamento, sente ritirare la lenza, cerca di fuggire. Il pescatore è il benefattore? Il pesce è

l’ingrato?

Si

vede

mai

che

un

uomo,

dimenticato dal suo benefattore, lo dimentica? Al contrario, ne parla sempre con piacere, non vi pensa senza tenerezza: se trova occasione di dimostrargli, con qualche servizio inatteso, che si ricorda dei suoi, con quale contentezza interna egli dà sfogo allora alla sua gratitudine! Con che dolce gioia si fa riconoscere!

ce:

«La

veramente

impeto

gli

di-

la voce della natura;

mai

un

ne

di-

mia

Con

quale

volta

è venuta! ». Ecco

vero beneficio fece un ingrato. Se dunque la riconoscenza è un sentimento

naturale,

e se

voi

non

struggete l’effetto per colpa vostra, state sicuri che il vostro allievo, comincian-

do

re,

a vedere sarà

ad

il pregio

esse

delle vostre cu-

sensibile,

purché

non

le abbiate messe voi stessi a prezzo; ed esse vi daranno,

nel suo cuore, un'auto-

rità che nulla potrà distruggere. Ma, prima di esservi bene assicurati di questo vantaggio, badate bene di non privarvene col farvi valere presso di lui. Vantargli i nostri servizi è renderglieli insopportabili; dimenticarli è farglieli ricordare. Finché è tempo di trattarlo da uomo, non gli si parli mai di ciò che vi deve, ma di ciò che non deve. Per ren* Il precetto stesso di agire con gli altri come vogliamo che si agisca con noi non ha per veri fondamenti che la coscienza e il sentimento; poiché dov'è la ragione precisa per cui io, essenda io, debbo agire come se fossi un altro, soprattutto quando sono moralmente sicuro di non trovarmi mai nel medesimo caso?

derlo

bertà; chi;

docile,

lasciategli

sottraetevi

elevate

tutta

la sua

a lui perché

la sua anima

li-

vi cer-

al nobile

sen:

timento della riconoscenza, non parlandogli mai se non del suo interesse. Non ho voluto che gli si dicesse che ciò che si faceva era per il suo bene, prima ch'egli fosse in grado di comprenderlo; in questo discorso non avrebbe visto che la vostra dipendenza, e non vi avrebbe preso che per il suo valletto. Ma ora che comincia a sentire cosa significa amare, sente anche qual dolce legame può unire un uomo a quello che ama: e, nello zelo che vi fa occupare di lui continuamente, non vede più la devozione

di

uno

schiavo,

ma

l'affezio-

ne di un amico. Ora niente ha tanto peso sul cuore umano quanto la voce dell'amicizia ben riconosciuta; poiché si sa ch’essa non ci parla mai se non per nostro interesse. Si può credere che un amico s'inganni, ma non che voglia ingannarci. Talvolta si resiste ai suoi consigli, ma non si disprezzano mai. Entriamo finalmente nell'ordine morale: abbiamo ora fatto un secondo passo d’uomo. Se fosse questo il posto, cercherei di mostrare in qual modo dai primi movimenti del cuore si elevino le prime voci della coscienza, e come dai sentimenti di amore e di odio nascano le prime nozioni del bene e del male. Farei vede che giustizia e bontà non sono soltanto delle parole astratte, delle pure entità

morali

formate

dall’intelletto,

ma delle vere affezioni dell’anima illuminata dalla ragione, e che non sono se non un progresso ordinato delle nostre affezioni primitive; che, mediante la sola ragione, indipendentemente dalla coscienza, non si può stabilire alcuna legge naturale; e che tutto il diritto della natura

non

è che una

chimera,

se

non è fondato su di un bisogno naturale al cuore umano *. Ma penso ch'io

E chi mi risponderà che, seguendo assai fedelmente questa massima, otterrò che la si segua parimenti con me? Il cattivo trae profitto dalla probità del giusto e dalla sua propria ingiustizia; è molto lieto che tutti siano giusti, eccetto lui. Quell'accordo, checché se ne dica, non è molto vantaggioso alle persone dabbene. Ma

LIBRO QUARTO

513

non devo fare qui dei trattati di metafisica

e di morale,



dei

corsi

di stu-

dio di nessuna specie; mi basta di segnalare l'ordine e il progresso dei nostri sentimenti e delle nostre cognizioni relativamente alla nostra costituzione. Altri dimostreranno forse ciò che io mi limito qui solo a indicare. Non avendo il mio Emilio esaminato finora che se stesso, il primo sguardo che getta sui suoi simili lo porta a confrontarsi con essi: e il primo sentimento che eccita in lui questo confronto è di desiderare il primo posto. Ecco il punto in cui l’amore di sé si cambia in amor proprio, e in cui cominciano a nascere tutte le passioni che aderiscono a quella. Ma per decidere se di codeste passioni quelle che domineranno nel suo carattere

deli

saranno

e nocive,

se

umane

e dolci, o cru-

saranno

passioni

di

benevolenza e di commiserazione, o d'in-

vidia e di cupidigia, bisogna sapere a qual posto si sentirà fra gli uomini, e quali generi di ostacoli potrà credere di dover vincere per pervenire a quello che vuole occupare. Per guidarlo in questa ricerca, dopo avergli mostrato gli uomini dagli accidenti comuni alla specie, bisogna ora mostrarglieli nelle loro differenze. Viene qui la misura dell’ineguaglianza naturale e civile, e il quadro di tutto l’ordine sociale. Bisogna studiare la società attraverso gli uomini, e gli uomini attraverso la società: quelli che vorranno trattare separatamente la politica e la morale non capiranno mai nulla di nessuna delle due. Attaccandosi dapprima alle relazioni primitive, si vede come gli uomini ne debbano essere colpiti e quali passionî ne debbano nascere: si vede che requando la forza di un’anima espansiva m'identifica col mio simile, e io mi sento, per così dire, in lui, è per non soffrire ch'io non voglio ch'egli soffra; m’interesso a lui per amor mio, e la ragione del precetto è nella natura stessa che m'ispira il desiderio del mio benessere in qualunque luogo mi senta esistere. Donde con«ludo non essere vero che i precetti della legge naturale siano fondati sulla sola ragione; essi hanno una base più solida e più sicura. L'amore

ciprocamente col progresso delle passioni queste relazioni si moltiplicano e si stringono. È meno la forza delle braccia che la moderazione dei cuori a rendere gli uomini indipendenti e liberi. Chiunque desidera poco dipende da pochi; ma confondendo sempre i nostri vani desideri con i nostri bisogni fisici, quelli che hanno fatto di questi ultimi i fondamenti della società umana hanno sempre preso gli effetti per le cause, e non hanno fatto che smarrirsi in tutti i loro ragionamenti. C'è nello stato di natura un’eguaglianza di fatto reale e indistruttibile, perché è impossibile in questo stato che la sola differenza

Ja uomo

a uomo

sia abbastan-

za grande per rendere l'uno dipendente dall’altro. C'è nello stato civile un’eguaglianza di diritto chimerica e vana, perché i mezzi destinati a mantenerla servono essi stessi a distruggerla, e perché la forza pubblica, aggiunta al più forte per opprimere il debole, rompe quella specie di equilibrio che la natura aveva messo fra di loro*. Da questa prima contradizione procedono tutte quelle che si osservano nell'ordine civile fra l'apparenza e la realtà. Sempre la moltitudine sarà sacrificata al piccolo numero, e l’interesse pubblico all'interesse particolare; sempre questi nomi speciosi di giustizia e di subordinazione serviranno di strumenti alla violenza e di armi all’iniquità: donde segue che gli ordini distinti, i quali si pretendono utili agli altri,

non

degli

uomini

sono

infatti

utili

che

a

se

stessi a spese degli altri; per cui si deve giudicare della considerazione che loro è dovuta secondo la giustizia e secondo la ragione. Resta da vedere se il grado che si sono attribuito è più favorevole alla felicità di quelli che l’occupaderivato

dall'amore

di



è

il

principio della giustizia umana. Il sommario di tutta la morale è dato nel Vangelo da quello della legge. * Lo spirito universale delle leggi di tutti i

paesi è di favorire sempre il forte contro il de-

bole e quegli che ha contro niente: questo inconveniente è senza eccezioni!

colui che non è inevitabile,

ha ed

EMILIO

514 no, per sapere quale giudizio ciascuno di noi debba recare della propria sorte. Ecco ora lo studio che c’importa; ma, per farlo bene, bisogna cominciare col conoscere il cuore umano. Se si trattasse solo di mostrare ai giovani l’uomo dalla sua maschera, non ci sarebbe bisogno di mostrarlo loro, lo vedrebbero sempre più del bisogno; ma, poiché la maschera non è l’uomo, e poiché non bisogna che la sua vernice li seduca, dipingendo loro gli uomini, dipingeteli come sono, non perché li detestino, ma perché li compiangano e non vogliano rassomigliar loro. È questo, secondo me, il sentimento meglio inteso che l’uomo possa avere sulla sua specie. À questo scopo occorre qui prendere una strada opposta a quella che abbiamo seguita fino ad ora, e istruire piuttosto il giovane coll’esperienza d’altri che con la sua. Se gli uomini lo ingannano, li prenderà in odio; ma se, rispettato da essi,

li vede

ingannarsi

reciprocamente,

ne avrà pietà. Lo spettacolo del mondo, diceva Pitagora !?, rassomiglia a quello dei giuochi olimpici: gli uni vi tengono bottega e non pensano che al loro vantaggio; gli altri vi pagano di persona e cercano la gloria; altri ancora si contentano di vedere i giuochi, e questi non sono i peggiori. Io vorrei che si scegliessero le compagnie di un giovane in tal modo ch'egli pensasse bene di quelli che vivono con ‘ui,

e gli

s'insegnasse

a conoscere

così

bene il mondo, ch'egli pensasse male di tutto ciò che vi si fa. Sappia egli che l’uomo

è naturalmente

buono,

lo senta,

giudichi del suo prossimo da se stesso; ma veda come la società depravi e perverta gli uomini; trovi nei loro pregiudizi la sorgente di tutti i loro vizi; sia portato a stimare ogni individuo, ma disprezzi la moltitudine; veda che tutti gli uomini portano presso a poco la stessa maschera, ma sappia anche che vi sono dei visi più belli della maschera che li copre. Questo metodo, bisogna confessarlo, ha

i suoi

inconvenienti,

e non

è facile

nella pratica; poiché se egli diventa osservatore troppo presto, se voi lo eser-

citate a osservare azioni

altrui,

troppo

lo renderete

da vicino

maldicente

le e

satirico, reciso e pronto a giudicare: si farà un odioso piacere di cercare in tutto sinistre interpretazioni, e di non vedere in bene nulla di ciò che è bene. Egli si abituerà almeno allo spettacolo del vizio e a vedere i cattivi senza orrore,

così

come

ci si avvezza

a vedere

gli infelici senza pietà. Ben presto la perversità generale gli servirà meno di lezione che di scusa: dirà fra sé che se l'uomo è così, egli non deve voler essere altrimenti. Ché se volete istruirlo per via di principi, e fargli conoscere con la natura del cuore umano l'applicazione delle cause esterne che convertono le nostre inclinazioni in vizi; trasportandolo in tal mo-

do ad un tratto dagli oggetti sensibili agli oggetti intellettuali, voi adoperate una metafisica ch'egli non è in grado di comprendere; ricadete nell’inconveniente,

così

accuratamente

evitato

ostacoli,

e per

il cuore

lontano,

mostrarglieli

fin

qui,

di dargli delle lezioni che rassomigliano a lezioni, di sostituire nel suo spirito l'esperienza e l’autorità del maestro all’esperienza propria e al progresso della sua ragione. Per togliere a un tempo questi due mettere

umano

a sua portata senza rischio di guastare il suo, vorrei mostrargli gli uomini da in

altri

tempi

o

in altri luoghi, e in modo ch'egli potesse vedere la scena senza mai potervi agire. Ecco il momento della storia; per mezzo di essa leggerà nei cuori senza le lezioni della filosofia; per mezzo di essa li vedrà, semplice spettatore, senza interesse e senza passione, come loro giudice, non come loro complice né come loro accusatore. Per conoscere gli uomini bisogna vederli agire. Nel mondo si sentono parlare; essi mostrano i loro discorsi e nascondono le loro azioni: ma nella storia queste sono rivelate e si giudicano sui fatti. Anche i loro discorsi aiutano ad apprezzarli; poiché, confrontando ciò che fanno con quello che dicono, si vede a un tempo ciò che sono e quello

LIBRO

515

QUARTO

che vogliono parere: quanto più si travestono, tanto meglio si conoscono. Purtroppo questo studio ha i suoi pericoli, i suoi inconvenienti di più specie. È difficile mettersi in un punto di vista dal quale si possano giudicare i propri simili con equità. Uno dei grandi vizi della storia è ch'essa dipinge assai più gli uomini dai loro lati cattivi che dai buoni: siccome non è interessante che

per

le rivoluzioni,

le catastrofi,

fin-

ché un popolo cresce e prospera nella calma di un tranquillo governo, non ne dice nulla: non comincia a parlarne che quando, non potendo più bastare a se stesso, prende parte agli affari dei suoi vicini, o lascia questi prendere parte ai suoi;

essa

non

lo

illustra

che

quando

è già sul suo declinare: tutte le nostre storie cominciano ove dovrebbero finire. Abbiamo con molta esattezza quella dei popoli che si distruggono; ciò che ci manca è quella dei popoli che si mol. tiplicano; essi sono abbastanza felici e abbastanza saggi, perché essa non abbia da dir niente di loro; e infatti noi vediamo, anche ai giorni nostri, che i go-

verni i quali si conducono meglio sono quelli di cui si parla meno. Noi dunque non

conosciamo

non

ci sono

me

la storia,

che il male, è miracolo

se il bene resta memorando. che

i cattivi,

Di celebri

i buoni

sono

dimenticati o presi in giro; ed ecco coal pari

della

filosofia,

lunnia senza tregua il genere umano. Inoltre,

i fatti

descritti

nella

ca-

storia

son ben lontani dall'essere la pittura esatta degli stessi fatti così come sono accaduti: essi cambiano di forma nella testa dello storico, si modellano sui suoi interessi, prendono l'apparenza dei suoi pregiudizi. Chi sa mettere esattamente il lettore al luogo della scena, per vedere un avvenimento così come è accaduto? L'ignoranza o la parzialità dissimulano tutto. Senza neppure alterare un tratto storico, estendendo o restringendo

le circostanze

che

vi

si riferiscono,

quanti aspetti diversi gli si possono dare! Mettete un medesimo oggetto a diversi

punti

di vista, e sembrerà

appena

lo stesso; tuttavia niente avrà cambiato, se non l'occhio dello spettatore. Ba-

sta forse, per mi un fatto tutto diverso Quante volte no,

una

roccia

l'onore della verità, dirvero facendomelo vedere da quello che è accaduto? un albero di più o di mea destra

o a sinistra,

un

turbine di polvere sollevato dal vento, hanno deciso dell'esito di un combattimento, senza che nessuno se ne sia accorto! Ciò impedisce forse che lo storico vi dica la causa della disfatta o della vittoria con tanta sicurezza come s'egli fosse stato dappertutto? Ora che m'importano i fatti in se stessi, quando la ragione me ne rimane sconosciuta? E quali lezioni posso trarre da un avvenimento del quale ignoro la vera causa? Lo storico me ne dà una, ma la inventa; e la critica stessa, di cui si fa tanto rumore, non è che un'arte di congetturare,

l’arte di scegliere, fra parecchie menzogne, quella che somiglia meglio aila verità. Non avete mai letto Cleopatra o Cassandra, o altri libri di questa specie? !* L'autore sceglie un avvenimento conosciuto,

poi,

accomodandolo

alle

sue

ve-

mai esistiti, e di ritratti immaginari,

ac-

dute, ornandolo di particolari di sua invenzione, di personaggi che non sono cumula finzioni sopra finzioni per renderne la lettura piacevole. Io vedo poca differenza fra questi romanzi e le vostre storie,

se

non

che

il romanziere

si ab-

bandona di più alla sua propria immaginazione, e lo storico si sottopone più a quella degli altri: al che aggiungerò, se si vuole, che il primo si propone un oggetto morale, buono o cattivo, del quale l’altro non si preoccupa punto. Mi si dirà che la fedeltà della storia interessa meno che la verità dei costumi e dei caratteri; purché il cuore umano sia ben dipinto, importa poco che gli avvenimenti siano fedelmente riferiti; poiché, dopo tutto, si aggiunge, che ci fanno dei fatti accaduti duemila anni fa? Si ha ragione, se i ritratti sono rappresentati dal vero; ma se la maggior parte non ha il proprio modello che nell'immaginazione dello storico, non è ricadere nell’inconveniente che si voleva evitare, e rendere all'autorità degli scrittori ciò che si vuol togliere a quella del

EMILIO

516 maestro? Se il mio allievo non deve vedere che dei quadri di fantasia, preferisco che siano tracciati dalla mia mano che da quella di un altro; gli saranno almeno meglio appropriati. I peggiori storici per un giovane sono quelli che giudicano. I fatti! I fatti! E che giudichi

da sé; è così ch'egli im-

para a conoscere gli uomini. Se il giudizio dell’autore lo guida continuamente, egli non fa che vedere coll’occhio di un altro; e quando quest'occhio gli manca, non vede più nulla. Lascio da parte la storia moderna, non soltanto perché non ha più fisonomia e perché gli uomini nostri si rassomigliano tutti,

ma

perché

i nostri

storici,

unica-

mente intenti a brillare, non pensano che a fare dei ritratti fortemente colorati, e i quali spesso non rappresentano niente *. Generalmente gli antichi fanno meno ritratti, mettono meno spirito e maggior buon senso nei loro giudizi; e anche c'è fra loro una grande scelta da fare, c non bisogna a tutta prima prendere i più giudiziosi, ma i più semplici. Io non vorrei mettere nelle mani di un

giovane

né Polibio,

né Sallustio;

Tacito

è il libro dei vecchi, i giovani non sono fatti per intenderlo: bisogna imparare a vedere nelle azioni umane i primi tratti del cuore dell'uomo, prima di volerne scandagliare le profondità; bisogna saper leggere bene nei fatti prima di leggere nelle massime. La filosofia in massime non conviene che all'esperienza. La gioventù non deve generalizzare niente: tutta la sua istruzione dev'essere in regole particolari !5. Tucidide

è, a mio parere, il vero mo-

dello degli storici. Egli riferisce i fatti senza giudicarli; ma non omette nessuna delle circostanze atte a farceli giudicare da noi. Mette tutto ciò che racconta sotto gli occhi del lettore; lungi dall’interporsi fra gli avvenimenti e i lettori, egli si sottrae; non si crede più di leggere, si crede di vedere. Disgraziatamente parla sempre di guerra, e quasi

lis,

* Si veda Davila, Guicciardini, Strada, Machiavelli, e qualche volta lo stesso

SoDe

non

si vede

cosa del mondo

nei

suoi

racconti

che

la

meno istruttiva, cioè dei

combattimenti. La Ritirata dei diecimila e i Commentari di Cesare hanno presso a poco il medesimo merito e il medesimo difetto. Il buon Erodoto, senza ritratti, senza massime, ma fluido, ingenuo, pieno di particolari i i più capaci ad interessare e a piacere, sarebbe forse il migliore degli storici, se questi medesimi particolari non degenerassero spesso in semplicità puerili, più adatte a guastare il gusto della gioventù che a formarlo: occorre già del discernimento per leggerlo. Non dico niente di Tito Livio,

la

sua

re con

nomi,

volta

verrà;

ma

egli

e date;

ma

le cau-

politico, egli è retore, è tutto ciò che non conviene a questa età. La storia in generale è difettosa, in quanto essa non tiene conto che di fatti sensibili e stabiliti che si possono fissaluoghi

se lente e progressive di questi fatti, le quali non possono citarsi allo stesso modo, restano sempre sconosciute. Si trova spesso in una battaglia guadagnata o perduta la ragione di una rivoluzione che, anche prima di questa battaglia, era già divenuta inevitabile. La guerra non fa che manifestare avvenimenti già determinati da cause morali che gli storici sanno raramente vedere. Lo spirito filosofico ha rivolto da questo lato le riflessioni di parecchi scrittori di questo secolo, ma dubito che la verità guadagni da questo loro lavoro. Essendosi il furore dei sistemi impadronito di tutti loro, nessuno cerca di vedere le cose come sono, ma come si con-

ciliano col suo sisterna. Aggiungete a tutte queste riflessioni che la storia mostra assai più le azioni che gli uomini, poiché essa non coglie questi che in certi momenti determinati, nei loro vestiti di gala; essa non espone che l'uomo pubblico, il quale si è accomodato per essere visto: non lo segue in casa,

nel

suo

studio,

in famiglia,

in

mezzo ai suoi amici; non fo dipinge che

Thou. Vertot è quasi il solo che sapesse dipingere senza

far ritratti"

LIBRO

QUARTO

517

quando fa bella comparsa; è piuttosto il suo abito che la sua persona che essa dipinge. Preferirei la lettura delle vite particolari per cominciare lo studio del cuore umano; poiché allora l'uomo ha un bel nascondersi, lo storico lo insegue dappertutto; non gli lascia alcun momento di sollievo, alcun recesso per evitare l’occhio penetrante dello spettatore; ed è quando l’uno crede di nascondersi meglio che l'altro lo fa conoscere meglio. « Coloro,

dice

Montaigne,

il cuore

umano,

il non

che

scrivono

le vite, in quanto si divertono più alle deliberazioni che agli avvenimenti, più a ciò che parte dal di dentro che a quello che accade al di fuori, coloro mi sono più adatti; ecco perché, in ogni modo, il mio uomo è Plutarco » 1, È vero che il genio degli uomini riuniti o dei popoli è molto diverso dal carattere dell’uomo in particolare, e sarebbe conoscere molto imperfettamente esaminarlo

an-

che nella moltitudine: ma non è meno vero che bisogna cominciare con lo studiare l'uomo per giudicare gli - uomini, e che chi conoscesse perfettamente le inclinazioni di ogni individuo potrebbe prevedere tutti gli effetti combinati nel corpo del popolo. Bisogna ancora qui ricorrere agli antichi, per le ragioni che ho già dette, e di più, perché, essendo tutti i particolari farniliari e volgari, ma veri e caratteristici, banditi dallo stile moderno, gli uomini sono abbelliti dai nostri autori tanto nella loro vita privata quanto nella scena del mondo.

La decenza,

se non ciò che permette

di farvi;

non

meno severa negli scritti che nelle azioni, non permette più di dire in pubblico

e, sic-

come non si possono mostrare gli uomini che solo raffigurandoli sempre, così non sono da noi meglio conosciuti nei nostri libri che sui nostri teatri. Si avrà un bel fare e rifare cento volte la vita dei re, non avremo più Svetoni *. Plutarco eccelle per questi medesimi * Uno solo dei nostri storici che ha imitato

Tecito nei grandi tratti, ha osato imitare Svetonio e talvolta trascrivere Commines nei pic-

particolari nei quali noi non osiamo più entrare. Ha una grazia inimitabile nel dipingere i grandi uomini nelle piccole cose; ed è così felice nella scelta dei tratti, che spesso una parola, un sorriso,

un gesto gli è sufficiente per caratterizzare il suo eroe. Con una parola piacevole Annibale rassicura il suo esercito spaventato, e lo fa marciare ridendo alla battaglia che gli dette nelle mani l’Italia;

Agesilao,

a cavallo

di

un

bastone,

mi fa amare il vincitore del gran re; Cesare, attraversando un povero villaggio e discorrendo coi suoi amici, scopre, senza pensarci, il furfante il quale diceva non voler essere se non l’eguale di Pompeo; Alessandro inghiotte una medicina, e non dice neppure una parola; è il più bel momento della sua vita; Aristide scrive il suo nome sopra una conchiglia, e giustifica così il suo soprannome; Filopemene, col mantello giù, spacca la legna nella cucina del suo ospite. Ecco la vera arte di dipingere. La fisonomia non si mostra nei grandi tratti, né il carattere nelle grandi azioni: è nelle inezie che si scopre il naturale. Le cose pubbliche sono o troppo comuni o troppo preparate, ed è quasi unicamente

a que-

ste che la dignità moderna permette ai nostri autori di arrestarsi. Uno dei più grandi uomini del secolo passato fu incontestabilmente il signor di Turenne. Si è avuto il coraggio di rendere interessante la sua vita con dei piccoli particolari che lo fanno conoscere ed amare; ma quanti si è stati forzati a sopprimerne, che l’avrebbero fatto conoscere e amare di più! To ne citerò uno solo, che ho attinto a buona fonte, e che

Plutarco si sarebbe ben guardato dall’omettere, ma che Ramsay non si sarebbe curato "di scrivere, ancorché l’avesse saputo !8, Un giorno di estate in cui il caldo era

eccessivo,

il visconte

di Turenne,

in ca-

miciotto bianco e in berretto, era alla finestra della sua anticamera: uno dei suoi domestici arriva e, ingannato dal-

coli; e ciò stesso che aggiunge pregio libro, l'ha fatto criticare fra noi”,

al

suo

EMILIO

518 l'abbigliamento, lo prende per un aiutante di cucina col quale questo servitore era familiare. Egli si avvicina adagio adagio di dietro e, con una mano che non era leggera, gli applica un gran colpo sulle natiche. L'uomo colpito si volta all'istante. Il domestico vede fremendo il viso del suo padrone. Si getta in ginocchio tutto turbato: « Monsignore, ho creduto che fosse Giorgio...». « E quand’anche fosse stato Giorgio, esclama Turenne fregandosi il sedere, non bisognava picchiare così forte ». Ecco dunque ciò che voi non osate dire, miserabili! Siate dunque per sempre senza carattere,

senza

visceri;

temprate,

indurite

vostri cuori di ferro nella vostra cenza; rendetevi disprezzabili a dignità. Ma tu, o buon giovane, gi questo tratto e che senti con

vile deforza di che legtenerez-

za tutta la dolcezza d'animo che mostra,

re e posare gli abiti, e conta le corde e le carrucole, il cui fascino grossolano inganna gli occhi degli spettatori. Ben presto alla sua prima sorpresa succederanno degli impeti di vergogna e di sdegno per la sua specie; egli s'indignerà di vedere così tutto il genere umano, zimbello di se stesso, avvilirsi in questi giuochi da fanciulli; si affliggerà di vedere i suoi fratelli lacerarsi a vicenda per dei sogni e cambiarsi in bestie feroci per non aver saputo contentarsi di essere uomini.

i

anche nel primo impeto, leggi pure le piccolezze di questo grande uomo, quando si trattava della sua nascita e del suo nome. Pensa che è lo stesso Turenne il quale ostentava di cedere dappertutto il passo a suo nipote, affinché si vedesse bene che questo fanciullo era il capo di una casa sovrana. Riavvicina questi contrasti, ama la natura, disprezza l'opinione, e conosci

l'uomo.

Vi sono ben poche persone capaci di concepire gli effetti che letture così dirette possano operare sullo spirito affatto nuovo di un giovane. Curvi sui li bri

fin dalla

nostra

infanzia,

mo

ci colpisce

tanto

vane

allevato

secondo

abituati

a

leggere senza pensare, quello che leggiameno,

in quanto,

portando già in noi stessi le passioni e i pregiudizi che riempiono la storia e le vite degli uomini, tutto ciò che fanno ci sembra naturale, perché noi siamo fuori della natura, e giudichiamo gli altri da noi stessi. Ma ci si figuri un giole mie

massime,

ci si raffiguri il mio Emilio, al quale diciotto anni di cure assidue non hanno avuto per oggetto che di conservare un giudizio integro e un cuore sano; ce lo s'immagini,

all’alzar del sipario,

mentre

getta per la prima volta gli occhi sulla scena

del

mondo,

o piuttosto,

collocato

dietro il teatro, vede gli attori prende-

Certamente, con le disposizioni naturali dell'allievo, per poca prudenza e per poca scelta che il maestro porti nelle sue letture, per poco che lo metta sulla strada delle riflessioni che deve trarne, questo esercizio sarà per lui un corso di filosofia pratica, migliore certamente e meglio inteso di tutte le vane speculazioni con cui si confonde la mente dei giovani nelle nostre scuole. Che dopo di aver seguito i romanzeschi progetti di Pirro, Cineca gli domandi qual bene reale gli procurerà la conquista del mondo, ch'egli non possa godere fin da ora senza tanti tormenti;

noi non vi ve-

diamo che una parola che passa: ma Emilio vi vedrà una riflessione molto saggia, che avrebbe fatta per il primo, e che non si cancellerà mai dal suo spirito, poiché non vi trova alcun pregiudizio contrario che possa impedirne l’impressione. Quando poi, leggendo la vita di questo insensato, troverà che tutti i suoi grandi disegni sono finiti coll'andarsi a fare uccidere dalla mano di una donna; invece di ammirare questo falso eroismo, cosa vedrà egli in tutte le gesta di un così grande capitano, in tutti gli intrighi di un così gran politico, se non altrettanti passi per andare a cercare quella disgraziata tegola che doveva dar termine alla sua vita e ai suoi progetti con una morte disonorevole? Tutti i conquistatori non sono stati uccisi, tutti gli usurpatori non hanno fallito nelle loro imprese; parecchi sembreranno felici agli spiriti preoccupati dalle opinioni volgari: ma colui che, senza fermarsi alle apparenze, giudica della felicità degli uomini soltanto dallo stato dei loro cuori, vedrà le miserie loro

LIBRO

QUARTO

519

nei medesimi loro successi; vedrà i loro desideri e le loro inquietudini rodenti estendersi ed accrescersi con la loro fortuna; li vedrà perdere vigore avanzando, senza mai pervenire alla loro meta; li vedrà simili a quei viaggiatori inesperti che, cacciandosi per la prima volta fra le Alpi, pensano di varcarle ad ogni montagna, e, quando sono sulla cima, trovano con scoraggiamento altre montagne più alte davanti a loro. Augusto, dopo aver sottomesso i suoi

ma il giuoco di tutte le passioni umane offre simili lezioni a chi vuole studiare la storia per conoscete se stesso e diventare saggio a spese dei morti. Si avvicina il tempo nel quale la vita di Antonio avrà per il giovane un valore d’insegnamento più vicino che quella di Augusto. Emilio non si riconoscerà affatto in mezzo agli strani oggetti che colpiranno i suoi sguardi durante i suoi nuovi studi; ma saprà anticipatamente allontanare l'illusione delle passioni pri-

se durante quaranta anni il più grande impero che sia esistito: ma tutto questo immenso potere gli impediva forse di battersi la testa nei muri e di riempire di grida il suo vasto palazzo, ridomandando a Varo le sue legioni distrutte? Ancorché avesse vinto tutti i suoi nemici, a che gli avrebbero servito

hanno in ogni tempo accecato gli uomini, sarà prevenuto del modo con cui esse potranno accecarlo a sua volta, se mai vi si abbandonerà *. Queste lezioni, lo so, gli sono male appropriate; for-

concittadini e distrutto i suoi rivali, res-

i suoi

vani

trionfi,

famia,

morirono,

mentre

tormenti

di

ogni specie nascevano senza tregua intorno a lui, mentre i suoi più cari amici attentavano alla sua vita, ed egli era ridotto a piangere la vergogna o la morte di tutti i suoi congiunti? Il disgraziato volle governare il mondo, e non seppe governare la sua casa! Che derivò da questa negligenza? Vide perire nel fiore dell'età suo nipote, il suo figlio adottivo, suo genero; il suo nipotino fu ridotto a mangiare la borra del letto, per prolungare di qualche ora la sua miserabile vita; sua figlia e la sua nipotina, dopo averlo coperto della loro inuna

di

miseria

e

di

fame in un'isola deserta, l’altra in prigione per mano di uno sbirro. Egli stesso infine, ultimo resto della sua disgraziata famiglia, fu ridotto da sua moglie a non lasciare dopo di sé che un mostro come successore. Tale fu il destino di questo padrone del mondo, tanto celebrato per la sua gloria e per la sua felicità. Crederò io che uno solo di coloro che le ammirano volesse acquistarle al medesimo prezzo? Ho preso l'ambizione per esempio; * È sempre il pregiudizio che fomenta nei nostri cuori l’impetuosità delle passioni. Colui il quale non vede che ciò che è e non stima che

ma

che

nascano;

e,

vedendo

se, all'occorrenza, saranno

che

esse

tardive, insuf-

ficienti: ma ricordatevi che non sono quelle che ho voluto trarre da questo studio. Cominciandolo, mi proponevo un altro scopo; e certamente, se questo scopo è mal raggiunto, sarà colpa del maestro. Pensate che appena l’amor proprio è sviluppato, l’io relativo si mette in bal. lo continuamente, e giammai il giovane osserva gli altri senza ritornare su se stesso e confrontarsi con essi. Si tratta dunque di sapere a qual posto si metterà fra i suoi simili dopo averli esaminati. Vedo, dal modo con cui si fa leggere la storia ai giovani, che li si trasforma, per così dire, in tutti i personaggi che vedono, che ci si sforza di farli

diventare

ora

Cicerone,

ora

Traia-

no, ora Alessandro; di scoraggiarli quan-

do

rientrano

in se stessi;

di dare a cia-

scuno il dispiacere di non essere che sé. Questo metodo ha certi vantaggi, dei quali io convengo; ma in quanto al mio Emilio, se accade una sola volta, in que-

sti paralleli, ch'egli preferisca essere un altro che se stesso, quest'altro fosse pur Socrate, fosse Catone, tutto è mancato: colui che comincia a rendersi estraneo a se stesso, non

interamente.

tarda a dimenticarsi di sé

quello che conosce, non si appassiona affatto. Gli errori dei nostri giudizi producono l'ardore di

tutti

i nostri

desideri.

EMILIO

520 Non sono i filosofi che conoscono meglio gli uomini; essi non li vedono che attraverso

i pregiudizi

della filosofia;



io non conosco alcuno stato in cui ve ne siano tanti. Un selvaggio ci giudica più saggiamente di quello che faccia un filosofo. Questi

sente i suoi vizi, si sde-

gna dei nostri, e dice fra sé: « Noi siamo tutti cattivi ». L'altro ci guarda senza commuoversi,

e dice:

« Voi

siete dei

pazzi ». Egli ha ragione; poiché nessuno fa il male per il male. Il mio allievo è questo selvaggio, con questa differenza,

che Emilio, avendo riflettuto di più, con-

frontato più idec, visto i nostri errori più da vicino, si tiene maggiormente in guardia contro se stesso, e non giudica se non di quanto conosce. Sono le nostre passioni che ci irritano contro quelle degli altri; è il nostro interesse che ci fa odiare i cattivi; se non ci facessero alcun male, avremmo

per essi più pietà che odio. Il male che ci fanno i malvagi ci fa dimenticare quello ch'essi fanno a se stessi. Noi perdoneremmo loro più agevolmente i loro vizi, se potessimo conoscere quanto il loro cuore ne li punisca. Sentiamo l’offesa, e non vediamo il castigo; i vantaggi sono apparenti, la pena è interna. Chi crede godere del frutto dei suoi vizi non è meno tormentato che se non fosse punto riuscito; l'oggetto è cambiato, la inquietudine è la stessa: hanno un bel mostrare la loro fortuna e nascondere

il loro

cuore,

la

loro

condotta

lo

mostra a dispetto di essi: ma, per vederlo, non bisogna averne uno simile. Le passioni che noi condividiamo ci seducono; quelle che offendono i nostri interessi

ci rivoltano;

e, per una

incoe-

renza che proviene da esse, noi biasimiamo negli altri ciò che vorremmo imitare. L’avversione e l'illusione sono inevitabili, quando si è costretti a soffrire per parte di altri il male che si farebbe se si fosse al loro posto. Cosa occorrerebbe dunque per osservare bene gli uomini? Un grande inte* Credo di poter liberamente contare la salute e la buona costituzione nel numero dei vantaggi acquistati dalla sua educazione, o piut-

resse a conoscerli, una grande imparzialità a giudicarli, un cuore abbastanza sensibile per concepire tutte le passioni umane, e abbastanza calmo per non provarle. Se c'è nella vita un momento favorevole a questo studio, è quello che ho scelto per Emilio: più presto essi gli sarebbero stati estranei, più tardi egli sarebbe stato loro somigliante. L’opinione di cui vede il meccanismo non ha ancora acquistato impero su di lui: le passioni di cui sente l’effetto non hanno punto agitato il suo cuore. Egli è uo-

mo, s’interessa ai suoi fratelli; è equo, giudica i suoi pari. Ora, certamente, se li giudicherà bene, non vorrà essere al

posto

di

tutti

di alcuno di essi; i tormenti

ch'essi

poiché

il fine

si danno,

es-

sendo fondato sopra dei pregiudizi che egli non ha, gli sembra un fine vago. Per

lui, tutto ciò che desidera,

è a sua

portata. Da chi dipenderebbe, bastando a se stesso ed essendo libero da pregiu-

dizi?

Egli

ha

braccia,

salute *, modera-

zione, pochi bisogni e di che sodisfarli. Allevato nella più assoluta libertà, il più grande dei mali che concepisca è la servitù. Egli compiange quei miseri re, schiavi di tutto ciò che loro obbedisce; egli compiange quei falsi saggi incatenati alla loro vana reputazione; compiange quei ricchi sciocchi, martiri del loro fasto; compiange quei gaudenti da parata, che abbandonano la loro vita intera alla noia, per sembrare d'aver del piacere. Egli compiangerebbe il nemico che facesse del male proprio a lui stesso;

poiché,

nelle

sue

cattiverie,

ne

vedrebbe la miseria. Egli direbbe fra sé: « Dandosi il bisogno di nuocermi, quest'uomo ha fatto dipendere la propria sorte dalla mia ». Ancora un passo, e raggiungeremo la meta. L’amor proprio è uno strumento

utile,

ma

pericoloso;

spesso

ferisce

la

mano che se ne serve, e fa raramente il bene senzà il male. Emilio, considerando il suo posto nella specie umana e vedendovisi così felicemente collocato, tosto nel numero dei doni della natura sua educazione gli ha conservato.

che

la

LIBRO

521

QUARTO

sarà tentato di far onore alla sua ragione coll’opera della vostra, e attribuire al proprio merito l’effetto della sua felicità. Dirà fra sé: « Io sono saggio, e gli uomini sono pazzi ». Compiangendoli li

disprezzerà, felicitandosene si stimerà di più; e, sentendosi più felice di loro, si

crederà più degno di esserlo. Ecco l’errore da temersi di più, poiché è più difficile da distruggere. Se restasse in questo stato, avrebbe guadagnato poco da tutte le nostre cure; e se bisognasse scegliere, non so se non preferirei ancora l'illusione dei pregiudizi a quella dell'orgoglio. I grandi uomini non s'ingannano sulla

loro

superiorità;

la vedono,

la

sen-

tono, e non sono perciò meno modesti. Quanto più posseggono, tanto più conoscono tutto ciò che manca loro. Sono meno vanitosi della loro elevatezza rispetto a noi, che umiliati dal sentimento della

loro

fiero

della

miseria;

e, nei beni

esclusivi

che posseggono, sono troppo giudiziosi per trarre vanto da un dono che non si sono fatto. L'uomo dabbene può essere sua

virtù,

poiché

è sua;

ma

di che cosa l’uomo di spirito è fiero? Cosa ha fatto Racine per non essere Pradon? Che ha fatto Boileau per non essere Cotin? !9 Qui

è tutt'altra

cosa

ancora.

Restia-

mo sempre nell'ordine comune. Non ho supposto nel mio allievo né un genio trascendente, né un intelletto ottuso. L'ho scelto fra gli spiriti volgari, per mostrare quanto possa l’educazione sul-

l'uomo. Tutti i casi rari sono fuori delle regole. Quando dunque, in conseguenza

delle mie cure, Emilio preferisce la sua maniera di essere, di vedere, di sentire,

a quella degli altri uomini, Emilio ha ra-

* Del resto, questa insidia,

il nostro allievo lui che è tanto

cadrà poco in circondato da

divertimenti, che non si annoiò della vita e che

sa appena a cosa serva il danaro. Essendo l’interesse e la vanità i due moventi con i quali si conducono i fanciulli, questi due stessi moventi servono alle cortigiane e agli scrocconi per impadronirsi in seguito di loro. Quando vedete eccitata la loro avidità con premi, con ricompense, quando li vedete applauditi a dieci anni in un atto pubblico in collegio, vedete an-

gione;

ma quando si crede, per questo,

di una natura più eccellente, e nato più felicemente di loro, Emilio ha torto; egli

s’inganna; bisogna disingannarlo; o piuttosto prevenire l'errore, per paura che non sia troppo tardi poi per distruggerlo. Non c’è pazzia dalla quale non si possa guarire un uomo che non è pazzo, all’infuori della vanità; per questa, niente vale a correggerla se non l'esperienza,

se

tuttavia

qualche

cosa

di

essa

si

può correggere; al suo nascere, almeno, si può impedirle di crescere. Non vi perdete dunque in bei ragionamenti, per provare all’adolescente ch'egli è uomo come gli altri, e soggetto alle medesime debolezze. Fateglielo sentire, o non lo saprà mai. C'è ancora qui un caso di eccezione alle mie regole; cioè il caso di esporre volontariamente il mio allievo a tutti gli accidenti che possono provargli che non è più saggio di noi. L'avventura del giocoliere sarebbe ripetuta in mille modi; lascerei agli adulatori prendere tutto il loro vantaggio con lui: se degli sventati lo trascinassero in qualche stravaganza, gliene lascerei correre il rischio: se dei borsaiuoli lo provocassero al giuoco, lo abbandonerei loro perché ne facessero il loro zimbello *; lo lascerei incensare, pelare, svaligiare da loro; e quando, avendolo ridotto al verde, finissero col burlarsi di lui, li ringra-

zierei ancora, in sua presenza, delle lezioni che si sono compiaciuti di dargli. Le sole insidie dalle quali lo garantirei con cura sarebbero quelle delle cortigiane. I soli riguardi che avrei per lui sarebbero di dividere tutti i pericoli che gli lasciassi correre, e tutti gli affronti che gli lasciassi ricevere. Sopporterei tutto

in

silenzio,

senza

lamenti,

senza

che come si farà lasciar loro a venti anni la borsa in una casa da giuoco e la salute in un luogo turpe. C'è sempre da scommettere che il più dotto della sua classe diventerà il più giocatore e il più dissoluto. Ora i mezzi di cui non si fece uso durante l'infanzia non si prestano affatto, nella gioventù, al medesimo abuso. Ma bisogna ricordarsi che qui la mia massima costante è di mettere dappertutto la cosa al peggio. Cerco prima di prevenire il vizio; e poi lo suppongo, per porvi rimedio.

EMILIO

522 rimproveri, senza mai fargliene parola; e siate sicuri che, con questa discrezione ben

sostenuta,

ciò che

mi

avrà visto

soffrire per lui farà maggior impressione sul suo cuore di quello che avrà sofferto egli stesso. Non posso fare a meno di rilevare qui la falsa dignità degli istitutori i quali, per far scioccamente la parte di saggi,

umiliano

i loro allievi, ostentano

di trattarli sempre da fanciulli e di distinguersi sempre da essi in tutto ciò che fanno far loro. Lungi dall'avvilire così il loro coraggio giovanile, non risparmiate nulla per rialzare la loro anima;

fatene i vostri eguali, affinché lo di-

vengano;

e, se non

possono ancora in-

nalzarsi fino a voi, discendete

al loro li-

vello senza vergogna, senza scrupolo. Pensate che il vostro onore non è più in voi,

ma

nel vostro

allievo;

prendete

parte ai suoi errori per correggernelo; caricatevi della sua vergogna per cancellarla: imitate quel prode Romano il quale, vedendo fuggire il suo esercito e non potendo radunarlo, si mise a fuggire alla testa dei suoi soldati, gridando: « Essi non fuggono, seguono il loro capitano » ®. Fu disonorato per questo? Ci corre molto: sacrificando così la sua gloria, egli l’accrebbe. La forza del dovere, seco,

la bellezza della nostro malgrado,

virtù trascinano i nostri voti e

rivoltano i nostri insensati pregiudizi. Se ricevessi uno schiaffo nel compiere le mie funzioni presso Emilio, anziché vendicarmi

di

codesto

schiaffo,

andrei

a vantarmene dappertutto; e dubito che ci sia al mondo un vomo abbastanza vile * da non rispettarmi più per questo. Non è che l'allievo debba supporre nel maestro delle cognizioni così limitate come

le sue, e la medesima

te, mette

tutti a sua

facilità

a lasciarsi ingannare. Questa opinione è buona per un fanciullo che, non sapendo veder niente, confrontare nienportata, e non



la sua fiducia se non a quelli i quali sanno infatti acconciarvisi. Ma un giovane

dell’età

nato quanto

di

Emilio,

e tanto

assen-

lui, non è più abbastanza

* M°’ingannavo,

ne ho scaperto

uno;

sciocco da ingannarsi così, e non sarebbe bene che si ingannasse. La fiducia che deve avere nel suo istitutore è di un’altra specie: essa deve riguardare l'autorità della ragione, la superiorità delle cognizioni, i vantaggi che il giovane è in grado di conoscere, e di cui sente per sé l’utilità. Una lunga esperienza l’ha convinto che è amato dal suo istitutore; che questo istitutore è un uomo saggio, illuminato, il quale, volendo la sua felicità, sa ciò che può procurargliela. Deve sapere che, per il suo interesse, gli conviene di ascoltare i suoi consigli. Ora, se il maestro si lasciasse ingannare come il discepolo, perderebbe il diritto di esigerne della deferenza e di dargli delle lezioni. Deve l'allievo ancor meno supporre che il maestro lo lasci ad arte cadere in tranelli e tenda degli agguati alla sua semplicità. Cosa bisogna dunque fare per evitare a un tempo questi due inconvenienti? Ciò che c'è di meglio e di più naturale: essere semplice e veritiero come lui; avvertirlo dei pericoli ai quali si espone, mostrarglieli chiaramente, sensibilmente,

ma

senza

esagerazione,

senza stizza, senza sfoggio pedantesco, soprattutto senza dargli i vostri avvertimenti

come

rioso

sia

ordini,

fino

a che

lo siano

divenuti, e fino a che questo tono impeassolutamente

necessario.

Se,

dopo ciò, si ostina, come spessissimo farà, non gli dite allora più nulla; lasciatelo in libertà, seguitelo, imitatelo, e fate ciò allegramente, sinceramente; abbandonatevi, divertitevi quanvv lui, se è possibile. Se le conseguen-

ze diventano troppo forti, voi siete sempre là per arrestarle: e frattanto il giovane, testimonio della vostra previdenza e della vostra compiacenza, quanto non deve essere a un tempo colpito dall'una e commosso dall'altra! Tutti i suoi sbagli sono altrettanti vincoli che vi fornisce per trattenerlo all’occorrenza. Ora, quello che rappresenta qui la più grande arte del maestro è di preparare le occasioni e di dirigere le esortazioni in modo da sapere in prece-

è il signor Formey.

LIBRO

523

QUARTO

denza quando il giovane cederà, e quando

si ostinerà,

a fine di circuirlo

li

rinfacciate;

non

ovun-

que con le lezioni dell'esperienza, senza mai esporlo a pericoli troppo grandi. Avvertitelo dei suoi errori prima che vi cada: quando vi è caduto, non gliefareste

che

infiam-

mare e far sollevare il suo amor proprio. Una lezione che sdegna non dà profitto. Non conosco niente di più sciocco di queste parole: « Ve l’avevo ben detto ». Il miglior mezzo di fargli rammentare ciò che gli si è detto sta nel parere di averlo dimenticato. Invece, quando lo vedrete vergognoso di non avervi creduto, fategli dolcemente dimenticare questa umiliazione con buone parole. Egli si affezionerà certamente

scurate di

suo

a voi,

vedendo

per lui, e che

schiacciarlo,

lo

dispiacere

veri, vi prenderà

che

voi

invece

consglate.

aggiungete in odio,

dei

vi

tra-

di finire

Ma

se

al

rimpro-

e si farà una

legge di non ascoltarvi più, come per provarvi ch’egli non la pensa al pari di voi sulla importanza dei vostri avvertimenti. La maniera delle vostre consolazioni può anche essere per lui una istruzione tanto più utile in quanto non ne diffiderà. Dicendogli, suppongo, che mille altri commettono gli stessi errori, voi lo mettete lungi dalla realtà; lo correggete sembrando di compiangerlo: poiché, per colui il quale crede di valere meglio degli altri uomini, è una scusa assai mortificante il consolarsi col loro esempio; è immaginare che il più ch'egli possa pretendere è ch’essi non valgano meglio di lui. Il tempo degli errori è quello delle favole. Censurando il colpevole sotto una

maschera

estranea,

senza offenderlo;

lora che l’apologo

lo

non

nata;

ma

lo

uno

sciocco.

istruisce

sventato,

al-

è una menzogna,

a causa della verità di cui plicazione. Il fanciullo che mai ingannato dalle lodi, nulla della favola che ho zimbello di a meraviglia

si

ed egli comprende

diventa l’apnon è stato non intende dianzi esami-

che

è

stato

lo

un adulatore, comprende che il corvo non era che

In

tal

modo,

da

un

fatto

egli trae una massima; e l’esperienza. che avrebbe ben presto dimenticata s'imprime, per mezzo della favola, nell: sua mente. Non c’è cognizione morale che non si possa acquistare con l'esperienza di altri o con la propria. Nel

caso in cui questa esperienza sia pericolosa, invece di farla da sé, se ne

tragga l'insegnamento dalla storia. Quando la prova sia senza conseguenze, è bene che il giovane vi resti esposto; poi, mediante l'apologo, si redigano come massime i casi particolari che gli sono noti. Non intendo pertanto che queste massime debbano essere sviluppate, e neppure enunciate. Niente è così vano, così male inteso quanto la morale con la quale si terminano la maggior parte delle favole; come se questa morale non fosse o non dovesse essere sviluppata nella favola stessa, in modo da renderla

intuitiva

al

lettore!

Perché

dun-

que, aggiungendo questa morale alla fine, togliergli il piacere di trovarla da sé? L'abilità di chi insegna sta nel fare in modo che il discepolo si compiaccia dell'istruzione. Ora, perché se ne compiaccia, non bisogna che la sua mente resti talmente passiva a tutto ciò che voi gli dite, che non abbia assolutamente niente da fare per intendervi. Bisogna che l'amor proprio del maestro lasci sempre qualche pretesto al suo; occorre ch'egli possa dire: «Io concepisco,

penetro,

delle cose

che

agisco,

m’istruisco ». Una

rendono

talone della commedia

noioso

il Pan-

italiana, è la cu-

ra ch'egli si prende d’interpretare, per la platea, delle insipidezze che si capiscono già troppo. Non voglio che un istitutore sia Pantalone e ancor meno un autore. Bisogna farsi sempre intendere, ma non bisogna sempre dire tutto: colui che dice tutto dice poche cose, poiché, alla fine, non è più ascoltato. Che significano quei quattro versi che La Fontaine aggiunge alla favola della rana che si gonfia? 2! Ha forse paura che non lo si sia compreso? Ha bisogno, questo gran pittore, di scrivere i nomi sotto gli oggetti che dipinge? Anziché generalizzare in tal modo

EMILIO

524 la

sua

morale,

la

particolarizza,

la

re-

stringe in qualche modo agli esempi citati, e impedisce che la si applichi ad altri. Vorrei che prima di mettere le favole di questo autore inimitabile fra le mani di un giovane, se ne togliessero tutte quelle conclusioni per le quali si dà il disturbo di spiegare ciò che dice tanto chiaramente e piacevolmente. Se il vostro allievo non intende la favola che con l’aiuto della spiegazione, siate sicuro che non l’intenderà neppure così. Importerebbe ancora dare a queste favole un ordine più didattico, e più conforme

ai

progressi

dei

sentimenti

e

delle nozioni del giovane adolescente. Si concepisce niente di meno ragionevole che l'andare a seguire esattamente l'ordine

numerico

na, poi

i due

favola,

impararla,

ravano,

ma

del

libro,

senza

ri-

guardo né al bisogno né all’occasione? Prima la cicala, poi il corvo, poi la ramuli,

ecc.

Ho

sullo

sto-

maco questi due muli, perché mi ri cordo di aver visto un fanciullo istruito per la finanza e a cui si riempiva la testa di discorsi intorno all'impiego che stava per coprire, leggere questa dirla,

ridirla

cento

visto

alcuno

e cento volte, senza trarne mai la più piccola obiezione contro la professione alla quale era destinato. Non solo non ho mai visto fare ai fanciulli alcuna applicazione solida delle favole che impanon

ho

mai

curarsi di far fare loro questa applicazione. Il pretesto di questo studio è l'istruzione morale; ma il vero scopo della madre e del figlio è quello di tener occupata di lui tutta una riunione, mentre egli recita le sue favole; perciò le dimentica tutte divenendo grande, quando non si tratta più di recitarle, ma di trarne profitto. Ancora una volta, solo agli uomini è dato d’istruirsi con le favole; ed ecco per Emilio il tempo di cominciare. Mostro da lontano, poiché non voglio neppure dire tutto, le vie che si allontanzno dalla buona, affinché s’impari ud evitarle. Credo che seguendo quella da me segnata, il vostro allievo acquisterà la conoscenza degli uomini

e di se stesso al miglior mercato possibile e che lo metterete al punto da contemplare le vicende della fortuna senza invidiare la sorte di quelli che ne sono favoriti e da essere contento di sé senza credersi più saggio degli altri. Avete anche cominciato a renderlo attore per renderlo spettatore: bisogna terminare; poiché dalla platea si vedono gli oggetti come sembrano, ma dalla scena si vedono tali e quali sono. Per abbracciare il tutto, bisogna mettersi nel giusto punto di vista; bisogna avvicinarsi per vedere i particolari. Ma a qual titolo un giovane entrerà negli affari del mondo? Qual diritto ha egli di essere iniziato in questi misteri tenebrosi? Intrighi di piacere limitano gli interessi della sua età, egli non dispone ancora che

di se stesso;

non

basta.

è come

se non

dispo-

nesse di niente. L'uomo è la più vile delle mercanzie, e, fra i nostri importanti diritti di proprietà, quello della persona è sempre il più piccolo di tutti. Quando io vedo che, nell'età della più grande attività, si limitano i giovani a studi puramente speculativi e che dopo, senza la menoma esperienza, essi sono ad un tratto gettati nel mondo e negli affari, trovo che non si offende meno la ragione che la natura, e non sono più sorpreso che così poche persone sappiano condursi bene. Per qual bizzarro scherzo dello spirito ci si insegnano tante cose inutili, mentre l'arte di agire è contata per niente? Si pretende formarci per la società, e ci si istruisce come se ciascuno di noi dovesse passar la vita a pensare solo nella sua cella, o a trattare di argomenti vaghi con degli indifferenti. Voi credete d'insegnare a vivere ai vostri figliuoli, insegnando loro certe contorsioni del corpo e certe formule di parole che non significano nulla. Anch'io ho insegnato a vivere al mio Emilio; poiché gli ho insegnato a vivere con se stesso, e di più, a sapersi guadagnare il pane. Ma Per vivere

nel

mondo,

biso-

gna saper trattare con gli uomini, bisogna conoscere gli strumenti che ci avvincono ad essi; bisogna calcolare l’azione e la reazione dell'interesse partico-

LIBRO

QUARTO

525

lare nella società civile, e prevedere gli avvenimenti con tanta giustezza, che si sia raramente ingannati nelle imprese,

o che

almeno

ci si trovi ad

aver

sempre adottati i migliori mezzi per riuscire. Le leggi non permettono ai giovani di fare i loro affari e di disporre dei propri beni; ma a che servirebbero loro queste precauzioni, se fino all'età prescritta non potessero acqui. stare alcuna esperienza? Non avrebbero guadagnato nulla ad aspettare, e sarcbbero interamente inesperti tanto a venticinque anni quanto a quindici. Senza dubbio bisogna impedire che un giovane, accecato dalla propria ignoranza o ingannato dalle sue passioni, faccia del male a se stesso; ma in ogni età è per-

messo di essere benefico; in ogni età si possono proteggere, sotto la guida di un uomo saggio, gli infelici i quali hanno bisogno soltanto di appoggio. Le

nutrici,

ai fanciulli

le

loro;

l’esercizio

nità:

facendo

ta in fondo

madri,

per le cure delle

ai cuori

il bene

si

che

virtù

l'amore

affezionano

prodigano

sociali

por-

dell’uma-

si diventa

buoni;

non conosco pratica più sicura. Occupate il vostro allievo in tutte le buone

azioni

che

sono

a

sua

portata;

l’inte-

sa, ma

con

le sue cure;

li serva,

li pro-

mezza

quando

che



forzerà

dei

ricchi;

loro

miseria,

l'esercizio

le porte

quando

andrà,

della

dei

se

virtù;

grandi

fino ai piedi del trono per fare intendere la voce degli sfortunati, ai quali tutti gli accessi sono preclusi a causa della e cui

il

timore

di

essere

puniti dei mali che si fanno loro impedisce perfino di osare di lamentarsene! Ma faremo noi di Emilio un cavaliere errante, un riparatore di torti, un paladino? Andrà egli ad ingerirsi negli affari pubblici, a fare il saggio e il difensore delle leggi presso i grandi, pres so i magistrati, presso il principe; a fare il sollecitatore presso i giudici e l'avvocato nei tribunali? Non so niente di tutto ciò. I nomi faceti e ridicoli non cambiano niente alla natura delle cose. Egli farà tutto ciò che sa essere utile e buono. Non farà niente di più, e sa che nulla è utile e buono per lui di ciò che non conviene alla sua età. Sa che il suo primo dovere è verso se stesso; che i giovani devono diffidare

di sé, essere circospetti nella loro condotta, rispettosi davanti alle persone più attempate, riservati e discreti nel

parlare senza motivo, modesti se

indifferenti,

ma

arditi

nel

nelle cofare

il

resse degli indigenti sia sempre il suo; non li assista soltanto con la sua bor-

bene e coraggiosi nel dire la verità. Tali erano quegli illustri Romani i quali, pri-

tegga, consacri loro la sua persona e il suo tempo; si faccia il loro uomo d'’affari: non adempirà mai in vita sua a

savano la loro giovinezza a perseguitare

un così nobile ufficio, Quanti oppressi, che non si sarebbero mai ascoltati,

otterranno giustizia, quando egli la chie. derà per essi con quella intrepida fer* Ma se egli stesso è provocato, come si condurrà? Rispondo che non avrà mai litigi, che non vi si presterà mai abbastanza per averne. Ma infine, si aggiungerà, chi è al riparo da uno schiaffo o da una smentita da parte di un uomo brutale, di un ubriaco, o di un briccone matricolato, il quale, per avere il piacere di uccidere il suo uomo, comincia col disonorarlo? È un’altra cosa; non bisogna affatto che l'onore dei cittadini né la loro vita siano in balla di un uomo bestiale, d'un ubriaco o di un birbaccione; e non ci si può preservare da un simile accidente più che non si possa dalla caduta d'un tegolo. Uno schiaffo e una smentita ricevuti e

e

occorre,

ma di essere ammessi

il delitto e a difendere

za altro interesse che servendo la giustizia buoni costumi. Emilio non ama né contese, non solo fra tollerati saggezza

nelle cariche, pasl'innocenza,

sen-

quello di istruirsi e proteggendo i il rumore né le gli uomini *, ma

hanno degli effetti civili che nessuna può prevenire, e di cui nessun tribu-

nale può vendicare l'offeso. L’insufficienza delle

leggi gli rende dunque in ciò la sua indipendenza; egli è allota solo magistrato, solo giudice fra l'offensore e lui: egli è solo interprete e ministro della legge naturale; egli si deve giustizia e può da sé rendersela, e non c'è sulla terra alcun governo abbastanza insensato per punirlo di essersela fatta in simile caso. Non dico che debba andarsi a battere, è una stravaganza: dico che ha diritto a giustizia, e che ne è il solo dispensatore. Senza tanti vani editti contro i duelli, se fossi sovrano, sento di poter

526

EMILIO

neppure fra gli animali. Non aizzò mai due cani a battersi; mai fece perseguitare un gatto da un cane. Questo spirito di pace è un effetto della sua educazione,

che,

non

avendo

distolto

dal

fomen-

tato l'amor proprio e l’alta opinione di

se

stesso,

l'ha

cercare

suoi piaceri nella dominazione e nella disgrazia altrui. Soffre quando vede soffrire; è un sentimento naturale. Ciò che

i

fa che un giovane si abitui e si compiaccia a veder tormentare un essere sensibile, è sempre un ritorno di vanità per cui egli si considera come esente dalle medesime pene per la sua saggezza o la sua superiorità. Colui che è stato garantito da questo giuoco di spirito non può cadere nel vizio che ne è il risultato. Emilio ama dunque la pace. L’immagine della felicità lo lusinga; e quando può contribuire a produrla, è per lui un mezzo di più per condividerla. Non ho supposto che, vedendo degli infelici, egli non avrebbe per essi se non quella pietà sterile e crudele che si contenta di compiangere i mali che può guarire. La sua beneficenza attiva gli dà subito delle cognizioni che con un-cuore più duro non avrebbe

acquistate,

o

che

avrebbe

ac-

quistate molto più tardi. Se vede regnare la discordia fra i suoi compagni, cerca di riconciliarli; se vede degli afflitti, s'informa della ragione delle loro sofferenze;

vuol

se vede

conoscere

micizia;

se

due

uomini

odiatsi,

oppresso

gemere

la causa

vede

un

della loro ini-

per le vessazioni del potente e del ricco, cerca di scoprire con quali artifizi si ammantano

queste

vessazioni;

e, nel-

l'interesse che prende a tutti i miseri, i mezzi di far cessare i loro mali non sono mai indifferenti per lui. Cosa dobbiamo dunque fare per trar profit to da queste disposizioni in un modo conveniente alla sua età? Dobbiamo regolare i suoi pensieri e le sue cognigarantire che non vi sarebbero mai né schiaffi né smentite dati nei miei Stati, e ciò per un motivo molto semplice, di cui i tribunali non s'ingerirebbero punto. munque sia, Emilio sa in simile caso la giustizia che deve a se stes-

zioni, e impiegare il suo zelo ad aumentarli. Non mi stanco di ridirlo: mettete tutte le lezioni dei giovani piuttosto in azioni che in discorsi; che essi non imparino nei libri niente di quello che l'esperienza può insegnar loro. Quale progetto stravagante non è quello di esercitarli a parlare, senza lo scopo di dover dire qualche cosa; di credere di far loro sentire, sui banchi di un collegio, l’ener

gia del linguaggio delle passioni e tutta la forza dell'arte di persuadere, senza l'interesse di persuadere di nulla nessuno! Tutti i precetti della retorica non sembrano che una pura ciancia per chiunque non ne senta l'uso per suo profitto. Cosa importa a uno scolaro di sapere come fece Annibale per far decidere i suoi soldati a passare le Alpi? Se, invece di quelle magnifiche concioni, gli diceste come deve regolarsi per indurre il suo prefetto a dargli vacanza, siate sicuri che starebbe più attento alle vostre regole. Se volessi insegnare la retorica a un giovane, le cui passioni fossero già tutte sviluppate, gli presenterei continuamente degli oggetti adatti ad appagare le sue passioni, ed esaminerei con lui il linguaggio che deve tenere cogli altri uomini per impegnarli a favorire i suoi desideri. Ma il mio Emilio non si trova in una situazione tanto vantaggiosa all’arte oratoria: ristretto quasi al solo necessario fisico, egli ha meno bisogno degli altri che gli altri non abbiano bisogno

di

lui;

e non

avendo

niente

da

domandar loro per sé, ciò di cui li vuol persuadere, non lo riguarda così da vicino da commuoverlo eccessivamente. Ne segue quindi che in generale egli deve avere un linguaggio semplice e poco figurato. Parla ordinariamente in senso proprio e soltanto per essere compreso. È poco sentenzioso, poiché non ha imparato a generalizzare le sue idee: so, e l'esempio persone

di

onore.

che

Non

deve

alla

dipende

sicurezza

dall’uomo

delle più

risoluto l’impedire che lo si insulti, ma dipende da lui impedire che non ci si vanti averlo insultato.

a lungo

di

LIBRO QUARTO

527

ha poche immagini, poiché è raramente appassionato. Tuttavia non è ch'egli sia completamente

flemmatico

e freddo;



la sua

età, né i suoi gusti lo permettono: nell’ardore dell'adolescenza, gli spiriti vivificanti,

ritenuti

e

distillati

nel

suo

sangue, portano al suo giovane cuore un calore che risplende negli sguardi, che si sente

nei

discorsi,

che

si vede

nelle

azioni. Il suo linguaggio ha preso dell'accento e talvolta della veemenza. Il nobile sentimento che lo ispira gli dà forza ed elevatezza: compreso dal te-

nero amore dell'umanità, trasmette, parlando, i movimenti della sua anima; la

sua generosa franchezza ha un non so che di più incantevole dell’artificiosa eloquenza degli altri; o piuttosto egli solo è veramente eloquente, poiché non ha che da mostrare quello che sente per comunicarlo a quelli che lo ascoltano. Quanto più ci penso, tanto più trovo che, mettendo in tal modo la beneficenza in azione, e traendo dai no-

stri buoni o cattivi risultati delle riflessioni sulle loro cause, ci sono poche cognizioni utili che non si possano coltivare nella mente di un giovane; e che con tutto il vero sapere che si può acquistare nei collegi, egli acquisterà inoltre una scienza più importante ancora, che è l'applicazione di queste cognizioni agli usi della vita. Non è possibile che, prendendo tanto interesse per i suoi simili, egli non apprenda subito a pesare e ad apprezzare le loro azioni, i loro gusti, i loro piaceri, e a dare in generale un più giusto valore a ciò che può contribuire o nuocere alla felicità degli uomini di quel che non possano coloro i quali, non

interessandosi a nessuno,

non fanno mai niente per gli altri. Coloro

che non trattano se non i loro affari, vi si

appassionano troppo per giudicare rettamente delle cose. Riferendo tutto a se stessi, e regolando sul loro solo interesse

le idee

del

bene

e del

male,

essi

si riempiono la mente di mille pregiudizi ridicoli, e, in tutto quello che reca danno al loro minimo vantaggio, vedono subito lo sconvolgimento di tutto l’universo,

Estendiamo

tri esseri,

l’amor

proprio

e lo trasformeremo

sugli

al-

in virtù;

non c'è cuore d'uomo nel quale questa virtù non abbia Ia sua radice. Quanto meno l’oggetto delle nostre cure dipende immediatamente

da noi, tanto meno

è da temersi l'illusione dell’interesse particolare; quanto più si generalizza questo interesse, tanto più diventa equo; e l'amore del genere umano non è altro in noi se non l’amore della giustizia. Vogliamo noi dunque che Emilio ami la verità, vogliamo che la conosca? Teniamolo sempre lontano dagli affari. Quanto più le sue cure saranno consacrate alla felicità altrui, tanto più saranno illuminate e sagge e tanto meno s'ingannerà su ciò che è bene o male: ma non tolleriamo mai in lui cieche preferenze, fondate unicamente sopra figuardi a persone o sopra ingiuste prevenzioni. E perché nuocerebbe ad uno per servire un altro? Poco gli importa a chi tocca in dono una più grande felicità, purché concorra alla più grande felicità di tutti: è questo il primo interesse del saggio, dopo l’interesse privato; poiché ciascuno è parte della sua specie, e non di un altro individuo. Per impedire che la pietà degeneri in debolezza, bisogna dunque generalizzarla ed estenderla su tutto il genere umano. Allora non ci si abbandona se non in quanto essa è d'accordo con la

giustizia,

poiché,

di

tutte

le

virtù,

la

giustizia è quella che concorre di più al bene comune degli uomini. Bisogna per ragione, per amore di noi, aver pietà della nostra specie ancora più che del nostro prossimo; ed è una grandissima crudeltà verso gli uomini la pietà per i cattivi. Del resto, bisogna ricordarsi che tutti questi mezzi, mediante i quali io metto in tal modo il mio allievo fuori di se stesso, hanno però sempre un rapporto diretto con lui, poiché non soltanto ne risulta un godimento interno, ma, rendendolo benefico a profitto altrui, io lavoro per la sua istruzione. Prima ho dato i mezzi, e ora

mostro

l'effetto.

Quali

grandi

ne

conce-

EMILIO

528 zioni nella

vedo

sua

prepararsi

mente!

Quali

a

poco

a poco

sentimenti

su-

blimi soffocano nel suo cuore il germe delle piccole passioni! Quale chiarezza di giudizio, quale giustezza di ragione vedo formarsi in lui dalle sue tendenze coltivate, dall’esperienza che concentra i voti d’un’anima grande nello stretto confine dei possibili, e fa sì che un uomo superiore agli altri, non potendo innalzarli

al

suo

livello,

sa

abbassarsi

al loro! I veri principi del giusto, i veri modelli del bello, tutti i rapporti* morali degli esseri, tutte le idee dell’ordine, s’imprimono nel suo intelletto; egli vede il posto di ogni cosa e la causa che ne lo allontana: vede ciò che può fare il bene e ciò che lo impedisce. Senza aver provato le passioni umane, conosce le loro illusioni e il loro giuoco. Io procedo innanzi, attratto dalla forza delle cose, ma senza ingannarmi sui giudizi dei lettori. Da molto tempo essi mi vedono nel paese delle chimere; io li vedo sempre nel paese dei pregiudizi. Scostandomi talmente dalle opinioni volgari, non cesso dall’averle presenti al

mio

spirito:

le

esamino,

le medito,

non per seguirle né per fuggirle, ma per pesarle con la bilancia del ragionamento. Tutte le volte ch’esso mi forza ad allontanarmene, edotto dall’esperienza, tengo già per detto che non m'imiteranno:

so

che,

ostinandosi

a

non immaginare possibile se non ciò che vedono, essi prenderanno il giovane ch'io rappresento per un essere immaginario e fantastico, perché differisce da quelli ai quali lo paragonano; senza pensare che bisogna ben che ne differisca, poiché, allevato tutto diversamente, commosso da sentimenti affatto contrari, istruito in modo differente

da loro, sarebbe molto più sorprendente che rassomigliasse loro, piuttosto che essere come lo suppongo io. Non è l'uomo

dell'uomo,

è l'uomo

della na-

tura. Certamente deve apparire affatto estraneo agli occhi loro. Cominciando questa mia opera, non supponevo niente che tutti non potessero osservare come me, poiché c’è un punto, cioè la nascita dell’uomo, dal

quale noi tutti partiamo egualmente: ma quanto più noi avanziamo, io, per coltivare la natura, e voi, per depravarla, tanto più ci allontaniamo gli uni dagli altri. Il mio allievo, a sei anni, differiva poco dai vostri, che non avevate ancora avuto il tempo di alterare; ora

essi

non

hanno

nulla

di

simile;

e

l’età dell’uomo fatto, alla quale si avvicina, deve mostrarlo sotto una forma assolutamente diversa, se non ho perduto tutte le mie cure. La quantità di acquisti è forse abbastanza eguale da una parte e dall'altra; ma le cose acquistate non si somigliano punto. Voi siete stupiti di trovare nell'uno dei sentimenti sublimi, dei quali gli altri non hanno il più piccolo germe; ma considerate anche che questi sono già tutti filosofi e teologi, prima che Emilio sappia soltanto cos'è la filosofia, e prima che abbia perfino inteso parlare di Dio. Se dunque venissero a dirmi: « Niente di quanto supponete esiste; i giovani non sono fatti così; essi hanno questa o quella passione; fanno questa o quella cosa », è come se negassero che mai il pero è stato un grande albero, solo perché non se ne vedono che di nani nei nostri giardini. Prego questi giudici, così pronti alla

censura,

di

considerate

che

ciò

ch'essi

dicono io lo so bene quanto essi, ch'io vi ho probabilmente riflettuto più a lungo, e che, non avendo alcun interesse a darla loro a intendere, ho il di-

ritto di esigere che pena di cercare in gli. Esaminino bene l'uomo, seguano i cuore in questa o za,

a fine

di

vedere

le

attribuisco;

si diano almeno la che cosa io mi sbala costituzione delprimi sviluppi del in quella circostanquanto

un

indivi-

duo possa differire da un altro per la sola forza dell’educazione; poi confrontino la mia educazione agli effetti che ho ragionato rispondere.

e

male:

dicano

in

che

cosa

non avrò nulla da

Ciò che mi rende più affermativo e, credo, più scusabile di essere tale, è

che,

invece

di abbandonarmi

rito di sistema,

ragionamento,



il meno

e non

mi

allo

spi-

fido che

del-

possibile

al

LIBRO

QUARTO

529

l'osservazione. Non mi fondo affatto su ciò che ho immaginato, ma su quello che ho visto. È vero che non ho ristretto le mie esperienze nel recinto delle

mura

di una

città,

né in un

solo

ordine di gente; ma, dopo aver confrontato tante caste e tanti popoli quanti ne ho potuti vedere in una vita passata ad osservarli, ho tolto via come artificiale ciò che era di un popolo e

non

di un

altro, di uno

stato e non

di

un altro; e non ho considerato come appartenente incontestabilmente all’uomo se non ciò che era comune a tutti, a qualunque età, in qualunque casta e in qual. siasi nazione. Ora se, secondo questo metodo, voi seguirete fin dall'infanzia un giovane che non avrà ricevuto una forma particolare,

e

che

vostri?

Ecco,

si

uniformerà

il

meno

possibile all'autorità e all'opinione degli altri, a chi pensate voi ch'egli rassomiglierà di più, al mio allievo o ai mi

sembra,

la

questione

che bisogna risolvere per sapere se io mi sono smarrito 2. L'uomo non comincia facilmente a pensare; ma, appena comincia, non cessa più. Chiunque ha pensato, penserà sempre, e una volta esercitato l’intelletto alla riflessione, non può più restare in riposo. Si potrebbe dunque credere ch'io ne faccia troppo o troppo poco,

che

lo

spirito

umano

non

sia

mezzi di provvedere ai suoi bisogni reali, devono dargli molte idee, ch'egli non

avrebbe

mai

cia

tutto, che



avute,

o che

avrebbe

acquistate più lentamente. Il progresso naturale allo spirito è accelerato, ma non capovolto. Lo stesso uomo che deve rimanere stupido nelle foreste deve diventare ragionevole e assennato nelle città, quando vi sarà semplice spettatore. Niente è più adatto a rendere saggio quanto le pazzie che si vedono senza prendervi parte; e quegli stesso che vi partecipa s'istruisce ancora, purché non ne sia lo zimbello e non vi porti l’errore di quelli che le fanno. Considerate inoltre che, limitati dalle nostre facoltà alle cose sensibili, non offriamo quasi alcun adito alle nozioni astratte della filosofia e alle idee puramente intellettuali. Per arrivarvi bisogna, o svincolarci dal corpo al quale siamo così fortemente attaccati, o fare di oggetto in oggetto un progresso graduale e lento, o infine superare rapidamente e quasi di un salto l’intervallo con un passo da gigante di cui l'infanzia non è capace, e per il quale occorrono perfino agli uomini molti scalini fatti apposta per essi. La prima idea astratta è il primo di questi scalini; ma io duro molta fatica a vedere come ci s'immagina di costruirlo. L’Essere incomprensibile che abbracmovimento

al mondo

naturalmente così pronto ad aprirsi, e che, dopo avergli dato delle facilità che non ha, lo tenga troppo a lungo circoscritto in un cerchio d'idee che dovrebbe aver sorpassato. Ma considerate in primo luogo che,

e forma tutto il sistema degli esseri, non è né visibile ai nostri occhi, né pal‘pabile dalle nostre mani; sfugge a tutti

non si tratta per questo di farne un selvaggio e di relegarlo in fondo ai boschi; ma che, rinchiuso nel turbine sociale, basta che non vi si lasci trascinare né dalle passioni né dalle opinioni degli uomini; che veda coi suoi occhi e senta col suo cuore; che nessuna autorità lo governi, all'infuori di quella della sua propria ragione, In tale posizione è chiaro che la moltitudine di oggetti che lo colpiscono, i frequenti sen-

quando ci domandiamo: « Chi è? Dove è? », la nostra mente si confonde, si smarrtisce e non sappiamo più che pensare. Locke vuole che si cominci dallo studio degli spiriti, e che si passi quindi a quello dei corpi. Questo metodo è quello della superstizione, dei pregiudi-

volendo

timenti

formare

da

cui

l’uomo

è

della

commosso,

natura,

i diversi

i

nostri

l'operaio

sensi:

si

cosa conoscere quando siamo

zi,

dell'errore:

l'opera

nasconde.

si

Non

mostra,

è

ma

piccola

infine che egli esiste; e arrivati a questo, allor-

non

è

quello

della

ra-

gione e neppure della natura bene ordinata; è quello di tapparsi gli occhi per imparare a vedere. Bisogna avere

EMILIO

530 lungamente studiato i corpi per farsi una vera nozione degli spiriti, e sospettare che esistano. L'ordine contrario non serve che a stabilire il materialismo. Poiché i nostri sensi sono i primi strumenti delle nostre cognizioni, gli esseri corporali e sensibili sono i soli di cui si abbia immediatamente l’idea. Questa parola spirito non ha alcun senso per chiunque non abbia filosofato. Uno spirito non è che un corpo per il popolo e per i fanciulli. Non immaginano essi degli spiriti che gridano, parlano, battono, fanno rumore? Ora mi si confesserà che degli spiriti i quali abbiano braccia e lingue rassomigliano molto a dei corpi. Ecco perché tutti i popoli del mondo, senza eccettuare gli Ebrei, si son fatti degli dei corporei. Noi stessi, coi nostri termini di Spirito,

di

Trinità,

di

Persone,

siamo

per

la maggior parte dei veri antropomorfi. Confesso che ci s'insegna a dire che Dio è dappertutto: ma noi crediamo anche che l’aria sia dappertutto, almeno nella nostra atmosfera; e la parola spirito, nella sua origine, non significa altro che soffio e vento. Tosto che si avvezzano le genti a dire delle parole

senza

capirle,

è

facile,

dopo

ciò,

far

loro dire tutto quello che si vuole. Il sentimento della nostra azione sugli altri corpi ha dovuto dapprima farci credere che quando essi agivano sopra di

noi,

lo facevano

in un

modo

simile

a quello con cui noi agiamo su di essi. In tal modo l'uomo ha cominciato con l’animare tutti gli esseri di cui sentiva l'azione. Sentendosi meno forte della maggior parte di questi esseri, per mancanza di conoscenza dei limiti della loro potenza, egli l'ha supposta illimitata; e così ne fece degli dei appena ne fece dei corpi. Durante le prime età, gli uomini, spaventati di tutto, non hanno veduto niente di morto nella natura. L'idea della materia non è stata meno lenta a formarsi in essi di quella dello spirito, poiché questa prima idea è un’astrazione essa medesima. Essi hanno così riempito l'universo di dei sensibili. Gli astri, i venti, le mon-

tagne,

i fiumi, gli alberi, le città, per-

fino le case, tutto aveva la sua anima, il suo dio, la sua vita. Le statuette

grottesche di Laban, i manitù dei sel. vaggi, i feticci dei negri, tutte le opere della natura e degli uomini sono state le prime divinità dei mortali; il politeismo è stato la loro prima religione, e l'idolatria il loro primo culto. Non hanno potuto riconoscere un solo Dio se non quando, generalizzando sempre più le loro idee, sono stati in grado di risalire a una prima causa, di riunire il sistema totale degli esseri sotto una sola idea, e di dare un senso alla parola sostanza,

la

quale

è,

in

fondo,

la

più

grande delle astrazioni. Ogni fanciullo che crede in Dio è dunque necessariamente idolatra, o almeno antropomorfita; e quando una volta l'immaginazione ha visto Dio, è ben

raro che l'intelletto

lo concepisca. Ecco precisamente l’errore a cui porta l’ordine di Locke. Pervenuto,

non

so

come,

all'idea

astratta della sostanza, si vede che, per ammettere una sostanza unica, occorrerebbe supporre delle qualità incompatibili che si escludono vicendevolmente, come sarebbe il pensiero e l'estensione, di cui l'uno è essenzialmente divisibile e l’altra esclude ogni divisibilità. Si concepisce d'altronde che il pensiero, o se si vuole il sentimento, è una qualità primitiva e inseparabile della sostanza alla quale appartiene; e lo stesso si dica dell'estensione in rapporto alla sua sostanza. Donde si conclude che gli esseri i quali perdono una di tali qualità perdono la sostanza alla quale questa appartiene, che per conseguenza la morte non è che una separazione di sostanze, e gli esseri in cui queste due qualità sono riunite sono composti delle due sostanze alle quali appartengono queste due qualità. Considerate ora quale distanza resta ancora fra la nozione delle due sostanzée quella della natura divina; fra l'idea incomprensibile dell’azione della nostra anima sul nostro corpo e l'idea dell’azione di Dio su tutti gli esseri. Le idee di creazione, di annichilimento, di ubi. quità, di eternità, di onnipotenza, quel.

LIBRO

531

QUARTO

le degli attributi divini, tutte quelle idee, che è dato a così pochi uomini vedere oscure e confuse come sono, e che non hanno niente di oscuro per il popolo, perché esso non vi capisce assolutamente nulla, in qual modo si presenteranno in tutta la loro forza, cioè in tutta la loro oscurità, a giovani spiriti ancora occupati alle prime operazioni

dei

sensi,

e

che

non

concepiscono

se non quello che toccano? Invano gli abissi dell’infinito sono aperti intorno a noi; un fanciullo non sa esserne spaventato; i suoi deboli occhi non ne possono scandagliare la profondità. Tutto è infinito per i fanciulli, essi non sanno mettere limiti a niente; non già perché essi facciano la misura molto lunga, ma perché hanno il giudizio corto. Ho anche notato ch'essi mettono l'infinito meno al di là che al di qua delle dimensioni che saranno loro note. Stimeranno uno spazio immenso assai più per mezzo dei loro piedi che mediante i loro occhi; non si estenderà per essi più lontano di quello che potranno vedere, ma più lontano di quello ove potranno andare. Se si parla loro della potenza di Dio, essi lo stimeranno quasi tanto forte quanto il loro padre. In ogni cosa, essendo per essi la loro conoscenza la misura dei possibili, giudicano ciò che vien loro detto sempre minore di quello che sanno. Questi sono i giudizi naturali all’ignoranza e alla debolezza di spirito. Aiace avrebbe temuto

di

misurarsi

con

Achille,

e sft-

da Giove al combattimento, poiché conosce Achille e non conosce Giove. Un contadino svizzero, che si credeva il più ricco degli uomini .e al quale si cercava di spiegare cos'era un re, domandava con aria superba se il re avrebbe potuto ben avere cento vacche sulla montagna. Prevedo quanti lettori saranno sorpresi nel vedermi seguire tutta la prima età del mio allievo senza parlargli di religione. A quindici anni egli non sapeva

se aveva

un'anima,

e forse,

a di-

ciotto anni, non è ancora tempo che lo impari; poiché, se l'impara più pre-

sto di quello che sia necessario, corre rischio di non saperlo mai. Se avessi da dipingere la stupidità importuna, dipingerei un pedante che insegna il catechismo ai fanciulli; se volessi rendere un fanciullo pazzo, l'obbligherei a spiegare ciò che dice dicendo il suo

catechismo.

Mi

si obietterà

che,

essendo la maggior parte dei dogmi del cristianesimo dei misteri, aspettare che lo spirito umano sia capace di concepirli, non è aspettare che il fanciullo sia uomo, è aspettare che l’uomo non sia più. A ciò rispondo in primo luogo che vi sono dei misteri che non soltanto è impossibile all'uomo di concepire,

ma

anche

di

credere;

e che

non

vedo che cosa si guadagni ad insegnarli ai fanciulli, se non di insegnar loro a mentire per tempo. Dico inoltre che, per ammettere i misteri, bisogna comprendere almeno che essi sono incomprensibili; e i fanciulli non sono neppure capaci di questa concezione. Per l'età in cui tutto è mistero, non ci sono

misteri propriamente detti. « Bisogna credere in Dio salvati ».

Questo

dogma,

per essere

male

è il principio della sanguinaria ranza,

e la

causa

stiana,

che

crede?

di

tutte

inteso,

intolle-

quelle

vane

istruzioni che portano il colpo mortale alla ragione umana, avvezzandola a contentarsi di parole. Senza dubbio non c'è un momento da perdere per meritare la salute eterna: ma se, per ottenerla, basta ripetere certe parole, non vedo che cosa c’impedisca di popolare il cielo di stornelli e di gazze così come di fanciulli 33. L'obbligo di credere ne suppone la possibilità. Il filosofo che non crede ha torto, poiché usa male della ragione che ha coltivata, e poiché è in grado di intendere la verità che rigetta. Ma il fanciullo che professa la religione criCiò

che

concepisce;

ed egli concepisce tanto poco quello che gli si fa dire, che se gli direte il contrario, lo adotterà egualmente volentieri. La fede dei fanciulli e di molti uomini è un affare di geografia. Saranno essi ricompensati di essere nati a Roma piuttosto che alla Mecca? Si dice

532

EMILIO

a uno che Maometto

ed

feta

egli

dice

di

Dio;

che si

è il profeta di Dio,

Maometto

dice

a

è il pro-

un

altro

che

Maometto è un birbante, ed egli dice che Maometto è un birbante. Ciascuno dei due avrebbe affermato ciò che afferma

l’altro,

se si fosse

fatta

una

tra-

sposizione. Si può partire da due disposizioni così somiglianti, per mandare uno in paradiso e l’altro all’inferno? Quando un fanciullo dice che crede in Dio,

non

è a Dio

che crede,

ma

a Pie-

tro o a Giacomo, i quali gli dicono che c'è qualche cosa che si chiama Dio; ed egli lo crede alla maniera di Euripide:

O Giove! poiché di te non [conosco che il nome *... Noi riteniamo che nessun fanciullo morto prima dell'età della ragione sarà privato della felicità eterna; i cattolici credono la stessa cosa di tutti i fanciulli

che

hanno

ricevuto

il battesimo,

sebbene non abbiano mai sentito parlare di Dio. Ci sono dunque dei casi in cui si può essere salvati senza credere in Dio, e questi casi hanno luogo, sia nell'infanzia, sia nella demenza, quan-

do lo spirito umano è incapace delle operazioni necessarie per riconoscere la Divinità. Tutta la differenza che trovo qui fra voi e me, è che voi pretendete che i fanciulli abbiano a sette anni questa capacità, mentre io non la concedo loro neppure a quindici. Che io abbia torto o ragione, non si tratta qui di un articolo di fede, ma di una semplice osservazione di storia naturale. Per il medesimo principio, è chiaro che un dato uomo, giunto sino alla

vecchiaia

senza

credere

in Dio,

non

sa-

rà per questo privato della sua presen-

za nell'altra vita, se il suo accecamento non è stato volontario; ed io dico che

non lo è sempre. Voi ne convenite per

della loro qualità di uomo, né seguenza del diritto ai benefizi creatore. Perché dunque non ne per quelli i quali, segregati società

fin dall’infanzia,

per condel loro convenirda ogni

avrebbero

con-

dotto una vita assolutamente selvaggia, privati di quelle nozioni che non si acquistano se non nella comunanza degli uomini? ** Poiché è di una impossibilità evidente che un simile selvaggio potesse mai elevare le sue riflessioni fino alla conoscenza del vero Dio. La ragione ci dice che un uomo non è punibile se non per le colpe della sua volontà, e che una ignoranza invincibile non gli può essere imputata come delitto. Donde segue che, davanti alla giustizia

eterna,

ogni

uomo

che

crede,

ci sono

incre-

avendo le cognizioni necessarie, è reputato credente,

e che

non

duli puniti se non quelli il cui cuore si chiude alla verità. Guardiamoci bene dall’annunziare la verità a quelli che non sono in stato d’intenderla, poiché è volervi sostituire l'errore. Sarebbe meglio non avere alcuna idea della Divinità che averne delle idee basse, fantastiche, ingiuriose, indegne di essa: è minor male disconoscerla che oltraggiarla. Preferirei, dice

il

buon

Plutarco*,

che

si

cre-

desse non esservi alcun Plutarco al mondo, piuttosto che si dicesse: Plutarco è ingiusto,

invidioso,

geloso,

e così

ti-

ranno che esige più che non lasci il potere di fare. Il gran male delle immagini deformi della Divinità che si tracciano nella: mente dei fanciulli è che esse vi rimangono per tutta la loro vita, ed essi non concepiscono

più,

essendo

uomini,

al-

tro Dio che quello dei fanciulli. Ho veduto in Svizzera una buona e pia madre di famiglia talmente convinta di questa massima,

ch'ella non volle affatto istrui-

priva

re suo figlio nella religione durante la prima età, per paura che, contento di

* Plutarco, Trattato dell'amore, trad. di Amyot. Così cominciava dapprima la tragedia di Menalippo; ma i clamori del popolo di Atene obbligarono Euripide a cambiare questo principio.

** Sullo stato naturale dello spirito umano e sulla lentezza dei suoi progressi, si veda la prima parte del mio Discorso sulla ineguaglianza.

gli

delle

insensati,

loro

che

facoltà

una

malattia

spirituali,

ma

non

LIBRO

QUARTO

533

questa istruzione grossolana, non ne trascurasse una migliore nell'età della ragione. Quel fanciullo non sentiva mai parlare di Dio se non con raccoglimento e riverenza, e, appena ne voleva parlate egli stesso, gli si imponeva silenzio, come su di un argomento troppo sublime e troppo grande per lui. Questa riserva eccitava

la sua curiosità, e il

suo amor proprio aspirava al momento di conoscere quel mistero che gli si nascondeva con tanta cura. Quanto meno gli si parlava di Dio, tanto meno si tollerava che ne parlasse egli stesso, e tanto più egli se ne occupava: questo fanciullo vedeva Dio dappertutto. E ciò ch'io temerei da quell'aria di mistero

indiscretamente

ostentata,

sarebbe

che, accendendo troppo l’immaginazione di un giovanetto, non gli si alterasse il cervello, e non se ne facesse infine un fanatico, invece di farne un credente. Ma non temiamo nulla di simile per il mio Emilio, il quale rifiutando costantemente la sua attenzione a tutto ciò che è superiore alle sue facoltà, ascolta con la più profonda indifferenza le cose che non intende, Ce ne sono tante sulle quali egli è abituato a dire: « Non è di mia competenza », che una di più non lo imbarazza affatto; e, quando comincia a preoccuparsi di queste grandi questioni, non è per averle intese proporre, ma bensì quando il progresso naturale delle sue cognizioni porta le sue ricerche da quel lato. Abbiamo veduto per quale via lo spirito umano coltivato si avvicini a questi misteri; e io converrò volentieri ch’esso non vi perviene naturalmente, nel seno della società stessa, che in una età più avanzata. Ma siccome vi sono, nella

medesima

società,

delle cause

ine-

vitabili, per le quali il progresso delle

passioni

è accelerato,

se non

si accele-

rasse del pari il progresso delle cognizioni che servono a regolare queste

passioni,

allora

si uscirebbe

veramente

dall'ordine della natura, e l'equilibrio satebbe rotto. Quando non si è padroni di moderare uno sviluppo troppo ra: pido, bisogna condurre con la medesima,

rapidità dervi;

quelli

di modo

che

che

devono

corrispon-

l'ordine non

sia af-

fatto invertito, che quello che deve procedere insieme non sia per niente separato,

e l’uomo,

tutto intero in ogni

momento della sua vita, non sia ad un dato punto per una delle sue facoltà e a un altro punto per le altre. Quale difficoltà vedo sorgere qui! Difficoltà tanto più grande in quanto è meno nelle cose che nella pusillanimità di quelli che non osano risolverla. Cominciamo almeno con l’osare di pro porla. Un fanciullo deve essere allevato nella religione del padre: gli si prova sempre benissimo che questa religione, così com'è, è la sola vera; che tutte le altre non sono che stravaganza e assurdità. La forza degli argomenti dipende assolutamente, su questo punto, dal paese dove vengono proposti. Un Turco,

che

trova

il cristianesimo

così

ridi-

colo a Costantinopoli, vada a vedere come si trova il maomettismo a Parigi! Soprattutto in materia di religione l’opinione trionfa. Ma noi che pretendiamo di scuotere il suo giogo in ogni cosa, noi che non vogliamo dar nulla all'autorità, noi che non vogliamo insegnar nulla al nostro Emilio ch'egli non possa imparare da sé in ogni paese, in quale religione lo alleveremo? A quale setta aggregheremo l’uomo della natura? La risposta è molto semplice, mi sembra; noi non l'aggregheremo né a questa né a quella,

ma

lo metteremo

in grado

di

scegliere quella alla quale il miglior uso della sua ragione deve condurlo. Incedo per ignes, suppositos cineri doloso.

Non importa! Lo zelo e la buona fede mi hanno tenuto luogo sino a qui di prudenza. Spero che questi garanti non mi abbandoneranno all'occorrenza. Lettori, non temete da parte mia delle precauzioni indegne d’un amico della verità: io non dimenticherò mai la mia impresa; ma troppo mi è permesso di diffidare dei miei giudizi. Anziché dirvi qui di mia testa quello che penso, vi dirò ciò che pensava un uomo che valeva meglio di me. Garantisco la verità

EMILIO

534 dei fatti che saranno

riferiti;

sono

real-

in una

città

mente accaduti all’autore dello scritto che sto per trascrivere: spetta a voi vedere se si possono trarre delle riflessioni utili sul soggetto di cui si tratta. Io non vi propongo il sentimento di un altro o il mio per regola; ve l’offro da esaminare %, « Sono

trenta

anni

che,

d’Italia, un giovane esiliato si vedeva ridotto all'estrema miseria. Era nato calvinista;

ma,

in

seguito

ad

una

sventa-

tezza, trovandosi fuggiasco, in paese straniero, senza risorse, cambiò religione per avere del pane. C'era in quella città un ospizio per i proseliti; vi fu ammesso. Istruendolo sulla controversia, gli si fecero

nascere

dei

dubbi

che

non aveva, e gli si insegnò il male che ignorava: intese dei dogmi nuovi, vide

dei costumi ancora più nuovi; li vide, e poco mancò non ne fosse la vittima.

Volle fuggire, e lo si rinchiuse; si lamentò e lo si punì per i suoi lamenti: in balìa dei suoi tiranni, si vide trattare

da criminale per non aver voluto cedere al delitto. Coloro i quali sanno quanto la prima prova della violenza e dell’ingiustizia irriti un giovane cuore senza esperienza, si figurino lo stato del suo. Lacrime di rabbia gli colavano dagli occhi, l'indignazione lo soffocava: egli implorava il cielo e gli uomini, si confidava a tutti e non era ascoltato da nessuno. Non vedeva che vili domestici sottomessi all’infame che l’oltraggiava, o dei complici del medesimo delitto, che si prendevano giuoco della sua resistenza e lo eccitavano a imitarli. Sarebbe stato perduto senza un onesto ecclesiastico, capitato all’ospizio per affari, ch'egli trovò modo di consultare segretamente. L'ecclesiastico era povero, e aveva bisogno di tutti; ma l’oppresso aveva ancora più bisogno di lui; e non esitò

a

favorire

la

sua

evasione,

a ri-

schio di farsi un pericoloso nemico. Sfuggito al vizio per rientrare nell’indigenza, il giovane lottava senza successo contro il suo destino: per un momento si credette di essergli superiore. Al primo raggio di fortuna i suoi mali e il suo protettore furono dimenticati. Fu

ben presto punito di quella sua ingratitudine; tutte le sue speranze svanirono; la sua giovinezza aveva un bel favorirlo, le sue idee romantiche guastavano tutto. Non avendo né abbastanza talento né abbastanza furberia per aprirsi una strada facile, non sapendo essere né moderato né cattivo, aspirò a tante cose che non seppe pervenire a niente. Ricaduto nella sua prima miseria, senza pane, senza asilo, quasi sul punto di morir

di

fattore. la

Vi

una

sua

tale

fame,

ritorna,

vista

buona

ricordo

Quell'uomo

si

ricordò

lo

trova,

rammenta

azione

che

rallegra

era

del

suo

bene-

è accolto

bene:

all'ecclesiastico

aveva

sempre

naturalmente

fatta;

un

l'anima. umano,

compassionevole; sentiva le pene degli altri dalle proprie, e il benessere non aveva punto indurito il suo cuore; infine le lezioni della saggezza e una virtù illuminata avevano consolidata la sua buona indole. Egli accoglie il giovane, gli procura un ricovero, ve lo raccomanda;

divide con lui il suo necessario,

ap-

pena sufficiente per due. E fa di più, lo

istruisce,

lo consola,

e gli insegna l’arte

difficile di sopportare pazientemente le avversità. Gente da pregiudizi, è. da un prete, è in Italia che voi avreste sperato tutto ciò? Quell’onesto ecclesiastico era un povero

vicario

savoiardo 7,

che

un'avven-

tura di gioventù aveva messo in disgra-

zia del

vescovo,

e che

aveva

valicato

monti per cercare quelle risorse che gli mancavano nel suo paese. Non era né

i

senza spirito né senza cultura; e, col suo

volto interessante, aveva trovato dei protettori che lo collocarono presso un ministro per educarvi il figlio. Preferiva la povertà alla dipendenza e ignorava come bisogna comportarsi coi grandi. Non restò lungo tempo presso costui: lasciandolo,

non

perdette

affatto la sua stima;

e siccome viveva saggiamente e si faceva amare da tutti, si lusingava di rientrare in grazia del suo vescovo, e di ot-

tenere qualche piccola cura nelle montagne, per passarvi il resto dei suoi giorni. Era codesto l’ultimo limite della sua ambizione.

LIBRO

535

QUARTO

Una tendenza naturale l’interessava al giovane fuggiasco e glielo fece esaminare con cura. Egli vide che la cattiva fortuna aveva già avvizzito il suo cuore, che la vergogna e il disprezzo avevano abbattuto il suo coraggio, e che la sua

fierezza, cambiatasi

in amaro

di-

spetto, non gli mostrava, nell’ingiustizia e nella durezza degli uomini, che il vizio della natura e la chimera della virtù. Aveva visto che la religione non serve

che

di

maschera

all'interesse,

e

il

culto sacro di salvaguardia all'ipocrisia; aveva visto, nella sottigliezza delle vane dispute, il paradiso e l’inferno messi come premio a giuochi di parole; aveva visto la sublime e primitiva idea della Divinità sfigurata dalle fantastiche immaginazioni degli uomini; e, trovando che,

per

credere

in

Dio,

bisognava

ri-

nunciare al giudizio che di lui si era ricevuto, egli prese nel medesimo sdegno le nostre ridicole fantasticherie e l'oggetto al quale le applichiamo. Senza saper nulla di ciò che è, senza immaginare nulla sulla penerazione delle cose, egli s'immerse nella sua stupida ignoranza, con un profondo disprezzo per tutti quelli che pensavano di saperne più di lui. L’oblio di ogni religione conduce all'oblio dei doveri dell’uomo. Questo progresso era già fatto più che a metà nel cuore del miscredente. Non era frattanto un

fanciullo

scostumato;

ma

l’incre-

dulità, la miseria, soffocando a poco a poco il carattere, lo trascinavano rapidamente a perdersi, e non gli prepatavano che i costumi di un pezzente e la morale di un ateo. Il male, quasi inevitabile, non era assolutamente consumato. Il giovane aveva delle cognizioni, e la sua educazione non era stata trascurata. Era in quella età felice in cui il sangue in fermento

comincia

a

riscaldar

l’anima,

senza

as-

soggettarla ai furori dei sensi. La sua aveva ancora tutta la sua energia. Una vergogna

nativa,

un

carattere

timido

supplivano all’impaccio e prolungavano pet lui quell’epoca nella quale voi mantenete il vostro allievo con tante cure, L’esempio odioso di una depravazione

brutale e d’un gi dall’animare l’aveva attutita. sgusto gli tenne servare

la sua

vizio senza incanto, lunla sua immaginazione, Per lungo tempo il diluogo di virtù per con-

innocenza;

essa

non

do-

veva soccombere che a più dolci seduzioni. L'ecclesiastico vide il pericolo e le risorse. Le difficoltà non lo scoraggiarono: egli si compiaceva della sua opera; risolse di compierla e di rendere alla virtù la vittima che aveva strappata all'infamia. Egli si accinse alla lontana ad eseguire il suo progetto: la bellezza del motivo animava il suo coraggio, e gli ispirava dei mezzi degni del suo zelo. Qualunque fosse il successo, era sicuro di non aver perduto il suo tempo. Si riesce sempre quando non si vuole che far bene. Cominciò col guadagnarsi la fiducia del proselite, non vendendogli i suoi benefizi, non rendendosi affatto importuno,

non

facendogli

re,

uno

spettacolo

delle prediche,

met-

tendosi sempre a sua portata, facendosi piccolo per eguagliarsi a lui. Era, mi paabbastanza

commo-

vente il vedere un uomo grave diventare il compagno di un birichino, e la virtù prestarsi al tono della licenza per trionfare più sicuramente. Quando lo sventato andava a fargli le sue pazze confidenze e a sfogarsi con lui, il prete lo ascoltava,

za

approvare

tutto;

mai

lo metteva

una

il

male,

censura

in libertà;

sen-

indiscreta

arre-

s'interessava

a

stava il suo chiacchiericcio e ne serrava il cuore: il piacere col quale egli si credeva ascoltato aumentava quello che prendeva nel dir tutto. In tal modo fece la sua confessione generale, senza che pensasse a confessare nulla. Dopo avere studiato bene i suoi sentimenti e il suo carattere, il prete vide chiaramente che, senza essere ignorante per la sua età, egli aveva dimenticato tutto ciò che gli era necessario sapere, e che l’obbrobrio in cui l'aveva ridotto la fortuna soffocava in lui ogni vero sentimento del bene e del male. C'è un grado di abbrutimento che toglie la vita all'anima;

e la voce interna non si sa fa-

re intendere a colui il quale non pensa

536

EMILIO

che a nutrirsi. Per garantire il giovane sfortunato da questa morte morale alla quale era così vicino, cominciò col risvegliare in lui l'amor proprio e la stima di se stesso: gli mostrava un avvenire più felice nel buon impiego del suo talento;

rianimava

nel suo cuore

un

ar-

dore generoso col racconto delle belle azioni altrui: facendogli ammirare quelli che le avevano fatte, gli infondeva il desiderio di compierne delle simili. Per distaccarlo insensibilmente dalla sua vita oziosa e vagabonda, gli faceva fare degli estratti di libri scelti: e, fingendo di aver bisogno di tali estratti, nutriva in lui il nobile sentimento della riconoscenza. Lo istruiva indirettamente per mezzo di quei libri; gli faceva riprendere abbastanza buona opinione di se stesso per non credersi un essere inutile ad ogni bene, e per non volersi più rendere disprezzabile ai suoi propri occhi. Una inezia farà giudicare dell’arte che impiegava quest'uomo benefico per rialzare insensibilmente il cuore del suo discepolo al di sopra della bassezza, senza parere di accudire alla sua istruzione. L’ecclesiastico aveva una probità così ben riconosciuta e un discernimento così sicuro,. che parecchie persone preferivano far passare le loro elemosine per le sue mani che per quelle dei ricchi curati delle città. Un giorno che gli era stato dato del danaro da distribuire ai poveri, il giovane ebbe la vigliaccheria di domandargliene a questo titolo. ‘No,

disse

egli,

noi

siamo

fratelli,

voi

mi appartenete, e io non devo toccare questo deposito per mio uso”. Poi egli gli dette, del suo danaro, quanto gli aveva chiesto. Lezioni di questa specie sono raramente perdute nel cuore dei giovani che non siano del tutto corrotti. Io sono stanco di parlare in terza persona, ed è una cura molto superflua;

poiché voi vi accorgete bene, o caro concittadino, che questo infelice fuggiasco sono io stesso: io mi credo abbastanza lontano dai disordini della mia giovinezza per osare di confessarli; e la mano che me ne trasse merita bene che io, a costo di un po’ di vergogna,

renda almeno qualche onore ai suoi benefizi: Ciò che più mi colpiva era il vedere, nella vita privata del mio degno maestro,

la virtù

senza

ipocrisia,

della

Chiesa

romana,

l'umanità

senza debolezza, dei discorsi sempre giusti e semplici, e una condotta sempre conforme a tali discorsi. Non lo vedevo affatto darsi pensiero se quelli ch'egli aiutava andavano ai vespri, se si confessavano spesso, se digiunavano nei giorni prescritti, se mangiavano di magro; né imporre loro altre condizioni simili, senza le quali, se anche si morisse di miseria, non si ha da sperare alcuna assistenza dai devoti. Incoraggiato da queste osservazioni, lungi dal mostrare io stesso agli occhi suoi lo zelo ostentato di un nuovo convettito, non gli nascondevo troppo i miei modi di pensare, e non lo vedevo perciò più scandalizzato. Talvolta avrei potuto dire fra me: ‘Egli perdona la mia indifferenza per il culto che ho abbracciato, in grazia di quella che sorge in me anche per il culto nel quale sono nato; sa che il mio sdegno non è più un affare di partito’. Ma che dovevo pensare quando lo sentivo qualche volta approvare dei dogmi contrari a quelli e sembrar

di

sti-

mare mediocremente tutte le sue cerimonie? L'avrei creduto protestante tra-

vestito,

se l’avessi

visto

meno

fedele

a

quei medesimi usi di cui sembrava fare così poco caso; ma, sapendo che adempiva senza testimoni ai suoi doveri di prete tanto puntualmente quanto sotto gli occhi del pubblico, non sapevo più che giudicare di queste contradizioni. In mancanza di ciò che un tempo aveva attirato la sua disgrazia e di cui non si era troppo ben corretto, la sua vita era esemplare, i suoi costumi erano irreprensibili, i suoi discorsi onesti e giudiziosi. Vivendo con lui nella più grande intimità, imparavo a rispettarlo ogni giorno di più; e avendomi tante bontà conquistato interamente il cuore, aspettavo con una curiosa inquietudine il momento d’imparare su qual principio egli fondava l'uniformità di una vita così singolare.

LIBRO QUARTO

537

Questo momento non venne tanto ‘ presto. Prima di aprirsi al suo discepolo, egli si sforzò di far germinare le sementi di ragione e di bontà che gettava nella sua anima. Ciò che c’era in me di più difficile da distruggere era una orgogliosa misantropia, una certa acrimonia contro i ricchi e i fortunati del mondo,

come

se lo fossero

stati

a mie

spese, e la loro pretesa felicità fosse stata usurpata alla mia. La folle vanità della giovinezza, che resiste contro l’umiliazione, non mi dava che troppa propensione a questo umore collerico; e l'amor proprio, che il mio Mentore cercava di risvegliare in me, portandomi alla fierezza, rendeva gli uomini ancora più vili ai miei occhi, e non faceva che aggiungere per essi il disprezzo all'odio. Senza combattere direttamente questo orgoglio, impedì che si cambiasse in durezza di animo; e senza togliermi la stima di me stesso, la rese meno sdegnosa per il mio prossimo. Sviando sempre la vana apparenza e mostrandomi i mali reali ch’essa copre, mi insegnava a deplorate gli errori dei miei simili, a intenerirmi

sulle loro miserie, e a com-

piangerli più che a invidiarli. Mosso a compassione per le debolezze umane dal profondo sentimento delle sue, vedeva dappertutto gli uomini vittime dei loro vizi e di quelli degli altri; vedeva i poveri gemere sotto il giogo dei ricchi, e i ricchi sotto il giogo dei pregiudizi. ‘ Credetemi,

diceva,

le nostre

gi dal nascondere

i nostri

illusioni,

lun-

mali, li au-

mentano, dando valore a ciò che non ne ha, e rendendoci sensibili a mille fal-

se privazioni che non sentiremmo senza di esse. La pace dell'anima consiste nel disprezzo di tutto ciò che può turbarla: l'uomo che fa più caso della vita è colui che sa meno goderne; e colui che aspira più avidamente alla felicità è sempre il più misero”. “Ah! che tristi quadri!, esclamavo con amarezza: se bisogna astenersi da tutto, a che cosa ci ha dunque servito il nascere? E se occorre disprezzare la felicità stessa, chi sa essere felice? *. ‘ Io *, rispose un giorno il prete con un tono dal quale fui colpito. ‘ Felice, voi! così

poco fortunato, così povero, esiliato, perseguitato, voi siete felice! E che avete mai fatto per esserlo? *. ‘ Fanciullo mio, riprese egli, ve lo dirò volentieri”.

Ciò detto, mi fece intendere che, dopo aver ricevuto le mie confessioni, voleva farmi le sue. ‘ Spanderò nel vostro seno, mi disse abbracciandomi, tutti i sentimenti del mio cuore. Voi mi vedrete, se non

come

sono,

almeno

come

mi

vedo io stesso. Quando avrete ricevuta la mia intera professione di fede, quando conoscerete bene lo stato della mia anima, saprete perché mi stimo felice, e, se pensate

come

fare per esserlo. Ma non

sono

l'affare

di

me,

ciò che

dovete

queste confessioni un

momento;

oc-

corre del tempo pet esporvi tutto ciò che penso sul destino dell'uomo e sul vero valore della vita: prendiamo un'ora, un luogo, comodi per dedicarci tranquillamente a questo colloquio ’. Dimostrai della sollecitudine nel sentirlo. L'appuntamento non fu rimandato più tardi dell’indomani mattina. Si era di estate; ci alzammo sul far del giorno. Egli mi condusse fuori della città, su di un'alta collina, sotto la quale passava

il Po,

di cui

si vedeva

il corso

at-

traverso le fertili rive che bagna; in lontananza, l'immensa catena delle Alpi coronava il paesaggio; i raggi del sole nascente rasentavano già le pianure, e, proiettando sui campi con lunghe ombre gli alberi, i poggi, le case, arricchivano di mille accidentalità luminose il più bel quadro da cui l’occhio umano possa essere colpito. Si sarebbe detto che la natura sfoggiava ai nostri occhi tutta la sua magnificenza per offrirne il testo ai nostri colloqui. Fu lì che, dopo aver per qualche tempo contemplato quegli oggetti in silenzio, l'uomo di pace mi parlò così ». Professione di fede del vicario savoiardo28 « Figlio mio, non vi aspettate da me né discorsi sapienti né profondi ragionamenti. Io non sono un grande filo-

EMILIO

538 sofo, e mi curo poco di esserlo. Ma ho talvolta del buon senso, e amo sempre la verità. Non voglio argomentare con e

voi

neppure

tentare

di

vincervi;

mi

basta di esporvi quello che penso nella semplicità del mio cuore. Consultare il vostro cuore durante il mio discorso; è tutto ciò che vi chiedo. Se m’inganno,

è in buona fede; questo basta perché il mio etrore non mi venga imputato a delitto: quand’anche “voi v’ingannaste del pari, vi sarebbe poco male in ciò. Se io penso bene, la ragione ci è comune e noi abbiamo il medesimo interesse ad ascoltarla: perché non pensereste voi come me? To sono nato povero c contadino, destinato, per la mia condizione, a coltivare la terra; ma si credette meglio ch'io imparassi a guadagnarmi il pane col mestiere

del

prete,

e si trovò

il mezzo

di

farmi studiare. Sicuramente né i miei genitori né io pensavamo a cercare in ciò

quello

che

era

buono,

vero,

utile,

ma ciò che bisognava sapete per entrare negli ordini. Imparai quello che si voleva ch’io imparassi, dissi ciò che si voleva che dicessi, mi obbligai come si volle, e fui fatto prete. Ma non tardai a sentire che, obbligandomi a non essere uomo, avevo promesso più di quello che potevo mantenere. Ci si dice che la coscienza è il prodotto dei’ pregiudizi; però io so, per mia esperienza, ch'essa si ostina a seguire l'ordine della natura contro tutte le leggi degli uomini. Si ha un bel proibirci questa o quella cosa, il rimorso ci rimprovera sempre debolmente ciò che

to il diritto di sottomettermici, risolvetti di non profanarlo; poiché, nonostante le mie lezioni e i miei studi, avendo con-

dotto sempre una vita uniforme e semplice, avevo conservato nel mio spirito tutta la chiarezza delle idee primitive: le massime del mondo non le avevano oscurate, e la mia povertà mi allontanava dalle tentazioni che ispirano i sofismi del vizio. Questa risoluzione fu precisamente ciò che mi perdé; il mio rispetto pet il letto altrui lasciò allo scoperto le mie colpe. Bisognò espiare lo scandalo: arrestato,

interdetto,

la mia

incontinenza;

scacciato,

fui

assai

più la vittima dei miei scrupoli che deled

ebbi

occasione

di comprendere, dai rimproveri con i quali la mia disgrazia fu accompagnata, che non bisogna spesso che aggravare la colpa per sottrarsi al castigo. Poche esperienze consimili menano lontano uno spirito che riflette. Vedendo, con

queste

l’onesto,

e di

tristi osservazioni,

rove-

sciarsi le idee che avevo del giusto, deltutti

i doveri

dell’uomo,

perdevo ogni giorno qualcuna delle opinioni che

avevo

ricevute;

non

bastando

più quelle che mi restavano per fare insieme un corpo che potesse sostenersi da per sé, sentii a poco a poco oscurarsi nel mio spirito l'evidenza dei principi; e, ridotto infine a non saper più che pensare, pervenni al medesimo punto in cui voi siete; con questa differenza che la

mia

la

ricerca

incredulità,

frutto

tardivo

di

ciò che ci prescrive.

un'età più matura, si era formata con maggior pena, e doveva essere più difficile a distruggere. Ero in quelle disposizioni d’incertezza e di dubbio che Descartes esige per

detto niente ai vostri sensi: vivete a lungo nello stato felice in cui la sua voce è quella dell'innocenza. Ricordatevi che la si offende assai più quando la si previene che quando la si combatte; bisogna cominciare coll’impatare a resistere, per sapere quando si possa cedere senza delitto. Fin dalla mia giovinezza ho rispettato il matrimonio come la prima e più santa istituzione della natura. Essendomi tol-

poco fatto per durare, è inquietante e penoso; non vi è che l'interesse del vizio o la pigrizia dell'anima che vi ci lasci. Io non avevo il cuore tanto corrotto da compiacermene; e niente conserva meglio l’abitudine di riflettere quanto l'essere più contenti di sé che della propria fortuna. Meditavo dunque sulla triste sorte dei mortali ondeggianti su questo mare delle opinioni umane, senza timone,

ci permette la natura bene ordinata, e a

più O

forte ragione

buon

giovane,

essa

non

ha

ancora

della

verità.

Questo

stato

è

LIBRO

QUARTO

539

senza bussola, e in balìa delle loro passioni tempestose, senz'altrta guida che un pilota inesperto, il quale non conosce fa sua

strada,

e non

sa né di dove

ne né ove va: Io dicevo fra me:

vie-

‘ Amo

la verità, la cerco, e non posso riconoscerla; me la si mostri, e vi rimango at-

taccato: perché deve essa occultarsi alla sollecitudine di un cuore fatto per adorarla? ?. Quantunque io abbia spesso provato grandi mali, non ho mai condotto una vita tanto costantemente dispiacevole quanto in quei tempi di turbamento e di ansie, nei quali, etrando continuamente di dubbio in dubbio, non riportavo delle mie lunghe meditazioni che incertezza,

oscurità,

contradizioni

sulla

causa del mio essere e sulla regola dei miei doveri. Come si può essere scettici per sistema e in buona fede? Non posso comprenderlo.

Tali

filosofi, o non

esistono,

o sono i più infelici degli uomini. Il dubbio sulle cose che c’importa conoscere è uno stato troppo violento per lo spirito umano: esso non vi resiste a lungo; si decide suo malgrado in un modo o in un altro, e preferisce ingannarsi che non credere nulla. Ciò che raddoppiava il mio imbarazzo era che, essendo

nato in una

Chiesa

la quale decide tutto, e non permette alcun dubbio, un solo punto rigettato mi faceva rigettare tutto il resto, e l’impossibilità di ammettere tante decisioni assurde mi distaccava anche da quelle che non lo erano. Dicendomi: ‘ Credete tutto’, mi s'impediva di credere a nulla e non sapevo più ove fermarmi. Consultai i filosofi, sfogliai i loro libri,

esaminai

le

loro

diverse

opinioni;

li trovai tutti superbi, affermativi, dogmatici, anche nel loro preteso scetticismo, non ignorando niente, non provando niente, burlandosi gli uni degli altri; e questo punto

comune a

tutti mi

parve il solo sul quale essi abbiano tutti ragione. Trionfanti quando attaccano, sono senza vigore nel difendersi. Se pesate le ragioni, non ne hanno che per distruggere; se contate i loro pareri,